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Vito Mancuso
IL PRINCIPIO PASSIONE
© 2013 Garzanti Libri
Presentazione
In questo grande libro, Vito Mancuso assume la passione come prospettiva da
cui leggere il mondo. Il problema in particolare è l’amore, il suo posto nel mondo
e nella logica che lo regge. Quando si ama, quando si vive per il bene e per la
giustizia, si rafforza il nostro essere natura, oppure lo si indebolisce
estinguendone la forza vitale?
Mancuso ritiene che quando amiamo mettendo la passione al servizio
dell’armonia delle relazioni raggiungiamo la pienezza dell’esistenza, perché il
nostro amore riproduce una più ampia logica cosmica tesa da sempre all’armonia
relazionale. La tesi va a toccare i fondamenti stessi del vivere e viene illustrata
attraverso un confronto con le grandi tradizioni religiose, con le filosofie e con la
scienza, toccando questioni di cosmologia, biologia, fisica, fino a discutere il
senso filosofico del bosone di Higgs o «particella di Dio».
Ma come si concilia questa visione con l’universale esperienza del male?
Nell’affrontare questo tema da sempre presente nel suo pensiero, Mancuso
chiama sulla scena i Mostri, le Signorie cosmiche e le Potenze sataniche di cui
parla la Bibbia, in una specie di corpo a corpo metafisico con le radici stesse del
negativo. Il risultato è la denuncia dell’infondatezza del dogma del peccato
originale mediante cui la Chiesa ancora oggi interpreta il caos come peccato,
finendo per generare inevitabili e infiniti sensi di colpa. In realtà, sostiene
Mancuso, il caos non è peccato, ma l’indeterminatezza necessaria per il nascere
della libertà, a sua volta condizione per la maturità dell’amore.
Affascinante racconto di una profonda avventura intellettuale, Il principio
passione con la sua «formula del mondo» (Logos + Caos = Pathos) si offre come
una nuova guida alla mente perplessa per rinnovare in modo responsabile la
fiducia nella vita, e nell’amore quale suo scopo supremo.
Vito Mancuso è un teologo italiano, dal 2013 docente presso l’Università degli
Studi di Padova, dopo aver insegnato dal 2004 al 2011 alla Facoltà di Filosofia
dell’Università San Raffaele di Milano. È autore, tra gli altri libri, di L’anima e il
suo destino (2007), La vita autentica (2009), Obbedienza e libertà (2012) e, con
Garzanti, Io e Dio. Una guida dei perplessi (2011), giunto alla nona edizione.
Insieme a Eugenio Scalfari ha firmato le Conversazioni con Carlo Maria Martini.
Ha disputato per iscritto a favore della fede in Dio con Corrado Augias e Paolo
Flores D’Arcais, e a voce con molti altri intellettuali atei. Il suo pensiero è oggetto
di una monografia uscita in Germania nel 2011 (Essentials of Catholic
Radicalism. An Introduction to the Lay Theology of Vito Mancuso). Le sue opere,
tradotte in più lingue, hanno suscitato notevole attenzione da parte del pubblico e
sono oggetto di discussioni e polemiche per le posizioni non sempre allineate con
le gerarchie ecclesiastiche. Dal 2009 è editorialista del quotidiano «la
Repubblica».
IL PRINCIPIO PASSIONE
«Questa ragione dell’esistenza è lógos, nel senso di phôs (luce) e di z?é (vita):
tutto ha un senso e questo senso è luminoso e vivificante. Malgrado le oscurità
della situazione presente [...] esiste al fondo di tutto un euanghélion (un vangelo)
che ci assicura che c’è una ragione luminosa e vivificante di tutte queste cose.»
Carlo Maria Martini
«Ancora adesso ho questo caos davanti, non solo su di me, ma vedo che questo
caos permane in generale. Per cui dico: mi raccomando, non perdetelo
completamente questo caos, perché credo che sia un segno divino nella vita
dell’individuo... una sorta di mistero della vita che viene dall’alto.»
Lucio Dalla
Il mondo, questa massa di energia in continua processualità, è retto dalla
dialettica che scaturisce da Logos + Caos, ovvero: forma organizzatrice + energia
senza forma, capacità direttiva + spinta senza meta, armonia relazionale + oscura
abissalità.
Questo intreccio costituisce il fondamento dell’intero processo, la dinamica
dentro cui si fa la vita del mondo e che colloca ogni vivente in un dramma
esistenziale esprimibile mediante questa semplice formula: Logos + Caos =
Pathos.
Alla memoria di Carlo Maria Martini (1927-2012)
e diLucio Dalla (1943-2012)
AVVERTENZE
1) Sul contenuto. Mentre Io e Dio (Garzanti, 2011) era un’opera di teologia
fondamentale, Il principio passione è un’opera di teologia sistematica. Il suo
obiettivo è di riproporre nel contesto contemporaneo il classico trattato che la
manualistica teologica denominava De Deo creante («Sul Dio creatore») e di farlo
alla luce di questa domanda: che relazione c’è tra l’amore, in quanto essenza
specifica del Dio che crea, e la struttura concreta di questo mondo? In prospettiva
antropologica, si tratta di capire se quando si ama ci si unisce e si compie la logica
del mondo, oppure la si avversa e la si nega; se quando si agisce per il bene e per
la giustizia si riproduce una più ampia logica cosmica tesa all’armonia
relazionale, oppure si mette in atto una logica del tutto estranea al cosmo.
Nell’affrontare tale duplice questione (teologica e antropologica), il percorso di
questo libro si intreccia con questioni inerenti la cosmologia, la filosofia della
natura, la biologia, la fisica, oltre che ovviamente le cosmogonie delle religioni, il
messaggio biblico e soprattutto il patrimonio dottrinale cattolico.
2) Sul metodo. Sono consapevole che questo procedere tra diversi saperi possa
suscitare sospetti e perplessità sia in ambito scientifico sia in ambito teologico,
dato che oggi tra i due ambiti vige una netta separazione. Tale separazione risale a
Galileo e se ne capisce bene il motivo, in un’epoca in cui la ricerca scientifica
doveva tutelare la propria libertà da un dogmatismo teologico strettamente
associato al potere politico. Né va dimenticato che ancora oggi essa risulta di
grande utilità contro il fondamentalismo biblico, o coranico o di qualunque altro
genere. A mio avviso però l’imperante separazione tra scienza e teologia si rivela
ultimamente sterile. Infatti l’oggetto della scienza quando parla di evoluzione è
del tutto identico a quello della teologia quando parla di creazione, cioè il mondo,
l’unico mondo in cui tutti noi viviamo. Non esiste un mondo peculiare della
scienza né uno peculiare della religione. Non c’è che un unico mondo, e se si
crede davvero che la teologia abbia qualcosa di valido da dire quanto all’origine e
al senso del mondo, e quindi della vita al suo interno, si deve essere in grado di
argomentarlo al cospetto del sapere che il mondo ha di se stesso, cioè della
scienza e della filosofia. Ne viene che lo studio della scienza e il dialogo critico
con la filosofia sono una condizione necessaria per chiunque voglia fare oggi
teologia in modo responsabile.
Altre piccole avvertenze iniziali
– I passi biblici, ove non diversamente indicato, riprendono la versione della
Conferenza episcopale italiana del 2008, citata nel testo come Bibbia Cei.
– La sigla NT corrisponde a Nuovo Testamento; non ho fatto uso di altre
abbreviazioni bibliche per evitare tecnicismi.
– La sigla DH sta per i cognomi di due gesuiti tedeschi, Denzinger e
Hünermann, e rimanda all’opera iniziata dal primo nel 1854 e curata dal secondo
per l’attuale edizione, la 43ª: Heinrich Denzinger, Enchiridion symbolorum
definitionum et declarationum de rebus fidei et morum, a cura di Peter
Hünermann, ed. it. a cura di Angelo Lanzoni e Giovanni Zaccherini, EDB,
Bologna 2012; la traduzione del titolo latino è: «Manuale dei simboli, delle
definizioni e delle dichiarazioni sulle questioni di fede e di morale», e si tratta di
un’opera che presenta i passi salienti dei documenti dottrinali del Magistero
cattolico dalle origini ai nostri giorni.
– Tutti i discorsi papali citati sono disponibili sul sito della Santa Sede,
vatican.va.
– Per i termini latini e greci ho fatto uso dei miei dizionari del liceo: Ferruccio
Calonghi, Dizionario latino-italiano, terza edizione interamente rifusa e
aggiornata del dizionario Georges-Calonghi, Rosenberg & Sellier, Torino 1975; e
Lorenzo Rocci, Vocabolario greco-italiano, Società Editrice Dante Alighieri –
Società Editrice S. Lapi, Città di Castello 1973. I termini greci sono traslitterati.
– Il termine «logos» è scritto accentato e in corsivo (lógos) quando riproduce il
termine greco, mentre è senza accento e in tondo (logos) quando viene utilizzato
nel linguaggio corrente.
– Personalmente trascrivo il tetragramma divino con le sole quattro consonanti
indicando il nome senza favorire la pronuncia per rispetto della sensibilità
religiosa ebraica (Yhwh); ho riportato però il nome completo di vocali nelle
citazioni per rispettare altresì la scelta degli autori citati.
– I corsivi nelle citazioni sono da intendersi come opera degli stessi autori
citati.
Quanto alle frasi in esergo, quella di Carlo Maria Martini è tratta da Gli
esercizi ignaziani alla luce del Vangelo di Giovanni [1974], in Le ragioni del
credere. Scritti e interventi, a cura di Damiano Modena e Virginio Pontiggia,
Mondadori, Milano 2011, pp. 340-341; quella di Lucio Dalla proviene da un
intervento sul tema della bellezza tenuto in un collegio universitario di Bologna
nel 2007 ed è riportata da Marco Alemanno in: Lucio Dalla e Marco Alemanno,
Gli occhi di Lucio, Bompiani, Milano 2008, pp. 89-90.
SOMMARIO
Prologo
I. Alla ricerca del principio
II. Cosmogonie
III. Guardare il mondo
IV. Pensare la vita
V. Pensare la materia
VI. La dottrina cattolica e la sua aporia
VII. La Bibbia e lo stato caotico del mondo
VIII. Archeologia del negativo: un peccato degli angeli?
IX. Il lato oscuro del divino
X. Dio e il mondo
Epilogo (in forma di punti fermi)
Appendice 1: dati sull’Universo e sulla vita
Appendice 2: testi sulla necessità della morte di Gesù
Appendice 3: testi sul ruolo cosmico del Cristo
Appendice 4: testi sulla legge cosmica e sulla regola d’oro
Guida bibliografica
Indice dei nomi di persona
Indice dei nomi divini, diabolici e mitologici
Indice dei passi biblici
Indice generale
PROLOGO
Il mondo. Guardarlo a partire dal costo richiesto per la sua costruzione. Grazie
al lavoro degli elementi e alla produzione di armonia relazionale il mondo
consiste e si fa: ma quanto costa questo suo farsi? Perché si possa dare la luce di
un sorriso, quante lacrime e quanto sale sono necessari? Perché si possa dare un
gesto di puro amore, quanta impurità e quanta lotta devono venire prima? C’è
un’immensa fatica diffusa in tutte le cose, un abisso di sofferenza, uno spreco
infinito. Il mondo. Guardarlo a partire dal sangue versato per il suo progredire,
guardarlo facendosi attraversare da quel dolore innocente che nessun ritorno
evolutivo potrà mai giustificare.
E tuttavia amarlo. Amare questa terra che ci nutre e che ci è madre, di cui sono
fatti i mattoni e le pietre delle case che accolgono i nostri corpi e di cui sono fatte
le ossa dei nostri corpi; amare questa aria che ci mantiene in vita con l’entrare e
l’uscire in ogni istante da noi, l’aria-atmosfera, sfera dell’?tman (in sanscrito
«soffio vitale»), regione della vita e del respirare; amare questa acqua di cui
principalmente il nostro organismo consiste e che per questo ci attrae sotto forma
di fiume, di lago, di mare, e dalla quale sorge la vita in tutta la sua stupefacente
varietà; amare questo fuoco primordiale che è il calore del sole, energia vitale,
luce da luce, lumen de lumine, phôs ek photós.1 Amare il mondo di terra, di aria,
di acqua, di fuoco, gli elementi fondamentali che per gli antichi costituivano la
materia alla base di tutte le cose, di questo mondo generatore della vita, sotto
forma di alberi, di animali, di intelligenza, di libertà.
C’è una passione oggettiva delle cose che genera dolore, e c’è una passione
soggettiva dell’anima che genera amore: si tratta di rimanere esposti alla passione
della vita del mondo, senza perdere la passione per la vita del mondo.
Ma il mondo merita di essere amato? Oppure, a causa del prezzo altissimo di
dolore che esso impone, meriterebbe ben altro, cioè disprezzo, avversione,
persino odio, o solo noncuranza e distacco? E qual è il punto di vista più maturo
per guardare questo mondo nel quale siamo capitati nascendo? L’incanto dell’alba
e del tramonto, oppure un sisma e un ciclone di morte? L’infanzia o la vecchiaia?
Il genio o la demenza? L’altruismo o l’egoismo? L’armonia o il conflitto? La vita
o la morte? La generazione o la degenerazione?
Qualcuno dice l’amore. Ma che cos’è, da dove viene, l’amore? È un risultato
del lavoro del mondo, oppure è una contraddizione del lavoro del mondo? È
l’applicazione più coerente della logica cosmica, oppure ne è una trasgressione e
un’eresia? Così Lucio Dalla in una delle sue canzoni più belle:
Vorrei seguire ogni battito del mio cuore
Per capire cosa succede dentro
e cos’è che lo muove
Da dove viene ogni tanto questo strano dolore
Vorrei capire insomma che cos’è l’amore
Dov’è che si prende, dov’è che si dà.2
Lectio difficilior, insegnava Carlo Maria Martini in qualità di critico testuale di
fama mondiale, «lezione più difficile». È noto che di nessun testo antico si
conservano gli originali, di essi si hanno solo copie manoscritte su papiro o su
pergamena dette «codici», i quali però presentano spesso versioni diverse a
proposito degli stessi passi ponendo il problema di capire quale sia la versione da
privilegiare. I critici testuali adottano il criterio della lectio difficilior: è sempre da
preferire la versione che presenta maggiori difficoltà dal punto di vista lessicale e
semantico. È più probabile infatti che nelle loro trascrizioni gli antichi copisti
tendessero a sostituire l’espressione più difficile con un’espressione più facile, la
lectio difficilior con una lectio facilior, al fine di rendere il loro lavoro più
accessibile ai futuri lettori. Quindi, tra due o più lectiones, le versioni faciliores
risultano avere più probabilità di essere adattamenti posteriori, mentre la lectio
difficilior, con la sua asperità, è più probabile che sia il testo originario.
Io penso che lo stesso valga di fronte agli infiniti codici che ci raccontano del
mondo. Anche il mondo è una specie di testo, così ampio e composito che
nessuno nello spazio della sua mente può giungere a decifrarlo per intero, perché,
oltre ai miliardi di codici scritti, vi sono infiniti altri codici fatti di colori, suoni,
sapori, urla, carezze, esplosioni, silenzi... A partire dall’insieme dei messaggi della
vita nessuno potrà mai giungere a decifrare con esattezza il testo originario del
mondo. Ci sono troppe porte da aprire e nessuno ha la chiave di tutte, senza
considerare che entrare da una porta percorrendo il sentiero che essa dischiude
significa di per se stesso non entrare in tutte le altre porte e non percorrere tutti gli
altri sentieri, per cui l’approfondita conoscenza di un settore ha come inevitabile
contropartita l’ignoranza di molti altri settori altrettanto importanti. E chi
rivendica di possedere la chiave che come una specie di passepartout metafisico
varrebbe per tutte le serrature, quando poi viene messo alla prova dalle questioni
concrete della vita mostra tutti i suoi limiti e tutti i suoi errori.
Dell’unico testo che è il mondo possediamo una quantità enorme di copie, tutte
frammentarie, tutte più o meno imprecise, spesso in contrasto tra loro. Come
orientarsi quindi tra le diverse lectiones o letture del mondo al fine di avere, non
dico la garanzia, ma almeno maggiori probabilità di non essere lontani dal suo
autentico significato? Penso che anche qui valga il criterio della lectio difficilior:
si tratta di pensare il senso della nostra vita nel mondo alla luce dei resoconti
dell’asprezza e della durezza del mondo. Solo così si hanno minori probabilità di
cadere vittima delle illusioni a buon mercato che la mente instancabilmente
secerne.
Porsi davanti a un reparto di oncologia infantile e guardare i bambini senza
capelli; porsi davanti a un ospizio e guardare il disfacimento dei corpi e
l’ebetudine delle menti; pensare agli aborti che ogni giorno vengono praticati a
migliaia falciando sul nascere lo stelo di una nuova vita; pensare a chi nasce
gravato dall’handicap per un’anomalia genetica; pensare alle carceri e alla vita
che vi si conduce; pensare alle vittime di coloro che ora sono in carcere, al vuoto
che hanno lasciato e che nessuno potrà mai colmare; pensare agli incidenti e alle
fatalità, alle disparità sociali che producono miseria, ignoranza, cattiveria, morte;
pensare a chi non ce la fa più e si toglie la vita; pensare all’ignoranza e alla
stupidità di cui si nutre la mente dei più. Pensare a tutto questo, fino a sentire
dentro di sé il dolore che attraversa come una freccia la natura e ripetere con il
poeta «spesso il male di vivere ho incontrato».3 Lectio difficilior.
