rsc_1_2000 - Opera don Calabria

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rsc_1_2000 - Opera don Calabria
Copia a stampa della Rivista di Studi Calabriani è direttamente richiedibile a Centro di Cultura e Spiritualità
Calabriana – Opera don Calabria – Via S. Zeno in Monte, 23 – 37129 Verona – tel 045-8052928
Rivista di
Studi Calabriani
Anno I
2000
DIREZIONE:
Centro di Cultura e Spiritualità Calabriana
DIRETTORE:
don Giuseppe Pasini
SEGRETARIO:
dr. Massimo Cunico
COMITATO DI REDAZIONE:
sr. Graciela Ramseyer
fr. Agostino Lamesso
dr. Giuseppe Perazzolo
don Mario Gadili
fr. dr. Carlo Toninello
INDICE
PRESENTAZIONE DEL CASANTE
Don Waldemar José Longo
GLI STUDI
LA MISTICA DELLA PATERNITÀ DI DIO IN DON GIOVANNI CALABRIA
Danilo Andrioli
LE ISTITUZIONI EDUCATIVE DEI PRIMI DEL SECOLO E LA PEDAGOGIA DI DON CALABRIA
Emilio Butturini
IL LAICO COME LO VOLEVA DON CALABRIA
Luigi D’Alonzo
L’OPERA È DI DIO
don Waldemar José Longo
SULLA PSICHE DI DON GIOVANNI CALABRIA
Giuseppe Celso Mattellini
“CERCARE IL REGNO DI DIO NEL MONDO ODIERNO ALLA LUCE
DEL MESSAGGIO DEL BEATO GIOVANNI CALABRIA”
Giovanni Nervo
LA “CASA BUONI FANCIULLI” E LA CHIESA VERONESE DEI PRIMI DEL SECOLO
Gino Oliosi
PER IL 90° DI SAN ZENO IN MONTE
Giuseppe Perazzolo
PSICHE E SANTITÀ: IL CASO DI DON CALABRIA
Lucio M. Pinkus
LETTURA TEOLOGICA DEL “CERCATE PRIMA...” NEL BEATO DON GIOVANNI CALABRIA
Gianni Sgreva
LA POVERA SERVA DELLA DIVINA PROVVIDENZA NELL’OPERA DON CALABRIA
Maria Sponda
GLI STRUMENTI
INDICE DELLE TESI SCRITTE SUL PENSIERO E L’OPERA DEL PADRE DON GIOVANNI CALABRIA
NOTA TECNICA
La presente raccolta di studi intende dar conto dei testi ritenuti più significativi prodotti nel
corso degli anni 1998-1999.
Molti dei presenti studi sono stati presentati in occasione delle giornate di Studi Calabriani.
In nota ai singoli testi si darà conto se essi siano stati rivisti o meno dagli autori.
PRESENTAZIONE DEL CASANTE
“Sì, o cari ed amati fratelli, la nostra maggior preoccupazione sia di studiare e scoprire le
grandi ricchezze che nell’ordine soprannaturale Dio ha poste e messe a nostra disposizione,
tesori e ricchezze tutte opposte a quelle del mondo, che, con tutta la loro grandezza, con il
tempo si consumano e si riducono ad un pugno di polvere.”1
Rientra in quest’ordine di preoccupazioni la presente raccolta di Studi Calabriani. Una raccolta
che non ha in primo luogo ambizioni di carattere scientifico, anche se con l’andare del tempo
penso che la scientificità dell’approccio non verrà meno, ma ha in primo luogo la finalità di
approfondire e sviluppare la nostra conoscenza della spiritualità calabriana e del nostro amato
Fondatore.
Non spaventiamoci quindi di fronte al verbo “studiare”. Prendiamolo come un impegno alla
nostra personale santificazione. La via della conoscenza, come ben ci insegna la Fides et Ratio,
non è alternativa alla fede, bensì un cammino di fede può venire illuminato dagli strumenti
razionali di approccio alle tematiche religiose e spirituali.
Inoltre questo tipo di considerazioni non sono neppure un modo per ovviare allo sforzo
profondamente spirituale e al cammino ascetico proprio di ognuno di noi. Vediamo in questi
Studi uno strumento utile per migliorare la nostra consapevolezza di quale grande dono ci ha
fatto il Signore dandoci il padre don Giovanni Calabria e ispirando in lui il grande tesoro dello
“spirito puro e genuino”.
Non concludo quindi augurandovi un “buono studio”, ma un “buon cammino” lungo quella via
percorsa prima di noi dallo stesso padre don Giovanni e dai molti fratelli che ci hanno preceduto
certo che il mondo contemporaneo ha bisogno anche di questi strumenti per essere persuaso
dell’importanza di un messaggio come il nostro.
Sac. Waldemar José Longo
(Casante dell’Opera don Calabria)
1
G. CALABRIA - Lettere del padre don Giovanni Calabria ai suoi Religiosi. - Lettera XIX, 4 settembre 1938 - Ferrara 1956 -
GLI STUDI
LA MISTICA DELLA PATERNITÀ DI DIO
IN DON GIOVANNI CALABRIA
2
di Danilo Andrioli3
PREMESSA
Siamo alle soglie del terzo millennio: e non si vede in giro tanta voglia di fermarsi a pensare.
Sembra che gli uomini vogliano vivere solo di emozioni forti: è in atto una tendenza a
estremizzare tutto, senza riflessione. Quasi tutto esprime violenza e aggressività.
Anche sui giornali i titoli sono spesso improntati all’estremizzazione.
Giovanni Paolo II ci ha ricordato che “il mondo laico pensa a un mondo senza Dio, a una storia
senza Cristo, a una società senza Chiesa.”
Benedetta Teresa Stein, recentemente canonizzata, scriveva, prima di essere avviata al forno crematorio di
Auschwitz, più di 50 anni fa: “La nostra è un’epoca che ha distrutto la gerarchia interiore”.
E allora, c’è spazio, c’è accoglienza per una meditazione sulla misticità di San Giovanni
Calabria?
E si può ampliare il discorso e aprire una nuova domanda: “ Nel frastuono assordante di un mondo di parole spesso
insignificanti, di musica di discoteche, un giovane, ma anche un adulto, può ancora sentire la parola di Dio che
chiama?”
Cercherò di rispondere con un racconto:
Un filosofo si trovò a percorrere la stessa strada con un mistico. “Dove vai?” chiese il filosofo.
“Verso l’Abisso” rispose il mistico. “Potremmo percorrere la strada insieme – riprese il filosofo
– anch’io vado all’Abisso. Voglio dimostrare che non si può entrare nell’Abisso”. Lungo il
cammino si erano dilungati a discutere se l’Abisso si poteva attraversare o meno. Giunti alla
sponda il mistico si inoltrò nell’Abisso e quando emerse all’altra sponda si rivolse al filosofo
invitandolo a compiere la traversata. “Di qua si vedono cose mai immaginate e quelle che
conosci non sono più così” diceva il mistico. Ma il filosofo gridava: “Non trovo il passaggio,
non c’è il ponte” e se ne tornò tra la gente. Ormai, però, non poteva più dire che non ci si può
inoltrare nell’Abisso, allora si inginocchiò a pregare.
Non è questa l’intenzione primaria della mia relazione, ma sarei felice se, alla conclusione,
qualcuno potesse confermare la convinzione che si può penetrare nell’Abisso.
INTRODUZIONE
È con viva commozione, ma altresì con timore e trepidazione, che mi accosto per la terza volta
alla gigantesca figura di Don Giovanni Calabria: per proporre il pensiero di quest’uomo di Dio,
per incontrare il Padre dei “Buoni Fanciulli” proclamato Santo.
Don Giovanni Calabria fu sacerdote nel modo in cui egli definiva il sacerdote: un “Vangelo
vivente, sine glossa”.
Ho dovuto superare il tormento di un dubbio: ma posso io, un laico che ha vissuto nel
trascorrere degli affari correnti, affrontare un tema di questo genere?
È di una profondità coinvolgente e insieme tremenda.
Io lo affronto naturalmente da laico, impegnato anche in esperienze ecclesiali ma soprattutto in
attività, se posso definirle così, profane.
Ora, davanti alla figura e alla molteplicità di realizzazioni del nostro Santo, uno come me resta
stupito, per non dire sbalordito; ci si sente costretti a una domanda: da dove viene tutta questa
capacità?
2
3
Relazione tenuta alla 9ª giornata di Studi Calabriani - Verona 5 giugno 1999
Vicepresidente Cattolica Assicurazioni
Da dove è venuta tutta questa forza, a un uomo, poi, che sembrava non fornito di doti
intellettuali straordinarie?
E la risposta è proprio nel tema: dalla esperienza mistica di Dio, conosciuto e vissuto come
Padre, San Giovanni Calabria ha imparato ad essere padre per i più poveri, per i malati, per tutti
i sofferenti; e anche “padre” per la Chiesa, che deve molto all’esperienza mistica del nostro
colosso di santità.
Mi pare necessaria questa premessa perché, nella mia trattazione, apparirà frequente il richiamo
alle sue “operazioni paterne” accanto alle indispensabili “notazioni mistiche”.
Chiedo a San Giovanni Calabria la carità del perdono per l’audacia di questo modesto tentativo,
così come gli chiedo protezione per tutta la vita.
LA VOCAZIONE DI DON CALABRIA
Ricordo la vocazione di Samuele: “Avvenne un dato giorno che Eli stava dormendo nella sua
cella. I suoi occhi avevano incominciato ad indebolirsi ed egli non riusciva a vedere ( ... ).
Allora Jahvè chiamò Samuele che rispose “Eccomi”, e corse da Eli dicendo: “Eccomi, dato che
mi hai chiamato”. Questi rispose: “Non ti ho chiamato, torna a dormire”. Ed egli se ne andò a
dormire.
Il fatto dovette ripetersi tre volte perché Eli capisse che era Jahvè a chiamare il ragazzo. Disse
quindi Eli a Samuele: “Va’ a dormire, e se ti chiamerà dirai: “Parla, Jahvè, perché il tuo servo ti
ascolta” (1Sam 3,2).
Quella fu una chiamata “diretta” del Signore. Ma Egli che è infinito in tutto, anche nella
fantasia e nel senso dell’humour, non chiama tutti allo stesso modo. La vocazione di Don
Giovanni fu certamente diversa, e si valse anche - tra i vari modi che chiameremo esteriori - di
un padrone di bottega. “Va’ via! Va’ via! Va’ a fare il prete, che non sei buono ad altro:
quello è il tuo mestiere”; e, come trattamento di fine rapporto, gli affibbiò uno scapaccione!4
Fare il prete. Il piccolo Giovanni l’aveva sempre sognato, sempre desiderato. E lo diceva con
tutti.
Ma un prete diverso da quello che pensava il suo padrone, per il quale “prete” era sinonimo di
fannullone, di buono a nulla.
Egli voleva essere prete per sacrificarsi per le anime, per lavorare per il Signore, per togliere
tanti fanciulli (e adulti) da certe pericolose strade del mondo facendoli diventare buoni cristiani.
La sua mamma che, rimasta orfana, era stata raccolta “da quel grande Sacerdote veronese che fu Don Nicola
Mazza”, considerato da Lei “un Santo, tutto acceso di carità verso Dio e il prossimo” (vedi Ottorino Foffano: Don
Giovanni Calabria) non lo aveva certo educato allo spirito di chi, in ipotesi, cerca nella vita del sacerdote una
comoda sistemazione, una fuga dalla povertà e dalla fatica.
Né a siffatto spirito lo avevano educato i suoi maestri elementari, i Padri Stimatini, i figli del grande sacerdote
veronese San Gaspare Bertoni: alla scuola di questi buoni padri egli imparò anche a conoscere e ad amare la
Passione del Signore.
Sarà, comunque, la mamma Angela, devotissima di Maria SS. Addolorata, a completare questa formazione con il
suo esempio.
IL MINISTERO
A Don Giovanni Calabria la Provvidenza affidò un duplice compito:
diventare santo e richiamare alla santità soprattutto i sacerdoti e religiosi, mediante l’attuazione del Vangelo, unico
valido strumento per salvare l’umanità:
“Bisogna essere “Vangeli viventi”; non ci deve essere dissonanza tra Vangelo e pratica sacerdotale. “ Specialmente
ora c'è bisogno di Sacerdoti e Religiosi santi, che siano Vangeli viventi, che siano una continua predica. Oh sì, non
basta predicare, parlare, agire: tutte belle e buone cose; ma è, prima di tutto, necessario praticare quello che Gesù e
gli Apostoli hanno predicato”
4
Cfr. Gadili M. - San Giovanni Calabria-biografia ufficiale - ed. San Paolo 1999, pag. 36
Inoltre il vangelo deve essere praticato tutto, come facevano i primi cristiani, “applicato alla lettera”. Quando si
parlava di aggiornamento egli intendeva il grande aggiornamento allo spirito autentico del Vangelo com'era stato
vissuto ad litteram nelle sue massime. “Bisogna aggiornarsi, si sente ripetere da tutte le parti. E sia; ogni tempo ha i
suoi metodi, le sue particolari iniziative anche per l'apostolato. Gli immani progressi del tempo esigono un adeguato
aggiornamento, sotto la guida della sacra gerarchia e specialmente del Vicario di Cristo. Aggiorniamoci, cari
Confratelli; lasciate che lo ripeta anch'io, ultimo e poverissimo tra i sacerdoti di Dio. Ma il primo aggiornamento,
essenziale ed insostituibile per l'apostolato, è quello della santità; santificare se stessi, adeguarci al Santo Vangelo
che dobbiamo predicare e praticare oggi più che mai integralmente... Dobbiamo addentrarci nel pieno del Santo
Vangelo, applicare ad litteram le sue massime, anche quelle che non sono obbligatorie per tutti: l'amore non
conosce e non ammette limiti di sorta nel piacere alla Persona amata ” Egli stesso ambisce divenire un sacerdote
apostolico, un sacerdote santo, un religioso speciale; senza corona, senza Crocefisso, senza divisa, senza nulla di
ciò che può distinguere, ma “sacerdoti apostolici: ecco l'unico mezzo per sanare e salvare il mondo”.
Don Giovanni indica pure la sua strategia apostolica e la distingue in tre punti egualmente essenziali; questi
riproducono il suo spirito evangelico che fa prevalere l'elemento soprannaturale e caritativo. Egli chiama i suoi
punti “tre armi”, ma esse sono armi in mano dell'amore sacerdotale più delicato.
La prima arma è "la preghiera per gli avversari": “Sono fratelli nostri... Il Signore è onnipotente; può darci la
vittoria, e ce la darà; ma dobbiamo meritarcela, con la preghiera specialmente: dobbiamo fare un santo
bombardamento spirituale sul campo nemico, invocando dal cielo dardi d'amore, di luce, di carità”.
La seconda arma consiste nello "stimare il bene che è negli avversari". Il rilievo di questo punto dimostra la fine
intuizione psicologica del cuore da parte di don Giovanni e l'assimilazione dello spirito evangelico che egli ha
raccolto dagli episodi nei quali Gesù è di fronte ai peccatori e agli avversari onesti. “Ce n'è tanto di bene, più di
quel che si crede... Attacchiamoci a questo bene, sarà un bell'appiglio per conciliarci la fiducia degli avversari,
avvicinandoli a noi”.
La terza arma è "lavorare". Un lavoro delicatissimo, come quello di un padre che con l'arte medica vuol guarire,
salvare un figlio. Don Giovanni ha presente che le anime degli avversari appartengono di diritto a Cristo che le ha
riscattate con prezzo di sangue; e le ha ridonate al Padre come figli. Egli, facendo sue le sollecitudini divine, così fa
parlare il Padre celeste: “Combattete, sì, da forti, contro l'esercito del male che avanza formidabile; ma salvate
ognuno di quegli avversari, che è mio figlio adottivo e diletto, redento dal sangue del mio Unigenito””.5
manifestare al mondo, malato di distrazione e di materialismo, servo del piacere, del potere e del
denaro, l’ineffabile e gioiosa realtà della paternità di Dio, che non abbandona ma, anzi,
provvede a coloro che si affidano a Lui.
"Scriveva: “Dobbiamo vivere abbandonati nelle braccia della Provvidenza, con questo pensiero: anime, solo anime,
tutte le anime, perché queste vadano, insieme con noi, a Dio”.
Quando don Giovanni elesse come motto del suo spirito, della sua Opera, Quaerite primum regnum Dei intese
dichiarare apertamente che tutta la sua attività aveva un orientamento apostolico e precisamente tendeva ad
ingrandire il regno di Cristo nel mondo. “Guardiamo alle anime: ecco il nostro compito. Non fermiamoci alla
corteccia, non cerchiamo le cose di questo mondo, gli onori, le grandezze; anime, anime: ecco quel che dobbiamo
cercare; tutto il resto non val niente”.
Egli tremava nella piena comprensione della missione sacerdotale, perché gli pareva che molte anime non
giungessero a salvamento per la povertà interiore dei sacerdoti: “Dio mio, quante anime che sono fuori, lontane dal
Signore, povere di tutto perché non ricevono le ricchezze divine da noi sacerdoti! Che grande responsabilità
Sanguinem eius de manu tua requiram". Come mi fa tremare questa sentenza scritturistica! ... E noi resteremo
indifferenti ? Sarebbe la più grande sventura”".6
Il ministero rivela Don Calabria un “mistico dell’apostolato” e in questo senso si può parlare di
lui come di uno che non ha fatto esperienza soltanto, ma che è vissuto in uno “stato mistico”
Ed è la mistica della Paternità di Dio in Don Giovanni Calabria, non la teologia o la ricerca
storica sulla sua vita, l’argomento di questa mia inadeguata relazione.
La mistica è esperienza di una relazione con Dio. Analizzare l’esperienza è sempre difficile. In
questo caso potremmo dire impossibile perché, oltretutto, siamo nell’ambito del “mistero” che
evade e supera l’empirismo e la razionalità.
Si può comunicare una esperienza? Una cosa è parlare di amore e altra cosa è amare.
SIGNIFICATO DI “MISTICA”
5
6
P.G. PESENTI – Don Giovanni Calabria – Ed. Casa Buoni Fanciulli – 1967 – p. 202-203
P.G. PESENTI – Don Giovanni Calabria – Ed. Casa Buoni Fanciulli – 1967 – p. 195
“Mistica” è una parola che fa una certa paura; pare di riferirsi a qualche cosa di eccezionale, di
particolare, di riservato, che in modo misterioso comunica con quel “soprannaturale” visto come
lontano e diverso dal “naturale”.
L’origine del termine ha la sua radice nel greco “muù” (mioo), “chiudo” nel senso di “chiudere
la bocca”. Per cui i misteri furono così chiamati per il fatto che coloro che ascoltavano dovevano
chiudere la bocca e non spiegare ad alcuno quelle cose, o meglio, non riuscivano a
comunicarle.7
Si può dire che per S. Giovanni Calabria la mistica sia stata un’esperienza di
presenza–comunione–unità costante con Dio, il Padre, vissuta come dono. Proprio questa
esperienza ha portato l’uomo di Dio ad una conoscenza e ad una passività-attiva capace di
riferirsi totalmente al Padre e, nello stesso tempo, a compiere le opere del Padre.
Ciò che contraddistingue la contemplazione e la rende “mistica” è il silenzio e questo per il
semplice motivo che il linguaggio comune stenta ad esprimere l’essenziale dell’esperienza
specifica della mistica che è esperienza di unità, o meglio è esperienza dell’Uno.
San Paolo scrive: “Chi si unisce al Signore è con Lui un solo Spirito” (1Cor. 6-17).
La fenomenologia dell’esperienza mistica, tipica di un credente cristiano, non è l’estasi
religiosa, il rapimento, la suggestione, ma il rapporto, l’alleanza tra Dio e l’uomo, peccatore fin
che si vuole ma che può chiamare Dio col nome di “Abbà” (Mc 14,16; Rom 8,15; Gal 4,6) e non
semplicemente pater (patèr)
Si tratta allora di una esperienza che si relaziona sia alla visione della vita eterna, sia
all’esperienza cristiana, sia alla fede propria e della comunità.
Il linguaggio comune ha difficoltà ad esprimere questa esperienza perché è portato a parlare di
un “io” e di un “Dio” come realtà distinte, separate, e diventa perciò claudicante quando tenta di
dire l’esperienza della profonda unione io-Dio.
Alla grande mistica Caterina da Genova apparve chiara l’assurdità della parola “io” per
designare qualcosa di sostanziale e di compiuto: è, infatti, Dio a costituire il nostro vero e più
profondo “io”. E quanto più intima è la relazione con Dio, tanto più vera diventa nell’uomo
l’identità del suo ”io”.
La mistica di Don Calabria ha dimostrato, inoltre, la necessità di una dialettica che si libera dalle
false opposizioni e che di fronte all’insufficienza del linguaggio comune predilige il silenzio.
Esprimo, comunque, come posso un concetto: ciò che è orientato verso l’unione con l’Assoluto è l’atteggiamento
dello spirito; si tratta pertanto di un orientamento spirituale non concettuale.
Ciò comporta che noi dal Dio della teologia si passi al Dio della mistica.
Ma Dio è uno e unico, e pertanto il Dio della Parola è lo stesso Dio della teologia e della
mistica. Ora, la teologia è una scienza la quale, partendo dalla Rivelazione, pone in modo
sistematico e organico la verità della fede; la mistica è invece un’esperienza di fede.
Qualcuno sostiene che la mistica non appartiene alle categorie bibliche, e ciò perché la Bibbia
pone la radicale “alterità” di Dio, il quale - afferma - si rivolge all’uomo, sì, ma sempre come a
un tu, mantenendo cioè la sua assoluta trascendenza, mentre è proprio della mistica il
superamento dell’alterità e della trascendenza, nell’esperienza dell’unità nello Spirito.
Ma in realtà la mistica in quanto si configura come l’“essere un solo spirito col Signore” è
radicata nel Vangelo. Non solo: essa è specifica del solo cristianesimo in quanto unica religione
dell’umanità di Dio; e oggi, in tempi di dialogo e apertura alle altre religioni e culture, è bene
che lo si rilevi proprio parlando di Don Giovanni Calabria, che fu anche profeta
dell’ecumenismo.
DON CALABRIA, UN MISTICO CRISTIANO
L’esperienza mistica di Don Giovanni assume una profonda valenza cristiana.
7
Cfr.. G. Spomeni Gasparro – Dai misteri alla mistica – in La mistica – vol. I – p.75 – Città nuova - 1984
È quella di un credente che ha sempre come punto di riferimento e normativo Cristo e la Chiesa:
la S. Scrittura e il Magistero, la celebrazione sacramentale e la comunità storica, l’Eucarestia e il
Vescovo, l’una come principio e segno di unità sacramentale, l’altro come principio e segno di
unità ministeriale-istituzionale.
Inoltre, il nostro santo riconosce la propria esperienza come grazia e misericordia
Don Giovanni non sembra evidenziare fatti sensazionali, ma tutto il suo vissuto è relativo e si
inserisce nel filone della carità nel suo duplice aspetto di amore di Dio e amore del prossimo. In
questo modo Don Giovanni non si propone come padre, ma propone il Padre.
Alla fine, che egli sia un mistico è più una “scoperta” nostra che una consapevolezza sua.
Questo è un ulteriore motivo per cui non risulta che egli abbia parlato (e forse non è riuscito a
parlare) di ciò che ha vissuto e del come ha vissuto la sua esperienza religiosa di
unità-comunione-presenza con il Padre.
Ci ha espresso, però, e ci ha parlato molto del come dovremmo vivere per essere nel filone della
volontà di Dio, e questo esprime il suo profondo animo di contemplativo e di mistico.
Ma l’esperienza mistica di Don Calabria ha seguito gli schemi della teologia sistematica?
Oppure si è sviluppata secondo una sua logica o forse, meglio, secondo una sua libera
spontaneità guidata dallo Spirito?
Posta questa premessa, non si può dire che vi è una esegesi spirituale e “mistica” della Parola
che è data dalla spiritualità dei Santi e di ogni Santo, del nostro Santo, non alternativa, casomai
complementare e capace di supportare quella scientifica?
L’esperienza mistica ha, fra tante peculiarità, una sua originalità: è sempre parziale rispetto alla
totalità del mistero.
Questa parzialità però non è infedeltà, ma focalizzazione, evidenziazione della verità e del tipico
rapporto con Dio
E tuttavia colui che per mezzo della fede viva ne afferra un aspetto particolare, entra in contatto
con il mistero tutto intero e aderisce a Dio, sorgente unica del disegno della salvezza.
Questa esperienza mistica “parziale” diventa un punto di riferimento e una angolatura per la
percezione del mistero nella sua totalità.
Ciò suscita un linguaggio e atteggiamenti spirituali che configurano devozioni e una spiritualità
su cui si aggregano poi dei movimenti o, nel caso di Don Calabria, una Congregazione!
È evidente, infine, che l’esperienza mistica ha una sua evoluzione e una sua progressione e
sarebbe interessante cogliere come in Don Calabria l’esperienza della paternità di Dio sia
approdata ad un tipico atteggiamento ecclesiale, caritativo, educativo, comunitario ed
ecumenico.
DON CALABRIA MISTICO DELLA PATERNITÀ DI DIO
Fa impressione – entrando in S. Zeno in Monte – l’incisione su pietra del brano del Vangelo di
Matteo 6,25-33: “Non v’angustiate per il vostro vivere, di quello che mangerete, né per il vostro
corpo, di che vi vestirete - Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e avrete di soprappiù
tutte queste cose”.
Le tavole della legge di Mosè sono il segno dell’alleanza tra Jahvé e il popolo.
In certo senso la lapide della casa madre diventa il segno dell’alleanza con Dio della famiglia
calabriana, il fondamento della sua spiritualità.
Don Calabria, dunque, coglie la paternità divina dalla prospettiva della Provvidenza.
L’onnipotenza come l’amore si manifestano nella creazione, ma in quell’aspetto creativo che è
la vita che continua e rinasce ogni giorno, la vita che si rinnova nello sfamare gli uccelli del
cielo, nel rivestire i fiori dei campi.
Le conseguenze di questa splendida paternità sono:
la misericordia, quella misericordia che faceva sottolineare al santo l’appassionato rifiuto del
peccato e valorizzava in lui il ministero della confessione;
la salvezza come scopo e fine della vita;
la carità come primato dell’amore, ma di un amore concreto, pratico, rispondente alle necessità
e agli imprevisti di ogni giorno;
la preghiera come consapevolezza di essere piccoli e bisognosi di Dio.
Don Calabria, mi pare, non accenna ad alcun fenomeno spirituale straordinario, ma la
trasparenza del Padre nella sua vita e nel suo linguaggio sono la testimonianza più evidente di
un rapporto intenso ed intimo con Dio.
DALLA MISTICA DEL PADRE L’ANSIA PER IL REGNO DI DIO
Con acutezza propria di chi, vero contemplativo di Dio, non fa dei rilievi sociologici, ma ama l’umanità, la sua
storia, ogni uomo, Don Calabria, in un promemoria del luglio 1951, traccia una diagnosi precisa della condizione
storica del suo tempo:
“La situazione, umanamente parlando, è impressionante, non solo per tutto quello che satana sta preparando in odio
a Cristo, ma assai più per lo stato di decadenza di molti cristiani: dovremmo batterci contro l'infernale nemico, e
invece in larghi strati di cristianità non si fa nulla. Quante battaglie quasi perdute nel campo della moralità, della
santificazione della festa, della integrità della famiglia, della purezza giovanile. Battaglie condotte con tanto
dispendio di energie, non hanno dato quel frutto che era nelle aspettative.
Una spaventosa ignoranza imperversa in materia religiosa. Iddio è sconosciuto, il Redentore altrettanto!
I Sacramenti per molti cristiani, sono appena semplici cerimonie; basta vedere come si accostano al Matrimonio,
alla Comunione, al Battesimo dei piccoli.
La vita è concepita solamente come conquista di benessere quaggiù.
L'egoismo toglie la comprensione della sofferenza altrui, con grave disappunto di chi versa nel bisogno che vede in
larghi strati tanto sciupio di beni.
L'egoismo, anticristiano per natura sua, delega al governo ogni funzione di provvidenza per i miseri, dispensandosi
di fare la sua parte, e peggio, credendosi dispensati dal provvedere personalmente.
Disoccupazione, penuria di case, attentati alla moralità.., tutto viene riversato sul governo.
Peggio ancora: non si fa avanti una reazione collettiva, cosciente, energica, per salvare i valori del Vangelo e della
Redenzione.
L'opera di Gesù Cristo, la Redenzione, la dottrina sublime, la grazia, la civiltà cristiana, la Chiesa ... tutte cose
ignorate, che si lasciano andare miseramente perdute.
In luogo del Vangelo si fa avanti uno spirito di adattamento alla invadente mondanità; la coscienza si deforma per
tanti pregiudizi che penetrano fra i cristiani poco convinti; si perde la sensibilità al peccato, ai delitti più gravi
contro la persona.
Di questo passo che sarà fra qualche anno, di un mondo senza Fede, senza Carità, senza coscienza del peccato?
Quale giustizia sociale può esservi in una società che sente solo il culto della materia e del piacere?”.8
Non c’è dimensione umana, come non ci sono categorie di uomini che non siano state contattate
ed influenzate dall’esperienza spirituale di quest’uomo. Poveri o ricchi, fanciulli o adulti, uomini
di cultura o analfabeti, credenti o atei, sani o malati hanno trovato in lui accoglienza per i loro
problemi e un senso per la loro vita: realizzare in se stessi e nel mondo il regno di Dio.
Non possiamo tralasciare fra le figure più insigni coinvolte in questa spiritualità Francesco
Perez.
Quel “cercate il regno di Dio” si è tradotto in Don Calabria nella preoccupazione per la Chiesa,
ma potremo anche dire per ogni uomo che Dio pose “provvidenzialmente” sulla sua strada.
Per i preti in particolare, per i quali ha voluto stendere l’”Apostolica vivendi forma” scrive: “In ogni parrocchia il
Sacerdote deve dunque reclamare per se il compito paterno, di affrontare i casi pietosi, di risolvere le situazioni angosciose, chiamando a collaborare seco i patres familias e creando come una comunità del cuore che si investa
delle più urgenti calamità per recarvi adeguato e fattivo conforto.
Quando il malfamato Sacerdote apparisse agli occhi di tutti in questa veste di amore, molti si sentirebbero in dovere
di riformare i propri concetti, e l'ambiente modificato aprirebbe l'animo alle più care speranze per il regno di
Cristo”.9
8
9
Giovanni Calabria-Ildefonso Schuster - Le Lettere (1945-1954) - ed. Jaca Book 2000, pag. 134s
G. CALABRIA – Apostolica vivendi forma – Regnum Dei editrice – Verona 1963 p. 216
DALLA MISTICA DEL PADRE ALLA SOFFERTA E DOLOROSA REAZIONE AL PECCATO
Il peccato ha segnato in modo determinante la vita e il ministero di Don Calabria, sia perché lui
non fu estraneo a tentazioni violente di ogni genere, sia perché – con sapienza evangelica –
sapeva ricondurre tutti i mali all’unico male, quello morale del peccato.
Se la sua ostilità al peccato – comunque si manifestasse – era palese nei suoi discorsi ed
evidente nei suoi atteggiamenti, la sua misericordia era immensa nel perdono, nell’accorrere al
capezzale di chi chiedeva la sua comprensione e la manifestazione in lui della misericordia di
Dio.
Quante sono le conversioni attribuite alla sua presenza, al suo intervento, alla sua parola, alla
sua carità!
In Don Calabria fu sempre chiara la distinzione tra il peccato e il peccatore, come fu chiara la
differenza tra il senso del peccato e il complesso della colpa. Il secondo ha tutta una valenza di
ordine psicologico, mentre il primo è di ordine teologico.
Per questo motivo anche quando lui si troverà nella “notte oscura”, saprà rivolgersi a Dio, ritrovarlo e risolvere
nella preghiera le sue difficoltà, o per lo meno, trovare conforto.
DALLA CONTEMPLAZIONE DEL PADRE ALL’AMORE PER LA CHIESA, ALL’ANSIA MISSIONARIA, ALLA
VISIONE ECUMENICA, ALLA MISTICA DELL’APOSTOLATO
Sono numerosissime le testimonianze dell’amore obbediente e creativo del santo alla Chiesa.
Alla Chiesa riconosciuta come gerarchia e popolo di Dio, come comunione dei laici, presbiteri e
religiosi, come costituzione di un corpo organico che sarà completo alla parusia, manifestazione
finale del Signore.
Nel Padre e nell’amore del Padre scoprì la maternità della Chiesa e tradusse questo amore
fecondo nelle innumerevoli opere che oggi sono fiorite in tutti i continenti.10
Veramente in lui si realizzò il detto di ambrosiana memoria: “Non può avere Dio per Padre chi
non ha la Chiesa per madre”. E ancora, quanto scrive S. Agostino: “Amiamo il Signore Dio
nostro, amiamo la sua Chiesa: Dio come Padre, la Chiesa come Madre… nessuno può offendere
la sposa e meritare l’amicizia dello sposo”;11 “È nella misura in cui si ama la Chiesa di Cristo
che si possiede lo Spirito Santo”.12
Mi permetto di citare un brano per comunicare il cuore di Don Calabria nei confronti della
Chiesa:
“ [...] "La mia Chiesa, la mia Chiesa!" Quanto bisogna pregare, quanto v’è bisogno! Nel mio povero e vecchio
cuore, in certi momenti sento una angoscia, e quanto urge che il popolo cristiano sotto la guida infallibile dei suoi
Pastori ritorni alla pratica del Santo Vangelo e così essere faro e luce per tutta la povera umanità che agonizza. [...]
”.13
La sua Chiesa supera dimensioni campanilistiche, si allarga, abbraccia continenti nuovi, popoli
non evangelizzati, si fa casa e famiglia per quanti, pur professando la fede, hanno abbandonato
la comunità.
La sua è la Chiesa che riconosce a tutti, laici e presbiteri, gerarchia e popolo di Dio, la stessa
dignità pur nella diversità dei servizi.14
La Chiesa del cuore di Don Calabria è vivace, giovane, chiamata all’avventura missionaria in
ogni luogo, in ogni situazione, in ogni richiesta di aiuto.
La Chiesa di Don Calabria è ecumenica, accogliente: si fa dimora per tutti.
10
L'Opera don Calabria con le sue tre Congregazioni (Poveri Servi, Povere Serve della Divina Provvidenza e
Missionarie dei Poveri) è presente in 12 paesi nel mondo.
11
in Psalmis 88,2.14
12
In Joannem 38,8
13
G. Calabria-I. Schuster, op. cit., pag. 167-168
14
Cfr. Concilio Vaticano II Cost. Lumen Getium, 32
DA MISTICO DEL PADRE A MISTICO DELLA CROCE
Gesù, il contemplativo del Padre, camminò lungo la strada dell’amore fino al Calvario. Ha
lasciato come eredità ai discepoli una croce personale da portare.
Don Calabria quella croce la portò, forse la sopportò, ma non l’abbandonò mai, come la croce
non abbandonò mai lui.
Vi è una mistica sponsale, benedetta da Dio, fra Don Giovanni e la croce.
Non credo che il santo sia andato in cerca di sofferenze se disse: “Guarda di non chiedere mai a
Dio le sofferenze, perché ti prende in parola. Accetta quello che ti capita, ma non chiedere
mai”.
A lui le sofferenze vennero dalla cattiveria, dalle incomprensioni, anche dalla e nella Chiesa, ma
soprattutto egli si trovò provato nel suo intimo come Gesù, e come il maestro si sentì
abbandonato dal Padre.
"Sono alquanti giorni che ho prove nuove, ma sento che sono direttamente da Dio destinate per questa Opera e con
la divina grazia e con l'aiuto dei miei cari fratelli, che mi sono vicini, queste prove verranno superate, Gesù compirà
nuovi e grandi disegni, sempre con lo spirito puro e genuino che Lui ha messo. Quanto ho bisogno della sua
misericordia. Ea quae non sunt.
Ho la sensazione di essere da un momento all'altro chiamato e non mi sento preparato. Gesù, Gesù, Gesù!".15
Come Colui che è una sola cosa con il Padre (Cfr. Gv 10,30) nell’ora della croce viene
glorificato e glorifica il Padre (Cfr. Gv 17,1), Don Calabria fu anche “un mistico sulla croce”:
non ebbe bisogno di scrivere un trattato sulla teologia della croce, questo trattato egli l’ha steso
con la sua vita. Salì il suo Calvario tra dolori fisici e spirituali, in una profonda comunione di
amore a Cristo servo sofferente.
Per questo implorava i suoi fratelli più cari: “Pregate perché capisca il valore e il dono della
sofferenza”.
Una volta, davanti al Mosè di Michelangelo, io immaginai un grande blocco di marmo. Quanti
colpi di scalpello dovette dare il grande scultore per togliere il superfluo, far risaltare
l’essenziale, produrre quel capolavoro?
E che cosa sono i “permessi di soffrire” (Dio non manda il male. Secondo me lo stesso
Vangelo ci impedisce di pensarlo, poiché Gesù passò tra la gente risanando e beneficando) e le
atroci sofferenze che questi “permessi” comportarono per Don Giovanni, se non colpi di
scalpello per togliere il superfluo, per estrarre, purificare e far brillare nella vita e nella storia
della Chiesa un Santo così straordinario e luminoso?
“La Provvidenza - diceva - nelle prove non ci abbandona; se chiude una porta apre poi un
portone”.
Leggiamo qualche pagina del suo Diario: “Sono giorni di continua sofferenza che solo Gesù può
misurare. Umanamente parlando mi sento venir meno. Vivo nell’oscurità più profonda. O
Gesù, dove siete? La sofferenza Voi, Dio mio, l’avete provata. Tutto con la grazia Vostra, per
la mia povera anima, per l’Opera, per il mondo perché torni cristiano”.16
Tutta la vita di Don Giovanni è costellata di fatti che ebbero carattere di lotta nei confronti della
sua persona e nei confronti della sue opere.
Intanto fatti strani avvenivano intorno a lui.
Fatti documentati: comodini che si sollevavano; crocefissi che si rompevano, sgabelli che si scagliavano da soli
contro il suo letto, tentazioni non solo esterne ma soprattutto interne che offuscavano la sua mente. Non trovava
pace né giorno né notte.
Provvidenzialmente interveniva in certi momenti Padre Natale che gli diceva bruscamente:
“Glielo dico con certezza. Tutti i suoi disturbi fisici e morali sono causati da Satana; S. Zeno in
15
G. Calabria, Mio Diario, 14 dicembre 1952 (quad. 9) [Diario], Archivio Poveri Servi della Divina Provvidenza,
doc. n. 1945
16
ibid doc. n. 1871
Monte è il luogo della santificazione. Gesù le darà mezzi potenti e miracolosi per la salute di
innumerevoli anime!”.17
Don Calabria patì sofferenze indicibili, sofferenze che nel 1950 divennero oltremodo terribili e
lo investirono sul piano fisico, psichico e, soprattutto, morale e spirituale.
“Ho cercato me stesso ... sono zero e miseria ... Gesù che cosa vuole da me?”.
L’assalto satanico lo portò a situazioni inesprimibili: immagini orrende ... tanto da temere di
perdere la ragione!
Si tentò di portarlo in una casa di cura, ma la macchina più volte fece una sterzata violenta e si
trovò nella direzione opposta a quella che volevano raggiungere.
Mi permetto di citare qui un tratto della tesi di Maria Rocca:
"Analisi grafologica della personalità don Calabria e confronto sinottico con alcune testimonianze citate
nella “Positio”:
1) L’emotività determina una forte impressionabilità. In circostanze
positive,
di
tranquillità, diventa intensità di sentimento, calore espressivo e partecipativo nella comunicativa,
raggiunge punte di sensitività nel penetrare l'animo umano, con la capacità di capire e valutare
fin nelle sfumature i sentimenti altrui, sapendo toccare i "tasti" più adatti per consolare e
consigliare le persone.
1a) “…soltanto nella sua emotività si manifestava il fenomeno di esaurimento di energie
inibitorie, in base al quale potevano determinarsi, al di fuori delle intenzioni di don Giovanni,
manifestazioni contrarie alla sua coscienza" (Positio 2b, p. 405.).
"... ho notato nel Servo di Dio l'immedesimarsi delle situazioni altrui per alleviare sofferenze di ogni
genere, e questo come mezzo per recare sollievo ed aiuto spirituale. Posso attestare che
molte persone, anche miei clienti, hanno trovato un particolare aiuto e conforto" (Positio 2b, p.
221.).
2) Invece, in situazioni di tensione, la carica emotiva porta
lo
scrivente
ad alterazioni
dello stato d'animo, al turbamento di fronte alla potenza delle passioni e degli istinti e a e azioni di
forte eccitamento impulsivo ed irriflesso.
Lo scrivente, però, nei confronti di questa evenienza, ha potenziato al massimo le sue capacità di
resistenza e di controllo, accentuando i mezzi di
difesa
che
ha
a disposizione.
2a) "Don Giovanni, particolarmente nel secondo decennio dell'Opera, tra i 40 e i 50 anni, soffriva
di stati d'animo nei quali diveniva agitato, assumeva atteggiamenti inconsueti, cambiava timbro di
voce, usava espressioni volgari verso se stesso...
Anche questi episodi rientrano nel quadro normale della personalità eccezionale di don Giovanni in
cui le convinzioni religiose profondissime, sottoposte a stimolazioni contrarie anche di poco conto,
disturbavano le sicurezze della coscienza e il suo consueto processo logico. In questi fatti,
riconosciuti come segni di una personalità delicata, c'erano anche gli elementi forieri di quella
grave malattia che avrebbe colpito don Giovanni nella vecchiaia" (Positio 2b, p. 397.).
3) La sua parte cosciente cerca di arginare l'influenza delle pulsioni attuando quei meccanismi
di
reazione appartenenti ad una volontà caratterizzata da adesione alle norme e alla rettitudine
fino al sacrificio, da rigida disciplina e da un rigore che vuole sbarrare il passo ad una realtà
percepita come destabilizzante.
É ovvio che la "lotta" che si crea tra queste forze contrastanti, portata avanti per lungo tempo,
determini un logorio energetico e psichico che può sfociare nel patologico.
Permane, inoltre, quel bisogno inconscio ma connaturato, di stabilire un contatto con gli altri per
sentirsi affettivamente saturato. Anche tale bisogno è espresso dallo scrivente in maniera non
sempre serena, in quanto l'emotività accentua le sensazioni a questo livello.
17
O. Foffano, Don Giovanni Calabria, Tip. Casa Buoni Fanciulli - Verona 1958, pag. 144
3a) "La situazione fisiologica precaria di don Giovanni, l'insorgenza della sindrome depressiva
determinarono inevitabilmente quella varietà di sintomi ... che non sono che segni di una
terribile
sofferenza e della reazione che una persona eminente per virtù dispiega contro il mistero del male che
tenta di scardinare i fondamenti della personalità" (Positio 2b, pp. 404-405.).
"... il vertice umano della sofferenza è proprio in quel senso
elevato
di
totale isolamento
e
di
totale inutilità con l'abbandono del Padre, ... cui corrisponde la rottura del colloquio
con gli uomini ..." (Positio 2b, p.386). “…si notano ricorrenti fatti di sofferenza che suscitano
interesse ... Sono abbattimenti interiori, pensieri di sconforto, confessioni di impotenza, di lamento per
l'abbandono in cui è lasciato..." (Positio 2b, pp.395-396).
4) La sua natura fortemente affettiva, bisognosa di fusione e di essere corrisposta, nei momenti in cui
rimane isolata costituisce un motivo di forte sofferenza, provocando reazioni interiori di intensa
ribellione e di risentimento. Ed ecco ancora una volta intervenire quei meccanismi di controllo,
sopraccennati, di fermezza, resistenza e tenacia a cui, nel corso degli anni, si sono aggiunti un
accentuato spirito analitico e di verifica
Questi ultimi elementi, sebbene presenti
anche precedentemente, intorno agli anni '40-'45 emergono in maniera molto
evidente per mantenersi attivi fino alla fine.
4a) "Il Servo di Dio mai si è ribellato alla volontà di Dio anche nei momenti di crisi, sentiva invece ed
esponeva in maniera angosciata la ribellione contro se stesso ..."
(Positio 2b, p. 221).
"Durante questi ultimi anni l'equilibrio psicofisico di don Giovanni fece temere un collasso" (Positio
2b, p. 398)."18
La studiosa prosegue l'analisi affrontando quella che lei definisce:
"La “grande prova”.
Gli scritti che vanno dal 1949 fino al 1954, sono anch'essi significativi per
cogliere l'evoluzione ulteriore della
personalità dello scrivente e anche perché coprono gli anni cosiddetti della “grande prova”.
5) La personalità mantiene tutte le caratteristiche descritte precedentemente. Si accentuano però
alcune tendenze.
L'emotività diventa un elemento altamente disturbante: lo scrivente subisce l'influenza della carica
istintuale che era stata canalizzata e controllata nei periodi precedenti. Essa tende a "scompaginarlo":
sobbalzi, paure ed impressionabilità si alternano ad una attività quasi ossessiva dell'immaginazione che
non riesce a rendere sereni i processi mentali e relazionali.
La percezione della realtà e il contatto con essa, sono regolati da meccanismi di difesa che impegnano
al massimo l'analisi, costringono ad un perfezionismo per dominare la situazione ma, non raggiungono
lo scopo per la concomitanza di un 'ansia di grande intensità, che provoca risposte aggressive, scatti
repentini e modi a volte collerici.
Tale quadro, altamente conflittuale, si è venuto determinando per lo scompenso creatosi tra le forze
che impegnano lo scrivente da un punto di vista di costruttività, di coinvolgimento fattivo e decisionale
e quelle modalità difensive che tendono ad arginare le spinte irradiative ad ogni livello. Nello scritto del
1950 tale realtà è molto evidente.
Gli scritti successivi, sono quelli che seguono gli interventi terapeutici (elettrochoc e cura ormonale di
testosterone) a cui lo scrivente fu sottoposto.
Due di essi sono particolarmente significativi a tale riguardo; stilati a distanza di un giorno l'uno
dall'altro, essi denotano, l'uno (6.6.51) la reattività sopra descritta, l'altro (7.6.51) la compostezza,
18
M. Rocca, Beato don Giovanni Calabria - L'umanità dalla sua scrittura, Esercitazione scritta per il
conseguimento del Diploma di Magistero in Scienze Religiose - Istituto di Scienze Religiose in Trento - anno
accademico 1990-1991 pag. 29ss
anche se molto tesa, di reazione. In quest'ultimo vengono riattivate le capacità di tenuta e di
fermezza che riproducono il argine cui lo scrivente faceva riferimento in passato.
Nelle scritture del '53 e del '54 si assiste ad un'ulteriore conflittualità tra i diversi piani della personalità
che raggiunge livelli patologici piuttosto gravi.
La "lotta" tra forze contrastanti che lo scrivente ha portato avanti per tutta la sua vita, ha ormai
logorato le capacità di resistenza. Emerge, infatti, un'eccitabilità psiconervosa che agita il soggetto in
maniera persistente
Nell'ambito di una carenza di continuità di pensiero, determinata da una dilaniante frammentazione
interiore, emergono
i sintomi di una tendenza a fissazioni che turbano la serenità del suo
rapportarsi con l'esterno e con se stesso.
5a) "Nel 1950 egli cominciò ad accusare accentuata sensibilità e irritabilità, insonnia ... stato
melan-conico con tempi di depressione, pessimismo, e con momenti di rifiuto di ricevere visite ...
bisogno frequente di abboccarsi con il padre confessore, con don Luigi Pedrollo e altri. Ebbe periodi di
agita-zione con emissione di gemiti e grida; dichiarò di aver l'impressione d'essere in prigione; ebbe
crisi di nervi e fece qualche sfuriata; parlava a volte lunga-mente... perdette momentaneamente il
controllo di sé e gli venne voglia di rompere
dei quadri; una volta si sedette sul davanzale della
finestra quasi per buttarsi nel sottostante cortile; ripeteva in continuità le solite frasi espressive di idee
fisse di delitti da lui compiuti ... ebbe l'ossessione di avere sulla punta della lingua parolacce,
bestemmie; temette di essere abbandonato da Dio e di non essere compreso dai suoi stessi figli"
(Positio 2b, pp.399-400).
Il quadro ossessivo è con discreta frequenza associato alla malinconia, pure avendo una sintomatologia
sua caratteristica, che consiste in una eccessiva meticolosità e in una specie di coazione a compiere
determinati gesti o pronunciare determinate parole o fissare determinati pensieri.
Il malato, pur essendo consapevole della non importanza di questa coazione, non è capace di liberarsene
ed entra cosi in uno stato di sofferenza, anche grave" (Positio 2b, p. 517.).
"... la sintomatologia ossessiva da cui il Servo di Dio era in certi momenti tormentato, lo portava alla
tentazione coatta, a pronunciare parole oscene o bestemmie. A ciò reagiva con estrema sofferenza e con
grande consumo di energie … con esaurimento di energie inibitorie di fronte al logorio dell'ansia e della
carica ossessiva, che durava giorni e giorni compromettendo la situazione fisica ... Accade spesso, in
questi ammalati, che per il logorio e la stanchezza sia perduta l'obiettività nel giudicare lo stimolo
dell'attenzione" (Positio 2b, p. 221).
...La ossessività è una lente di ingrandimento dei propri difetti che li riporta al fuoco della coscienza così
da ricacciare fuori campo e in dimensioni ridottissime gli elementi positivi. La visione logica,
obiettiva, serena, che comprende anche i fatti spirituali... viene sopraffatta emotivamente dalla visione a
tinte nere della malinconia-malattia" (Positio 2b, p. 516.)
"Forse i disturbi rilevati, come noie o come allarme nella sfera sessuale, provocati dalla
somministrazione di ormoni rivelano una particolare sensibilità di don Calabria, anche sul piano
fisiologico, nel campo della purezza, campo che certamente è stato oggetto di particolare preoccupazione
e ansia nella sua vita. É ben nota una particolare polarizzazione al tormento sessuale negli ossessivi di
alta religiosità (scrupolosi).
Tenuto conto dell'unità del composto umano, io dico che in don Calabria si accentuavano le sofferenze
proprio perché esse colpivano ciò che era più caro, cioè l’unione con Dio e lo sviluppo dell’Opera
secondo la volontà di Dio" (Positio 2b, pp. 518-519)."19
Riprendendo il discorso sulle sue prove, sottolineo che un illustre cattedratico di Torino, lo
visitò e concluse che Don Calabria si trovava in “perfetto equilibrio neuro-psichico”. Ma quante
sofferenze fisiche !
19
M. ROCCA, op. cit., pag. 49
E le sofferenze morali, dovute ai motivi che fecero sottoporre lui a un processo di interdizione e
per 13 anni l’Opera al visitatore apostolico? Don Calabria subì questa umiliante situazione
proprio a causa di alcuni dei suoi figli più cari, che, nonostante tutto, egli continuò ad amare con
grande carità paterna, aiutandoli anche in qualche loro necessità fisica o morale.
Ma, in questa vicenda, il suo dolore più grande fu la mancanza di carità che si manifestò fra i
membri delle due fazioni.
Canta il Salmo 41 (40): “Anche l’amico in cui confidavo, anche lui che mangiava il mio pane,
alza contro di me il suo calcagno”. E il Salmo 55 (54): “Se mi avesse insultato un nemico l’avrei
sopportato; se fosse insorto contro di me un avversario da lui mi sarei nascosto. Ma sei tu, mio
compagno, mio amico e confidente; ci legava una dolce amicizia, verso la casa di Dio
camminavamo in festa”.
Don Giovanni accetta tutto questo indicibile dolore con grande fede, senza ribellarsi,
rifugiandosi tra le braccia del Padre perché “vegli su di lui” e dicendogli come nel salmo: “Da
questo saprò che tu mi ami, se non trionfa su di me il mio nemico”.
Padre Natale, suo Direttore spirituale per circa 45 anni, fece a Don Giovanni Calabria questa
profezia: “Non dimentichi mai che S. Zeno in Monte è il suo Calvario, sopra il quale Gesù lo
vuole immolato a gloria sua, a salute di tante anime, milioni di anime. Non dimentichi mai che
su questo Calvario vi è il buon Gesù ...”.20
E poi: “L’opera si estenderà su tutti i continenti, e Lei patirà i dolori di una maternità
spirituale...”.
È il momento questo di accostarci con profonda venerazione a Don Giovanni, per comprendere
cosa voglia dire essere crocifissi con Cristo, essere apostoli del Vangelo, senza commenti; essere
Vangeli viventi, essere concretamente ed esistenzialmente come Lui, che seppe cogliere questa
realtà misteriosa: Cristo non è solo colui che ci avvicina al Padre, ma è soprattutto colui in cui
siamo riempiti di Dio. Ragion per cui il mistico si trova in un rapporto vitale con Cristo.
DON CALABRIA MISTICO DEL PADRE, MISTICO DELL’APOSTOLATO, MISTICO DELLA CROCE, COSA CI
HA COMUNICATO?
Dalla contemplazione, dalla familiarità con Dio, il Padre, dal vivere in lui si apprende e diventa
evidente il modo di essere padri.
Don Calabria, come l’uomo della strada, il celibe come lo sposato, hanno un solo paradigma di
paternità, quello dell’amore paterno/materno di Dio.
Non chiamiamo Dio Padre in analogia con l’esperienza umana, ma, come credenti,
riconosciamo all’uomo la possibilità di diventare e di esprimersi padre/madre nella maniera e in
quanto si rifà a Dio, altrimenti rimane comunque sterile, “scapolo o zitella”.
Il mistico di Dio Padre ci insegna che le vere, grandi opere, non sono il risultato della genialità,
ma della fede. Di quella fede che diventa esperienza di presenza, di comunione, di unità, di
intimità con Dio. Solo quando Dio permea l’uomo e l’uomo si lascia impregnare di Lui sorgono
le opere di Dio, o meglio quella genialità che realizza le “mirabilia Dei”.
Ma il mistico di Dio ci insegna anche la croce, non come fine, me come “conditio sine qua non”
di fruttuosità dell’apostolato.
LA SANTITÀ, CAMMINO PROGRESSIVO PER REALIZZARE UN PROGETTO DI VITA
Don Calabria arrivò dove arrivò nella maturità spirituale non da un istante all’altro o mediante
un intervento divino straordinario, ma facendo tutto un cammino, lungo e terribilmente sofferto,
sotto l’azione misteriosa di Dio.
20
O. Foffano, op. cit., pag. 295
Come iniziò e continuò, Don Calabria, il cammino che lo portò ad essere unito al Signore, e con
lui un solo Spirito?
Se esaminiamo attentamente questo itinerario, noi intravediamo come una tenue lama di luce in
fondo a un tunnel e quella tenue luce è un barlume della divina bontà e della infinita sapienza di
quel Padre che, con minore o maggiore evidenza, tesse con amore il progetto di vita di ciascuno
di noi.
Don Giovanni Calabria non nacque in un periodo favorevole per un cristiano: dopo
l’unificazione dell’Italia si susseguirono “leggi di rapina” contro la Chiesa, ad opera di governi
massonici: si voleva la soppressione totale degli ordini religiosi e la confisca dei loro beni. Gli
istituti di Gesuiti, Rosminiani, Filippini, Agostiniani, Domenicani, e altri, furono a Verona
soppressi e le grandi biblioteche (oltre 150.000 volumi erano dei soli Rosminiani) passarono allo
Stato.
Eppure fu in così triste e difficile periodo che nella palude sbocciarono fiori bellissimi: tra essi,
meraviglioso, Giovanni Calabria.
Sin dai primi anni vari segni evidenziarono verso quale méta il ragazzo Giovanni si stava
incamminando: perché era straordinario il fervore del suo impegno nel compiere tutti suoi
doveri, evitando ogni imperfezione volontaria.
Varie prove andavano colpendo intanto la povera famiglia Calabria, ma la Provvidenza vigilava
e il giovane Giovanni cresceva in bontà, in amore per il prossimo, in grazia.
Scuole elementari, il ginnasio, il liceo. Periodi di sofferenza e umiliazioni indicibili.
Povero com’era, cito un esempio, vestiva in maniera persino ridicola. Pensate che un giorno si
presentò a scuola con un vecchio frac e la bombetta in testa che in gergo veronese si chiamava
“cana”.
