I Il pesce rosso è un tossicodipendente felice. Me lo
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I Il pesce rosso è un tossicodipendente felice. Me lo
I Il pesce rosso è un tossicodipendente felice. Me lo hanno sempre descritto così. E per me non c’è essere vivente più fortunato. Io non l’ho mai avuto un pesce rosso in casa, neanche da piccolo. Mio padre mi diceva sempre che un pesce bisogna pescarlo, non si vince al luna park. In città esisteva una fontana con dei pesci rossi, ma non ho mai provato a pescarne uno, perciò le mie osservazioni sono derivate e limitate ai racconti fattimi dagli altri bambini, e dai luoghi comuni degli adulti. Mi hanno sempre raccontato che è la mancanza di memoria a permettergli di vivere in quella sfera di vetro per tutta una vita, girando ininterrottamente, senza volersi suicidare a ogni pinna sospinta. Il pesce rosso non capisce di essere intrappolato in un microspazio, non capisce che la natura lo avrebbe dotato di strumenti tali da coprire distanze molto al di là di quella minima della sua vasca. Ma la memoria gli difetta soprattutto per il cibo, per quello è felice, per quello è un tossicodipendente felice. Non è semplice bulimia, lui riconosce e vede sempre lo stesso alimento, la stessa sostanza. Quando i suoi padroni si dimenticano di dargli da mangiare, lui continua a girare, forse sperando di ritrovarsi immerso in una nuvola di mangime. Poi, finalmente, gli appare nuovamente di fronte il suo unico cibo preferito, piovuto dal cielo 7 STEFANO FIERLI come la manna, e lui vi si avventa sopra. Il suo andamento stanco e costante subisce un’accelerazione improvvisa. Non si rende conto che, essendo nella bolla di vetro da solo, potrebbe gustarsi il pasto con calma o metterlo da parte per una futura carestia. Ma il bello della faccenda è che se il padrone non comunica agli altri familiari di averlo già sfamato, e uno di questi, ignaro che il pesce abbia già mangiato, riempie la vasca un’altra volta di mangime, allora il pesce rosso che fa? Girellava lento e stanco, come si fa solitamente per digerire un lauto pasto, ma appena si ritrova di fronte quelle tipiche polverine che cadono pesanti verso il fondo, dà un ulteriore colpo di coda, nuota veloce verso il cibo e si affretta a divorarlo, come se il mangime fosse regolato dagli stessi principi fisici della neve che, una volta toccata terra, inesorabilmente si scioglie e perde le sue qualità di neve, appunto. Il pesce sguazza felice, è già tempo di cena, e sarebbe capace di fare così finché non scoppia. Pranzo, merenda, cena, colazione, pranzo e così via... Fino a morire, fino all’overdose letale. E mai si lamenterà, mai farà una smorfia di disgusto e, ancor più fortunatamente per lui, non avrà neanche un dubbio. 8 II Ogni volta che penso ai pesci rossi mi ripeto che in realtà non sappiamo se a consentirgli questa vita vissuta attimo per attimo sia l’assenza di memoria oppure l’assenza del linguaggio, l’impossibilità a esprimere il loro disagio, il loro malessere, ma anche la loro gioia, insomma le proprie emozioni. Una tale mancanza produce uno stile di vita lontanissimo dal nostro. Noi purtroppo possediamo memoria e linguaggio, perciò è difficile dimenticare, ed è impossibile dare alle emozioni la possibilità di vivere soltanto nell’attimo in cui nascono: sono come le lumache che, per quanto lente si muovano, lasciano sempre una scia, che per di più è indelebile. Come l’inchiostro simpatico, che poi di simpatico non ha niente. Inchiostro simpatico ed emozioni celano un messaggio che si vede solo quando si è in grado di portarlo alla luce. Ma il messaggio c’è e ti segna, ti cambia e ti muove, come il filo invisibile delle marionette. Quanti fili avrò ancora da scoprire nella mia