E tuttavia non perdere la speranza che la vita del mondo abbia un senso e che
questo senso sia il bene e l’amore che ne consegue, se non altro perché noi, che
pure siamo un pezzo di mondo, siamo affamati di senso, e di bene, e di amore,
prova ne sia che, se non fosse per questa fame, il negativo del mondo neppure
emergerebbe come tale ma solo come consuetudine e normalità. E quindi disporsi
onestamente a ricercarli, questo senso, questo bene e questo amore, anzitutto
scavando dentro di sé, senza cessare mai di coltivare la speranza che l’ideale del
bene e della giustizia, che rende nobile il fenomeno umano allorché l’accoglie,
non sia un’illusione o una solitaria aspirazione etica e nulla più, ma sia
l’indicazione di un più alto livello dell’essere, non sottoposto alla corrosione del
tempo, dove «né tarma né ruggine consumano e dove ladri non scassinano e non
rubano» (Matteo 6,20), un livello dell’essere che trascende l’ambiguità di questo
mondo e che tradizionalmente è denominato «Dio», e che esprime l’intuizione di
una Realtà primaria dove l’essere e il bene finalmente coincidono. Di tale
trascendenza l’hinduismo e il buddhismo parlano in termini di nirv??a, e a questo
proposito il Buddha affermava: «Esiste, o monaci, un non-nato, un non-divenuto,
un non-creato, un non-formato. Se, o monaci, non esistesse questo non-nato, nondivenuto, non-creato, non-formato non si potrebbe conoscere alcuna via di
salvezza da ciò che è nato, divenuto, creato, formato. Ma, o monaci, poiché
esiste un non-nato, un non-divenuto, un non-creato, un non-formato si può
conoscere una via di salvezza da ciò che è nato, divenuto, creato, formato».4
Negli anni mi sono spesso chiesto se questo mondo e questa vita meritassero di
essere amati oppure no, se gli uomini meritassero di essere amati oppure no, se
l’idea di Dio o di una Realtà primaria meritasse di essere amata oppure no (anche
a prescindere dalla questione teoreticamente insolubile della sua esistenza). Sono
sempre rimasto senza una risposta soddisfacente dal punto di vista teorico, ma
non per questo ho smesso di amare il mondo e la vita, di amare la nobiltà cui ogni
uomo può giungere se lavora onestamente su di sé esponendosi alla luce del bene
e della giustizia, di amare l’idea sussistente di questo bene e di questa giustizia cui
tradizionalmente in Occidente ci si riferisce con il nome di Dio e che io credo
costituisca la Realtà primaria dell’essere. E questo non accade solo a me, ma a
tutti coloro che vedono nel bene e nell’amore la definitiva dimensione dell’essere.
Ma come spiegare tutto ciò? Incoerenza, follia, ingenuità? Stupidità, ignoranza,
alienazione? Oppure c’è in gioco qualcosa di più profondo?
La discrepanza tra l’analisi della realtà, che condurrebbe a non amare né il
mondo né gli uomini né l’idea stessa dell’amore in quanto ultima dimensione
dell’essere, e il sentimento interiore che non si rassegna a cadere vittima
dell’indifferenza o del cinismo e fa del bene e dell’amore la più alta dimensione
dell’essere, questa discrepanza (spesso così dolorosa) è lo spazio in cui sorge e si
muove quell’energia particolare chiamata passione. Ed è alla luce della passione
così intesa, sia nel senso di emozione dominante che ci appassiona, sia nel senso
di patimento che ci fa patire, che io presento in questo libro le mie meditazioni sul
mondo, cercando di capire in che senso si possa ancora ragionevolmente
affermare che esso è creato e governato da Dio, e in che senso si possa ancora
sostenere che il modo più autentico di viverci sia all’insegna del bene e
dell’amore.
In realtà passione è uno dei termini più ricchi, e quindi più ambigui, del nostro
linguaggio. Indica una sofferenza fisica e spirituale, come quando si dice la
passione di Cristo o la passione di un popolo; indica un sentimento dominante a
cui si soggiace e che però dona energia, come quando si dice la passione per
un’idea, per la scienza, per l’arte, per la giustizia; indica l’ambito a cui ci si
dedica più volentieri, come quando si dice la passione per lo sport, per la
montagna, per i viaggi, per la cucina; indica il sentimento cieco che turba
l’equilibrio e la capacità di autocontrollo, come quando si dice di uno che è colto
da cieca passione per una donna, oppure per le carte, per le scommesse, per il
desiderio di vendetta (anche l’odio, oltre che l’amore, può avvincere la mente in
un modo da cui è molto difficile uscire).
In tutte le sue sfumature, il termine «passione» indica comunque sempre
qualcosa da cui si viene conquistati, qualcosa che ci cattura e che per questo ci
rende oggetti di un’azione che un’alterità esercita su di noi. Quando si prova
passione si sperimenta il mondo al passivo, non nel senso che si diviene passivi o
inerti, ma nel senso che la nostra attività trova l’ispirazione e l’energia al di fuori
di noi. Non a caso il termine passivo, che indica le forme verbali dell’azione
subìta dal soggetto, deriva dal medesimo verbo all’origine di passione, cioè pati,
che in latino significa «soffrire, patire».
Tale ambiguità semantica, per cui il medesimo termine esprime qualcosa di
molto negativo e insieme qualcosa di molto positivo, trova riscontro nel pensiero
filosofico. Un esempio significativo al riguardo sono i due massimi filosofi
dell’epoca moderna, Kant e Hegel. Per Kant «le passioni sono cancri della ragion
pura pratica, per lo più inguaribili: il malato non vuol essere curato e si sottrae a
ogni intervento dell’unico principio che potrebbe curarlo […]. Dunque le passioni
sono cattive incondizionatamente; il miglior desiderio, anche se è diretto alla virtù
(quanto alla materia), per esempio alla beneficenza, se degenera in passione,
diventa (quanto alla forma) non soltanto pragmaticamente dannoso, ma anche
moralmente riprovevole […]. La passione trova piacere e soddisfazione nella
schiavitù».5 Hegel, al contrario, valuta molto positivamente la passione, che per
lui è il vero e proprio motore della storia: «Nell’ordinamento del mondo un
ingrediente sono le passioni, l’altro è il momento razionale. Le passioni sono
l’elemento attivo. Esse non sono affatto opposte costantemente alla moralità,
bensì realizzano l’universale […]. Nessuna cosa è mai venuta alla luce senza
l’interesse di coloro la cui attività cooperò a farla crescere; e dal momento che a
un interesse noi diamo il nome di passione, così […] dobbiamo dire in generale
che nulla di grande è stato compiuto nel mondo senza passione».6 Si noti la
contraddizione hegeliana nel definire la passione, che per definizione si patisce e
quindi è passiva, come «l’elemento attivo»: si tratta di un’affermazione riflettendo
sulla quale si giunge a diretto contatto con il mistero che avvolge il nostro essere
uomini.
Anche le religioni presentano la medesima duplice impostazione verso la
passione: da un lato sospetto e inimicizia, dall’altro buona valutazione. Come ho
già detto, però, questo libro è un’opera di teologia sistematica che ha l’obiettivo di
riproporre nel contesto contemporaneo un pensiero sulla natura (ciò che in
teologia si chiama «dottrina della creazione») e di farlo alla luce di queste
domande: che relazione c’è tra l’amore, in quanto passione suprema dell’uomo ed
essenza del Dio che crea, e la struttura concreta di questo mondo? Quando si vive
nell’amore ci si unisce e si compie la logica del mondo, oppure la si avversa e la
si nega? Quando si agisce per il bene e per la giustizia si riproduce una più ampia
logica cosmica tesa all’armonia relazionale, oppure si mette in atto una logica del
tutto estranea al cosmo? Quando si soffre provando passione ci si inserisce in una
primordiale passione che l’intero cosmo, compresa la Realtà primaria detta
tradizionalmente Dio, prova con noi, oppure no?
La mia risposta è che l’amore umano riproduca e porti a compimento la logica
del mondo, e il senso di questo libro è di esporre, discutere e giustificare questa
tesi.
Durante l’argomentazione il percorso si intreccerà con questioni inerenti la
cosmologia, la biologia, la fisica, la filosofia della natura, oltre che ovviamente le
cosmogonie delle religioni e soprattutto il messaggio biblico e il patrimonio
dottrinale cattolico. Discutendo tematiche quali l’origine della vita o il senso
dell’evoluzione naturale, questo libro affronterà il problema a mio avviso più
radicale per chi intende vivere la vita all’insegna del bene e della giustizia, ovvero
il problema del male e del negativo, e lo farà nella prospettiva della lectio
difficilior andando a discutere i fondamenti stessi dell’esistere. Devo infine dire
che, con l’intento di evitare un numero di pagine eccessivo, ho deciso di
distogliere da questo libro le trattazioni sulla passione a livello antropologico (a
partire dall’eros e dalle diverse forme di amore) e a livello teologico (a partire
dalla passione di Cristo e dalla sua relazione con un Padre supposto impassibile),
riservandole a pubblicazioni future. In questo libro il principio-passione è
applicato al mondo, a questo mondo in tutta la sua meravigliosa bellezza e la sua
conturbante deformità, a questo mondo cattedrale del senso e registro
dell’assurdità, a questo mondo che a volte è patria e a volte è esilio, e che
riproduce in questa sua sfuggente ambiguità la medesima inafferrabile dinamica
di quella forma peculiare di energia che chiamiamo passione.
I. ALLA RICERCA DEL PRINCIPIO
1. Crisi di civiltà
Nella sfilata di secoli, millenni, epoche, evi, ere, alle nostre spalle, i popoli
hanno determinato ininterrottamente la loro vita in base all’autorità che derivava
dal tempo, dal tempo in quanto passato. La tradizione era la fonte di tutto, etica,
diritto, politica, oltre che, ovviamente, religione e spiritualità. La tradizione
costituiva un principio generativo e gerarchizzante, da essa scaturiva un ordine
che si imponeva semplicemente per il fatto di venire prima: «si è sempre fatto
così, quindi tu fai così; si è sempre creduto così, quindi tu credi così; non si è mai
fatto né creduto così, quindi tu non fare e non credere così». L’autorità si
imponeva come discendenza anzitutto nel senso di genealogia, dato che la vita di
ognuno si conformava a quella dei padri, e poi nel senso della direzione che
assumevano i valori, i quali discendevano dall’alto, si installavano nelle menti e si
affermavano perché provenivano da una tradizione ritenuta superiore. Essa
godeva di un’autorità che non occorreva conquistare, c’era già, si dava a priori
grazie alla forza del tempo.
Il filosofo cattolico Jean Guitton (1901-1999) nel 1997 affermava: «Credo che
stiamo vivendo un momento capitale nella vita dell’umanità, [...] invece di
svilupparsi in un regime di tradizioni, si sta evolvendo in un regime dove non
esiste più una tradizione precisa [...]. Il nostro quindi è un secolo quale finora non
si era mai veduto».1 Da allora queste parole hanno acquistato ancora maggiore
evidenza, oggi tutti avvertono – chi con soddisfazione, chi con angoscia – che non
c’è più una tradizione che si impone sui singoli come forza regolativa della vita. Il
presente dei singoli è ormai decisamente più forte del passato della tradizione.
Un tempo l’aggettivo nuovo era fonte di sospetti, oggi è il contrario. Dagli
scaffali del supermercato al campo delle idee la seduzione dell’attualità regna in
politica, architettura, arte, musica, e ovviamente negli stili e negli stati di vita. Le
cose si impongono nella mente contemporanea per il solo fatto di essere nuove.
Per questo le istituzioni rette da una logica tradizionale, la Chiesa e i partiti
politici, sono in crisi. Fino a quando si tratta di cibo, canti, feste e dialetto, la
tradizione ha ancora un potere da esercitare; ma quando entra in gioco la nuda
vita, ognuno diventa papa e primo ministro di casa sua. Viene in mente Pietro
Abelardo (1079-1142), pecora nera tra i teologi del suo tempo per la sua libertà
intellettuale, noto ai più per la storia d’amore con la giovane Eloisa e l’evirazione
che gli venne inflitta, il quale diceva: Si omnes patres sic, at ego non sic («se tutti
i padri così, io però non così»).2 Oggi, per quanto attiene alle idee e alle scelte di
vita, cioè a tutte le cose veramente decisive dell’esistenza, gli esseri umani sono
un po’ tutti come Abelardo; con la differenza, ovviamente, che egli era in grado di
motivare la sua trasgressione, mentre molti di coloro che oggi infrangono la
tradizione sono solo espressione di un altro tipo di conformismo.
Infatti a essere in crisi non è l’autorità in quanto tale. L’autorità in quanto tale
non sarà mai in crisi, perché risponde a un bisogno radicale della psiche umana: il
bisogno di aggregazione. Tale bisogno psichico è così radicato perché risponde a
sua volta a qualcosa di ancora più profondo, alla logica fisica dell’aggregazione.
Il nostro pianeta, il nostro corpo, l’aria che respiriamo, l’acqua che beviamo, tutto
in natura è frutto di assemblaggio di elementi, c’è una spinta innata nell’energia e
nella materia verso l’aggregazione. E tale spinta verso l’aggregazione radicata
nella nostra fisicità genera a livello psichico un bisogno di aggregazione sociale e
quindi di autorità che come tale non verrà mai meno, prova ne sia il diffuso
bisogno di leadership che attraversa la nostra società (che se non trova
appagamento a livello alto, si appaga a un livello più basso, e sempre più basso).
Se il bisogno di autorità non verrà mai meno, è venuta meno però l’autorità
che deriva dal passato, l’autorità in quanto tradizione, e ciò fa sì che la crisi
dell’Occidente sia una crisi di civiltà perché è crollato il principio-cardine che nei
secoli portava gli individui a sentirsi parte di una civitas-città generando civilitasciviltà. Quale sia stato questo principio lo dice il nome stesso: religio, termine che
viene dalla medesima radice di logos e che indica la realtà che collega tra loro le
libertà dei singoli facendone un insieme ordinato, un sistema operativo, una
civitas che genera civilitas. Oggi la religione non è più una forza di coesione
sociale, anzi, talora nella società vive semmai come ulteriore fonte di divisione.
Una cosa però deve essere chiara: che senza organica aggregazione degli ideali
più alti non c’è civiltà, non c’è sistema, non c’è organizzazione; c’è solo una
massa di individui e di lobby che si fanno guerra senza nessun interesse verso il
Bene comune.
Perché si è prodotta questa crisi dell’autorità in quanto tradizione? La risposta
non è difficile: perché l’immagine del mondo da essa veicolata, a livello sia di
natura sia di storia, è completamente crollata. L’immagine del mondo naturale
della tradizione occidentale sorse con la metafisica di Aristotele nel IV secolo
a.C., si strutturò con l’astronomia di Claudio Tolomeo nel II secolo d.C., venne
celebrata dalla poesia di Dante nel Trecento e durò fino al XVII secolo, per oltre
duemila anni nei quali la Terra era concepita immobile al centro dell’Universo, i
pianeti e il Sole che le giravano attorno ciascuno in un cielo diverso, mentre nelle
profondità della Terra si collocava il regno degli inferi, luogo dell’oscurità e della
perdizione: il risultato era un Universo concepito come un cosmo a tre piani,
inferi-terra-cielo.
Sulla composizione del terzo piano in verità le idee non erano del tutto chiare
perché vi erano diverse teorie a proposito del numero dei cieli:
– 7 cieli secondo la più antica tradizione che risale ai babilonesi, da cui
l’espressione salire al settimo cielo e da cui la settimana con i suoi giorni che
riprendono i nomi dei pianeti dell’antica astronomia (in italiano fanno eccezione il
sabato, che deriva dal termine ebraico shabbat, e la domenica, che riprende
l’espressione latina dominica dies, «giorno del Signore»; sabato e domenica sono
invece conformi all’antica tradizione astronomica nella lingua inglese, che ha
Saturday, «giorno di Saturno», e Sunday, «giorno del Sole»);
– 8 cieli secondo Tolomeo, nell’ordine: Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte,
Giove, Saturno + l’ottavo che era il cielo delle stelle fisse;
– 9 cieli + l’Empireo secondo la teologia medievale, laddove il nono cielo era
considerato vuoto e aveva la funzione di imprimere il movimento agli altri e per
questo era detto Primum Mobile, mentre l’Empireo, che letteralmente significa
«in fuoco», era perfettamente immobile in quanto sede di Dio e dei beati.