La meditazione del mattino verteva su “Maria in Cana di Galilea”! All’annuncio di questo
titolo, gli studenti guardando Giovanni risero a tal punto che andò a monte anche la
meditazione!
Fece il servizio militare. E anche questo fu terreno di grande, profondo, eroico apostolato e di
personale maturazione.
Non fu facile l’ammissione al corso teologico né il permesso alla vestizione.
Ma il cammino, sempre più arduo, continuava: ed era il cammino che conduce alla Santità.
Ancor chierico comincia a sentire, se pur in modo confuso, una nuova vocazione; era - lo dirà
dopo - la Casa Buoni Fanciulli. Già allora avverte che la paternità di Dio, sperimentata, deve
essere testimoniata nella vita.
Ha ormai vicino in modo continuativo Padre Natale dei Carmelitani Scalzi, che per 44 anni sarà
suo padre spirituale e consigliere.
Dopo tante fatiche e anche umiliazioni Giovanni Calabria divenne finalmente sacerdote.
Il Cardinal Bartolomeo Bacilieri - che in precedenza aveva detto “abbiamo ammesso al suddiaconato tanti chierici
dotti, ammettiamone uno “pio”, nella casa del Padre molte sono le mansioni” - all’esame per la promozione al
presbiterato disse: “Satis” - basta: egli aveva capito che il chierico Calabria sarebbe stato un sacerdote apostolico e
non ebbe alcuna esitazione a promuoverlo. Giovanni Calabria divenne prete.
LA SANTITÀ, CAPACITÀ DI COGLIERE DA UNA PROSPETTIVA LA TOTALITÀ DEL RAPPORTO CON DIO.
A questo punto trascuro ogni altro dato storico e cerco di inoltrarmi nello specifico del tema.
Don Giovanni Calabria ebbe una seconda chiamata che lo portò ad essere un mistico della
paternità di Dio e volle diventare santo pur ritenendosi zero e miseria; fu un mistico sulla croce,
per la Chiesa!
Dopo la chiamata del Signore, fatta attraverso il padrone di bottega, Don Calabria ne ebbe ben
altre; ma l’altra chiamata, che concorrerà a fargli capire quale sarebbe stata la sua missione è,
secondo me, quella avvenuta la notte dell’insonnia, notte in cui egli lesse d’un fiato tutto il
Vangelo, con gli Atti degli Apostoli, e si confrontò con esso, e ne fu pervaso fin nel più intimo,
comprendendo per una folgorazione interiore specialissima, il profondo significato del cap. VI
di S. Matteo: “Cercate prima il Regno di Dio e la sua giustizia e il resto vi sarà dato in più”.
Allora Don Calabria scoprì l’intima connessione della paternità di Dio con l’opera salvifica di
Gesù e si affidò a questa paternità - come ha scritto fratel Elviro Dall’Ora - “a corpo morto”.
Corse subito da Mons. Chiot, parroco di S. Luca, per comunicargli la sua grande scoperta, la
rivelazione che aveva avuto. E di fronte alla sorpresa di costui, che gli faceva presente che
almeno il Vangelo i preti lo avevano letto tutti, Don Calabria replicava leggendogli i punti che si
erano impressi nella sua mente e nel suo cuore, fino a stordirlo: “Non vi affannate per quello che
mangerete o berrete ..., non vi angustiate per il vestire. Se avete fede quanto un granello di
senape ... Cercate prima il Regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in
più”.
Questo è il fondamento dell’Opera: lo spirito di autentico abbandono alla Divina Provvidenza.
Il completo fidarsi di Dio Padre, l’affidarsi a Lui, il confidare solo in Lui.
Scrive il Dott. Romolo Lodetti (Fratello Esterno dell'Opera don Calabria) nel suo assai
pregevole, efficace e accurato studio pubblicato col titolo “I fioretti di Don Calabria”21 che “ il
padre era per la coerenza tra il Vangelo e la vita”. Le elucubrazioni della mente infatti devono
essere guidate da un saggio buon senso. “Troppi ragionamenti e cavilli avevano provocato il
distacco della coscienza umana da Dio, dalla paternità continua di Dio”.
E proprio al Lodetti il padre aveva detto: “Ricordati che la Chiesa avrebbe avuto più santi se si
fosse pensato meno”. “Questa affermazione - continua l’autore dei “fioretti” - fu un fulmine
salutare per tutta la sua vita, non tanto come invito al non pensare, quanto per la scoperta che la
mente umana ha l’esigenza profonda dei “principi” che vengono prima del pensiero, strumento
efficace per chiarirli, comunicarli e attuarli”.
D’altra parte non soleva dire Don Calabria: “Ricordati che la prima Provvidenza è la tua testa.”?
Certo egli sentiva che la sua missione non era solo o prima di tutto innalzare muri e raccogliere ragazzi
abbandonati; prevaleva l’urgenza e la necessità di salvare le anime nell’autentica ricerca di Dio, nel più genuino e
radicale spirito del Vangelo.
Per guarire i corpi malati - diceva - si aprono ospedali e case di cura, e per guarire le anime non
ci daremo nessun pensiero?
Eppure il mistico Don Calabria fu un maestro d’azione pratica; fu un uomo concreto.
Più di una volta egli disse a qualche confidente: “Il denaro è sterco del diavolo, ma serve per
concimare!”.
E del resto i grandi mistici furono dei grandi realizzatori, e dimostrarono esser vero che mentre i
filosofi pensano la storia, sono i mistici a cambiarla.
A S. Giovanni della Croce e a Santa Teresa d’Avila si devono grandi monasteri: e non fu
altrettanto grande strumento della Provvidenza Don Giovanni con la realizzazione ospedaliera di
Negrar?
Mistico della Paternità di Dio e insieme uomo concreto e prudente.
L’esperienza mistica, abbiamo detto prima, è esperienza dello e nello Spirito, ma la parola deve
avere il suo preciso senso e non marginali e fuorvianti connotazioni visionarie e sentimentali.
Si tratta infatti di una atto essenzialmente di conoscenza, che è anche amore, comprensione di
tutto quello che è: in essa il bene degli altri ti è caro assolutamente come il tuo! Si tratta di
“qualità” dello Spirito, non della psiche, che è radicalmente egoista. E tuttavia bisogna anche
non perdere la concreta nozione di spirito, altrimenti andiamo verso la crisi di una civiltà.
Durante l’ultima guerra e negli anni successivi fino ai nostri giorno si ha notizia di fenomeni che
costituiscono un vero pericolo per la purezza della fede e la santità dei costumi: si trattava del
fenomeno del misticismo.
Apparizioni, rivelazioni, profezie, messaggi di salvezza di anime privilegiate: ne parla la stampa
con una frequenza impressionante, e magari a scopo tutt’altro che edificante.
21
R. Lodetti, I Fioretti di don Calabria. Episodi, fatti, incontri, dialoghi - Ed. Dehoniane Roma 1994
Nell’incubo di giorni oscuri l’istinto religioso o di conservazione si rivolgeva, non sempre
rettamente, al soprannaturale: e si pativano poi, da parte di molti, atroci delusioni. Clima di
parusia: “Ecco qua, ecco là il Cristo”. Invano Gesù aveva ammonito a non credere.
Le folle prestavano orecchio a tutte le voci, accorrevano a tutte le presunte apparizioni.
E tra le folle non mancavano anche sacerdoti e religiosi.
A questo proposito diceva il padre: “Trucco, isterismo e demonio concorrono bene, spesso, in
tanti casi di pseudomisticismo”.
Sapeva ben distinguere, però: alle prime notizie della lacrimazione della Madonna a Siracusa
commentò: “Bisogna andare adagio”. Poi, dopo qualche giorno, disse: “Contro il mio solito,
questa manifestazione mi impressiona. Le lacrime della Madonna mi fanno impressione”.
Aspettò però la dichiarazione dell’Episcopato siculo per far stampare delle immaginette da
distribuire, con un testo a sua firma che diceva: “La cara mamma celeste asciughi le nostre
lacrime o le cambi in gemme preziose per il Santo Paradiso”. In quei giorni egli soffriva
atrocemente.
Di una poesia di Giacomo Zanella mi pare appropriato gustare questi versi:
Contadinello che né giorni brevi
lavor non trovi ed ansio del domani
miri dall’uscio le cadenti nevi,
che tutti intorno han già nascosto i piani,
se sgomento ti assale, odi la parola
del Signor, che t’è presso e ti consola.
Mira gli augelli! A loro
il genitor celeste altro non diè tesoro
che il canto e le foreste.
E tu da men ti credi
de’ passeri? Le cose
a’ tuoi regali piedi
tutte il Signor non pose?
0 povero di fede,
sarà che t’abbandoni
chi lo spirar ti diede
a ornarti de’ suoi doni?
Don Giovanni Calabria credette veramente nella paternità di Dio e la sua vita fu la vita di un
mistico della paternità di Dio.
Ora, prima di tentar di arrivare all’essenziale, al come e al perché del suo cammino spirituale,
elenchiamo almeno alcune delle tappe che questo Santo poliedrico e coinvolgente percorse,
seguendo non la logica della sicurezza bensì quella del rischio; seguendo cioè la logica del
Vangelo, la logica di Gesù, mantenendosi orientato verso l’unione con l’Assoluto, con il Padre,
nel quale e per il quale giocò tutta la sua vita, tutto il suo “io”, e tutta l’Opera.
Io non credo che Don Giovanni abbia trascorso notti insonni per le questioni teologiche relative
al rapporto Fede-Opere.
Egli ebbe fede e fu strumento meraviglioso quanto docile e umile del Padre per innalzare opere
grandi. Anche Lui poteva ben cantare: “Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente”.
Nel 1897 accoglie in casa il primo ragazzo (“il figlio della giostra”), nel 1907 nasce la Casa
Buoni Fanciulli, in vicolo Case Rotte, a Verona; nel 1908 i ragazzi vengono trasferiti a S. Zeno
in Monte, che sarà la Casa Madre del nuovo Istituto; nel 1914 S. Benedetto; nel 1919 Costozza
di Longare (Vicenza); nel 1930 gli studenti si trasferiscono alla Casa di Nazareth; nel 1932 la
Casa di S. Toscana; nel 1933 parte l’avventura dell’ospedale di Negrar; nel 1935 la Casa di
riposo di Porto S. Pancrazio; nel 1937 la Casa di Noviziato a Roncà; nel 1938 viene acquistata
l’abbazia di Maguzzano per farne un centro ecumenico e di spiritualità; nel 1942 la Casa “S. Pio
V” a Roma; nel 1944 la Casa di Ronco all’Adige. Mentre infuria la guerra pubblica
l’“Apostolica vivendi forma” (che mi rimanda al pensiero del Rosmini e al suo “Le cinque
piaghe della Chiesa”), l’“Instaurare omnia in Cristo”, e “Amare”. Nel 1947 inizia l’attività della
Casa di S.Mattia e nel 1948 il Patronato di Corso Porta Nuova, trasferitosi poi in Via Roveggia;
nel 1951 l’Oasi di S. Giacomo (Verona) e lo Studentato vocazionale di Grottaferrata (Roma).
Il 4 dicembre 1954 Don Giovanni Calabria muore ma non si ferma. Mantiene la promessa e si
realizza la profezia: “Sono molti e grandi i disegni che Dio vuol compiere mediante
quest’Opera. Quello che vediamo adesso è nulla in confronto a quello che sarà in avvenire”.
“Sono zero e miseria” diceva di sé questo Santo, ma se Gesù davanti allo zero ci mette un bell’1,
allora vedrete che 10 ne esce: un 10 capace di contribuire a cambiare l’uomo e il mondo!
E solo per fare qualche esempio: l’ospedale di Negrar da ricovero - infermeria per vecchi - pieno
di debiti quando gli venne offerto dal Vescovo - diviene un edificio di sette piani, capace di 800
presenze e si arricchisce poi dell’Istituto Perez, per neuropatici dimessi, di un altro per sacerdoti
anziani, di un centro per malattie tropicali; e si moltiplicano le parrocchie affidate alla cura
pastorale dei sacerdoti di Don Calabria, mentre missionari dell’Opera partono per l’India,
l’Uruguay, il Brasile, il Paraguay, la Colombia, l’Argentina, il Cile, l’Angola, il Paraguay, le
Filippine, la Russia, la Romania, le Filippine.
Sulla paternità di Dio, dunque, Don Calabria non sviluppò tanto riflessione teologica quanto piuttosto stabilì la sua
vita e la sua fondazione: fece come Gesù, che rivelò il Padre senza scrivere alcun trattato sul Padre.
I MILLE VOLTI DEL PADRE MISERICORDIOSO
Don Calabria ha vissuto il Padre: Padre è il nome di Dio. Sul nome di Padre egli interpretò ogni
altro titolo dato a Dio. Padre capace di superare in amore qualsiasi fantasia, capace persino di
accogliere il figlio prodigo che torna a casa per motivi non molto sublimi. Mi riferisco alla
parabola del Padre misericordioso. Il Padre sapeva benissimo perché era tornato: perché era
pieno di fame, non aveva neppure le carrube che mangiavano i porci, per sfamarsi, altro che : “
Padre ho peccato…”. Ma il Padre non badò a niente. Coprì tutto con l’amore, e ordinò che gli
si portasse il vestito più bello, l’anello e i calzari, e si uccidesse il vitello grasso per far festa
perché quel figlio “era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato!”.
Il Padre aveva riconosciuto sempre il “suo” figlio anche durante l’abbandono e la lontananza;
per lui era stato sempre figlio!
Così come (Luca, 15) la dracma e la pecora smarrite conservarono anche durante lo smarrimento
il loro valore oggettivo, ontologico, direi.
E così Don Calabria incontrava i peccatori, parlava ai peccatori con lo stesso sguardo di Dio.
Da Amici! Nel loro valore e nella loro dignità di figli di Dio.
Noi, se una persona ci fa del male, non la riteniamo più amica, ma per Dio lo è ancora. E per
Don Giovanni fu così.
FIDUCIA E PRUDENZA, NEL SIGNORE
Nel Padre credette Don Giovanni Calabria, tra le sue braccia si buttò, fidandosi, affidandosi e
confidando ciecamente, e pur usando tutta la prudenza umana; tanto che mai intraprese un
lavoro senza prima averne conosciuto il costo, e senza chiedere consiglio.
E cosa consiglia del resto Gesù a colui che vuole iniziare la costruzione di una casa o vuol
difendersi dal nemico? Don Calabria era un uomo concreto e prudente; egli amava Dio e
amava il prossimo di un amore di predilezione che vuole il bene altrui: egli aveva ben presente
che “la carità tutto copre, tutto spera, tutto sopporta” (I Corinzi 14,7).
Don Calabria sopportò tutto. Non si negò mai alla volontà del Padre: rispose sempre di sì.
Come Maria. Ricordo qui il primo “sì” di Maria, di cui Egli fu tanto devoto da farla Padrona
dell’Opera.
Il primo “sì” è quello che Maria pronunciò al momento dell’annunciazione.
E quel “sì” aprì i cieli e la terra alla storia della salvezza.
Dopo quel “sì” Dio si è fatto carne; non conta che lo si celebri soprattutto a Natale: è il 25 marzo
il giorno in cui un Dio si fa uomo per opera dello Spirito Santo.
Questo è l’evento iniziale mirabile, ineffabile, determinante.
E cosa fa Don Giovanni, il pedagogo? Dà vacanza scolastica agli studenti, perché si ricordino
sempre e gradevolmente, quanto meno perché avevano goduto di una vacanza, del grandissimo
mistero dell’incarnazione.
Noi non possiamo non rimanere stupiti di fronte a questi misteri.
Proprio perché siamo cristiani e il cristiano non può che essere un meravigliato, uno stupito.
Don Calabria fu sempre uno stupito. In una sua lettera, di cui Don Pedrollo mi fece dono, si
legge: “La Messa ... ricchezza senza fondo!”.
UN PADRE PER UN MONDO SENZA PATERNITÀ
Un uomo che ha un simile rapporto col Padre, che ha una simile fede nella paternità di Dio,
davanti a che cosa di buono si può fermare?
Sembra che la penna voglia scapparmi di mano per dedicare almeno qualche cenno alle
realizzazioni che Don Giovanni compì durante la sua vita e che da me sono state solo elencate
nella relazione scritta: approfondire un po’ servirebbe certo a illuminare il cammino che lo portò
all’abbandono totale nella paternità di Dio e a dimostrare quanto si sia incarnata in lui la prima
lettera di S. Paolo ai Corinzi, là dove parla della carità.
Ma mi soffermo solo su S. Zeno in Monte, perché qui si dimostra in modo speciale e luminoso
che cosa consegua all’affidarsi completamente al Padre, al divenire così uniti a Lui da costituire
con Lui un solo spirito.
Sono pensieri ardui, questi, in un momento storico in cui ben pochi sentono il dovere di
chiedersi: ma dov’è il Padre?
Siamo poco avvezzi a guardare Dio con occhi di figli. Eppure dovrebbe porsi questa domanda
anche il mondo secolarizzato che si è voluto disfare quasi rabbiosamente della personalizzazione
dell’autorità.
Ma un cattolicesimo senza Padre, una società senza certezze, una cultura che non aspira alla
verità sono delle realtà malate.
La società ha bisogno del vero volto di Dio e allora deve tornare al Padre di tutti, se vuole porre
rimedio al disagio di fine millennio.
La crisi contemporanea della paternità è un frutto dell’albero illuminista, della contraffazione
del volto del Padre. Praticamente si pongono a confronto l’immagine di un Dio despota o
remoto, con il volto paterno rivelatoci da Gesù, il Figlio.
Don Calabria dal Padre ha imparato ad essere padre e quindi con i fatti, e non a parole, ha
insegnato come parlare di Dio a una società senza padri, ha mostrato come sia indispensabile
tornare al Padre, sia per coloro che sono fuggiti da Lui, sperperando il patrimonio, sia per coloro
che si sono resi indifferenti a Lui. L’obbedienza ai disegni di Dio, il cercare il suo Regno è una
via obbligata, perché il mondo diventi migliore.
E a chi obbedisce il Padre risponde, lasciando a volte stupefatti.
Qualche episodio. Un sacerdote dell’Opera scrisse che nel 1946 ebbe una improvvisa emottisi.
Era suddiacono. Il dott. Vantini lo portò all’ospedale di Soave: caverna al polmone.
Don Giovanni gli mandò una immagine del Sacro Cuore (il Cuore del Padre) sulla quale aveva
scritto: Ti do l’obbedienza di guarire.
Il giorno dopo nuovo controllo ai raggi X. Non c’è più niente. La fede di Don Calabria nella
Provvidenza è tale che gli fa vivere come normali anche gli avvenimenti più straordinari; è tale
che anche nelle ore più tragiche egli vede l’ora di Dio, il dono del Padre.
“Dio - dice - ricaverà un gran bene da questo generale scompiglio di princìpi e di vita”.
Ricorda il dott. Lodetti nel suo libro “I fioretti” che il 10 ottobre 1944 erano venuti i fascisti a
sequestrare la tipografia, annessa all’Istituto Don Calabria, per stampare la loro propaganda di
guerra.
Durante la successiva notte si abbatté su Verona un grande bombardamento che atterrì tutti.
Ad un certo momento cadde una grossa bomba sulla tipografia dell’Opera che cominciò a
crollare.
In una casa privata adiacente cadde un’altra bomba.
Alla mattina arrivò il padre che osservò la voragine. “Ci siete tutti?” domandò. “Bene, allora ci
sono solo danni materiali! Ci penserà il Signore a rifarla più bella. Questa è stata una bomba
intelligente”, alludendo alla pretesa avanzata il giorno prima dal comando fascista di occupare la
tipografia.
E poi aggiunse, con fare ispirato: “Una bomba fa danni, ma il peccato, un solo peccato veniale,
fa più danni di mille bombe”.
E si ritirò, serio e angosciato, per il peso del peccato sul mondo.
VIVERE SECONDO LA QUOTIDIANITÀ DELLA PROVVIDENZA
L’uomo deve comunque collaborare con la Provvidenza del Padre: lo premetto a scanso di
equivoci.
Mi ha sempre fatto bene ricordare questo suo pensiero: “Il Signore nutre l’uccellino, ma questo
deve adoperare le sue ali, le sue zampette, il suo becco. La prima Provvidenza che il Signore ci
ha dato è la testa sul collo”. La fede di Don Giovanni nella paternità di Dio non esclude
l’impegno umano, responsabile; anche se la sua è una fiducia senza limiti.
Un’auto può correre senza benzina, con l’acqua?
La fede di Don Calabria è arrivata anche a questo. Ecco due testimonianze.
Il padre era in automobile con il dott. Vantini e il dott. Consolaro. La macchina esaurisce la sua
scorta di benzina nei dintorni di Verona. “Padre, siamo senza benzina”. E Don Calabria
ribatte: “È già un pezzo che siete senza”. Poi li invita a mettere, con fede, acqua nel serbatoio
...; la macchina si rimette in moto e arriva fino a casa, a S. Zeno in Monte. Qui si ferma
definitivamente: è di nuovo a secco!
Un’altra volta - il fatto lo rivelò l’avv. Giuli, grande amico del padre - Don Calabria venne
chiamato d’urgenza, di notte, presso un ammalato grave, fuori di Verona. Essendo, in quel
momento, privo di macchina, ne venne fatta richiesta a un amico medico dentista. L’autista
fece presente che la macchina era completamente senza benzina. “Hai fede tu, caro?” gli disse
Don Calabria. Alla risposta affermativa, Don Calabria replicò: “Presto, prendi un secchio
d’acqua e versala nel serbatoio”. La macchina partì, fece andata e ritorno: e arrivò in cortile
con il serbatoio ancora pieno di vera benzina!
“I troppi mezzi - diceva Don Giovanni - sono la tentazione più pericolosa. Bisogna tirare su i
benefattori col fiato della preghiera”. Ragion per cui, talvolta, mandava i suoi figli persino a
battere i tegami vuoti sulla terrazza per ... attirare la Provvidenza. E sempre arrivavano puntualmente - i cibi o le somme di denaro che occorrevano.
A Don Giovanni credo non occorresse comperare neppure un biglietto della lotteria!
Dopo la preghiera, il padre era solito recarsi in portineria per vedere se era arrivata la
Provvidenza. In una casa mancava il sale, durante la guerra. Un bambino viene mandato in
Chiesa a pregare, e poi altri ancora. Nella mattinata arrivano ben tre chilogrammi di sale!
Potrei continuare per ore. Ma quello che colpisce non è tanto l’interesse miracolistico: è il modo con cui Don
Calabria ha costruito nei fatti della vita il suo rapporto, umile, con il Padre e con il prossimo.
Non è lo straordinario in sé che coinvolge e conquista ma il modo “straordinario” con cui egli ha
vissuto la sua umanità: in semplicità, amando tutti, nelle più diverse situazioni, in un modo che è
giusto definire eroico, per testimoniare la Parola di Dio, per testimoniare il Vangelo, sine glossa.
DON CALABRIA E IL CAMMINO DELLA CHIESA CONCILIARE
Di quanto ha anticipato il Concilio, Don Giovanni?
E di quanto ha anticipato l’Esortazione apostolica “Christifideles laici” del 1988?
“Se Egli avesse potuto leggere, undici anni dopo la sua morte, la Costituzione “Gaudium et
spes”, sarebbe trasalito di gioia”.22 (Mons. G.Carraro - Vescovo di Verona).
La lotta giuridica per ottenere la parità tra religiosi, sacerdoti e fratelli laici dell’Opera fu un
autentico olocausto per Don Giovanni, poiché la disposizione sembrava provocare un terremoto
nelle consuetudini giuridiche tradizionali.
Le sofferenze che Egli patì furono terribili.
Perché le accettò?
Per masochismo? Per stoicismo?
No: le accettò per la Chiesa, per la sua visione di Chiesa che trovò accoglienza nella costituzione
conciliare “Lumen gentium”, e per le anime. Egli infatti fu un mistico della paternità di Dio,
steso sulla croce, per la Chiesa.
In Don Calabria l’esperienza mistica ha avuto una sua evoluzione e per comprenderla occorre
saper cogliere come sia approdata a un atteggiamento caritativo, educativo, comunitario,
ecumenico; a un atteggiamento, insomma, compiutamente ecclesiale.
Egli auspicava una riforma che cominciasse dall’alto, dalla gerarchia, e arrivasse fino all’ultimo
battezzato.
Esortava a una maggiore comunione collegiale da parte dei Vescovi, per un rinnovamento
portato avanti da tutti, insieme, premessa di quella collegialità episcopale tracciata nella Lumen
Gentium 22 e nel decreto Christus Dominus sull’ufficio pastorale dei Vescovi.
Egli avvertiva che o i sacerdoti, i religiosi e i laici si decidevano a riformarsi o sarebbe
intervenuto allo scopo lo stesso Signore direttamente, data la gravità dell’ora. Queste sue
convinzioni, anche se non ispirarono i documenti conciliari, erano in sintonia con quanto il
concilio espresse nei decreti “Presbyterorum ordinis”, “Perfectae caritatis”, “Apostolicam
actuositatem”
Don Calabria era animato da uno spirito ecclesiale di grande forza: pensava continuamente alla
salvezza delle anime e a quello che si doveva fare a tale scopo: riforma dei seminari,
rinnovamento della Chiesa, ritorno dei “fratelli separati”, conversione del mondo a Cristo.
Era il tempo in cui sentiva che in fondo la sua giornata diveniva in modo sempre più autentico il
prolungamento della sua Messa quotidiana. E nel cuore del santo sacrificio egli partecipava ogni
giorno più intensamente all’agonia di Cristo per la sua Chiesa, e sentiva un gemito, un lamento:
“La mia Chiesa, la mia Chiesa!”.
Ma da dove veniva questo lamento? Dallo Spirito di Gesù o dallo Spirito di Don Giovanni?
Questo gemito veniva da un unico Spirito, quello di Gesù e quello di Don Giovanni divenuti un
solo spirito!
IL SANTO DELLA CROCE, DELLE BEATITUDINI
Si può veramente dire che questo santo, che ha lasciato nella nostra città e nel mondo un segno
che si fa ogni giorno più evidente, è stato e resta l’uomo della quotidiana, silenziosa
immolazione.
22
G. Carraro (Vescovo di Verona), Don Giovanni Calabria, santità del nostro tempo, Tip. Casa Buoni Fanciulli,
Verona 1973, pag. 3
Il suo eroismo non fu l’eroismo di una giornata resa gloriosa dal martirio; fu riservata a Lui la
santità più difficile da raggiungere, in una esistenza lunga, vissuta da apostolo della fiducia
eroica nella paternità di Dio, di un Dio che per Lui fu il Padre, dolce anche quando gli donò la
“notte dello Spirito” che è privilegio delle anime più sante, quelle chiamate a partecipare più
intimamente all’agonia del Getzemani.
Don Giovanni Calabria: un mistico della paternità di Dio, steso sulla croce per la Chiesa, per la
salvezza di tutto il mondo. Un vero mistico cristiano che si fida e si affida solo a Dio chiamato
col nome dolce di Padre, che vive una amorosa e misteriosa comunione con Lui.
La sua esperienza mistica è stata autentica perché vissuta come contemplazione in ampiezza
ecclesiale. E ha reso concretamente il suo servizio alla Chiesa, vivendo il mistero e
l’incarnazione della Chiesa del suo tempo.
A questo lo ha chiamato il Padre, rendendolo capace di rispondervi.
La fama di santità di Don Giovanni Calabria si sparse presto nel mondo.
Paolo VI lo definì “uno dei preti più singolari del nostro secolo, una specie di Don Bosco,
Cottolengo, Don Orione, una di quelle figure date alla carità in modo paradossale, cioè audace,
fidata nella Provvidenza, vissuta nella povertà assoluta e in carità evangelica, meravigliosa”.
Mons. Socche, Vescovo di Reggio Emilia, ebbe a dire di lui: “Di santi come Don Calabria il
Signore ne dà alla Chiesa uno ogni mille anni”.
Un pellegrino, recatosi da Padre Pio, si sentì dire: “Venite da me, mentre a Verona avete Don
Calabria?”
Don Primo Mazzolari, chiamato da Giovanni XXIII la “tromba dello Spirito Santo”, veniva a
cercarlo per avere consigli e illuminazioni.
Padre Leopoldo Mandic, parlando di Don Giovanni con Fratel Vittorino23, così lo definì: “Un
grande santo”. E in un’altra occasione, a una persona che gli mostrava una lettera di Don
Calabria nella quale era scritto: “Vedo la sua mamma (defunta) nella luce di Dio”, Padre
Leopoldo ribatté: “È proprio in paradiso, quando lo dice Don Calabria”.
E Padre Gemelli, un carattere non certo malleabile: “Se fosse qui Don Calabria, lo farei rettore
(dell’Università del Sacro Cuore) e io diventerei il suo segretario”.
Pio Xll: “Don Calabria? Un campione di autentica carità”.
E Padre Bevilacqua, che Paolo VI volle cardinale,: “Un apostolo dall’umanità intraducibile”.
Verona può ben andare fiera di questo suo figlio e Verona in fatto di santi credo non sia seconda ad alcun’altra,
tanto che Mons. Giuseppe Carraro, che fu Vescovo di questa diocesi, scrisse: “Fratelli Veronesi ... Vi ripeto: la
Vostra è “terra di Santi: siete figli di Santi”.”
***
Leggo nel testamento spirituale di Don Giovanni Calabria: “Voglio che il mio funerale sia fatto
nella massima povertà e che terminate le funzioni esequiali il corpo sia portato al cimitero fuori
di Porta Vescovo per la via più breve”.
Don Luigi Pedrollo, successore di Don Calabria, nella sua testimonianza al processo dichiarò:
“Non fu possibile a noi rimanere fedeli a questa volontà del padre. Il Sindaco venne per dirci
che intendeva fare i funerali a spese del municipio.
Noi opponemmo questa difficoltà, tuttavia abbiamo promesso di rimettere la decisione in mano
al Vescovo. Sua Eccellenza Mons. Cardinale, egli pure addolorato per la morte di Don
Calabria, disse che ormai il Servo di Dio non apparteneva più a noi soltanto, ma in un certo
senso a tutti. Si ottenne tuttavia che fosse povero il carro funebre e non ci fossero fiori. I
funerali furono un trionfo, una vera apoteosi”.
Sì, cari figli e amici di Don Calabria, oggi, in modo più ufficiale e garantito, Don Calabria
appartiene a tutti, appartiene al mondo intero: quest’uomo che fu straziato nel corpo e nello
23
Fratel Vittorino Faccia, Povero Servo della Divina Provvidenza (1916-1997)
spirito, che richiamava tanto da vicino il volto del Cristo crocefisso per amore degli uomini,
quest’uomo che superò le terribili prove permesse dal Padre perché collaborasse alla redenzione
del mondo, ma che - con la Grazia di Dio - vinse Satana da lui ritenuto strumento ed esecutore
di tali prove, questo esempio luminoso di Santo appartiene oggi a tutto il mondo.
Sia vostro, sia di tutti noi il suo programma che si riassume in due parole: “Anime, anime”.
“Bisogna cercare anime, creature abbandonate, reiette, peccatrici” egli diceva persino gemendo: “perché queste
sono le vere ricchezze, i tesori, le gemme dell’Opera”; e noi osiamo aggiungere: della Chiesa.
Nessuno, credente o meno, può scandalizzarsi se dico che Don Giovanni Calabria proprio nelle
sofferenze e tra gli spasimi visse evangelicamente le beatitudini; queste, infatti, sottolineano in
Lui un unico atteggiamento fondamentale: riconoscere il primato di Dio nella vita, riconoscere il
primato del Padre e quindi la necessità di affidarsi a Lui.
Don Giovanni, uomo delle Beatitudini, disse sempre: “Padre, tutto è nelle tue mani, tutto
approda a te, tutto attendo e spero da te”.
Crocifisso come Gesù, fu felice perché nulla gli mancava. Passando per l’afflizione e la
persecuzione, sapeva che il Padre stava preparando per lui - per usare parole del Cardinal
Martini - un tesoro stupendo, una gioia indicibile, e pregustava dentro di sé tale gioia.
Egli insegnò a noi a vivere il battesimo immersi nell’amore del Padre, nell’imitazione del Figlio
e nella potenza dello Spirito Santo.
Perché questa fu la sua vita, fervida e vivificante; e questo è l’ideale di vita di noi, cristiani: per aiutare il mondo a
credere, perché un’alba nuova sorga all’orizzonte, perché la speranza sconfigga la disperazione di un’umanità che
pensa di poter tranquillamente ignorare o dimenticare che Cristo è l’unico salvatore del mondo.
LE ISTITUZIONI EDUCATIVE DEI PRIMI DEL SECOLO E LA PEDAGOGIA DI DON
CALABRIA24
Emilio Butturini25
Premetto un discorso di carattere storico che richiede un po’ più di precisione rispetto al discorso sulla “pedagogia”
di don Calabria, ammesso che esista. Questa considererò, comunque, nel contesto delle istituzioni educative
veronesi del primo ‘900.
Vado a ritroso, a livello intanto dei “nonni”, cioè della seconda generazione prima di don
Calabria. Perché vado a prendere i “nonni”? Perché i “nonni” sono quelli che hanno educato i
genitori di don Calabria, in modo particolare la madre, Angela Foschio, allieva di don Nicola
Mazza, per il quale mi limito a rimandare alla seconda edizione di un mio libro26. Ma il bello è
che fu san Gaspare Bertoni, che disse di mandarla al Mazza. Ecco allora saltare fuori l’altro
nome importante della generazione dei “nonni”, san Gaspare Bertoni, fondatore degli
Stimmatini, nelle cui scuole don Calabria frequentò quattro anni delle cosiddette elementari
superiori (1881-1885).
Il terzo nome che voglio indicare, proprio solo per titoli, è Leopoldina Naudet, fondatrice delle
Sorelle della Sacra Famiglia, che offrirono ai Buoni Fanciulli la prima sede in vicolo Case
Rotte.
Il quarto nome è il beato Carlo Steeb, le cui Sorelle della Misericordia avevano cominciato ad
aiutare don Calabria fin da quando era a S. Benedetto al Monte e poi continuarono, quando i
Buoni Fanciulli si trasferirono a San Zeno in Monte, prima che venisse fatta la fondazione delle
Povere Serve della Divina Provvidenza, con la prima, Angelina De Battisti, figlia spirituale di
padre Gradinati, famoso stimmatino, che era stato anche il padre spirituale della Elena da
Persico. In più l’Angelina De Battisti era stata allieva dell’Istituto Seghetti, fondato da don
Pietro Seghetti, coetaneo del Mazza, essendo nato a Torri nel 1789 e morto a Verona nel 186527.
Il quinto nome è quello di Antonio Rosmini (siamo sempre in questa generazione tra fine ‘700 e
primo ‘800) che dichiarava che il suo Istituto della Carità era di origine veronese, per i replicati
impulsi di santa Maddalena di Canossa e l’efficacissimo incitamento di san Gaspare Bertoni.
Rosmini aveva cercato in tutti i modi di porre a Verona la sua casa madre, prima che venisse
portata a Domodossola, nel Regno Sabaudo.
Noi conosciamo la venerazione di don Giovanni Calabria per il Rosmini (e del resto uno zio di
fr. Perez, padre Paolo, è un rosminiano – un altro zio, padre Luigi, invece è un filippino).
Anche questo è un discorso interessante da tener presente nella formazione “remota” di don
Calabria, che ebbe sempre una ammirazione enorme per Rosmini28.
24
Relazione tenuta alla 3ª giornata di Sudi Calabriani - Verona 5 dicembre 1998
Ordinario di Pedagogia all'Università degli Studi di Verona
26
E. BUTTURINI, Rigore e libertà. La proposta educativa di don Nicola Mazza (1790-1865), Mazziana, Verona
1995, pp. 72 e 76-77 in particolare.
25
27
Alla morte del fondatore, si succedono una serie di sacerdoti, fino a che le cosiddette “Suore Seghetti”, vengono
assorbite dalle “Figlie del Sacro Cuore di Gesù” della Beata Teresa Eustochio Verzeri di Bergamo (1801-1852),
alle quali è ancor oggi affidato il veronese Istituto Seghetti.
28
Nella camera di don Calabria si può ancora vedere, proprio vicino al comodino, il santino di Rosmini. Don
Calabria era convinto della santità del Rosmini e fece un famoso appello al clero italiano per una migliore
conoscenza di Rosmini, stampato e diffuso in migliaia di copie nel 1949, quando era pericoloso parlare di Rosmini.
Si è incominciato a sbloccare il discorso su Rosmini solo con il Concilio Ecumenico Vaticano II.
Il primo Papa che ha accettato di ricevere il superiore generale dei rosminiani è stato Giovanni XXIII, che già da
cardinale riteneva “degna di alto rispetto” la dottrina di Rosmini e “rispettabilissima la dignità e la santità della sua
vita”, mentre le condanne erano dovute alle “circostanze dei tempi in cui la passione politica si cacciava in tutto,
Quindi arriviamo alla generazione dei “padri”, cioè dei coetanei dei suoi genitori. E allora i
primi nomi che si presentano sono: il beato Zefirino Agostini, fondatore delle Orsoline Figlie di
Maria Immacolata, parroco di S. Nazaro, il cui direttore spirituale era il filippino padre Luigi
Perez.
Vedete che ogni tanto compaiono i Filippini, che hanno avuto un’importanza enorme nella storia
veronese – e qui però si rischia di andare ancora molto indietro, perché i filippini sono quelli
fondati da S. Filippo Neri29. Una mia allieva ha studiato a fondo la vita e l’opera di un filippino,
padre Domenico Bellavite (1753-1821), che si era trasferito a Mantova, dove aveva fondato
congregazioni per i ragazzi e le ragazze povere, anticipando Bertoni, Canossa e il Leonardi.
Tutti questi avevano avuto relazione con padre Domenico Bellavite. Purtroppo le Figlie di
Maria di Bellavite, finirono per essere assorbite dalle Orsoline nel 1859, perdendo la propria
specificità.
Non ci è stato possibile pubblicare integralmente le osservazioni sull’educazione dei giovani di
padre Bellavite. Comunque quelle cose che abbiamo letto ci hanno dato la convinzione che
alcune delle sue idee passarono ai fondatori veronesi.
Si potrebbe andare ancora più indietro, per fare un cenno a sant’Angela Merici (1470-1540)
“villanella nostra condiocesana”, come diceva Zefirino Agostini, la quale avrebbe voluto fare
un’unione di donne disposte a farsi carico di tutti i dolori, le sofferenze e le fatiche specialmente
delle donne del popolo “senza seraglie di conventi”, vivendo nel mondo “non mondanamente”
accanto agli altri, trovandosi insieme a pregare dopo aver scelto “un luogo o chiesa determinata”
e “un comune padre spirituale”.30
Se non che questa regola viene sopportata finché lei è in vita. Appena lei muore, si cambia
registro.
Nella revisione della sua Regola ci mise mano San Carlo Borromeo nel 1582. É interessante
qualche riscontro: lei aveva messo un solo capitolo sul governo (XI), che viene dilatato in dieci
capitoli da San Carlo. Interessante anche il capitolo sull’obbedienza (VIII): Bisogna
obbedire – diceva in sostanza – ai genitori, se sei rimasta in casa a fare il tuo servizio, sennò ai
superiori della casa dove sei andata, ai reggitori degli Stati e alle autorità religiose, ma
soprattutto alla voce dello Spirito Santo che sentirai più nitida e chiara quanto più pura sarà la
tua vita e la tua voglia di realizzare il Vangelo. San Carlo quando arriva allo Spirito Santo dirà:
… e soprattutto obbedire alla voce dello Spirito Santo se il padre spirituale ti avrà detto che è
autentica31.
Ma ritorniamo a tempi più recenti, al periodo della vita di don Calabria (1873-1954). E qui
bisogna fare una premessa per presentare il contesto socio-politico e religioso-culturale della
prima parte della vita e dell’opera di don Calabria, fino all’avvento del fascismo. La prima parte
della vita di don Calabria si svolge nel periodo del processo nazionale di industrializzazione, che
anche nel Pater e nel Credo. Cfr. la lettera a don Roberto Jacquin dell’8 ottobre 1955 in Fondo Roncalli, doc. n.
7277 presso l’Archivio dell’Istituto per le Scienze religiose di Bologna.
Pio IX voleva far cardinale il Rosmini, ma i Gesuiti riuscirono ad emarginarlo e poi a far condannare a più riprese
le sue idee. Oggi, fortunatamente, si considera il sacerdote roveretano come un profeta e precursore della riforma
della Chiesa.
29
I Filippini a Verona hanno avuto un’accoglienza tutta particolare fin dal tempo del vescovo Valier (1531-1606),
quando lui scriveva: Philippus sive de laetitia christiana, un libro sulla gioia cristiana, che voleva cogliere la novità
della testimonianza di san Filippo Neri. Anche i protestanti erano rimasti entusiasti di quest’uomo. Goethe ha
dedicato pagine e pagine del suo Viaggio in Italia a s. Filippo Neri. Dice: “Ma perché non si è fatto protestante?
Perché a leggerlo chiaramente è un uomo che potrebbe essere dei nostri.” É chiaro che il poeta tedesco pensava che
i cattolici dovessero avere il marchio della tristezza in volto.
30
Cfr. cap. VII della Regola in L. MARIANI, E. TAROLLI, M. SEYNAEVE, Angela Merici, Ancora, Milano, 1986, p.
501. Cfr. anche p. 575 per la polemica contro “clausure e seraglie di conventi” del notaio e cancelliere di S. Angela,
Gabriele Cozzano. Sulla Merici cfr. il testo a mia cura Una fede operosa, Mazziana, Verona, 1997, pp. 65-78.
31
Per i riferimenti puntuali cfr. L. MARIANI, E. TAROLLI, M. SEYNAEVE, Angela Merici, pp. 325-329.
ebbe a Verona riflessi ben precisi. Il processo nazionale porta alla nascita del movimento
operaio, ma anche al primo periodo di dura repressione di quel movimento.
Quando tocca a Giolitti affrontare problemi sociali li affronta in un modo “liberale”, diciamo
anche più rispettoso delle persone che lavorano, ma ha potuto farlo perché prima, invece, gli
operai erano stati “bastonati” e gli industriali avevano potuto accumulare capitale da investire
nelle industrie.
La Chiesa era ancora pavida su questo tema. La Rerum Novarum (1891), pur con tante aperture
e prospettive interessantissime, definiva lo sciopero, che è l’unica arma dei lavoratori in linea di
principio nonviolenta, “disordine grave” e sottovalutava la profonda solidarietà ormai esistente
in larghi settori del mondo operaio e contadino. Si dava ancora la preferenza a istituzioni
corporative, cioè miste di padroni e operai, o anche a sindacati di soli operai, a condizione però
che fossero cattolici, cioè su base confessionale, e quindi con una forma di tutela della Chiesa
gerarchica.
In questo contesto si arriva alla repressione più pesante di fine secolo (1898). Il generale Bava
Beccaris ordinò di sparare sulla folla di gente che protestava per il caro-pane: vennero uccise,
secondo le cronache ufficiali, 117 persone, in gran parte donne, bambini e vecchi. Secondo altre
versioni furono uccise dalle 400 alle 500 persone, più dei morti delle famose 5 giornate di
Milano. Il re Umberto I (il re buono, il re galantuomo), decorò al valore civile il generale Bava
Beccaris perché aveva avuto il coraggio… di sparare sulla folla. Fu proprio questa decisione del
re che portò al regicidio nel luglio 1900 da parte dell’anarchico Gaetano Bresci.
Agli eventi 1898-1900 seguì un ripensamento da parte del nuovo re, Vittorio Emanuele III, che
chiamò al governo Giuseppe Zanardelli, già Presidente della Camera e Ministro della Giustizia.
A lui successe Giolitti (da cui prende il nome il decennio giolittiano), con le riforme sociali che
negli altri paesi erano già state fatte molto tempo prima: assicurazioni sociali, pensioni,
invalidità, vecchiaia, anche una scuola più diffusa sul territorio, che si facesse carico
dell’analfabetismo. Nel campo della scuola i cattolici furono abbastanza critici, tutti i cattolici,
anche i democratici come don Sturzo, contrario alla statalizzazione delle scuole elementari. Però
bisogna capire anche il punto di vista di Giolitti, che si trovò di fronte ad una situazione di grave
squilibrio tra Nord e Sud. Quando si fece l’Unità d’Italia c’era oltre il 50% di analfabeti al Nord,
il 60% al centro, quasi il 90% al Sud. Nel 1901, cioè 40 anni dopo, al Nord c’era oltre il 30% di
analfabeti, al Centro il 45-50%, al Sud ancora oltre il 70%. Perché il permanere di questo grande
divario? Perché le scuole erano comunali e al Sud non c’era la sensibilità di gestire la scuola da
parte del Comune, che magari spendeva soldi per le varie feste patronali, ma non aveva la
sensibilità di investire sulla scuola. Allora Giolitti decise di applicare anche al settore scolastico
la sua politica di centralismo statale. Giolitti aveva centralizzato un po’ tutto: le ferrovie, le
assicurazioni sulla vita, l’INA e, quindi, anche la scuola, con tutti gli aspetti anche negativi che
comportava. Per far questo ha prima cercato l’alleanza dei socialisti, ma non ce l’ha fatta,
successivamente cercò quella dei cattolici. Un primo compromesso, assecondato dalla Santa
Sede, fu già nel 1904, con gli accordi fra il conte Paolo Bonomi di Bergamo e il ministro
Tommaso Tittoni per concedere eccezioni al non expedit sul piano politico, perché sul piano
amministrativo i cattolici già votavano, come sarà precisato con l’emanazione dell’enciclica Il
fermo proposito del 1905. L’accordo più grosso sarà fatto nel 1913 col conte Ottorino Gentiloni,
che si assunse l’impegno di rispettare i cosiddetti 7 comandamenti (“Eptalogo”), tra cui c’erano
il no al divorzio, la salvaguardia dell’insegnamento della religione e del pluralismo scolastico,
ecc. Quando si andò a votare (fine del 1913) c’era la cosiddetta legge del “suffragio universale”,
che Giolitti era anche riuscito ad ottenere. In realtà era – bisogna aggiungere un aggettivo –
suffragio universale maschile. Votavano solo gli uomini, non le donne, mentre in vari paesi
allora si era già arrivati al voto femminile.
Nella Chiesa c’erano varie posizioni. Esistevano già laici e anche preti, come Murri e Sturzo,
che sostenevano posizioni democratiche, anche se non erano molto ben visti in alta sede. Lo
stesso Toniolo ha sofferto di questo, anche se era il più equilibrato e il più moderato, legatissimo
alla veronese Elena Da Persico, che scrisse su di lui una biografia32.
Don Sturzo, invece di contrapporsi frontalmente alla Chiesa, che aveva un’altra posizione,
lavorò su un altro terreno, cioè sul piano amministrativo dove era libero di muoversi. A
Caltagirone lanciò nel dicembre 1905 il famoso discorso dove ribadì che sul piano teorico era
sostanzialmente d’accordo con Murri, osservando che come ci sono dei cattolici che possono
votare tranquillamente per i liberali, così possono esserci dei cattolici che possono votare per i
democratici e dev’essere concessa questa libertà… Non bisogna fare però del cristianesimo una
bandiera per accalappiare voti, perché il cristianesimo serve per dare ispirazioni e ragioni per
risolvere i problemi di tutti.
Un discorso chiaro che riprenderà, dal 1918 in poi, come un ritornello, per la fondazione del
Partito Popolare, dicendo che sarebbe errato parlare di “partito cattolico”, perché partito vuol
dire “parte” e cattolico vuol dire “universalità”, partito vuol dire “politica” e cattolico vuol dire
“religione”. Il cattolicesimo è religione, universalità, il partito è politica, inevitabilmente
divisione.
Fin dall’inizio, dice Sturzo, abbiamo escluso che la nostra insegna politica fosse la religione ed
abbiamo voluto chiaramente metterci sul terreno specifico di un partito, che ha per oggetto
diretto la vita pubblica della nazione. Naturalmente non tutti i cattolici erano d’accordo con
questa linea e tra questi c’erano cattolici illustri che erano contrari: Olgiati, Gemelli, i fondatori
dell’Università Cattolica, che scrivono un opuscolo “Il programma del partito popolare, come
non è, e come dovrebbe essere”, a favore di una scelta decisamente confessionale.
Ma ritorniamo alla situazione di Verona.
Tra fine ‘800 e primo ‘900 dire Verona vuol dire una città e una provincia ancora
essenzialmente agricole, anche se cominciano a sorgere le prime industrie alimentari, tessili (ma
ancora nel 1911 il 50% sono di carattere alimentare e tessile), industrie cartarie (Verona ha la
sua tradizione su questo) e meccaniche, soprattutto quelle legate al polo ferroviario33.
Verona ha il primo posto nel Veneto per numero di aziende, però il 4° posto per forza lavoro e il
3° posto per impiego di forza motrice. Sarà sempre abbastanza subordinata a Vicenza e anche
alla stessa Venezia.
Non dimentichiamo l’apporto dato alla città dalla giunta moderata guidata dal sindaco
Camuzzoni, che darà il nome al canale omonimo, proprio per promuovere agricoltura e industria
e realizzare tutti i lavori fatti dopo la grande inondazione del 1882: i famosi “muraglioni” che
cambiarono il volto della città34.
Furono periodi, quindi, di grosso lavoro, di grosso impegno, anche da parte
dell'amministrazione. Si erano, nel frattempo, costituite le prime organizzazioni operaie, come le
“società di mutuo soccorso” tra macchinisti e fuochisti delle ferrovie (sono le prime) o la
“federazione del libro”. Già nel 1894 nasce la “Camera del lavoro”, anche se funzionerà a
pieno regime solo dal 1900. I cattolici erano presenti soprattutto nel mondo contadino, nel quale
32
Cfr. E. DA PERSICO, La vita di Giuseppe Toniolo, Attività Sociali, Verona, 1959, III edizione. Murri poi si
allontanò dall’obbedienza della Chiesa, anche se alla fine fu riaccolto nella “unità visibile dei credenti”, grazie ad
una paterna ed affettuosa lettera del suo vecchio compagno di studi al Capranica, divenuto Papa Pio XII, che non
richiederà alcuna previa sconfessione di quelle idee, per le quali era stato scomunicato trent’anni prima. Cfr. L.
BEDESCHI, Murri, Sturzo, De Gasperi, S. Paolo, Cinisello Balsamo, 1994, e la lunga introduzione del medesimo al
libro di G. GRONCHI, Quello che ha significato Romolo Murri, con autobiografia inedita, Ed. Quattroventi, Urbino,
1997.
33
A Verona era importante il polo ferroviario. Già il beato Zeffirino Agostini, quando era parroco di San Nazaro si
poneva il problema dei numerosi lavoratori che erano impegnati a costruire la prima stazione di Verona, quella di
Porta Vescovo. Sono del primo ‘900 le imprese avviate da Galtarossa, Rossi, Tiberghien, Fedrigoni, Consolaro, ecc.
Cfr. F. VECCHIATO, Verona e l’economia padano-veneta tra il 1896 e il 1914, in G. BORELLI, G. ZALIN, La società
cattolica di assicurazione nel primo secolo di attività, ed. in proprio, Verona, 1996, specie pp. 6-8 e 18-20.
34
Cfr. M. ZANGARINI (a cura di), Il canale Camuzzoni. Industrie e società a Verona dall’Unità al novecento,
Cierre, Verona, 1991.
erano occupate sulle 100.000 persone, rispetto alle 30.000 occupate nel settore secondario (in
maggioranza donne e ragazzi sotto i 14 anni impiegati nell’industria, come sempre nelle fasi
iniziali dell'industrializzazione).
I cattolici avevano i loro Comitati: diocesano e parrocchiale (nel 1897 c’erano 78 comitati
parrocchiali), le Leghe, le Unioni del lavoro, le Società operaie di mutuo soccorso (nel ’97
erano 36) e, soprattutto, le Casse rurali (ben 76, ce n’è qualcuna che sopravvive ancora),
fondate per eliminare la piaga dell’usura, fatale a tanti piccoli coltivatori.
Già nel 1896 sorge la “Federazione diocesana delle casse rurali”, appoggiata dalla Banca
Cattolica, voluta dalla Società operaia cattolica veronese, in collegamento con l’Opera dei
Congressi, che era la grossa organizzazione dei cattolici, dal 1874 al 1904, quando fu sciolta da
Pio X35. Allora a Verona vi erano 4 giornali che erano l'espressione delle 4 anime fondamentali:
vi era “L’Arena”, liberal-moderato, “L’Adige”, liberal-radicale, “Verona Fedele”, quotidiano
cattolico e “Verona del Popolo”, settimanale socialista. I socialisti poi, come sempre, erano
divisi nettamente già allora fra rivoluzionari massimalisti (e seguivano i loro capi nazionali,
Mussolini e Ferri) e i socialisti moderati.
Fra i principali fondatori e animatori di tutte queste iniziative cattoliche bisogna ricordare
almeno Don Giuseppe Manzini (1866-1956), che, benché più anziano di vari anni, diventerà il
figlio spirituale di don Calabria. Durante la sua forzata degenza a letto per malattia, Don
Calabria andrà ogni settimana a confessarlo a casa.
Altro grande animatore è Massimo Besozzi, che poi diventerà uno dei primi religiosi Fratelli di
don Calabria36.
Besozzi era stato molto attivo alle Stimmate e nel patronato operaio. Don Calabria apprezzava le
capacità e l’entusiasmo e fece di tutto per averlo con sé, “a costo di essere… scomunicato” come
testimoniò p. Diodato Desenzani37.
Nel 1898, a Verona ci fu l'inaugurazione della fiera internazionale dei cavalli e dell'agricoltura.
Ci fu anche una protesta popolare contro il caro-pane e arrivarono immediatamente i
contraccolpi della repressione governativa. Vennero sciolte le associazioni socialiste, ma anche
quelle cattoliche (c'è il decreto del prefetto Francesco Palomba del 26 maggio del 1898 che
applica la circolare di Rudinì38).
Non tardarono comunque a ripartire le varie iniziative del movimento cattolico con mons.
Manzini, Mons. Trida, che era stato professore di don Calabria, di greco, don De Massari, e i
laici Besozzi, Percacini, Ceola, Coris, Guarienti ecc. e, dal 1905, anche con Elena Da Persico,
promotrice di una società di mutuo soccorso fra operaie e della prima federazione delle società
di mutuo soccorso.
Sul piano politico-amministrativo il Comune di Verona fu amministrato ininterrottamente dai
liberali moderati, dal 1866 al 1889. Poi vinsero i democratici, che furono favoriti dalla legge del
1888, che aveva raddoppiato quelli che avevano diritto di voto a Verona. Prima i votanti erano il
2-3%, poi passarono a circa l'8%.
Quasi 10.000 persone andarono a votare e vinsero i democratici.
Le elezioni, quindi, del 1889 determinarono la svolta, con l’ascesa dei democratici, fino alle
elezioni del 1895.
35
Cfr. R. CONA, Il movimento cattolico veronese, in BORELLI, ZALIN, La società cattolica di assicurazione, cit.,
specie pp. 53-61.
36
Massimo Besozzi rimase in Casa dal 1908 al 1915, poi entrerà dai Gesuiti. Ne uscirà nel 1920 e don Calabria
tranquillo lo riprende. Resta in Casa altri due anni e poi andrà fra i Benedettini di Praglia, dove morirà. Noto subito
una cosa: il gran rispetto, all’interno dell’Opera, per scelte diverse. Nessuno scandalo da parte di don Calabria
quando gli annuncia che vuol diventare gesuita, nessuno scandalo quando gli annuncia che vuole tornare e quando
gli annuncia ancora che vuole andarsene.
37
DIODATO DESENZANI, Testimonianza in Positio super virtutibus Servi Dei Joannis Calabria, Roma, 1984, p.
336.
38
Cfr. A. GAMBASIN, Gerarchia e laicato in Italia nel secondo Ottocento, Antenore, Padova, 1969, pp. 288-305.
Queste ultime elezioni diedero 32 seggi ai moderati (il Consiglio Comunale di Verona era di 60
membri), 16 ai cattolici e 12 all’opposizione democratica. C’era il sistema maggioritario rigido:
chi vinceva le elezioni prendeva anche il 75% dei seggi. Era l’effetto dell’accordo
clerico-moderato, che portò ai 12 anni dell’amministrazione dell’avvocato Antonio Guglielmi,
dal 1895 al 1907, accordo propiziato dalla Curia, in modo particolare da Bartolomeo Bacilieri,
vescovo coadiutore prima, e poi titolare della Diocesi di Verona, dal 1900 al 192339.