vita? Forse molti, forse pochi, dipende dal tempo che avrò a disposizione per scavarmi dentro ed estrapolare le piccole verità rivelatemi dalle mie singole emozioni. Per ricordare tali molteplici scie, incontrate nel proprio cammino, l’uomo ha inventato la scrittura. Non esiste altro motivo per scrivere se non quello di avere una carta geografica del nostro intimo. A un certo punto gli 9 STEFANO FIERLI esseri umani hanno sentito la necessità di lasciare una traccia delle infinite traiettorie che incontravano nella loro vita, perciò hanno iniziato a scrivere, segnando in un papiro, in un foglio bianco, sotto forma di poesia, di racconto o di diario le vie seguite da alcune emozioni, seguendone la scia, prima che questa si dissolvesse. Ogni uomo che si fosse trovato nella stessa condizione, avrebbe incontrato la via tracciata. Sarebbe dipeso soltanto da lui scegliere di seguirla oppure rinunciarvi. Fino a oggi ne ho seguite molte di quelle scie, personali e segnate nei libri, ma non avrei mai pensato che qualcuna mi potesse trascinare in questa assurda condizione di vita. Guardando attraverso la piccola finestra della mia cella vedo uno scorcio di cielo cubano, che non è per niente diverso dal cielo di casa mia eppure, se anche il cielo è uguale, io sono molto cambiato. Anch’io dovrei avere la possibilità di raccontare la mia carta geografica. Potrebbe servire a qualcuno o sarebbe troppo complicata da interpretare? Le emozioni hanno cominciato a percorrere strade diverse, anzi la situazione è ancora più follemente drammatica. Il sentimento da sempre è labile, e non sorprende più di tanto se intraprende un cammino inverso, come fanno i salmoni risalendo la corrente nel periodo della riproduzione. Purtroppo però, lo stesso cammino inverso hanno cominciato a intraprenderlo anche i principi base dell’umanità, le verità immutabili che sono state messe lì, a nostra disposizione, per guidarci nel cammino della vita. Di colpo si sono smosse anche queste, hanno perso la loro staticità ieratica, la loro immobilità che separava chiaramente ciò che era vero da ciò che era falso. Viviamo nel caos. 10 IL CINQUANTUNESIMO GIORNO Per la prima volta in vita mia sono rinchiuso in una stanza di due metri per tre, senza la possibilità di uscire nemmeno per cinque minuti al giorno e sono convinto di vivere nel caos. La follia non può essere la causa della mia erronea percezione del caos e della calma. Sono stato sempre sano come un pesce, non ho mai avuto un segno di squilibrio. Come ha fatto a colpirmi all’improvviso? Non è la pazzia, non è il mio cervello a essere andato in pappa, semplicemente qualcuno ha cambiato le regole del gioco. Un cambiamento radicale che davvero ti può trascinare nel baratro della follia più nera. Si sono alzati e tutto era cambiato. Come se un giorno al SuperBowl, mentre i tifosi della squadra che aveva fatto più punti festeggiavano, qualcuno si fosse avvicinato dicendo: “Perché festeggiate?” “Perché abbiamo vinto”. E quello: “Eh no che non avete vinto, sono gli altri che hanno vinto”. I tifosi si sarebbero inevitabilmente arrabbiati, ma nonostante le loro proteste, lui avrebbe continuato sicuro di sé: “Guardate che da oggi non funziona più come prima. Non ve lo aveva detto nessuno? Neanche un piccolo avvertimento? Eh sì, da oggi vince chi perde”. Ma chi è che decide? Chi ha il potere di cambiare le regole del gioco così su due piedi? C’è bisogno della mia carta del mondo, o meglio ci sarebbe bisogno, perché per illustrare la propria carta bisogna poter scrivere, e io non posso. Non ho niente con me in questa maledetta cella, soltanto la mia tuta arancione (un colore davvero assurdo per un carcerato in regime di isolamento). Aspetto il momento in cui potrò scrivere la carta