Ma a prescindere da queste divergenze sul numero dei cieli, l’Universo della
tradizione era percepito come un cosmo, cioè come un sistema dotato di ordine e
bellezza (cosmo, cosmesi, cosmetici) e generatore di ordine e bellezza (il canone
estetico) avendo una collocazione per tutto, anche per il male. E da questo ordine
cosmico promanava un preciso ordinamento del mondo sublunare, come veniva
chiamata la Terra, con concrete applicazioni sulla politica, la società, la religione.
Ovviamente era vero il contrario, cioè che era la mente umana a proiettare nel
cielo la struttura gerarchica della società configurando l’Universo secondo la
logica ordinatrice della vita sociale e privata: ma in ogni caso tutto si teneva,
perché tutto veniva compreso e vissuto come dipendente dall’alto. Così Hegel,
ispirandosi a un verso dell’Iliade, scriveva nella Prefazione alla Fenomenologia
dello spirito: «Un tempo essi avevano un cielo fatto di vasti tesori di pensieri e di
immagini. Il significato di tutto ciò che è, stava nel filo di luce che tutto al cielo
teneva attaccato».3 Sono parole del 1807 connotate già al passato; del presente
invece Hegel annotava: «Ora sembra che il senso sia talmente abbarbicato ai
valori terreni, da rendersi necessaria altrettanta violenza a sollevarnelo».
All’inizio dell’Ottocento il crollo della cosmologia geocentrica manifestava già i
suoi effetti a livello sociale, culturale e morale. Nella prima metà del Novecento
Antoine de Saint-Exupéry riprendeva l’immagine omerica in alcuni suoi versi
dicendo dell’oggi: «Nulla manca / tranne il nodo d’oro / che tiene insieme tutte le
cose. / E allora manca tutto».4
La rivoluzione astronomica, iniziata con il De revolutionibus orbium
coelestium di Copernico del 1543 e divenuta effettiva nel corso del Seicento con
l’Astronomia nova di Keplero del 1609, il Sidereus nuncius di Galileo del 1610, i
Philosophiae naturalis principia mathematica di Newton del 1687, si era estesa
alle menti degli esseri umani che prendevano sempre più coscienza della
mancanza di quel punto fermo nella fisicità dei cieli in base a cui era strutturata la
visione della loro mente. Da qui sopravvennero una serie di ulteriori
sconvolgimenti, come in un edificio che, venuto meno nelle fondamenta, prende a
manifestare continui e inarrestabili cedimenti:
– 1789: rivoluzione francese e fine dell’ancien régime: rivoluzione politica e
sociale;
– 1848: Marx-Engels, Manifesto del partito comunista: radicalizzazione della
rivoluzione politica e sociale;
– 1859: Darwin, L’origine delle specie: inizio della rivoluzione biologica;
– 1886: Nietzsche, Al di là del bene e del male: rivoluzione morale;
– 1899: Freud, L’interpretazione dei sogni: rivoluzione antropologica.
Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento tutto questo sovvertimento
provocò al livello superficiale delle masse un’allegria spensierata e anche un po’
frivola, la cosiddetta Belle époque, ma nel sottosuolo si addensava un tale
conflitto di forze e di interessi ormai privi di principio unificatore che portò
l’Occidente alla tempesta di due guerre mondiali nel giro di venticinque anni
(1914-1918: prima guerra mondiale; 1939-1945: seconda guerra mondiale) con
abissi di violenza e ferocia mai toccati prima e l’evento della Shoah per connotare
il quale il linguaggio non conosce aggettivi adeguati. La Guerra fredda che ne è
seguita (1945-1989); i milioni di morti del comunismo dovunque questa ideologia
si sia installata; il tentativo sanguinoso della destra fascista di ripristinare l’ordine
mediante la violenza nelle giunte militari di Spagna, Portogallo, Grecia e in molti
paesi del Sudamerica; le stragi e il terrorismo in Italia; il senso di vuoto al cuore
delle democrazie occidentali, compresa la dilagante corruzione che sembra non
risparmiare nessuno, tutto questo mostra la mancanza di un orizzonte ideale in
grado di parlare alle libertà dei singoli rendendole capaci di solidarietà e
cooperazione.
La portinaia dell’oratorio del mio paese in Brianza era solita gridare a noi
ragazzi con aspro tono di rimprovero per la nostra indisciplina: Ghè pü de
religiùn! (non c’è più religione). Né quell’anziana signora né tantomeno noi
ragazzi potevamo comprendere che quelle parole erano la denuncia di un
movimento epocale molto più profondo, in grado di evocare nella sua dimessa
veste paesana l’epico passo di Plutarco sulla morte del dio Pan e la fine del
paganesimo: «Appena si giunse presso Palode regnò una gran pace di venti e di
flutti; Tamo, da poppa, con lo sguardo volto alla riva esclamò, come aveva udito:
“Pan, il grande, è morto!”. Egli non aveva neppure chiuso bocca, che un immenso
gemito, non di uno ma di tanti, s’innalzò, misto a grida di stupore».5
Si potrebbe obiettare che questo nostro tempo in realtà non presenta nulla che
non sia stato già presente nei secoli scorsi, perché, come diceva il cardinal
Newman, «ogni secolo è simile agli altri, ma a quelli che lo vivono sembra
peggiore di tutte le epoche che l’hanno preceduto»;6 e in effetti se andiamo a
vedere la storia dei cosiddetti secoli cristiani del medioevo e del rinascimento non
si ritrovano certo scenari migliori dei nostri: la storia non ha mai riservato a
nessuno viaggi in prima classe. Tuttavia io penso che una differenza esista e che
essa consista nel fatto che allora vi era un ordine gerarchico e morale al quale ci si
poteva appellare, la fede condivisa in un Padre che reggeva e ordinava il mondo,
un libro sacro su cui giurare. È possibile farsene un’idea se si considerano i regimi
teocratici che, a partire dalla rivoluzione iraniana del 1979, si sono diffusi e si
stanno diffondendo un po’ ovunque nel mondo islamico con conseguenze non
piccole sul resto del mondo: lì si vede ancora la presenza di un principio
ordinatore a livello sociale e la forza dell’autorità che viene dal passato.
In quei regimi però si vede anche un’altra cosa: si vede come il principio
gerarchico dell’autorità diventi spesso autoritario, trasformando l’autorità in
autoritarismo, la tradizione in tradizionalismo, i padri in padroni. Lì si vede come
l’impostazione che pretende di governare la vita degli esseri umani in modo
deduttivo, dall’alto in basso, sia priva di fondamenta reali e divenga spesso
oppressione dell’uomo concreto e più ancora della donna concreta, nelle loro
esigenze di libertà e di autodeterminazione. E quindi si capisce come il processo
che in Occidente ha portato alla crisi della tradizione e al fallimento dell’idea di
un principio assoluto alla guida del mondo sia da giudicare come qualcosa di
necessario e di positivo, una tappa imprescindibile della lunga marcia
dell’umanità verso la libertà; esattamente come le scoperte astronomiche di
Copernico, Keplero e Galileo che superarono il geocentrismo, e poi quelle
successive che superarono l’eliocentrismo e il galattocentrismo, e che ora ci fanno
sentire sperduti nel cosmo, immersi in una insensata odissea nello spazio. Ma
meglio persi nel vuoto, che incatenati nell’illusione e nell’errore.
Ad accrescere il senso di vuoto vi sono le considerazioni sulla storia e il senso
del suo procedere, del resto la storia del pensiero mostra che la divisione
nell’interpretazione della natura si riproduce tale e quale nell’interpretazione della
storia. Gli stoici infatti, per i quali il mondo naturale era dominato dalla
provvidenza che scaturiva dal governo del logos, interpretavano le vicende
storiche nella medesima prospettiva razionale e tendevano a dedicarsi con
impegno alla vita politica e sociale, e come loro fece il più coerente filosofo
stoico della modernità, Hegel. Gli epicurei, al contrario, per i quali il mondo
naturale era in balìa di un’arbitraria casualità data dalla cieca caduta degli atomi
detta clinamen (Lucrezio, De rerum natura, II,216-219), negavano ogni traccia di
razionalità nella storia da cui tendevano a stare il più lontano possibile nel chiuso
del loro giardino, e come loro fece il più coerente filosofo epicureo della
modernità, Schopenhauer.
Il pensiero cristiano è sempre stato fortemente avverso alla prospettiva
epicurea («Suo cimitero da questa parte hanno / con Epicuro tutt’i suoi seguaci» –
Dante, Inferno, X,13-14), e anche se non mancarono critiche verso la pretesa
razionalità della storia come l’Elogio della follia di Erasmo da Rotterdam, esso in
grande maggioranza si orientò sempre verso la medesima prospettiva dello
stoicismo giungendo a quell’immenso abbraccio della storia mondiale in
prospettiva teologica che è il De civitate Dei di sant’Agostino. In questa pietra
miliare del pensiero cristiano si legge: «Egli che ha dato alla carne origine,
bellezza, forma, uno sviluppo fecondo, una disposizione delle membra, un
salutare accordo; Egli che ha dato all’anima irrazionale memoria, sensibilità,
istinto e a quella razionale spirito, intelligenza, volontà; Egli che non ha mancato
di fornire di un’armonia delle varie parti e in un certo senso quasi di una pace non
solo il cielo e la terra, l’angelo o l’uomo, ma persino le membra dell’animale
piccolo e trascurabile, le minuscole piume dell’uccello, il fiore di campo, il
fogliame dell’albero: ebbene, non si può assolutamente credere che questo Dio
abbia voluto privare delle leggi della sua provvidenza i regni degli uomini, i loro
domini e il loro servizio».7
La prospettiva agostiniana si ritrova nel pensiero di Tommaso d’Aquino («è
necessario dire che tutte le cose sottostanno alla divina provvidenza, considerate
non solo universalmente, ma anche singolarmente»8), viene portata a sistema
nella filosofia di Hegel («dobbiamo prendere in considerazione la storia
universale e quale sia il suo scopo finale: questo scopo finale è quanto Dio ha
voluto col mondo. Per questo scopo finale vengono celebrati tutti i sacrifici
sull’altare del mondo»9) e si può dire che fino al Novecento ha costituito la
modalità privilegiata con cui il cristianesimo pensava il rapporto tra Dio e la storia
degli uomini. Oggi però, sia a livello della natura sia a livello della storia, la
coscienza religiosa non ritrova più un punto di appoggio esterno a se stessa per
conciliare da un lato il governo divino sulla propria interiorità, per essa tanto
evidente, dall’altro la serie impressionante di eventi in balìa dell’arbitrio,
dell’irrazionalità, della fatalità, dell’ingiustizia che compongono la sequenza che
chiamiamo storia (degli uomini e di tutti i viventi).
Ne viene che l’amore quale senso ultimo della vita, e il primato del bene e
della giustizia che a livello etico ne consegue, si ritrovano non dico senza un
fondamento (che in quanto tale non vi sarà mai, perché senza gratuità l’amore non
potrebbe essere tale) ma dico senza una giustificazione al cospetto del mondo. La
domanda sorge quindi inevitabile: è degno di una persona responsabile, che
conosce com’è fatto e come va il mondo, impostare l’esistenza alla luce del
primato dell’amore, del bene e della giustizia?
Se infatti il mondo in se stesso è forza arbitraria come sostiene Nietzsche,
anche lo stile della vita nel mondo dovrebbe riprodurre tale forza arbitraria
configurandosi come lotta all’insegna dell’astuzia e volontà di potenza, non certo
come amore e dedizione al bene e alla giustizia. È solo se il mondo non è forza
arbitraria che impone se stessa a dispetto di qualunque logica, ma esprime al
contrario una logica all’insegna della relazione armoniosa, che prende senso una
vita in questo mondo all’insegna del bene e della giustizia. E io sono convinto che
la forza che ci spinge ad amare non sia solo nostra, nel senso di proprietà privata
appartenente a individui separati dagli altri e dal mondo, ma al contrario sia
l’espressione di una primordiale logica cosmica all’opera da sempre
nell’ammasso di energia che è il mondo.
Naturalmente questa affermazione suppone una particolare comprensione o
visione del mondo ed è precisamente questo l’oggetto del presente libro, che
intende contribuire a una ricostruzione della cosmologia, e conseguentemente a
una rinnovata filosofia della natura, nella convinzione dell’importanza decisiva di
tutto ciò per l’etica e la spiritualità. Ha scritto al riguardo lo scrittore inglese
David Herbert Lawrence (1885-1930): «Ciò che vogliamo è distruggere i rapporti
falsi e inorganici, specialmente quelli connessi al denaro, e ristabilire i legami
organici e vitali con il cosmo, con il sole e la terra, con l’umanità, la nazione e la
famiglia. Cominciamo con il sole e il resto gradualmente verrà». Ho trovato la
bella frase di Lawrence in un libro di Daisaku Ikeda, presidente dell’associazione
laica buddhista Soka Gakkai Internazionale, nel quale a poca distanza si legge:
«Al fine di superare la crisi di identità che mina la salute dell’umanità
contemporanea, suggerisco di sforzarci di elaborare una nuova cosmologia».10
La dottrina cristiana della creazione si deve profondamente rinnovare, facendo
comprendere come, nella sua essenza essa trasmetta l’idea che l’amore non è in
contraddizione con il lavoro del mondo, che l’amore non è contestazione o
trasgressione della logica che presiede la natura. Questa nuova dottrina della
creazione trasmette l’idea che l’amore, al contrario, è un risultato della logica che
presiede la natura, e non un risultato qualsiasi, ma l’applicazione più coerente,
perché la logica del mondo è orientata a una sempre maggiore aggregazione e
l’amore è il frutto più bello di tale orientamento. Ne viene che credere in un Dio
creatore del mondo (o per meglio dire nell’esistenza di una Realtà primaria
tradizionalmente detta Dio), e credere insieme che tale Dio o Realtà primaria nella
sua essenza sia amore, significa interpretare la forza che ci spinge ad amare come
l’espressione più profonda della quadruplice forza (gravitazionale,
elettromagnetica, nucleare forte, nucleare debole) che regge l’Universo.
È la prospettiva che apparve alla mente del protagonista del capolavoro di
Robert Musil, Ulrich, il quale un giorno si ritrovò a pensare così: «Si spreme il
vino dai grappoli, ma quanto più bello di una vasca piena di vino è il vigneto con
la sua terra grezza che non si mangia né si beve, e i pali di legno morto in lunghe
file baluginanti! “Insomma, il creato – egli pensò – non è sorto grazie a una teoria,
bensì...” e voleva dire per forza, ma s’intromise un’altra parola che egli non
s’aspettava e il suo pensiero si concluse così “... per amore e per forza, e la
congiunzione disgiuntiva fra queste due parole è sbagliata!”».11
L’amore è la forza più intensa che c’è, e riprodurla dentro e fuori di noi
significa entrare in comunione con il fondamento dell’essere.
2. Il principio dell’Universo
Friedrich Schleiermacher, professore all’università di Berlino ai tempi di
Hegel e di Schopenhauer, è il padre di quel modo di fare teologia che si definisce
«liberale», modello in cui io mi riconosco perché vuole unire la teologia alle
esigenze e agli ideali della libertà. In uno scritto esplicitamente rivolto agli
intellettuali del suo tempo che disprezzavano la religione, evidentemente già
allora abbastanza numerosi, egli giunse a delineare che cosa a suo avviso è
realmente in gioco nella scelta di condurre l’esistenza in prospettiva religiosa:
«Avere religione significa intuire l’Universo e su come lo intuite, sul principio
che scoprite nelle sue azioni, si fonda il valore della vostra religione».12
Schleiermacher collega la religione non alla storia, come avviene di solito in
Occidente, ma, scendendo più in profondità, alla natura, alla logica dell’Universo,
di cui egli invita a intuire il principio. Ma che cosa significa intuire il principio
dell’Universo?
Inizio e principio non sono la stessa cosa, già il latino significativamente
distingueva initium da principium. La differenza si coglie rispondendo alle
seguenti domande:
– qual è l’inizio dello Stato italiano?
– qual è il principio dello Stato italiano?
Nel primo caso la risposta è una data, il 1861, l’anno della fondazione dello
Stato unitario. Nel secondo caso la risposta è una legge, la Costituzione della
Repubblica, entrata in vigore il 1° gennaio 1948. L’inizio quindi rimanda a un
punto del tempo, il principio invece a una sfera di valori; l’inizio rimanda alla
storia, il principio alla filosofia. Non si tratta di due prospettive contrapposte, ma
semplicemente di dimensioni diverse, più ristretta la prima, più ampia la seconda.
Il principium si distingue dal mero initium perché non è solo ciò da cui si
origina un fenomeno, ma è anche la meta ideale verso cui tende il fenomeno nella
sua evoluzione: è cioè la forma che sottostà da sempre al fenomeno perché esso
sia tale e che, qualora venisse meno, lo farebbe decadere. L’inizio si può
paragonare al suono della campanella prima della lezione, al colpo di pistola che
fa scattare gli atleti dai blocchi di partenza, alla sveglia che al mattino apre la
giornata... tutti eventi che, una volta avvenuti, non hanno più nulla a che fare con
il fenomeno messo in moto. Il principio, invece, accompagna sempre il fenomeno:
l’esempio è l’amore tra due esseri umani, che è il principio della loro unione nel
senso che ne è la causa iniziale, ma è anche la forza che li sorregge nel tempo e la
meta verso cui camminano. Il principio si radica nel passato, sostiene il presente,
abbraccia il futuro. Ed è per questo senso globalmente orientativo del principio
che i valori che guidano l’esistenza di un essere umano si dicono principi.