Le elezioni politiche del 1900, invece, videro il successo del democratico Luigi Lucchini e del
socialista Mario Todeschini. Quest’ultimo salvo gli anni fra il 1904 e il 1907 e fra il 1909 e il
1913, fu sempre eletto nelle file socialiste, fino a dopo la I guerra mondiale. Dal successo
socialista nelle elezioni politiche fu colpito ill mondo conservatore, e più specificamente quello
clericale.
Di qui le intese clerico-moderate, anche a livello politico, che portarono, nelle elezioni del 1904,
alla vittoria del moderato Rossi su Todeschini, anche se questi sarà rieletto deputato nelle
elezioni supplettive del 1907.
Ricordiamo che, nelle elezioni del 1904, Don Calabria andò a votare.
Un gruppo di giovani socialisti lo fermò: “Don Calabria, guarda che i preti rischiano grosso in
questo giorno”.
“Lo accompagnamo noi perché possa votare, senza che nessuno lo molesti”. “Eppure sapevano
bene - commenterà don Calabria - che non avrei dato il voto al loro partito!”.
Il 1907 cessa la giunta clerico-moderata e cominciano le giunte prima dei radicali e poi dei
socialisti. Nelle elezioni parziali del 7 luglio 1907 si trattava solo di assegnare 23 posti su 60 e
19 andarono ai radical-socialisti e 4 ai clerico-moderati. E così gli equilibri furono sconvolti. Si
trovarono in Consiglio Comunale 27 socialisti, 24 radicali, 7 cattolici e 2 repubblicani come
rappresentanti dell’opposizione40.
La nuova maggioranza radical-socialista con il sindaco democratico-radicale, direttore
dell’“Adige”, Luigi Bellini Carnesali, durò un anno solo. L’anno dopo subentrò Eugenio
Gallizioli, sempre radicale. Ma già il 3 ottobre del 1907 era stata assunta una delibera proprio a
dispetto del mondo cattolico. Le scuole elementari allora dipendevano dal Comune, che decise
la soppressione dell’insegnamento della religione. Eppure era richiesto dalla stragrande
maggioranza della popolazione. Esistono ricerche ben precise del tempo. Il cattolico deputato
Alessandro Stoppato, rifacendosi a queste ricerche, disse che il 90% chiedeva la religione41.
La delibera comunale avrebbe trovato un sostanziale avallo nel Regolamento del Ministro Rava
(febbraio 1908), con la formula, lodata da Giolitti stesso, delle tre libertà: liberi i genitori di far
fare religione o no ai figli, libero il Comune di pagare o no l’insegnamento della religione, liberi
i maestri di insegnarla o no. In realtà la libertà dei genitori era solo formale, come la libertà che
hanno i cittadini oggi di aprire proprie scuole “senza oneri per lo Stato”. Non è una libertà
sostanziale, se non è anche economica. Precedentemente il regolamento prevedeva che i maestri
che non volevano insegnare religione fossero penalizzati di un 5% dello stipendio, da dare a
quelli che venivano ad insegnare religione al loro posto. Col nuovo regolamento, invece, i
maestri divennero del tutto “liberi”, senza alcuna penalizzazione di carattere economico, e molti
rinunciarono a far religione.
Chi era più penalizzata? Era la famiglia, perché se il Comune diceva di no e il maestro diceva di
no, il Comune era tenuto solo a prestare l’aula e i genitori dovevano pagarsi l’insegnante di
religione.
39
Cfr. V. COLOMBO, Cronache politiche veronesi 1866-1900, Cierre, Verona, 1996, pp. 173-184.
Cfr. M. ZANGARINI, Verona 1900-1913. Politica e amministrazione in età giolittiana in R. CAMURRI (a cura di),
Il comune democratico. Il Veneto in età giolittiana, in corso di stampa presso l’ed. Marsilio di Venezia.
41
Cfr. E. BUTTURINI, La religione a scuola. Dall’Unità ad oggi, Queriniana, Brescia, 1987, pp. 47-48.
40
Nel frattempo ci furono le elezioni politiche del 1909 con la sconfitta dei radicali e dei socialisti
e la vittoria, per la prima volta, non solo dei clerico-moderati, ma di un cattolico di chiaro
stampo: l’avvocato Gian Battista Coris, il primo deputato cattolico veronese.
Successivamente nel Comune di Verona vi furono amministrazioni del tutto socialiste. I
socialisti avevano il 75% dei seggi, anche se non avevano certo il 75% dei voti e si ebbero come
sindaci Tullio Zanella (1914-1920) e Albano Pontedera (1920-1922). Poi seguirono i podestà
fascisti, ma qui mi fermo.
I cattolici, rotta l’alleanza coi moderati, decisero di fare minoranza a sé, opponendosi sia ai
liberali che ai socialisti. Sembrerebbe una scelta interessante, ma era divenuta una scelta…
obbligata. Nella diocesi di Verona, dall’aprile al luglio del 1907, ci fu un Visitatore apostolico,
nella persona del domenicano Pio Tommaso Boggiani, perché si era giudicata eccessiva la
repressione anti-modernista. Il Visitatore aveva concluso che il Vescovo aveva sbagliato ad
appoggiare così decisamente i clerico-moderati. Però, purtroppo si era ormai dissolto il “fascio
democratico-cristiano”, formato da giovani cattolici che avevano dato vita ad una unione
democratica cristiana, ispirata alle idee di Murri. Fu colpito duramente il capo di questi giovani,
Antonio Avena (1882-1967). Un po’ mi spiace che sia stato sottratto al mondo cattolico uno che
allora era molto convinto di lavorare con la Chiesa e che divenne un protagonista della vita
culturale veronese. Fu lui a restaurare il museo Maffeiano, il museo archeologico del Teatro
Romano, il museo di Castelvecchio, la galleria Forti, e ad inventare anche la Casa e la Tomba di
Giulietta, importantissima dal punto di vista turistico… commerciale. Era un personaggio
vitalissimo, che sarebbe stato utile mantenere nel mondo ecclesiale. Purtroppo in questo
momento la Chiesa si trovava su posizioni di chiusura decisa di fronte al mondo moderno.
Pio X è orientato a vedere pericoli ereticali nelle nuove posizioni che emergono in gran parte del
mondo cattolico e che si tende a condannare con un termine solo: “modernismo”. Certo, il Papa
era soprattutto preoccupato di nuove forme di esegesi biblica, ma poi le sue preoccupazioni si
estesero anche al piano dell’analisi storica e delle indicazioni etiche e politiche.
Di qui le prime condanne, con il decreto “Lamentabili” e l’enciclica “Pascendi” del 1907, e la
dura repressione, che ebbe tinte più forti a Verona e, ancor più, a Vicenza, dove i fratelli
sacerdoti Scotton vedevano modernisti dappertutto. Anche Mons. Manzini, che era il grande
capo del movimento cattolico veronese allora, “la pupilla dell’occhio del mio clero” – diceva lo
stesso Vescovo, severamente antimodernista, Bacilieri – venne accusato di modernismo dai
monsignori Scotton, ma difeso dal suo Vescovo.
Durissima, quindi, la repressione che colpì in modo particolare i giovani già membri del fascio
democratico cristiano. Questi giovanotti venivano bollati come “falsi fratelli, che sotto
l’apparenza della pietà e dello zelo, vorrebbero riformare perfino l’Evangelo, rimaneggiare la
fede e la morale. Sono diventati corifei dei modernisti, già fulminati e smascherati dal papa Pio
X con l’immortale enciclica “Pascendi”, profeti falsi che professano, quale dottrina evangelica,
il compendio di tutte le eresie: il modernismo”42.
Qualcun altro si mosse in modo diverso. É Giovanni Uberti (1888-1964) già attivo in quel
tempo. Fu lui a far eleggere nel 1909 Coris con il suo attivismo di giovane. Si laureò in legge a
Padova nel 1912, ma l’anno prima aveva conseguito la licenza in Scienze politiche e sociali
dell’Università cattolica di Lovanio. Anche don Giuseppe Zamboni (1875-1950) avrebbe voluto
andarci, ma Bacilieri gli disse un no secco. Andò a studiare a Lovanio anche l’isolano padre
Giulio Bevilacqua, che era un filippino. Cosa voleva dire allora andare a studiare a Lovanio, in
Belgio? Voleva dire andare in uno stato che, a differenza dell’Italia, vedeva l’armonia fra
cattolici, laici, democratici e talora anche socialisti e vedeva già il voto universale esteso anche
alle donne. Il Belgio era proprio una punta avanzata del mondo cattolico. Mons. Gioacchino
42
Per questa dura posizione del Vescovo card. Bacilieri cfr. O. VIVIANI, Il cardinale Bartolomeo Bacilieri Vescovo
di Verona, Ghidini e Fiorini, Verona, 1960, p. 164.
Pecci era stato Nunzio apostolico in Belgio, ben prima di essere eletto papa col nome di Leone
XIII, non è un caso che avesse orientamenti abbastanza aperti su tanti problemi sociali.
Uberti si era buttato dapprima a lavorare nel mondo operaio, ma poi si accorse che era meglio
lavorare con il mondo contadino, anche se poi fu eletto, con altri 11 cattolici, membro del
Consiglio comunale di Verona nelle amministrative del luglio 1914. Nel settembre di quello
stesso anno vi fu in Consiglio comunale un famoso dibattito (ripreso anche dalla stampa
nazionale) su una proposta di Uberti e degli altri consiglieri “cattolici”. Si trattava di risolvere
una volta per tutte il problema dell’insegnamento della religione nelle elementari (che a Verona,
come in numerose altre città del Nord, dipendevano ancora dal Comune), dividendo ogni plesso
scolastico in corsi paralleli, diversamente caratterizzati sul piano ideologico-culturale e con
possibilità di opzione da parte dei genitori e dei maestri. Per le famiglie cattoliche in tal modo
l’insegnamento non si sarebbe ridotto a catechismo, ma avrebbe potuto – per dirla con il
Toniolo – “zampillare da tutti i rami di studio”. Alla fine la proposta fu bocciata (con 35 voti
contrari e 11 favorevoli), non senza critiche anche da parte dei cattolici, di quelli, ad esempio,
della rivista fondata dal beato Giuseppe Tovini “Scuola Italiana Moderna”43.
Poi ci fu la guerra, che pure sarebbe un momento interessante da approfondire. Don Calabria è
vicinissimo alle posizioni del Papa e scrive dei foglietti su “La guerra e il Papa”. Anche il
nuovo Papa, Benedetto XV, era contrarissimo alla guerra; l’aveva definita: “inutile strage”, che
è la frase che più o meno conoscete tutti, ma la definizione più significativa che usa è: “orrenda
carneficina che disonora l’Europa”: una espressione ancora più forte perché “inutile strage” fa
pensare che ci possano essere anche stragi utili.
E don Calabria si faceva eco di queste posizioni, così come Elena da Persico nella sua rivista
mensile “Azione muliebre”.
Passò la guerra e tornò il tempo della democrazia. Don Sturzo fondò nel 1919 a Roma il
“Partito Popolare”. Nel 1915 Uberti aveva fondato a Verona il giornale il “Corriere del
Mattino”, che sarebbe divenuto l’organo del Partito Popolare locale, fino al ’26, quando sarebbe
stato soppresso dai fascisti, che avevano distrutto varie volte la tipografia. Già il 25 gennaio
1919, specie per l’impulso di Uberti, sorgeva a Verona il Partito Popolare, accanto però al
“Fascio di combattimento”, fra i primi ad essere promosso in Italia44.
Al primo congresso provinciale del 16 marzo 1919 è presente anche don Sturzo che parla del
Partito Popolare come di un partito a forte contenuto democratico, ispirato alle idealità cristiane,
ma che non prende la religione come elemento di differenziazione politica, riecheggiando
ancora una volta il discorso che aveva già fatto, nel 1905, a Caltagirone. Il successo arride subito
ai cattolici nelle prime elezioni (16 novembre 1919). Vengono eletti due deputati, l’avv.
Giambattista Coris e il conte Ugo Guarienti, presidente dell’Azione Cattolica. Nelle elezioni del
maggio 1921, vengono eletti tre popolari, Coris, Guarienti e Uberti, quattro socialisti e un solo
fascista.
Il fascismo aveva già mostrato il suo volto violento anche a Verona.
Già nel 1920 vi erano state le prime manovre proprio contro la sede del Comune, il palazzo
Barbieri e contro il sindaco socialista Pontedera, e nel 1922, proprio lo stesso giorno che
ufficialmente è quello della marcia su Roma, Achille Starace, insieme con Italo Bresciani ed
altri fanatici fascisti veronesi, occupò la città, fece la marcia su Verona45. Ma si è convenuto di
fermare qui il discorso, almeno per questa volta.
43
Cfr. BUTTURINI, La religione a scuola, cit., pp. 41-42, 49 e 57.
Il Fascio di Combattimento a Verona fu considerato dai fascisti locali come terzogenito, dopo Milano e Torino.
Tra i rappresentanti più in vista troviamo Alberto De Stefani, poi deputato d’assalto dei fascisti e Ministro delle
finanze di Mussolini e il direttore dell’“Arena” Giovanni Cenzato.
45
Cfr. M. ZANGARINI, Politica e società a Verona in epoca fascista. Studi e ricerche, Cierre, Verona, 1986, p. 83 e
pp. 128-129.
44
Ora entro a parlare, se pur brevemente, delle istituzioni educative di questo stesso periodo,
concludendo con alcune riflessioni sulla cosiddetta pedagogia calabriana.
Ricordiamo anzitutto che don Calabria “pianta il cavolo”, come dice lui, il 26 novembre 1907 in
Vicolo Case Rotte, con 6 bambini che diventano presto 8 “Buoni Fanciulli”. La proposta di
chiamarli così è di don Diodato Desenzani. Tra l’altro notate che l’espressione “Casa”, per
indicare un istituto educativo, era un’espressione di “moda” nella pedagogia di allora. Sarebbe
interessante sapere se era conosciuta dai nostri la “Casa dei bambini” della Montessori, che è
fondata proprio nello stesso periodo. Dalle Memorie di Desenzani vediamo che si sorvola sul
termine “casa”, che è essenziale invece nella proposta montessoriana, mentre ci si sofferma
sull’espressione “buoni fanciulli” non perché si voglia parlare di persone “incapaci di fare il
male” ma di persone “intelligenti” e perciò “educabili a fare il bene”46.
Sarebbe, comunque, interessante studiare la Montessori che ha scritto libri bellissimi anche sul
metodo di insegnamento della religione. Questi ultimi lavori furono difesi dallo stesso papa
Benedetto XV contro i Gesuiti de “La Civiltà Cattolica” che l’avevano criticata.
Con l’assistenza del giovane Attilio Negrini, del giovane Gigio Adami e del curato di San
Giovanni in Valle, don Diodato Desenzani, cuoco, direttore e, dopo alcuni mesi nei quali i
Buoni Fanciulli avevano frequentato le pubbliche scuole comunali di Santa Maria in Organo,
anche maestro parte l’attività della “Casa Buoni Fanciulli”.
Di fronte alle perplessità del vescovo, che lo apostrofa: “Ma cosa ti metti a fare adesso!”, don
Giovanni si getta in ginocchio e dice: “Se Lei mi ordina di chiudere, domani stesso io chiudo”.
A questo punto il Vescovo va in crisi. Dice: “No, no, vai avanti, vai avanti!” e a tutti quelli che
lo criticavano diceva: “Sto alla finestra a guardare”47.
Intanto muore Angela Foschio, la mamma, l’8 maggio 1908.
Dieci giorni dopo don Giovanni sale a San Zeno in Monte insieme all’avvocato Coris per un
sopralluogo.
I bambini erano diventati 19 e alle Case Rotte non ci stavano proprio più, di qui la ricerca di una
nuova sede. Intanto si portano i ragazzi in vacanza vicino a Costermano, località “Baesse”,
vacanza che si prolungherà fino a novembre per far terminare i lavori a San Zeno.
In una gita alla chiusa di Ceraino, presso la locale osteria, con pane, salame e un buon boccale di
birra, don Giovanni propone il primo testo delle “Sante Norme”.
Ci sono davanti a lui tre ascoltatori: Perez, che l’anno dopo entrerà come Povero Servo,
Gigio – don Luigi Adami – che era il giovane che suonava l’armonium a San Benedetto al
Monte e don Diodato Desenzani.
6 novembre 1908, 90 anni fa: si fa l’ingresso a San Zeno in Monte.
I ragazzi da 20 diventano 30, 80, 100 in poco più di un anno, poi 150, numero quasi costante
fino all’avvento del fascismo.
Poi entrano i vari Massimo Besozzi, Marchi, Fenzi, il conte Perez e, il 17 aprile del 1910, la
prima sorella, Angelina De Battisti.
Intanto fra il 1910 e il 1911, nascono i reparti di tipografia, con don Zanetti, che sposta a S.
Zeno la sua “Piccola Opera”, di legatoria, calzoleria, falegnameria e sartoria.
Nel 1911, don Diodato lascia l’Opera, a cui resterà sempre legato e a cui nel 1932, cederà la
preziosa eredità dell’UMMI (Unione Medico Missionaria Italiana).
Don Diodato stima e ama don Calabria, ma è in netto contrasto per quanto riguarda la piena
parità dei laici e dei sacerdoti dentro l’Opera48.
46
Cfr D. DESENZANI, Memorie in “Orizzonti Nostri. Quaderni di studio a cura dello Studentato D. Calabria”,
settembre 1966, n. 5, pp. 10-11. Si tratta di un testo ad uso manoscritto, contenuto nell’Archivio Generale dei
Poveri Servi della Divina Provvidenza. Scritto nel 1950, tale testo contiene anche, qua e là, note di commento,
puntuali e precise, di un testimonio della prima ora come don Luigi Adami.
47
Cfr. O. FOFFANO, Don Giovanni Calabria, Congregazione dei P.S.D.P., Verona, 1981, Va edizione, p. 112.
Anche nelle notizie seguenti mi atterrò sostanzialmente a questo autorevole testo, curato dalla Postulazione della
Causa.
Nel 1914 arriva don Pedrollo a sostituire provvidenzialmente il giovanissimo, prematuramente
scomparso, don Giuseppe Ambrosini, di cui pure è iniziata la causa di beatificazione.
Nel 1923 giunge a Verona il “Vescovo della Provvidenza”, mons. Girolamo Cardinale. Il nuovo
Vescovo accetta che i chierici vengano utilizzati per l’Opera, pur essendo incardinati nella
diocesi di Verona. É una formula che risolve tanti problemi per l’Opera.
A Verona erano molto diffuse le scuole elementari comunali con la vittoria ormai quasi
completa, rispetto a tante zone d’Italia, sull’analfabetismo, grazie anche alla precedente
tradizione austriaca.
Ridotte invece le scuole successive alle elementari: il ginnasio inferiore; le tecniche inferiori
(pochi numeri insomma) per non parlare delle tecniche superiori e del liceo classico, secondo un
ritardo generalizzato nel nostro paese, che paghiamo ancora oggi.
Pensate un po’ che nel 1901 noi abbiamo una percentuale di scolarizzazione, fra i 14 e i 18 anni,
pari allo 0,28% dei giovani, ma già allora negli USA si aveva oltre il 10%. Oggi gli USA
superano l’80% e l’Italia sta lentamente avvicinandosi al 60%.
Riconosciamo a merito dell’amministrazione radical-socialista del 1907-1914 di aver
provveduto ad istituire una scuola di avviamento industriale, che avrà poi un seguito nell’Istituto
Tecnico Industriale.49
Per avere qualche dato numerico dell’afflusso di studenti nelle scuole medie e medie superiori
ho fatto una piccola ricerca d’archivio presso il Ginnasio-Liceo Maffei, ricostruendo una media
di 400-500 allievi all’anno nel I Ventennio del ‘900, dalla I ginnasio alla III Liceo. Di questi il
75% erano di città e il resto della provincia, soprattutto da qualche comune come Isola della
Scala.
Passiamo alle scuole non statali, nella totalità cattoliche: vi è l’Istituto don Mazza, con un
superiore prestigioso, come il direttore della Capitolare Don Antonio Spagnolo, che riesce anche
a fare lavori importanti: nel 1909 inaugura il nuovo edificio del femminile e nel 1915 era già
pronto quello maschile, ma fu sequestrato dall’esercito come ospedale. Sarà inaugurato parecchi
anni dopo, dopo l’improvvisa morte del Superiore Spagnolo. Il collegio femminile ha una certa
funzione ancora importante. Nel 1909, ad esempio, accoglie molte ragazzine orfane del
terremoto terribile di Reggio e Messina, 80-90 mila morti, un terremoto spaventoso, fra i più
catastrofici di tutta la storia.
Don Spagnolo accoglie molte di queste orfanelle, però muore improvvisamente nel 1915, per
una semplice ernia. A lui subentra don Emilio Crestani come superiore e il giovanissimo Don
Pietro Albrigi, che era stato mandato a studiare al Capranica di Roma, come rettore del
maschile, in grado di far riprendere quota e rilanciare l’Istituto maschile.
Per gli Stimmatini, o bertoniani, come preferiscono chiamarli a Trento, si deve ricordare che
avevano chiuso le scuole, perché molti di loro in quel tempo erano trentini e i professori trentini,
appartenenti quindi all’Impero austo-ungarico, erano sgraditi al governo italiano, perché ormai
si stava andando verso una diversa politica delle alleanze internazionali. Quindi si dovettero
chiudere le scuole, ma, sorse un patronato operaio, nel 1904, che nel giro di pochissimo tempo
raggiunse i 1300 giovani, con scuole di carattere professionale del tutto private: meccanica,
elettrotecnica, automobilismo (25 patenti all’anno), computisteria, ma anche musica, ginnastica,
48
Cfr. D. DESENZANI, Memorie, p. 20 in una nota di commento di don Adami, che ricorda in particolare gli
“scontri” fra il “poetico” Desenzani e il “prosaico” Besozzi, con “caustiche” osservazioni, specie da parte di
quest’ultimo.
49
Cfr. E. PERBELLINI, Cenni sulla vita economica, sociale e politica a Verona, dalla fine dell’Ottocento alla prima
guerra mondiale, in Don Bosco a Verona, LES-LDC, Verona, 1991, p. 35.
religione, con docenti come: don Giuseppe Zamboni, che era stato sollevato dall’incarico di
docente di religione al Maffei, e Massimo Besozzi50.
Ma la più importante scuola, che si potesse chiamare scuola a tutti gli effetti, era quella di Don
Bosco, sorta a Verona nel 1891 e a Legnago nel 1896, con il San Davide. Nell’anno scolastico
1893-1894 troviamo 40 allievi, nell’anno seguente, 150, nel 1895-1896, era partita anche la
scuola professionale (cioè non solo elementari, superiori e il ginnasio) ma anche gli artigiani:
sarti, calzolai, falegnami ecc., per raggiungere i 200 all’inizio del nuovo secolo e poi 300. Si
arriverà a 500 solo negli anni Trenta.
Fra i primi ex allievi dei salesiani, ben noti a Don Calabria, troviamo mons. Pietro Frtiz, mons.
Emilio Claudio, mons. Antonio Zignoli 51.
Fra le scuole femminili troviamo le Canossiane: scuole elementari e di perfezionamento dopo le
elementari già dal 1891-1892 e dal 1899-1900 la scuola normale, con magistrale inferiore e
superiore di 3 anni ciascuno52. Insieme con le Canossiane facevano scuole normali Campostrini,
che, nel 1836, erano state le prime ad attuare le scuole di metodo a Verona, molto prima dello
Stato. Avevano le Magistrali inferiori e superiori. Queste ultime solo a partire dal 1923 (Riforma
Gentile) diventeranno l’Istituto Magistrale con l’aggiunta di 1 anno alle magistrali superiori e
con l’obbligo dello studio del latino.
Non posso dimenticare infine l’Istituto Seghetti, se non altro per il convitto e le scuole nelle
quali, oltre alla già ricordata Angelina De Battisti, aveva studiato nel I ventennio del ‘900 anche
mia madre, Lucia Brangani. Nel 1907 l’Istituto aveva acquistato la sede attuale di Piazza
Cittadella, mentre le Figlie del S. Cuore di Gesù della beata Teresa Eustochio Verzeri avevano
accettato l’unione con le “signorine Seghetti” (“25 postulanti dai 24 ai 72 anni, più le vecchie
che le giovani”). Le allieve delle scuole nel novembre di quello stesso anno erano 90 e
diverranno circa 150 nel 1914, anche se solo di scuole elementari e complementari. Le educande
“allieve maestre” dovevano frequentare allora il vicino Istituto statale “Carlo Montanari”,
poiché solo nel 1934 partiranno le magistrali superiori interne53.
Mi resta da dire qualcosa sulla “pedagogia” di don Calabria.
Parto con l'osservazione che, dopo aver letto vari scritti di e su don Calabria, fra cui quattro tesi
di laurea, alcune anche ricche di spunti e di stimoli, come quella del qui presente Stefano
Marina, io ritengo che il giudizio di don Ottorino Foffano, ultima edizione, sia quello che
sintetizza meglio in poche pagine, il cosiddetto sistema pedagogico calabriano, magari parlando
semplicemente di “stile educativo del Padre”54.
Nelle edizioni precedenti si faceva riferimento a vari educatori cattolici e si parlava di San
Girolamo Emiliani, San Filippo Neri, San Giuseppe Calasanzio, San Giovanni Bosco. Ci sono
certamente plausibili coincidenze, e forse ancora più plausibili se pensiamo ai fondatori ed
educatori veronesi: padre Bellavite, padre Cesari, San Gaspare Bertoni, don Mazza, santa
Maddalena di Canossa, ecc. Ma probabilmente qualcuno avrà spiegato a don Foffano che è
meglio lasciar perdere con questi generici paragoni, magari accostandolo più all’Emiliani e al
50
Devo queste notizie ad una lunga lettera che mi ha scritto il noto studioso stimmatino p. Nello Dalle Vedove e ad
una Relazione a stampa sull’attività del Patronato nel 1908-1909, stesa dal Direttore p. Luigi Fantozzi (1870-1953),
fattami pervenire dal medesimo Dalle Vedove.
51
Cfr. V. POJER, I Salesiani a Verona in un secolo di storia (1891-1991), in Don Bosco a Verona, cit., specie pp.
41-58.
52
Devo queste notizie alla cortesia di madre Natalina Coeli, che ha verificato la presenza in Archivio di una
Relazione al Provveditore agli Studi del 1898 e di alcuni certificati di “maturità” di maestre tirocinanti del Primo
Novecento. Questi ultimi però provano soltanto che le maestre elementari potevano compiere il loro tirocinio nelle
scuole delle Canossiane.
53
Cfr. P. BRUGNOLI, A. MANARA, Nella città – Nel tempo. Le Figlie del Sacro Cuore di Gesù dell’Istituto Seghetti
di Verona, Tip. Novastampa, Verona, 1991, specie pp. 73-93. In quest’ultima pagina, fra l’altro, si ricordano le
frequenti visite di don Calabria all’Istituto (o delle allieve allo stesso don Calabria), quasi sempre, del resto,
segnalate puntualmente nei vari anni, a partire dal 1920.
54
Cfr. O. FOFFANO, Don Giovanni Calabria, cit., pp. 353-355.
Calasanzio che non al Filippo Neri e a Don Bosco, perché “non era della sua indole partecipare
ai giochi dei ragazzi” - come diceva don Foffano nelle edizioni precedenti e come confermerà
anche don Diodato Desenzani sette giorni prima di morire55. Ci sono delle foto che
contraddicono questo, che fan vedere invece come fosse capace anche di mettersi in mezzo ai
ragazzi.
Comunque non sono queste le caratteristiche della sua azione educativa. “Nulla di
cristallizzato – per dirla ancora con l’ultimo Foffano - di sistematico… solo un vivere con un
suo tono, un suo stile, vitale e duttile, ogni giorno diverso, diverso con ogni anima... Nulla di
sistematico ma nulla di empirico... chiare le mete educative e i mezzi per raggiungerle”.
Nelle stesse “Regole fondamentali della Congregazione” si insiste sulla paternità e maternità di
Dio (si può dire che don Calabria sia uno dei primi ad usare già l’espressione “maternità”), da
far sperimentare ai suoi figli, poiché missione fondamentale dei Poveri Servi e delle Povere
Serve è mostrare che la Divina Provvidenza esiste davvero, che Dio è Padre davvero e che agli
uomini non resta che cercare il Suo Regno e la Sua Giustizia, aspettandosi tutto il resto in
aggiunta.
“Bontà, bontà, specialmente con i nostri ragazzi, che vedano e capiscano”, dice don Calabria. E
qui, scusate, è proprio il Leit-motiv di don Bosco. Io credo che don Giovanni, quello sì, lo
conoscesse, perché ormai i Salesiani a Verona c’erano e contatti credo che si siano stabiliti.
Parla della centralità, don Bosco, dell'amorevolezza degli educatori, che non solo devono amare
i giovani, ma far vedere loro tale amore e i giovani non solo essere amati ma rendersi conto che
sono amati56.
Così, se c’era un nuovo venuto o uno che era stato rimproverato, don Giovanni prima che
andasse a letto lo chiamava per confortarlo, per dargli magari una caramella, aggiungendo una
breve filastrocca, in dialetto: “dormi co i oci, sponsa coi zenoci, meti le man sul sen e pensa che
don Giovani te vol ben”.57
Dire, dunque, al giovane che lo si ama davvero, anche se si è dovuto rimproverarlo per qualche
cosa che non andava. D'altra parte, se l’educatore è colui che deve scoprire il “dono di Dio che
c’è in ogni uomo, collaborando a suo modo, come ogni lavoratore del resto, a completare la sua
Creazione, che è dono e dono di amore, non può che amare, come Dio ama. Più che insegnare
ad educare, educava, e più che educare amava. Dio è il principale agente dell'educazione” - qui
non lo cita di certo don Calabria - ma ci sono delle pagine bellissime di Kierkegaard che insiste
sulla teo-didassi più che sull'auto-didassi (il “maestro interiore” diceva già S. Agostino).
L’educatore, per essere all’altezza della situazione, deve trovare Dio in se stesso, deve
autoeducarsi verso Dio per guidare gli altri su questo cammino: è un altro dei Leit-motiv
calabriani, quello della esemplarità dell’educatore.
Don Calabria ama l'espressione: “essere conche e canali nello stesso tempo”. É un’espressione
del Commento al Cantico dei Cantici (In Canticum, 18) di San Bernardo di Chiaravalle. Siamo
nel XII secolo. “Guai ai pastori - dice S. Bernardo - che sono canali senza essere prima conche.
Trasmettono parole che non zampillano dalla loro vita”.
Analogamente oltre 500 anni prima, papa Gregorio Magno aveva detto: “La spada della parola
di Dio deve passare attraverso noi stessi se vogliamo che colpisca il cuore dei nostri fratelli”.
Nessuna tecnica didattica potrà mai sostituire la mancanza di passione educativa, perché si tratta
per don Calabria di creare convinzioni chiare e profonde, non solo trasmettere conoscenze. Sono
geniali queste posizioni? Forse no, ma fermamente consequenziali rispetto ad una scelta di
pensiero e di vita.
55
Cfr. O. FOFFANO, Don Giovanni Calabria, Regnum Dei Ed., Verona, 1959, IIa ed., pp. 474-477. Cfr. poi la
deposizione del Desenzani il 6-7 giugno 1960 in Positio…, cit., pp. 334-335.
56
Cfr. G. BOSCO, Lettera 10 maggio 1884, ed. critica a cura di P. BRAIDO, Las, Roma, 1984, pp. 55-56. Cfr. p. 39.
57
Cfr. O. FOFFANO, Don Giovanni Calabria, IIa ed., p. 477.
Anche l’insistenza sulla piena parità fra sacerdoti e fratelli nell’Opera, che gli procurò fin
dall'inizio critiche e dolori, compresa la visita apostolica dell’abate Caronti, conferma la sua
essenzialità e consequenzialità evangelica.
La stessa sua faticosa vicenda di studente, che non voleva sacrificare agli studi il suo quotidiano
e per lui indifferibile impegno di fraternità per i poveri infermi o per i bambini abbandonati, lo
porta a dire con forza e a testimoniare che non occorre essere prete per essere un vero cristiano e
quindi per essere Povero Servo o Povera Serva. Qui a me è venuto in mente uno scritto del pieno
Medioevo di una donna formidabile, Eloisa, che parlando al suo superiore religioso, ma che era
stato anche il suo amante, quello che gli aveva dato il figlio Astrolabio, gli dice: “Utinam ad hoc
nostra religio conscendere posset, ut evangelium impleret non trascenderet ne plusquam
Christiani appeteremus esse” (Ah, se la nostra religione a questo mirasse: di applicare il
Vangelo, non di superarlo, non volendo essere se non veri cristiani)58.
Così scriveva Eloisa, ma è un motivo che poi ritrovate in Angela Merici, in Erasmo da
Rotterdam, in tanti cristiani del periodo della Riforma cattolica che insistono: niente diete
particolari, niente vestiti particolari, cerchiamo di essere Vangeli viventi, che è un altro dei
Leit-motiv calabriani.
Le priorità del messaggio educativo e religioso di don Giovanni le ha ben indicate il futuro card.
Bevilacqua nella prefazione all’Instaurare Omnia in Cristo: “Pagine crude, dure, testarde,
perché non fanno altro che richiamare all'essenziale: prima l'adorazione di Dio e poi le
devozioni, prima la Sacra Scrittura e poi le testimonianze umane, prima l’anima e poi il corpo,
prima l’eternità e poi il tempo, prima il pensiero e poi il sentimento, prima la fiducia e poi il
timore, prima la verità e poi la diplomazia, prima la preghiera e poi l'azione, prima la fede e poi
il denaro, prima la Provvidenza e poi la previdenza, prima il lavoro e poi il capitale, prima il
povero e poi il ricco, prima la famiglia e poi lo stato”.
Mi pare davvero che questo brano colga l'essenza del discorso di don Calabria: il “non multa,
sed multum” di Quintiliano, che vuol dire “non molte cose, ma molto dell’essenziale”.
Allora, tutti gli altri tratti della “pedagogia calabriana” li cito appena e rapidamente.
Sono ripresi costantemente in tutte le tesi, non dico niente di originale: dal forte senso di
paternità e di maternità conseguono motivi come quello dello “spirito di famiglia” (si parla non
di collegio o di istituto, ma di “Casa Buoni Fanciulli”, superiore è il “Casante”, ecc.).
Qui c’è un altro messaggio, molto caro anche ad Elena da Persico, della centralità della vita di
gruppo e della educazione a vivere insieme, con l’nsistenza sul compatirsi a vicenda, sul
comprendersi, sull’accogliersi, offrendo al mondo lo spettacolo di persone che si vogliono
davvero bene (è il messaggio della prima lettera di Giovanni), partendo però dalla stima
profonda per ogni persona e dal rispetto assoluto anche del bambino. Penso che don Giovanni
avrebbe apprezzato la critica di un medico-pedagogista polacco, ucciso a Treblinka dai nazisti
nel 1942, Janusz Korczak, a proposito di certi genitori che tendono a considerare i bambini
come cagnolini da grembo o da salotto, da adornare di nastri e da portare a spasso e poi mostrare
agli amici nel salotto o in passeggiata, salvo ad invitarli ad un certo punto, quando disturbano ad
andare a letto oppure a giocare o a studiare, a non “rompere” insomma più di tanto59. Anche il
bambino invece dev’essere rispettato come persona, con la propria individualità, con attitudini e
inclinazioni, tendenze e aspirazioni, ritmi, modi e tempi di maturazione diversi (è il discorso
pedagogico fondamentale della individualizzazione o meglio della personalizzazione). Si tratta
di rispettare davvero le scelte personali di tutti, a costo di lasciare andare e venire dall’Opera
uno come Besozzi. Rispettare in particolare l’intimità della coscienza “non entrando mai – come
58
Così nell’epistola VI secondo il testo del Migne (PL, t. 178, cc. 216-217), ripreso in ABELARDO ED ELOISA,
Lettere, Einaudi, Torino, 1982, p. 240.
59
Cfr. J. KORCZAK, Come amare il bambino, Luni, Milano, 1996, p. 73.
diceva ai suoi collaboratori – nel santuario della coscienza. Questa la formerete con il vostro
esempio e non con le vostre indagini.”
“Nessun sacerdote della Casa confessi i ragazzi della casa, nessun ragazzo saluti dicendo: “Sia
lodato Gesù Cristo”, perché potrebbe essere restìo a professare questo nome.”
Rispetto massimo, quindi, veramente. É particolare la cosa!
“Cercate le loro anime, non le loro grazie esteriori, non accarezzate, ma nemmeno percuotete, e
questo mai e in nessun modo. State però attenti che un eccesso di amore non finisca per
soffocare gli spiriti. Le percosse avviliscono l’educatore, sono una prova della sua debolezza,
del suo fallimento”.
Il che però non significa rinuncia ad ogni forma di castigo, perché si tratta ciascuno da persona,
che, se sbaglia, sente il bisogno di rimediare, per riconciliarsi con gli altri. Il castigo può essere
recepito come indice di vera accettazione, mentre un’indulgenza eccessiva – oggi di moda – può
divenire indice di indifferenza e di “disconferma”. Si tratterebbe della falsa libertà di lasciare a
ciascuno di fare quello che vuole “tanto non ci interessa niente di quello che fa”, che è tutto il
contrario di quello che propone don Giovanni per il quale, peraltro, “il castigo non è pane, ma
medicina. Se ne dà poca e solo quando ce n’è stretto bisogno”.
Si devono poi evitare i castighi collettivi. Meglio sbagliare perdonando un colpevole che
sbagliare colpendo un innocente.
Questo comporta un’attenzione continua personalizzata, quasi un “accompagnamento” (come si
amava dire qualche tempo fa), ma don Giovanni amava un altro termine: “vigilare”, “vigilanza”.
Non è brutto, indica qualcosa di meglio che sorveglianza, sorvegliare. Vi è, intrinseco, un senso
di più intelligente amore, e poi c’è l’idea dell’attesa e della pazienza.
S. Francesco di Sales diceva che per insegnare occorre sì una buona dose di conoscenza, e
ancora più abbondante di sapienza, ma che soprattutto occorre, un oceano di pazienza. “Si
tratta – aveva tradotto da Lacordaire don Francesco Bricolo, il rettore dell’Istituto Mazza fino al
1865 – di un controllo discreto e amoroso, che però porta la tua presenza sempre vicino alla
persona, di una prevenzione frutto della tenerezza, come fanno i padri e le madri, la cui
sollecitudine è sempre desta per preservare e prevenire l’errore, così da non averlo mai a
punire”.60
“L’educatore – dice don Calabria – è come il Buon Pastore, che non dorme se tutte le sue pecore
non sono al sicuro, e va in cerca della pecora sperduta, non con un bastone, ma con un fascio
d’erba”.
In questa vigilanza costante valgono le piccole cose di tutti i giorni, “perché di piccole cose sono
fatte le grandi”, sia in bene (la santità nelle azioni più che delle azioni), che in male (evitare le
piccole menzogne, le furberie, certe esagerazioni e millanterie puerili, così frequenti nelle
piccole comunità), coniugando impegno intellettuale e fisico (educare attraverso l’educazione
fisica – come diceva don Diodato Desenzani – oppure – come preferiva don
Giovanni – attraverso il lavoro, l’unica penitenza fisica che egli accettava per i buoni fanciulli,
sempre con grande fiducia e immensa pazienza).
“É un gran segreto saper aspettare” amava dire. Ottimismo, positive aspettative verso i ragazzi,
individualmente calibrate, continuando ad offrire chanches anche quando tutto sembrerebbe
indicare di muoversi in altre direzioni. E qui c’è forse una qualche differenza rispetto al Mazza.
Entrambi prediligono i poveri. “Assolutamente esclusi gli altri” diceva il Mazza. “Guai a noi se
curiamo i giovani agiati” diceva don Calabria, mettendo in crisi fr. Perez.
Ma don Mazza, da matematico, voleva andare in fondo al suo esperimento, cioè di trarre dalle
classi più umili non solo santi e colti preti, ma anche eccellenti medici, avvocati, ingegneri.
Per cui ad un certo punto selezionava severamente.
60
Cfr. BUTTURINI, Rigore e libertà, pp. 161-162. Bricolo ha tradotto e scritto vari testi di carattere pedagogico, a
cui potrebbe essersi ispirato anche don Calabria.
“Si farà non piccolo spurgo”, scriveva il Mazza al suo collaboratore don Francesco Angeleri il 7
luglio 1843 a proposito degli studenti universitari della “casa” di Padova,61 mentre don Calabria
faceva una fatica enorme a scartare qualcuno, a lasciarlo perdere.
Vi è a questo proposito un episodio eloquente, ripreso dalla tesi di Marina, ma già pubblicato
sulla rivista “Scuola Italiana Moderna” nel marzo 1955.
“Anni fa, tra i nostri ragazzi ce n’era uno, Marquis, che non faceva bene. Tutti i richiami e i
rimproveri non erano valsi a correggerlo. Si doveva mandarlo via dalla Casa? Ultimo tentativo:
si avverte il Padre. Don Giovanni ascolta e non decide. Prega di ordinargli una carrozza. Fa
chiamare il ragazzo che si presenta timoroso. Don Giovanni non parla, lo fa salire sulla carrozza,
scende in città, percorre le vie più tranquille lungo l’Adige, si ferma dinanzi ai monumenti. Don
Giovanni fa vedere al ragazzo tante belle cose, gli dice tante cose buone e lo conduce a pranzo
da una caritatevole mamma. Poi, tornati a casa, paternamente gli pone la mano sul capo e gli
dice: “Avremmo dovuto mandarti via. Io invece ho fiducia in te e ho voluto premiarti per il bene
che farai d’ora innanzi. É vero?”
Marquis scoppiò in pianto. Da quel giorno fu un altro. Divenne un ottimo lavoratore e rimase
sempre attaccato alla Casa. Or non è molto è ritornato con i suoi piccoli, a ricordare sorridendo
la passeggiata più memorabile della sua vita”.
E questo è un principio pedagogico essenziale: quello delle aspettative positive nei confronti
degli allievi. Se si hanno forti aspettative i ragazzi rendono molto di più. É studiato proprio nella
pedagogia. Si chiama anche con un nome tecnico, “l’effetto Pigmalione”, ma questo ve lo
spiegherò in un’altra occasione.
61
Cfr BUTTURINI, Rigore e libertà, p. 143.
IL LAICO COME LO VOLEVA DON CALABRIA62
Luigi D’Alonzo63
Pretendere di interpretare ciò che don Calabria pensava dei laici è davvero difficile, non
dimentichiamo che egli visse in un determinato periodo storico, sociale ed ecclesiale.
Cercherò un’interpretazione frutto di lunghi anni di vicinanza allo spirito dell’Opera, di
operatività concreta in una sua casa, di studio e riflessione sui libri che don Calabria ispirò, sulle
letture delle sue numerosissime lettere, sui suoi articoli che direttamente scrisse e che ho avuto
la fortuna di leggere e approfondire.
Se c’è una caratteristica che personalmente mi ha sempre impressionato di don Calabria è la sua
capacità di precorrere i tempi.
Pensiamo alla pari dignità fra religiosi sacerdoti e fratelli.
Al fatto di inviare “nel mondo” i ragazzi del patronato all’ex Gil mentre altri istituti
religiosi in quel periodo erano portati a rinchiudere i ragazzi in istituzioni chiuse.
Al fatto di considerare la paternità di Dio ma anche la maternità recentemente messa in
luce da Papa Luciani ed ultimamente da Papa Giovanni Paolo II.
Pensiamo, soprattutto oggi che trattiamo questo tema, alla sua visione dei Laici nel mondo, alle sue idee, che mi
sembrano davvero innovative e che certamente hanno precorso i tempi rispetto a tutto il dibattito conciliare e
postconciliare sui laici.
1. Il Concilio e post concilio
L’interpretazione del termine laikos è stata ed è ancora oggetto di ricerca e discussione tra i
teologi, tra le molte opinioni è opportuno riportare quella che definisce il laico “colui/colei che
appartiene al popolo di Dio” e questa non è definizione da poco perché comprende in sé molti
significati. Se i padri conciliari hanno sentito il dovere di sottolinearlo significa che il problema
esisteva prima del Concilio.
Il Vaticano II è stato, infatti, il primo concilio della storia della Chiesa che ha affrontato la
questione teologica del laico, ed il suo pensiero in proposito è stato enunciato nelle costituzioni
dogmatiche Lumen gentium e Gaudium et spes e nel decreto Apostolicam actuositattem.
Da questi documenti emerge innanzitutto una caratteristica: l’indole secolare.
“La peculiarità del laico consiste nel raggiungere la santità cristiana attraverso le opere
secolari”. (LG)
Questo dà una dignità infinita in quanto esplicitamente si afferma che anche il laico deve
raggiungere la santità, non solo il sacerdote, non solo i vescovi, le suore, il Papa, in quanto “uno
solo è il popolo di Dio; comune è la dignità dei membri per la loro rigenerazione in Cristo,
comune la grazia dei figli, comune la vocazione alla perfezione, una sola salvezza, una sola la
speranza e l’indivisa carità. Nessuna ineguaglianza quindi in Cristo e nella Chiesa per riguardo
alla stirpe o alla nazione, alla condizione sociale o al sesso”. (LG 32)
Nella Gaudium et Spes si afferma, inoltre, che proprio dei laici sono gli impegni e le attività
temporali e sembra decisivo (in GS 43), il superamento di una visione della missione dei laici
nel mondo determinata sostanzialmente dalla struttura ad intra della Chiesa. Il compito proprio
62
63
Relazione tenuta alla 7ª giornata di Studi Calabriani a Verona il 13 marzo 1999
Docente di Pedagogia Speciale all'Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza
dei laici nel mondo si determina attraverso l’esperienza del fare su di sé una “sintesi vitale” tra
operosità umana e beni religiosi, per la gloria di Dio.
“I laici, nella Chiesa, sono veri ministri di Cristo, inseriti a pieno titolo di sacerdozio regale, dal
loro Battesimo, nell’organismo vivo della Chiesa stessa, con il:
1.
diritto e il dovere di essere apostoli di Cristo,
2.
di far conoscere il loro parere su tutte le cose che riguardano la missione della Chiesa
stessa,
4.
di testimoniare il loro senso della fede e la loro grazia della parola,
5.
di partecipare attivamente all’opera della salvezza che è propria di tutta la Chiesa...
6.
annunciare con la vita e con la parola l’Evangelo di Dio è compito di tutti i fedeli, quindi
anche dei laici,che sono anch’essi strumento vivo nel quale si realizza la missione di Cristo... I
laici derivano il dovere e il diritto all’apostolato dalla loro stessa unione con Cristo Capo,
consacrati per formare un sacerdozio regale e una nazione santa, possono assumere anche alcuni
uffici (propriamente) ecclesiastici, come quegli uomini e donne che aiutavano Paolo
nell’evangelizzazione... L’apostolato dei laici non consiste solo nella testimonianza della vita: il
vero apostolo cerca le occasioni per annunciare Cristo con la parola sia ai non credenti sia ai
fedeli... I laici hanno parte attiva nella vita e nell’azione della Chiesa: senza di essi lo stesso
apostolato dei Pastori non può per lo più raggiungere la sua piena efficacia. Vengono affidati
loro dai pastori anche l’esposizione della dottrina cristiana, alcuni atti liturgici, la cura delle
anime...”.
Sui laici, quelle che abbiamo appena letto, sono tutte citazioni esplicite di documenti conciliari,
tratte dalla costituzione dogmatica sulla Chiesa, Lumen gentium, e dal decreto sull’apostolato
dei laici, Apostolicam actuositatem.
L’eredità del concilio trova una sempre più viva consapevolezza negli anni successivi. Mi pare
che sintetizzando tutti i fermenti post-conciliari, tutte le innovazioni e sperimentazioni avvenute
in questi anni possiamo certamente affermare che c’è stato un cammino della Chiesa verso la
laicità.
L’interesse anche degli ultimi tempi si appunta più direttamente infatti sulla laicità della Chiesa,
vale a dire sulla recuperata responsabilità di tutti i battezzati (e non solo dei laici) nei confronti
dell’ordine temporale, abbiamo sempre più la Chiesa che sente il diritto-dovere di intervenire
nel mondo. Ciò comporta il superamento dell’idea di apostolato dei laici come collaborazione
all’apostolato gerarchico della Chiesa, perché in realtà tutti i cristiani, devono cooperare con gli
altri in ordine all’evangelizzazione della società.
È questa l’idea che d’altra parte si evince chiaramente dall’esortazione apostolica Cristifideles
laici (1988) dove la Chiesa e i laici in primis sono sollecitati ad inserirsi laboriosamente e con
partecipazione vitale e responsabile all’interno del progetto di nuova evangelizzazione.
2. Il tema del laico alla luce di alcuni spunti calabriani
“Iddio è spirito e non si può vedere, Cristo è Dio e uomo insieme e nella sua vita ci ha
manifestato la perfezione di Dio, conoscendo Gesù, amando Gesù... Così voi, nel vostro stato di
sposo, di padre, di professionista, di impiegato ecc., dovete manifestare e far conoscere il
Signore nel mondo, con la vostra vita, con il vostro esempio e con quelle regole che
gradatamente andrà sviluppando il Signore, come a poco a poco nell’umiltà, ha sviluppato e
fondato l’Opera dei Poveri Servi”.64
64
G. CALABRIA, Lettera circolare ai Fratelli Esterni del 17.2.1946.
“Ed ecco il compito speciale dei Poveri Servi: riportare nel mondo la fede in Dio, quella fede
viva e operosa che genera la fiducia in lui e nella sua paterna Provvidenza; noi dobbiamo essere
fari accesi nella notte oscura del mondo, da noi si deve irradiare la pura luce di Cristo e del suo
Vangelo, Codice divino per tutti gli uomini e specialmente per noi.
E questa missione è particolarmente vostra, miei cari Fratelli Esterni, che vivete a contatto col
mondo; la vostra vita irreprensibile e santa sia la predica che farete a tutti; poi dite la parola
buona, usate grande carità con tutti, secondo quell’aurea regola di S. Agostino: odiare il male,
ma amare e compatire coloro che lo commettono”.65
Don Calabria, quindi, aveva molto presente che anche il Laico deve prendersi le sue
responsabilità nel mondo, deve pensare all’apostolato, alla testimonianza, all’annuncio, per
riportare Gesù in tutti.
Ma come essere laici nel mondo? In questa società? Come essere testimoni, come essere
apostoli? Per dare una risposta a queste fondamentali domande è utile vedere in quale modo i
laici sono chiamati ad essere tali.
3. La nostra società
Viviamo in una società complessa dove il progresso economico e tecnologico ha apportato
enormi cambiamenti a livello strutturale con profonde conseguenze a livello sociale.
È aumentata in maniera esorbitante la possibilità di scambio di prodotti in tutto il mondo, le
merci viaggiano da un paese all’altro senza sosta, uno Stato per essere considerato
all’avanguardia deve esportare i prodotti del suo lavoro e questo incrementa i rapporti, gli
incontri, le relazioni, le comunicazioni, ma anche la concorrenza.
Per poter vendere bisogna convincere gli altri che ciò che produciamo è più conveniente e vale
la pena di acquistarlo, è necessario motivare le persone alla scelta della nostra produzione, è
necessario informare, è necessario convincere. Il marketing è diventato una disciplina di studio
molto importante, le sue tecniche sono oggetto di ricerche sempre più approfondite, la pubblicità
è il veicolo più celere e sicuro per arrivare alla vendita: uno spot televisivo ben ideato può fare
la fortuna di una azienda, miliardi di dollari vengono ogni anno investiti per commercializzare i
diversi prodotti aziendali.
Se viaggiano le merci, circolano con esse anche gli uomini. Milioni di persone periodicamente
varcano i propri confini per lavoro, il mondo è diventato e diventerà sempre di più terra di tutti e
l’uomo si affermerà come cittadino del mondo.
Giustamente il Cardinal Tonini sosteneva che occorre educare a “nuotare nel mare”. Se prima
l’uomo poteva espandere le sue potenzialità riuscendo ad attuare le proprie abilità e competenze
nello “stagno vicino a casa”, ora non è più possibile, bisogna che l’uomo impari a nuotare nel
mare, lontano da casa, in altri lidi, in altri approdi.
Tutto ciò, però, è in atto ed è possibile perché c’è stata una rivoluzione nell’informazione.
Negli ultimi anni nelle società più avanzate lo sviluppo nei metodi di comunicazione ha
profondamente rivoluzionato il mondo economico e sociale. Questa rivoluzione ha creato nuovi
linguaggi, nuove forme di comunicazione, nuovi mezzi di informazione, circuiti sempre più
complessi, in cui il tipo di relazione e di linguaggio tradizionali sono stati sconvolti. I mezzi
informatici sono entrarti preponderanti nella vita non solo economica della nostra società, ma
anche sociale e personale. Pensiamo all’impiego delle nuove tecnologie nei processi produttivi
con la conseguente automazione controllata e assistita nelle lavorazioni, oppure all’utilizzo,
oramai generalizzato in ogni campo, del personal computer che ha sconvolto l’intero processo di
comunicazione scritta e di raccolta dati; pensiamo alla diffusione dei telefonini personali,
65
G. CALABRIA, Lettera XLVIII, Lettere del padre don Giovanni Calabria ai suoi Religiosi. - Ferrara 1956 -
all’utilizzo sempre più massiccio dei fax, alle reti Internet che velocizzano l’informazione
amplificando il bisogno di “conoscere” in tempo reale.
Ogni cambiamento culturale e sociale ha delle precise conseguenze: l’uomo odierno ha bisogno
di possedere un ampio bagaglio di conoscenze tecniche e culturali per potersi inserire
adeguatamente in questa realtà sociale, economica e politica. Quanto mai, oggi, “la conoscenza”
è potere. Solamente colui che “sa”, colui che riesce a districarsi in questo mondo in preda a
continui e repentini rivolgimenti tecnologici, culturali, sociali ed economici, può ambire ad
essere “libero”.
E questo vale anche per il Laico.
Per essere, però, veramente “indipendente” oltre che “libera”, una persona deve essere in
possesso di una grande quantità di abilità individuali, sociali e culturali. Data la complessità
della nostra società stanno sempre più aumentando l’entità, la qualità di tali abilità e le
competenze necessarie che essa presuppone per poterne fare parte in modo diretto, agendo in
essa con piena dignità.
Pensiamo ai prerequisiti culturali e cognitivi occorrenti per muoversi autonomamente nelle
nostre città, riflettiamo sul raffinato bagaglio di conoscenze che una persona deve possedere per
effettuare delle compere al supermercato, dove oramai è necessario addirittura pesare la merce
prescelta confrontandosi con bilance, scontrini, sacchetti, numeri di riferimento, prima di poter
accedere alla cassa per il relativo pagamento e ci accorgeremmo come la richiesta di conoscenze
che la società richiede stia dilatandosi.
Consideriamo, inoltre, le capacità che rendono una persona in grado di decodificare i messaggi,
reconditi e non, che continuamente i mezzi di comunicazione sociale propongono; al riguardo,
richiamiamo alla mente gli ultimi ammonimenti di Karl Popper sull’uso eccessivo del mezzo
televisivo nella vita dell’uomo, e le lucide osservazioni di Neil Postman sul ruolo
pericolosamente formativo di questo mass-media nel nostro contesto socioculturale:
difficilmente non possiamo essere d’accordo con coloro che pensano con angoscia al futuro
delle persone più deboli, i vecchi, gli handicappati, i disagiati, i disadattati, i malati, in quanto
essi sono i maggiori candidati ad essere esclusi da un vita “indipendente e libera” con la
conseguente perdita di dignità nel nostro sistema sociale.
È chiaro come una persona, se vuole riuscire ad essere presente a se stessa per esercitare appieno
la propria umanità, deve possedere informazioni, conoscenze, esperienze e potenzialità
intellettive sempre più raffinate e in linea con i cambiamenti repentini della civiltà.
E i poveri? I diseredati? Le persone indifese che don Calabria considerava come “I veri padroni
dell’Opera dei poveri servi”? Quelle persone che vivono ai margini della strada? Che futuro
avranno? Noi viviamo in una società democratica!
