I Il pesce rosso è un tossicodipendente felice. Me lo

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I Il pesce rosso è un tossicodipendente felice. Me lo
I
Il pesce rosso è un tossicodipendente felice.
Me lo hanno sempre descritto così. E per me non c’è
essere vivente più fortunato.
Io non l’ho mai avuto un pesce rosso in casa, neanche da piccolo. Mio padre mi diceva sempre che un pesce bisogna pescarlo, non si vince al luna park.
In città esisteva una fontana con dei pesci rossi, ma
non ho mai provato a pescarne uno, perciò le mie osservazioni sono derivate e limitate ai racconti fattimi dagli
altri bambini, e dai luoghi comuni degli adulti.
Mi hanno sempre raccontato che è la mancanza di
memoria a permettergli di vivere in quella sfera di vetro
per tutta una vita, girando ininterrottamente, senza volersi suicidare a ogni pinna sospinta. Il pesce rosso non
capisce di essere intrappolato in un microspazio, non capisce che la natura lo avrebbe dotato di strumenti tali da
coprire distanze molto al di là di quella minima della
sua vasca.
Ma la memoria gli difetta soprattutto per il cibo, per
quello è felice, per quello è un tossicodipendente felice.
Non è semplice bulimia, lui riconosce e vede sempre
lo stesso alimento, la stessa sostanza. Quando i suoi padroni si dimenticano di dargli da mangiare, lui continua
a girare, forse sperando di ritrovarsi immerso in una nuvola di mangime. Poi, finalmente, gli appare nuovamente di fronte il suo unico cibo preferito, piovuto dal cielo
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come la manna, e lui vi si avventa sopra. Il suo andamento stanco e costante subisce un’accelerazione improvvisa. Non si rende conto che, essendo nella bolla di
vetro da solo, potrebbe gustarsi il pasto con calma o metterlo da parte per una futura carestia.
Ma il bello della faccenda è che se il padrone non
comunica agli altri familiari di averlo già sfamato, e uno
di questi, ignaro che il pesce abbia già mangiato, riempie la vasca un’altra volta di mangime, allora il pesce
rosso che fa?
Girellava lento e stanco, come si fa solitamente per
digerire un lauto pasto, ma appena si ritrova di fronte
quelle tipiche polverine che cadono pesanti verso il fondo, dà un ulteriore colpo di coda, nuota veloce verso il
cibo e si affretta a divorarlo, come se il mangime fosse
regolato dagli stessi principi fisici della neve che, una
volta toccata terra, inesorabilmente si scioglie e perde le
sue qualità di neve, appunto.
Il pesce sguazza felice, è già tempo di cena, e sarebbe capace di fare così finché non scoppia. Pranzo, merenda, cena, colazione, pranzo e così via... Fino a morire, fino all’overdose letale. E mai si lamenterà, mai farà
una smorfia di disgusto e, ancor più fortunatamente per
lui, non avrà neanche un dubbio.
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II
Ogni volta che penso ai pesci rossi mi ripeto che in
realtà non sappiamo se a consentirgli questa vita vissuta attimo per attimo sia l’assenza di memoria oppure
l’assenza del linguaggio, l’impossibilità a esprimere il
loro disagio, il loro malessere, ma anche la loro gioia,
insomma le proprie emozioni. Una tale mancanza produce uno stile di vita lontanissimo dal nostro.
Noi purtroppo possediamo memoria e linguaggio,
perciò è difficile dimenticare, ed è impossibile dare alle
emozioni la possibilità di vivere soltanto nell’attimo in cui
nascono: sono come le lumache che, per quanto lente si
muovano, lasciano sempre una scia, che per di più è indelebile. Come l’inchiostro simpatico, che poi di simpatico
non ha niente.
Inchiostro simpatico ed emozioni celano un messaggio che si vede solo quando si è in grado di portarlo alla
luce. Ma il messaggio c’è e ti segna, ti cambia e ti muove, come il filo invisibile delle marionette.
Quanti fili avrò ancora da scoprire nella mia vita?