Se quindi il senso teoretico del termine «principio» rimanda a una logica che
informa di sé il fenomeno in ogni istante, la domanda è: guardando al mondo
(inteso come natura + storia, la piccola parte di Universo che a noi è dato
sperimentare), quale possiamo dire che sia il suo principio? Che cosa l’ha
costituito, che cosa lo tiene insieme e lo muove, che cosa lo attrae e ne costituisce
la meta?
Schleiermacher affermava che «avere religione significa intuire l’Universo»,
significa cioè scoprire quale «principio» lo muove, il che porta a considerare che
la religione, con la vita spirituale che essa dischiude, è una modalità particolare di
percepire e interpretare la vita del mondo.
Rispondere alla domanda sul principio dell’Universo è quindi molto
importante per il pensiero, anzi, si potrebbe dire che il compito principale del
pensiero consiste proprio nel fornire una risposta al riguardo, ripetendo, con
Eraclito, che «un’unica cosa è la saggezza, comprendere la ragione per la quale
tutto è governato attraverso tutto».13 Il pensiero deve avere fiducia in se stesso,
senza temere di affrontare la domanda che da sempre l’ha suscitato e che mai
potrà essere risolta, quella sulla ragione che nel passato ha messo in moto questa
stupefacente organizzazione di energia e di materia che è il mondo, e che al
presente la fa sussistere impedendole di sprofondare nel caos e nel futuro
costituirà la meta del suo immenso lavoro.
Nessuno può rispondere a questa domanda con la pretesa di raggiungere la
certezza del sapere, perché nessuno, quanto al mondo e al suo principio, dispone
del sapere necessario. Vi è piuttosto un groviglio di dati, alcuni sicuramente esatti
allo stato attuale delle conoscenze, altri probabilmente esatti, altri solo ipotetici,
altri che ieri erano esatti, oggi non più e domani chissà, tutti in ogni caso
irriducibili nella loro totalità a un sistema compiuto e quindi tali da impedire ogni
pretesa totalizzante della mente. È la situazione di sempre al cospetto della
questione sul principio dell’Universo, non a caso già Aristotele osservava: «Sulla
questione se ci debba essere un unico principio, o se debbano essere molti, e
quanti, e sulla loro specie, non tutti dicono la medesima cosa».14
Per questo la risposta sul principio dell’Universo dipende non solo dalla
ragione ma anche e soprattutto dal sentimento, dal modo in cui ognuno sente la
vita, dall’emozione vitale che ognuno si porta dentro, dalla disposizione di fondo
rispetto all’esistenza e dalla pratica di vita che ne consegue. La questione è così
radicale e così intima da attraversare e scompaginare gli schieramenti consueti,
così che si danno credenti che, rispetto al mondo e al suo principio, condividono il
medesimo sentimento di atei o di credenti di altre religioni. Per fare un esempio
che concerne il passato, si consideri che l’ebreo Qohelet presenta una filosofia di
vita molto più vicina a quella del greco Epicuro e del latino Lucrezio che non a
quella dell’ebreo Gesù ben Sira detto anche Siracide o a quella che scaturisce dal
libro dei Proverbi, i quali risultano invece molto più affini alla filosofia degli
stoici. Per fare un esempio che invece interessa il presente, si consideri che per il
fisico Steven Weinberg l’Universo risulta del tutto assurdo («quanto più
l’universo ci appare comprensibile, tanto più ci appare senza scopo»15), mentre
per il fisico Freeman Dyson esso è perfettamente sintonizzato per produrre la vita
e l’intelligenza («quanto più lo esamino e studio i particolari della sua
architettura, tanto più numerose sono le prove che l’Universo, in un certo senso,
doveva già sapere che saremmo arrivati. Nelle leggi della fisica nucleare vi sono
alcuni esempi molto singolari di coincidenze numeriche che paiono essere
accordate tra loro per rendere l’universo abitabile»16), il che indica che neppure il
rigore della ricerca scientifica è in grado di produrre un unico punto di vista da cui
generare una visione completa e oggettiva del tutto.
Se non c’è la risposta, c’è però la possibilità di passare in rassegna le risposte
concepite dagli esseri umani. Esse ovviamente sono moltissime e del tutto diverse
tra loro così che per un’esposizione analitica non basterebbero le pagine di questo
libro: però io penso che nei loro tratti principali le ipotesi sul senso complessivo
del mondo si possano compendiare riflettendo sui racconti cosmogonici delle
grandi tradizioni spirituali dell’antichità. Le antiche cosmogonie infatti presentano
un forte spessore filosofico perché, parlando dell’inizio del mondo, esibiscono in
realtà il senso teoretico di principio: nelle loro ipotesi di ricostruzione dell’inizio
cronologico condensano l’esperienza di interi popoli alle prese con il senso da
dare all’esistenza. Dentro ogni ricostruzione mitica della nascita del mondo è
depositata una precisa filosofia sul senso dell’essere e della vita. L’aveva visto già
Aristotele: «Anche colui che ama i miti è in certa misura filosofo, perché il mito è
costituito da cose che destano meraviglia».17 Esercita veramente il pensiero,
sostiene Aristotele, chi non smette mai di meravigliarsi della vita, del fatto che
esiste in questo Universo qualcosa di così straordinario come la vita. E
naturalmente, come precisava Karl Jaspers, ciò che parla nei miti «non lo ascolta
alcun intelletto che voglia una reale esperienza sensibile e una dimostrazione, ma
l’ode solo la libertà dell’esistenza cui in questo parlare si partecipa la
trascendenza».18 Occorre cioè liberarsi dalle strettoie del materialismo che,
parlando dell’Universo, vuole ridurre ogni cosa a dimostrazione, e sentire la
potenza spirituale della libertà che produce pensiero non dimostrando ma
mostrando l’intuizione del principio che informa l’Universo.
Prima però di passare in rassegna gli orientamenti fondamentali in base ai
quali ho suddiviso le antiche cosmogonie, penso sia opportuno affrontare
un’obiezione che di certo sarà già sorta nella mente di qualche lettore.
3. Obiezione
Al ragionamento esposto finora qualcuno potrebbe obiettare che la domanda
sul principio non ha nessun senso, perché tale domanda non fa che rispecchiare un
retaggio metafisico dietro cui si cela il desiderio della mente di avere un punto di
appoggio, mentre in realtà non c’è nessun punto di appoggio, da nessuna parte,
siamo tutti racchiusi all’interno di una fluttuazione cosmica senza imbarco e senza
sbarco, senza inizio e senza fine, un flusso di generazione e di degenerazione, di
espansione e di contrazione, che non fa distinzione tra gas, pietre, stelle, uomini,
animali. È la conclusione cui giunge il già citato Steven Weinberg, Nobel per la
fisica nel 1979, alla fine del suo libro più famoso, I primi tre minuti, sottotitolo
Una visione moderna dell’origine dell’Universo: «Negli esseri umani c’è
un’esigenza quasi irresistibile di credere che noi abbiamo un qualche rapporto
speciale con l’Universo, che la vita umana non sia solo il risultato più o meno
curioso di una catena di eventi accidentali risalenti fino ai primi tre minuti, che la
nostra esistenza fosse in qualche modo preordinata fin dal principio. Mentre
scrivo queste righe mi trovo su un aereo che vola a 9000 metri di quota nel cielo
del Wyoming, diretto da San Francisco a Boston. Sotto di me la Terra mi appare
dolce e confortevole: qua e là sono sospese soffici nuvole, che il sole declinante
tinge di rosa; la campagna è attraversata da strade rettilinee che collegano una
città all’altra. È molto difficile rendersi conto che tutto ciò è solo una piccola
parte di un Universo estremamente ostile. Ancora più difficile è rendersi conto
che l’Universo attuale si è sviluppato a partire da condizioni indicibilmente
estranee e che sul suo futuro incombe un’estinzione caratterizzata da un gelo
infinito o da un calore intollerabile». Segue la dichiarazione divenuta celebre:
«Quanto più l’Universo ci appare comprensibile, tanto più ci appare senza
scopo». Weinberg concludeva così: «Ma se non c’è conforto nei risultati della
nostra ricerca, c’è almeno qualche consolazione nella ricerca stessa. Gli uomini e
le donne non si accontentano di consolarsi con miti di dei e di giganti o di
restringere il loro pensiero alle faccende della vita quotidiana; costruiscono anche
telescopi e satelliti e acceleratori, e siedono alla scrivania per ore interminabili nel
tentativo di decifrare il senso dei dati che raccolgono. Lo sforzo di capire
l’Universo è tra le pochissime cose che innalzano la vita umana al di sopra del
livello di una farsa, conferendole un po’ della dignità di una tragedia».19
Si tratta di parole molto belle, dalle quali promana un senso di austera nobiltà,
che si avvicina a quella che si avverte nelle liriche di Leopardi o negli scritti di
Camus. Vorrei però fare due annotazioni. La prima è che, se avesse ragione
Weinberg, sarebbe veramente incomprensibile come da un Universo senza senso
siano potuti sorgere dei grandi cercatori di senso come gli esseri umani, compresi
quelli che «siedono alla scrivania per ore interminabili nel tentativo di decifrare il
senso dei dati che raccolgono». Com’è possibile che un Universo del tutto
insensato abbia generato esseri così affamati di senso? Naturalmente si può
benissimo replicare che precisamente questo fatto è l’assurdità, ma a mio avviso è
più ragionevole pensare che il senso di cui è affamata la mente umana sia già una
proprietà dell’Universo che nella mente umana trova la più alta manifestazione
conosciuta. Il punto, in altri termini, è il rapporto tra mente e mondo, un rapporto
che può essere disorganico e persino di opposizione, come nella visione di
Weinberg, oppure organico, come nelle visioni filosofiche e religiose che
sostengono la comune derivazione del mondo e dell’uomo da un processo
chiamato creazione.
La seconda annotazione riguarda il rapporto fede-scienza e parte dall’osservare
che l’epilogo del libro di Weinberg appartiene a una disciplina diversa rispetto a
quella che aveva guidato la stesura dei capitoli. Nell’epilogo infatti la fisica cede
il posto alla filosofia, alla prospettiva globale con cui Weinberg interpreta i dati
fisici esposti in precedenza. Dai medesimi dati però può derivare una visione del
mondo molto diversa, compatibile con la fede in Dio e con una filosofia
all’insegna non dell’assurdo ma del senso. Lo prova il fatto che accanto a
Weinberg, a Stoccolma, tra i premiati con il Nobel per la fisica del 1979 vi era
Abdus Salam, primo pakistano nonché primo musulmano a ricevere l’insigne
premio, sincero credente in Dio, tanto che nel discorso della cerimonia non esitò a
citare il Corano.
Weinberg e Salam, insieme all’ebreo americano Sheldon Lee Glashow che era
il terzo premiato e di cui non mi è noto l’orientamento filosofico-religioso, hanno
dato un importante contributo alla formazione dei modelli fisici oggi più
accreditati per la spiegazione delle forze fondamentali del cosmo, ed è molto
significativo considerare come, a partire dai medesimi dati scientifici, siano giunti
a visioni del mondo, e del senso della vita dell’uomo all’interno di esso, pressoché
opposte. Desidero precisare, per non dimenticare la cecità in cui può incorrere una
certa modalità di vivere la religione, che Abdus Salam apparteneva al movimento
islamico Ahmadiyya, una confessione considerata eretica dall’ortodossia islamica,
e che ciò produsse un caso abbastanza curioso: quando infatti Abdus Salam nel
1996 morì, sulla sua tomba venne scritto in inglese First Muslim Nobel Laureate
(Primo Premio Nobel Musulmano), ma ben presto le zelanti autorità pakistane
fecero cancellare la parola Muslim, lasciando così la frase in balìa del ridicolo
considerando che il premio Nobel iniziò a essere assegnato nel 1901.
Premiati con il riconoscimento scientifico più importante del mondo nel
medesimo anno e per la medesima scoperta, Weinberg e Salam vedevano la vita e
il suo senso in modo del tutto diverso, chiara attestazione dell’antinomia cui la
ragione teoretica è dolorosamente destinata. In questa prospettiva si spiega come
per alcuni non abbia alcun senso porsi alla ricerca del principio perché ritengono
che principio non c’è, mentre per altri la ricerca della logica fondamentale alla
guida dell’essere-energia costituisca un richiamo insopprimibile, un bisogno
radicale della mente e del cuore, perché sentono che un principio di tutte le cose
esiste e intendono indagarlo.
Ora però è tempo di affrontare la domanda sulla logica che ha portato l’energia
primordiale a generare questo mondo, e la prima tappa di questa ricerca del
principio ci porterà sulle più antiche vie percorse dall’umanità, al tempo in cui si
elaborava il pensiero mediante le immagini del mito.
II. COSMOGONIE
4. «Com’è profondo il mare»
Parlando dell’inizio del mondo, gli antichi racconti cosmogonici esibiscono in
realtà il senso teoretico di principio, così che dietro ogni ricostruzione mitica
dell’evento primordiale all’origine del mondo si nasconde una filosofia della vita,
della natura, del senso complessivo dell’essere, di ciò che con una parola sola la
lingua tedesca chiama Weltanschauung, «visione del mondo». Prima di ogni altra
considerazione occorre sottolineare che in tutte le antiche cosmogonie c’è un dato
comune che si impone da subito per la sua universalità e che colpisce la mente
andandone a toccare gli strati più profondi: la primordialità dell’elemento acqua.
Nella totalità delle cosmogonie da me conosciute, infatti, l’acqua viene concepita
come l’elemento originario, cosmico e divino al contempo, che precede la vera e
propria origine di tutte le cose e spesso ne costituisce la materia base. Si tratta di
un dato presente almeno presso i seguenti popoli:
– sumeri: il nome della dea primordiale Nammu, «la madre che generò il Cielo
e la Terra» e «l’ava che partorì tutti gli Dèi», è scritto con il medesimo segno
utilizzato per il mare;1
– egizi: i miti cosmogonici dell’antico Egitto «hanno in comune l’idea di un
oceano primordiale indistinto, o Nun»,2 e la fine di tutte le cose consisterà nel
ritorno all’oceano primordiale dell’origine, così che Nun sarà anche lo stato finale
del mondo secondo le parole del Dio supremo Atum: «Ma poi distruggerò tutto
ciò che ho creato. La terra apparirà di nuovo come Nun, come oceano, come nel
principio»;3
– babilonesi: la coppia divina primordiale del dio Apsu e della dea Tiamat è la
personificazione rispettivamente delle acque dolci e delle acque salate;
– assiri: «Le acque superiori e inferiori erano là prima che il cielo e la terra
ricevessero nomi»;4
– ebrei: in Genesi 1,2 si nominano tehom e mayim, l’abisso e le acque
primordiali, già esistenti prima della creazione vera e propria che inizia in Genesi
1,3 con la creazione della luce; si legge in un Salmo: «Ti videro le acque, o Dio, ti
videro le acque e ne furono sconvolte; sussultarono anche gli abissi» (Salmo
77,17). Acque (mayim) e abissi (tehomim) simboli del caos primordiale, vedono
Dio, si ritraggono e ha inizio il mondo conosciuto (vedi anche Salmo 93,3-4 e
Salmo 104,7 e 9).
– hindu: recita un antico inno vedico: «All’inizio c’era la tenebra nascosta
dalla tenebra; l’Universo era acqua salsa senza forma distinta»;5
– cinesi: così un frammento cosmogonico scoperto di recente: «Il Supremo
Uno genera l’acqua» (shui);6
– greci: Omero nomina «Okeanós, padre degli Dei» in Iliade XIV,201 e la
medesima tradizione è riportata da Platone in Cratilo, 402 B e da Aristotele in
Metafisica, I,983 B.