3.1 Una società democratica non può d’altronde dimenticarsi dei più deboli
Ciò significa che tutti i cittadini sono tenuti a partecipare alla vita pubblica e sociale di uno stato
democratico. Mi sembra opportuno specificare questo aspetto perché ci sono dei pericoli
evidenti che il nostro ordinamento democratico sta vivendo e che occorre evitare. È compito
anche dei laici cercare di favorire una vita democratica capace di salvaguardare la vita dei più
deboli.
John Rawls, pubblicando nel 1971 “A theory of Justice”,66 libro che ha avuto un notevole
successo e che tuttora rappresenta per molti studiosi un punto di riferimento, ha, d’altra parte,
affermato in maniera chiara questo concetto: uno stato, una società non può permettersi di non
rispettare i più bisognosi, i più svantaggiati. Egli sostiene esplicitamente la necessità di abolire
leggi e di riformare le istituzioni se risultano ingiuste anche solo per un numero ristretto di
persone.
66
J. RAWLS, Teoria della giustizia (traduzione in italiano), Ed. Feltrinelli, Milano 1982.
La posizione di coloro che dichiarano la necessità di creare una società che sviluppi il benessere
per il maggior numero di persone è di tipo utilitaristico e, di fatto, sancisce il diritto alla
ineguaglianza ed alla prevaricazione.
Bisogna secondo Rawls, affermare, di contro, due principi di giustizia capaci di guidare la
società e le istituzioni verso un maggior rispetto per tutti i cittadini, eliminando così il problema
degli emarginati e dei disagiati. Il primo così enuncia: “ogni persona ha eguale diritto alla più
estesa libertà fondamentale compatibilmente con una simile libertà per gli altri”; il secondo
afferma: “le ineguaglianze economiche e sociali, come quelle di ricchezza e di potere, sono
giuste soltanto se producono benefici compensativi per ciascuno, e in particolare per i membri
meno avvantaggiati della società”. Rawls è fautore di una società democratica e liberale; per
John Rawls è necessario che le leggi e le costituzioni servano a salvaguardare il diritto di tutti di
poter liberamente espletare le proprie volontà senza compromettere, però, i diritti altrui.
Gli svantaggiati devono essere protetti dalla società se quest’ultima intende rispettare il
principio di giustizia. Le istituzioni, per essere in accordo con queste idee, devono permettere e
favorire lo sviluppo economico e sociale dei più poveri, dei più deboli, degli handicappati, dei
diseredati. Non è possibile, perché ingiusto, favorire l’arricchimento o la crescita sociale dei più
avvantaggiati a scapito di altre persone. Il vero indicatore che aiuta a valutare se una società è
giusta o ingiusta è il miglioramento o meno delle condizioni di vita dei più svantaggiati.
E noi laici, noi cattolici, siamo chiamati doverosamente a rammentare questi principi, a far sì,
come dice Giovanni Paolo II che la società si accorga di coloro che vivono ai margini della
strada.
3.2 Società complessa e frammentazione
Vivere ed operare in modo autonomo nella società occidentale è certamente difficile. Partecipare
e coinvolgersi in essa è oltremodo complesso; un senso di impotenza sembra avvolgere il
pensiero di chi vuole riflettere sulla propria esistenza, di colui che, di fronte agli avvenimenti
che scorrono impetuosi ed inconoscibili, si chiede il perché delle cose. Spesso l’uomo moderno
preferisce non pensare, sceglie deliberatamente di non approfondire le questioni sostanziali
concernenti la sua attiva presenza nel mondo, non per superficialità, ma perché consapevole dei
pericoli che possono scaturire dalle sue riflessioni; la coscienza dei rischi derivanti dalle
conclusioni effettive cui può pervenire il pensiero, spaventa.
Ci troviamo a vivere in un contesto culturale, che porta il singolo a vivere la propria realtà
esistenziale in modo apparente, disimpegnato, impostato sul possedere, sulla ricerca del bene
immediato e sulla soddisfazione delle soggettive voglie effimere, senza ideali forti capaci di
sostenere e motivare le scelte quotidiane dell’uomo maturo. Ci troviamo a vivere una forte
“crisi” epocale. L’uomo di fronte alle difficoltà di cogliere il nesso fra i molteplici avvenimenti
a cui assistere, preferisce non pensare, scegliendo di vivere facendo come se il problema non
esiste, per timore di arrivare a esiti che possano in qualche modo sconvolgere il proprio
benessere quotidiano.
E questo non pensare lo si riscontra anche in un’altra caratteristica della nostra cultura: è una
cultura che relativizza tutto.
3.3 Deserto ontologico
Le varie opinioni non trovano, il più delle volte, un terreno di incontro, un punto di gravità
permanente che indichi la correttezza o l’errore di una posizione. Ciò che si sostiene postula
inequivocabilmente una dignità inconfutabile: una tesi non può non essere valida perché
nessuno ha diritto di dire che è sbagliata, non c’è nessuno che può giudicare come valida o meno
un’opinione; tutto può essere affermato e tutto ha valore perché non esiste una “Verità” e tutto
può, quindi, essere verità.
Il confronto c’è, esiste e a volte è molto ricco e coinvolgente, ma si ha spessissimo la sensazione
che sia un’operazione, un incontro che non serve a nulla. Ognuno rimane della propria opinione,
non c’è vero dialogo, difficilmente qualcuno è disposto a mettere in discussione le proprie tesi;
se poi si arriva insieme ad una conclusione il risultato generalmente è una sintesi asettica, sterile
nei contenuti d’arrivo, tanto da scoraggiare ulteriori impegni unitari.
Si preferisce, perciò, non affrontare i grandi quesiti dell’esistenza umana, gli stessi che devono
sostenere un’azione di valore, è meglio non addentrarsi in un cammino irto di difficoltà e
sconosciuto. Manca il coraggio di calpestare sentieri poco battuti, siamo troppo condizionati da
una mentalità, da una cultura che relativizza ogni cosa, che impone all’uomo di pensare solo al
concreto, al tangibile, perché solo qui c’è l’evidenza, la certezza. Non si possono affrontare altri
temi, o meglio, è inutile prendere posizione sui grandi argomenti della vita, dell’amore,
dell’aldilà, della spiritualità, della libertà. Non si è più in grado di elevarsi dalla terra, non ci si
innalza più verso argomentazioni speculative, non si riesce a pensare, a progettare qualcosa che
non sia in qualche modo fattibile, eseguibile, poco impegnativo. Siamo immersi in un’arida
pseudocultura, in un’epoca in cui il riduzionismo ha preso il sopravvento e condiziona anche
quelle persone che avrebbero le possibilità di spaziare sopra il mero quotidiano; giustamente si
parla di “deserto ontologico”.
Ed è proprio qui la fonte di un altro grave pericolo che sta emergendo sottile ma devastante fra i
giovani. Una visione distorta e assoluta della libertà.
Da questo deserto sta emergendo una pianta che distrugge i giovani: una concezione errata della
libertà.
3.4 Pericolo libertà
Le società occidentali vivono un momento storico molto delicato, una fase di passaggio e di
cambiamenti politici e sociali nuova e pericolosa. Il tono della lotta politica si è elevato in modo
netto e repentino, tanto che non si parla più di “dialettica” politica ma di “scontro” politico.
Nella vita quotidiana, in tutti gli ambienti, i valori che avevano guidato le azioni degli individui
non paiono più importanti, ciò che conta è il singolo, è l’individuo, gli altri sono utili solo in
quanto servono al soddisfacimento dei propri desideri.
La libertà viene ad assumere una valenza che forse mai ha avuto toni così decisi e assoluti. Il
mito della libertà dell’individuo, della possibilità di scegliere e agire in base alla propria volontà,
di decidere della propria esistenza indipendentemente dai condizionamenti sociali e dai principi
morali, si è diffuso tra la popolazione italiana: questo è preoccupante, perché quando l’agire
dell’uomo non viene guidato da considerazioni etiche superiori alla mera esistenza concreta,
quando l’individuo agisce in virtù solamente del proprio soddisfacimento personale, privo di
ogni idea superiore capace di dare norma all’azione stessa, la libertà diventa criterio assoluto,
l’unica norma che regola il comportamento.
La libertà diventa così il vero essere per l’uomo, l’autentico criterio di indirizzo che ogni
persona possiede; tutto si risolve nella constatazione che non ci sono confini alla libertà di
ognuno se non la barriera della stessa libertà assoluta.
Ho affermato il pericolo di questo pensiero assoluto della libertà e ribadisco la minaccia che tale
posizione può assumere per l’intero stato democratico, per la convivenza sociale degli uomini
che si riconoscono in una carta costituzionale, garante di una vita civile che possa
realisticamente permettere a tutti di sviluppare al massimo le proprie potenzialità nel non violare
i diritti altrui. Se la libertà, infatti “è supremo valore, essa può, se vuole, rispettare le altrui
libertà; ma essa, non avendo sopra di sé alcun ulteriore valore, non è tenuta a quel rispetto”.67
Segnali preoccupanti di questa mancanza di riguardo verso gli altri, che tutto ciò, oramai, è
assorbito e vissuto dalla popolazione soprattutto giovanile, si notano quotidianamente; basti
pensare alla delinquenza minorile sempre più capillare e meno stigmatizzabile in un particolare
67
A. BAUSOLA, La libertà, La Scuola, Brescia 1990, p. 46.
strato di società, agli aumenti vertiginosi di incidenti stradali del sabato sera post-discoteca,
all’incremento di atteggiamenti razziali, alle violenze gratuite, quasi prive di significato, o
brutali e sconcertanti come l’uccisione dei propri genitori, il tirare i sassi dal cavalcavia delle
autostrade, spegnere la vita di un ragazzo allo stadio che fa il tifo per la squadra avversa, l’abuso
sessuale dei minori.
Non può esistere in uno stato democratico, la visione di una libertà individuale assoluta: essa
minerebbe alla base la vita civile e la convivenza democratica e i più deboli soccomberebbero.
Non può esistere una visione assoluta della libertà soprattutto perché mina alla base l’essenza
dell’uomo.
Affermare questo è compito nostro, sostenere una visione corretta della libertà è compito anche
dei Laici.
3.5 La libertà
Da sempre il tema della libertà suscita interesse e partecipazione, tanto che possiamo definire la
storia dell’umanità come un lungo e travagliato cammino verso la meta della piena libertà
dell’individuo.
Nonostante i grandi progressi che indubbiamente ci sono stati in campo economico, sociale e
politico “per l’uomo d’oggi, più ancora che per quello di altri tempi, la parola “libertà” ha una
risonanza quasi magica”.68 Perché? Per quale motivo questa parola è ancora tanto importante
per l’uomo? Come mai suscita in noi sempre un interesse che emoziona globalmente la nostra
persona? Una risposta la offre Maritain,69 affermando che la libertà è la principale aspirazione
della persona e come tale richiede uno sforzo costante ed una lotta continua per raggiungerla.
Vorrei sottolineare questo convincimento: l’uomo, senza la libertà di prendere in mano il suo
destino non sarebbe tale; “a questa vita l’uomo è chiamato liberamente, perché la libertà è
costitutiva dell’esistenza creata; Dio avrebbe potuto creare addirittura una creatura dotata di
tutta la perfezione che una creatura può avere, ma ha preferito chiamare l’uomo a maturare
liberamente l’umanità”.70 Ogni persona è chiamata a prendere posizione di fronte agli
avvenimenti della sua esistenza, a costruire con le sue autonome scelte la propria vita, a
riempirla di valori idonei a guidare il suo cammino nel mondo, a scegliere o a rifiutare le
molteplici opzioni che il mondo propone. Ogni singolo individuo ha il diritto di dare significato
e contenuto alla propria esistenza, può addirittura respingere il suo bene, rinnegare perfino la sua
umanità e dignità. Questo perché, il dono della libertà che l’uomo possiede, offre alla sua
esistenza una dignità infinita, il diritto “di rifiutare il proprio destino, è essenziale all’esercizio
della libertà. Non è uno scandalo: l’assenza di questo diritto distruggerebbe l’uomo”.71 In questa
prospettiva è necessario approfondire il concetto di libertà. Maritain afferma che esistono
sostanzialmente due tipi di tendenze dell’uomo verso la libertà: la conquista della libertà
interiore e spirituale ed il desiderio di manifestarla esteriormente nella società. L’uomo ha
bisogno della libertà esteriore per poter sviluppare appieno sé stesso, “non c’è dualismo, non c’è
separazione tra la libertà interiore e quella esteriore, la seconda amplia la prima”,72 non può
esserci l’una senza che sia permessa l’altra. Certamente un uomo che raggiunge la piena libertà
interiore, può vivere totalmente i propri ideali in qualsiasi realtà: è possibile essere libero e
raggiungere la libertà interiore anche se si è in prigione o in un lager, vi sono esempi illuminanti
in questo senso anche ai giorni nostri. È indubbio, però, che la libertà è condizionata
dall’esteriorità, dalle situazioni ambientali e sociali; le contingenze, la realtà quotidiana,
propongono continuamente ostacoli al nostro agire, la volontà e le azioni dell’uomo sono, fin
68
69
70
71
72
J. GEVAERT, Il problema dell’uomo, Elle dici, Torino 1987, p. 161.
J. MARITAIN, L’educazione al bivio, La Scuola, Brescia 1976, p. 16.
E. MOUNIER, Il personalismo, AVE, Roma 1982, p. 17.
Ivi, p. 17.
A. BAUSOLA, La libertà, La Scuola, Brescia 1990, p. 6.
dalla sua nascita, limitate dall’ambiente di vita in cui si trova a vivere e dal rapporto con le altre
persone che entrano in relazione con lui lungo il suo cammino, prima di tutto le persone a lui
affettivamente più legate come quelle che compongono il suo nucleo familiare.
Un principio si evidenzia immediatamente, ossia che l’uomo non è libero di mettere in atto ogni
suo volere, in quanto, nello sforzo di attuare compiutamente la sua umanità, ha bisogno degli
altri, ha necessità di vivere in un ambiente sociale e culturale che lo aiuti nel suo sviluppo; di per
sé questa crescita risulta condizionata, non può essere libera espansione di impulsi. “Tutto non è
possibile, e tutto non è possibile in ogni momento. Questi limiti, quando non siano troppo
angusti, costituiscono una forza, giacché la libertà, come il corpo, non progredisce se non
attraverso l’ostacolo, la scelta, il sacrificio”.73
E don Calabria questo aspetto lo aveva ben presente...
4. Come don Calabria voleva i Laici
Ma vediamo più concretamente come don Calabria voleva i Laici. Che qualità dovevano avere
per poter esercitare la loro missione nel mondo? Don Calabria vedeva questa missione impostata
su dei veri pilasti capaci di sorreggere il laico nel suo operare nel mondo.
4.1 Attenzione alla persona
Scriveva a tutti, anche per cose poco importanti. La sua attenzione arrivava persino a cose
insignificanti. Certamente tutti andavano da lui perché sapeva essere attento alle piccole cose e
alle grandi cose della vita di ognuno.
4.2 Accettazione, apertura
È assolutamente importante, che si adoperi nei confronti di chiunque un linguaggio sia verbale
sia non-verbale di piena accettazione. Accettare colui che ci sta di fronte significa riconoscerlo
come persona che ha valore per me, per la mia persona; significa riconoscergli un’utilità colma
di significato che oltrepassa la mera sfera del quotidiano e del concreto per assumere un
connotato valorizzante che si fonda su base etica e spirituale.
C’è obbligo verso ogni essere umano, per il solo fatto che é un essere umano, l’obbligo di
impegnarci a scoprire le vie più idonee, più capaci per permettere alla persona di conquistare la
sua umanità e quindi la sua libertà.
4.3 Prendere posizione
Don Calabria ha scritto al presidente degli Stati Uniti. Invitava ad intervenire, sollecitava a dire
la nostra opinione nelle sedi più diverse.
4.4 Competenza
Il bene occorre farlo bene, il mondo ha bisogno di laici competenti, quante persone possiamo
ricondurre a Dio se facciamo bene il nostro mestiere, quanti invece allontaniamo se lo facciamo
male, se deludiamo le persone, se perdiamo la loro stima. Per questo risulta importante
l’indicazione del padre a Marcello Candia che appare in una lettera del 1948:
“Preparazione tecnica e spirituale dunque”.74
Indicazione più volte ripetuta anche agli ex allievi.
“Aggiornarsi, si dice; sicuro; bisogna aggiornarsi: lo dico anch’io. E siccome il bisogno di oggi
è più che mai la santità: dunque aggiornatevi nella santità, sempre antica e sempre nuova.
73
74
E. MOUNIER, Il personalismo, AVE, Roma 1982, p. 93.
G. CALABRIA, Archivio dei Poveri Servi della Divina Provvidenza, doc. 2588/A, novembre 1948.
Aggiornatevi, sì, anche nei metodi dell’apostolato; ma mai nell’assumere atteggiamenti
mondani, mai nell’indulgere alla natura corrotta.
Aggiornatevi nella preghiera, per poter guidare le anime nella pietà. E allora, sia intelligente la
vostra devozione, abbia Gesù per centro, la Madonna per scala, le verità eterne per segnavia.
Attenti alle superstizioni più o meno nascoste; attenti a non sminuire la stima della vita interiore.
Aggiornatevi nella condotta, in casa e fuori; se ieri il sacerdote era circondato da una
venerazione profonda, che passava sopra a certi difetti; oggi il mondo ci sta addosso con
sguardo scrutatore, per vedere se proprio siamo convinti di quello che diciamo, se siamo
entusiasti del Vangelo che predichiamo. Aggiornatevi, dunque, e state attenti a non presentare
lati deboli nel vostro comportamento”.75
4.5 Comunicare
Occorre saper comunicare, don Calabria era l’uomo della comunicazione, raramente si muoveva
da Verona, ma comunicava in tutto il mondo. Ritengo che anche noi Laici, anche noi Cattolici
dobbiamo essere al passo con le esigenze di questa società. Non possiamo non avere presenti, se
dobbiamo portare Gesù nel mondo, le esigenze della comunicazione.
Bisogna essere capaci di comunicare.
Dobbiamo essere operatori della comunicazione.
4.6 Essere affascinanti
Essere affascinanti, avvincenti nelle cose che si propongono, è un prerequisito indispensabile
nell’Opera. Viviamo nell’era delle immagini, della pubblicità esasperata, della televisione;
nessun prodotto commerciale può essere lanciato sul mercato senza un’attiva campagna di
marketing promozionale. Molti sociologi e commentatori, anche politici, sono fortemente
preoccupati in quanto viviamo in un contesto culturale dove anche le idee, i messaggi politici, i
valori etico-religiosi, hanno bisogno del mezzo televisivo e degli strumenti di comunicazione di
massa per essere presi in considerazione dalla gente. Purtroppo, che ci piaccia o no, la nostra
società è sempre più dipendente dal video e dai giornali. Ci siamo sempre più abituati ad
ascoltare programmi ed informazioni che attraggono la nostra attenzione più per l’aspetto
coreografico che per quello contenutistico, più per la bellezza delle immagini che per le idee che
propongono, più per il comportamento “esagerato” dei conduttori che per i messaggi positivi
che diffondono. Inoltre, difficilmente ci fermiamo con serenità e costanza su un preciso
programma, ma il più delle volte continuiamo, muniti di telecomando, a cambiare canale
televisivo, preoccupati che su altre reti ci possa essere qualcosa di interessante da non perdere. È
una modalità diffusa ma molto infantile di effettuare le scelte personali. Questo problema lo
sentiamo a scuola fortissimo.
Tutto ciò ha dei risvolti per noi.
Cosa fare? Come cercare di carpire l’attenzione sulle nostre idee, sulla nostra fede?
La risposta che mi permetto di offrire è semplice da verbalizzare ma molto complessa da
attuare: occorre essere affascinanti, ma non di un fascino asettico, vuoto, privo di anima,
dobbiamo avere in mente però che se vogliamo raggiungere gli altri e portarli a Dio occorre
tenere presente che occorre presentare il nostro credo in modo interessante e credibile. Bisogna
esser aggiornati anche su questo aspetto.
Ritengo che noi cattolici dobbiamo davvero imparare molto, dobbiamo fare ancora degli sforzi
ulteriori per rendere le nostre idee ed i nostri valori interessanti.
4.7 L’incontro e l’accoglienza
Non è possibile sottacere al riguardo l’importanza dell’incontro. Bisogna mostrare
immediatamente una piena comprensione, di accettazione della persona che è di fronte a lui e
75
G. CALABRIA, in Archivio dei Poveri Servi della Divina Provvidenza, doc. 8470/C, 15 settembre 1953.
che ha bisogno di aiuto. L’attenzione, il “tendere verso” l’umanità della persona è una
caratteristica che ogni laico dovrebbe possedere.
Questo aspetto non è ovvio, né banale in quanto è difficile provare un autentico interesse per
colui che magari non mi stima, o mi disprezza. Ma ogni persona ha bisogno di soggetti che lo
considerino “un qualcuno” non solo a parole, ma con i fatti, ogni uomo, afferma Gevaert, “vuol
essere riconosciuto come qualcuno e mi chiede di riconoscerlo e di essere qualcuno davanti a lui
e per lui”.76 Questo significa fargli comprendere che siamo interessati alla sua persona perché
abbiamo stima, perché ci piace stare insieme ed operare con lui. Significa chiedergli al mattino
“come stai?”, dove questa domanda, in apparenza ordinaria, esprime invece il mio profondo
interesse ed attenzione nei suoi riguardi dell’educando, perché lo riconosciamo importante per
noi, per la nostra vita.
Come giustamente Buber ha messo in evidenza, è la relazione il fatto fondamentale
dell’esistenza umana, “è questa che fa dell’uomo un uomo. Essa ha le sue radici lì dove l’uomo
vede nell’altro la sua alterità, vede quest’altro essere qui, ben determinato, posto lì per
comunicare con lui, in una sfera che sia loro comune, in una sfera però che oltrepassa l’ambito
particolare tanto dell’uno quanto dell’altro”.77
4.8 Esempio
È basilare e don Calabria insiste molto su questo punto. Ne fanno fede le sue lettere e io lo
collego però alla famosa frase di essere “zero e miseria”, di essere “buseta e taneta”. L’esempio
non deve essere a mio avviso un cappotto pesante che dobbiamo sobbarcarci. Ritengo invece
che deve spontaneamente scaturire dal nostro cuore, dalla consapevolezza che sono “zero e
miseria” che non sono nessuno, ma che nel mio piccolo credo però in determinati valori e perciò
li vivo, li respiro e quindi li comunico spontaneamente, non perché sono... costretto a dare
l’esempio, ma perché è naturale che io mi comporti così!
4.9 Cuore per i più poveri
4.10 Non cercare protezioni umane e ricchezza
4.11 Agire nell’amore
La richiesta più profonda e forse più importante che la persona esige è l’amore. Non si devono
avere remore nell’affermarlo, poiché, spinti oramai da correnti di pensiero che relegano nel
dimenticatoio questo importante volano dell’esistenza umana, rischiamo di non dirci cose
fondamentali.
Amore, termine che nel corso della storia ha avuto molteplici significati e che necessita di
precisazione. Per amore intendiamo “quell’originario atto che spinge l’uomo a trascendere sé
stesso per partecipare intenzionalmente agli altri esseri, attuando quella relazione ontologica che
costituisce il conoscere”.78
Scheler ci ha aiutato a capire i falsi significati dell’amore. L’amore però non può essere confuso
con l’altruismo, uno dei surrogati moderni dell’amore, che fa sì che l’uomo guardi all’altro, al
non-Io solo perché angosciato nel riflettere sulla propria esistenza con la conseguenza di
sconfinare nei fatti altrui per non dover pensare alle proprie vicende. L’amore vero, inoltre, non
può avere matrice nel risentimento. Molti si interessano ai poveri, agli handicappati, agli
oppressi con un atteggiamento che solo apparentemente può essere scambiato per amore, in
realtà “non è che odio camuffato, invidia repressa, inimicizia nei confronti dei fenomeni
76
77
78
J. GEVAERT, op. cit.
M. BUBER, Il problema dell’uomo, Elle dici, Torino 1983.
G. FERRETTI, Max Scheler. Fenomenologia e antropologia personalistica, Vita e Pensiero, Milano 1972, p. 84.
contrari: ricchezza, forza, vigore vitale, vita felice ed agiata”.79 Infine, non può essere confuso
con la simpatia, che è solo partecipazione affettiva naturale, spontanea all’altro, al non-Io, che
presuppone una concezione della condotta umana priva di responsabilità personale razionale, in
quanto considera come valore solo la reazione spontanea di fronte ai sentimenti altrui.
L’amore è un atteggiamento interiore che si rivolge ad un soggetto proprio perché ha valore in
sé. Non si ama quando ci si rapporta con l’handicappato o con il povero o con il drogato come
se questo rappresentasse un’opportunità di vita, un’esperienza da non perdere. Non è amore vero
interessarsi alla persona bisognosa solo perché si scopre una triste realtà. Non è amore
l’accostarsi al sofferente spinti da un sentimento di pietà.
L’amore autentico è quello che opera senza secondi fini sollecitato solo dal desiderio di volere il
bene dell’altro, perché colui che mi sta di fronte, questa persona, ha valore proprio perché esiste,
proprio perché, come diceva Rosmini, “non ha il diritto ma è il diritto” e così concepito mi
chiede di essere riconosciuto. Occorre affrontare la questione con decisione e chi ci aiuta.
sorregge e rafforza in questa ricerca è il “Maestro” dell’amore, Gesù Cristo, colui che venendo
al mondo “si è inserito nelle radici dell’uomo; ha fatto della nostra umanità creata, anche del più
povero e del più abbandonato, l’epifania della sua presenza”.80 Di conseguenza il compito del
laico viene ad inserirsi spiritualmente in questa epifania, in quanto si è chiamati a favorire la
manifestazione di Cristo in tutta la sua gloria nelle persone che ci stanno intorno.
5. La missione dei laici: i pilastri
Ma i pilastri di quest’opera grande che deve essere per don Calabria la missione dei laici nel
mondo, hanno bisogno di essere collocati su un terreno solido, stabile, resistente.
Un terreno a diversi strati, il più adatto a sostenere pilastri.
1.
Vangelo.
É necessario conoscerlo, leggerlo, non è possibile essere dei buoni cristiani senza meditare il
Vangelo.
2.
Dio Padre e madre.
Per don Calabria occorre considerare la paternità di Dio e la sua infinita dolcezza. Il laico
deve vivere questo aspetto pienamente fiducioso dell’aiuto paterno e materno di Dio.
3.
Il padre spirituale.
La direzione spirituale è indispensabile per agire nel mondo. Un laico che vuole operare
per la gloria di Dio nella società, ha bisogno di confrontarsi con un padre spirituale che diventi
per lui guida sicura lungo il cammino della vita.
4.
Provvidenza.
È necessario credere e vivere quotidianamente la provvidenza di Dio, questo è il grande
insegnamento di don Calabria.
5.
Speranza.
Dio ci ha affidato la speranza, la sola virtù capace di spronarci ad andare oltre,
nonostante le difficoltà e gli insuccessi palesi che quotidianamente riscontriamo, la sola capace
di illuminare il sentiero difficile della vita anche se non si è ancora riusciti a trovare la luce del
cammino.
Egli ci ha affidato la speranza, la sola virtù capace a volte di spronarci ad andare oltre, nonostante le difficoltà e gli
insuccessi palesi che quotidianamente riscontriamo, la sola capace di illuminare il sentiero anche se non si è ancora
riusciti a trovare la luce del cammino.
79
80
M. SCHELER, Il risentimento nella edificazione delle morali, Vita e Pensiero, 1975, p. 95.
M. LENA, Lo spirito dell’educazione, La Scuola, Brescia 1986, p. 36.
L’OPERA È DI DIO
81
Waldemar José Longo82
“L’uomo guarda l’apparenza, Dio guarda il cuore”(1 Sam 16, 7), con questo criterio Samuele
scarta i figli che Iesse aveva presentato ed esige che gli portino l’ultimo, Davide che fu poi il
prescelto e consacrato re di Israele. Pure don Calabria era stato scartato dai superiori. E così
appare ancor più chiaro che Lui, don Calabria è un’opera della Provvidenza, proprio perché in
lui la Provvidenza scorse lo strumento adatto ad essere il custode, il casante, come lui stesso si
definiva, e non il fondatore di quella che doveva essere l’“Opera”.
Mi sento imbarazzato nell’affrontare il tema dell’Opera. Infatti don Calabria non voleva nessun
tipo di propaganda, neanche per fare conoscere l’Opera stessa. Quindi se lo faccio non è per
diffondere l’Opera, a questo ci penserà il Signore, ma per il solo fatto che con la canonizzazione,
lo spirito che il Signore ha voluto per l’Opera don Calabria, non è più ristretto a noi membri
della famiglia calabriana, ma diventa magistero eloquente e profetico per tutta l’umanità. Il
Signore mi perdonerà se anche questo può essere superbia.
Fino dal tempo dei suoi studi di teologia don Calabria percepiva come un’intuizione originaria,
anche se ancora confusa, quella concretizzazione della volontà di Dio che divenne l’Opera.
Attraverso vari, numerosi segni il Signore gli diede conferma di questa intuizione originaria.
Ricordo qui il fatto dello zingarello incontrato ed accolto da don Calabria nel 1897, quando la
sua era la vita di un povero chierico dotato di un cuore disponibile, ma con notevoli difficoltà ad
integrarsi nei ritmi scolastici che il seminario di allora richiedeva. Un altro segno, questa volta
posto dallo stesso don Calabria, fu quello di mantenere in vita la sua povera mamma per il
periodo necessario affinché i primi “Buoni Fanciulli” del 1907 potessero trovare una seppur
parziale sistemazione.
Pur sentendo – e il verbo sentire qui non rende la profondità dell’esperienza che il padre provava
–, pur sentendo la grandezza dell’Opera, don Calabria non si è mai sentito “fondatore” nel senso
classico. Diceva infatti: “Sento tutta la grandezza di quest’Opera divina, ma sento ancora tutta la
mia miseria”.83 Se l’Opera è da considerarsi divina lo è in quanto “nata dal sacro costato di
Gesù”. A conferma di questo in un altro scritto troviamo ulteriormente accentuato questo
aspetto: “Sento che il Signore vuole proprio Lui dirigere quest’Opera con provvidenza tutta
speciale, e ogni qual volta io credo e confido nelle creature e penso ai mezzi per andare avanti,
addoloro il Cuore Sacratissimo di Gesù. Compito e dovere nostro è solo cercare il santo Regno
di Dio e star lontani da tutte le creature e protezioni umane”.84
Si capisce allora come la missione propria dell’Opera sia proprio presso i più poveri, là dove
umanamente non c’è “nulla da aspettarsi”, perché là si può manifestare con maggior chiarezza la
completa dipendenza dell’Opera dalla Provvidenza di Dio, là si può esprimere chiaramente che
l’unica preoccupazione è quella di “cercare il Santo Regno di Dio”. È questo il progetto per il
quale Dio l’ha concepita e voluta, al di fuori di tale piano essa non ha senso. Nel Diario don
Giovanni si dice e ci dice: “La vita, la sicurezza di questa grandissima Opera sta nell’osservarne
il divino programma”.85 Lo stesso Padre Natale suo confessore e più che guida spirituale poté
81
Relazione tenuta a Verona al Convegno di Comunione e Liberazione “La Fede all’opera” del 25 marzo 1999.
Superiore Generale (Casante) dell'Istituto don Calabria
83
G. CALABRIA, Personale e Secreti, (quaderno. 4) [Diario] 11-3-1925, Archivio dei Poveri Servi della divina
Provvidenza, doc. n. 428
84
G. CALABRIA, Dopo la mia morte al Padre Natale, 20.6.1920 (quaderno 3) [Diario], Archivio dei Poveri Servi
della Divina Provvidenza, doc. n. 309.
85
G. CALABRIA, Personale e secreti, 22 aprile 1929 (quaderno 4) [Diario], Archivio dei Poveri Servi della Divina
Provvidenza, doc. n. 583.
82
dire: “La missione poi di quest’Opera è quella dei 12 Apostoli di Gesù Cristo”.86 Rimanendo
fedele a questa apostolicità “quest’Opera (...), diventerà universale”.87
Coloro che appartengono a quest’Opera altro non devono ritenersi che delle “semplici e povere
guardie”88 che devono sempre vigilare affinché “nessuno di noi la faccia deviare”89 a motivo
della nostra incorrispondenza.
E da più testi sembra proprio che per don Calabria la prima di queste incorrispondenze, che fu
anche all’origine della visita apostolica, è quella di mancare nel vivere lo spirito di famiglia
all’interno dell’Opera stessa. Dice infatti: “(affinché) quest’Opera di Dio, sorta proprio per sua
diretta volontà abbia ad esistere sempre e diffondersi per la sua maggior gloria e per il bene delle
anime, è necessario che i componenti quest’Opera (fratelli e sacerdoti) siano un cuor solo ed
un’anima sola, nel dolce e caro vincolo della carità e che ubbidiscano come a Gesù benedetto, a
chi nel suo nome presiede all’Opera”.90
Capire quest’Opera come nata dal “costato di Cristo”, appartenervi, amarla come opera di Dio è
per don Calabria fonte di felicità tutte particolari. Parafrasando il discorso della Montagna non
solo giungeva a proclamare “beato colui che è degno di capirla [n.d.r. l’Opera]”,91 ma a definire
“beati coloro che questa semente erediteranno”.92
Don Giovanni ha capito l’Opera, l’ha amata, la vedeva come Arca di salvezza, campo dove Dio
semina, luce e sole, lucerna, macchina di Dio, rifugio, statua, treno, nave di Dio. Il suo era un
amore tale da renderlo disponibile a dare anche la vita per l’Opera: “Se almeno, come io spero
per grazia di Dio, questa grandissima Opera potesse avere la sua stabilità e fosse capita come
merita nel suo divino programma. Oh, come volentieri accetterei anche la morte...”.93
L’amore all’Opera era veramente tale là dove la persona si faceva veramente umile, di
quell’umiltà che è la prova di un amore veramente grande, l’amore che porta l’amante a farsi da
parte affinché l’amato emerga e prenda il primo posto: “Ve l’ho detto tante volte: noi dobbiamo
scomparire; quella che deve risplendere è l’Opera; che se al Signore piacesse di collocarci in
alto, per parte nostra conserveremo il desiderio e l’amore dell’ultimo posto, dicendo intanto con
sincero sentimento del cuore: “Non nobis, Domine, non nobis, sed Nomini tuo da gloriam””.94
Eppure l’Opera non può essere statica. Certo dobbiamo rifarci continuamente alle cose vecchie
ma proprio perché tale fedeltà è la fonte di ogni capacità di concepire quella novità di cui il
nostro tempo ha bisogno. L’Opera deve essere sempre attenta alle necessità della Chiesa e alle
nuove povertà e necessità del mondo, per dare loro una risposta a partire dal carisma.
In don Calabria l’Opera non è concepibile al di fuori di una divina progettualità. Essa può essere
intesa solo come strumento di Dio e non certo degli uomini. L’Opera non può essere il
trampolino di lancio di alcuna ambizione puramente umana. Non è azione di uomo e non serve a
dar gloria a nessun essere umano, ma solo a Dio. È azione di Dio che a Dio ritorna come gloria.
86
G. CALABRIA, Personale e secreti, 6 giugno 1925, nota autografa di p. Natale di Gesù in calce a scritto di don
Calabria (quaderno 4) [Diario], Archivio dei Poveri Servi della Divina Provvidenza, doc. n. 487.
87
G. CALABRIA, Laus Deo Deiparae, 28 agosto 1917 (quaderno 2) [Diario], Archivio dei Poveri Servi della Divina
Provvidenza, doc. n. 153.
88
G. CALABRIA, Lettera a padre Natale di Gesù del 21 dicembre 1911, Archivio dei Poveri Servi della Divina Provvidenza, doc.
n. 4550.
89
G. CALABRIA, Rendiconto - Diario, 15 luglio 1930 (quaderno 5) [Diario], Archivio dei Poveri Servi della Divina
Provvidenza, doc. n. 635.
90
G. CALABRIA, Laus Deo Deiparae, 20 agosto 1917 (quaderno 2) [Diario], Archivio dei Poveri Servi della Divina
Provvidenza, doc. n. 153.
91
G. CALABRIA, Personale e secreti, 17 ottobre 1926 (quaderno 4) [Diario], Archivio dei Poveri Servi della Divina
Provvidenza, doc. n. 528.
92
G. CALABRIA, Personale e secreti, 17 aprile 1926 (quaderno 4) [Diario], Archivio dei Poveri Servi della Divina
Provvidenza, doc. n. 515.
93
G. CALABRIA, Personale e secreti, 16 febbraio 1926 (quaderno 4) [Diario], Archivio dei Poveri Servi della
Divina Provvidenza, doc. n. 508.
94
G. CALABRIA, Lettere del padre don Giovanni Calabria ai suoi Religiosi - Ferrara - 1956. Lett. LXXIX - 1 luglio
1951, pag. 320.
L’Opera non ha senso se non come azione di gloria a Dio, qualsiasi atto concreto essa realizzi.
La prolificità dell’opera originaria di San Zeno in Monte, che non per niente è detta “casa
madre”, da cui sono nate e continuano a nascere tante altre opere ha qui il suo motivo: l’Opera è
azione di Dio e come tale essa è solo ed esclusivamente espressione di amore e l’amore in
quanto tale è germinativo fa nascere, fa germogliare, dà vita, la moltiplica.
“Ricordiamo bene che la Casa di San Zeno in Monte è un grande faro, acceso dalla Provvidenza,
per illuminare, a guisa di sole, tutte le anime di questo mondo. È il prodigio in atto, veduto e
vagheggiato da tutta l’eternità, che deve manifestare la bontà, la misericordia di Dio, che deve
far pensare che Lui, Dio, è il nostro Padre e che pensa a noi sue creature. Da questo S. Colle, la
Provvidenza irradia la sua luce, fa sentire la sua voce, che chiama a meditare, a riflettere le sue
meraviglie, la bontà, la sua misericordia per tutti. Sì, o Fratelli, guardando, studiando,
analizzando quest’Opera, gli uomini devono dire: qui è il segno di Dio, il dito di Dio”.
“Da quest’Opera di San Zeno in Monte, oh quanta luce deve partire, quante anime si devono
salvare, quante opere devono nascere, e tutto questo se saremo fedeli al nostro programma”. Si
tratta poi di un amore di predilezione, preferisce i poveri, gli ultimi, chi non trova nessun volto
in cui riconoscersi, chi non ha umanamente nulla per cui possa essere detto amabile. Per noi la
parola predilezione suona a esclusione, invece per Dio e per i santi, la predilezione non esclude,
ma crea unità, include nella famiglia. L’Opera sceglie di amare i non umanamente amabili
perché in essi può evidenziare i criteri di Dio che ama ciò che agli occhi dell’uomo e dei suoi
strumenti sempre più raffinati neppure è percepibile. È poi un amore non esclusivo. L’amare
qualcuno non ci rende suoi possessori, come a volte accade, e sotto questa luce si può leggere la
grande disponibilità di don Calabria a stimolare e sostenere l’avvio di sempre nuove opere nelle
quali egli percepisse il “dito di Dio”. Non pretendeva di avere l’esclusiva dell’agire di Dio. Ogni
realizzazione non è che una fioca luce accesa nella notte del mondo capace appena di ricordare
lo sfolgorio di luce di cui è invece capace l’amore di Dio quando esso sia percepito nella sua
globalità. Quante realizzazioni videro in don Giovanni il sostenitore quando non lo stesso
ispiratore. Don Giovanni sapeva che ogni luce seppur piccola è necessaria a questo mondo che,
qualora ne rimanesse privo, si troverebbe ancor più avvolto nell’ombra e nella tenebra.
Un altro tema-cardine relativamente all’Opera è il seguente: essa sarà grande se sarà piccola:
“L’Opera è grande se sarà piccola, sarà ricca se sarà povera; avrà la protezione di Dio se non
cercheremo quella degli uomini. Io ho sempre visto l’Opera come un grande campo, con tante
sementi in mano del divino Agricoltore; sementi che Egli spargerà se il terreno sarà ben arato,
ben coltivato. Queste sementi nasceranno e diventeranno tante piante, diverse piante, e ciascuna
darà dei grandi frutti. Fratelli, v’è bisogno di luce, di sale nel mondo; v’è bisogno di amore, di
carità: v’è bisogno di fede: e l’Opera sarà luce, sarà carità, sarà amore, se sarà come Dio la
vuole, e come l’ha fondata, e come a noi l’ha affidata perché gelosamente la custodiamo, la
facciamo vivere e progredire, a bene delle anime. Quanto so e posso vi raccomando l’esercizio
delle virtù: la santa umiltà: chi vuole essere il primo tra voi si faccia il servo di tutti. Sento che il
Signore vuole proprio Lui dirigere quest’Opera con provvidenza tutta speciale, e ogni qual volta
io credo e confido nelle creature e penso ai mezzi per andare avanti, addoloro il Cuore
Sacratissimo di Gesù”.95
Uno dei pericoli che don Calabria intravvede per l’Opera è proprio quello delle protezioni
umane. Scrisse molto raccomandando di mai e poi mai cercare le protezioni umane. Compito e
dovere nostro è solo cercare il santo Regno di Dio e star lontani da tutte le creature e protezioni
umane. “Quanto al resto verrà. Verranno i mezzi, verranno i mezzi umani! Verranno le
protezioni umane, perché ci vogliono, ma a queste penserà il Signore! Per noi non c’è altro che
questo: cercare il santo regno di Dio. Santificare le nostre anime”.96
95
G. CALABRIA, Lettere del padre don Giovanni ai suoi Religiosi. Lett. XXXII, S. Quaresima 1943, Ferrara 1956
G. CALABRIA, Ai Poveri Servi in Esercizi Spirituali, 8 settembre 1952 in “Voce che grida”, Archivio dei Poveri
Servi della Divina Provvidenza.
96
L’efficacia verrà all’Opera dalla sua santità e cioè dalla sua apostolicità ed evangelicità. Non
sono quindi né la misura delle opere, né il loro volume di attività e neppure la loro efficienza
nell’affrontare i problemi dell’essere umano a darci il senso dell’Opera. L’Opera infatti non
sono in primo luogo le attività. Essa deve essere considerata come una realtà spirituale, il più
piccolo dei gesti che in essa viene compiuto deve realizzarne compiutamente, tutto intero lo
spirito. Chi vive in essa e di essa sa che non viene misurato su quanto egli fa, ma sullo spirito
che egli vive nelle realtà che egli è chiamato a realizzare. Ogni più piccolo gesto deve avere il
sapore di eternità che caratterizza il nostro carisma. Ogni azione, qualunque essa sia, non deve
mirare ad altro che a praticare uno squarcio nella realtà quotidiana attraverso il quale l’uomo
può percepire la presenza attiva ed operante della divina Provvidenza. In questo senso, la vera
ricchezza dell’Opera non sono le realizzazioni, oppure le opere di bene che facciamo, anche
queste, ma prima di tutto la vera ricchezza sono i religiosi e laici calabriani che vivono lo spirito
puro e genuino dell’Opera.
L’Opera e il suo carisma non si spegnerà mai, perché è parola pronunciata da Dio per sempre.
Le nostre infedeltà, le nostre mancanze verso di essa non sono in grado di appannarne la
validità. Ciò che accadrà è che Dio susciterà nel mondo altri istituti che con maggior freschezza
e coerenza sapranno testimoniare e vivere questo spirito. In definitiva compito del Povero Servo,
della Povera Serva, della Missionaria dei Poveri e del laico calabriano altro non è che questo:
rendere la propria vita il luogo in cui lo spirito dell’Opera si realizzi e trovi testimonianza.
Per questo l’Opera si concretizza in primo luogo nel nostro star insieme, nello spirito di famiglia
e le nostre attività, più che mirare ad essere dei validi ed efficienti istituti, devono essere luoghi
in cui ognuno possa sperimentare sempre il calore di una famiglia, nella quale emerga
chiaramente lo spirito di fede cioè la dimensione soprannaturale della vita, il suo essere, lo dico
con un’espressione di don Calabria, con le radici all’in sù.
Questa dev’essere un’Opera profetica, che non ha tra le sue leggi quella della competizione, ma
che miri esclusivamente a vivere il Vangelo e vada là dove umanamente non c’è nulla da
aspettarsi.
Se caratteristica costante della spiritualità calabriana, come abbiamo detto in precedenza, è
quella di vivere tutto, la nostra vita, la nostra azione, l’Opera stessa, come qualcosa di non
finalizzato a se stesso, ma alla gloria del Padre, altrettanto si deve dire che esiste una stretta
relazione fra il promuovere la gloria di Dio e la Provvidenza: “Se noi avessimo sempre nella
mente e nel cuore, il cercar di Dio, la sua gloria, state certissimi che Dio manterrà
infallibilmente la sua parola e la manterrà come mantiene nel mondo il sole e tutte le meraviglie
umane che testificano e fanno conoscere Iddio nella sua magnificenza. Sì, o cari, per noi,
quest’Opera, ecco la sua fisionomia speciale, ecco quello che vuole Dio da noi; i mezzi, gli aiuti
umani, il materiale, per diffondere, per mantenerla, lo avremo di certo, basta che noi ci
abbandoniamo in Dio; ricordiamolo bene in quel momento che la vostra fede vacilla, che
davanti a una necessità, davanti a raccogliere delle anime, ad una impresa che ha bisogno di
mezzi immensi ma che è diretta solo alla maggior gloria di Dio, e noi diffidiamo e ritorniamo a
condurla dalla prudenza umana e temiamo: Dio, la sua Provvidenza si ritira, lascia a noi, e noi
che cosa possiamo fare? Rovineremo, distruggeremo quest’Opera”.97
“Se noi usassimo dei mezzi umani, l’Opera subito cesserebbe di essere di Dio, diventerebbe
dell’uomo, e allora andrà avanti come una banca, come una casa di commercio, che oggi
fiorisce, domani fallisce”.98
“Il nostro programma ha dei punti che sono in netto contrasto con la prudenza ordinaria; qualche
volta vi dico: l’Opera è il rovescio del mondo; ha i suoi fondamenti non in terra ma in Cielo. Ed
è vero; ma è vero che tale l’ha voluta il Signore; ed il Signore non si smentisce mai. Fede in Dio,
97
G. CALABRIA, Conferenze ed Esortazioni, anno 1927, Archivio dei Poveri Servi della Divina Provvidenza, doc.
n. 5450/E.
98
G. CALABRIA, Sante Norme, 16 luglio 1909, Archivio dei Poveri Servi della Divina Provvidenza, doc. R3.
Padre nostro, o miei cari! Se saremo fedeli al programma, la promessa di Dio si avvererà per
noi, e faremo tanto bene, specie in quest’ora”.99
L’Opera dovrà vivere completamente abbandonata alla Provvidenza: “Niente domandare, molto
pregare, nessuno paghi; sia assolutamente proibito ogni sorta di réclame, non conferenze, non
pesche di beneficenza, non ringraziamenti pubblici; Iddio non ha bisogno di queste cose e in
quest’Opera, che è tutta sua e che dirige con provvidenza particolare, lui penserà; noi cerchiamo
anime, anime; se noi usassimo dei mezzi umani, se facessimo conto sull’aiuto, sulla protezione
degli uomini, l’Opera subito cesserebbe di essere di Dio”.100
Risulta chiaro che nel programma dell’Opera predomina la componente teologico-cristologica.
Essa infatti vive lo stesso spirito di Gesù, il suo programma di vita, la sua stessa missione. Dice
al riguardo don Calabria: “Come è vissuto Gesù a Nazareth? Come si è dato alle opere della sua
vita pubblica? A chi, principalmente, si è rivolta la missione ricevuta dal Padre? Viviamo così
anche noi. Nell’esercizio poi del nostro apostolato, facciamo come ha fatto Gesù. La missione di
Gesù è e dev’essere la nostra stessa missione: evangelizzare i poveri”.101
Il carisma dell’Opera, così come lo sto delineando, è prima di tutto qualcosa da interiorizzare,
esso deve penetrare profondamente in ogni membro della famiglia calabriana. Non è sufficiente
che scriviamo sul portone delle nostre Case il “Quaerite primum”, o il “non angustiatevi”, o che
all’ingresso esponiamo le “cariche perpetue”. Sono tutte cose importanti per il valore simbolico
che hanno, ma soprattutto esse devono svolgere il compito di richiamarci a personalizzare e a
interiorizzare il carisma, lo stile di vita, la spiritualità e la missione dell’Opera, così da dire con
S. Paolo: “non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me” (Gal 2, 20), perché lo “spirito
puro e genuino dell’Opera”, ricordiamocelo bene, è il Vangelo stesso e non altro.
Il membro dell’Opera, che ne ha interiorizzato lo spirito, non ha bisogno di “suonare la
campana”, di agitarsi, di fare cose grandi. Egli trasmette lo spirito nell’umiltà e nella semplicità
– ancor di più che facendo cose grandi ed appariscenti – e lo trasmette con la vita, più che con le
parole. Questo non significa abbandonare il campo per rifugiarsi dietro le mura. Anzi don
Calabria concepiva un vasto campo di apostolato per i fratelli laici, perfino in Parlamento, se c’è
bisogno, ma con semplicità, con umiltà, con lo spirito puro e genuino dell’Opera.
Ogni componente della famiglia calabriana, sia esso religioso o religiosa, fratello o sorella
esterna, ex-allievo o volontario deve sentire in sé quei sentimenti di gratitudine che nascono
quando si comprende appieno quale grande dono sia per ognuno di noi appartenere a
quest’Opera. Come possiamo non amarla noi, che per pura grazia siamo chiamati ad esserne
parte? Noi sappiamo che essa è una creatura del Signore – lui l’ha amata per primo – e sentirsi
costantemente, ogni giorno chiamati a partecipare a questo amore, ha come effetto di renderci
eternamente riconoscenti. Non abiti in noi la tentazione di tradire quello spirito che il Signore ha
voluto per essa: spirito di fede, fiducia e abbandono in Dio Padre; umiltà, semplicità, essere
Vangeli viventi, spirito di famiglia, servizio specialmente ai più poveri, disposti a tutto,
soprattutto ad andare là dove c’è più bisogno e, umanamente parlando, non c’è nulla da
ripromettersi.
Uno dei compiti di chi vive lo spirito dell’Opera è anche quello di scrutare continuamente la
volontà del Signore, perché l’Opera compia quelli che sono i disegni del Padre e mai per nessun
motivo se ne distragga o peggio ancora li fraintenda, facendo sì che le nostre azioni diventino
delle misere caricature della volontà di Dio-Padre.
Guardando alla nostra storia vediamo che, con l’approvazione diocesana del 1932, don Calabria
sente che si apre un tempo nuovo per l’Opera e che il Signore nella sua economia di salvezza
99
G. CALABRIA, Lettere del padre don Giovanni Calabria ai suoi Religiosi - Lett. LXXVIII, 18 novembre 1952,
Ferrara 1956
100
G. CALABRIA, Regole, 1911, 3, Archivio dei Poveri Servi della Divina Provvidenza, doc. R5.
101
G. CALABRIA, Lettere del padre don Giovanni Calabria ai suoi Religiosi - Lett. LXXXVIII, 23 ottobre 1954,
Ferrara 1956
“l’ha affidata a noi, come quando ha affidato la Chiesa agli apostoli. E da parte del Signore non
dubitiamo, Egli ci darà tutti quei lumi, quelle grazie, quegli aiuti che sono necessari perché non
abbiamo a cadere, non solo, ma per crescere e compiere i divini disegni... Carissimi, quanto so e
posso vi raccomando questa creatura di Dio, questa Congregazione guardiamo di custodirla
gelosamente come una cosa sacra e di Dio. E ogniqualvolta ci aduneremo per trattare quelle
cose, è necessario adunarci con lo stesso spirito degli apostoli”.102 Sono parole di don Calabria
paragonabili a un Padre della Chiesa, per la sua profondità e genuità evangelica.
Abbiamo detto della fedeltà al carisma, abbiamo detto dello spirito di famiglia, abbiamo detto della Provvidenza e
del servizio ai poveri. Ma ciò che rende veramente viva ed attiva l’Opera non può essere altro che la sua piena ed
incondizionata adesione al Vangelo. Essa deve essere un Vangelo Vivente ed ogni componente deve avere questo
di mira: vivere autenticamente e radicalmente il Vangelo. Qui è la freschezza di una testimonianza, qui la verità di
un servizio, qui la grandezza di ogni nostro sforzo. L’Opera è una Parola che si fa giornata dell’uomo, che si fa sua
quotidianità. L’Opera è luogo di una presenza e occasione di un incontro con Colui che mi ha creato e che mi ha
amato fin dal seno di mia madre. Solo se rimarrà tale, l’Opera vivrà e sarà un utile strumento nelle mani di Dio. In
caso contrario, essa diverrà l’ennesima misera testimonianza dell’illusoria e caduca potenza dell’uomo.
Termino ricordando quello che è stato, di recente, detto su madre Teresa di Calcutta: “è la donna
più potente del mondo”. Analogamente, e nella giusta misura, si può dire che se don Calabria è
il santo veronese più conosciuto, lo è per la sua fede e grande amore a Dio, e per il suo amore e
servizio ai poveri, abbandonati, ammalati, anziani e reietti.
102
G. CALABRIA, Conferenze ed Esortazioni, 19 marzo 1932, Archivio dei Poveri Servi della Divina Provvidenza,
doc. n. 578/A.
SULLA PSICHE DI DON GIOVANNI CALABRIA103
Giuseppe Celso Mattellini (ofmconv)
Scrivere di un santo è opera di agiografo.
L’agiografo è un uomo tentato dal soggetto che tratta, dai propri pudori e dal prevenire le
eventuali critiche dei lettori e, se il caso, dei censori ufficiali.
Alcune tentazioni dell’agiografo: trattare il santo da eroe. Nascondere pudicamente le deficienze
del santo a favore dell’edificazione, presentare le esperienze negative del santo sotto una luce di
encomio. Soprattutto scambiare le deficienze come umiltà.
Lo psicologo che riflette sulla vita di una persona, creduta santa o no, è tentato in altra direzione:
inserire in una categoria psicologica ogni realtà. È deformazione professionale inevitabile.
A me interessa, in questo momento, scoprire come la persona ha vissuto la propria esperienza.
Un necessario andare oltre. Dall’episodio passare alla dinamica, che sta alla fonte dell’episodio
(una specie di passo indietro). Dall’episodio spingersi verso ciò che l’episodio possa
simboleggiare (un passo avanti).
So che altri hanno compiuto questa riflessione su D. Giovanni Calabria. Forse era opportuno che
io avessi letto i risultati delle loro ricerche, per non ripetere argomenti risaputi.
Però ho optato per un’altra soluzione. Infatti se quello che sto scrivendo non dirà nulla di nuovo
a vantaggio della creatività, tuttavia ripeterà qualche idea a vantaggio della coralità. La Chiesa è
coralità. Un inno cantato in coro, acquista un pathos e un significato, che altrimenti andrebbero
perduti.
Che cosa scorgere in quel pretino astenico, che si chiama D. Giovanni Calabria?
Un uomo conflittuato, indeciso, nevrotico, frustrato, capace di grandi intuizioni, ipersensibile
per la sofferenze proprie e altrui, bisognoso di sfogare le tensioni tramite l’ossessività degli
scritti, famelico di affetto e pauroso di affezionarsi, assetato di appoggio e smarrito nel perdere
gli appoggi, necessitante di aggrapparsi a grandi idee per compensare la proprie carenze, tenace
nell’esigere che altri vivano le sue stesse scelte per sentire meno esposta la propria debolezza,
ecc.? Queste analisi appaiono opportune e verificabili. Eppure mancano di spessore.
Per descrivere gli artisti si adoperano endiadi come “genio e sregolatezza”, “sublimità e pazzia”,
“amore e morte”. È il toccarsi degli estremi che fa scorrere la scintilla estetica, la scintilla della
sensibilità intuitiva e creativa.
Per i santi quale è l’endiadi appropriata? Povertà e grandezza? Umiltà e santità? Nascondimento
e gloria? – Molti agiografi usano queste endiadi. A me paiono manchevoli. Per esempio, la
povertà, se si incontra con la grandezza, svanisce in quanto povertà. Mi sembra che l’unica
endiadi applicabile al santo sia la stessa di Gesù, Uomo-Dio, Figlio dell’uomo e Signore grazie
allo Spirito.