Forse molti, forse pochi, dipende dal tempo che avrò a
disposizione per scavarmi dentro ed estrapolare le piccole verità rivelatemi dalle mie singole emozioni.
Per ricordare tali molteplici scie, incontrate nel proprio cammino, l’uomo ha inventato la scrittura. Non esiste altro motivo per scrivere se non quello di avere una
carta geografica del nostro intimo. A un certo punto gli
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esseri umani hanno sentito la necessità di lasciare una
traccia delle infinite traiettorie che incontravano nella
loro vita, perciò hanno iniziato a scrivere, segnando in
un papiro, in un foglio bianco, sotto forma di poesia, di
racconto o di diario le vie seguite da alcune emozioni,
seguendone la scia, prima che questa si dissolvesse.
Ogni uomo che si fosse trovato nella stessa condizione,
avrebbe incontrato la via tracciata. Sarebbe dipeso soltanto da lui scegliere di seguirla oppure rinunciarvi.
Fino a oggi ne ho seguite molte di quelle scie, personali e segnate nei libri, ma non avrei mai pensato che
qualcuna mi potesse trascinare in questa assurda condizione di vita.
Guardando attraverso la piccola finestra della mia
cella vedo uno scorcio di cielo cubano, che non è per
niente diverso dal cielo di casa mia eppure, se anche il
cielo è uguale, io sono molto cambiato.
Anch’io dovrei avere la possibilità di raccontare la
mia carta geografica. Potrebbe servire a qualcuno o sarebbe troppo complicata da interpretare?
Le emozioni hanno cominciato a percorrere strade
diverse, anzi la situazione è ancora più follemente drammatica. Il sentimento da sempre è labile, e non sorprende più di tanto se intraprende un cammino inverso, come fanno i salmoni risalendo la corrente nel periodo
della riproduzione. Purtroppo però, lo stesso cammino
inverso hanno cominciato a intraprenderlo anche i principi base dell’umanità, le verità immutabili che sono
state messe lì, a nostra disposizione, per guidarci nel
cammino della vita. Di colpo si sono smosse anche queste, hanno perso la loro staticità ieratica, la loro immobilità che separava chiaramente ciò che era vero da ciò
che era falso. Viviamo nel caos.
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IL CINQUANTUNESIMO GIORNO
Per la prima volta in vita mia sono rinchiuso in una
stanza di due metri per tre, senza la possibilità di uscire
nemmeno per cinque minuti al giorno e sono convinto
di vivere nel caos.
La follia non può essere la causa della mia erronea
percezione del caos e della calma. Sono stato sempre
sano come un pesce, non ho mai avuto un segno di squilibrio. Come ha fatto a colpirmi all’improvviso? Non è
la pazzia, non è il mio cervello a essere andato in pappa,
semplicemente qualcuno ha cambiato le regole del
gioco. Un cambiamento radicale che davvero ti può trascinare nel baratro della follia più nera. Si sono alzati e
tutto era cambiato. Come se un giorno al SuperBowl,
mentre i tifosi della squadra che aveva fatto più punti festeggiavano, qualcuno si fosse avvicinato dicendo:
“Perché festeggiate?” “Perché abbiamo vinto”. E quello: “Eh no che non avete vinto, sono gli altri che hanno
vinto”. I tifosi si sarebbero inevitabilmente arrabbiati,
ma nonostante le loro proteste, lui avrebbe continuato
sicuro di sé: “Guardate che da oggi non funziona più
come prima. Non ve lo aveva detto nessuno? Neanche
un piccolo avvertimento? Eh sì, da oggi vince chi perde”.
Ma chi è che decide? Chi ha il potere di cambiare le
regole del gioco così su due piedi?
C’è bisogno della mia carta del mondo, o meglio ci
sarebbe bisogno, perché per illustrare la propria carta
bisogna poter scrivere, e io non posso. Non ho niente
con me in questa maledetta cella, soltanto la mia tuta
arancione (un colore davvero assurdo per un carcerato
in regime di isolamento).