Un’eco di tutto ciò risuona nella prima canzone composta da Lucio Dalla,
Com’è profondo il mare, nell’omonimo album del 1977. A questo dato archetipale
è peraltro possibile affiancare quanto oggi attesta la ricerca scientifica, al cui
proposito riporto tre testimonianze:
– Gerald Schroeder, fisico: «La vita della cellula si svolge in un mare di acqua,
dentro e fuori. Il comune denominatore di tutte le forme di vita conosciute è che
sono basate sull’acqua»;7
– George M. Whitesides, chimico: «Ogni forma di vita, per quanto ne
sappiamo, implica molecole e sali dissolti o organizzati in un medium che il più
delle volte è acqua. Noi non sappiamo se l’acqua è essenziale per ogni vita o solo
per la vita che conosciamo. Ma al momento non conosciamo eccezioni: la vita
avviene nell’acqua»;8
– Christian de Duve, biologo: «Io ho adottato l’opinione, difesa da vari
specialisti, che la vita abbia avuto probabilmente inizio in acque vulcaniche
calde».9
La primordialità dell’acqua vale anche per ognuno di noi, perché anche noi,
esattamente come la superficie del nostro pianeta, siamo soprattutto acqua, il
nostro concepimento e la nostra gestazione sono avvenuti in ambiente liquido e
noi siamo venuti al mondo in seguito a una «rottura delle acque». Siamo acqua a
livello corporeo, dove l’acqua costituisce circa il settanta per cento
dell’organismo, e lo siamo a livello psichico per la liquida fluidità del sentimento,
mentre ciò che chiamiamo ragione è paragonabile a una piccola isola circondata
dalla ben più vasta dimensione del sentimento nella quale si intrecciano emotività,
pulsioni, fobie, passioni, istinto, inconscio e tutte le altre peculiarità che nel loro
insieme costituiscono il peso specifico di ogni essere umano (ne viene, come
osservava Shakespeare, che «la ragione fa da ruffiana al desiderio»;10
constatazione ripetuta da Pascal: «Ridicola ragione che il vento piega in tutte le
direzioni»).11
Il dato delle antiche cosmogonie sulla primordialità dell’acqua ci porta a
pensare alla nostra esistenza come a un corso d’acqua, del quale l’attimo in cui il
seme di nostro padre fecondò il seme di nostra madre è la sorgente, una sorgente
sotterranea venuta alla luce al momento del parto e che ha generato prima l’esile
ruscello dell’infanzia, poi il torrente impetuoso della giovinezza, poi il placido
scorrere dell’età adulta quando il corso d’acqua acquista propriamente il nome di
fiume, infine il necessario sbocco nel più vasto mare dell’essere al momento della
morte. In mezzo a questo fiume della vita la ragione si potrebbe paragonare a
un’imbarcazione, dotata sì di fondamento solido su cui poggiare i piedi, ma
insieme esposta alla forza dei venti e delle acque. Sto dicendo che il pensiero
razionale è necessario, perché c’è bisogno di terreno solido sotto i piedi, cioè di
principi, orientamenti e anche di norme e di divieti; ma al contempo che il
pensiero deve essere tale da non interrompere mai la circolazione della mente
sulle acque della vita privandola di energia vitale. Ciò significa che abbiamo la
necessità di una dottrina e di un’etica, ma di una dottrina e di un’etica come
sistema aperto, che rifiuti il dogmatismo inteso come abito mentale che procede
solo sulla base del principio di autorità («sta scritto», «l’ha detto il papa»).
Occorre al contrario un discernimento continuo per capire come operare in ogni
situazione nel miglior modo possibile in favore del bene del mondo, introducendo
anche nel cristianesimo la consapevolezza che deriva dallo stupefacente dato
primordiale sul primato dell’acqua conformemente al consiglio di Lao-tzu: «La
via giusta è simile all’acqua che, adeguandosi a tutto, a tutto è adatta».12 Ciò a
cui la teologia si deve adattare è la vita concreta degli esseri umani nelle concrete
situazioni che sono chiamati ad affrontare.
Ora passo all’esposizione delle antiche cosmogonie, classificate secondo gli
orientamenti filosofici da me individuati:
– logos, ovvero progetto;
– caos, ovvero caso;
– colpa, ovvero catastrofe;
– vita, ovvero vitalità.
Partirò dal punto di vista più radioso, dallo splendore del logos che genera
logica.
5. Logos - progetto
Secondo quel grande conoscitore del greco antico che è stato Carlo Maria
Martini, «la parola lógos è una parola disperante, perché forse è la parola greca
che ha più significati: la mente, la ragione, il conto della spesa e molte altre cose
ancora estremamente disparate». Tra i molteplici significati però ce n’è uno,
secondo Martini, che emerge in primo piano per la sua evidenza, ed è «il lógos
delle cose, cioè la ragione ultima d’essere della realtà».13
Il concetto di logos si stende sull’insieme della realtà generando logica: lo fa
anzitutto a livello etimologico (logos da cui logica), ma poi anche e soprattutto a
livello filosofico in quanto visione complessiva del mondo. Il concetto di logos
interpreta la logica con cui si muove la natura all’insegna di un grande ottimismo,
perché esso sottolinea che tutti gli enti sono buoni e ordinati tra loro, sono pensati
e voluti come parole di un grande discorso, e lógos infatti significa sia «parola»
sia «discorso» (significa anche «ragione», nel duplice senso di facoltà di
ragionare e di motivo, e poi «calcolo», «rapporto», «legame»...).
A livello filosofico sono stati soprattutto gli stoici a farsi interpreti del concetto
di logos, da loro considerato anzitutto come «fuoco artefice», laddove il fuoco,
diremmo oggi, è una rappresentazione dell’energia; di tale logos essi vedevano la
valenza cosmologica nella formazione del mondo e la valenza provvidenziale nel
governo della natura e della storia (da qui i concetti di heimarméne, destino, e di
prónoia, provvidenza). Il vertice però si raggiunge con il neoplatonico Plotino, per
il quale tutto è logos: arché lógos kai pánta lógos, «il logos è principio ed è
tutto»,14 posizione contrassegnata dagli studiosi come «panlogismo».
Ovviamente Plotino era ben consapevole dell’obiezione secondo cui molte cose
nella vita quotidiana non appaiono come dovrebbero essere in un mondo
governato secondo ragione, ma egli rispondeva che guardando ai fenomeni si
deve considerare non solo il loro presente ma anche il loro passato: «Si deve
guardare per ciascun essere non solo al suo stato presente, ma ai suoi periodi
passati ed anche al suo avvenire».15 Ne viene che se uno nasce schiavo è perché
nel passato è stato un cattivo padrone, se nasce povero è perché ha amministrato
male le ricchezze, se viene ucciso è perché lui stesso a sua volta ha ucciso: «Non
per caso si è schiavi o prigionieri o si subiscono delle violenze, ma perché si sono
compiuti una volta quegli atti che ora si devono subire. Chi ha ucciso la propria
madre rinascerà donna per essere uccisa dal figlio, chi ha violentato una donna
rinascerà donna per essere violentata [...] questo è ordine veramente inevitabile,
vera giustizia, ammirabile saggezza».16 E subito di seguito: «Bisogna ammettere
che l’ordine dell’Universo è tale da estendersi a tutte le cose che vediamo e che
esso si estende anche alle più piccole; quest’arte ammirabile non regna soltanto
nelle cose divine ma anche in quegli esseri che potremmo credere disprezzati
dalla provvidenza per la loro esiguità: e veramente meravigliosa è la varietà in
qualsiasi essere vivente, fino alle piante stesse che sono tanto belle nei loro frutti e
fronde, con i loro fiori appena sbocciati, coi rami agili e multiformi; tutte queste
cose non sono state create una volta per poi cessare, ma sono create
continuamente sotto l’influsso degli astri che non mantengono sempre, rispetto a
esse, le loro posizioni. Tutti gli esseri che così cambiano e si trasformano non si
mutano per caso, ma secondo le norme della bellezza e come conviene agiscono
le potenze divine. Il divino infatti agisce sempre secondo la sua natura, e la sua
natura dipende dalla sua essenza, e la sua essenza esplica nelle sue azioni la
bellezza e la giustizia».17
Questa prospettiva ha un indubbio fascino per la mente alla ricerca dell’ordine,
e ha anche un notevole potere rassicurante per la vita della psiche. Penso sia per
questo che a partire dagli stoici e da Plotino il principio-logos ha generato
filosofie quali quelle di Spinoza, Leibniz e Hegel, tese ad affermare che «per
realtà e perfezione intendo la medesima cosa» (Spinoza), che questo mondo è «il
più perfetto tra tutti i mondi possibili» (Leibniz) e che «ciò che è razionale è reale,
e ciò che è reale è razionale» (Hegel).18
Si tratta di una prospettiva che possiede anche un’indubbia valenza politica,
perché la proclamazione di un mondo che si basa su un ordine che discende
dall’alto favorisce l’instaurazione di istituzioni politiche a loro volta basate su un
ordine che discende dall’alto, e non a caso i sostenitori del principio-logos, fatta
eccezione per Spinoza, hanno sempre avuto intense simpatie per i regimi forti.
Già nell’antico Egitto il potere assoluto del faraone aveva sviluppato una
cosmogonia del tutto coerente con la sua teologia politica, come dimostra questo
antichissimo testo rinvenuto nei cunicoli interni delle piramidi, per la cui
comprensione si tenga presente che Atum è uno dei nomi del Dio supremo:
Il faraone defunto fu generato da suo padre Atum
quando il cielo ancora non era,
quando la terra ancora non era,
quando gli uomini ancora non esistevano,
quando ancora non erano stati generati gli dei,
quando ancora non esisteva neppure la morte.19
Questa primordialità del faraone porta la mente a pensare en arché en tò krátos,
«in principio era il potere», il che non è altro che un’ulteriore modalità,
decisamente più concreta, per esprimere l’ordine quale legge suprema delle cose.
La Bibbia inizia così: «In principio Dio creò» (Genesi 1,1), e con questo
incipit dichiara una totale signoria divina sul mondo, nel senso che ogni cosa
viene colta in una relazione di intima dipendenza da Dio in quanto da lui
direttamente proviene (anche se in realtà, come mostrerò in seguito, le cose nella
Bibbia sono molto più complesse perché Genesi 1,2 introduce fin da subito
l’oscuro elemento del caos). Costituendo la prima programmatica parola della
Bibbia, il termine «principio» di Genesi 1,1 (in ebraico reshit) corrisponde qui sia
al cronologico «inizio», con cui viene ricondotta a Dio l’origine di tutte le cose,
sia al senso proprio di «principio», con cui si intende dichiarare la sensatezza
della vicenda cosmica sottoposta al governo ininterrotto di Dio in quanto da lui
viene (creatio prima), da lui è sostenuta (creatio secunda o continua) e verso lui va
(escatologia e palingenesi). Il fatto che all’inizio di tutte le cose vi sia Dio con la
sua intenzione creatrice porta a considerare il presente in cui viviamo e il futuro
verso cui andiamo con fiducia e ottimismo.
Individuare nel logos l’inizio e il principio del mondo significa considerare
ogni singolo ente del mondo a sua volta come logos, un piccolo logos progettato e
plasmato dal grande logos originario; e significa di conseguenza considerare
anche l’insieme degli enti del mondo, cioè la natura, come logos, come discorso
che manifesta la benevolenza e la provvidenza di un disegno originario. Non sono
pochi i testi della Bibbia ebraica che si inseriscono in questa prospettiva, tra essi il
Salmo 19: «I cieli narrano la gloria di Dio, l’opera delle sue mani annunzia il
firmamento. Il giorno al giorno ne affida il racconto e la notte alla notte ne
trasmette notizia» (Salmi 19,2-3; si vedano anche i Salmi 93, 104, 147). In questa
prospettiva si legge nel libro della Sapienza: «Egli ha creato tutte le cose perché
esistano, le creature del mondo sono portatrici di salvezza, in esse non c’è veleno
di morte» (Sapienza 1,14).
Ma se ogni singolo ente naturale è logos, e se l’insieme degli enti naturali in
quanto rerum natura è a sua volta logos, ciò dipende anzitutto dal fatto che lo
stesso atto divino della creazione è avvenuto come logos: infatti, secondo questa
prospettiva Dio ha creato il mondo mediante la sua parola, in ebraico dabar Yhwh,
in greco lógos toû Theoû. La parola divina è potenza creatrice, Dio crea parlando:
«Dio disse: Sia la luce!, e la luce fu» (Genesi 1,3), un dire che si ripete nove volte
nel racconto dei sei giorni della creazione, i quali vengono scanditi dal comando
divino («Dio disse») e dall’immediata realizzazione («E così avvenne»). Vi sono
altri passi biblici che insistono sulla potenza creatrice della parola di Dio, tra essi
il Salmo 33 al versetto 6: «Dalla parola del Signore furono fatti i cieli», e al
versetto 9: «Egli parlò e tutto fu creato».
Contrariamente però a chi ritiene che la creazione mediante parola sia
caratteristica essenziale ed esclusiva del Dio della Bibbia (Heinrich Gross la
definisce «la differenza caratteristica nei confronti delle dottrine dell’Antico
Oriente sulla formazione del mondo»20), occorre dire da un lato che la Bibbia
presenta l’azione creatrice di Dio anche come quella di un vasaio che plasma
mediante le mani (per esempio Isaia 45,11-12: «Volete interrogarmi sul futuro dei
miei figli e darmi ordini sul lavoro delle mie mani? Io ho fatto la terra e su di essa
ho creato l’uomo, io con le mani ho dispiegato i cieli»), e dall’altro lato che anche
altre culture conoscono l’idea della creazione divina mediante la parola:
– nell’antico Egitto «l’antichissima teologia di Menfi immaginava il mondo
creato dal dio Ptah con il pensiero, mediante il cuore e la lingua, cioè la volontà e
la parola»;21
– nell’antica Persia secondo Zarathustra il dio Ahura Mazda creò il mondo con
il pensiero;22
– in India la B?had?ra?yaka-upani?ad «spiega come il mondo abbia avuto
origine dall’unione della Mente con la Parola»;23
– nel Corano vi è una formula ripetuta otto volte secondo cui «Dio crea ciò che
vuole: quando ha deciso una cosa, non ha che da dire “Sii!” ed essa è».24
Ne viene quanto Mircea Eliade sintetizza a proposito dell’antico Egitto ma che
vale anche per altre tradizioni: «La teogonia e la cosmogonia sono attuate dalla
forza creatrice del pensiero e della parola di un solo dio [...] al principio della
storia egizia si trova una dottrina che può essere avvicinata alla teologia cristiana
del Logos».25
Nel cristianesimo il principio-logos trova la sua consacrazione nel celebre
incipit del Quarto Vangelo: En arché en ho lógos, «In principio era il logos»
(Giovanni 1,1). Joseph Ratzinger ha scritto che si tratta dell’affermazione più
importante tra tutti i 7956 versetti del NT greco: «Nell’alfabeto della fede, al
posto d’onore è l’affermazione In principio era il Logos; la fede ci attesta che
fondamento di tutte le cose è l’eterna Ragione».26 Qui Ratzinger traduce lógos
non con «verbo» o «parola», com’è consueto nella tradizione cristiana, ma con
«ragione», aggiungendo l’aggettivo «eterna» assente nell’originale greco, così da
avere die ewige Vernunft, l’eterna Ragione (il maiuscolo, che in tedesco
accompagna sempre i sostantivi, in questo caso è d’obbligo anche in italiano). Per
dare pienezza al significato di lógos, Ratzinger aggiunge l’aggettivo «eterna» al
sostantivo «ragione», facendo comprendere che dicendo lógos-ragione non si
rimanda a una proprietà della mente umana, ma, ben più in profondità, a una
proprietà eterna del mondo, immessavi dalla mente divina con l’atto stesso della
creazione, e che, manifestandosi nell’uomo, ne segnala l’appartenenza a un ordine
più ampio.
Nella sua opera più nota, Introduzione al cristianesimo, si ritrovano
affermazioni da cui emerge nel modo più esplicito la decisiva importanza che per
Ratzinger riveste il concetto di logos: «Credere cristianamente significa intendere
la nostra esistenza come risposta al Verbo, al Logos che sostiene e mantiene in
essere tutte le cose»; e ancora: «Io credo in te, Gesù di Nazaret, che considero
quale senso (“logos”) del mondo e della mia vita». Vi è persino un paragrafo
apposito intitolato Il primato del logos, il cui passaggio più significativo è a mio
avviso il seguente: «La fede cristiana in Dio comporta innanzitutto una decisione
per la preminenza del logos sulla pura materia. L’affermare: “io credo che esiste
un Dio” include l’opzione in favore dell’idea che il logos, ossia il pensiero, la
libertà, l’amore non si trovano soltanto al termine del tutto, ma anche al principio:
si ammette senza esitazione che questo logos rappresenti la potenza originante e
comprensiva di ogni essere». E ancora, qualche pagina più avanti: «La fede
cristiana in Dio è in primo luogo opzione per il primato del logos, fede nella realtà
del senso creativo che antecede e sostenta il mondo».27
In un contributo più recente che riproduce una lezione tenuta alla Sorbona a
Parigi il 27 novembre 1999, Ratzinger ribadisce il suo pensiero con la solita
encomiabile chiarezza: «Si tratta di sapere se la ragione, o il razionale, si trova o
no al principio di tutte le cose e a loro fondamento. Si tratta di sapere se il reale è
nato sulla base del caso e della necessità [...] e quindi da ciò che è senza ragione;
se, in altri termini, la ragione è un casuale prodotto secondario dell’irrazionale,
insignificante, alla fine, nell’oceano dell’irrazionale, o se resta vera quella che è la
convinzione fondamentale della fede cristiana e della sua filosofia: In principio
erat Verbum – al principio di tutte le cose c’è la forza creatrice della ragione. La
fede cristiana è, oggi come ieri, l’opzione per la priorità della ragione e del
razionale». Poco sotto, parlando dell’opzione filosofica del cristianesimo
primitivo, sviluppa il passaggio decisivo ponendo una perfetta equivalenza tra
logos e amore: «Il primato del Logos e il primato dell’amore si rivelavano
identici, il Logos non appariva più solo come ragione matematica alla base di
tutte le cose ma come amore creatore», di modo che «l’amore e la ragione
coincidono in quanto veri e propri pilastri fondamentali del reale: la ragione vera
è l’amore e l’amore è la ragione vera. Nella loro unità essi sono il vero
fondamento e il fine di tutto il reale».28
Il 23 febbraio 2013, al termine della settimana di esercizi spirituali in Vaticano
predicati dal cardinale Gianfranco Ravasi e quando già aveva annunciato le
dimissioni dal ministero petrino che sarebbero diventate operative una settimana
dopo, Benedetto XVI tenne un breve discorso all’interno del quale disse: «Mi è
venuto in mente il fatto che i teologi medievali hanno tradotto la parola logos non
solo con verbum, ma anche con ars: verbum e ars sono intercambiabili. Solo nelle
due insieme appare, per i teologi medievali, tutto il significato della parola logos.