Si può – e si deve talvolta – analizzare il “figlio dell’uomo”, scrutarne le dinamiche e
comprenderne il movimento. Forse quest’operazione può risultare di aiuto al teologo, quasi
offrendogli uno sfondo su cui si staglia più chiara la figura del Santo.
Ma sul concetto di santità è necessario intendersi: essa è “esercitare le virtù teologali in grado
eroico”, o invece è accogliere l’opera dello Spirito, lasciarsene impregnare fino a diventare
trasparenza dell’azione di Dio? Trasparenza tanto più accentuata, quanto più la “povertà” (non
l’eroismo) e la pochezza dell’uomo appaiono e sono evidenti. L’uomo assottigliato nella sua
povera esistenza, così da non impedire il trapasso del raggio divino, l’osmosi dell’energia dello
Spirito.
Se l’analisi dell’uomo mette in risalto la sua inconsistenza, quest’analisi, attenta e disinibita,
sconfina con il diventare un implicito inno di lode alla presenza efficace dello Spirito.
103
Relazione tenuta a Verona all'8ª giornata di Studi Calabria - 8 maggio 1999
L’opera dello Spirito non è né verificabile, né falsificabile. Eppure quest’opera può lasciare
impronte constatabili nella persona che ne è percorsa: frutti dello Spirito, secondo la definizione
di S. Paolo.
Su questi “frutti” che si verificano a livello psico-somatico può applicarsi l’indagine.
Nell’indagare, si applica una molteplice prospettiva: quella del filosofo, il quale descrive i
“frutti” come virtù morali (o anche cardinali); quella dell’asceta, che nei “frutti” trova il risultato
di un lavorio virtuoso; quella del teologo, che interpreta i “frutti” quali risultati della “grazia”
operante; quella dello psicologo, che si accontenta di indagare le dinamiche psichiche, influenti
e sottostanti i “frutti” dello Spirito.
Queste diverse prospettive aspirano all’unificazione. Unificazione alla fonte: la fonte è la stessa
persona nella quale i fenomeni si attuano. Unificazione nella riflessione: una connessione
equilibrata delle singole prospettive, di modo che nessuna pretenda di invadere il campo
dell’altra.
Dopo questa premessa, mi pare corretto indicare la scelta di campo, in cui intendo operare:
rilevamenti psicologici sia sulle dinamiche personali di D. Calabria, sia sulle implicazioni
psichiche dei “frutti” dello Spirito. Alla fine mi sembra opportuno guardare, con sensibilità
teologica, la struttura e la dinamica, già intraviste dalla psicologia, in relazione all’opera dello
Spirito Santo, così come questi è presentato dalla tradizione biblica.
Dopo questa introduzione sul metodo, mi permetto di presentare una premessa più personale.
La mia ricerca sulla consistenza psichica dei “santi ufficiali”, mi è stata inizialmente suggerita
dalle biografie di Teresa di Lisieux. Da molto tempo. Quel tentativo degli agiografi di Teresa di
dire e non dire i tratti nevrotici della santa, quel correggere monastico della “Storia di un’anima”
mi hanno insospettito e incuriosito. E, dopo le manifestazioni nevrotiche di Teresa, ho riflettuto
su P. Kolbe, sull’isteria di Margherita Alacoque, sono entrato un po’ nel sadismo di Pier
Damiani, ho deposto per la causa di beatificazione di un nostro confratello. E qui mi è successo
un fatto strano: le osservazioni che precedentemente avevo tracciato, con spirito obiettivo e
critico riguardo alla sua consistenza psichica, nel rileggerle davanti al giudice mi apparvero
invece come lodi alla sua bontà.
Dunque, i santi ufficiali, per essere dichiarati tali, devono aver esercitato le virtù teologali in
grado “eroico”, come si suol dire e come nell’ufficialità si afferma. “Congresso Speciale sulle
virtù eroiche del servo di Dio Don Giovanni Calabria” fu quello indetto l’8 Ottobre 1985,
esattamente 112 anni dal giorno della sua nascita. Ma proprio quell' “eroico” mi ha posto in
allarme. Si tratta di una trascinamento di elementi pagani in ambiente cristiano. L’eroe quindi
viene malamente sostituito dal santo. I pagani da sempre hanno cercato il genio della propria
stirpe in un antenato, cui si attribuivano dotazioni straumane. Questo guardare a ritroso per
esaltare le proprie origini, compensava le meschinità del discendente e alimentava l’illusoria
speranza di una protezione potente da parte dell’antenato.
A questa regola s’attengono sia il culto degli eroi, sia – almeno sotto alcuni aspetti – il ricordo
degli antichi ebrei, scritto in taluni settori dei libri sapienziali della Bibbia. L'agiografia cristiana
è stata sedotta dal culto degli eroi, contrabbandato come culto dei santi. I santi cristiani non sono
i sostituti della pluralità degli dei pagani, come spesso si va dicendo, ma sono proseguimento del
culto degli eroi. Difatti gli stessi dei erano trasposizioni e sublimazioni fantastiche del culto
degli antenati e degli eroi.
Forse accostando con oggettività la vicenda dei santi, ci riesce sentirli uomini come noi e tra di
noi, svestiti dei paludamenti eroici. Che è, alla fin fine, ciò che i santi vivevano e sentivano di se
stessi, e questo non a causa di un’umiltà accademica da libri pii e da oleografie, bensì a causa di
un semplice vivere, sentire ed esprimere la propria verità personale. Ci figuriamo un D.
Calabria, che, dopo aver aiutato un poveraccio, si sieda a tavolino e scriva nel suo diario: oggi
ho esercitato la carità in grado eroico?
1° – L’infanzia di D. Calabria non fu una delle più lisce. Scabrosità, alti e bassi, entusiasmo e
depressioni.
L’esistenza di ogni persona è costruita sulla sua vita prenatale e infantile. Sotto alcuni aspetti la
persona protrae ciò che visse nell’infanzia. Sotto altri reagisce contro le esperienze infantili.
Sotto altri ancora trasforma abbellendo e sublimando le impronte psichiche e biologiche scolpite
nell’infanzia.
Gli antichi agiografi scrutavano dentro l’infanzia dei santi per scoprirvi i segni precoci della
futura santità. L’intuizione era esatta. Senonché, per loro i segni precoci non erano rappresentati
da tutte le esperienze, ma solo da alcune e ben selezionate: quelle che corrispondevano agli
schemi di santità allora in voga. Il resto veniva dimenticato o scartato.
La famiglia Calabria, in cui nasce Giovanni, è povera. Povera davvero, senza poesie fine
Ottocento. Frugale per necessità: danari non ce n’era.
Già la madre di Giovanni, Angela Foschio, era stata accolta, a sei anni, nell’Istituto Don Mazza,
dove restò per undici anni. E della istituzionalizzata ella porta le stimmate. “Schiva e scontrosa”
viene definita. In realtà è una persona insicura, non protetta, allontanata fin da piccola dalla
famiglia e poi rientrata in famiglia, dove si deve abituare alla presenza di una matrigna. Lei
quindi impara ben presto a proteggersi dagli uomini, dai quali deve dipendere sottomessa per
vivere: alza le barriere del ritirarsi nella scontrosità, e alimenta il ricorso a un rifugio che le
appare più sicuro: la preghiera, che si trasforma in tentativo di rassicurazione anche emotiva.
Il matrimonio di Angela con Luigi fu certamente di convenienza per lui, rimasto vedovo e solo,
ma l’affrettare la data del matrimonio, poté anche rappresentare per Angela un cercare di
nidificare fuori dalla casa paterna. E nidificò in una soffitta.
E poi i sette parti. Al settimo, che è quello di Giovanni, la donna è sfinita. Ella ha 42 anni, e
spesso la denutrizione l’ha afferrata. Quattro dei suoi sette figli muoiono al di sotto dei tre anni.
Quel Giovanni è l’ultimo ed inizia la vita in un ambiente deprimente.
Il biografo di D. Calabria tende a presentare la sua infanzia dentro un alone sereno e luminoso,
quasi idilliaco.
I genitori sono descritti tutti dediti al dono di Dio, che è Giovanni. Si potrebbe però anche
considerare che la povertà rende continuamente preoccupati, e perciò ansiosi, i familiari: e
spesso i loro sorrisi sono solo palliativi. Il padre deve sbarcare il lunario, la madre cerca lavoretti
per campare. Sono quindi persone alacri, che pur stretti dalla povertà, non si arrendono alla
povertà. Lavorano. Giovannino a tre anni sarà affidato all’asilo, perché la madre abbia più
opportunità di allontanarsi da casa per svolgere dei lavori.
Padre e madre sono di fronte all’ultimo nato, che, come tutti gli ultimi nati, è oggetto di segreti
sentimenti molto disparati. Per la donna Giovanni simboleggia la fine della fecondità: è una
fortuna non affrontare nuove gravidanze, è una sfortuna dover ancora una volta ricominciare a
patire. Per il padre, l’ultimo è un peso che aggrava i suoi 53 anni. Per tutti e due è un “dono” sì,
come si dice, ma un dono che sa molto di croce. Sotto questo profilo, mi pare significativa la
devozione della madre alla Madonna Addolorata dal cuore trafitto: in essa scorge una chiara
proiezione del proprio stato (sette spade a Maria, sette figli ad Angela), ed è un indice di
sentimenti non gioiosi che pervadono la religiosità familiare.
La povertà non necessariamente affina l’amore. Guardiamo le periferie delle metropoli. Una
povertà vissuta da persone credenti, può acquistare connotati vivibili, ma non trasformarsi
automaticamente in dono. La religione sorregge, talvolta corregge, a volte sublima il vissuto del
povero. Però non cancella le ferite, soprattutto quelle che il povero riceve nell’età più tenera, e
quindi più vulnerabile.
Quel bambino è un problema in più per i genitori poveri.
L’agiografo scorge in lui, un bambolotto, un trastullo per la sorellina, e un prossimo compagno
di giochi per il fratellino. Il quadro appare luminescente sotto questa inquadratura. Però si può
anche osservare la situazione sotto un’altra prospettiva: il bambolotto e il compagno di giochi,
non è percepito come valore in sé, ma in funzione di altri e viene quindi cosificato, poiché non a
lui, ma a se stessi pensano ovviamente i fratellini.
È opportuno accennare a quell’appendice della famiglia, che è rappresentata dalla Signora
Barbara Ricca, la quale sarà la madrina di battesimo di Giovanni. Barbara Ricca è una vicina di
appartamento, nubile, aiuta in molte maniere la famiglia Calabria, e compensa la propria
mancanza di maternità, adottando segretamente Giovanni. Fino a dire: “È tutto mio”. La madre
reagisce: “Giovannino è mio figlio”. Si può anche benignamente sorridere sui sentimenti delle
due donne. Ma tra le due s’accende una sottaciuta e reale emulazione per il dominio del
territorio affettivo; perciò la tensione emulativa delle due donne rischia di rendere incerto,
sfocato, ambivalente l’orientamento del piccolino verso la figura femminile. Di fatto egli ha tre
madri: Angela, Barbara e la sorella. Quindi non è agevole per lui orientarsi definitivamente
verso una figura materna ben stagliata, che non rappresenti una fonte di minaccia. La madre che
teme di perderlo. Barbara che tenta di conquistarlo. La sorella che deve accudirlo.
Il padre di Giovanni, come i padri di allora, è una presenza avvertita in casa, solamente negli
esigui ritagli di tempo lasciati liberi dal lavoro o da altre occupazioni. È quindi un punto di
riferimento sfocato, indiretto, mediato dalla madre, già, a sua volta una figura dai contorni
incerti.
Prima di ricavare da questi semplici cenni alcune riflessioni, mi soffermo su un episodio,
interpretato come “vocazione” precoce sia da D. Calabria che dall’agiografo.
Durante il terzo anno di vita, Giovanni con le forbici si tagliò una ciocca di capelli alla sommità
del capo. Sarebbe stato un segno della futura vocazione di chierico, cioè di tonsurato. La madre
vede nel gesto soltanto uno sconcio: “Ti porterò in Piazza delle Erbe e ti metterò alla berlina:
tutti rideranno di te”. Queste parole, all’apparenza ovvie, sono profondamente tremende: lui
potrebbe esser posto al ludibrio proprio da sua madre, da colei che sarebbe dovuta essere il suo
rifugio, la sua protettrice, la sua confidente! La scena resta scolpita nella mente di D. Calabria,
quindi è una scena traumatica. Mi pare opportuno notare, fra gli altri, due elementi insiti
nell’episodio: l’atto autolesivo del bimbo (fin da allora attraversato da angosce attive), e la non
protezione della madre (incapace quindi di interpretare il profondo disagio del figlio). Si
aggiunga un’autopercezione negativa di Giovanni, cioè quel suo ripetere “No son bon de
gnente”, strutturato già all’età di 3-4 anni. E così si possono isolare alcuni elementi che
forgeranno il carattere di D. Calabria.
2° – Già dai pochi dati fin qui recensiti, si possono arguire alcune direttrici per immaginare la
struttura e lo sviluppo della personalità di D. Calabria.
La povertà, prima di tutto. Chi nasce e vive povero, non si trova tale soltanto all’interno di una
situazione sociale, ma la povertà lentamente diventa per lui uno statuto psicologico personale.
Egli tende a sentirsi non una persona in condizione di povertà, ma semplicemente un povero,
essenzialmente un povero: la povertà intride la vita fino a diventare il substrato intimo del
povero, non soltanto il suo vestito … logoro.
Alla povertà così internalizzata si può reagire con diverse risposte. Una prima risposta è la
depressione: avviene, quando la persona povera si accascia, si abbandona fatalisticamente nella
propria condizione, e si lascia distruggere dalla povertà.
Una seconda risposta è la ribellione: la persona povera sente l’ingiustizia della propria
situazione, attribuisce agli altri il proprio stato, e assale gli altri, singoli e società.
Una terza risposta è l’ingegnosità: risponde al vecchio detto "la necessità aguzza l’ingegno”, e
organizza la creatività della persona, che si abitua ad arrangiarsi dentro la povertà, perfino
talvolta uscendo dalla povertà stessa.
La quarta risposta è la sublimazione: la persona povera, che non vuole subire passivamente la
povertà e che pure non vuole o non può scansarsi da essa, riesce ad accettare la povertà
attribuendole valore: valore filosofico (Diogene e Plotino), valore religioso (Buddhismo e
monachesimo in genere), valore salvifico (sequela di Cristo povero e umile).
Qualche persona povera reagisce in un unico modo di fronte alla propria povertà. D. Calabria,
dotato di esasperata sensibilità, reagirà in tutti e quattro i modi, addirittura in maniera
contrastante e conflittuata, fino a viverli con sensi di colpa.
Il modo depressivo lo si riscontra spessissimo in D. Calabria. Egli ha talmente internalizzato il
senso di povertà, che dichiara di essere “un cencio” (quant’è significante questo termine), uno
zero, un ignorante, un peccatore, e via disprezzando.
La stessa sua esasperata sensibilità per ogni umiliazione, che lo costringeva ad accartocciarsi in
se stesso, era un segno depressivo. Sotto questo aspetto si ritrovava simile a quell’Angela
“scontrosa” che fu sua madre.
Però D. Calabria reagisce alla povertà anche in modo ribelle. Sono memorabili le arrabbiature di
D. Calabria. Tuttavia la sua ribellione è debole, da astenico. È cosciente di non potersi misurare
fisicamente, di non aver forza per opporsi e allora ripiega in calcio d’angolo: lo scritto e l’aiuto
alle persone povere; e in tal modo sviluppa una reazione ingegnosa.
E la reazione ingegnosa diventa creatività. La piccola creatività esercitata in famiglia, su
esempio della madre, che cerca lavoretti e ammennicoli per guadagnare qualche spicciolo, la
media creatività che lo porta a ribellarsi alla povertà delle persone che incontra (soprattutto
giovani, grazie al fenomeno della proiettività), la grande creatività che tutti noi ammiriamo nelle
sue opere sociali.
La reazione contro la povertà, spirituale, materiale, biologica, non conosce confini.
D. Calabria usa anche la reazione sublimizzante per opporsi alla povertà.
Per sublimare, esalta la strada della povertà, quando questa gli si prospetta come imitazione di
Cristo e come mezzo per vivere la carità. La determinazione di essere, assieme con altri, un
“povero servo” è influita dal bisogno di reagire sublimando: “Sono povero sì, ma questo mi
rende grande, poiché sono accetto a Dio”. Qui si potrebbe continuare senza sosta, citando tutti i
testi, parlati e scritti, di D. Calabria, sulla significatività cristiana e salvifica del “Povero Servo”.
Per comprendere meglio la sublimazione e la creatività di D. Calabria nei riguardi della povertà,
torna utile un confronto: Francesco d’Assisi nacque benestante e scelse la povertà, una posizione
estranea alla sua condizione iniziale. D. Calabria nacque povero e poté solamente sublimare la
condizione in cui già si trovava per nascita. La sua povertà divenne anche scelta, quando entrato
nel clero, avrebbe avuto la opportunità di vivere agiatamente. Soltanto allora, trovandosi di
fronte alle due possibilità e misurando lo scarto che passava tra l’una e l’altra, optò per la
povertà. Perché? Qui si affaccia la considerazione delle scelte libere e per fede, che entrano a far
parte della personalità e le attribuiscono colorazioni nuove. Colorazioni, che a poco a poco
permeano la persona e la caratterizzano. Questa caratterizzazione non crea nuove facoltà
psichiche, ma riorganizza la grandi possibilità umane, svegliando quelle non ancora attivate: e
sono moltissime.
Non è fuori posto ricordare che l’attivazione di potenzialità umane, lasciate assopite dalla
maggior parte delle persone nel “vivere quotidiano”, può essere provocata da numerosi e
diversificati stimoli: la fede, la contemplazione, gli esercizi ascetici del buddhismo o
dell’induismo, le scuole di dinamica mentale, ecc. Alla rilevazione psicologica, gli effetti
sperimentabili di queste attivazioni si possono probabilmente catalogare sotto una
denominazione univoca. La vera differenza che corre tra di esse, la si ricerca non nel fenomeno
verificabile, ma nella specifica motivazione che influisce su quel fenomeno e forse lo causa.
Su queste inedite motivazioni, attivazioni e organizzazione la ricerca psicologica è chiamata a
scrutare in seconda battuta.
3° – Ora passiamo a dare uno sguardo a due delle conseguenze della povertà: la denutrizione e
l’abbandono.
La denutrizione alla fine del secolo scorso e all’inizio di questo secolo era endemica nelle
campagne venete. E non solo in esse. Penetrava sovente anche nei quartieri poveri delle città. D.
Calabria la sperimentò durante tutta l’infanzia e l’adolescenza. Da qui la sua costituzione
astenica, esposta alle malattie, che lo tormentarono lungo la vita intera.
Per imporsi una penitenza fisica D. Calabria non abbisognò di mortificazioni, digiuni, sofferenze
procurate. Fin da piccolo, sotto questo aspetto, portò la sua bella croce, che, con l’andare degli
anni, egli sublimò considerandola croce di Cristo.
Si sa che l’abitudine alla denutrizione, procura una correlativa autopercezione. Il bambino,
abituato alla mancanza di cibo, a poco a poco si “convince” inconsciamente che la propria
esistenza è un’esistenza manchevole, incompleta, sempre priva di qualche elemento.
L’esser denutrito e povero diventa una latente caratteristica disagevole, che pervade ogni livello
della psiche. Non solo alimenta la poca stima di sé nel settori fisico (astenia, defedazione) e
psichico (non valgo nulla) e intellettivo (il povero Casante), ma si insinua anche nei settore
spirituale (il senso esasperato del peccato: “Sono un peccatore”, e non semplicemente “Sono una
creatura che talvolta pecca”).
L’autopercezione negativa di manchevolezza, innesta un recondito bisogno di superamento e di
opposizione. Il manchevole, quanto più si sente vuoto, tanto più tende a rifarsi fantasticamente.
Soprattutto se la persona è dotata di spiccata intuitività. Ecco allora nascere il senso della
perfezione, principalmente della perfezione morale: essere santo, secondo lo schema del
santo-eroe.
Si accende la lotta funesta tra l’ideale di santità e la condizione di manchevolezza e di peccato;
se ne accennerà più avanti.
Un altro lato della povertà sofferta e poi scelta di D. Calabria, era il suo essere spinto a
compensare la denutrizione patita, nutrendo altre persone, nella quali, per trasferimento
proiettivo, cercava – inutilmente – di riparare i danni da lui subiti.
Lo stigma della sua denutrizione infantile rimase anche nella sua attività intellettiva. Poco
propenso a lunghi studi, portato invece a intuizioni. Le intuizioni erano tanto più elevate e
lungimiranti, quanto più esse svolgevano la funzione di controbilanciare la pochezza di
approfondimento sistematico.
La necessità di scrivere molto e spesso (lettere, diari, articoli, libri) rispondeva al bisogno di
concentrarsi, un concentrarsi attivo, poiché la protrazione nella concentrazione passiva – di cui
D. Calabria pativa la necessità – era ostacolata dalla sua scarsa resistenza. Anche da questa
difficoltà dipese la non sviluppata speculazione teologica. Intuizione (Vangelo vivente), per
controbilanciare la disagevole concentrazione.
I danni maggiori, però, si rintracciano nella regione affettiva: l’abbandono e la solitudine.
La persona povera, che conduce la vita dentro un gruppo di altre persone povere, vive integrato.
Probabilmente è questa la fortuna e la serenità, di quelli che noi, che ci reputiamo evoluti,
abbiamo la pretesa di definire come “popoli primitivi”, a cominciare da Adamo ed Eva, che
erano nudi e non per questo si trovavano a disagio.
A mano a mano che i gruppi si civilizzano, una parte gode di benessere e privilegi, un’altra,
meno dotata o più coscienziosa, continua a essere povera. Fino alla estremizzazione delle
nazioni opulente, nelle quali tuttavia brulicano sacche di povertà, uguali alle povertà delle
nazioni misere (cioè in via di sviluppo, una via lunghissima). Più una società progredisce
nell’incivilimento, più alti ed esigenti si formulano schemi di valori e di livelli sociali, che i più
fortunati creano e impongono, e, per conseguenza, più le persone povere si sentono lontane da
quei valori e patiscono sensi cocenti di emarginazione. Ma il ricco di quella società è un
emarginato pure lui. Egli deve difendere ciò che possiede dalle esigenze dell’altra parte della sua
società, e inoltre cerca disperatamente di consorziarsi con altri ricchi per garanzia di sicurezza.
Di solito le persone povere tendono a solidarizzare con i propri simili, ma non a consorziarsi con
essi. Eccetto il caso che arrivi il grande profeta, Marx o Francesco d’Assisi, che unisce in un
“ordine” i diseredati, cioè i minori, e crea delle oasi di serenità “primitiva”, dove la povertà è
una scelta e il povero riconosce ed apprezza la propria dignità.
Nella nostra società civile, che nasce povero, nasce emarginato, abbandonato, solo. La solitudine
toccò a D. Calabria. Addirittura il dileggio per la sua povertà, per certi suoi abiti, per gli
indebolimenti, che minavano i risultati scolastici. Che poi gli indebolimenti fossero un baluardo
a propria difesa, questo è un altro argomento.
Egli tuttavia reagirà contro la propria emarginazione, solidarizzando con altri emarginati (ebrei, malati, ragazzi
abbandonati) e consorziandosi con altre persone povere nella creazione di oasi di “poveri servi”.
La solitudine affettiva della persona povera non si sviluppa soltanto nell’ambito della società,
ma anche nell’ambito familiare e nell’intimo della persona.
È una realtà intuibile, sebbene non generalizzabile. Quando si vede il figlio di una famiglia povera andare sporco e
moccioso, questo non lo si attribuisce soltanto alla mancanza d’acqua, ma anche alla trascuratezza dei familiari. La
povertà induce a una diminuzione educativa, perché il genitore povero, per molti motivi, non può o non sa dedicare
molto tempo ai figli.
Per spiegarmi meglio, mi propongo di analizzare un episodio dell’infanzia di D. Calabria, che esprime chiaramente
la condizione emotiva della sua famiglia.
Giovannino gioca a imitare il prete. Il fratello talvolta lo canzona. Il padre, a una predica del bambino sulla
necessità di salvare l’anima, commenta: “Sì, salvare l’anima: quella del bottone”. La madre difende il piccolo.
L’uscita poco indovinata del padre, resterà scolpita dolorosamente nel ricordo di D. Calabria.
Elementi da considerare. Giovanni preferisce giochi simbolici e poco vivaci, come molti bambini indeboliti. Il
fratello non sta al gioco, come i fanciulli del Vangelo. Il padre è lontano dall’orizzonte psichico del bambino e non
lo capisce. La madre è in disaccordo con il figlio maggiore e con il marito nella difesa di Giovanni. Nel suo gioco
compensativo questi si sente non compreso, abbandonato e solamente difeso dalla madre.
Eppure D. Calabria gode di correttivi alla solitudine. La madre, per quanto tendente alla mestizia, sta dalla sua
parte, come può. Alla madre si affianca, anche in emulazione con la madre stessa e quindi con affetto segnato da
alcune valenze negative, la Signora Barbara Ricca, che costituì d’altronde un primo segno di “Divina Provvidenza”.
Più tardi D. Pietro Scapini manifesterà a Giovanni altri tratti della Divina Provvidenza, e in qualche modo
compenserà la figura manchevole del padre.
Soprattutto D. Calabria trovò nelle pratiche di pietà e nella fuga psichica verso l’ideale del sacerdozio un correttivo
esistenziale alla solitudine e all’abbandono.
4° – Quanto osservato finora può essere interpretato come necessaria introduzione al capitolo dei tratti nevrotici e
delle situazioni di interesse psichiatrico, della personalità di D. Calabria.
Trascuro quanto di lui è stato scritto relativamente agli ultimi anni di vita, quando l’aterosclerosi tormentava D.
Calabria. Mi soffermo soltanto su alcune situazioni nevrotiche, che risaltano nel carattere di D. Calabria, affidando
alla psichiatria diagnosi più attente.
Ho l’impressione che il biografo usi molta circospezione nel descrivere questi tratti caratteriali, perciò non è facile
desumerli dalla semplice biografia.
L’ossessività. Il comportamento ossessivo-coatto. Quel ripetere a voce e per iscritto le stesse idee, quasi per
scolpirle dentro di sé e nella testa dei suoi collaboratori. E non sempre sviluppando il pensiero enunciato, ma
ripetendo, non di rado alla lettera, alcuni concetti. Quale paura soggiaceva a questi martellamenti? Il non essere
capito? La non vigilanza e la scarsa attenzione dell’uditore? – Nell’uno e nell’altro caso alla radice pulsa la
sfiducia. Sfiducia in se stesso: sono riuscito a spiegarmi? Sfiducia negli altri: hanno capito e sono propensi a
osservare quanto io dico? – La sfiducia a sua volta è frutto della poca stima di sé e degli altri. La disistima dipende
da una percezione pessimistica dell’uomo. Il pessimismo è radicato sull’angoscia esistenziale. L’angoscia
esistenziale è l’effetto base della precarietà dello stesso esistere.
Una delle componenti della tendenza coatta a ripetere è il cosiddetto scrupolo. Di solito nelle persone eminenti, lo
scrupolo è indicato come delicatezza di coscienza, sensibilità raffinata. In noi, gente qualunque, esso è
semplicemente tendenza compulsiva e coatta a ripetere alcune azioni, che reputiamo soteriche o salvifiche. Tra le
azioni salvifiche, lo scrupoloso pio utilizza spesso la confessione sacramentale e il ricorso a una direttore spirituale.
Le confessioni frequenti in D. Calabria, il suo perenne ricorso al padre spirituale possono essere manifestazioni di
scrupolosità? Se sì, come pare ragionevole arguire, allora affiora la domanda: da che cosa è originata la
scrupolosità?
Dal timore di non essere “a posto”, di non essere pulito, in linea con l’ideale di sé. Con termini più tecnici, può
trattarsi di perfezionismo.
Nella mentalità corrente dei tempi di D. Calabria e fino a non molti anni or sono, il santo o la persona che abbraccia
una carriera di tipo sacrale, dovevano essere perfetti, la loro santità equivaleva a perfezione. I canoni di tale
perfezione erano molto esigenti. “Devo diventare santo” si legge nei diari di molte persone di quel periodo. In
collegio, dove io studiai, si aggiungeva: “Devo diventare santo, gran santo, presto santo”. A voglia! Eppure noi,
ragazzi, ci credevamo!
Insomma una persona si costruiva santa – magari chiedendo una mano a Dio, per murare la costruzione,
affidandogli la mansione di manovale - . Noi godiamo oggi del dono immenso del Concilio Vaticano II°, e del dono
non trascurabile del modo con cui Giovanni Paolo II° sbriga le proclamazioni di beati e di santi.
Ordunque, se una persona non appura di essere perfetta, cade in depressione. Continua a tormentarsi per
raggiungere una purezza impossibile, fino ad accusarsi per normali fenomeni fisiologici, o per semplici pensieri
affacciati alla mente e sorgenti naturalmente dal preconscio. Per tale persona, la vita è trascorsa in una
inconcepibile battaglia tra l’ideale perfezionistico e la reale dimensione di se stessa.
Ma perché il perfezionismo? Esso è causato da necessità compensative. Quanto più una persona si disistima e
contemporaneamente rifiuta la propria condizione fisica, psichica, spirituale e sociale, tanto più in alto pone
quell’ideale di sé che si propone di raggiungere. La condizione povera, segnatamente se psichica, patisce una fame
continua di questa superalimentazione dell’ideale, che è il perfezionismo, mentre si sforza di cancellare tutto quello
che rifiuta di sé.
Alcuni sintomi del rifiuto della parte imperfetta di sé, si notano con frequenza nella vita travagliata di D. Calabria.
L’autolesionismo, che non si riduce solamente nella recisione dei capelli, di cui s’è ricordato di sopra, ma anche
nella continua denigrazione di sé, cioè nel rifiuto di ciò che non si vorrebbe essere. L’autoumiliazione è semplice
autolesionismo. Per non rare persone il sacramento della riconciliazione, si tramuta in un’occasione, lancinante,
eppure piacevole, di autodenigrazione distruttiva, nell’accusa di essere un gran peccatore.
Il senso dell’umiliazione occhieggia sovente negli scritti e nelle parole di D. Calabria. È ovvio che dove c’è
l’umiliazione, manca l’umiltà. La persona umile. Al contatto con un’umiliazione, non soffre reagendo, poiché dà
per scontato il proprio limite. L’umiliazione viene patita, quando parole e atti feriscono la bellezza di ciò che
crediamo di essere o che vorremmo diventare.
La tendenza depressiva è tanto più intensa e frequente, quanto più il desiderio di essere perfetti viene frustrato.
La tendenza a mitizzare o a proiettare. Spesso il perfezionista non riesce ad accettare le miserie che affiorano dentro
di sé. Allora trova utile e alleviante il pensare che quanto avviene di negativo in lui o attorno a lui è opera di un
altro, di Satana, per esempio. E il depresso e lo scrupoloso godono di una fecondissima capacità di immaginare
nemici, prove da parte di Dio, malevolenze degli uomini, ecc. Questa capacità immaginativa richiede il cuore di un
fanciullo, lo stesso fanciullino che continuamente suggeriva a D. Calabria pensieri di onnipotenza. È
un’onnipotenza di depresso, che si articola soprattutto in senso distruttivo: “I miei peccati distruggono,
impediscono, rovinano l’opera di Dio”. Figurarsi se noi siamo così forti da distruggere l’opera di Dio!
Poteri continuare ricordando il bisogno di dominare sugli altri nascosto tra le pieghe dell’ideale e della paternità.
L’ambivalenza insita nell’appartenere a un ceto privilegiato, come era il clero al tempo di D. Calabria. Lo
smarrimento patito alla morte di P. Natale, sul quale D. Calabria aveva appoggiato la propria vita, come effetto
della rinuncia a vivere. La misteriosa fonte interiore, di cui parla D. Calabria, la quale provoca tentazioni e
malessere, cioè ansie persistenti.
5° – Tutto qui D. Calabria? Non tutto qui. Io ho leggermente scarificato alla superficie. Uno psicanalista avrebbe
scarnificato in profondità.
Eppure tutto qui?
No. C’è dell’altro e molto e bello.
Mi trovo in questo momento come Dante, che attraverso la “natural burella” esce dall’Inferno per attraversare il
Purgatorio e salire in Paradiso.
La statura di una persona non è misurabile dalla dotazione, fisica, psichica o sociale. Essa è misurata dall’uso libero
e cosciente che compie della sua dotazione. Ossia dal come ha sfruttato la dotazione naturale o congenita. Il servo
che nascose il talento, anziché sfruttarlo, è condannato non per ricevuto un solo talento, ma per non averlo sfruttato.
La maturità di una persona non si attua quando lei acquista esperienze o qualità aggiuntive, ma quando riesce a
penetrare nella propria realtà, pacificandosi con se stessa. La maturità non avviene per la corrispondenza con uno
schema preposto dagli psicologi e dagli asceti, bensì con la corrispondenza della persona con se stessa.
Si tende alla maturità non viaggiando verso ideali e schemi socialmente accettati o subdolamente imposti, ma
veleggiando quotidianamente dentro di sé alla ricerca della propria autenticità.
La povertà subita, D. Calabria la trasforma in povertà scelta e sublimata secondo le indicazioni evangeliche. Le
ferite inflittegli dalla povertà si trasformano in affinamento della sensibilità verso altre persone povere, e in
solidarietà con loro. I patimenti conseguenti la povertà, egli li combatte sollevando da essi, in quanto gli riesca, le
altre persone povere.
La dignità calpestata nel povero, egli la rivendica, tra l’altro, nell’annullare la distinzione di classi almeno
all’interno del suo Istituto.
La tensione a voler uscire dallo stato di povertà, la trasforma in un voler tutti i suoi vicini eguagliarsi nella povertà:
poveri servi sì, ma di Dio, della sua bontà, tradotta in Provvidenza. Come terziario francescano, D. Calabria intuì la
bellezza di Francesco d’Assisi, che, denudato, gridava di essere l’araldo del Gran Re.
Le debilitazioni e le malattie, lo spinsero a combattere le malattie degli altri, attraverso la cura dei malati prima,
anche quale soldato della sanità. E poi l’alimentazione dell’Ospedale di Negrar, principalmente.
La profonda insicurezza psichica, che scava progressivamente il fosso tra l’ideale e la povera realtà, si trasforma in
intensa preghiera, ricerca incessante della parola di Dio, obbedienza quasi infantile al direttore spirituale.
La castità, provocata dalla denutrizione, venne elaborata come scelta e voluta anche quando l’esser casto comportò
dileggi e umiliazioni.
Il vuoto affettivo, mentre da un versante lo rese sospettoso e guardingo verso le donne, che non siano quelle
partecipi del suo ideale, da un altro lo spinse a unirsi affettuosamente ai suoi collaboratori, fino a dichiarare di
essere un cuor solo e un’anima sola con D. Pedrollo, per esempio.
L’ossessività servì a renderlo costante, testardo nel perseguire la sua opera, anche quando le circostanze parvero
distruggere tutto. La costanza divenne perfino attesa snervante a che “si realizzi la volontà di Dio”.
Il perfezionismo si modificò in passione per la purezza della chiesa, stimolo a vivere il Vangelo senza riserve.
La stessa spinta ideale, che lo travagliò, venne sempre più indirizzata verso quel grande ideale concreto che è la
Persona di Gesù, che D. Calabria incontrava nell’Eucaristia e nel contatto con le persone povere e ammalate. Le
sofferenze fisiche e psichiche furono immaginate come purificazione e offerta a Dio per scontare il peccato o per
attirare favori, in armonia evidentemente con i concetti teologici correnti dell’epoca.
Il senso di onnipotenza si converte in occasione di umiliazioni e, elaborando l’umiliazione, di umiltà.
La carica di aggressività distruttiva, accumulata durante l’infanzia e durante decenni di lotte e di umiliazioni, si
tramutò in aggressività costruttiva, in esplosione creativa, come le opere di D. Calabria dimostrano.
6° – Eppure questa bravura trasformatrice, per quanto alimentata e sostenuta dalla preghiera, non esaurisce ancora
tutto lo spessore della persona di D. Calabria. L’utilizzo delle deficienze psichiche, costituisce soltanto il
Purgatorio, la purificazione delle negatività, che non si cancellano neppure quando sono sublimate.
Dovrei ora entrare in Paradiso, ma non mi si presenta nessuna Beatrice, neppure tascabile, che mi conduca.
Perciò mi rivolgo al teologo. All’autentico teologo, cioè a colui che non solo parla di Dio (e non degli uomini
unicamente), ma sa ascoltare e aiuta ad ascoltare Dio che parla.
Io appartengo allo stesso Ordine religioso di colui, che fece “l’avvocato del diavolo” nella causa di beatificazione di
D. Calabria. Anzi, durante i miei studi di teologia, fui discepolo di quell’avvocato del diavolo. Non sono degno di
parlare da teologo. Perciò mi rivolgo a un teologo per formulargli alcune domande.
♦
La santità, intesa evangelicamente, è opera dell’uomo, suo risultato, oppure è ciò che compie Dio,
trasmettendo la propria santità all’uomo?
♦
È vero che la base delle beatitudini è la povertà? Quella povertà che nasce da una condizione, diventa
coscienza davanti agli uomini e davanti a Dio, fino a essere scoperta e vissuta come limite e povertà causata dalla
condizione di creature; posta davanti a Dio è piccolezza nell’esistere se confrontata con la pienezza di essere che è
Dio?
♦
È vero che le beatitudini enumerate da Gesù sono uno sviluppo umano e salvifico della povertà? Di modo
che il povero autentico è inerme, piange, è affamato e assetato di Dio, è misericordioso perché conosce nelle
proprie carni la difficoltà a vivere, vede la realtà con occhi puri, favorisce la pace, patisce difficoltà per realizzare la
bontà, ed è ostacolato da amici e da nemici, quando è deciso di attuare la volontà di Dio nel nome di Gesù? E non
capitò proprio questo a D. Calabria?
♦
È vero la santità, ossia la pienezza della salvezza, non è composta delle grandi opere dell’uomo, ma della
trasparenza di Dio, attraverso lo loro opere, nella gioiosa scia di Gesù, che afferma “chi vede me, vede il Padre”?
♦
È vero che quanto più fragile e debole e inconsistente è lo spessore di una persona, tanto più Dio trova in
essa libero passaggio per trasmettere e far agire il suo spirito e per comunicarsi agli uomini? La Madonna ce lo
mostra.
♦
Se Dio passa attraverso un uomo fragile e inconsistente, è vero che l’inconsistenza che rende l’uomo
trasparente a Dio, è principalmente quella provocata dalla malattia psichica e dalla fragilità nevrotica?
♦
Se questo è vero, allora proprio le deficienze psichiche di D. Calabria, di cui abbiamo parlato, sono state
un inno alla bontà di Dio, che crea i veri santi, non scegliendoli di tra i sapienti e i potenti, ma proprio di tra tutto
quello che non è?
Io concepisco la santità in modo semplice. Credo perciò di trovarmi in armonia spiccata con D. Calabria. Lui,
quando dichiarava la propria nullità, non faceva accademia, ma ne era convinto. E quando dichiarava che tutto il
bene compiuto attraverso la sua persona era solamente opera di Dio, aiutava noi a contemplare Dio che agisce, e a
lodarlo commossi per l’amore che Lui, attraverso D. Calabria continuava e continua ad effondere su tutti noi, suoi
fratelli.
CERCARE IL REGNO DI DIO NEL MONDO ODIERNO
ALLA LUCE DEL MESSAGGIO
104
DEL BEATO GIOVANNI CALABRIA
Giovanni Nervo105
Quando ho cominciato a preparare questa relazione, mi sono accorto che sono stato incosciente ad accettare. So che
in Paradiso ci sono anche i Santi protettori degli incoscienti, anche se non so chi siano, però sono certo che ci sono,
perché ho sentito molte volte la loro protezione. Sono stato imprudente, perché voi siete molto più competenti di me
a dare una risposta alla domanda che avete posto, cioè cercare il regno di Dio nel mondo odierno alla luce del
messaggio di don Calabria, perché conoscete profondamente questo messaggio.
Avete un’esperienza diretta del mondo odierno, e sapete che non c’è una sola risposta al quesito.
Le situazioni in cui operate sono molte e diversissime, cambiano continuamente ed ognuno di
voi deve trovare ogni giorno la risposta giusta. Non c’è nessuno che ve la possa dare e non c’è
nessun libro in cui sia scritta. Perciò la strada vera per dare una risposta al quesito, è verificare
costantemente, come singoli e come comunità, se le scelte piccole e grandi che a mano a mano
fate, sono conformi al messaggio del vostro fondatore, esponendoci naturalmente ed
inevitabilmente al rischio di interpretare male e di sbagliare, perché fa parte della vita. Questo vi
porta all’essenziale della vita cristiana e religiosa, perché cercare il Regno di Dio, della sua
giustizia, significa fare delle scelte concrete.
Il vostro fondatore è stato quello che per primo ha fatto quello che ha chiesto a voi: “Siate un
Vangelo vivente”; è stato lui per primo un Vangelo vivente. Perciò confrontandovi col suo
messaggio, vi confrontate col Vangelo.
Una strada semplice e sicura per cercare il regno di Dio nel mondo odierno alla luce del
messaggio di don Calabria, può essere la seguente: interiorizzare in maniera continua e sempre
più profonda il messaggio di don Calabria e poi, di fronte alle varie scelte, piccole e grandi,
personali e comunitarie, chiedervi che cosa vi ha detto don Calabria su quell’argomento, che
cosa farebbe e che cosa vi chiederebbe di fare se fosse qui.
Poiché è stato un Vangelo vivente, siete sicuri che per questa strada cercate il Regno di Dio e
della giustizia, cioè fate la volontà di Dio.
Qui potrei aver finito, perché mi pare che l’essenziale sia questo, ma devo pur rispondere da
esterno al vostro cortese invito e seguirò questa linea: ho individuato tre nuclei che mi sembrano
centrali ed essenziali del messaggio di don Calabria, li richiamerò brevemente e poi da esterno,
ma sempre all’interno della Chiesa e quindi della stessa famiglia, cercherò di vedere come,
seguendo questi messaggi, potete dare risposta ai bisogni profondi del nostro tempo, quindi
cercare in concreto il Regno di Dio e la sua giustizia.
Il primo nucleo essenziale del messaggio di don Calabria, che è centrale nel Vangelo e che lo
attraversa tutto, è che Dio è Padre.
La ragione fondamentale della venuta del Figlio di Dio fra di noi, è di farci conoscere il volto di
Dio e dirci che Dio è Padre. Non a caso l’unica preghiera che ci ha insegnato il Signore Gesù è il
Padre Nostro.
La ragione della passione e morte del Signore è di rivelarci l’Amore di Dio per noi. Dio ha tanto
amato il mondo, cioè gli uomini, da dare il suo Unigenito per essi. E fattici figli adottivi
riconciliarci col Padre. La parabola del figliol prodigo, che riguarda tutto il mondo e tutta
l’umanità, è l’opera del Signore Gesù.
104
105
Relazione tenuta a Verona alla 6ª giornata di Studi Calabriani il 13 febbraio 1999.
Fondazione Zancan
L’idea centrale nella vita di don Calabria e nella vostra opera è questa stessa: Dio è Padre e dalla
fede profonda in Dio Padre deriva l’abbandono totale alla sua Provvidenza. È caratteristica
fondamentale della spiritualità, della vita e dell’opera di don Calabria, che lui stesso ha posto a
base della vostra Congregazione (Mt 6, 24-34).
Questo è il primo dei passi evangelici che don Calabria, come si può leggere dalle costituzioni, è
stato illuminato dal Signore, a proporre a sé e alla sua famiglia religiosa, come norma specifica
di vita e come fondamento speciale dell’Opera. “Perciò io vi dico: non preoccupatevi troppo del
mangiare e del bere, che vi servono per vivere, o dei vestiti che vi servono per coprirvi. Non è
forse vero che la vita è un dono ben più grande del cibo, e che il corpo è un bene più grande del
vestito?” Poi il Signore continua portando ad esempio gli uccelli del cielo ed i gigli del campo e
prosegue così: “Voi cercate il Regno di Dio e fate la sua volontà, tutto il resto vi sarà dato in più.
Perciò non preoccupatevi troppo per il domani, ci pensa il domani a portare delle altre pene, non
preoccupatevi”.
Don Calabria usa una espressione più forte: non angustiatevi! L’esortazione del Signore è
proprio questa, non siate ansiosi. Quale significato ha? Mira ad escludere nella vita dei
discepoli, l’ansia angosciosa per le necessità quotidiane della vita. Non intende fare l’apologia
della pigrizia o dell’imprevidenza.
Il vostro fondatore che aveva una fiducia immensa nella Provvidenza, è stato attivissimo nel
servizio ai poveri ed alla Chiesa, ma senza angustia.
La conseguenza logica ed immediata dell’abbandono totale alla Divina Provvidenza, è la scelta
dei mezzi poveri. Non occorre di più perché ci pensa il Padre che ci ama. Il di più di mezzi
umani, metterebbe in ombra la Provvidenza e la ostacolerebbe, come dice anche don Calabria.
Di qui gli altri passi che fanno parte di quei passi evangelici che, come dicono le vostre
costituzioni, il Beato Giovanni Calabria è stato illuminato dal Signore a proporre a sé e alla sua
famiglia religiosa, come norma specifica di vita e come fondamento della missione speciale
dell’opera: “e li mandò ad annunziare il Regno di Dio e a guarire gli infermi. Disse loro: non
prendete nulla per il viaggio, né bastone né bisaccia né pane né denaro né due tuniche per
ciascuno” (Lc 9,2-3) e poi riporta la conferma, cioè la povertà radicale richiesta da Gesù ai
dodici nella loro missione non li ha danneggiati, il necessario c’è stato sempre: “Quando vi ho
mandato senza borsa né bisaccia né sandali, vi è forse mancato qualche cosa? Risposero: nulla”
(Lc 22,35).
Il vostro fondatore tradusse alla lettera l’insegnamento di Gesù, ecco perché era Vangelo
vivente. Lo ritroviamo nelle vostre costituzioni e voi le conoscete molto meglio di me, ma
richiamo qualche passaggio perché le ho lette con molta edificazione ed hanno fatto molto bene
anche a me: “La missione specifica dei poveri servi è la ricerca del Regno di Dio, che si
concretizza per noi nell’impegno di ravvivare nel mondo la fede e la fiducia in Dio Padre di tutti
gli uomini, mediante l’abbandono totale alla sua Divina Provvidenza, intensamente vissuto e
chiaramente testimoniato in tutte le vicende personali e comunitarie e negli eventi storici del
mondo”.106 La missione specifica dell’opera, impegna il povero servo a cercare il Regno di Dio
vivendo di pura fede, nell’abbandono totale a Dio Padre e alla sua Provvidenza, senza angustia
nelle difficoltà, senza ansie, senza calcoli umani, senza preoccupazioni. Il povero servo è sicuro
che nulla di necessario gli mancherà mai perché Dio è fedele alle sue promesse.
Tutto questo, nello spirito e nel messaggio del vostro fondatore, non viene affermato con
disquisizioni teologiche, con le prediche, ma con la pratica della vita.
Consentitemi di riportare l’episodio di quel canonico che lo aveva fatto soffrire abbastanza in
seminario, don Luigi Zemati, suo professore di dogmatica, che non gli aveva reso facile la vita
in seminario, e, dopo l’ordinazione sacerdotale di don Calabria, lo fermò davanti alla chiesa di
Santa Maria in Organo e gli chiese: “Cosa ti metti in mente di fare? Apri una casa così grande
senza mezzi? Pensa bene a quello che fai, perché corri il pericolo di screditare tutto il clero
106
Costituzioni e Direttorio dei Poveri Servi della Divina Provvidenza, 1988, n. 5.
veronese. Mettiti quieto, fai il prete e non cacciarti a fare tante cose”. E don Calabria gli rispose:
“Lei professore mi ha insegnato la dogmatica”. “Sì mi ricordo”. “E mi ha insegnato la tesi sulla
Divina Provvidenza”. “Sì, ebbene”. “Professore, io cerco di metterla in pratica quella tesi e lei
cerchi di aiutarmi con la preghiera”.
“Lo spirito di fede e di abbandono alla fede di Dio Padre”, come dicono le vostre Costituzioni,
“esclude l’esigere rette o compensi per l’accompagnamento di giovani o persone bisognose e per
qualsiasi prestazione in loro favore, qualora non potessero dar nulla, anzi, a questi ultimi deve
essere data la preferenza. Evitare qualsiasi forma di pubblicità, sia in vista di vantaggi materiali,
sia per accrescere la fama dell’opera. Esclude di promuovere pesche di beneficenza e lotterie o
simili e l’assumere comportamenti che possano mettere in ombra l’azione della Divina
Provvidenza”,107 perché l’idea centrale è sempre quella. “Si possono accettare offerte, ma non
sollecitarle. La Congregazione non può possedere beni immobili, tranne quelli necessari per il
libero svolgimento delle sue attività. Così pure non può accumulare denaro o altri beni allo
scopo di goderne i frutti e creare umane sicurezze. Tutto ciò che la Provvidenza ci manda, sarà
speso per i poveri che il Signore ci manda e devoluto in carità verso i bisognosi”.108 E ancora
dalle vostre costituzioni: “Appartiene al vostro spirito cercare il nascondimento, perciò si dovrà
evitare di mettersi in vista, di aspirare a cose grandi e appariscenti secondo il mondo, di
richiamare da parte nostra l’interesse del mondo e degli uomini, su di noi e sulle nostre attività.
Tutto ciò toglierebbe alla Divina Provvidenza la possibilità di manifestare al mondo la sua cura
paterna, continua, immediata, ed i nostri fratelli troverebbero un ostacolo per riconoscere con
chiarezza la presenza di Dio fra i suoi figli ed il suo Amore per loro”.109 Poi c’è il marchio di
fabbrica: “Le nostre opere presenti e future, per essere legittime e genuine, corrispondenti al fine
specifico della Congregazione, dovranno sempre portare l’impronta ed il sigillo del non
angustiatevi”.110
Questo forte messaggio di don Calabria, se vissuto con coraggio e fedeltà nella sua radicalità,
che è un dono del Signore, non una conquista umana, dà una risposta autentica, credibile ed
efficace, a uno dei bisogni più fondamentali del nostro tempo.
Il male più profondo di oggi è la perdita del Padre. La morte di Dio, la perdita della fede in Dio,
è la morte del Padre. Ne deriva la solitudine dei giovani, la paura della vita, la fuga dalla vita,
che porta ad aggrapparsi a valori effimeri come la droga, la discoteca, il sesso, lo sport
fanatizzato; la solitudine degli anziani; la disperazione di fronte ad una malattia che non
perdona, disperazione che può portare al suicidio; la paura della responsabilità e del matrimonio,
che porta i giovani a lunghe permanenze nelle famiglie di origine o a convivenze senza
impegno; la paura di mettere al mondo dei figli.
Il Papa è tornato poco tempo fa su questo tema, nella giornata della vita. La ricerca della
sicurezza nell’accumulo di beni materiali, per molti aspetti è il problema fondamentale del
Nord-Est, da quando si è passati da regione povera, a quella forse più ricca d’Italia, però con la
morte del Padre.
In definitiva la perdita del Padre porta a molteplici e profonde insicurezze e difficoltà. Il valore
fondamentale da recuperare è il valore della fede nella Provvidenza di Dio, cioè la certezza che
Dio è Padre e provvede il necessario ai suoi figli. Questo è proprio il messaggio di don Calabria.
È un recupero che abbiamo bisogno di fare tutti: noi singoli cristiani, le nostre famiglie cristiane,
le nostre congregazioni religiose che sono preoccupate per la diminuzione delle vocazioni, la
Chiesa stessa, che può essere tentata di porre la sua sicurezza nell’efficiente organizzazione o
nell’8‰. Il messaggio di don Calabria consente al Signore di mantenere la sua promessa. Se
107
Costituzioni e Direttorio dei Poveri Servi della Divina Provvidenza, 1988, n. 9.
108
Ibidem.
109
110
Costituzioni e Direttorio dei Poveri Servi della Divina Provvidenza, 1988, n. 17a.
Costituzioni e Direttorio dei Poveri Servi della Divina Provvidenza, 1988, n. 30.
cerchiamo il Regno di Dio e la sua giustizia, cioè la sua volontà, il resto ci sarà dato di
sovrappiù.
Un secondo nucleo del messaggio di don Calabria è la scelta preferenziale dei poveri.
È uno degli aspetti che caratterizzano maggiormente il pensiero, la vita e l’indirizzo del vostro
fondatore e della vostra Congregazione, ed è la scelta che contribuisce profondamente a farvi
Vangeli viventi, come vuole don Calabria, perché la scelta preferenziale dei poveri è certamente
la scelta preferenziale di Gesù.
Non sto qui a ricalcare tutti i passaggi, perché è evidente che è quello che dice il Vangelo. È
chiaro che l’amore preferenziale per i poveri, è preferenziale, non esclusivo. Gesù è preoccupato
anche della salvezza di Lazzaro e delle sue sorelle, di cui è amico, di Zaccheo, un arricchito, di
Nicodemo, membro del Sinedrio e benestante, di Giuseppe di Arimatea, che dispone di un
proprio sepolcro, segno che la sua famiglia non era povera.
Anche quando dice: “Guai a voi ricchi”, è chiaro che lo fa per la loro salvezza, ed aggiunge:
“Niente è impossibile a Dio”. Comunque la scelta preferenziale del Signore Gesù è per i poveri,
e del resto è in linea con tutta la Bibbia. Poiché questa è la strada che ha seguito il Signore Gesù
per costruire il Regno di Dio nel mondo.
È sufficiente e necessario che continuiate a tradurre nei fatti questo messaggio del vostro
fondatore, perché questa è la splendida tradizione della vostra Congregazione e così cercate il
Regno di Dio nel nostro tempo. Le vostre costituzioni vi indicano forme concrete ed ancora
attualissime. Vi richiamo qualcosa molto rapidamente dalle vostre “sante costituzioni che sono
la vostra Magna Carta”, il libro benedetto espressione della Divina volontà: “santifichiamoci con
la piena osservanza delle nostre regole che, in ginocchio, vi raccomando. La speciale vocazione
dei poveri servi di favorire sempre gli uomini più bisognosi, i reietti, i deboli, i malati, gli
emarginati, gli abbandonati, coloro che mancano della luce della fede o rifiutano l’Amore di
Dio, vivendo nell’ignoranza, nel disordine morale. Le vittime dell’oppressione, della miseria.
Perciò i nostri religiosi, a questi figli di Dio, guarderanno come a gemme e ricchezze per la
Congregazione e a loro dedicheranno tutti se stessi, perché questo è il campo dedicato a loro da
Dio”.111 “Le preferenze dei poveri servi, siano sempre per i luoghi e le attività, dove nulla c’è
umanamente da ripromettersi, per i più poveri, affinché questa scelta meglio manifesti la cura
paterna della Divina Provvidenza, per tutti i suoi figli”.112 Fedeli a questa scelta e con lo spirito
che gli è proprio, la Congregazione attende le seguenti attività...”, e prosegue con l’elenco di
queste attività. “Questa attività è primaria e primogenita nell’opera e in essa non dovranno mai
mancare case per creature abbandonate”.113
Rileggendo il messaggio del vostro fondatore che è contenuto nelle vostre costituzioni, mi è
venuta in mente la pagina del Vangelo di Luca, in cui lo scriba chiede a Gesù cosa deve fare per
avere la vita eterna. Gesù prima gli fa ripetere quello che è scritto nella Legge, poi lo presenta
incarnato nel comportamento del samaritano e conclude dicendo: “fa questo e vivrai”.
Mi avete chiesto come si può cercare il Regno di Dio nel mondo odierno ed io avrei la stessa
risposta di Gesù allo scriba, cioè fate quello che è scritto nelle vostre costituzioni, che don
Calabria ha fatto e che vi chiede in ginocchio di fare, perché certamente in questo modo cercate
il Regno di Dio.
Vorrei però aggiungere una parola in riferimento al mondo odierno, perché credo che questa sia
la ragione specifica per cui avete chiesto a me di fare questa relazione. Il mondo odierno ha
bisogno fortissimo ed urgente di ricevere e vedere vissuto questo messaggio. I poveri nel mondo
non diminuiscono, ma di anno in anno aumentano. Lo dimostrano tutte le statistiche, nazionali
ed internazionali.