del mondo alla rovescia. Per adesso mi alleno a scrivere 11 STEFANO FIERLI quasi mentalmente, cercando le parole per ore e ore, essendo questo il mio unico passatempo. Ripercorro la mia storia, passo dopo passo, fino a ora. Sono ancora una volta accasciato sotto la finestra della mia cella: è lassù, piccola e irraggiungibile. Oltre al piccolo pezzo di cielo blu vedo un’asta di ferro. So benissimo che è l’asta di una bandiera, ma quella che sventola baldanzosa è una bandiera che non riconosco e mai riconoscerò. Resto sotto la finestra, perché se è vero che il panorama è povero, altrettanto non si può dire dei rumori esterni al carcere. Si sentono tutti, soprattutto quando fischia il vento. Ci deve essere una corrente che arriva dritta alle sbarre delle nostre finestre, come se il vento avesse voglia di suonare questo strano strumento di ferro e cemento. Ogni volta che suona alla mia cella mi affretto a mettermi sotto la finestrella. Aspetto fiducioso la corrente buona, quella che fa seguire alla musica un po’ di sabbia. La maggior parte dei minuscoli granellini cadono giù e si depositano accanto ai miei piedi. Sono le note del pentagramma suonato dal vento, lasciate cadere lì perché non gli servono più. Con il mignolo cerco di avvicinarla tutta e farne un piccolo mucchietto. A quel punto sono pronto per scrivere quasi mentalmente. È nella sabbia che scrivo della mia vita, della storia folle dell’umanità. Scrivo tutto quello che un giorno potrebbe servire agli uomini per non sbagliare più, scrivo anche delle stupide teorie che da ormai troppo tempo sento raccontare da quello stolto del mio vicino di cella, durante i turni di guardia di Ibrahim. E infine scrivo dello strano occhio di Ibrahim, che sembra voler vivere una vita propria, seguendo costantemente i veri dettami della sua religione. 12 III La sabbia e quindi il vento... sono loro che, da quando ho deciso di non voler impazzire, sono diventate le mie ancore di salvezza. Eppure, se non a entrambe, è da attribuire almeno al vento la causa dello sconvolgimento degli ordini planetari, il motivo per cui io e gli altri siamo rinchiusi qui incomprensibilmente. Quando arriva il sibilo del vento attraverso le finestre delle nostre celle, mentre io mi acquatto sotto la mia unica finestra, gli altri prigionieri vanno verso la parete opposta, dove c’è la porta di uscita, e si mettono a gridare, a frignare come bambini. Allora arrivano gli aguzzini e li fanno tacere a forza di calci e bastonate, ma loro, il giorno dopo, al fischio del vento ripetono immancabilmente le stesse azioni. Io ho deciso di percorrere un’altra via, ho deciso di provare a leggere questo mondo all’incontrario, anche se capisco che è folle. Spesso mi sveglio all’improvviso, tutto sudato, e finché non vedo la mia maledetta tuta arancione credo che sia stato soltanto un brutto incubo. Poi realizzo che sono davvero imprigionato in una delle peggiori carceri della storia dell’umanità, ma mi ostino a credere che sia superabile. So benissimo che non è vero, ma tanto non potrei neanche ammazzarmi, perché qui dentro è impossibile. E allora un giorno ho deciso di correre incontro a quel vento per chiedergli perché avesse voluto distrug13 STEFANO FIERLI gere l’umanità, e lui ha depositato ai miei piedi le note della sua melodia, come a dirmi: “A me non servono più, te le regalo, fanne ciò che vuoi”. E io ho scoperto che le arti hanno tutte la stessa radice e che quelle note tornate polvere potevano essere trasformate in altro. Ho scelto le parole. Scrivere mi è servito a non impazzire, come al mio vicino di cella serve raccontare. Entrambi salvi dalle botte quotidiane che gli altri prendono ogniqualvolta il vento viene a bussare alle finestre del carcere di Guantanamo. 14