Aspetto il momento in cui potrò scrivere la carta del
mondo alla rovescia. Per adesso mi alleno a scrivere
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quasi mentalmente, cercando le parole per ore e ore, essendo questo il mio unico passatempo. Ripercorro la
mia storia, passo dopo passo, fino a ora.
Sono ancora una volta accasciato sotto la finestra
della mia cella: è lassù, piccola e irraggiungibile. Oltre
al piccolo pezzo di cielo blu vedo un’asta di ferro. So
benissimo che è l’asta di una bandiera, ma quella che
sventola baldanzosa è una bandiera che non riconosco e
mai riconoscerò. Resto sotto la finestra, perché se è vero
che il panorama è povero, altrettanto non si può dire dei
rumori esterni al carcere. Si sentono tutti, soprattutto
quando fischia il vento. Ci deve essere una corrente che
arriva dritta alle sbarre delle nostre finestre, come se il
vento avesse voglia di suonare questo strano strumento
di ferro e cemento. Ogni volta che suona alla mia cella
mi affretto a mettermi sotto la finestrella. Aspetto fiducioso la corrente buona, quella che fa seguire alla musica un po’ di sabbia. La maggior parte dei minuscoli granellini cadono giù e si depositano accanto ai miei piedi.
Sono le note del pentagramma suonato dal vento, lasciate cadere lì perché non gli servono più.
Con il mignolo cerco di avvicinarla tutta e farne un
piccolo mucchietto. A quel punto sono pronto per scrivere quasi mentalmente. È nella sabbia che scrivo della
mia vita, della storia folle dell’umanità. Scrivo tutto
quello che un giorno potrebbe servire agli uomini per
non sbagliare più, scrivo anche delle stupide teorie che
da ormai troppo tempo sento raccontare da quello stolto del mio vicino di cella, durante i turni di guardia di
Ibrahim. E infine scrivo dello strano occhio di Ibrahim,
che sembra voler vivere una vita propria, seguendo costantemente i veri dettami della sua religione.
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III
La sabbia e quindi il vento... sono loro che, da quando ho deciso di non voler impazzire, sono diventate le
mie ancore di salvezza. Eppure, se non a entrambe, è da
attribuire almeno al vento la causa dello sconvolgimento degli ordini planetari, il motivo per cui io e gli altri
siamo rinchiusi qui incomprensibilmente.
Quando arriva il sibilo del vento attraverso le finestre delle nostre celle, mentre io mi acquatto sotto la mia
unica finestra, gli altri prigionieri vanno verso la parete
opposta, dove c’è la porta di uscita, e si mettono a gridare, a frignare come bambini. Allora arrivano gli aguzzini e li fanno tacere a forza di calci e bastonate, ma loro, il giorno dopo, al fischio del vento ripetono immancabilmente le stesse azioni.
Io ho deciso di percorrere un’altra via, ho deciso di
provare a leggere questo mondo all’incontrario, anche
se capisco che è folle.
Spesso mi sveglio all’improvviso, tutto sudato, e finché non vedo la mia maledetta tuta arancione credo che
sia stato soltanto un brutto incubo. Poi realizzo che sono
davvero imprigionato in una delle peggiori carceri della
storia dell’umanità, ma mi ostino a credere che sia superabile. So benissimo che non è vero, ma tanto non potrei neanche ammazzarmi, perché qui dentro è impossibile. E allora un giorno ho deciso di correre incontro a
quel vento per chiedergli perché avesse voluto distrug13
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gere l’umanità, e lui ha depositato ai miei piedi le note
della sua melodia, come a dirmi: “A me non servono
più, te le regalo, fanne ciò che vuoi”. E io ho scoperto
che le arti hanno tutte la stessa radice e che quelle note
tornate polvere potevano essere trasformate in altro. Ho
scelto le parole.
Scrivere mi è servito a non impazzire, come al mio
vicino di cella serve raccontare. Entrambi salvi dalle
botte quotidiane che gli altri prendono ogniqualvolta il
vento viene a bussare alle finestre del carcere di Guantanamo.
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