111
112
113
Costituzioni e Direttorio dei Poveri Servi della Divina Provvidenza, 1988, n. 19.
Costituzioni e Direttorio dei Poveri Servi della Divina Provvidenza, 1988, n. 27
Costituzioni e Direttorio dei Poveri Servi della Divina Provvidenza, 1988, n. 28.
Abbiamo tutti davanti agli occhi ed al cuore i gruppi di disperati che ogni notte vengono
scaricati dai mercanti di carne umana sulle coste adriatiche. Le immagini dei profughi del
Kosovo, dei terremotati della Colombia. Abbiamo ancora nelle orecchie le parole di durissima
condanna del Papa nel suo ultimo viaggio nel Messico e negli Stati Uniti in difesa degli Indios e
contro le discriminazioni razziali, contro la pena di morte. Ci giungono meno spesso, ma non
sono meno terribili, le immagini delle guerre nell’Africa e voi ne sapete direttamente qualcosa,
specialmente per quello che riguarda l’Angola, dove avete i vostri fratelli. Incontriamo ogni
giorno per la strada la povertà del terzo mondo, che alle volte può infastidirci, ma viene a
svegliarci, a farci riflettere. Di fronte a tutte queste povertà, c’è la prepotenza dei ricchi, il rifiuto
dello stato sociale, la chiusura nella Padania, la sottoscrizione in atto in questi giorni per
chiudere le porte agli immigrati, il rifiuto, anche formale, come la Life per esempio, di pagare le
tasse, ed un’evasione fiscale che sembra raggiungere i 200.000 miliardi l’anno, con cui si rifiuta
di dare alla società le risorse necessarie a risolvere i suoi problemi, l’emigrazione di migliaia di
imprese in paesi che non hanno una protezione sociale e consentono ogni sfruttamento della
manodopera, con la quale non si va ad arricchire quei popoli, ma ad aumentare il proprio
profitto sfruttando le loro miserie. Il pericolo che anche nella Chiesa si dimentichi la parola del
Salmo: “È meglio porre la fiducia nel Signore che nell’uomo. È meglio riporre la fiducia nel
Signore che negli uomini che contano” e che si infiltri in ambienti di gente che pure si dichiara
cristiana, un certo fastidio per chi crede e richiama la scelta evangelica dei poveri, e comincia a
dire che è necessario partire dai primi, coltivare i primi, quelli che contano, se vogliamo
promuovere il progresso. In questo contesto il messaggio di don Calabria ha una grande attualità
e se è vissuto dai suoi figli come lo ha vissuto lui, può riscuotere anche una grande attenzione e
credibilità, come abbiamo visto in madre Teresa di Calcutta.
Il terzo nucleo, che mi sembra fondamentale nel messaggio di don Calabria, è la vita povera.
Per capire realmente e profondamente i poveri, bisogna essere poveri. È la strada che ha seguito
e che ci ha insegnato il Signore Gesù.
Leggendo la vita del Beato don Calabria, ho pensato che, per capire così profondamente questa
linea che caratterizza così marcatamente la sua vita e la sua opera, si devono tenere presenti,
insieme alla immedesimazione con il Vangelo con il Signore Gesù, le sue esperienze personali.
È nato in una famiglia povera ed ha sperimentato personalmente, in se stesso e nei suoi cari, la
povertà. Chi non fa l’esperienza della povertà, o non vive affianco o insieme a chi la fa, può
avere l’animo buono del benefattore, ma rischia di non capire i poveri, o almeno i poveri hanno
l’impressione di non essere capiti.
Ricordate quell’episodio della signora della San Vincenzo, mandata dal parroco quando il papà
di don Calabria era malato. La signora va a scoperchiare la pentola in cui la mamma stava
preparando un po’ di brodo per il papà malato e si meraviglia perché questi poveri hanno un
pollo da cuocere. Il piccolo Giovanni rimase ferito nell’anima. E quando i professori nel
seminario gli rimproverarono lo scarso rendimento negli studi, lui commentò: “Loro non sanno
che il mio cibo è una fetta di polenta, dove mia mamma ci mette un po’ di zucchero”.
Forse è anche per questo che ha chiesto a voi di vivere con i poveri e di rimanere con i poveri,
non soltanto di assisterli, ma di vivere e rimanere coi poveri. Voi infatti avete convivenze, non
istituti, nel vostro indirizzo e nel vostro spirito. Soltanto se si condivide la condizione di vita del
povero, lo si può capire e si può essere capiti da lui.
Le costituzioni contengono precise indicazioni su come si traduce nella vita concreta la pratica
di questo massaggio del vostro fondatore, la vita di povertà. Le conoscete molto bene, mi limito
perciò a richiamarne alcune che mi sono sembrate più significative: “Il povero servo ami
praticamente la povertà. Una povertà semplice, serena, soffusa di fede e abbandono in Dio. Viva
la povertà concreta nell’alloggio, nel vestito, nel vitto, perché questa povertà lo fa sentire fratello
tra i poveri. La sobrietà nel cibo, nelle bevande, nelle partecipazioni fuori della casa, la
semplicità degli abiti e degli oggetti di uso personale, il retto impiego degli audiovisivi e della
stampa, l’uso moderato dei viaggi, delle vacanze, dei sollievi, siano testimonianza concreta della
povertà religiosa, segno molto concreto della relatività dei beni terreni e dell’assoluta
supremazia dei beni celesti. La povertà evangelica non può dirsi autentica solo perché i religiosi
dipendono dai loro superiori nell’uso delle cose terrene. È necessario che ognuno ricerchi
personalmente e continuamente uno stile di vita genuinamente povero, tenendo presente come
modello Cristo povero”.114 Anche qui dovrei dire che se cercate di tradurre nella vita questo
messaggio di don Calabria, siate poveri, come è indicato nelle vostre costituzioni, in questo
modo voi certamente cercate il Regno di Dio, perché questo è il Vangelo. Per questa strada il
Signore Gesù ha cercato il Regno di Dio.
Anche qui, però, vorrei aggiungere una parola sul mondo odierno. Anche questo messaggio è di
grande attualità per cercare il Regno di Dio nel nostro tempo. Infatti questo spirito del Beato don
Calabria e della vostra Congregazione, acquista un carattere di grande attualità per varie ragioni:
primo perché viviamo in un momento in cui si tende a dare un valore primario ed assoluto
all’economia, cioè alla produzione, al possesso ed al consumo di beni materiali. Ci sono
necessità concrete che ci hanno obbligato a farlo come la necessità di appianare i debiti dello
Stato, la necessità di non rimanere esclusi dall’ingresso nella moneta unica europea, l’urgenza di
vincere la disoccupazione soprattutto giovanile, soprattutto nel Sud, ma in realtà il produrre, il
possedere, il consumare beni materiali, rischia di diventare un idolo a cui si sacrifica tutto. La
Lega predica la secessione per non condividere con altri il proprio benessere. Molti giovani nel
nostro paese interrompono la scuola per guadagnare subito, molte aziende si trasferiscono nei
paesi poveri non per favorire lo sviluppo, ma per aumentare il proprio profitto sfruttando donne
e bambini. L’Europa rischia di diventare non l’Europa dei popoli, come la avevano ideata i padri
fondatori Adenauer, De Gasperi, Schumann, quanto l’Europa dell’euro, delle banche, dei
mercati, degli affari.
In questo contesto il messaggio di don Calabria e della vostra Congregazione, se sapete vivere
secondo il suo spirito, diventa evangelicamente e costituzionalmente rivoluzionario,
particolarmente efficace, perché non è fatto di parole, di conferenze e di libri, ma di fatti, di
testimonianze di vita.
Vi ringrazio di avermi dato l’occasione di avvicinare ancora una volta la spiritualità del Beato
don Calabria e della vostra Congregazione. Per me è stato un arricchimento culturale e spirituale
e spero lo sia stato anche per voi.
114
Costituzioni e Direttorio dei Poveri Servi della Divina Provvidenza, 1988, n. 49-50.
LA “CASA BUONI FANCIULLI” E LA CHIESA VERONESE DEI PRIMI DEL SECOLO 115
Gino Oliosi116
Padre Flavio Roberto, il nostro Vescovo, nel messaggio per la beatificazione di don Zefirino
Agostini, si chiedeva “ha un senso tutto questo?”.
Ci stiamo preparando alla canonizzazione di don Calabria. Cosa ci attendiamo m questo
momento storico di Nuova evangelizzazione o “Apostolica vivendi forma”, come diceva
profeticamente e più puntualmente don Calabria?
Il Papa nella visita pastorale a Verona, durante la quale ha beatificato don Calabria e mons.
Nascimbeni, nella basilica di San Zeno invitava preti, consacrati, laici a chiedersi dove, questa
stagione di santi veronesi, hanno fondato le loro radici e chi sono stati i loro padri nella fede
cristiana, nella testimonianza di carità pastorale e missionaria, nella passione educativa e di
opere sociali? “Di don Calabria – aggiungeva nell’omelia di beatificazione e per noi è la
direttiva del Vicario di Cristo – occorre ricordare l’amore per la Chiesa. Il gemito degli ultimi
anni della sua vita, era quasi un riflesso dell’angoscia del Crocefisso per le anime. Egli riferiva
come voce del Signore quel sospiro tanto insistente: “La mia Chiesa, la mia Chiesa”. Voi
ricordate i suoi appassionati, sofferti, arditi appelli alle autorità ecclesiastiche, ai religiosi e ai
sacerdoti, per chiedere a tutti un radicale rinnovamento di vita, un ritorno vigoroso alla
“apostolica vivendi forma”. Tale messaggio non deve essere dimenticato. La Chiesa ha il
compito e l’eredità di mantenerlo vivo e di testimoniarlo con generosità e vigore nel nostro
tempo”.
Quello che è maturato nell’800 e nel 900 si rifà al Concilio di Trento. La Chiesa in Verona fu tra
le prime con Roma, Rieti, Milano Brescia, Vicenza, Orvieto, a realizzare il decreto del Concilio
di Trento del 15 luglio 1563 (sess. 23): “... il santo Concilio ordina che tutte le chiese cattedrali,
metropolitane ed altre superiori a queste..., siano obbligate a mantenere e allevare nella pietà e
ad istruire nella disciplina ecclesiastica un certo numero di giovanetti della loro città e diocesi...,
in un “collegio” che il vescovo sceglierà vicino alle medesime o in altro conveniente luogo”.
Le cosiddette “scholae sacerdotum” presso le pievi, come pure le Scuole Accolitali presso le
Cattedrali non richiedevano la vita comune dei chierici. Il 6 aprile del 1567, solo tre anni dopo la
conclusione del Concilio di Trento, entrano i primi tre alunni nel Seminario istituito dal card.
Agostino Valier, Vescovo di Verona e grande amico di san Carlo.
Se “la fede e la ragione sono come le due ali con le quali lo spirito umano s’innalza verso la
contemplazione della verità “117 di fronte alla “sola fede” della riforma protestante il Concilio di
Trento richiede di preparare i pastori, in continuità con il primo millennio e con i cinque secoli
del secondo millennio, nella luce di una alleanza fra Fede e ragione non solo teorica, ma
teorico-pratica: la Parola di Dio risuona in noi qui e ora mediante uomini che l’hanno udita e
ubbidita, mediante uomini nei quali il Dio vivente, Padre-Figlio-Spirito Santo, il suo darsi e
parmanere nell’incarnazione del Figlio è diventato una esperienza concreta constatabile,
comprensibile e quindi dicibile a tutti. Grazie all’opera dei Padri della Chiesa sino alla
straordinaria sintesi di san Tommaso è accaduto un fecondo e “provvidenziale” incontro tra fede
e tradizione metafisica del pensiero classico ripensata alla luce della Rivelazione che rivela non
solo chi è il Dio vivente ma anche chi è ogni essere umano alla luce della creazione, a cosa è
destinato in virtù dell’incarnazione, passione, morte e risurrezione del Figlio.
Il cammino formativo nel Seminario di Verona raggiunge il culmine strutturalmente con il
Vescovo Giovanni Morosini (1772 – 1789). “Ci gloriamo – può affermare nel Sinodo, l’ultimo
115
116
117
Relazione tenuta a Verona alla 3a giornata di Studi Calabriani il 7 novembre 1999.
Parroco di SS. Apostoli in Verona
Fides et Ratio, introduzione
finora celebrato – nel Signore perché il Seminario per Nostra cura è cresciuto nelle discipline ed
è stato fornito di più comodi fabbricati”. Eravamo alla vigilia di un’altra burrasca contro la
tradizione metafisica del pensiero classico: alla “sola fede” della riforma protestante con il
conseguente pessimismo sulla realtà umana si passa alla “sola ragione” dell’illuminismo che,
però, nega alla ragione la sua capacità metafisica di poter, sia pure a tentoni e con tanti limiti,
conoscere Dio come parola nascosta e pur percepibile nella creatura.
Inoltre la cultura teologica del nostro Seminario, pur agostinianamente splendida, era scivolata
in molti elementi giansenisti e anti-romani contro i quali combatté il successore mons. Andrea
Avogadro con il movimento delle amicizie sacerdotali e cattoliche, a monte della primavera
cristiana dei grandi fondatori e dei grandi santi proprio nel momento delle armate napoleoniche
culminanti nelle “Pasque veronesi” e nell’arresto del vescovo stesso. Culturalmente dilaga
l’illuminismo, l’ideologia rivoluzionaria, la lotta antireligiosa che punta soprattutto a dissolvere
la vita del Seminario.
Il Vescovo Avogadro nel 1805 rinuncia per dedicarsi alla promozione di gruppi o fraternità
sacerdotali, dalle quali il successore Innocenzo Liruti (1807-1827) trarrà i preti “per risollevare
– come dirà una delle tante figure significative delle Amicizie il Bresciani – la vigna devastata
del Seminario... Non si poteva più dir quello un seminario di disciplina e giustizia, ma un
miscuglio di corruttela e disonore”. Fra questi sacerdoti troviamo san Gaspare Bertoni come
direttore spirituale, il beato Carlo Steeb, come insegnante di lingua straniera. Contrariamente
all’umanesimo giansenista si promuove l’umanesimo di san Francesco di Sales, e a livello
morale la linea di sant’Alfonso.
Si diffonde un sereno ascetismo fondato sulla fiducia nella perfettibilità della natura umana,
sostenuta dalla grazia, per cui nessuna caduta è fatale, nessuna situazione storica irrecuperabile.
Da qui deriva la passione educativa negli oratori, le opere sociali, l’attenzione verso chi è
portatore di ogni tipo di handicap, verso chi ha sbagliato. San Francesco di Sales viene visto
come il prototipo del cosiddetto “Direttore spirituale”.
Grandiosa, per merito delle Amicizie sacerdotali, la promozione del ministero delle Confessioni,
assai caro al Concilio di Trento, e in alleanza con questa base sacramentale di ogni impegno
etico-morale, il confessore documenta l’amicizia di Cristo verso ogni persona libera e sospinta
dalla grazia divina: paternamente indica i mezzi per cogliere i segni della grazia cioè della
preminente e decisiva azione-guida dello Spirito, eventuali doni e carismi. La perfezione
dell’amore di Cristo nei suoi o carità è per tutti, in ogni stato di vita, comunque ridotti.
Il 4 febbraio 1814 partono i francesi anticlericali ritornano gli austriaci, protettori ma molto
interventisti in campo ecclesiale, soprattutto nell’educazione dei chierici. Prudente e forte la
risposta del Vescovo Liruti.
Fanno seguito le guerre di indipendenza con tutte le sofferenze dei feriti per i quali si mettono a
disposizione chiese, istituti e seminano.
È questo a Verona, proprio nel periodo moderno, il momento più splendido di santi che hanno
avviato una straordinaria tradizione teologico-pastorale, missionaria di movimento cattolico
adeguato ai tempi. Beati e Santi sono le vette che emergono ma di un vissuto popolare di fede.
Sotto l’episcopato di mons. Giuseppe Grasser (1829-1839) e di mons. Amelio Mutti
(1841-1851) gli alunni del Seminario arrivano al numero di 571, di cui 115 nei quattro anni di
teologia. “Godiamo – può affermare il Prefetto degli studi nel 1851, dopo i grandi avvenimenti
del 1848 che avevano scompigliato la gran parte dei Seminari – che ora fra gli alunni affidati
alla nostra cura sia in vigore quella disciplina, di cui non potremmo desiderare di meglio”. Ma
nonostante un clero splendido pastoralmente, missionariamente, socialmente, fin dai primi anni
del card. Luigi di Canossa (1861-1900), il susseguirsi di terribili vicende politiche dal 1864,
provocarono scossoni: vi furono tre Rettori in un solo quinquennio. Di fronte a questa prima
ondata di errori modemisti, capaci di dissolvere completamente la concezione cristiana della vita
e della storia, si susseguono tentativi autoritari per “custodire il deposito” di fronte a un processo
culturale di scristianizzazione che non si riusciva a comprendere. Canossa invia i migliori alunni
agli Atenei Pontifici di Roma, primo fra tutti il Bacilieri alla Gregoriana, seguito da molti altri
come Casella, Pighi, Zenati, Maschi, Venturi, Albrigi, ecc. Ripristinò la filosofia dell’Aquinate,
regolò lo studio della Dommatica, della Morale, della Liturgia, dell’Esegesi biblica, della lingua
ebraica, della storia ecclesiastica. Per tutto questo il Seminario di Verona poté essere additato ad
esempio dalla Sacra Congregazione deI Concilio fin dal 1879 e soprattutto negli anni tremendi
dal 1910 al 1914. Don Calabria, però riteneva inadeguata la formazione che si dava in
Seminano.
Con un carisma o dono dello Spirito dato personalmente a Lui per il bene della Chiesa e
dell’umanità, egli, pur comprendendo le ragioni della necessità di garantire l’ortodossia a colpi
d’autorità e di rigorose teorizzazioni filosofiche, teologiche, apologetiche, profeticamente
intravvide la necessità di andare a monte. La crisi ormai non riguardava questa o quella verità,
ma la fede stessa e degli stessi praticanti, anzi degli educatori: sacerdoti, religiosi e genitori. Gli
stessi tentativi autoritari, pur legittimi, non riuscivano a frenare un processo ormai radicale con
il quale l’Europa, l’Italia ritornavano pagane. E quando la fede della Chiesa è minacciata di
distruzione nel suo stesso cuore, occorre risvegliare “l’Apostolica vivendi forma”, oggi diremo
con un linguaggio meno preciso, occorre una “Nuova Evangelizzazione”.
Di fronte a una reinterpretazione modernista dei temi cristiani, subendo lo spappolamento
culturale di una civiltà in crisi, don Calabria vide l’urgenza di ritornare all’essenziale, alla regola
perenne della fede in virtù della quale la chiesa si mantiene nella 'norma della testimonianza
feconda cioè della testimonianza apostolica', riconoscendo in essa 'la forma stessa, la forma
unica della rivelazione del Dio vivente agli uomini in Gesù Cristo'.
Don Calabria si sente sicuro che la fede nella forma apostolica, e Giovanni Paolo Il invita a
tenere in vigore nel nostro tempo questa eredità, permette alla Chiesa di far fronte ai criteri
sofistici di ogni epoca e di ogni cultura perché riattualizza l’esperienza escatologica cioè
definitiva degli apostoli, secondo la quale non può esistere un al di là della conoscenza che è
stata concessa in Gesù Cristo: “Se mi conoscete, conoscere te anche il Padre. Fin da ora lo
conoscete e lo avete visto” (Gv 14, 7). Incontrando e documentando concretamente il Crocefisso
risorto con la sua Persona “nunc”, come ripeteva continuamente don Calabria, cioè
sacramentalmente qui e ora, si accede all’esperienza, alla conoscenza del Padre, forma definitiva
della testimonianza apostolica. Di fronte al teismo culturalmente imperante di un Architetto del
mondo, di un Orologiaio che creato l’universo lo lascia alla sua tecnica autonoma, quindi alla
sola scienza positiva (lui non c’entra con le vicende storiche che sono per natura atee)
documentare un Padre che vede e maternamente provvede in ogni istante chi opera con Lui, in
Lui e per Lui, con una onnipotenza più grande di ogni necessità, è veramente passare dall’antico
al nuovo mondo, dal paganesimo al cristianesimo, dal peccato alla grazia, dalla morte alla vita.
La fede apostolica non si lascia ridurre ad un semplice dato storico che ciascuna epoca
interpreterebbe alla sua maniera: la sua normativa proviene dal Dio vivente che si è dato
nell’incarnazione, passione, morte, risurrezione e che opera permanentemente nella Chiesa per
tutti. Grazie ad essa lo Spirito santo vi dispone di una memoria definitiva e mantiene l’attualità
della confessione di fede:“Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio” (Rm
8, 16). Tutti figli, soprattutto quelli che peccatori, poveri, emarginati, sono tentati di non
crederlo. Tutte le generazioni di cristiani, non appena si situano teoricamente e praticamente in
tale confessione evangelica, sono Vangeli viventi, si riconoscono fraternamente contemporanei
tra loro. E oggi occorre seguire l’esempio dei primi testimoni, dei primi discepoli che pur senza
mezzi e senza appoggi, anzi perseguitati, hanno superato tutti gli ostacoli, hanno attraversato
tutte le frontiere, con “parresia” cioè con franchezza, con capacità persuasiva. “Oh che grazia
grande sarebbe – scriveva il 14 gennaio 1934 a don Stanislao nella prospettiva di un collegio
Apostolico accanto alla Parrocchia a Roma dove i membri dell’Opera si preparassero come gli
Apostoli nel cenacolo – che dono ci farebbe il Signore se per sua misericordia ci concedesse
quest’arca beata dell’Istituto Apostolico, e vicino pure un reparto di Fratelli Aspiranti che nella
preghiera. nello studio, nel lavoro, si preparassero per divenire santi Fratelli. Lievito puro, che
assieme al Sacerdote, pervadessero tutta la società così malata e farla ritornare a Dio mediante
l’esempio e l’azione dei primi cristiani”.118 L’11 febbraio 1932 il Vescovo aveva approvato la
Congregazione “ma non secondo il pensiero del Signore – osservava il Casante, il Custode, la
sentinella cui Dio aveva affidato la sua Opera –. Però, ci penserà Lui a mettere le cose apposto”.
“La via giusta – per don Calabria – è che si segua Dio, il Vescovo, e questo povero prete unito al
Vescovo, e null’altro”.
“Ah – scriveva il 15 maggio del 1942 – quale responsabilità, che terribile responsabilità pesa su
tutti noi, specie sulla Comunità Romana se, nonostante grazie, tante misericordie, tanta luce e
direi tanti miracoli da parte di Dio, noi non vivessimo dello spirito puro e genuino dell’Opera,
che consiste nel pieno abbandono nella divina Provvidenza, nello studiare di imitare nostro
Signore Gesù Cristo, con l’unico pensiero della sua maggior gloria, avendo di mira le anime,
tutte le anime per le quali il Signore ha patito ed è morto; convinti della nostra miseria, che noi
come noi non possiamo far altro che rovinare, e che solo lui con la sua grazia e con la nostra
cooperazione per mezzo di una vita interiore, di sacrificio, di nascondimento potremo fare
grandi cose nell’ora attuale.
Caro don Stanislao, sempre, ma specialmente ora, il Signore domanda sacerdoti, religiosi, non
importa il numero, perché il numero è formato dall’essenza di sacerdoti, religiosi, tutti pieni di
Dio, delle anime, vangeli viventi.
Per amore di Dio, che nessuno di noi venga meno nello spirito: se alcuno non si sentisse di avere questo spirito, per
amore di Dio se ne vada, prima di essere la rovina della sua anima e dell’Opera del Signore.
Gesù ha bisogno di strumenti, umili, docili, obbedienti, pieni di fede: queste sono le vere
ricchezze, le vere gioie e il segreto per compiere la divina volontà e far sì che la Congregazione
dei Poveri Servi sia arca di pace, di salute a tutte le anime, a tutta l’umanità”.119
Cosa intende don Calabria per piccola Opera dei Poveri Servi della Divina provvidenza della
grande Comunità di Gesù che è la Chiesa? “Ti raccomando, per l’amore di Cristo – scrive fin
dal 1932 a don Stanislao – che sempre sia mantenuto, come lo fu per grazia di Dio fino adesso,
lo spirito tutto proprio e particolare della nostra Congregazione, unica nostra ricchezza, e lievito
per compiere nella città di S. Pietro i disegni di Dio. Buseta e taneta. tutto sia fatto in Gesù, non
perdendo mai di vista la propria santificazione e la vita del Redentore, qui sulla terra, nel
fondare la sua Chiesa. In tutto e sempre domandiamoci: Quid nunc Christus?”.120 Don Calabria
non si chiede 'come se fosse Cristo', ma il Crocefisso risorto presente qui e ora, che opera con
me, mi previene, mi guida con il dono del suo Spirito. “Fede nella sua presenza, in lui pieno e
totale abbandono – ancora a don Stanislao nel 1933 – convinti che tutto procederà in bene, se
noi facciamo la nostra parte, ossia se viviamo di lui, con lui, e per lui e che le protezioni umane
siano in aggiunta e solo quando Gesù le manda. Godo e ringrazio il Signore per il bene che con
la divina grazia, fate: che Gesù, solo Gesù vi dia la ricompensa”.121 “L’Opera dei Poveri Servi è
grande nella mente di Dio...: vivere il nostro spirito genuino che consiste in grande fede, in
grande amore per il Signore e le anime, profonda umiltà, convinti del nostro zelo e miseria,
piena fiducia in Dio che ci assiste e ci è vicino sempre, pensando che siamo suoi, e suoi prima
per la nostra santificazione personale, e poi per le anime, specialmente quelle più povere,
abbandonate, derelitte perché queste sono le predilette di Dio e per noi sono le gemme, le perle
più preziose”.122 Ecco l’Opera, il Regno di Dio da ricercare: Quaerite... “Continua a cercare
118
L. PIOVAN (a cura di), Ti chiamerai Stanislao, lettere di don Giovanni Calabria a don Stanislao Pellizer.
Tipolitografia don Calabria, Verona 1998, pagg. 139-140.
119
L. PIOVAN (a cura di), op. cit., pagg. 300-301.
120
Ibid., pagg. 118-119.
121
Ibid., pagg. 125-126.
122
Ibid., pag. 235.
anime; cerca creature abbandonate, peccatori, vecchi, poveri, malati, disperati: le gemme
dell’Opera, la chiave che ci apre il Cielo”.123
Don Calabria non si pone il problema se tale impegno sia insensato o redditizio, perché
intrapreso proprio in sfida a ciò che nel mondo in procinto di ritornare pagano è senza senso,
nella consapevolezza che in tale impegno si rende ragione della nostra speranza. Con la stessa
libertà pacificamente provocatoria don Calabria voleva che l’Opera penetrasse in tutte le restanti
strutture della società umana, le quali hanno tutte in sé qualcosa della disperazione del
moribondo, del malato e del folle. Certo questo è un atteggiamento e un programma da santi.
Può anche esserlo; ma la vita cristiana da sempre è credibile solo quando da essa emana
perlomeno un barlume di vera santità.
123
Ibid., pag. 158.
PER IL 90° DI SAN ZENO IN MONTE124
Giuseppe Perazzolo
A mò di prologo di questa mia relazione sulla storia millenaria del Colle di San Zeno125 nel suo
rapporto in un certo senso profetico con la Casa Buoni Fanciulli, desidererei leggere, per la
verità con un po’ di commozione, una cronaca, che, seppur pubblicata nel novembre 1935, la
dobbiamo alla penna di un testimone oculare e protagonista degli avvenimenti: don Luigi
Adami:
“ ... Il giorno 5 novembre 1908 è l'ultimo della vacanza [a Baesse di Costermano]. Una cena
frugale d'addio, a cui partecipano gli ospiti; dispiacenti essi di vederci partire, più dispiacenti noi
di doverci allontanare. Il giorno appresso due somarelli carichi delle povere masserizie
s'avviarono accompagnati dall'arrivederci dei B.F... Poi... anche questi partirono; credo che
qualche lagrima furtivamente sia spuntata dagli occhi di certuni...
Pedibus calcantibus, i 20 km di strada finirono. Verso sera arrivano i giovani, ma ...non arrivano
le masserizie; le gambe dei giovani questa volta avevano avuto una poco desiderata vittoria sugli
stinchi degli asinelli, e si seppe più tardi che per quella sera era inutile sperare di dormire sul
proprio letto. Che fare? L'ospitale canonica di S. Giovanni in Valle, per opera del Rettore, diede
riposo a una buona parte; altri si distribuirono a S. Benedetto e in qualche casa amica, e cosi il
ripiego fu trovato.
Don Bonometti ricorda ancora la cena che insieme alla sua mamma improvvisò per i nuovi
venuti: polentina e braciole, appetitose quanto mai, specialmente con quei 20 km di strada nelle
gambe!
Il giorno seguente, 6 novembre, tutti riuniti, entrarono giubilanti in possesso di San Zeno in
Monte; ma non come è adesso però.
Il pranzo di inaugurazione, per temperare i calori dell'entusiasmo, fu un pranzo a freddo: pane e
formaggio. Il fuoco non ancora funzionava. Refettorio fu la cucina stessa, mentre nell'attuale
refettorio (più basso e più ristretto di quello che è presentemente) si collocarono i letti. La prima
S. Messa fu celebrata 1' 11 novembre, giorno di S. Martino, compleanno del Re Vittorio, e
compleanno anche di don Diodato...”126 .
Ebbe in questo modo il suo inizio, o forse, per certi versi, la sua prosecuzione una lunga storia,
preparata e prefigurata in ottocento anni di vicissitudini, della quale anche il ventesimo secolo
scrisse una pagina, e che pagina!, con la fondazione della Casa Buoni Fanciulli di San Zeno in
Monte, di cui oggi, appunto, celebriamo il 90° anniversario.
E allora permettetemi di presentarvi, in forma sintetica e compaginate in un ideale polittico
ricco di 4 pannelli, queste vicende, che nei secoli diedero attuazione e ripeterono anche per
124
Relazione tenuta a S. Zeno in Monte, nella Sala don G. Calabria, il 6 novembre 1998, nel 90° anniversario della
fondazione della Casa Buoni Fanciulli di S. Zeno in Monte.
É stato conservato al testo, che qui presentiamo, il suo carattere originale di conversazione, anche se è stato
completato con qualche doveroso riferimento bibliografico.
125
Allo studio, dedicato alla storia del colle e della Casa Buoni Fanciulli di S. Zeno in Monte: culla dell’Opera di
don Calabria, pubblicato appunto per il 90° anniversario della fondazione, l’autore intende rimandare quanti
avessero desiderio di avere notizie storiche più complete ed approfondite.
G. PERAZZOLO, Il colle di S. Zeno in Monte e l’Istituto Don Calabria, Verona 1998, pp. 156
Notizie, sempre relative alla C.B.F. di S. Zeno in Monte, si possono trovare nella mia storia della Congregazione
dei P.S.D.P.
G. PERAZZOLO, Momenti di storia della Congregazione Religiosa dei Poveri Servi della Divina Provvidenza:
evoluzione giuridica (dagli inizi al 1932), vol. I, Verona 1994
G. PERAZZOLO, Momenti di storia della Congregazione Religiosa dei Poveri Servi della Divina Provvidenza:
evoluzione giuridica (1932-1949), vol. II, Verona 1993
126
L. ADAMI, Aurora promettente, in L’Amico dei Buoni Fanciulli, 11 (1935) 174-175
Verona importanti snodi della storia della Chiesa Cattolica, proprio con delle istituzioni sorte su
questo colle.
San Zeno in Monte e la Terra Santa
• Le coordinate cronologiche: dal sec. IX (Arcidiacono Pacifico: periodo 801-845 d.C.) al sec.
XIV
• I fatti:
L'amore e la venerazione religiosa che i cristiani avevano tributato, durante le persecuzioni, ai
martiri si mantennero anche dopo l’editto costantiniano, forse ebbero nuovo impulso. I loro resti
mortali erano tenuti in grande onore; e si attribuiva loro una speciale virtù taumaturgica. Si
amava visitare le loro tombe collettivamente, con la celebrazione dell’eucarestia, nei loro
anniversari (vedi le “stationes” della Chiesa Romana ), e venirvi in pellegrinaggio anche da
lontano. La lettera (datata tra il 115 e i 160), con cui la chiesa di Smirne comunicava alla
comunità di Filomelio il martirio del proprio vescovo Policarpo, ne può essere una significativa
testimonianza.
Ma più ancora che alle tombe dei santi, si incominciò, non appena ottenuta la libertà e grazie
all’opera costantiniana di costruzione di alcune basiliche a Betlemme e a Gerusalemme, a
visitare i luoghi della Palestina, santificati dal cammino terrestre del Salvatore.
Nell'"Itinerarium a Burdìgala Jerusalem usque" (Burdigalien) abbiamo una prima descrizione
di un pellegrinaggio in Terra Santa, fin dal 333 d.C.
E del IV secolo è anche l’importante documento "Peregrinatio ad loca sancta" della nobildonna
e forse monaca galliziana Egeria.
Sappiamo che dal tempo dei Merovingi (sec. V ) la "peregrinatio" a Gerusalemme, come anche
alle tombe dei Principi degli Apostoli Pietro a Paolo a Roma, alla tomba di S. Giacomo in
Santiago di Campostella o di altri santi, per molti era una scelta devozionale, per alcuni ascetica,
perseguita; per non parlare di quei cristiani per i quali l’obbligo di pellegrinare “era
comandato”, nel quadro della penitenza tariffata127, per ottenere la riconciliazione sacramentale.
Il pellegrinaggio per l’uomo medievale era un ideale universalmente condiviso, essendo sentito
come un vero "servizio di Dio nella penitenza".
Del resto in una cultura, dove era stretto il cerchio dei legami familiari, lasciare i parenti, la terra
natale in cerca di solitudine, affrontando pericoli e fatiche di un lungo viaggio con digiuni e
veglie, costava non poco, anche se si era aiutati da una forte motivazione religiosa, come
poteva essere la prospettiva dell’incontro con la sfera del divino nel santuario famoso.128
Quando i pellegrini ritornavano alle loro case, con negli occhi e nel cuore le immagini dei luoghi
visitati, desideravano, e non raramente si adoperavano per erigere dei monumenti a perenne
ricordo.
127
C. VOGEL, Le pèlerinage pénitetiel, in Pellegrinaggi e culto dei santi in Europa fino alla I Crociata,
Convegni del Centro Studi sulla Spiritualità Medievale IV, Todi 1963, pp. 37-94
128
AA.VV. Pellegrinaggi e culto dei santi in Europa fino alla I Crociata, Convegni del Centro Studi sulla
Spiritualità Medievale IV, Todi 1963, pp. 526
AA.VV., Medioevo in cammino: l’Europa dei pellegrini, Orta S. Giulio (NO) 1989, pp.430
Il pellegrinaggio nel Grande Giubileo del 2000, a cura del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli
Itineranti, Milano 1998, pp. 61
Forse in un tale scenario vanno inquadrati il disegno e l'opera dell'Arcidiacono Pacifico (anni
801-845), che, come ci ricorda qualche storico veronese, furono volti a trasformare Verona in
una "Minor Jerusalem".
E la nostalgia, e i ricordi della Terra Santa, e di Gerusalemme, dei veronesi possono essere stati
dunque all’origine della costruzione di una Cappella, detta di S. Maria in Betlemme, che,
secondo alcuni studiosi, diede la primitiva denominazione al nostro colle.
A. Pighi, più che all'Arcidiacono Pacifico e ai pellegrini, pensò di attribuire l’iniziativa ai
Crociati. Nel 1911 scriveva: “...[i Crociati] reduci in patria imposero ad alcuni siti della nostra
città e sue adiacenze il nome di quei luoghi che qualche rassomiglianza sembrava loro avessero
con le situazioni vedute in Terra Santa...”129
Ma allora, perché l'attuale nome di San Zeno in Monte?
Una tradizione antica vuole che, quando fu fatta, nell' 807, la traslazione del corpo del vescovo
San Zeno dall'antica cripta alla nuova chiesa edificata in onore del Santo, ai tempi del vescovo
di Verona Ratoldo e del re Pipino, siano stati scelti per il trasporto del corpo del santo due
eremiti di Malcesine, Benigno e Caro, che abitarono, per il tempo necessario all’operazione, in
un eremitaggio approntato sul colle vicino all’antica Chiesa di S. Maria in Betlemme130.
E da quel fatto sarebbe derivato l’attuale toponimo.
SAN ZENO IN MONTE E GLI EREMITANI DI S. GIROLAMO DI FIESOLE
• Le coordinate cronologiche: dal sec. XIV al sec. XVII
• I fatti:
Nella seconda metà del XIV secolo un profondo pessimismo permeava una grande parte dei
fedeli, e tra i più religiosi, per le molteplici crisi che agitano l'Europa, togliendo a non pochi la
gioia di vivere e la fiducia in Dio:
La peste nera nel 1348 spopola il vecchio Continente;
L'interminabile guerra, cosidetta dei Cento Anni, tra Francia ed Inghilterra, che ebbe inizio nel
1336 e che terminò nel 1453, e i non pochi conflitti regionali;
Le rivolte sociali dei contadini, ed urbane tipo i Ciompi di Firenze (1378);
La centralizzazione della curia romana, la corruzione nell’alto clero e la situazione disastrosa bel
basso clero: “...la gran maggioranza di loro erano dei quasi miserabili con velleità di essere
qualcuno, privi spesso di una rendita anche modesta. Niente li distingueva dai laici, tranne la
veste che portavano, ma che smettevano quando faceva comodo: avevano famiglia; anzi era
talmente normale il prete ammogliato che faceva scandalo il prete solo; brigavano tutto il giorno
in attività profane (chi sapeva leggere e scrivere faceva l'impiegato pubblico o il notaio);
tralasciavano quasi completamente il culto. E del resto molti erano talmente ignoranti di dottrina
cristiana e di liturgia da non conoscere neppure il Credo e la formula di consacrazione della
Messa [ abbiamo riportato un giudizio dello storico G. Cracco, che egli ha ricavato dalle
relazioni dalle Visite Pastorali]”.
Il Grande Scisma d'Occidente, dopo la cattività Avignonese, a partire dal 78 fino al Concilio di
Costanza (11 Nov. 1417) porta due Papi per la Cristianità: uno a Roma ed uno ad Avignone.
129
130
A. PIGHI, La Chiesa di S. Zeno in Monte, Verona 1911
G.D. MARAI, Notizie istoriche dÉ due santi romiti Benigno e Caro, Verona 1769
La riforma in capite et in membris della Chiesa Cattolica131, iniziata e perseguita da molti
personaggi ed ambienti del mondo cristiano, subito dopo il periodo del Grande Scisma e della
crisi conciliare (1378-1449), ha avuto, oltreché nel movimento della "Devotio Moderna" un
aiuto insostituibile in alcune nuove fondazioni religiose “con una loro propria struttura e
finalità non riconducibile a quella degli Ordini Mendicanti 132”: l'Ordine delle Brigidine e dei
Brigidini, i Fratelli e Sorelle della Vita Comune, la Congregazione Riformata dei Canonici
Regolari di Windesheim, i Gesuati del beato Giovanni Colombini e ben quattro congregazioni
che si ispiravano a S. Girolamo, considerato il patrono degli Eremiti.
I quattro Ordini Girolamini si svilupparono da gruppi di eremiti, unitisi indipendentemente gli uni dagli altri, sia in
Spagna che in Italia. Vivevano secondo la Regola Agostiniana, integrata con il pensiero di S. Girolamo.
Conducevano vita ritirata, dedita alla contemplazione, alla cura del culto divino e al lavoro.
Una di queste fondazioni, ed è questo il motivo per cui li ricordiamo, costruì un proprio
convento proprio sul nostro colle.
Gli Eremitani di S. Girolamo di Fiesole133, che troviamo nel 1435 a San Zeno in Monte ai tempi
del Vescovo Guido Memo, vennero fondati a Fiesole nel 1404 dal beato Carlo Guidi da
Montegranelli. Approvati da Gregorio XII, 1'8 luglio 1415, con la Bolla "Sacrum nonnullorum",
vennero sottoposti alla Regola di S. Agostino da Eugenio IV, il 26 Luglio 1441, con la Bolla
"Super gregem Dominicum". Ebbero una quarantina di Case in Italia. Vennero soppressi nel
1668.
A San Zeno in Monte “...a forza di scalpello dilatato nel monte il luogo ” riassettarono l'esistente
e costruirono ex novo ventidue celle piuttosto anguste ed oscure, facendone un romitaggio.
Lo storico veronese Moscardo (nel 1668) ricorda che i Fiesolani in “ questo tempo divennero
numerosi, che per la strettezza del luogo pativano molte incomodità, onde ispirato da Dio
Moscardo di Tomio Bonuccio mio antenato fece principiare a fabricar li Chiostri, et altre
comodità, ma rapito dalla morte, non potendo veder finita l'opera, lasciò nel suo testamento...
l'incombenza a i suoi posteri, che pontualmente esseguirono la di lui volontà, a perfettionarono
la fabrica dÉ Chiostri nella forma, che di presente si vedono”.134
Con loro, che avevano nella recita corale delle varie parti dell'Ufficio Divino i momenti salienti
della loro giornata, San Zeno in Monte divenne un luogo di preghiera.
SAN ZENO IN MONTE E L'ORDINE SOMASCO
• Le coordinate cronologiche: dal sec. XVII al sec. XIX
• I fatti:
Nel 1517 il monaco agostiniano Lutero pubblicò le sue 95 tesi sulle indulgenze: questo
avvenimento è generalmente considerato come l’inizio della riforma protestante.
“Cause che a poco a poco, a partire dall’inizio del Trecento, preparano la crisi del
Cinquecento…..
131
E. DELARUELLE, E.-R. LABANDE E P. OURLIAC, La Chiesa al tempo del grande scisma e della crisi
conciliare (1378-1449), in Storia della Chiesa di A Fliche e V. Martin, ediz. ital.: vol. XIV/3, Torino 1971, pp.
1109-1440
132
A. FAVALE, Vita consacrata e società di vita apostolica, in Studi di spiritualità 9, Roma 1992, p. 127
133
G. PERAZZOLO, Gli eremiti di S. Girolamo di Fiesole, in Dizionario degli Istituti di Perfezione, vol. III, Roma
1976, coll. 1203-1204
134
G. PERAZZOLO, Il colle di S. Zeno in Monte e l’Istituto Don Calabria, Verona 1998, pp. 23-24
Si trattò realmente ed unicamente della fine dell’unità religiosa e culturale europea, di un
insieme di cruente guerre religiose, di un indebolimento della Chiesa Cattolica, o nel
protestantesimo vi furono anche aspetti positivi….”135
Nel XVI secolo quindi “ A necessità nuove s’imponeva la ricerca di nuovi metodi pastorali e di
nuove forme di vita, più agili e adatte a soddisfare i nuovi bisogni che la Chiesa doveva
affrontare agli albori dell’età moderna con le nuove scoperte geografiche, il consolidarsi delle
nazionalità, la crescita della popolazione, la comparsa di una cultura laica centrata sull’uomo
come valore a sé stante e sulle realtà terrene anziché sul primato di Dio, la propagazione della
riforma protestante…
I Chierici Regolari [nuovi Ordini Religiosi] non fecero altro che inserirsi e progredire in quella
linea di evoluzione…”136. E tra le varie Istituzioni di Chierici Regolari (es. Gesuiti, Camilliani,
Barnabiti, Teatini ecc.) sono da annoverarsi anche i Somaschi.
S. Gerolamo Miani137, nobile veneziano ed adepto laico dell'Oratorio del Divino Amore, durante
la terribile pestilenza del 1528, a Venezia si dedicò al soccorso dei poveri e degli orfani.
Nel 1534 fondò la "Compagnia dei servi dei poveri" allo scopo di esercitare la carità verso gli
orfani, le orfane e, inizialmente, anche verso le donne traviate. La Congregazione venne
approvata da Paolo III nel 1540, e nel 1568 da S. Pio V.
Ai Chierici Regolari di Somasca (località che si trova tra Lecco a Bergamo), noti come
Somaschi, furono affidati anche altri compiti da Clemente VIII, Ippolito Aldobrandini, che
regnò dal 1592 al 1605, energico ed inflessibile riformatore cui si deve tra l'altro una edizione
riveduta e migliorata della "Vulgata", il quale sollecitò i Somaschi ad occuparsi anche della
gioventù studiosa nei Collegi e nelle Accademie.
Intanto nel 1532, durante il mese di aprile, era venuto anche a Verona, dove aveva cercato di
organizzare, per conto del vescovo Giberti, un'istituzione per orfani, poveri e per il recupero
delle prostitute.
Ma è solo nel secolo successivo, esattamente nel 1670, che i Somaschi, i quali già dal 1639
gestivano le Scuole Pubbliche del Comune di Verona, acquistarono gli edifici ex-Fiesolani, ed
aprirono un'Accademia dei Nobili.
“I signori Convittori, i quali sogliono essere ammessi in questo Collegio, debbono essere di
nobile condizione, a di età, la quale non passi gli anni sedici, sì perché le piante indurite sono
meno arrendevoli, si perché l'istituzione con un sol metodo ricevuta suole riuscire di maggior
profitto...”, si dice nella Informazione dÉ requisiti per l’ingresso dÉ Giovani nobili…138.
Nel Collegio, che ebbe in media una cinquantina di convittori e fu retto da sei/otto sacerdoti
ed altrettanti Fratelli laici, ricevettero una educazione cristiana, oltre alla formazione umanistica,
i rampolli della nobiltà veneta per un secolo e mezzo, dato che esso rimase in vita, con alterne
vicende, dal 1670 al 1810: cioè fino al Decreto del Direttore Generale della Pubblica Istruzione
del Regno d'Italia (napoleonico).
135
G. MARTINA, L’Età della Riforma, in Storia della Chiesa da Lutero ai nostri giorni, vol. I, Brescia 1993,
p. 28
136
A. FAVALE, op. cit. , p. 136
137
S. RAVIOLO, S. Girolamo Emiliani, Milano 1947
S. RAVIOLO, L’Ordine dei Chierici Regolari Somaschi. Lineamenti di storia, Roma 1957
138
G. PERAZZOLO, op.cit. , p. 37
Il Prefetto di Verona, in data 24 febbraio 1810, aveva infatti dato per scritto il seguente
suggerimento:
“...Il Collegio e le pubbliche scuole del Seminario, lungi dal meritarsi uno speciale riguardo dal
governo... non contribuiscono che a pregiudicare l'educazione della gioventù, e a sviare
notabilmente la concorrenza al regio liceo, che avrebbe diversamente un maggior numero di
convittori e scolari, io sarei di fermo avviso...”139.
Venne così chiusa un'istituzione che aveva formato intere generazioni.
SAN ZENO IN MONTE E LA CASA BUONI FANCIULLI
• Le coordinate cronologiche: dal 6 Nov. 1908 ad oggi
• I fatti:
Il secolo dei lumi con la sua idea di progresso, la rivoluzione borghese del 1789 sono da
considerarsi fenomeni ed eventi fondamentali del mondo moderno, e con grandi riflessi nei
confronti del cristianesimo.
Al riguardo della Rivoluzione Francese G. Martina scrive:” La Rivoluzione Francese non fu in
nessun modo una rivoluzione satanica…Comunque la rivolta, che si proponeva inizialmente la
fine dell’assolutismo e delle strutture a questo legate, assunse abbastanza presto aspetti
antireligiosi, prima con il tentativo di creare una Chiesa nazionale, largamente indipendente
dalla S. Sede, poi, davanti al tramonto e al fallimento di questo esperimento, si trasformò in un
serio tentativo di scristianizzazione…”140
Tra la fine del sec. XVIII e l’inizio del XX secolo si impose, in misura molto sofferta, la
necessità di un dialogo o scontro tra la Chiesa e il liberalismo imperante141, con all’interno del
cattolicesimo il problema non indifferente del rapporto tra cattolici ed autorità religiose
intransigenti e cattolici liberali, mentre all’esterno la Chiesa trovava forti ostilità nel movimento
o fenomeno dell’anticlericalismo (1815-1915), e nella massoneria.
La dialettica tra cattolicesimo e società liberale fu, oltretutto, ulteriormente aggravato dalla
“Questione romana”, sorta a seguito dell’unificazione italiana.
E si poneva pure la questione sociale (provocata dalla rivoluzione industriale e dal
liberalismo economico) in tutta la sua drammaticità: lavoro minorile, salari insufficienti,
condizioni di lavoro inumane ecc.
Nella seconda metà del secolo XIX anche nell’ambito della Chiesa ci si cominciò a porre, al di
là della mera elemosina, in tutta la sua rilevanza le problematiche della questione sociale.
E sorse nell’ambito dell’Opera dei Congressi142 il movimento sociale dei cattolici143, sorto e
diffusosi in Italia negli ultimi decenni del secolo XIX, e che venne declinato a Verona, spesso
ante litteram, in un'inedita e peculiare versione
139
G. PERAZZOLO, op.cit. , p. 51
G. MARTINA, L’età del liberalismo, in Storia della Chiesa da Lutero ai nostri giorni, Brescia 1995, p. 13
141
AA.VV, La Chiesa in Italia dall’unità ai nostri giorni, a cura di E. Guerriero, Milano 1996, pp. 27-278
Sono particolarmente importanti per il nostro scopo la parte prima “I cattolici e l’unificazione d’Italia” con
di R. Aubert, di G. Martina, e la parte seconda “Questione sociale e Modernismo” con studi di F. Fonzi, S.
Ferrari, GF. Rosoli, A. Giovagnoli.
142
A. GAMBASIN, Il Movimento sociale nell’Opera dei Congressi (1874-1904). Contributo per la storia del
cattolicesimo sociale in Italia, in Analecta Gregoriana vol. XCI, Roma 1958, pp. 741
143
G. DE ROSA, Il movimento cattolico in Italia. Dalla restaurazione all’età giolittiana, Bari 1988, pp. 357
A. CANAVERO, I cattolici nella società italiana. Dalla metà dell’800 al Concilio Vaticano II, Brescia
1991, pp. 375
G. MARTINA, La Chiesa e la Questione Sociale, in Storia della Chiesa da Lutero ai nostri giorni. L’età
contemporanea, vol. IV, Brescia 1995, pp. 29- 80
140
Alcuni parroci o altri membri del clero diocesano diedero vita a numerose congregazioni
religiose di carattere caritativo144.
Ed io penso che il movimento sociale dei cattolici possa essere stato, assieme ad urgenti a
indilazionabili esigenze sociali (problema dell'inurbamento, problema degli illegittimi, dei
ragazzi abbandonati ecc.), un fecondo retroterra religioso-istituzionale che sicuramente
influenzò, e del quale sicuramente si giovò l'iniziativa realizzata a San Zeno in Monte da san
Giovanni Calabria.
La qualità dell'uditorio credo che mi dispensi dal presentare gli aspetti biografici relativi al
Beato don Giovanni Calabria.
Il mio sforzo, questa sera, sarà invece quello di sottolineare alcune sue scelte, e di proporre
alcuni flash significativi. Mi esimo anche dal proporvi la storia sulla Casa Buoni Fanciulli di
San Zeno in Monte, che per altro la si può leggere nel volume pubblicato per questa occasione.
1 – Ed allora, anzitutto, perché la Casa Buoni Fanciulli di San Zeno in Monte?
Quando si considera la fondazione della Casa Buoni Fanciulli viene facile pensare che don Calabria abbia fatto una
mera scelta filantropica. Secondo me invece egli ha fatto prima di tutto una scelta teologica e profetica: parlare agli
uomini di Dio e ricordare loro che è un Dio padre.
Il Regolamento della Casa Buoni Fanciulli del 1912 ne è una delle tante testimonianze:
“Scopo dell'Opera.
Far risplendere in modo evidente nel mondo la cura amorosissima che la Divina Provvidenza ha
di tutti e in particolar modo di coloro che s'abbandonano a Dio, sicuri dell'eterna Parola: Non
v'angustiate per il vostro vivere, di quel che mangerete, né per il vostro corpo di che vi vestirete:
cercate in primo luogo il Regno di Dio e la sua giustizia: e avrete di soprappiù tutte queste cose.
A questo fine la "Casa" accoglie fanciulli moralmente o materialmente abbandonati per educarli
cristianamente, cristianamente istruirli, a per far apprendere a loro, nei laboratori interni della
"Casa", un mestiere, acciò possano un giorno guadagnarsi onestamente da vivere...”
2 – Come si viveva nella Casa Buoni Fanciulli?
La vita dei ragazzi era scandita tra incombenze scolastiche e di studio, associate al lavoro nei
laboratori specie per i più grandi; tra pause di ricreazione e momenti dedicati a qualche pratica
religiosa.Alla domenica, ed anche al giovedì per chi frequentava la scuola, ci si dedicava al
passeggio in città, o in luoghi finitimi.
Il Cronista dell'Amico dei Buoni Fanciulli, cioè uno dei primi educatori, protagonista e
testimone della vita di quei tempi (cioè della vita dei Buoni Fanciulli prima della guerra
1915-1918), don Luigi Adami, così la descrive nell'Amico dei Buoni Fanciulli del Febbraio
1936:” ...Sveglia, per tempo; vestendosi, recita dell'Angelus, Requiem e Salve Regina. Pulizia
personale e della camerata. Il tutto in mezz'ora; poi in Chiesa: Orazioni del mattino e S. Messa
(con Comunioni numerose; don Giovanni e gli altri inculcavano assai la Comunione frequente).
144
GRUPPO DI RICERCA DELL’UNIVERSITA’ DI PADOVA – DIPARTIMENTO DI STORIA,Istituti e
Congregazioni Religiose nel Veneto, a cura di G.P. Romanato – G. A. Cisotto, Padova 1993, pp. 485
D. GALLIO, Introduzione alla storia delle fondazioni religiose a Verona nel primo ottocento, in Chiesa e
spiritualità nell’Ottocento italiano, Verona 1971, pp. 227-310
Dopo Messa, il sacerdote, deposti i paramenti, teneva ai B.F una brevissima riflessione: bella,
pratica, attraente, come sapeva fare lui; serviva così da ringraziamento, ed era una miniatura di
quella Meditazione che è tanto necessaria per progredire nella via della bontà.
Scuola: Una prima ora di scuola avanti la colazione; poi, per i più giovani, scuola durante il giorno alternata con
ricreazioni; lavoro, per i più grandicelli con orario adatto all'età e alle forze. Mestieri: calzolaio e aggiusta-scarpe;
più tardi venne il falegname, il sarto (che non durò), il tipografo (del quale parleremo), ultimo il fabbro.
A mezzogiorno l'Angelus con altre preghiere e un breve esame di coscienza in Chiesa; indi
refezione, minestra calda e fumante, pane, e nelle feste il companatico. A sera: Rosario in
Chiesa, un po' di scuola specialmente per i "lavoratori"; poi cena: polenta e companatico
(avreste veduto che belle forme di polentina: lucida, tenera proprio da uccelli!) e che fette, fin da
allora: se lo sapesse il rispettabile pubblico ne farebbe dei bei commenti. Seguiva la rìcreazione,
al lume del petrolio o dell'acetilene, poi in Chiesa per le ultime Orazioni, precedute da una
piccola Lettura spirituale, o da un pensierino di massima predicato a viva voce. E finalmente,
riposo in Domino”145.
La vita dei Buoni Fanciulli, dagli anni 1924 alla II Guerra Mondiale, registrò dei cambiamenti
nell'orario giornaliero: fu introdotto il riposo pomeridiano, e nel programma annuale, perché alla
fine degli anni venti, con la gestione della Casa di San Zeno in Monte da parte di don Albano e
nel segno di un tenore di vita meno austero, fu introdotto un periodo di vacanza in autunno.
“I Buoni Fanciulli non vanno mai a casa propria per vacanze; aspettano dalla Provvidenza lo
svago pur necessario; e quindi le passeggiate autunnali, quando qualche persona generosa
invitava, furono l'unico sollievo per molti anni.
Nel 1920 ruppero il ghiaccio per primi gli studenti andando una settimana a Costozza; nel 1925
altri dieci giorni a Fosse di S. Anna.