Il Logos non è solo una ragione matematica: il Logos ha un cuore, il Logos è
anche amore. La verità è bella, verità e bellezza vanno insieme: la bellezza è il
sigillo della verità».
Proseguendo tuttavia Benedetto XVI giunse a sottolineare un elemento che
differenzia il cristianesimo dallo stoicismo e dal neoplatonismo antichi e moderni.
Dopo aver detto infatti che il «molto bello» pronunciato dal Creatore al termine
della creazione «è permanentemente contraddetto in questo mondo dal male, dalla
sofferenza, dalla corruzione», continuava: «Sembra quasi che il maligno voglia
permanentemente sporcare la creazione, per contraddire Dio e per rendere
irriconoscibile la sua verità e la sua bellezza». Il riferimento è alla presenza del
male, anzi alla dimensione personale del male, denominata da Benedetto XVI «il
maligno». Per questo, proseguiva, «il Logos incarnato è coronato con una corona
di spine; e tuttavia proprio così, in questa figura sofferente del Figlio di Dio,
cominciamo a vedere la bellezza più profonda del nostro Creatore e
Redentore».29
Il principio-logos, secondo la specifica comprensione cristiana, si scontra da
subito con il problema del male, con quanto di più anti-logico ci possa essere, e
assume su di sé il dolore e la sofferenza degli innocenti. Tutto ciò genera nella
mente due questioni che non cessano di tormentare la coscienza cristiana: 1) da
dove vengono, nel mondo retto dal logos, il male, la sofferenza e la corruzione? 2)
come si concilia l’onnipotenza divina con la presenza del male?
La prospettiva tradizionale risponde alla prima domanda dicendo che il male e
la sofferenza si originano in seguito a un peccato da parte del primo uomo e prima
ancora da parte del primo degli angeli, e per questo parla del male in termini
personali definendolo «il maligno». E risponde alla seconda domanda dicendo,
con le parole di sant’Agostino fatte proprie dal Catechismo attualmente in uso,
che Dio onnipotente «non permetterebbe mai che un qualsiasi male esistesse nelle
sue opere, se non fosse sufficientemente potente e buono da trarre dal male stesso
il bene».30
In queste due risposte emerge a mio avviso l’aporia del principio-logos e della
prospettiva teologica tradizionale che lo fa proprio, cioè l’incapacità di
riconoscere l’originarietà del caos. Il caos infatti è un elemento strutturale del
processo naturale ed è un errore ricondurlo totalmente al peccato, perché è
piuttosto il peccato a dover essere spiegato in base al caos (limite della prima
risposta); il caos inoltre impone di essere colto all’opera nel disordine che
attraversa la natura senza capziosi razionalismi che intendono logicizzare tutti gli
eventi (limite della seconda risposta).
6. Caos - caso
Di contro all’ottimismo ontologico sotteso al concetto di logos, il concetto di
caos esprime il dinamismo con cui si muove la natura all’insegna di una confusa
indeterminazione. L’origine del mondo non è la chiarezza razionale della mente
divina, ma un abisso oscuro, una sorta di burrone primordiale da cui emergono e a
cui ritornano tutte le cose. Tale è infatti il significato originario di cháos,
sostantivo neutro che deriva dal verbo chaíno, il quale rimanda a sua volta al
verbo chásco, che significa «mi apro, sto aperto», e, nella forma chásma in
riferimento alla bocca, «sbadiglio» oppure, in senso traslato, «grido». Pensato
nella prospettiva del caos, il mondo viene dichiarato simile a uno sbadiglio per la
sua insignificanza, oppure a un grido di orrore per la sua crudeltà: è questa
l’esperienza vitale che sottostà alla posizione del caos quale primo principio
dell’essere.
En?ma Eliš significa letteralmente «quando lassù» ed è l’incipit (e di
conseguenza anche il titolo) di un antichissimo poema babilonese collocato dagli
studiosi tra il XIX e l’XI secolo a.C., tra quattromila e tremila anni fa, giunto fino
a noi in caratteri cuneiformi su tavolette d’argilla. Secondo tale componimento
all’origine di tutte le cose vi è una coppia primordiale costituita da Apsu, il dio
maschile, e da Tiamat, la dea femminile, figure divine che non sono persone ma
personificazioni, rispettivamente delle acque dolci e delle acque salate. In
principio, quindi, l’acqua, con la sua varietà e la sua instabilità. Ecco i primi
cinque versi dell’antico poema mesopotamico:
Quando lassù il cielo non aveva ancora nome,
e quaggiù la terra non era ancora chiamata per nome,
Apsu, il primo, loro progenitore,
e Madre Tiamat, genitrice di tutti loro,
mescolavano insieme le loro acque.31
L’inizio del mondo è costituito da una mescolanza indifferenziata di acque
dolci e di acque salate, uno stato caotico ambiguo e inadatto alla vita degli
uomini. L’En?ma Eliš prosegue esponendo la generazione degli Dei o teogonia
mediante una serie di coppie e di relativi accoppiamenti divini, fino a giungere al
vero punto di interesse del testo, cioè la narrazione di come il potere supremo sul
pantheon degli Dei e sul mondo degli uomini sia giunto nelle mani del dio
Marduk, la divinità nazionale di Babilonia il cui nome significa «vitello del sole»,
con una proiezione teologica evidentemente finalizzata a esaltare la forza
dell’impero babilonese (perché sempre, quando si esalta il Dio nazionale, in realtà
si intende esaltare la nazione, nel caso di Babilonia ciò è evidente già nell’incipit
del Codice di Hammurabi che istituisce un legame diretto tra il dio Marduk e
l’imperatore Hammurabi32). Era successo che la dea genitrice Tiamat, preso un
nuovo sposo di nome Kingu, minacciava di distruggere gli altri Dei con un
esercito di mostri e di demòni. Si fece allora avanti Marduk che, ottenuta dagli
Dei la promessa di diventare loro capo in caso di vittoria, affrontò Tiamat:
«Scagliò nella gola di lei i venti furiosi che le dilatarono il corpo. Il ventre di lei si
gonfiò, le sue fauci rimasero spalancate. Egli scoccò allora una freccia che le forò
il ventre, le lacerò le viscere e le trapassò il cuore. Così soggiogatala, le tolse la
vita, gettò il cadavere a terra e vi si drizzò sopra».33 Ed ecco a questo punto la
cosmogonia. Marduk prese il corpo di Tiamat, «lo tagliò in due come un pesce da
seccare»,34 e con le due parti del corpo della dea primordiale costruì il cielo e la
terra: la testa venne utilizzata per innalzarvi un monte con una grande riserva
d’acqua, gli occhi per farvi sgorgare il Tigri e l’Eufrate, le narici e il seno per altre
sorgenti, così che la Dea delle acque salate veniva ora costretta a generare acqua
dolce e servire la vita.35
Quale principio del mondo viene intuito e trasmesso da questo antichissimo
racconto babilonese dell’inizio? La primordialità del caos. Al principio di tutto vi
è il caos, prefigurato dalla mescolanza indistinta delle acque (Apsu e Tiamat), da
cui proviene spesso una grave minaccia di distruzione e di morte per la vita
(Tiamat e Kingu); e il caos che minaccia la vita può essere vinto solo mediante la
forza, il lavoro, la lotta (Marduk, vitello del sole). L’En?ma Eliš rappresenta una
visione del mondo all’insegna del principio-caos, con il dramma e la lotta che
esso impone per portare l’ordine e l’organizzazione necessari alla vita.
Ovviamente questa epopea babilonese non è l’unica testimonianza del
principio-caos. Esso è prefigurato in tutte quelle cosmogonie che, quale atto
iniziale del mondo, pongono un combattimento, una lotta per la vita o per la
morte tra due Dei diversamente orientati rispetto alla generazione della vita,
oppure, più frequentemente, tra un Dio che simboleggia l’ordine necessario alla
vita e un essere mostruoso che simboleggia il disordine e l’oscura
indeterminazione del tutto, come per esempio il serpente-drago egizio Apofi che
insidia quotidianamente l’ordine cosmico.
Tra queste cosmogonie polemiche (da intendersi nel senso originario del greco
pólemos, che significa «lotta») vi sono la cosmogonia hittita con il combattimento
tra il dio della tempesta Telipinu e il dragone Illuyanka, la cosmogonia fenicia con
il combattimento tra il dio Urano e il dio El, la cosmogonia cananea con il
combattimento tra Baal, il Signore della Terra, e Yam, il Principe del Mare. In
riferimento a quest’ultima tradizione, ma in realtà esprimendo un concetto che
vale per tutte queste cosmogonie, scrive Eliade: «La vittoria di Baal designa il
trionfo della pioggia contro il Mare e le Acque sotterranee; il ritmo delle piogge,
che rappresenta la norma cosmica, si sostituisce all’immensità caotica e sterile del
Mare e alle inondazioni catastrofiche. Con la vittoria di Baal trionfa la fiducia
nell’ordine e nella stabilità delle stagioni».36
L’antica Grecia, che a buon diritto può essere denominata la patria spirituale
del principio-logos, con altrettanta convinzione può essere annoverata tra le patrie
del principio-caos. Prova ne sia che Zeus, il Dio supremo all’epoca dei primi
documenti scritti, non è in alcun modo il creatore del mondo, anzi, neppure fa
parte delle divinità primordiali, essendo un dio di quarta generazione. Dalla
Teogonia di Esiodo, composta tra l’VIII e il VII secolo a.C., si apprende che
«primo fu Caos», l’Abisso, dal quale poi sorsero Gaia «dall’ampio petto» cioè la
terra detta anche Gea, Tartaro «nebbioso nei recessi della terra» cioè gli inferi, ed
Eros, «il più bello tra gli immortali» cioè il desiderio o la passione universale, ben
distinto dal posteriore figlioletto di Afrodite armato di frecce che provocano un
innamoramento istantaneo.37 Oltre alla triade Gaia-Tartaro-Eros, dal Caos
primordiale emergono anche Erebo e Notte, e queste cinque divinità, insieme con
Caos Abisso, di cui non è del tutto chiaro se sia generato a sua volta oppure no,
costituiscono la prima generazione degli Dei.38 In seguito Gaia genera da sé
Urano, la Terra cioè genera il Cielo (ouranós in greco significa cielo), e con Urano
si ha la seconda generazione divina. Accoppiandosi nella più classica ierogamia
(dal greco hierós gámos, letteralmente «matrimonio sacro»), Gaia e Urano danno
vita poi alla terza generazione divina, composta dai sei Titani, le sei Titanidi, i tre
Ciclopi con un occhio solo e i tre Giganti Ecatonchiri, cioè «dalle cento mani» e
per questo detti anche Centimani. Il primo dei Titani è Oceano (detto in Iliade
XIV,201 «padre degli Dei» secondo una tradizione diversa rispetto alla Teogonia),
ma è l’ultimo di essi, Crono, «il più tremendo dei figli», a essere destinato a
giocare un ruolo di primaria importanza nell’evoluzione delle cose. Urano
impediva la venuta al mondo dei figli stipandoli nel corpo di Gaia e per questo
Crono «prese in odio il gagliardo suo genitore» (Teogonia, versi 137-138). Tale
odio verso il padre lo portò ad acconsentire alla proposta della madre Gaia di
liberare se stessa e i figli dalla tirannia di Urano mediante una falce da lei
appositamente preparata, così che, quando Gaia ebbe attirato Urano per
l’ennesimo amplesso, Crono «dall’agguato si sporse con la mano sinistra e con la
destra prese la falce terribile, grande, dai denti aguzzi, e i genitali del padre con
forza tagliò, e poi li gettò via» (Teogonia, versi 178-181).
Crono diviene così il Signore supremo, sposa una delle Titanidi di nome Rea e
con essa genera i figli che costituiscono la quarta generazione divina, tre femmine
(Estia, Demetra, Era) e tre maschi (Ade, Poseidone, Zeus). Neppure questa volta
però si tratta di una famiglia tranquilla, perché Crono, avendo saputo che un
giorno un figlio l’avrebbe spodestato, non appena i figli vengono alla luce li
divora, e qualcuno ricorderà il celebre quadro di Francisco Goya, Saturno che
divora i suoi figli, dipinto tra il 1819 e il 1823 e conservato al Prado di Madrid,
laddove Saturno è l’equivalente latino di Crono. Alla nascita del sesto figlio, però,
la madre Rea corre ai ripari, nasconde il neonato e al suo posto consegna al marito
una pietra avvolta in fasce. L’espediente riesce permettendo a Zeus di crescere
indisturbato, fino al giorno in cui, giunto nella pienezza della forza, si presenta da
Crono, lo costringe a vomitare le sue sorelle e i suoi fratelli, pietra compresa, e
assume il potere supremo. Segue una guerra decennale contro Crono e i Titani, la
cosiddetta Titanomachia, conclusasi con la vittoria di Zeus che costituisce una
nuova organizzazione del mondo. Ma le forze irrazionali non sono per nulla
annullate, e con l’aiuto di Gaia portano altre due terribili minacce al dominio di
Zeus, la prima mediante un essere mostruoso dalla forza immane di nome Tifeo,
detto anche Tifone, la seconda mediante i Giganti nella cosiddetta Gigantomachia.
La vittoria finale di Zeus sancisce la supremazia della più recente generazione
degli Dei.
Pur non costituendo una cosmogonia in senso stretto quanto piuttosto una
teogonia, questi miti rappresentano un’autorevole testimonianza del sentimento
della natura e della vita che vi si svolge. È interessante notare che, anche quando
nella Grecia classica ed ellenistica il principio-logos divenne sempre più
predominante grazie alla progressiva affermazione delle scienze e delle arti, il
principio-caos non venne mai meno. Nell’Atene del V secolo, culla della filosofia,
un grande denigratore di Socrate quale Aristofane fa dire a un Socrate trasformato
in sofista: «E non crederai ad altro dio all’infuori dei nostri: il Caos, le Nuvole e
la Lingua». Nella stessa commedia il vecchio Strepsiade dice al figlio Fidippide:
«Voglio dirti una cosa che, quando la saprai, diventerai un uomo [...] Zeus non
esiste [...] regna Vortice», laddove Vortice è un evidente sinonimo di Caos.39
Qualche secolo dopo, a Roma, Ovidio compone le Metamorfosi (la stesura
definitiva è collocata poco prima dell’8 d.C.) e nella ricerca di estendere la mente
sino all’origine del mondo scrive: «Prima che esistessero il mare, la terra e il cielo
che tutto ricopre, l’Universo aveva un unico, indistinto aspetto che fu chiamato
Caos: una massa informe e inarticolata, nient’altro che un gran peso inerte,
un’accozzaglia disordinata di atomi non connessi tra loro».40 E forse proprio
pensando a un’accozzaglia disordinata di atomi non connessi tra loro, il chimico
belga Jean Baptiste van Helmont coniò nel Seicento il termine «gas» con il
significato di «vapore sottile» traendolo dal greco cháos.
La regola prima del reale non è la chiarezza del logos, l’ordine, il legame
costruttivo, la relazione stabile e armoniosa; la regola prima del reale è il caos,
l’assenza di relazioni stabili e armoniose. Né si deve pensare che tutto questo sia
estraneo alla Bibbia, perché anche in essa la creazione, oltre che come atto che
procede dalla sola parola divina, viene raffigurata come lotta e il creatore come
l’eroe vittorioso di un combattimento gigantesco contro esseri mostruosi che
personificano il caos, quali Rahab o Leviatàn. Tra i molti passi biblici che si
possono addurre al riguardo e che analizzerò in un apposito capitolo, qui mi
limito a citare il Salmo 74 che nei versetti 13-15 si rivolge così al Dio di Israele:
Tu con potenza hai diviso il mare,
hai spezzato la testa dei draghi sulle acque.
Tu hai frantumato le teste di Leviatàn,
lo hai dato in pasto a un branco di belve.
Tu hai fatto scaturire fonti e torrenti
parole da cui emerge con evidenza un’idea di creazione come vittoria cruenta
contro le minacciose forze primordiali del caos.
Ma è già la prima pagina della Bibbia che, oltre a poter essere interpretata alla
luce del principio-logos come da tradizione, contiene anche un inequivocabile
rimando alla realtà indefinita e inquietante del caos. Si legge infatti in Genesi 1,2
tradotto alla lettera: «La terra era deserto e vuoto e tenebra sopra l’abisso». I
termini «deserto» (in ebraico tohu), «vuoto» (in ebraico bohu), «tenebra» (in
ebraico hoshekh), «abisso» (in ebraico tehom, con significativa assonanza con la
dea babilonese Tiamat) introducono fin da subito l’oscuro elemento del caos.
Qualcuno potrebbe pensare che la seconda parte di Genesi 1,2 moderi il quadro
iniziale perché dice «e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque», ma ciò è vero solo
se si traduce l’originale ebraico ruah elohim merahefet come la citata versione
della Bibbia Cei, mentre le cose cambiano se si accoglie il dato filologico più
probabile secondo cui il termine ebraico ruah, sia per il fatto che qui è usato senza
articolo sia per il contesto che rimanda a forze naturali, andrebbe tradotto non con
«spirito» ma con il senso primario di «vento», a cui l’associazione del nome
divino elohim conferisce secondo l’uso biblico un valore superlativo, in modo che
la traduzione più fedele di Genesi 1,2 sarebbe la seguente:
La terra era deserto, vuoto, tenebra sopra l’abisso, e una violenta tempesta
spazzava la superficie delle acque.
Uno dei più celebri esegeti del primo libro della Bibbia, Claus Westermann,
riassume così il senso di Genesi 1,2: «L’espressione ebraica tohu wabohu indica il
deserto spoglio, simile al caos greco; a esso appartengono le tenebre come cosa
inquietante, come lo è l’eclissi di sole per gli animali, e una “violenta tempesta”,
come si trova in molti antichi miti della creazione del mondo, rafforza
l’impressione di caos».41
Sugli altri testi biblici che attestano l’esistenza della presenza di un caos
primordiale, e sulle conseguenze di tutto ciò per il dogma cattolico della creazione
dal nulla o creatio ex nihilo (stabilito dal concilio Lateranense IV nel 1215, cfr.
DH 800, e ribadito dal concilio Vaticano I nel 1870, cfr. DH 3025, e dall’articolo
296 dell’attuale Catechismo) mi soffermerò più avanti. La questione decisiva
comunque rimane impostata: a segnare l’origine e il destino ultimo dell’energia
che noi siamo è l’entropia, cioè il disordine, come sostiene il principio-caos,
oppure è l’ordine, ovvero l’entropia negativa o neghentropia,42 come sostiene il
principio-logos?
7. Colpa - catastrofe
Attorno al 180 divenne vescovo di Lione un prete di origine greca di nome
Ireneo il quale avvertì quale suo principale dovere la difesa della verità cristiana
contro alcuni pensatori che formalmente si richiamavano al cristianesimo e alle
sue Sacre Scritture ma che in realtà presentavano dottrine e costumi molto
difformi. Ireneo si impegnò così in una serrata analisi del loro pensiero dando
origine all’opera oggi nota con il titolo della traduzione latina, Adversus haereses
(Contro le eresie), ma il cui titolo originale greco è Élenchos kai anatropé tês
pseudonómou gnóseos, «Confutazione e distruzione della falsa gnosi», che
riprende alla lettera l’espressione pseudonómou gnóseos da 1Timoteo 6,20 («O
Timoteo, custodisci ciò che ti è stato affidato; evita le chiacchiere vuote e
perverse e le obiezioni della falsa scienza»).
Il termine «gnosi», calco del greco gnôsis, significa «conoscenza», e si può
dire che non esista spiritualità che sia contraria alla conoscenza, a partire dal
celebre motto gnôthi seautón («conosci te stesso») iscritto sull’architrave del
tempio di Delfi e posto da Socrate alla base della filosofia. Anche il NT valuta
positivamente la gnosi-conoscenza, come appare dal fatto che il termine gnôsis vi
compare 29 volte, sempre con significato positivo, con l’unica eccezione di
1Corinzi 8,1 («La gnosi-conoscenza riempie di orgoglio, mentre l’agape-amore
edifica»). Ecco alcuni passi al riguardo nei quali riporto il termine gnosi senza
tradurlo:
– Romani 11,33: «O profondità della ricchezza, della sapienza e della gnosi di
Dio»;
– 1Corinzi 12,8: «Dallo Spirito viene dato il linguaggio della gnosi»;
– 2Corinzi 2,14 (in riferimento a Cristo): «Il profumo della sua gnosi»;
– Colossesi 2,3 (in riferimento a Cristo): «In lui sono nascosti tutti i tesori
della sapienza e della gnosi»;
– 2Pietro 1,5: «Mettete ogni impegno per aggiungere alla virtù la gnosi».
Non è quindi la gnosi in quanto tale a essere contraria al cristianesimo, il quale
anzi si ritiene in possesso della vera e definitiva gnosi; a essere contrario è
piuttosto il pensiero appropriatosi falsamente del nome di gnosi, la gnosi
pseudonomica, come recita il titolo originale dell’opera di Ireneo, cioè quel
sistema passato alla storia con il nome di «gnosticismo» e che è il principale
rappresentante del mito cosmogonico basato sul principio-colpa o catastrofe.
Nel catalogo delle eresie compilato da Ireneo campeggiano i nomi di Simone il
Samaritano, meglio noto come Simon Mago, di Menandro, Saturnino, Basilide,
Carpocrate, Cerinto, Cerdone, Marcione, Marco il Mago, Valentino, Tolomeo e
altri ancora, cui vanno aggiunti movimenti come gli ebioniti (il cui nome significa
«poveri») che negavano la divinità di Gesù, gli encratiti («astinenti») che
negavano la bontà del mondo ed erano particolarmente rigoristi in materia di cibo
e di sesso, i setiani («discepoli di Set»), i cainiti («discepoli di Caino»), gli ofiti
(«discepoli del Serpente», in greco óphis). Non tutti sono classificabili
propriamente come gnostici, di sicuro non lo erano gli ebioniti, di origine ebraica
e come tali fedeli alle Scritture ebraiche anche nel loro senso letterale, mentre per
quanto concerne Marcione, che all’opposto rifiutava del tutto le Scritture ebraiche
ritenendole indegne, vi è chi lo esclude dallo gnosticismo e chi al contrario ve lo
include (Buonaiuti e von Harnack nel primo caso, Jonas e Leisegang nel
secondo).43 Questa significativa discordanza segnala la mancanza di un criterio
universalmente condiviso per qualificare l’essenza dello gnosticismo. Almeno su
una cosa però si deve convenire: che per coglierne l’essenza, l’accezione
ordinaria di gnosticismo quale dottrina che lega la salvezza alla conoscenza è
insufficiente, perché anche il cristianesimo ortodosso può essere collocato in
questa prospettiva, essendo la fede una forma, per quanto particolare, di
conoscenza. Per definire lo gnosticismo, quindi, non basta dire che esso lega la
salvezza alla conoscenza, occorre dire che tipo di conoscenza è quella gnostica e
qual è il suo contenuto decisivo.
L’essenza contenutistica dello gnosticismo è la contrapposizione Dio-mondo.
Si legge nel Vangelo di Tomaso, uno dei testi gnostici scoperti nel 1945 a Nag
Hammadi in Alto Egitto: «Gesù disse: Colui che ha conosciuto il mondo, ha
trovato un cadavere; e colui che ha trovato un cadavere è superiore al mondo».44
Un altro dei testi di Nag Hammadi, il Vangelo di Filippo, afferma: «Questo
mondo è un divoratore di cadaveri»; e ancora: «Il mondo ebbe origine da una
trasgressione», e infine: «Gesù venne per crocifiggere il mondo».45
In questa prospettiva Hans Jonas afferma che «la caratteristica basilare del
pensiero gnostico è il radicale dualismo che governa il rapporto di Dio col mondo
e conseguentemente quello dell’uomo col mondo»,46 e significativamente
Simone Pétrement ha intitolato la sua classica monografia sullo gnosticismo Le
Dieu séparé,47 separato ovviamente dal mondo.
L’esigenza di separare il vero Dio, padre delle anime, dal governo della natura
e della storia nasce dall’esperienza della completa desolazione offerta dal teatro
del mondo. Se è veramente Padre, ragionano gli gnostici, Dio non può essere la
causa della solitudine dell’anima in questo mondo di rapina e di ingiustizia, non
può essere il responsabile di un mondo così intriso di dolore, e quindi non può
essere all’origine della sua genesi, la quale di conseguenza va ascritta a qualcun
altro. Anzi, è proprio solo in quanto separato dal mondo, Dieu séparé, che per
l’anima gettata nell’esilio della vita Dio può rappresentare la speranza di ritrovare
la patria. La salvezza gnostica non è salvezza del mondo, ma salvezza dal mondo.
Ma il mondo, allora, da dove viene?
Se il principio-logos interpreta il mondo come proveniente direttamente da Dio
in ogni fase del suo corso (distinguendo poi al suo interno tra coloro che, come
Ratzinger, separano Dio dal mondo secondo il paradigma del teismo e coloro che,
come Plotino, uniscono Dio e il mondo secondo il paradigma del panteismo), e se
il principio-caos unisce il mondo e il divino in un unico processo teo-gonico e
cosmo-gonico al contempo, lo gnosticismo, al fine di porre una separazione
assoluta tra Dio e mondo, riconduce il mondo a un’origine lontanissima dalla pura
essenza della divinità, rispetto alla quale costituisce una «trasgressione». Basilide
per esempio, un pensatore gnostico operante ad Alessandria d’Egitto tra il 120 e il
145, per risolvere il problema di come conciliare Dio sommo bene con un mondo
devastato dal male poneva ben 365 cieli tra il vero Dio e il mondo attuale,
attribuendo la creazione e il governo di quest’ultimo agli angeli che presiedono il
365° cielo, il capo dei quali era individuato in colui che la Bibbia ebraica
denomina «Signore degli eserciti», infinitamente distante dalla purezza assoluta
del Padre supremo.48
Più che di Basilide però, Ireneo sceglie di occuparsi di Tolomeo e della scuola
valentiniana alla quale questi apparteneva, la scuola gnostica di maggior valore.
Prova ne sia che il fondatore, Valentino, originario di Alessandria e operante a
Roma tra il 140 e il 160, era arrivato a un passo dall’essere eletto vescovo di
Roma. Da Ireneo veniamo a sapere che, quale principio costitutivo dell’essere,
Tolomeo non pone un solo Dio come l’ebraismo, ma piuttosto una Ogdoade, cioè
una comunità di otto entità divine dette Eoni (da aiônes, «epoche») scaturiti
dall’iniziativa del primo di essi, Abisso. Questa Ogdoade primigenia, fondamento
di tutte le cose, presenta quattro entità maschili correlate a quattro entità
femminili: Abisso-Quiete, Intelletto-Verità, Logos-Vita, Uomo-Chiesa.49
Senza entrare nell’analisi degli specifici Eoni, ciò che importa sottolineare è
l’esigenza di separare il più possibile Dio dal mondo, un’esigenza che conduce
alla moltiplicazione degli Eoni che nel sistema di Tolomeo da otto diventano
trenta. E proprio all’ultimo di essi, il più recente e di genere femminile, Sophia, si
deve l’origine del mondo.
Contrariamente al suo nome che significa «sapienza», Sophia venne presa
dall’insipiente passione di voler comprendere il Padre-Abisso, «apparentemente
per amore, ma effettivamente per temerarietà»,50 impresa disperata anche per
un’entità divina e che portò Sophia a estenuarsi. Lo sforzo però ebbe un effetto
collaterale, perché Sophia finì per generare, a causa dello struggimento per il
Padre eterno e senza alcun padre fisico, «una sostanza amorfa, una natura quale
poteva partorire in quanto femmina».51 Tale sostanza uscita dal corpo di Sophia
era particolarmente sgradevole, così che «al contemplarla, essa prima si addolorò
per l’imperfezione di ciò che era nato, poi fu presa da timore che anche lei avesse
la stessa fine; infine fu presa da stupore e incertezza [...]. Da qui dicono che abbia
tratto origine la sostanza della materia: dall’ignoranza, dal dolore, dal timore e
dallo stupore».52 Ecco quindi da dove viene il mondo materiale: dalla sostanza
amorfa e senza bellezza generata dal corpo di Sophia a causa dell’indisciplinata e
capricciosa follia di voler scrutare la profondità imperscrutabile del Padre-Abisso.
Sophia guarda ciò che è uscito dal suo corpo e prova sentimenti contrastanti, di
modo che «dalle sue lacrime è nata tutta la sostanza umida, dal suo riso quella
luminosa, dal dolore e dalla costernazione gli elementi corporei del mondo».53
Sophia piange, e defluisce l’acqua; ride, e nasce la luce; prova dolore, e si forma
la materia. In particolare Ireneo ci fa sapere che secondo i valentiniani «dallo
spavento e dal senso di impotenza, come dagli elementi più degenerati, hanno
tratto origine gli elementi corporei del mondo: la terra corrisponde alla fissità
dello spavento, l’acqua alla mobilità del timore, l’aria alla immobilità del dolore:
in tutti questi elementi c’è il fuoco apportatore di morte e distruzione».54
L’esperienza fondamentale dell’anima gnostica è il disordine e ancor più la
malvagità del mondo: l’intelligenza vede il mondo, lo viviseziona con la sua luce,
e senza alcuna illusione ne dichiara l’inconsistenza razionale, l’intrinseca distanza
dal bene, la difformità rispetto al logos.
Non si tratta di un’esperienza estranea alla rivelazione biblica, perché anche lì
si ritrovano pagine consonanti con questa visione: mi riferisco a Genesi 3-11
(l’astuzia del Serpente, l’omicidio di Caino, l’enigma dei Giganti, il grande
sterminio del diluvio), alle pagine disperate del libro di Giobbe e soprattutto
all’intero libro di Qohelet, per il quale il mondo non è altro che hevel, soffio,
inconsistenza, vanità. Eccone un passo emblematico: «Ho proclamato felici i
morti, ormai trapassati, più dei viventi che sono ancora in vita; ma più felice degli
uni e degli altri chi ancora non esiste, e non ha visto le azioni malvagie che si
fanno sotto il sole» (Qohelet 4,2-3). La distanza tra Dio e il mondo viene
accentuata ancor più in alcune pagine del NT, perché da un lato si priva l’essenza
divina di ogni traccia di violenza concependola come amore purissimo (agáp?), e
dall’altro si coglie il mondo in opposizione diretta rispetto a Dio per averne
crocifisso il Figlio, così che diviene inevitabile riconoscere che «questo mondo»,
cioè il mondo reale della storia reale, è guidato non da Dio ma dal suo diretto
avversario, ho árch?n toû kósmou toútou, «il comandante di questo mondo» (così
Giovanni 12,31; 14,30; 16,11).
Secondo il NT però, che si rifà in questo alle Scritture ebraiche, il mondo è
buono perché creato da un Dio buono: come mai, allora, «questo mondo» buono
non è? Si impone qui la necessità di trovare un nesso tra l’origine buona del
mondo e la sua realtà attuale per nulla buona. Tale nesso viene elaborato dal
cristianesimo ortodosso mediante un processo che parte da Paolo e trova il suo
culmine quattro secoli dopo in Agostino, e il cui nome è «peccato originale».
Elaborando il peccato originale, il cristianesimo riesce nell’impresa di tenere
insieme la bontà originaria della creazione e del Creatore (come attesta il
principio-logos) con la realtà di un mondo in preda al disordine e all’ingiustizia
(come attesta il principio-caos). Il prezzo pagato però è altissimo: è l’aver caricato
sulle spalle degli uomini la responsabilità per il disordine e il male del mondo,
inaugurando una teologia amartiocentrica (hamartía in greco significa colpa o
peccato) e un’antropologia corrispondente che hanno attraversato la storia
occidentale producendovi infiniti sensi di colpa. Ma anche a prescindere dagli
effetti nefasti, è già la costruzione del dogma del peccato originale a risultare
problematica, come appare da questa osservazione di Paul Ricoeur: «Antignostico
alla sua origine e secondo le intenzioni – poiché il male resta integralmente
umano – il concetto di peccato originale è divenuto quasi gnostico man mano che
si è razionalizzato. Esso costituisce ormai la pietra angolare di una mitologia
dogmatica che è paragonabile, dal punto di vista epistemologico, a quella della
gnosi».55 Si potrebbe riassumere dicendo che sia lo gnosticismo sia il
cristianesimo ortodosso sono dominati dal principio-colpa, con la radicale
differenza che il cristianesimo ortodosso legge il mondo secondo il principiologos e attribuisce il male alla responsabilità dell’uomo e di una potenza maligna
ancora più originaria, mentre lo gnosticismo attribuisce il male direttamente alla
divinità cui si deve la creazione del mondo, estendendo così il principio-colpa al
senso stesso dell’essere.