Nel 1926 i giovani di San Zeno in Monte ebbero dalla Provvidenza un soggiorno di 15 giorni a
Camposilvano: ben inteso, il puro luogo assicurato. Il Signore li aiutò e provvide bene, tanto che
l'anno appresso ci ritornarono, e così nel 1928, con grande giovamento al corpo a allo spirito.
Passeggiate e... mangiatine a sazietà, aria buona e noselle a bizzeffe; ce ne sarebbe da
raccontare.
La gita campionato però fu sempre quella al M. Carega [2230 m. sul livello del mare], in un
giorno...”146.
II promotore del cambiamento, come si è già detto, fu il nuovo Direttore, dal 1924, di San Zeno
in Monte don Albano Bussinello che convinse don Calabria “per la stima che egli meritava, e
per la sicurezza e tranquillità che dava la sua direzione sui giovani. …[don Calabria] l'interessò
per costruire la Casa a Camposilvano” ci testimonia don Luigi Adami.
Ed aggiunge: “Molto adatto ai giovani - cresciuto alla scuola di don Cappelletti come Prefetto
nel Collegio Vescovile - diede un'impronta più agile al Collegio; introdusse la Banda (sempre
d'accordo con il Padre, s'intende).
Abile nel dirigere il coro, con lui si progredì ad esecuzioni a più voci. Con don Albano, si snellì
l'orario, si ebbe il riposo estivo pomeridiano (fino allora escluso)...”147.
A proposito della Banda Musicale un testimone , sia pur a qualche anno di distanza ma con negli
occhi e negli orecchi immagini e suoni, ricordava: “Un bel diversivo, duraturo, è la scuola di
145
146
147
L. ADAMI, La Casa, in L’Amico dei Buoni Fanciulli, 2 (1936) 14
L. ADAMI, Vacanze, in L’Amico dei Buoni Fanciulli, 11 (1931) 260-261
G. PERAZZOLO, op. cit. , p. 107
banda. Già da parecchi anni la fanfara è nata in Casa, uno strumento alla volta; e gli apprendisti
fanfaristi li vedi chi in un cantone chi in un altro, nel cortile, sotto i portici, in una scuola,
contraffare le gote avvenenti e la bocca vezzosa per cavare dall'ottone le note stabilite. Si
accoppiano talvolta a due, a tre, insieme, e uno batte il tempo, gli altri ubbidiscono.
Il colto pubblico l'incita… guarda, ascolta, compatisce. Oppure ride per gli sbagli e le
stonature... Quando poi la compagnia fa qualche prova generale, allora tutti d'attorno a gustare
note e contronote, melodie e armonie, accidenti ed incidenti...”148 .
3 - La formazione culturale a professionale nel ventennio 1930/50.
Ne abbiamo un esatta descrizione, nel 1947, negli articoli del periodico "L'Amico dei Buoni
Fanciulli": La giornata del buon fanciullo149; Evviva la scuola!150.
É riconfermata, anche nei due decenni 1930 e 1940, l’impostazione formativa cristiana basata
sulle cosiddette “Pratiche di pietà”: delle quali la principale era sicuramente la Messa
quotidiana, alla mattina presto, con breve fervorino a mo’ di Meditazione
Ma dalle due testimonianze citate si possono ricavare elementi utili per conoscere le scelte
educative di fondo, sia in campo scolastico che professionale.
La mattinata sostanzialmente era riservata all'apprendimento professionale e al lavoro nei
laboratori, se si esclude un’ora di lezione, prima di colazione.
La formazione scolastica (Scuole di Avviamento Professionale) era affidata, oltre alla famosa
ora al mattino prima della colazione, ad un’altra ora e mezzo: dalle diciassette del pomeriggio
in poi.
Lo svolgimento dei programmi statali veniva perciò distribuito in un periodo di cinque anni,
anziché dei tre previsti dall'ordinamento statale.
I risultati dell'esame pubblico presso le Scuole di Stato furono comunque sempre assai
lusinghieri, anche se gli esaminandi, non raramente, si presentavano agli esaminatori con un'età
compresa tra i 16 e i 19 anni.
Insomma i Buoni Fanciulli dovevano essere meccanici, falegnami, tipografi, ma non ignari di
fisica e matematica, di Dante e di Manzoni, e delle altre discipline scolastiche.
4 - Le vicende più drammatiche
Don Calabria ed i Buoni Fanciulli ebbero non poche difficoltà, in special modo durante le due
guerre mondiali.
Nella prima, 1915-1918, la Casa subì un enorme depauperamento di personale tanto da metterne
in pericolo la sopravvivenza:
Verona “.. centro logistico e strategico, fu subito scelta a bersaglio dell'offensiva aerea. Le prime
bombe caddero sulla città il 25 luglio 1915 e le incursioni, complessivamente 15, si
susseguirono fino al 17 settembre 1916; le vittime furono 39 (di cui 37 nel bombardamento del
14 novembre 1915 su piazza delle Erbe)..”151.
Don Calabria nel suo Diario, in data 14 novembre 1915, annota: "...Questa mattina verso le 8
comparvero improvvisamente 3 aeroplani nemici e bombardarono orribilmente la città. Più di 30
furono le vittime. Dio mio, che terrore, che spavento...".
148
149
150
151
Diversivi, in L’Amico dei Buoni Fanciulli, 11 (1932) 265
La giornata del buon fanciullo, in L’Amico dei Buoni Fanciulli, nov. (1947) 43
Evviva la scuola!…, in L’Amico dei Buoni Fanciulli, nov. (1947) 44-45
N. CREMONESE ALESSIO, Verona: panorama storico, Verona 1966, pp. 157-158
Fortunatamente non ci furono vittime fra i Buoni Fanciulli ed i Religiosi, ma “... La guerra parve
stroncare, per un momento, le scuole di lavoro, portandoci via i capi d'arte. Bene o male, la
falegnameria continuò; l'officina fabbri, dopo aver languito, fu chiusa. La calzoleria rimase
aperta, ma spesso avveniva che gli assidui clienti (leggi Buoni Fanciulli), non potevano essere
serviti per mancanza di materiale. La tipografia rimase in funzione... Anche le scuole
procedettero alla meglio; parecchi Fratelli dovettero impugnare le armi, lasciando dei vuoti
dolorosi. Ciò nonostante, gli esami pubblici sortirono sempre buon esito..”152.
Nella Seconda Guerra Mondiale (1940/45) si verificò un episodio gravissimo:
“La notte tra il 10 a 1' 11 Ottobre 1944, a mezzanotte, suona la sirena. Delle formazioni aeree
nemiche sono in vista. Il rumore degli aerei rimbomba nella notte. Razzi luminosi illuminano il
cielo... Si corre al rifugio, dopo aver svegliato gli ultimi dormienti, che l'allarme strano e ridotto
non aveva svegliati. Mentre gli ultimi giovani entrano in rifugio, ecco un tremendo rimbombo.
Tra la commozione trepidante si recita il Rosario. Il sacerdote poi impartisce l'assoluzione. Un
fragore di scoppio vicino, una ventata di polvere: la Tipografia della Casa Buoni Fanciulli è
colpita. La terrazza che copre la Tipografia è crollata. Una bomba è pure caduta sul teatro;
distrutta la camera del Direttore dei Ragazzi don Carlo. Mattoni divelti, colonne schiantate e a
pezzi, cumuli di rottami, crepacci nei muri: un disastro.
Viene il Padre. Ha avuto sentore di qualche cosa. Si reca sul posto, guarda... Poi, in un sospiro di
rassegnazione, rivolto a quanti lo circondano commossi, dice: ...Grande sventura; ma, miei cari,
centomila bombe sono un nulla a confronto di un solo peccato mortale. Abbiamo paura del
peccato...”153.
E nel suo Diario don Calabria scrisse: “Questa notte la Casa di San Zeno in Monte, palazzo di
Dio, fu sinistrata dalle bombe. Il danno materiale fu grande, ma per grazia di Dio, e quasi per
miracolo, una bomba non esplose e non vi fu nessuna vittima...”154.
CONCLUSIONE
A conclusione di questa breve relazione, che, per i ristretti limiti di tempo concessi, non poteva
che essere necessariamente sintetica, vorrei ricordare a tutti Voi, che in buona parte siete
ex-allievi di quei tempi, la straordinaria visione dell' ex-allievo della Casa, maturata o almeno
testimoniata dagli scritti di don Calabria, verso la fine degli anni quaranta.
Il Beato pensava – e ne abbiamo ampia documentazione - che l'entrata di un ragazzo nella Casa
Buoni Fanciulli dovesse esser vista come una specie di vocazione, la chiamata per un compito,
per una missione, e non già una conseguenza di particolari necessità di carattere assistenziale.
All'ex-allievo on. Bacciconi, il 23/07/1951, scriveva: "... Come ho detto agli altri, dico pure a te:
la grazia di essere stato qui nella Casa a prepararti per la vita, è stato un dono di privilegio da
parte del Signore, un segno di particolare predilezione. E il Signore ve l'ha fatto il privilegio,
non tanto per il vostro avvenire materiale e professionale: cosa molto importante, sì, ma
sempre di interesse terreno; ve l'ha fatta perché poi, nel mondo immerso nelle tenebre dell'errore
e della corruzione, aveste a risplendere come fari di luce viva e vivificante, con la condotta
schiettamente cristiana in famiglia, sul lavoro, nella vita sociale, in ogni relazione con i fratelli...
152
L. ADAMI, La Casa Buoni Fanciulli dalle origini ai nostri giorni, in L’Amico dei Buoni Fanciulli, 11 (1932)
213-214
153
Bombardamento, in L’Amico dei Buoni Fanciulli, 11-12 (1944) 43-45
154
G. CALABRIA, Diario: 11 ottobre 1944 [ Diario 1942 – 1947], ms. Archivio P.S.D.P. - Verona
voi dovete dispensare ciò che avete ricevuto... Avete quindi una vera missione da svolgere nel
mondo: essere esemplari nella bontà, nella virtù; essere Vangeli Viventi. Il mondo ha bisogno di
vedere in pratica il Vangelo, la morale cristiana; di vederla nelle singole circostanze della vita
quotidiana. Tocca a voi, miei cari, svolgere questo incarico nobilissimo, per una rinascita di
questo povero mondo...".
E, per quel che riguarda la Casa Buoni Fanciulli di S. Zeno in Monte che è sorta 90 anni fa in
questa antica città di Verona, che dire!
Che è un luogo privilegiato da Dio, nel senso che sembra da sempre avere accompagnato, e che
continui ad accompagnare il cammino della Chiesa, anche nei suoi momenti critici. Nulla pare
perciò più adeguato, per presentarlo, della famosa frase, che S. Giovanni Calabria ripeteva
spesso:
“San Zeno in Monte, terra santa e benedetta...”
PSICHE E SANTITÀ: IL CASO DON CALABRIA155
Lucio M. Pinkus156 OSM
1. L’AMBITO DELLA QUESTIONE
Questo convegno ci offre l’opportunità di ripensare le condizioni che consentono di portare al tema proposto un
contributo che vorrebbe evitare di essere semplicemente ripetitivo. Per questo mi sembra necessario fornire una
serie piuttosto ampia di considerazioni, che sono necessarie a giustificare il modo con cui condurrò poi l’analisi
dello specifico caso “Don Calabria”.
Il nodo focale del nostro tema, come noto157, riguarda un problema antico e direi persino
annoso: quello dei rapporti tra la scienza e la fede. Indipendentemente dalle risposte più o meno
scontate che sono state date a questo rapporto, già ponendo il problema in questi termini si
assumono, talora implicitamente, dei riferimenti culturali e delle formule che non tengono
presenti i cambiamenti epocali, che pure incidono sulla nostra realtà. Questa precisazione si
impone, perché continuare a pensare senza tener conto di tali cambiamenti, significa lavorare ad
un livello di astrazione che, mi si consenta l’espressione, sfiora l’illusione.
Inoltre debbo far osservare come l’uso prevalente del termine fede, intesa come adesione
intellettuale a determinate proposizioni o affermazioni, dimostra con malinconica evidenza
quanto vi sia ancora di separatezza tra i diversi ambiti del sapere e quanto superficiale tuttora sia
la comprensione dei dati offerti dalla psicologia scientifica.
1.2. LE TRASFORMAZIONI CULTURALI DEL NOSTRO TEMPO
É necessario non solo prendere atto ma tener conto operativamente dei profondi cambiamenti
epocali che attraversano la realtà socioculturale contemporanea158, alcuni dei quali coinvolgono
più direttamente la tematica che stiamo svolgendo. La logica tecnologica è oggi comunemente
riconosciuta come la caratteristica che sta dando forma ai modelli culturali antropologici
contemporanei i quali, a loro volta, determinano opinioni, comportamenti, tipologie e gerarchie
di valori ad essi congruenti159. Tra i diversi cambiamenti epocali determinati dalla logica
tecnologica ne evidenziamo alcuni che in modo più marcato incidono sulla cultura ed
influiscono in modo rilevante sul modello di autorealizzazione oggi dominante. Essi sono:
- l’attenuazione, se non la scomparsa, del concetto di natura (e quindi p. es. di diritto naturale,
morale naturale ecc.) come espressione univoca consensualmente accettata160;
- la radicale modifica del valore attribuito, anche in ambito soggettivo, alla storia e quindi al
tempo, con ricadute evidenti sulla vita spirituale161;
- il valore quasi assoluto attribuito alla scienza come forma di conoscenza verificabile e
quantificabile e pertanto certa;
- infine, l’aumentata problematicità della soggettività, che è conseguenza immediata della
rigidità connessa alla logica tecnologica.
Di questi cambiamenti due sono di immediato interesse per il nostro argomento:
= si è passati da una concezione statica della natura, come luogo dove la perfezione è già
compiuta, ad una visione dinamica, dove cioè la natura stessa è considerata in processo. Le
155
Relazione tenuta a Verona all'8ª giornata di Studi Calabriani l'8 maggio 1999
Psicologo-Psicoterapeuta
157
Per l’impostazione più frequente del rapporto scienza-fede come pure per tutta la documentazione che riguarda
Don Calabria mi sono servito del lavoro, del Dott. Francesco BRICOLO, di imminente pubblicazione.
158
L. PINKUS, Senza radici? Identità e processi di trasformazione nell’era tecnologica, Borla, Roma 1998.
159
U. GALIMBERTI., La psicologia analitica nell’età della tecnica, in: AA.VV., Presenza ed eredità culturale di
C. G. Jung, Cortina, Milano 1987, p.137-156.
160
Cfr. il numero 4-5 (1987) della rivista "Studium", dedicato a questo tema.
161
C. MOLARI, Cambiamenti dell’orizzonte culturale e sue incidenze nella vita spirituale, in AA.VV., L’esistenza
cristiana, Borla, Roma 1990.
156
conseguenze di questa impostazione sono molto importanti, perché in quest’ottica non è più
possibile rifarsi alla natura come luogo dell’assoluto, del perfetto, dell’immutabile.
= Il valore attribuito alla scienza, che tende ad essere vissuta come una sorta di assoluto. Infatti,
poiché si tratta comunque di un metodo di conoscenza in grado di spiegare molti fenomeni che
un tempo erano riferiti all’ambito del sovracreaturale, l’atteggiamento “scientifico” ha posto in
crisi le tradizionali impostazioni del rapporto con la religione, la teologia e quindi con la
riflessione e l’interpretazione anche autorevole della fede. In quest’ambito poi va notato come
sia ancora scarsa la convinzione della relatività insita nella scienza stessa, in quanto metodologia
di ricerca e di conoscenza in un contesto storico preciso e a determinate condizioni (p. es.
possesso di informazioni, disponibilità di strumenti adeguati) ma che per la stessa logica propria
della ricerca scientifica è destinata a...smentirsi e che, comunque, trova dei limiti precisi nello
stesso scienziato162
2. LA FEDE E PERSONA UMANA
Ripensando al concetto di fede nella sua concretezza, e cioè in quanto processo che si svolge in
una persona, dobbiamo riconoscere che è un concetto complesso di cui è necessario esaminare
almeno due aspetti diversi.
Il primo prende come punto di riferimento l’insieme dei processi cognitivi e riguarda la
possibilità che una persona accetti o meno l’ipotesi della trascendenza. L’altro si riferisce invece
ad un’esigenza legata al processo evolutivo e cioè che ogni persona, per raggiungere una identità
compiuta, deve scegliere dei valori che, almeno sul piano soggettivo, considera assoluti. Su
questi valori, infatti, costruisce un progetto su cui imposta e declina la propria esistenza e le
conferisce un significato specifico163.
2.1 Fede e conoscenza.
Possiamo ripensare il rapporto tra scienza e fede164 partendo innanzi tutto dalla fede come
processo cognitivo. Una prima osservazione è che lo stesso concetto di trascendenza non è così
monolitico come solitamente si suppone, anzi è utile tener conto che possiamo parlare di una
trascendenza relativa, quindi storica, e di una trascendenza assoluta. Non c’è alcun dubbio che la
scienza riconosce la trascendenza relativa e storica, in quanto ogni conoscenza raggiunta è il
limite che l’uomo ha raggiunto in un determinato momento della storia ed è anche un segnale
che indica l’elemento da trascendere, l’aspetto cioè da superare, in quanto si presenta come
possibile obiettivo che verrà raggiunto in futuro perché nuove condizioni ne consentiranno il
raggiungimento. D’altra parte, ogni scienziato compie l’esperienza dei limiti che sono insiti
nella metodologia scientifica per rispondere alle domande che emergono dalla stessa scienza165.
Inoltre vi sono domande a cui gli stessi scienziati ritengono che la scienza, in quanto tale, non
sarà mai in grado di dare risposta. Infine, ogni scienziato esperimenta nella vita le problematiche
comuni a tutte le persone ed è quindi comprensibile che voglia utilizzare le proprie conoscenze
per contribuire alla loro comprensione e, se possibile, alla ricerca di soluzioni.
La teologia, da parte sua, si caratterizza come una riflessione sull’esperienza di fede, nel concreto e mutevole
contesto culturale, e tuttavia con il riferimento ad una trascendenza assoluta e cioè ad una verità che è talmente
profonda ed illimitata, da costituire la stessa realtà. Questa trascendenza è quella che noi chiamiamo appunto Dio.
In questa formulazione del problema la scienza e la teologia si trovano a condividere una
comune condizione: a livello scientifico possiamo analizzare, scoprire e individuare in tutta
l’ampiezza possibile le leggi interne ai fenomeni, riprodurle o modificarle e tuttavia la
strumentazione scientifica non può mai scoprire la forza originaria o creativa che comunque
rimane “trascendente” rispetto a tutti i fenomeni o realtà create. La teologia, dal canto suo, è
162
163
164
165
A. OLIVERIO., La scienza e l’immaginario, Ed. Riuniti, Roma 1986.
L. PINKUS, Autorealizzazione e disadattamento nella vita religiosa, Borla, Roma 1991.
C. MOLARI, Scienza e trascendenza, in: “Rocca” 8,58, 15 aprile 1999.
P. DAVIES, Un solo universo o infiniti universi?, Di Renzo, Roma 1998.
consapevole che, in quanto riflessione sull’esperienza di fede, comunque parla di un
trascendente che in sé è inconoscibile, pertanto, in qualsiasi modo ne parli, a partire quindi dalla
propria esperienza o da una rivelazione, sa che vi è una distanza incolmabile tra il suo “dire
intorno a Dio” e la realtà di cui parla (cioè Dio stesso). In altri termini se prendiamo p. es. la
teologia cristiana, dobbiamo aver chiaro che il nostro linguaggio ed i nostri concetti sono sempre
relativi in quanto tra la Parola di Dio e le parole che usiamo per fare affermazioni su di essa, vi è
una distanza incolmabile, che non consente di formulare proposizioni scientifiche, ma si esprime
solo attraverso analogie e metafore.
Per questo, posto che la scienza è consapevole di non poter fare affermazioni definitive sulla
trascendenza ultima o assoluta, così la teologia non può utilizzare le fonti della fede per
sviluppare riflessioni scientifiche, né utilizzarne i dati per avvalorare proposizioni teologiche.
Tuttavia la ricerca scientifica può contribuire a chiarire e comprendere meglio la realtà creata e
per questo favorisce la possibilità di meglio e più profondamente comprendere l’azione di Dio
(l’effetto della forza creatrice); a sua volta la teologia può essere d’aiuto nel creare le condizioni
per sostenere quella ricerca di senso e quella comprensione del mistero della vita che sono
universali. In quest’ottica mi pare che ogni contrapposizione radicale non abbia ragione di
essere.
2.2 Fede e dinamica di personalità.
Se guardiamo alla fede come ad un processo che riguarda l’intera personalità umana, allora
dobbiamo considerare le dinamiche attraverso le quali ogni persona riesce ad affidarsi a dei
testimoni che trasmettono quei valori che poi ciascuno farà propri e su cui fonderà l’esistenza.
Infatti, nessuna persona può vivere senza affidarsi, magari non del tutto consapevolmente, a
ideali, valori e persone, e cioè senza una fede. Quando questa fede è rivolta a Dio è una fede
religiosa, tuttavia è utile tener presente che il processo dell’affidarsi o, se vogliamo, le
dinamiche psicologiche della fede, costituiscono di necessità un’esperienza comune per il
teologo e per lo scienziato, per il credente come per il non credente proprio in quanto persone, al
punto che chi non ha avuto una sufficiente possibilità di esperimentare l’affidarsi ad altri nel suo
ciclo evolutivo, sovente ha delle ricadute negative nella evoluzione dei processi più importanti
della vita, p. es. l’amore, l’amicizia, l’autostima ecc..
Rimane comunque basilare che sia lo scienziato che il teologo, indipendentemente dalla fede
religiosa, debbono convenire che esiste una dinamica del fidarsi e dell’affidarsi, senza che
questo sia basato su dati completamente razionali né tantomeno verificabili e che questo
processo è fondamentale per il processo di individuazione e quindi per la propria piena
autorealizzazione. Negare questo dato inoltre, ossia sostenere l’assenza di qualsiasi fede nella
propria vita, coincide, in ultima analisi, con una fede nihilista e quindi non sposta i termini del
problema. Tener presente questa convergenza è un ulteriore fattore di comprensione tra le
persone e quindi tra i punti di vista, anche a livello scientifico e/o religioso, che esse esprimono.
3. FUORI DELL’ASTRATTEZZA
Dopo aver delineato il contesto che mi sembra più coerente con la visione scientifica e teologica
contemporanee per un loro dialogo fruttuoso, posso ora precisare ulteriormente gli strumenti di
cui mi servirò per l’analisi del caso di Don Calabria. Ritengo infatti che questo vada affrontato
secondo un modello realmente multidisciplinare166, nel quale il privilegiare la competenza e
quindi lo specifico del mio punto di vista non esime dal tenere in considerazione gli altri, e, in
particolare, essendomi proposto di parlare come psicologo clinico del rapporto tra santità e
psiche applicato al caso di Don Calabria, questo richiede che io precisi quale livello psicologico
intendo usare e a quale teologia mi riferisco.
166
Una chiara indicazione per questa scelta metodologica in campo teologico ci viene p. es. da Paolo VI, nella
Esortazione Apostolica "Marialis cultus" (2-2-1974).
3.1. Psicologia dinamica.
All’interno della molteplicità di punti di approccio possibili in psicologia, questo contributo si
fonda sulla psicologia dinamica. Con questa terminologia intendo quel modello descrittivo del
funzionamento psichico umano che studia i processi psichici, sia soggettivi che interpersonali,
focalizzandone soprattutto i sistemi motivazionali, coscienti ed inconsci, a partire dalla matrice
psicoanalitica, nelle sue diverse espressioni, fino alle acquisizioni recenti167. Nell’ambito della
psicologia dinamica vanno sottolineate anche le evoluzioni interne a questo ambito disciplinare
nei confronti della religione168.
3.2. Teologia.
Nell’ottica di un confronto fruttuoso mi sembra anche necessario definire meglio la
teologia, intesa qui come riflessione culturalmente contestuale e sistematica sulla fede. Mi
sembra che il modello teologico più aperto ad un discorso multidisciplinare, e in particolare
coerente con le esigenze scientifiche, in particolare della psicologia dinamica, sia quello che
pone come principio ermeneutico la legge dell’Incarnazione e l’autonomia delle sfere creaturale
e divina. Sotto la spinta della secolarizzazione e confrontandosi con le nuove acquisizioni della
scienza, si è pervenuti, in ambito teologico, ad una visione dinamica della realtà, più legata, per
un verso al dato biblico e tradizionale, per un altro alle scienze, ma in definitiva affrancata dalla
pretesa di una philosophia perennis. In questa prospettiva il rapporto tra persona umana (= realtà
creaturale) e l’azione divina o grazia (= realtà sovra-creaturale) viene considerata nella
prospettiva di una autonomia reciproca169, ipotesi perseguita appunto nel modello teologico
prescelto170.
4. DON CALABRIA: STORIA DI UN CONFLITTO MODELLI CULTURALI
Il caso “Don Calabria” - come lucidamente evidenzia il lavoro del dottor Bricolo – inizia in un
contesto dove santità e malattia mentale sono vissuti dagli studiosi – sia psichiatri che teologi –
come incompatibili. Al tempo stesso però diversi esperti sono altrettanto persuasi della santità di
Don Calabria. Di qui la soluzione di portare una gamma di sintomi e di manifestazioni
patologiche nell’alveo della mistica - regno, come ognun sa, della creatività e anche della
“stramberia” insindacabili risolvendo così il conflitto e spianando la strada per le diverse tappe
del processo canonico di canonizzazione.
Il conflitto in realtà è molto grave e si pone a causa dei modelli utilizzati nelle rispettive
competenze. Il comune implicito riferimento ad una natura perfetta e perciò stesso statica
determina una collusione tra psichiatria e teologia, che nasconde un problema soprattutto
teologico – oserei dire – paradossale171.
Infatti dal punto di vista della psichiatria la diagnosi risente dell’influenza di un paradigma
epistemologico positivista che influenza ancor oggi le scienze, non escluse le discipline
biomediche e fin la psichiatria, dove salute e malattia della psiche sono entità rigorosamente
distinte, ciò che sarebbe difficilmente sostenibile oggi dopo i contributi della psicoanalisi sulla
modalità continua e non discreta della vita psichica alla luce della dialettica tra inconscio e
coscienza, mentre la diagnosi di psicosi ossessiva associata ad episodi o piuttosto – stando ai
documenti – a fasi di depressione/melanconia depone per una riduzione piuttosto grave della
167
G. JERVIS, Fondamenti di psicologia dinamica, Feltrinelli, Milano 1993; J. D. LICHTENBERG, Psicoanalisi e
sistemi motivazionali, Milano 1995.
168
L. PINKUS, Religione dello psicoterapeuta - Religione del paziente, in: "Psychologos", 4, aprile 1992, p.32-43.
169
K. RAHNER, Scienza e fede cristiana, Ed. Paoline, Roma 1984; C. MOLARI, Darwinismo e teologia cattolica,
Borla, Roma 1984; MOLARI C., Il linguaggio della catechesi, Paoline, Roma 1987.
170
Questo approccio è stato autorevolmente proposto nel Conc. Vaticano II, p. es. nella Cost .Past. sulla Chiesa nel
mondo contemporaneo "Gaudium et spes", nn.5,7.
171
AA.VV., Mistica e scienze umane, Ed. Dehoniane, Napoli 1983.
“capacità di intendere e di volere” e quindi della competenza ad esercitare la libertà, soprattutto
a livello motivazionale172. Sembra che psichiatri e medici sostanzialmente concordassero su
questa diagnosi, che, mentre era coerente con il loro modello nosologico, al tempo stesso, in
ragione della distinzioni conseguenti il modello positivista e la separazione del comportamento
dal contesto storico, li esentava dal farsi carico dei problemi cosiddetti spirituali come se
appartenessero ad una sorta di complesso autonomo della stessa personalità.
A questa impostazione del problema aderiscono anche i teologi della Congregazione per le
cause dei Santi, che quindi colludono e convergono in una visione rigidamente dualistica. Da
una parte la distinzione netta tra patologia mentale e salute mentale, dall’altra tra
raggiungimento di uno stato di perfezione ( = santità) e la sua incompatibilità con
l’imperfezione, che deriva dalla malattia mentale. Che questo approccio non sia del tutto lineare
e che quindi necessiti di correttivi, che talora appaiono fin troppo artificiosi, si coglie dai testi
allorché si esaminano gli sforzi fatti per conciliare con la complessa personalità di Don Calabria
il modello di santità fondato sull’esercizio eroico delle virtù teologali, usando formule in cui ci
si esprime mediante schemi quasi predefiniti ed un po’ troppo rigidi, tradotti, come sono, in un
linguaggio che sembra quasi giuridico.
Solo il professor Trabucchi intuisce, forse un po’ confusamente, che sotto la separazione tra
santità e malattia mentale si nascondeva un problema ben più grande e cioè la possibilità di una
condizione concreta talmente negativa da consentire di postulare l’impossibilità di giungere alla
santità, ossia di essere pienamente figli di Dio e testimoni esemplari di fedeltà al vangelo di
Gesù Cristo. Per altro con l’aggravante che, in ultima analisi, questa situazione sarebbe stata
comunque permessa da Dio. É fin troppo evidente come i modelli soggiacenti questa
impostazione comunque non sono sufficienti a rendere ragione del complesso caso studiato né,
tanto meno, di stabilirne un corretto riferimento epistemologico né pèer la teologia, né per le
scienze del comportamento (in questo caso)
5. UNA LETTURA PSICODINAMICA DEL “CASO”...
Possiamo ora cercare di leggere la vita di Don Calabria con altri codici, derivati appunto dalla
psicologia dinamica. Per valutare una personalità la clinica psicodinamica ritiene essenziale
esaminare la storia personale, dando un valore particolare sia all’infanzia che alle diverse crisi
evolutive che costellano il ciclo vitale173. Desidero inoltre richiamare un principio ermeneutico
fondante la stessa psicopatologia dinamica e cioè il rifiuto di circoscrivere il significato di un
processo nella sua descrizione a livello diagnostico. In altri termini, pur asserita e accettata
l’esistenza di una dinamica patologica per quanto grave, la psicologia dinamica si pone sempre
il problema di comprendere - per quanto possibile - la funzione ed il senso che il quadro clinico
riveste nell’insieme della storia e della personalità del paziente.
Per quanto ne sappiamo la sua vita, a partire dall’infanzia, è costellata da una sequenza di eventi
e circostanze che non ne favorivano una crescita serena: basti pensare alla morte prematura del
padre, alla necessità di andare a lavorare ancora giovanissimo, al senso di responsabilità che ha
interiorizzato. Già questo primo sguardo ci indica come era piuttosto prevedibile che nel mondo
psichico del ragazzo si sarebbero potute attivare facilmente dinamiche depressive, con
conseguente alterazione del tono dell’umore, disturbi dell’autostima e bisogni di
autopunizione174.
172
J. D. GUELFI, P. BOYER, S. CONSOLI, E. OLIVIER-MARTIN, Psychiatrie, PUF, Paris 1987.
Questa operazione, compiuta su quanto può emergere di una personalità, da materiale...cartaceo, è senza dubbio
da prendersi con cautela. Annoto anche subito che l’ipotesi di cronicità intesa come impossibilità di modifica di un
quadro clinico è piuttosto rara nella diagnostica psicodinamica, in quanto si ipotizza che, salvo gravi
compromissioni cerebrali, vi sia sempre la possibilità di comunicare a livello profondo col paziente, di
comprenderne e di interpretarne i messaggi soprattutto inconsci, e quindi di indurre dei cambiamenti; cfr. A.
BALESTRIERI, C.L. CAZZULLO (a cura di), Le scienze e l’inconscio, Il Pensiero Scientifico, Roma 1983..
174
A. SAMUELS (a cura di), Il Padre. Prospettive junghiane contemporanee, tr.it., Borla. Roma 1991.
173
Al tempo stesso non dobbiamo trascurare un influsso rilevante, probabilmente della madre o di
altra figura femminile significativa, come si può desumere sia dalla sua fede in Dio, e quindi
dall’aver interiorizzato la capacità di aver fiducia in altri, sia da alcuni tratti della sua personalità
che saremmo portati a leggere più col codice materno (quello del femminile) anziché paterno
(quello del maschile) come p. es. la disponibilità a prendersi cura o il bisogno di relazioni a forte
tonalità affettiva175.
Inoltre è documentato come la morte precoce di un genitore spesso influisce molto
negativamente sullo sviluppo affettivo, giungendo talora a precostituire un terreno psichico nel
quale, in epoche successive, si radicheranno stati di monotonia resistente alle sollecitazioni
esterne al soggetto, reazioni di tristezza profonda che comporta episodi o anche fasi di perdita di
interesse per la vita accompagnati da sensi di colpa, di indegnità e di disprezzo di sé. In questa
situazione le condizioni economiche fanno sì che il piccolo Giovanni Calabria venga provato da
un senso di responsabilità probabilmente eccessivo e da un precoce inserimento nel mondo del
lavoro.
É difficile credere che il ragazzetto Giovanni Calabria abbia potuto vivere serenamente le
esigenze di gratificazione ed i conflitti con le istanze erotiche del periodo preadolescenziale.
Guardando al periodo di pubertà e di adolescenza risalta con evidenza la continuità di situazioni
emotivamente molto impegnative e carenziali: difficoltà negli studi, senso di frustrazione e di
incomprensione, la stessa decisione di entrare in seminario resa gravosa sia dalla sfiducia nelle
sue capacità che dai problemi economici. Si tratta di fattori che, proprio in questo periodo di età,
rendendo più difficile il superamento sereno dei compiti evolutivi propri di questa fase critica176,
possono aver indirizzato le forze psichiche accentuando il suo senso di inadeguatezza, vergogna,
indegnità, e riflettendo queste dinamiche sul piano comportamentale con una ripresa della
latente tendenza ad modalità ossessive.
Per non ripercorrere l’intera vita del nostro “paziente” pensiamo a due momenti significativi
della sua vita.
Il primo riguarda l’episodio che chiameremo dell’incontro con un bambino. Qui vediamo come
Don Calabria - probabilmente facilitato dalle sue stesse esperienze – incontrando appunto un
bimbo in stato di grave necessità si commuove profondamente, quasi identificandosi con il
senso di abbandono che il piccolo ispira, quindi lo porta a casa sua, e anzi si fa risalire a questo
episodio l’idea di uno degli aspetti più conosciuti della sua futura Opera. Questo modo di agire
viene criticato, non è compreso, comporta richiami e inviti, più o meno fraterni, alla prudenza.
Sembra che continui il filo nascosto ma sempre infrangibile del dubbio, del non meritare mai
fiducia piena, dell’essere attendibile con riserva...Eppure esistevano ben altri codici
possibili...anche cristiani...per leggere il comportamento del Santo. Ora, su una personalità di
base già compromessa e che ha dato i primi segnali chiari di fragilità soprattutto emotiva, è
ragionevole supporre che questa continua esposizione alla sfiducia non abbia giovato a portare
stabilità o serenità. Sorge allora quella forma di sfiducia melanconica in cui, non potendo o non
volendo “aggredire gli altri”, si finisce per aggredire se stessi. Così il Don Calabria ripercorre i
sentieri del continuo esaminarsi, del mettere in dubbio le sue capacità, la sua intelligenza, la sua
fedeltà a Dio ecc.
Il secondo qui considerato riguarda il conflitto di atteggiamenti verso il problema della parità di
diritti tra i membri chierici ed i membri laici dell’Opera. Più che di un fatto quindi siamo dinanzi
ad un modo di concepire la stessa congregazione, che, nella apparente opzionalità dei termini,
nasconde un modelli di Chiesa molto diverso. Qui colpisce come Don Calabria abbia avuto una
sensibilità ed una intuizione che, se evidentemente coerenti con la sua impronta evangelica, sono
certamente profetici rispetto ai tempi in cui è vissuto. Ci vorrà il Concilio Vaticano II a
175
L. ANCONA, Le radici della femminilità e mascolinità, in: S. SPINSANTI (a cura di), Maschio-femmina:
dall’uguaglianza alla reciprocità, Edizioni Paoline, Cinisello 1990.
176
L. PINKUS, Psicologia dell'età evolutiva, Istituto dell'Enciclopedia Italiana Treccani, Roma 1991.
richiamare il principio della eguaglianza dei membri degli istituti di vita consacrata e neppure
questo è stato sufficiente per poter ottenere la libertà di tradurla in norme di vita. Qui ci
troviamo di fronte ad una incomprensione profonda del suo stesso spirito e di un suo carisma,
che, se è spiegabile sotto il profilo storico culturale, non è stato però meno doloroso da accettare
per il Fondatore, in quanto attraverso questo indice aveva la prova di quanto era presente il
rischio di una comprensione parziale o di un rifiuto della novità della sua intuizione. Direi che
proprio la mentalità nei confronti dei laici e la motivazione giuridica che la sosteneva, erano in
chiaro contrasto con quella visione di una comunità di poveri, di persone che non hanno potere,
che sono veramente fratelli (si pensi alla forma originale con cui sono pensati i fratelli esterni)
che Don Calabria proponeva e di cui si sentiva la responsabilità di essere l’iniziatore.
5.1. Le parole del male
Esaminiamo ora con più accuratezza i termini più ricorrenti delle diagnosi emesse dagli
specialisti.
Sia la depressione che gli stati melanconici sono caratterizzati, secondo un pensiero ampiamente
diffuso in ambito psicodinamico, dal sentimento di perdita dell'oggetto d'amore177. Nella
vicenda di Don Calabria emerge con evidenza che per lui l'oggetto d'amore in definitiva è Dio
Padre. Non compete alla psicologia dinamica stabilire la verità dell'oggetto e, in qualche misura,
neppure la sua autenticità. Se, infatti, lo sguardo della psicologia scientifica non si posa con
pregiudizio su Dio come possibile oggetto d'amore totale, allora è possibile anche cogliere
un'altra lettura della vicenda di don Calabria. Facendo pure l'ipotesi di una serie di processi
compensativi a partire dalla perdita del padre, che hanno condotto il Calabria a individuare
proprio in Dio Padre, - il modo con cui egli si è poi riferito a questa esperienza nella sua vita - ,
ci permette di dire che comunque questa scelta non può definirsi come una scelta di comodo o
una semplice manovra difensiva inconscia. Appare evidente dalla documentazione che Don
Calabria non strumentalizza questo Dio e che l'oggetto d'amore al quale si riferisce non è
certamente un'immagine che egli si è costruito a suo uso e neppure una proiezione inconscia di
bisogni insoddisfatti. Questo Dio, infatti, pur risentendo nel suo essere vissuto come Padre delle
alterne vicende della fragilità emotiva del santo178, è sostanzialmente fedele al dato
neotestamentario. A questo Dio egli si rivolge talora con confidenza, talora con sentimento di
maggior distanza, ma prevalentemente con un atteggiamento di ascolto e di obbedienza da cui
traspare molto più l'intenzionalità cosciente di compieme la volontà piuttosto che quella di
modificame - se così si può dire - il volere in funzione delle proprie necessità o desideri.
Partendo dall'assunto che ogni persona, per acquisire un'identità compiuta deve scegliere dei
valori assoluti sui quali costruire il proprio progetto di vita179 e riflettendo sul fatto che, nel caso
in esame, questi valori si unificavano e coincidevano con l'oggetto d'amore totale, è ben
comprensibile come in Don Calabria - sia pure con una percezione parzialmente distorta e con
una serie di reazioni emotive talora ingigantite dalla fragilità della sua personalità - la paura di
perderlo rafforzi e renda più acuta e profonda la dinamica depressiva. Allo stesso tipo di
dinamica va collegato il senso di indegnità e di colpa che è frequente nelle depressioni severe, e
tuttavia anch’esso può essere interpretato, nell’insieme della personalità, in modi molto
diversi180.
Anche qui rilevo come la depressione è una condizione molto varia che nelle sue forme severe
comporta dalle distorsioni o alterazioni parziali delle capacità di analisi critica della realtà fino, e
177
E. BORGNA, Le figure dell’ansia, Feltrinelli, Milano 1997.
Mi riferisco all’imago del padre e al suo rapporto con il padre biologico, cfr. G. D’AQUINO, Religione e
psicoanalisi, SEI, Torino 1980.
179
L.PINKUS, Adattamento e psicopatologia nella vita religiosa, Borla, Roma 1991.
180
L. ANCONA, L’universo morbido della colpa, in: L. ANCONA et al., In cammino oltre il senso di colpa,
Cittadella, Assisi 1984, p.21-33.
178
molto spesso, alla fantasia del suicidio. Tuttavia non solo ogni soggetto reagisce in modo
diverso a questo tipo di sollecitazione, ma diverse per consistenza e significato sono le
motivazioni in base alle quali il soggetto reagisce. Nel caso di Don Calabria si tratta di
motivazioni religiose. Un recente studio sulla psicodinamica della depressione nei religiosi
evidenzia l’importanza che il fattore religioso, che, se vissuto autenticamente non ostante le
difficoltà legate alla patologia, può divenire un nodo evolutivo del processo maturativo anche
spirituale degli individui181.
Nella stessa prospettiva possiamo, credo, leggere anche l'aspetto ossessivo della sua condotta
come pure le altre reazioni sconcertanti (p. es. bestemmie o altre manifestazioni che
contraddicono le aspettative nei suoi confronti). Dai dati che abbiamo esaminato è evidente che
il tipo d’infanzia vissuto dal giovanissimo Calabria e l’andamento della sua vita sia stato
affettivamente faticoso e povero di gratificazioni. Anche quelle dimensioni affettive che Don
Calabria recupera da adulto, secondo me in modo evidente, mediante la tenerezza e la capacità
di relazioni emotive profonde sia con i bambini che con i “poveri”182 come pure un’ampia
disponibilità relazionale ed affettiva. Nella stessa ottica ritengo probabile che egli abbia
canalizzato il bisogno di generatività proprio nella fondazione delle sue opere. Tuttavia è
altrettanto evidente come anche queste strade di recupero e di autorealizzazione siano state
sovente incomprese, fortemente contrastate, trasformate in sospetto e messa sotto accusa del suo
comportamento e delle sue intenzioni. Qui è allora legittimo ipotizzare che gran parte della vita
mentale del santo sia stata vissuta con un impegno di autocontrollo eccessivo e che quando,
sotto la spinta dei processi psicopatologici, questa capacità di autocensurarsi veniva meno,
potessero emergere reazioni allo stato primitivo, che sono spiegabili nel loro contenuto sia come
sedimenti inconsci di tipo culturale sia come formazioni reattive e cioè come risposte non
lineari, a conflitti soprattutto inconsci e a situazioni molto difficili sia sul piano personale che su
quello relazionale, che esplodono talora in reazioni esasperate legati a stati limite, di cui le
manifestazioni stesse diventano come degli indicatori.
Circa poi il problema di una diagnosi di psicosi oppure di nevrosi, mi sembra poco utile
istituirne l’analisi vista la grande differenza che si dà oggi all’ampiezza e al contenuto di questi
termini.
5.2. Un conflitto rimosso...
Nella documentazione su Don Calabria cui ho avuto accesso mi sembra che non sia stato preso
in considerazione - forse perché dato per scontato - un aspetto che ritengo fondamentale per
comprendere la sua personalità e forse la sua santità. Mi riferisco al conflitto per accettare se
stesso. Cresciuto in un clima culturale tradizionale, dove non solo la malattia mentale era
oggetto di forti pregiudizi, ma veniva inoltre considerata incompatibile con la santità, Giovanni
Calabria ha silenziosamente dovuto elaborare una sua sintesi tra aspirazioni e intuizioni
profonde, constatazione constante dell’insufficienza delle sue energie psichiche di fronte ai
compiti che si era sentito chiamato ad attuare e agli impegni che ne derivavano, posto in una
condizione di non potersi fidare delle sue capacità e quindi neppure di sé stesso - almeno in un
certo senso - e inoltre sottoposto al dubbio sulla sua stessa capacità di intendere e di volere. Ciò
che colpisce e che comunque ha mantenuto una sorta di fondale unitario che, nelle diverse
situazioni, sembra rimasto fondamentalmente inalterato e questo fondale egli lo ha sempre
descritto come il suo rapporto, per quanto anch’esso talvolta tormentoso, con Dio. E sulla base
dell’accettazione di sé, dell’umiltà di vita che la sorreggeva e di un sincero desiderio di ascolto
obbedienziale del suo Dio, che mi è sembrato che Don Calabria riuscisse ad accogliere, con le
181
C.M. MENCACCI, M.G. BRIOSCHI, L. BATTISTINI CARERA, La depressione nei religiosi, in: A.
SAMUELS (a cura di), Psicopatologia, Ed. RED, Como 1996.
182
Sulla valenza cristiana di questo concetto cfr. P. G. DI DOMENICO, I poveri attraverso la storia, in: L.
BARONIO, L. PACCHIN (a cura di), Spiritualità del servizio, PIEMME, Casale Monferrato 1996.
resistenze e la fatica di ogni altra persona umana..., le vicende complesse, contraddittorie e
talora persino senza-senso apparente, della sua storia.
6. DON CALABRIA: MALATO E/O SANTO ?
Ad una prima lettura psicodinamica della personalità di Don Calabria mi sembra che la sua
vicenda si presenta come un processo di identificazione particolarmente complesso e
difficoltoso. A partire da condizioni sfavorevoli nell'infanzia notiamo fasi di adattamento e fasi
di disadattamento che presentano episodi o anche fasi di scompenso e di patologia psichica più
pronunciata. Tuttavia l'esame del significato di questi elementi non può essere confinato nel
codice patologico, ma all’interno della vicenda esistenziale nel suo complesso e, considerando
che il processo di identificazione si conclude con la morte, dobbiamo dire che si tratta di una
dinamica tendenzialmente costruttiva, una dinamica cioè nella quale il male/malattia, pur
condizionando la vita psichica, tuttavia non invade né forza la personalità al punto da impedirle
una identificazione con Cristo183 tale da dare significato e rendere comunque significativa la sua
esistenza. Del resto l'esperienza clinica, anche nello specifico dei religiosi, ci offre una specie di
controprova e cioè che cosa avviene allorché il riferimento a Dio è prevalentemente frutto di
proiezioni e compensazioni e quali devastanti esiti si abbiano allorché queste compensazioni,
influenzando la personalità, la rende autodistruttiva o anche narcisisticamente eterodistruttiva.
Ben diversa è la posizione di don Calabria. Egli infatti, pur attraverso la depressione, le
ossessioni e le altre forme di disturbo della personalità, conserva integro e lucido l’orizzonte di
riferimento, cioè Dio Padre, manifestando nell’insieme dei suoi comportamenti il convincimento
che non esiste situazione negativa che comunque non consenta di far emergere la gloria di Dio.
Questa scelta costante di Dio - che, come ho già commentato, non è strumentale né paranoica mi sembra essere la chiave per comprendere il rapporto psiche/santità in don Calabria.
Non ostante i pesanti condizionamenti legati alla malattia, il Santo presenta due caratteristiche
che lo differenziano nel modo di vivere e quindi nel significato della patologia . La prima è
legata al fatto che comunque il Santo mantiene un certo livello di lucidità cognitiva
predominante e cioè quel tipo di consapevolezza di sé o autocoscienza, per cui riesce comunque
a non centrarsi o rinchiudersi su se stesso ma proteso a condurre a termine la missione per la
quale si sentiva chiamato, L’altra è che nono stante tutte le manifestazioni legate alla
depressione egli riesce a mantenere quasi non inquinato un livello profondo nel quale, pur se
talora si sente abbandonato da Dio e separato da Lui, pure in definitiva manifesta una fiducia
senza riserve sul fatto di essere chiamato proprio lui a compiere questa missione e,
contemporaneamente, sulla paternità di Dio. In quest’ottica vanno forse colti alcuni indicatori,
come p. es. la sua tenacia nella celebrazione dell’eucaristia ogni qual volta gli fosse stato
possibile, anche nelle fasi più acute della patologia.
7. LA SANTITÀ DI DON CALABRIA
Seguendo l’approccio teologico indicato proponiamo qui una descrizione della santità
propriamente cristiana potremmo dire che è la capacità di rendersi trasparenti all’azione di Dio
senza opporre resistenze, ma anzi accogliendone l’azione con tutte le proprie energie, nel
contesto storico della propria esistenza, fino a divenire autenticamente suoi figli/e. Questa
descrizione non punta tanto sulla perfezione morale e neppure - direttamente - sull’esercizio
eroico delle virtù (benché si tratti di elementi senza dubbio validi e che verranno recuperati
altrimenti), ma sulla fiducia senza riserve nella Parla di Dio, sulla fedeltà agli ideali di Gesù
Cristo, non ostante i limiti personali e storici. Con altra formula potremmo dire che la santità
consiste nel far coincidere la nostra autorealizzazione con la nostra identificazione con il
183
Vorrei sottolineare che, a parte la mia personale adesione ai contenuti dei termini teologici che uso, la loro
presenza in questa parte del lavoro è “asettica” per un verso, in quanto non implica alcun giudizio di valore, e
dall’altra aderente a ciò che Don Calabria stesso credette e scelte nella sua esistenza.
modello di vita che Gesù ha vissuto, nell’ambito della particolare chiamata di ciascuno (quello
che la scrittura di san Paolo chiama “il nome che è nei cieli”). Questo percorso riconosce nelle
stesse condizioni umane le basi per vivere una vita teologale, cioè protesa verso Dio.
Se cerchiamo un atteggiamento di Gesù che ne costituisca un tratto caratterizzante ed
unificante184 credo che sia l’obbedienza185, cioè l’ascolto attento, proteso alla risposta pronta,
della voce del Padre. L’annuncio di Gesù avrà un nodo focale: il male, in tutte le sue forme, e
perfino la morte non sono l’ultima parola della storia, perché si affida a Dio senza riserve e
contrappone alle dinamiche male quelle opposte – di fronte all’ingiustizia la misericordia,
all’odio l’amore, alla sofferenza la compassione ecc.-, questi sarà salvato, cioè verrà condotto da
Dio oltre lo stesso male fino a raggiungere l’identità di figlio/a. In questo ambito vi sono due
punti importanti:
- che non esiste nessuna condizione per quanto assurda , come lo era la morte in croce, che può
impedirci si manifestare la gloria di Dio o può separarci dal suo amore;
- che il male - che essenzialmente è assenza di bene - si presenta come baratro o vuoto, persino
come assenza di Dio, finché qualcuno non si addossa appunto il compito di renderlo presente,
posto che l’azione di Dio non può essere percepita da noi, almeno normalmente, se non
attraverso linguaggi umani186.
Un altro tratto specifico della vita e dell’insegnamento di Gesù è il suo amore preferenziale per i
poveri e gli ultimi.
Queste descrizioni consento un rapporto coerente con la psicologia dinamica. Infatti è acquisito
che ogni persona, se vuol pervenire ad una identità compiuta, deve scegliere dei valori sui quali
costruire il proprio progetto di vita, che, ad un certo momento del cammino evolutivo, deve
essere - per quanto possibile - definito, cioè impegnare l’intera vita. In una visione dinamica
della natura possiamo ipotizzare che gli insegnamenti di Gesù non solo rispondono a dei valori
che si possono facilmente riconoscere oggi come universali, al punto che molti di essi sono
presenti in quasi tutte le tradizioni religiose, ma che anche quegli atteggiamenti che ci sembrano
più lontani dalla nostra sensibilità o dalle nostre valutazioni potrebbero rappresentare
profeticamente, cioè essere delle proposte che anticipano le mete cui l’umanità, se vorrà
progredire, dovrà pervenire. Vi sono alcuni dati storici che riguardano p. es. la dignità della
persona umana, il rispetto della vita indifesa e dell’infanzia, la sollecitudine comunitaria verso i
malati ed altre che sono state annunciate e realizzate nel corso del tempo dalla Chiesa e che poi
sono divenute patrimonio della società. Basti pensare, per fare un esempio concreto, agli
ospedali o alla grande intuizione p. es. di san Giovanni di Dio che aveva pensato le sue comunità
come famiglie allargate in cui vivessero insieme ai frati anche i malati psichiatrici. Si tratta
quindi di una scelta in cui - ragionevolmente - una persona identifica i suoi valori con quelli
proposti da Gesù di Nazareth e accoglie la testimonianza che Lui e i suoi discepoli hanno dato
su quel Dio, che, se esiste, è comunque Trascendente e Inconoscibile, e che pure si è fatto
conoscere, in questa tradizione religiosa, come Padre che ama la vita che egli ha creato con
fedeltà senza limiti.
É chiaro che non sarà la psicologia a poter valutare le implicazioni teologiche di questa
impostazione. Può però dire che essa , anche sulla scorta delle esperienze fatte e non solo in
senso di storico ma anche recenti, ha riscoperto il valore che può avere la fede religiosa nella
vita umana e il potenziale che essa ha di sostenere e arricchire l’identificazione quando è vissuta
autenticità.
Possiamo quindi concludere che nell'ambito di una concezione dinamica dove non solo la vita
ma anche le nostre conoscenze sono comunque in processo, il problema psicologia - santità (e,
184
Cfr. Fil 2, 6-9.
Questa parte presuppone che si tenga molto ben presente la mia scelta di base della teologia dell’incarnazione
come orientamento cristiano di riferimento, cfr. C. MOLARI, Il Dio di Gesù Cristo, Camaldoli, Arezzo 199
186
K. RAHNER., Il problema dell’ominizzazione, Morcelliana, Brescia 1969, p.96-99.
185
in senso più ampio scienza - fede) non si pone. La santità in quanto tale è un processo di
identificazione con Cristo mediante una intensa vita teologale, descritta e in qualche modo
definita dalla teologia, formalizzata inoltre dall'insegnamento autorevole della Chiesa. Questo
ambito, nella misura in cui è comunque espresso mediante modelli culturali e codici linguistici,
è anch'esso relativo. L'orizzonte però di riferimento di tale ambito e il giudizio sul suo valore
non appartengono alle scienze e quindi neppure alla psicologia. Tuttavia, lo studio della trama
concreta di comportamenti, emozioni motivazioni, vissuti e cioè dei processi umani con cui
ciascuno vive la sua tensione sono pienamente competenza psicologica laddove si accetti senza
pregiudizio e senza invasioni di campo la possibilità e la legittimità di una scelta radicale e fin
"eroica" di un valore che poi è trascendente e personale nella concreta mediazione storico umana
di Gesù di Nazareth187. Ma è proprio nello spazio di quella relatività che è comune al sapere
teologico e a quello psicologico che si comprende come non la perfezione, ma il continuare a
tendere alla fedeltà è possibile in ogni circostanza inclusa la malattia mentale o comunque si
voglia chiamare la vicissitudine vissuta da don Calabria. Direi anzi che proprio il contributo
della psicologia dinamica, che sostiene la possibilità della comunicazione e il permanere di un
senso, ancorché per lo più nascosto (almeno fino ad oggi) delle capacità cognitive di una
persona e della loro non esaustibilità nello spazio dell'evidenza razionale, consentono oggi alla
teologia e forse anche alle istanze dottrinali della Chiesa una comprensione più profonda e vera
di come nessuna circostanza o forza create possano vanificare o far fallire quello che la più
costante tradizione cristiana ha chiamato con le formule di “vocazione universale alla santità”188,
“azione dello Spirito”, “unione con Dio”.
Di queste realtà Don Calabria è stato profeta (a lungo incompreso) e leale testimone.
187
188
J-F. CATALAN, Expérience spirituelle et psychologie, Desclée de Brower, Paris 1991.
Conc. Vat. II, Cost. Lumen Gentium, cap. 5
LETTURA TEOLOGICA DEL “CERCATE PRIMA...”
189
NEL BEATO DON GIOVANNI CALABRIA
Gianni Sgreva190 cp
Si tratta del versetto di Mt 6,33: “Cercate prima di tutto il regno di Dio e la sua giustizia e tutte
le altre cose vi saranno messe a disposizione”. Esso, lo sappiamo, costituisce il testo biblico
ispirazionale del carisma fondante dei due istituti di vita consacrata per i quali la Divina
Provvidenza scelse il beato Calabria come fondatore, denominati perciò dei Poveri Servi e delle
Povere Serve della Divina Provvidenza.
Nella prima lettera che il 1 settembre 1947 don Giovanni Calabria indirizzò a Clive Staples
Lewis, laico anglicano, appartenente al ramo della Chiesa Alta, dopo averne letto “Le lettere di
Berlicche”, il Fondatore dei Poveri Servi e delle Povere Serve presenta se stesso e, in termini
essenziali, anche la sua Opera:
“Chi ora le scrive è un umile sacerdote di Verona (Italia) cui la Divina Provvidenza quarant’anni
orsono ha affidato l’incarico di un’Opera per accogliere gratuitamente ragazzi e giovanetti,
orfani o comunque privi di qualsiasi assistenza e aiuto, perché apprendano un mestiere grazie al
quale siano in grado di bastare a se stessi in età più matura. Per il loro nutrimento e
sostentamento attendiamo aiuto dalla stessa Divina Provvidenza con sicura e filiale fiducia,
secondo quanto dice il santo Vangelo: “Cercate in primo luogo il regno di Dio e la sua giustizia
e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta””.191
In sintesi, don Calabria afferma di essere stato scelto dalla Divina Provvidenza a fondare
un’Opera di tipo educativo-assistenziale, indirizzata ai ragazzi poveri, per provvedere al loro
futuro umano, e nella più assoluta gratuità per quanto riguarda i mezzi materiali. In questo caso
il ricorso al testo di Mt 6,33 si rende giustificativo del comportamento di gratuità e tutto
sommato anche funzionale allo scopo. In altre parole, l’incognita circa le fonti economiche per
una tale impresa umanitaria si risolve nella sicurezza proveniente dalla fede, la quale garantisce
nelle parole di Gesù la certezza che il margine di rischio di non farcela economicamente risulta
non ipotizzabile per chi nutre una sicura e filiale fiducia nella Divina Provvidenza.
Certo, anche in questa essenziale presentazione, l’atteggiamento che sostiene l’ardimento
dell’Opera calabriana è la fede e la fiducia nella Divina Provvidenza. Ciò nonostante la chiave
ermeneutica del riferimento biblico al testo del “Cercate prima...”, in questa presentazione
rivolta a uno che non conosceva nulla di don Giovanni Calabria e per altro non cattolico, bensì
anglicano, sembra la funzionalità in vista della sicurezza economica stessa.
Questo ci impone di approfondire la nostra indagine, per scoprire la reale lettura evangelica fatta
da don Giovanni Calabria di Mt 6,33, che ci permetterà di giungere a delle conclusioni assai più
ampie di quelle che succintamente e umilmente il fondatore dei Poveri Servi sembra volerci
offrire, stando al testo della sua lettera al Lewis.
Pertanto metodologicamente, sembra opportuno anzitutto dare uno sguardo, sebbene sintetico al
testo di Mt 6,33 nel contesto redazionale del vangelo di Matteo, per evidenziarne le tematiche e
le provocazioni di fondo. Quindi ci sembra necessario leggere Mt 6,33 nel contesto
dell’esperienza calabriana, sia sul piano fattuale, ossia vedere come i fatti abbiano condotto don
Calabria a fare riferimento al “Cercate prima...”, sia sul piano dell’impianto teoretico-spirituale
per cui don Calabria trova in Mt 6,33 il riferimento obbligato del suo carisma. Cosicché si capirà
che il riferimento a Mt 6,33 per don Calabria non dipenda puramente da una esigenza di tipo
189
Relazione tenuta a Verona alla 6ª giornata di Studi Calabriani i 13 febbraio 1999
Fondatore e animatore della Comunità Mariana “Oasi della Pace”
191
cfr. Don Calabria C.S. Lewis, Una gioia insolita. Lettere tra un prete cattolico e un laico anglicano, a cura di
Luciano Squizzato, Jaka Book, Milano 1995, p. 97
190
funzionale sebbene, se si vuole, su base di fede, ma sia dettato dalla necessità imprescindibile di
vivere il Vangelo, dell’“essere Vangeli viventi”, come egli soleva ribadire. In questa chiave si
scopre che il riferimento al Vangelo tout court, di cui il testo del “Cercate prima...” ne è la
sintesi architettonica, diventa per don Calabria non solo il carisma ispirazionale delle sue due
congregazioni, ma anche la profezia del rinnovamento della Chiesa e dell’umanità.
Infatti, la lettura teologica del “Cercate prima...” in don Calabria si trova contestualizzata in un
quadro di teologia della storia, che va ben oltre lo stesso carisma di fondazione delle sue due
congregazioni, per abbracciare tutta la Chiesa (ai suoi religiosi radunati in Esercizi Spirituali nel
1951 con passione don Calabria dice loro: “Gesù è in mezzo a voi, guarda la sua Chiesa! La mia
Chiesa! La mia Chiesa”)192, e la storia dell’umanità intera. La lettura teologica del “Cercate
prima...” ci offrirà pertanto la figura di un don Calabria non solo fondatore di un’Opera
educativa per giovani poveri e aperto a molteplici interessi ecclesiali di cui uno tra i più
importanti è stata l’ansia ecumenica, ma un uomo appassionato profeticamente per l’“Ordine
nuovo” nella Chiesa e nell’umanità.
1 - IL TESTO DI MT 6,33 NELLA TEOLOGIA BIBLICA DI MATTEO
Siamo nell’ambito del cosiddetto Discorso della Montagna (Mt 5-6-7), ossia di quella serie di
detti di Gesù che Matteo premette nella presentazione del ministero galilaico e che con il testo
iniziale delle Beatitudini (Mt 6, 1-12) costituisce un po’ la charta magna del magistero che il
nuovo Mosè dettava dal Sinai della Nuova Alleanza, prospiciente il lago di Galilea. Nel capitolo
sesto in particolare l’insegnamento di Gesù raccoglie una serie di logia sul tema della
carità-elemosina (vv. 2-4), della preghiera e in particolare del Padre nostro (vv. 5-13), del
perdono (vv. 14-15), del digiuno (vv. 16-18), della povertà (vv. 19-21) e dell’autenticità (vv.
22-23). C’è un riferimento che Gesù fa e che sembra per l’evangelista essere un espediente
redazionale per legare detti di per sè tra loro eterogenei, è il riferimento pressoché costante al
Padre. Il nostro testo, Mt 6,33, si trova incastonato nella pericope finale del capitolo sesto del
vangelo di Matteo, nei vv. 24-34, costituendo quasi il tema che sintetizza tutto il capitolo.
Questa pericope finale si apre con una tesi assoluta espressa nel v. 24: “Nessuno può essere
schiavo di due padroni. Infatti o odierà l’uno e amerà l’altro, o andrà incontro all’uno e
disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e il denaro” e si conclude tematicamente proprio
con il v. 33: “Cercate prima il regno (di Dio) e la sua giustizia e tutte queste cose vi saranno
messe a disposizione” mentre il versetto 34 (“Non preoccupatevi dunque del domani”) è soltanto
applicativa del comando del “Cercate prima...”, in quanto sarebbe irrazionale ogni ansia
quotidiana, se è vero che il Padre si occupa di sciogliere la difficoltà di ogni giorno. Pertanto il
messaggio teologico diventa il seguente: si serve a un solo padrone, Dio, e non il danaro quando
si cerca il regno di Dio e il suo compimento. Questo Dio che va amato come l’unico è Padre, che
si cura di ogni esigenza, dell’anima e del corpo. L’attenzione della paternità di Dio riguarda in
particolare le esigenze quotidiane di ordine materiale-biologico, quelle del mangiare, del bere e
del vestire. Si tratta della teologia della creazione, che implica la cura del Dio Creatore, il quale
pertanto si dimostra Padre nei confronti dell’uomo intero, della sua anima e delle sue
preoccupazioni (v. 25: “non preoccupatevi nella vostra anima di che cosa mangiare o che cosa
bere...”) e del suo corpo (v. 25: “nè del vostro corpo, di che cosa vestirvi”). Emerge allora
chiaro in questa teologia della creazione il tema della paternità di Dio. Per due volte ritorna
l’affermazione della provvidenza del Padre del cielo, il quale, se nutre gli uccelli del cielo (v.
26: “Il Padre vostro celeste li nutre”) e veste i gigli del campo (v.30:“Dio li veste così”), egli
tanto più si cura delle preoccupazioni dell’anima e delle esigenze biologiche del corpo
dell’uomo: “Il Padre vostro celeste sa che avete bisogno di tutte queste cose” (v. 32).
192
cfr. Voce che grida, Registrazione a cura della postulazione Poveri Servi della Divina Provvidenza, p. 21
Il richiamo pertanto si rende impellente nei confronti della paternità assoluta e tenera di Dio, che
nel capitolo sesto del vangelo di Matteo era già stata puntualizzata con la dettatura del Padre
Nostro (vv. 9-13), preceduta a sua volta da una affermazione di Gesù che anticipa il contenuto
teologico-parenetico della pericope dei vv.24-34: “Non assomigliate a loro (= ai pagani che
sprecano parole quando pregano!). “Infatti il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno prima
che gliele chiediate ”(Mt 6,8). Tutto il capitolo sesto, pertanto, costituisce un piccolo trattato
sulla paternità di Dio e dei relativi comportamenti da assumere nei suoi confronti, sia quando si
fa la carità (v. 4), sia quando si prega (vv. 6-13), sia nell’esperienza del perdono (v. 14), sia
quando si digiuna (v. 18), sia nei bisogni della vita quotidiana (vv. 26 e 32). Se pertanto
simmetricamente il capitolo sesto di Matteo costituisce il centro del Discorso della Montagna,
che inizia con la proclamazione delle Beatitudini (Mt 5,1-12) e si conclude con la parabola della
casa fondata sulla roccia (Mt 7,28-29), allora il cuore stesso del Discorso della Montagna è la
proclamazione della paternità di Dio, centro del Vangelo stesso. Tornando pertanto alla pericope
di Mt 6,24-34, questa si risolve in un grande invito da parte di Gesù ad accogliere la Paternità di
colui che, oltre a essere suo Padre, è Padre sollecito e provvidente di ogni uomo, perché questi
vale più degli uccelli del cielo e dei gigli del campo. Ma l’accoglienza della paternità di Dio si
risolve in fede nella Paternità di Dio. Chi non crede nella paternità di Dio fa parte degli
oligopistoi, di quelli di “poca fede” (cfr. v. 6,30), e sono pagani (v. 32: “infatti di tutte queste
cose vanno in cerca i pagani”). Vale a dire che il vangelo della paternità di Dio costituisce il
cuore del Vangelo stesso e la fede o meno nella paternità di Dio costituisce la linea di
demarcazione tra fede cristiana e paganesimo.
Allora la lettura esegetica del “Cercate prima...” ci conduce a ritrovare in Mt 6,33 l’esperienza
applicativa del Vangelo stesso, che è la fede nella paternità di Dio, e che consiste nel cercare
prima il Regno di Dio e la sua giustizia, con la certezza che poi Dio provvede ai mezzi materiali.
2 - L’ESEGESI ESPERIENZIALE DI MT 6,33 NEL BEATO GIOVANNI CALABRIA FONDATORE
All’inizio degli Esercizi spirituali dei suoi religiosi nel 1952, don Calabria, a due anni dalla
conclusione della sua vita, torna a ribadire sinteticamente le convinzioni che lo hanno guidato
durante tutta la sua esperienza di Fondatore:
“Nascosti. Non cercare le protezioni umane. Cercare il santo regno di Dio e la sua giustizia. In
quanto al resto, verrà. Verranno i mezzi, verranno i mezzi umani! Verranno le protezioni umane,
perché ci vogliono, ma a queste penserà il Signore! per noi non c’è altro che questo: cercare il
santo regno di Dio, santificare le nostre anime”193.
2.1
Qui si presenta una esegesi esperienziale, per cui don Giovanni dimostra con i fatti
concreti la verità della sua fede nella paternità di Dio, cuore del Vangelo, fin, possiamo dire, dal
novembre 1906, allorché, da vicario cooperatore di S.Stefano a Verona risolse di prendere in
casa il primo ragazzo. Il biografo, don Ottorino Foffano, ricorda i pensieri del 33enne don
Calabria, suffragati dal padre spirituale, P. Natale: “Come potevo disinteressarmi di quei
poverini che la Provvidenza metteva sui miei passi? Erano creature del Signore, tanto
bisognosi!”194. Da allora ci possono parlare i testimoni di come il “Cercate prima...” in don
Calabria fondatore sia diventato il carisma della sua fede nella paternità di Dio, contrassegnato
da continui grandi e piccoli miracoli quotidiani, così come egli lo raccomandava al suo religioso
don Stanislao Pellizzer in una sua lettera del 25.1.1942: “Unico pensiero sia il cercare il santo
regno di Dio e la sua giustizia per mezzo dello studio pratico di nostro S.G.Cristo, cercando con
193
194
cfr. Voce che grida, Registrazione, o.c., p.13
cfr. Foffano Ottorino, Don Giovanni Calabria servo di Dio, Verona 1981, V ed., p.96
il divino aiuto di essere vangeli viventi; pieni, traboccanti di carità per tutti, per tutte le anime,
amici, nemici, buoni, peccatori, fedeli e in nessuna preferenza di persone, perché tutte fratelli
comperati e redenti dal sangue di N.S.G.C.”195. E ancora: “Certo, come ti ho detto, Satana
rugge, freme, sbuffa e non so cosa farà, userà perché ciò non sia, ma, si Deus est nobiscum quis
contra nos? E Dio lo sarà di certo se noi saremo ligi al granitico programma: Quaerite primum
Regnum ...e se ascolterete tutti - finché la misericordia di Dio mi tiene - questo povero fra i
poveri e miserabile Padre, aiutandomi con la preghiera”196.
2.2
Ora il carisma della fede nella paternità di Dio e nella sua Divina Provvidenza detta a
don Calabria l’esegesi esperienziale che dai fatti passa ad essere impianto teoretico-spirituale del
carisma che egli applica come principio ispiratore e conduttore di tutta l’Opera affidatagli dalla
Divina Provvidenza. Don Calabria soleva chiamare questo impianto teoretico-spirituale “lo
spirito puro e genuino dell’Opera, che deve essere lo spirito del santo Vangelo in pratica” 197,
“spirito puro e genuino che il Signore ha impresso nella sua Opera, spirito di grande fede in Dio,
di totale abbandono nelle braccia amorose della divina Provvidenza, specie nei momenti difficili
che sono appunto quelli di Dio, esercizio pratico delle virtù religiose e cristiane, santa umiltà,
conoscenza del nostro niente, convinti che quello che facciamo è tutto dono di Dio, spirito di
povertà e grande carità, che abbraccia tutte, proprio tutte le anime, generosità nelle prove,
grande importanza della vita interiore, dell’osservanza delle nostre sante regole, in una parola,
vivere, studiare, praticare N.S.Gesù Cristo e i suoi Apostoli”198. Questa espressione dello spirito
puro e genuino dell’Opera richiama l’esegesi globale del “Cercate prima...”, così come è stato
evidenziato nella lettura esegetica di Mt 6,33, per cui don Calabria esperienzialmente dimostra
di avere colto l’intenzione teologica matteana, quando considera il vangelo della Paternità di
Dio il cuore del Vangelo stesso, per cui credere significa vivere “in pratica” la fede in questa
paternità divina e nella Divina Provvidenza. Allora se è vero che il Vangelo è l’annuncio della
paternità di Dio, la vita cristiana è vivere di fatto credendo ed esperimentando quotidianamente
la figliolanza divina, cercando effettivamente il regno di Dio e la sua giustizia.
Per di più, leggendo il testo delle Regole del 1911 si evince chiaramente che la lettura teologica
fatta dal Calabria di Mt 6,33 non è stata dettata certo da una finalità funzionale, come poteva
essere il risolvere il problema del mantenimento quotidiano dei suoi ragazzi e dei religiosi in
termini di fede evangelica, ma si tratta di quel “granitico programma” della vita consacrata in sè,
a prescindere dai fini immediati. Don Calabria propone ai suoi religiosi di essere “profezia”
nella Chiesa del Vangelo stesso, che in linea con l’intenzione teologica di Matteo, consiste da un
lato nell’incarnare l’identità filiale di Gesù, e dall’altro di visibilizzare, storicizzare, quasi
materializzare la verità-centro del Vangelo, che è la fede e l’abbandono nella paternità di Dio e
nella sua Divina Provvidenza. In altre parole, se l’attenzione ai ragazzi poveri condusse don
Calabria a tesaurizzare la promessa contenuta in Mt 6,33, il programma del “cercate prima” si
sarebbe comunque dovuto realizzare a prescindere da questa circostanza, quantunque così
storicamente intrinseca alla missione di don Calabria. Allora, quanto don Calabria scrive a C.S.
Lewis in termini minimali, è superato dallo stesso don Calabria, redattore delle Regole delle sue
congregazioni, e dal don Calabria, profeta della Chiesa e dell’umanità (vedremo nella terza parte
come in questo allargamento di prospettiva don Calabria incontrerà l’appoggio e i consensi dello
stesso Lewis).
“Il fine per cui la Divina Provvidenza ci ha uniti insieme in modo così prodigioso, è per
mostrare al mondo di adesso, così ateo, così senza Dio, così tutto immerso nel fango, che Dio
195
196
197
198
cfr. Ti chiamerai Stanislao, Lettere di don Giovanni Calabria a don Stanislao Pellizzer, Verona 1997, p. 295
cfr. ibidem, p.290, lettera del 22.11.1941
cfr. ibidem, p.285
cfr. ibidem, p.289-290
esiste e che pensa e provvede alle sue creature, che le cose, i mezzi terreni, li avremo in
aggiunta, basta che noi “cerchiamo in primo luogo il regno di Dio e la sua Giustizia””199.
Dobbiamo manifestare al mondo il grande attributo della Divina Provvidenza, attributo tanto
poco conosciuto e direi quasi dimenticato anche dai buoni ”200.
In queste linee programmatiche così chiare appare evidente che la lettura teoretica-spirituale
che don Calabria fa di Mt 6,33 di fatto supera il problema dei ragazzi poveri. Egli si sentì
chiamato a rappresentare nella Chiesa con le sue famiglie religiose la profezia del Vangelo sine
glossa, e in particolare il centro del Vangelo, il suo principio architettonico, che è la fede e
l’abbandono nella paternità e provvidenza di Dio, che nel mondo “è tanto poco conosciuto” e
“quasi dimenticato anche dai buoni”.
Nelle Regole del 1910 il fondatore veronese aveva ben precisato che “Non è solamente l’opera
dei fanciulli che Dio vuole da noi. Se saremo fedeli alle sante regole, se tenderemo alla santità,
altre opere andrà man mano manifestando e verranno unite a questa” 201.
Infatti “Quest’Opera deve assolutamente avere questo programma di assoluto abbandono in Dio
e nella sua Divina Provvidenza, perché così viene a manifestare chiaramente Iddio e questo suo
attributo tanto trascurato e dimenticato”202.
Pertanto la missione che la Divina Provvidenza ha assegnato a don Calabria non è ancora una
volta la cura dei giovani poveri, bensì quella di incarnare nella Chiesa e per la Chiesa la profezia
che il Vangelo è credere nei fatti che Dio è Padre.
La straordinaria e perenne attualità del carisma calabriano legato al “Cercate prima...” si pone
come immensa sfida lanciata al mondo ateo, perché ritorni alla fede in Dio Padre, e una sfida
quindi per la Chiesa stessa, perché si convinca che il vangelo e la sua miracolosità nel tessuto
umano della vita quotidiana non può essere considerato semplicemente una utopia irrealizzabile,
bensì la constatazione quotidiana delle meraviglie del Padre.
2.2.1 Per questo nell’esegesi calabriana di Mt 6,33 il “Cercate prima...” si configura come
“ricerca della santità”. In una lettera al Lewis don Calabria annotava: “La voce di Dio infatti
chiama continuamente noi, chiama il mondo, perché, rimossi i peccati, cerchiamo sinceramente
il Regno di Dio, solo per santificarci”203. Ai suoi figli chiede di dimostrare di fatto al mondo
questa fede nella paternità di Dio: “...Dunque cominciamo noi a tenerlo per nostro Padre” 204. E
“Fede in Dio, Padre nostro, o miei cari! Se saremo fedeli al programma, la promessa di Dio si
avvererà per noi e faremo tanto bene, specie in quest’ora” 205. “Vangeli viventi! Il mondo non ci
crede più, perché vede, in tanti e tanti, che diciamo tante belle cose, scriviamo tante belle cose,
facciamo tanti bei progetti in teoria, ma, in pratica, quanto siamo lontani dall’essere veramente
cristiani, dall’essere veramente religiosi nel pieno senso della parola’”206: “Siamo qui nella Casa
del Signore per cercare il santo regno di Dio, solo per santificarci”207. “Il nostro primo e grande
lavoro, in quest’Opera, consiste nel mettere in pratica e vivere il “Quaerite primum Regnum
Dei”. É questo il nostro programma, quello che forma la base granitica di quest’Opera, che è
condizione indispensabile di vita, di stabilità, di sviluppo di essa, sia pure attraverso le
inevitabili prove che dovrà sostenere” 208. “Amati fratelli, che non sia scritto solo sul frontone
della Casa il “Quaerite primum regnum Dei”, il “Non v’angustiate”, ma lo sia nella nostra
199
200
201
202
203
204
205
206
207
208
cfr. Sante Norme 1911
cfr. Il Gran Programma 1934
cfr. Don Giovanni Calabria, Parole vive, Verona 1984, p. 19
cfr. ancora le Sante Norme del 1911: in Don Giovanni Calabria, Parole vive, p.19
cfr. o.c., p.139
cfr. Lettere del Padre ai religiosi, Verona 1956, p.385
cfr. Lettere del Padre ai religiosi, o.c., p.383
cfr. Voce che grida, Registrazione, p.5
cfr. Lettere del Padre ai religiosi, p.14
cfr. Lettere del Padre ai religiosi, p.36
mente, nel nostro cuore, nelle nostre operazioni: Cerchiamo Dio, abbandoniamoci a Lui.
Ricordiamoci bene che in quel momento che la nostra fede vacilla, che innanzi a una difficoltà,
a una prova, ad un bisogno, noi diffidiamo, e ci lasciamo condurre dalla prudenza umana,
perdendo di vista il Signore, la sua gloria, le anime, allora la Provvidenza si ritira, lascia noi, e
noi che cosa potremo fare? ” 209.
2.2.2. Dopo la santificazione, ossia dopo che l’attenzione è portata a considerare il carisma
vissuto nella vita personale e comunitaria dei suoi religiosi, il Fondatore veronese dilata la sua
attenzione in una espansione evangelizzatrice, affinché il regno di Dio abbracci il mondo intero.
Basti una citazione dall’epistolario Calabria-Lewis, dove il sacerdote veronese comunica
all’amico lontano e di diversa confessione cristiana il suo struggente desiderio conforme al
programma insito nel “Cercate prima...”: “Orsù dunque, impegniamoci con cuore generoso, con
fede intrepida, per dilatare il Regno di Dio, per abbracciare i nostri fratelli nell’unità della fede e
dell’amore, per combattere con ogni sforzo perché Cristo vinca, regni e domini in tutto il
mondo. senza di lui niente possiamo, ma “tutto possiamo in Colui che ci dà la forza””210 .
La lettura teologica che lo stesso don Calabria fa di Mt 6,33 con una sorta di esegesi
esperienziale lo impegna a trovare in questo testo evangelico il contenuto della profezia che la
Divina Provvidenza volle che fosse da lui rappresentata nella Chiesa di ogni epoca, sia come
contenuto carismatico da viversi da una nuova famiglia religiosa, di cui egli doveva essere il
fondatore, sia come provocazione evangelizzatrice del mondo intero, in cui i suoi, ma non solo,
si sarebbero dovuti impegnare in prima istanza.
3 - L’ESEGESI DEL “CERCATE PRIMA...” A PARTIRE DALLA TEOLOGIA DELLA STORIA
Scrivendo al sacerdote don Stanislao Pellizzer in data 19.5.1946 don Calabria riprende l’ansia e
la passione perché il regno di Dio si potesse dilatare in “tutta la povera umanità”, ma nel
contempo allarga questo suo desiderio introducendo la reminiscenza di un tema che da alcuni
mesi lo infuocava. Si tratta del nuovo ordine o ordine nuovo del quale don Calabria parla
nell’opera Apostolica Vivendi Forma.
“Amato don Stanislao, che ora il Signore ci fa vivere, ma quale grazia vivere in quest’ora dove
con il divino aiuto possiamo in mano del Signore essere vangeli viventi e sconfiggere Satana e
portare Cristo usque ad finem terrae, perché se è l’ora di Satana, è anche l’ora di Dio e se noi
sacerdoti, religiosi e cristiani saremo tutti in piedi con il santo vangelo, un nuovo ordine, il vero
nuovo ordine farà il Signore per tutta la povera umanità che sentirà il bisogno di andare, di
ritornare alle sorgenti divine, al santo Vangelo”211
Di questo don Calabria aveva parlato pubblicando nel 1945 il libro Apostolica Vivendi Forma..
In esso, l'autore del libro, don Calabria, sebbene questo nome non sia mai stato volutamente
citato, che deve essere stato impressionato da un articolo di mons. Bernareggi, Vescovo di
Bergamo, circa la “Responsabilità del sacerdote nell'ora attuale”212, si chiede: “Davanti a tutto
questo mondo che si rinnova, che freme, che soffre, che si tormenta ed agonizza e che pur va
maturando, per unanime confessione, un ordine nuovo; davanti a questa grandiosa realtà, è
lecito pensare, credere, che noi Sacerdoti possiamo tirare avanti come per il passato, che non ci
sia nulla da rinnovare in noi, che l’ordine nuovo generale non richieda un ordine nuovo anche in
209
210
211
212
cfr. Lettere del Padre ai religiosi, p.38
cfr. o.c., p.149
cfr. o.c., p. 335
cfr. Apostolica Viventi Forma, Verona 1963, 5a ed.
casa nostra? Che Dio abbia permesso tanto sfacelo perché noi rimaniamo press’a poco quelli di
prima? Gli altri devono rinnovarsi, e noi no? ”213.
Qualche anno dopo, rivolgendosi ai Poveri Servi in occasione degli esercizi spirituali,
riferendosi al libro di Daniele (Dn. 5) e al sogno del re Baldassar, don Calabria mostra tutta la
sua preoccupazione sull’ora dell’umanità e della Chiesa:
“Ho davanti la scena di Baldassarre “mane, thecel, phares. Da ieri questa scena l’ho davanti: Si
gozzoviglia e si profana! “ Mane thecel, phares! ”. Voi siete sacerdoti e fratelli e conoscete la
spiegazione di queste parole. L’ora attuale un’ora terribilissima per la S.Chiesa, per la povera
umanità, per il mondo. Dopo 20 anni di cristianesimo, come siamo? Mane, thecel, phares!”214.
Nel libro Instaurare omnia in Christo che pubblicherà sette anni dopo l’Apostolica Vivendi
Forma, nel 1952, le preoccupazioni invece di diminuire erano cresciute, come lo dimostra il
primo capitolo del libro riservato a Satana. “Esiste dunque nel mondo una duplice paternità:
quella di Dio e quella di Satana: e per conseguenza esistono due generazioni quella di Gesù e
quella del Diavolo” 215, e così scrivendo allude al testo di Lc 22,53: “È questa la vostra ora e il
potere delle tenebre”.
A questo punto anche l’esegesi calabriana del “Cercate prima...” viene investita da questa
responsabilità. Cercare il regno di Dio, dilatarlo nel mondo, significa far avanzare la
generazione che si ispira alla paternità di Dio, affinché venga distrutta la generazione che si
ispira alla paternità del demonio. L’Apostolica Vivendi Forma e poi l’Instaurare omnia in
Christo, a 50 anni dall’omonima enciclica del papa S.Pio X, costituiscono come il grido di don
Calabria profeta della teologia della storia della seconda metà del secolo XX. Egli grida ai suoi
religiosi, a tutti i religiosi e sacerdoti, a tutti i cristiani che “Ruit hora”216.
Vivere la fede e l’abbandono nella paternità di Dio significa pertanto adoperarsi per dare corpo
all’ORDINE NUOVO. “È ora di decidersi, perché è anche decisiva l’ora che passa”217. L’amico
Lewis che legge il libro mandatogli dall’amico Calabria commenta in una sua lettera di
ringraziamento per il dono: “È davvero l’ora di satana, come lei dice: ma scorgo nelle tenebre
alcune scintille di speranza. Lo stesso satana senza dubbio non è nient’altro che un martello
nelle mani di Dio benevolo e severo”218. Quando poi Lewis, sei anni dopo, riceverà anche
l’Instaurare omnia in Christo, egli commenterà saggiamente la preoccupazione di don Calabria,
rincarando la dose: “Le cose che dice riguardo alla condizione attuale degli uomini sono vere:
anzi la situazione è ancora peggiore di quanto lei dice. Infatti non trascurano solo la legge di
Cristo, ma anche la legge di natura, conosciuta dai pagani. Ora infatti non si vergognano
dell’adulterio, del tradimento, dello spergiuro, del furto e degli altri peccati che, non dico i
maestri cristiani, ma gli stessi pagani e barbari condannarono”. Sbagliano coloro che dicono:“ Il
mondo ridiventa pagano ”. Magari lo diventasse! In realtà cadiamo in uno stato ben peggiore.
L’uomo post-cristiano non è per niente simile all’uomo pre-cristiano. I due distano l’uno
dall’altro come una vedova da una vergine : non c’è niente in comune tra queste se non la
mancanza dello sposo: ma è molto grande la differenza tra la mancanza dello sposo futuro e
quella dello sposo perduto”219.
Don Calabria soleva ripetere: “A grandi mali, grandi rimedi"220.
213
214
215
216
217
218
219
220
Apostolica Vivendi Forma, pp. 20-21
cfr. da Voce che grida, Registrazione, p. 30
cfr. Instaurare omnia in Christo, Verona 1953, p. 7
cfr. Voce che grida, Registrazione, p. 38
cfr. Apostolica Vivendi Forma, p. 23
cfr. Calabria-Lewiss, o.c.,p. 109, lettera del 20 settembre 1947
cfr. o.c., p.p 189-191
cfr. Voce che grida, Registrazione, p.3 e 10
Pensare allora all’Ordine Nuovo, questo è il grande rimedio, il cui programma don Calabria
stende nella suo Apostolica Vivendi Forma e e che completerà nell’Instaurare omnia in Christo.
Eccone le linee programmatiche che ricaviamo dal capitolo primo dell’AVF:
I – Essere “uomini dello Spirito”. Scrive testualmente don Calabria: “Di fronte a un mondo
impastato di materia ...bisogna erigere una generazione di uomini dello spirito al cento per
cento, i quali, non a chiacchiere, ma a fatti dimostrino che la realtà che tutto sovrasta non è la
illusoria materia, ma lo spirito: spirito creatore in Dio, spirito dominatore dell’anima nostra,
spirito di fede nella Divina Provvidenza ”221.
II – “Con lo Spirito Santo”. “L’inizio dell’azione apostolica avviene nel cenacolo, dove sugli
Apostoli raccolti in fervide preghiere discende il promesso di Gesù, il celeste Paraclito... Si ha
perciò l’impressione che la devozione allo Spirito Santo, già così ben avviata dai nostri avi,
attenda ancora il suo avvenire... Come non rivolgerci, col gemito delle più accorate suppliche, a
Colui che solo può “rinnovare la faccia della terra”?”222.
III – “Con Maria, corredentrice 223e mediatrice 224, perché “nell’ora decisiva d’incominciare ad
essere “testes”, troviamo Maria con loro...”225, “perché fu Maria ad anticipare la Pentecoste ”226.
Don Calabria spinge alla consacrazione al Cuore Immacolato di Maria, conformemente al
messaggio di Fatima e secondo la dottrina del Montfort 227.
IV – “Con il ritorno al vangelo”: “Ma il male più grande sta in noi; se vivessimo secondo il
Vangelo, la religione nelle persecuzioni guadagnerebbe terreno e si affretterebbe il trionfo di
Cristo”228, perché “É tutto un mondo che occorre rifare dalle fondamenta, che bisogna
trasformare da selvatico in umano, e da umano in divino, vale a dire secondo il Cuore di Dio”229.
V – con il ritorno in particolare al vangelo della Paternità di Dio, vivendo lo Spirito puro e
genuino dell’Opera230.
Don Calabria avvertiva il dramma della separazione attuata tra religione e vita231 a cui si riferirà
molti anni dopo un caro amico di don Calabria, il papa Paolo VI, allorché nella Evangelii
Nuntiandi denuncerà nella separazione tra fede e cultura il dramma del mondo
contemporaneo232.
La lettura teologica del “Cercate prima...” alla luce della teologia dei segni dei tempi provoca
don Calabria e i suoi religiosi a una scelta piena di responsabilità nei confronti del dramma della
storia. Ci sembra di dover dire allora che da carisma assistenziale-educativo il carisma dei
Poveri Servi della Divina Provvidenza, così come fu concepito e approfondito da don Calabria,
221
222
223
224
225
226
227
228
229
230
231
232
AVF p. 23
AVF pp. 23-25 passim
AVF p. 26
AVF p. 28-29.31
AVF p. 26
AVF p. 28
AVF pp. 30-31
cfr. Instaurare omnia in Christo, p. 17
Instaurare omnia in Christo, pp. 21-22; anche Lettere a don Stanislao, o.c. p. 335
cfr. Voce che grida, Registrazione, p. 10
cfr. Instaurare omnia in Christo, p. 210
cfr. EN n. 20
assurga a una visione profetica di intelligenza della storia, della Chiesa e dell’umanità, che deve
far pensare ogni cristiano e ogni uomo di buona volontà, provocando alla responsabilità.
CONCLUSIONE
La canonizzazione del prossimo 18 aprile in S. Pietro sposta la rilevanza della figura di don
Calabria da un terreno puramente locale o ristretto all’ambito di un carisma di fondazione per
farsi magistero eloquente e impressionate per tutta la Chiesa e per tutta l’umanità.
LA “POVERA SERVA DELLA DIVINA PROVVIDENZA” NELL'OPERA DON CALABRIA233
Maria Sponda psedp234
É sempre difficile rifare la storia di una Congregazione perché legata ad eventi e persone avvolte
poco conosciuti o lontani nel tempo. Ma ancora più difficile è parlare del Carisma perché, anche
se vissuto nell’umano, è sempre legato al mistero di grazia e di misericordia con cui Dio
accompagna le sue opere.
Cercherò di dire qualcosa di ciò che ci caratterizza come Povere Serve della Divina
Provvidenza, “volute da Dio”, come diceva don Calabria, per far parte di quest’Opera “grande,
grandissima” per il fine che è chiamata a raggiungere. Chiediamo a Dio coerenza e fede per
questo fine.
Don Calabria ha sempre avuto chiaro il concetto di FAMIGLIA, inteso come stile della sua Opera.
La Famiglia Religiosa delle Povere Serve e dei Poveri Servi, era il nome con cui definiva le
nostre Congregazioni. Una Famiglia, quindi, e non un’istituzione o convento.
In qualche modo don Calabria ha precorso i tempi istituendo un’Opera che comprende le due
Congregazioni che hanno in comune lo stesso spirito, le stesse attività a favore dei poveri, pur
mantenendo autonomia di gestione.
Il Casante, però è il garante dello spirito per le due Congregazioni.
Diceva don Calabria: “Il Custode e Casante di quest’Opera dev’essere come un gran padre di
Famiglia”... e ancora “La stessa linfa deve scorrere in tutti i rami, il nostro cuore deve battere
con tutta l’Opera, quindi:
tanti rami di un unico albero,
tanti raggi di un unico sole,
tanti canali di un’unica fonte”.
Oltre alle due Famiglie Religiose don Calabria ha dato origine anche ad altre Istituzioni; per
esempio Fratelli Esterni, cioè laici impegnati ad irradiare nel mondo quella luce che attingono
dall’Opera. Gli Ex-allievi, formati dai “Buoni Fanciulli”, con l’impegno cristiano della coerenza
in famiglia. Ed infine, dopo la morte di don Calabria, sono sorte le “Missionarie dei Poveri”:
Istituto Religioso sorto in America Latina per un apostolato itinerante tra i poveri.
Dopo che don Giovanni Calabria, ispirato da Dio, ha avuto l’intuizione di fondare l’Opera a
favore dei fanciulli poveri e abbandonati, ha sentito anche la necessità di avere accanto a sé delle
donne che ne condividessero il CARISMA, che fossero capaci di testimoniare l’amore di Dio
per gli uomini in una vita di sacrificio, preghiera, laboriosità, gioia a favore dei Buoni Fanciulli
o di altre povertà che Dio avrebbe indicato.
Nei posti in cui il Signore ci chiama ad unire le nostre forze, abbiamo una missione stupenda da
svolgere testimoniando la paternità di Dio che ama con tenerezza materna le sue creature e ci
chiede di aiutare chi è più debole, povero ed emarginato a ripulire la “perla preziosa” della sua
dignità di “figlio” di Dio (bambini/e, ragazzi/e in stato di abbandono, persone con handicap
fisico e psichico, giovani nella fascia del disagio, malati, emarginati, ecc.).
Proprio come una grande famiglia siamo chiamati a servire questi “poveri” collaborando e
integrandoci insieme, Sorelle e Fratelli, perché anche attraverso interventi educativi, riabilitativi,
socio-sanitari adeguati... manifestiamo che l’amore del Padre abbraccia tutta la persona.
233
Relazione tenuta a Verona alla Giornata di preghiera e di incontro della Vita Consacrata per la Canonizzazione
di p. M. Champagnat, suor Agostina Pietrantoni e don Giovanni Calabria il 18 marzo 1999.
234
Superiora Genrale delle Povere Serve della Divina Provvidenza
“Contemplative nell’azione”, quindi, capaci di cogliere l’essenziale della vita e proiettarsi
totalmente in Dio al punto di scomparire agli occhi del mondo per avere una ricompensa nel
cielo. Ci scrive il don Giovanni Calabria: “Siate contente di tutto, amate il nascondimento; le
vostre preferenze siano per l’ultimo posto – Buseta e taneta –. Se Gesù vi vedrà così umili e
nascoste, si avvicinerà a voi e vi adopererà, ponendovi anche, se a Lui piace, sul candelabro”.
La Povera Serva quindi deve essere donna matura per occupare qualsiasi posto, umile o alto che
sia, con semplicità e competenza: “tutto è grande nel servizio di Dio”.
La nostra Congregazione pertanto non si definisce per le attività, ma per lo spirito che dovrebbe
animare l’attività, comunque e sempre, a favore dei più poveri e abbandonati “dove non c’è
nulla da ripromettersi”.
Don Giovanni, attorniato da ragazzi e Fratelli, si rende conto che nella nascente “Casa” manca
un cuore di mamma. La prima collaborazione, il p. Calabria, l’ha avuta dalle Sorelle della
Misericordia, ma impossibilitate a continuare la loro opera, la Provvidenza gli ha fatto
incontrare delle signorine che si sentivano disposte ad aiutare la nascente Opera.
Era il 17 aprile 1910 quando la prima Sorella Angelina De Battisti entrò nell’Opera abitando in
una casetta a S. Giovanni in Valle. Ad essa si aggiunsero altre e nel 1912 emisero il voto di
abbandono nelle mani di don Calabria. Nel 1915 le Sorelle erano e si trasferirono vicino a San
Zeno in Monte dove oltre al voto di abbandono aggiunsero anche gli altri tre, cioè, quello di
povertà, castità e obbedienza. E così ha avuto inizio la Congregazione. Ma con quale missione?
In don Calabria è sempre Dio che dispone tutto per il maggior bene ed anche il ramo femminile
dell’Opera l’ha voluto il Signore.
Infatti lui stesso scrive: “L’Opera delle Sorelle, sorta di pari passo con quella dei Fratelli, l’ha
fatta il Signore, Egli ne è propriamente il divino Fondatore, ed ha per base e fondamento il
grande programma: Cercate in primo luogo il Regno di Dio e la sua giustizia e avrete in
aggiunta tutte le altre cose”.
Noi siamo chiamate a vivere fedelmente la nostra dimensione carismatica all’interno dell’Opera
quale fermento spirituale per la vita della stessa.
Scrive ancora il Fondatore a questo riguardo nel 1931: “In questi giorni di prove, di sofferenze,
ho pensato all’Opera in generale, e in particolare ai singoli rami ed ho pregato, un po sofferto
anche per l’Opera delle Sorelle... Che tutte siano schiave della Madonna, e che per primo fine
abbiano lo scopo di pregare, soffrire per i sacerdoti dell’Opera in particolare, e per tutti i
sacerdoti e i religiosi in generale, avendo di mira la loro santificazione e l’unione delle chiese.
Questa mi sembra sia la santa volontà di Dio”. Per le Opere, Dio, affiderà alle Sorelle ragazze in
serie difficoltà morali o comunque nel bisogno.
Quindi se in un primo tempo la vita della Povera Serva è stata caratterizzata dai lavori domestici
di cucina e guardaroba, era questa una modalità che doveva esprimere il dono oblativo di sé, per
cercare l’assoluto in Dio a bene di un Opera chiamata ad essere segno nel mondo della sua
materna e paterna bontà.
Non sono quindi le attività che che ci caratterizzano come Congregazione, ma uno stile di vita,
una ricerca continua della volontà di Dio, vissuta nell’abbandono alla divina Provvidenza.
Fidarsi di Lui sempre, anche quando si fa buio intorno; la fiamma della fede deve brillare
sempre.
La nostra Congregazione è molto piccola in numero ed in opere. D’altra parte le opere devono
esistere solo per manifestare la paternità di Dio.
Diceva bene don Calabria: “Ciascuna Congregazione è come un fiore nel giardino di Gesù e,
come ogni fiore presenta una sua particolare bellezza ed effonde un profumo speciale, così ogni
opera possiede uno spirito che la distingue, uno splendore particolare e le sue virtù
caratteristiche, che, dovendo essere praticate di preferenza, danno alla santità stessa un’impronta
tutta speciale”.
Noi, Povere Serve e Poveri Servi siamo chiamati a percorrere la strada tracciata da Cristo Servo
obbediente alla volontà del Padre e percorsa da don Calabria, pellegrino nella fede.
“L’ora attuale è gravissima, occorre santità e fede e carità universale” (Diario 2/12/47).
“Con più prego, con più sto davanti a Gesù, mi sento che quest’Opera è principio di altre... Fede,
fede, grande fede; anime, anime, anime, tutto il resto è niente” (Diario 19/12/11).
DON CALABRIA E LA CHIESA
Sebbene don Calabria abbia manifestato una sensibilità tutta speciale verso i più poveri, gli
ultimi... possiamo tuttavia affermare che lui è più che un apostolo dei poveri. Anzi, vede nelle
opere a favore delle creature abbandonate e poi in tutte le altre opere “mezzi e non fini”, per
gridare al mondo la grande novità del Vangelo: Dio è Padre, Dio è Provvidenza!
Questa passione di don Calabria per il Vangelo, per le anime... lo porta a superare i confini della
stessa Opera e della stessa Chiesa di Verona, per abbracciare il mondo intero, per far sua la
stessa finalità del Verbo fatto carne: la salvezza del mondo. Lui vive nella sua carne la passione
di Cristo per la sua Chiesa. Addirittura Gesù gli fa sentire, misticamente, questo suo gemito: “La
mia Chiesa, la mia Chiesa!” Così scrive all’abate Caronti, nel 1948: “L’ora attuale, per conto
mio, è sempre l’ora del continuo richiamo da parte del Signore rivolto a tutti, ma in modo
particolare a noi Sacerdoti e Religiosi... Le parlo in tutta confidenza: io sento sempre più vivo e
presente il lamento di Gesù: La mia Chiesa! e mi pare che mai come adesso Gesù domandi
santità nei suoi Sacerdoti...”.
Il suo cuore palpitava per la Chiesa (gerarchia, sacerdoti, religiosi, fratelli separati, peccatori...)
perché questa fosse sempre di più conforme al disegno di Cristo.
Don Calabria si è fatto fervoroso promotore di un urgente riforma della Chiesa perché questa
fosse all’altezza della sua vocazione e quindi capace di dare risposte soddisfacenti alle esigenze
dei tempi, con lo scopo di rinnovarli e salvarli nella verità del Vangelo.
Ha colto il bisogno di un rinnovamento dei sacerdoti e dei religiosi. Lavorò intensamente perché
li voleva, come gli apostoli, staccati dai beni terreni e disinteressati, preoccupati soltanto del
Regno di Dio. Insisteva sulla radicalità evangelica della loro vita; “via le mezze misure”, diceva;
nemmeno nelle piccole cose o apparenze voleva che si offuscasse la loro testimonianza.
Ha additato con forza e sicurezza i mezzi che possono salvare il mondo, che sono i mezzi
spirituali, soprannaturali: la fede pratica, il Vangelo vivo, la santità, la vita interiore, la croce, la
coerenza, la povertà, la carità, la preghiera, i sacramenti...
Prevedeva con chiarezza le strade e le mete del futuro: il futuro sta nelle mani degli uomini
spirituali che vivono il Vangelo sine glossa. Inoltre il futuro esige una rieducazione nell’amore,
affinché tra gli uomini regni solo la carità, “un cuore solo e un’anima sola”, come tra i primi
cristiani. “Senza la carità, anche se facessimo miracoli, non saremmo creduti. Invece tutti
disarmano dinanzi alla vera carità di Cristo”.
Ma se l’Opera è la Chiesa essa, non si chiude in se stessa, ma vibra ed opera con gli stessi gemiti
di Gesù.
ATTIVITÀ ECUMENICA
Giovanni Paolo II, nell’omelia pronunciata per la beatificazione di don Calabria, dopo aver detto
che “quel gemito di Gesù, “la mia Chiesa”!, che don Calabria percepiva era quasi un riflesso
dell’agonia del Crocifisso per le anime”, continuò:
“E questo amore alla Chiesa suscitò in don Calabria anche l’impegno per l’unità dei cristiani.
Egli pregò per questo scopo, ebbe contatti di amicizia con membri di altre Chiese e Comunità
ecclesiali, offerse l’abbazia di Maguzzano come sede della Sezione Italiana della “Catholica
Unio”.
Dalle sue lettere risulta chiaramente la sua intuizione che la piena comunione dei cristiani passa
per una via importante, quella che cerca di coinvolgere l’intero popolo di Dio nel desiderio e
nella ricerca dell’unità desiderata da Cristo”.
È la grande ansia di unità che dal cuore di Gesù si è trasfusa nel cuore di don Calabria
spingendolo ad attuare iniziative pratiche per l’unione dei cristiani. Lui sente impellente il
bisogno di adoperarsi per l’unità dei cristiani come condizione necessaria per poter annunciare
efficacemente il Vangelo. In don Calabria l’ansia ecumenica è una conseguenza logica e
immediata del suo grande amore per la Chiesa e dell’ardente zelo per la salvezza delle anime. Le
parole di Gesù “ut omnes unum sint” (Gv 17, 21) esprimevano per don Giovanni “il palpito
continuo di Gesù”.
In ogni scritto, in ogni conversazione sul problema dell’unità, don Calabria si richiama a quelle
parole del Signore. Nel 1953 scrive al card. Schuster: “Quanto è impellente il bisogno che anche
noi cristiani ci adoperiamo per attuare il grande anelito di Gesù: ut omens unum sint! Questo
palpito di Gesù, questa sete del suo cuore divino quanta luce deve irradiare nel mondo e quale
slancio imprimere specialmente a noi sacerdoti, religiosi e popolo cristiano, affinché con la
preghiera e l’azione, possiamo contribuire all’attuazione del desiderio di Gesù, dopo venti secoli
di lotte e di divisioni che costituiscono un vero scandalo e un vero ostacolo alla conversione dei
popoli al cristianesimo”.
Ma don Calabria è convinto che il mezzo più efficace per costruire l’unità è la carità: “la carità –
lui scrive – è il cemento che unisce gli animi e forma di tutti una cosa sola”.
A testimonianza di questo vi leggo un appunto dal suo Diario:
(18 novembre 1938) “Oggi con l’approvazione del mio Padre spirituale, mi sono portato dal
Rabbino di Verona, per dire tutto il mio dolore, per la prova che subisce il popolo ebreo. Vi era
la sua signora, che gradì molto il pensiero. Noi cristiani cattolici, abbiamo la verità, la forza di
Dio, e la nostra vita cristiana secondo il santo Vangelo, sarà luce che illumina e chiama a Dio
tutti i nostri fratelli lontani dalla verità”.
Concludo con un brano della lettera inviata dai Vescovi del Triveneto al Santo Padre, Giovanni
Paolo II, nel 1983, per domandare la beatificazione di don Calabria.
Hanno scritto i Vescovi: “Proprio per preparare la “Chiesa del duemila” – espressione familiare
a don Calabria – egli fece della sua vita tutto un sofferto e accorato appello alla “conversione”,
al “rinnovamento”, all’ora di Gesù, con accenti impressionanti di incalzante urgenza. Agli scritti
– libri, riviste, lettere – aggiunse la splendida luce di una vita coerentemente testimoniale...
Ci pare che non solo la sua vita sia in piena armonia con lo spirito e le finalità dell’Anno Santo,
ma la persona stessa di don Giovanni Calabria costituisca una “profezia” del vostro appassionato
grido a tutto il mondo: “Aprite le porte a Cristo Redentore””.
GLI STRUMENTI
INDICE DELLE TESI SCRITTE SUL PENSIERO E L’OPERA DEL PADRE DON GIOVANNI
CALABRIA
(in ordine alfabetico per autore)
Bellantoni Maurizio – Il sacerdozio ministeriale “in” e “per” don Giovanni Calabria – Pontificia
Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale Sez. San Tommaso – anno accademico 1987-1988
Benedetti Alberto – Autorità e obbedienza nella vita religiosa alla luce del “Perfectae Caritatis” e nel
pensiero di don Giovanni Calabria – Pontificia Università Urbaniana – Roma
Bertoldi Monica – Attività culturali ed intuizioni educative di don Giovanni Calabria (1973-1954).
Saggio storico-pedagogico – Università di Padova – Facoltà di Magistero – corso di laurea in pedagogia
– anno accademico 1990-91
Brandimarti Lorenzo - L'Opera don Calabria dalla fondazione ad oggi (Verona 1907-1998) - Tesi di
Laurea Facoltà di Scienze della Formazione Corso di Laurea in Scienze dell'Educazione indirizzo:
Educatori Professionali - Università degli Studi di Verona - Anno Accademico 1998/1999
Bressan sor. Lucia – Don Giovanni Calabria e l’ecumenismo spirituale – Istituto di Scienze Religiose
“San Pietro martire” – Verona 1989
Ceresa sac. Benildo – Gesù nella vita e nel pensiero di don Giovanni Calabria - Pontificia Facoltà
Teologica “Teresianum” – 1990
Chiavegato sor. Rosella – “Cercate prima…”. Commento esegetico a Mt. 6, 25-34 – Istituto di Scienze
Religiose “San Pietro Martire” – Verona – anno scolastico 1990-1991
Collazziol sac. Osmair Josè – Lo spirito apostolico-ecclesiale nel carisma del beato don Giovanni
Calabria – Studio Teologico “San Zeno” – Verona – (secondo lavoro scritto) - 10 ottobre 1990
Cordioli sac. Giacomo – Il beato don Giovanni Calabria e don Giuseppe Girelli. Mutui rapporti
nell’apostolato delle carceri – Premio “Angelo Marini” – 1989
Cordioli sac. Giacomo – Il beato don Giovanni Calabria e i fratelli carcerati – Studio Teologico “San
Zeno” – Verona – anno scolastico 1989-1990
Cristofoli Piergiorgio – Le intuizioni evangeliche di don Giovanni Calabria sul religioso fratello –
Istituto di scienze Religiose “San Pietro martire” – 1987
Dal Corso Mons. Eugenio – Il Servo di Dio don Giovanni Calabria e i fratelli separati – Pontificia
Università Lateranense – Roma – anno accademico 1967 – pubblicato a cura della Congregazione
Favalli Remigio – L’Eucarestia nel diario del servo di Dio don Giovanni Calabria – Pontificia
Università Lateranense Roma – esercitazione – anno accademico 1967-1968
Galvan Fausto – Don Giovanni Calabria: istituzioni pedagogiche dagli inizi all’anno 1919 – Università
di Verona – Facoltà di Magistero – anno accademico 1983-84
Gecchele sac. Gaetano – Biografia spirituale del servo di Dio don Giovanni Calabria – Pontificia
Università Lateranense – Roma – 1966 (pubblicata a cura della Congregazione dei Poveri Servi della
Divina Provvidenza)
Kohl sac. Jaime Pedro – L’ecclesiologia negli scritti del Servo di Dio don Giovanni Calabria – Studio
Teologico “San Zeno” – Verona – anno academico 1982-1983
Marina Stefano – La pedagogia dell’amore nell’opera educativa di don Giovanni Calabria – Università
di Verona – Facoltà di Magistero – anno accademico 1987-88
Meneghini Irene – Don Giovanni Calabria, un profeta per la Chiesa. Spiritualità e misticismo nelle
“Lettere ai suoi Religiosi” e nel “Diario” – Istituto Superiore di Scienze Religiose “San Pietro Martire”
– Verona – anno accademico 1996-1997
Menini sac. Giuseppe – La Chiesa della carità nella vita e nel pensiero del beato Giovanni Calabria –
Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale – anno accademico 1990-1991
Modena sac. Annibale – Ipotesi di carismatismo in alcune istanze del sac. Giovanni Calabria – Facoltà
teologica di Venegono – anno accademico 1971-1972
Mori fr. Gianfranco – Don Giovanni Calabria e la tradizione della fede nella Divina Provvidenza: il
beato don Giovanni Calabria e san Giuseppe Benedetto Cottolengo - Istituto di Scienze Religiose “San
Pietro martire” – Verona – anno scolastico 1992/1993
Nguza Mukaz Fulgencio – La parità sacerdoti-fratelli nelle intuizioni evangeliche del beato Giovanni
Calabria – Pontificia Facoltà Teologica “Teresianum” – Roma –anno accademico 1995-1996
Oliveira Marques da Silva sac. Manuel – Don Giovanni Calabria un mistico sulla Croce per la Chiesa Pontificia Facoltà Teologica “Teresianum” – Roma - anno accademico 1985-1986
Perazzolo Giuseppe – Momenti di storia della Congregazione religiosa dei Poveri Servi della Divina
Provvidenza: evoluzione giuridica dagli inizi al Decretum Laudis 1949 – Pontificia Università
Gregoriana – Roma –anno accademico 1992-1993 - pubblicato a cura dell’Archivio Vescovile della
Diocesi di Verona
Pisani sac. Aleardo – Don Giovanni Calabria e gli Ebrei – Studio Teologico “S. Zeno” – Verona –aprile
1989
Ramseyer sor. Graciela – Lo spirito missionario nel carisma del beato don Giovanni Calabria – Studio
Teologico “San Zeno” – 1989
Ramseyer sor. Graciela – Proposte calabriane per una nuova evangelizzazione - Pontificia Facoltà
Teologica “Teresianum” – Roma –anno accademico 1992-1993 (pubblicato come n° 1 della collana
"Studi calabriani” a cura del Centro di Cultura e Spiritualità Calabriana - 1998)
Rinaldi fr. Matteo - "Prima di tutto riguardarsi come fratelli". La vita in comune nel pensiero del beato
don Guiiovanni Calabria - Studio Teologico "San Zeno" - Verona, settembre 1998
Rocca Maria – Beato don Giovanni Calabria: l’umanità dalla sua scrittura (un’analisi grafologica) –
Istituto di Scienze Religiose – Trento –anno accademico 1990-1991
Tebaldi Maria – La pedagogia di don Giovanni Calabria – Università cattolica del Sacro Cuore – Milano
– Facoltà di Magistero – Corso di laurea in pedagogia –anno accademico 1964-65
Trevisol sac. Jorge – Il mistico e l’angoscia. Il beato Giovanni Calabria: un modo mistico di affrontare
l’angoscia – Pontificia Università Gregoriana – Roma –anno accademico 1996/97
Trevisol sor. Loris – La formazione della Povera Serva della Divina Provvidenza secondo la parola del
beato Giovanni Calabria - Istituto di Scienze Religiose “San Pietro martire” – Verona –ottobre 1989
Zanferrari Maria Maddalena – L’opera educativa di don Giovanni Calabria – Università di Padova –
Facoltà di Magistero sede staccata di Verona –anno accademico 1975-76
Zantedeschi Luciano - Uniti nella carità. L'epistolario fra don Giovanni Calabria e padre Riccardo
Lombardi - Esercitazione scritta per il conseguimento del Diploma di Magistero in Scienze Religiose
presso Istituto Superiore di Scienze Religiose "San Pietro Martire" - Verona; Anno Accademico
1997/1998