All’interno della tradizione occidentale il principio-colpa quale chiave della
cosmogonia si ritrova in tutti quei movimenti che leggono nella natura un
disordine e una malvagità originari: i manichei, detti così dal fondatore Mani,
attivi dal III al VI secolo; i priscilliani, dal vescovo Priscilliano, attivi dal IV al VI
secolo; i messaliani, dal termine siriaco per «colui che prega» e perciò detti in
greco anche euchiti, attivi nel IV secolo; i pauliciani, detti così perché si
consideravano i veri osservanti di san Paolo, attivi nel VII secolo; i bogomili, dal
prete bulgaro Bogomil, attivi dal X al XV secolo; i patarini, dall’antico milanese
paté, straccione, attivi dall’XI al XII secolo; i càtari, dal greco katharós, «puro»,
detti anche albigesi per il radicamento ad Albi in Francia, attivi dal XII al XIII
secolo fino a quando vennero massacrati dalla crociata indetta da papa Innocenzo
III; e altri ancora, visto che è sempre stato valido quanto Ireneo scriveva degli
gnostici del suo tempo per sottolinearne la quantità, cioè che «sono apparsi dalla
terra come funghi».56
L’esperienza esistenziale all’origine del principio-colpa vive anche in filosofia
con Anassimandro di Mileto, vissuto tra il VII e il VI secolo a.C. Egli riteneva che
in origine tutto fosse armoniosamente unito in un’entità detta ápeiron
(letteralmente, «senza limiti»), ma poi, a causa di un’ingiustizia originaria
consistente in una specie di catastrofe cosmica fisica ed etica di cui nessuno
conosce la natura, ebbe origine la separazione dell’essere a coppie di contrari
(luce-tenebre, giorno-notte, vita-morte) e nacquero gli enti individuali. Dovendo
la nascita a questa misteriosa colpa originaria, nessuno degli enti individuali può
sottrarsi alla pena per aver rotto l’armonia originaria. Quale pena? L’esistenza. Gli
uomini e le cose scontano la colpa originaria vivendo. La morte è la cessazione
della pena quando i contrari potranno di nuovo fondersi e tornare indistinti
nell’ápeiron. Ecco le parole di Anassimandro: «Principio degli esseri è l’infinito...
da dove infatti gli esseri hanno l’origine, ivi hanno anche la distruzione secondo
necessità: poiché essi pagano l’uno all’altro la pena e l’espiazione dell’ingiustizia
secondo l’ordine del tempo».57
Tenendo presente tutto ciò, si capisce il titolo dell’opera di Umberto Curi,
Meglio non essere nati, sottotitolo La condizione umana tra Eschilo e
Nietzsche,58 laddove tale condizione di un’esistenza che sarebbe meglio non ci
fosse mai stata si può e si deve allargare a tutti gli esseri viventi. Meglio che il
mondo non fosse stato, si potrebbe dire, e lo scopo della saggezza è sopire la
spinta vitale necessariamente individuale, e quindi ingiusta, e rientrare
nell’ordinamento indeterminato dell’ápeiron dove ogni ingiustizia viene meno.
8. Vita - vitalità
Tra le diverse cosmogonie dell’antico Egitto spicca per inventiva quella
elaborata dalla teologia solare di Eliopoli, hélios-pólis, «città del sole», antica
capitale situata sul Delta del Nilo di cui oggi rimangono solo poche rovine nei
pressi del Cairo. Tale cosmogonia ha per protagonista il Dio supremo, il dio Sole
dal triplice nome, chiamato Khepri per il sole levante del mattino, Ra per il sole
nel pieno splendore dello zenit, Atum per il sole declinante del tramonto. È sotto
quest’ultimo nome che il Dio supremo viene presentato mentre dà origine al
mondo: «Atum è colui che si manifestò masturbandosi a Eliopoli. Mise il suo
fallo nel suo pugno e ne provò voluttà, e generò i due fratelli Sciu e Tefnut».59 Da
dove nasce il mondo? Dal desiderio del Dio, dalla sua voluttà. Parlando di Dio,
però, la mente umana porta sempre miticamente al pensiero il principium
universitatis, ossia la logica che informa e muove il mondo, la quale quindi viene
qui identificata con il desiderio e la ricerca del piacere: desiderio e piacere non
sono solo la modalità privilegiata mediante cui la vita manda avanti se stessa,
sono ancor più la logica dell’intera natura, attraversata da un’energia vitale che
vuole se stessa e che, volendo se stessa, è sempre tesa a emanarsi, effondersi,
espandersi, incrementarsi. L’élan vital o slancio vitale posto da Henri Bergson al
centro della celebre opera L’evoluzione creatrice60 è già prefigurato
nell’autoerotismo del Dio supremo dell’antica città di Eliopoli.
Dal seme di Atum nasce una coppia di gemelli divini, Sciu, il dio che
simboleggia l’aria secca, e Tefnut, la sorella e consorte che simboleggia l’aria
umida, con i quali appare in natura la suddivisione maschile-femminile. Dalla loro
unione nasce un’altra coppia divina, Gheb e Nut, il dio simbolo della terra e la dea
simbolo del cielo (con i nomi dal genere opposto rispetto all’italiano, perché
Gheb-terra è maschile e Nut-cielo femminile). Seguono altre due coppie, Osiride
e Iside, Seth e Nefti, per complessive quattro coppie divine che, aggiungendosi al
Dio supremo dal triplice nome Khepri-Ra-Atum, vengono a formare l’Enneade
primordiale della teologia eliopolitana, generatasi dapprima mediante
l’autoerotismo del dio Sole e poi mediante l’attrazione reciproca del polo
maschile e del polo femminile insita nell’essere naturale. La medesima dinamica
è presente in tutte le cosmogonie che rappresentano la nascita del mondo
mediante atti in vario modo legati alla sessualità, a partire dall’amplesso sacro tra
un dio e una dea detto ierogamia.
Ma ancor più del desiderio che attraversa e muove la natura, il concetto
decisivo veicolato dai miti cosmogonici classificabili alla luce del principio-vita è
la parentela diretta che intercorre tra l’essere divino e l’essere del mondo, un
legame paragonabile a quello fisico di un genitore rispetto a un figlio. In questi
miti infatti ogni elemento del mondo naturale viene ritenuto una diretta
emanazione dell’essere divino. Dio è il padre del mondo e della vita che vi brulica
anzitutto in senso fisico, per meglio dire biologico, in quanto tutto discende dal
suo seme. Esattamente all’opposto rispetto alla distanza assoluta tra Dio e il
mondo posta dallo gnosticismo, qui viene istituito un collegamento strettissimo
sotto forma di relazione organica tra il Dio supremo e ogni minimo ente del
mondo. Il che conduce a considerare il mondo come composto da materia divina e
divino esso stesso.
La medesima concezione si ritrova nei miti che raffigurano la divinità come un
gigantesco costruttore che per realizzare la creazione utilizza parti o prodotti del
suo corpo, miti presenti in ambito egizio ma anche altrove, per esempio in India.
Le più antiche scritture sacre della tradizione hindu sono i Veda, termine
sanscrito che deriva dalla medesima radice del latino video, che indica la
conoscenza mediante visione e che quindi è traducibile al meglio con «Sapienza».
Composti da materiali databili dal 1500 al 600 a.C., i Veda sono suddivisi in
quattro parti, di cui la prima, detta Rig-Veda (letteralmente «Inni di Sapienza»,
scritta anche ?g-Veda a significare la pronuncia pressoché muta della i), contiene
un migliaio di antichissimi componimenti che venivano cantati dai sacerdoti
durante i sacrifici. Tra questi inni ve ne sono alcuni di grande spessore
cosmogonico e teogonico, e uno dei più noti al riguardo presenta la stupefacente
figura del cosiddetto Puru?a, un gigantesco Uomo primordiale dal cui corpo
smembrato dagli Dei si ebbe la formazione del mondo con tutti i suoi elementi,
«le creature dell’aria, gli animali della foresta e quelli del villaggio [...] cavalli,
razze bovine, pecore e capre», e le diverse figure che compongono l’umanità
elencate più in dettaglio: «La sua bocca divenne il brahmano, le sue braccia
divennero il principe-guerriero, le sue gambe l’uomo comune che esercita un
mestiere, l’umile servitore nacque dai suoi piedi». Sempre dal divino Uomo
primordiale trassero origine gli elementi del cosmo: «La Luna nacque dalla sua
mente, il Sole venne in essere dai suoi occhi; dalla sua bocca vennero Indra e
Agni [qui personificazioni per il fulmine e il fuoco; si noti l’assonanza tra il
sanscrito agni e il latino ignis], mentre dal suo respiro il Vento fu generato. Dal
suo ombelico sgorgò l’Aria; dalla sua testa si dispiegò il Cielo, la Terra dai suoi
piedi, dalle sue orecchie le quattro direzioni. Così sono stati organizzati i
mondi».61 Immagini simili si ritrovano nel mito cinese del gigante Pan gu, scritto
anche Pangu, della tradizione taoista, nato nell’uovo primordiale, cresciuto a
dismisura tanto da frantumare il guscio, protagonista della costruzione del mondo
con le parti dell’uovo.
Ma da dove viene a sua volta l’Uomo primordiale detto Puru?a? Per i Veda
egli sta all’origine del mondo, ma non per questo è identificabile con il principio
senza inizio che è all’origine dell’Essere, a proposito del quale quindi
l’interrogativo rimane aperto. L’inno vedico detto N?sad?ya S?kta risponde così:
In principio non vi era Essere né Nonessere.
Non vi era l’aria né ancora il cielo al di là.
Che cosa lo avvolgeva? Dove? Chi lo proteggeva?
C’era l’Acqua, insondabile e profonda?
(verso 1).
La domanda vedica è così radicale da porre in dubbio persino la primordialità
dell’acqua, l’elemento comune alla base delle cosmogonie. Ma dopo una serie di
negazioni, l’inno vedico risponde positivamente sulla presenza dell’acqua
primordiale, accanto alla quale viene menzionato però un altro elemento:
Non vi era morte, allora, non ancora immortalità;
di notte e giorno non vi era alcun segno.
L’Uno respirava senza respiro, per impulso proprio.
Oltre a quello non vi era assolutamente altro.
Tenebra vi era, tutto avvolto da tenebra,
e tutto era Acqua indifferenziata.
(versi 2-3a).
Tenebra e acqua, quindi. La materia originaria viene concepita come una
primordiale acqua nera che richiama alla mente l’energia e la materia oscura di
cui oggi parlano i fisici. Ma come si ebbe il passaggio da questa materia oscura
degli inizi ai consistenti e coloratissimi oggetti del mondo attuale?
Allora quello che era nascosto dal Vuoto, quell’Uno, emergendo,
agitandosi, mediante il potere dell’Ardore, venne in essere.
In principio Amore sorse,
la primitiva cellula germinale della mente.
(versi 3b-4a).
In modo certamente più raffinato rispetto all’autoerotismo del dio egizio Atum,
l’inno vedico esprime il medesimo concetto: all’inizio del cosmo va posto il
desiderio. Così commenta Raimon Panikkar: «Senza amore non si dà essere, ma
l’amore non avviene senza ardore o tapas. È il fervore, tapas, che rende essente
l’essere».62 Il desiderio, in sanscrito tapas, viene dichiarato il principio
costitutivo dell’essere.
Porre però come principio qualcosa di così instabile e di così volubile come il
desiderio ha un suo indubitabile prezzo. Infatti, ben diversamente dalla sicurezza
che deriva alla mente dal porre come principio la stabilità del logos o anche la
consistenza materiale del caos, l’inno vedico si chiude in una sorta di nebbiosa
incertezza:
Chi lo sa veramente? Chi può permettersi di dirlo?
Da che cosa nacque? Da dove originò questa creazione?
Anche gli Dei vennero dopo la sua apparizione.
Chi dunque può dire da dove venne in essere?
Da che cosa la creazione sia sorta,
se sia tenuta salda oppure no,
Colui che la contempla nell’alto dei cieli,
Egli sicuramente lo sa – o forse non lo sa!
(versi 6-7).63
L’insegnamento basilare dell’hinduismo è che esiste solo una realtà
ultimamente reale, il Brahman, dal quale sono generati gli esseri, per mezzo del
quale vivono e nel quale infine ritornano.64 Tutte le diverse manifestazioni
naturali, dalle galassie agli organismi viventi, non sono altro che una forma
transeunte dell’unica reale sostanza che sempre si muove animata dal desiderio, in
un gioco della vita con se stessa che non ha altro scopo se non il gioco stesso, in
sanscrito lil?, termine che designa un agire spontaneo e gratuito. ?a?kara, il più
insigne maestro del monismo assoluto (o Advaita Vedanta) vissuto tra il 788 e
l’820, sosteneva che è unicamente per lil? che dall’Uno originario si produce la
molteplicità.
Con accenti di euforia che richiamano la «gaia scienza» nietzschiana, del tutto
estranei al principio-caos e al principio-logos, e direttamente contrapposti al
principio-colpa, questa visione del mondo è pervasa di un senso innocente e
fanciullesco di gioia. Ne traspare qualcosa in questo brano del fisico americano
Fritjof Capra, incipit del celebre Il Tao della fisica: «In un pomeriggio di fine
estate, seduto in riva all’oceano, osservavo il moto delle onde e sentivo il ritmo
del mio respiro, quando all’improvviso ebbi la consapevolezza che tutto intorno a
me prendeva parte a una gigantesca danza cosmica. Essendo un fisico, sapevo che
la sabbia, le rocce, l’acqua e l’aria che mi circondavano erano composte da
molecole e da atomi in vibrazione, e che questi a loro volta erano costituiti da
particelle che interagivano tra loro creando e distruggendo altre particelle. Sapevo
anche che l’atmosfera della Terra era continuamente bombardata da una pioggia
di raggi cosmici, particelle di alta energia sottoposte a urti molteplici quando
penetrano nell’atmosfera [...]. Sedendo su quella spiaggia, le mie esperienze
precedenti presero vita; “vidi” scendere dallo spazio esterno cascate di energia,
nelle quali si creavano e si distruggevano particelle con ritmi pulsanti; “vidi” gli
atomi degli elementi e quelli del mio corpo partecipare a questa danza cosmica di
energia; percepii il suo ritmo e ne “sentii” la musica; e in quel momento seppi che
questa era la danza di ?iva, il Dio dei danzatori adorato dagli Indù».65
Per quanto colma di gioia, tale visione del mondo nelle sue espressioni più
profonde non è tuttavia priva di un sentimento di sottile malinconia perché
l’insensatezza di un mondo che non rimanda ad altro se non al piacere di un gioco
fine a se stesso conduce la coscienza a comprendere di doversi sottrarre a questa
giostra cosmica delle nascite (sa?s?ra) per raggiungere così la liberazione (mok?a)
e approdare alla pacifica quiete al di là dell’essere e del non-essere (nirv??a). Il
gioco infatti, per quanto piacevole, non è mai del tutto giusto, in esso c’è sempre
un che di imponderabile e di fortunoso che privilegia indebitamente alcuni e
penalizza indebitamente altri, e c’è soprattutto una tensione che lo pervade
prodotta dal desiderio e che accresce il desiderio, contribuendo a rendere sempre
più vertiginosa la danza di ?iva, cioè sempre intenso il desiderio di vita e di
felicità, e parallelamente altrettanto intenso il carico di dolore e di ingiustizia che
tale danza di necessità porta con sé.
Per questo nel libro più sacro della tradizione hindu, la Bhagavad G?t? (scritta
anche Bhagavadg?t? e risalente al II secolo a.C.), si legge che «l’uomo che
abbandona tutti i desideri e procede privo di brama, libero dall’io e dal mio,
ottiene la pace» (II,71) e si nomina il desiderio come «il tuo nemico, vorace,
malvagio» (III,37), per giungere al seguente consiglio: «Uccidi questo nemico,
difficile da superare, cioè il desiderio!» (III,43). Il paradosso a questo punto è
servito: per essere autenticamente occorre liberarsi del principio costitutivo
dell’essere. Ciò che fa esistere l’essere infatti è il desiderio, ma precisamente di
questo occorre liberarsi per giungere alla pienezza dell’essere che è la
conoscenza, il «fuoco della conoscenza» (IV,19).66
Per il Dio biblico la creazione non è un gioco, è un lavoro, talora un
combattimento, comunque sempre qualcosa di serio e impegnativo. C’è però una
tradizione biblica per la quale la creazione avviene gioiosamente. Nel libro dei
Proverbi prende la parola la Sapienza creatrice, dice di essere stata creata
«all’origine», prima di ogni altra cosa, così da aver potuto vedere tutte le altre
cose venire all’esistenza: «Quando [il Signore] fissava i cieli, io ero là» (Proverbi
8,27), ritornello che si ripete per gli abissi, le nubi, i mari, le fondamenta della
terra. Giunge poi a descrivere il suo ruolo cosmogonico con queste parole: «Io ero
con lui come artefice ed ero la sua delizia ogni giorno: giocavo davanti a lui ogni
istante, giocavo sul globo terrestre, ponendo le mie delizie tra i figli dell’uomo»
(Proverbi 8,30-31). La Bibbia Cei fa giustamente notare che il termine ebraico
amon tradotto con artefice «può significare anche “giovane” o “bambino” e con
questo significato sembra esprimere la gioia della sapienza personificata che,
come un giovane o un fanciullo, si muove nel creato danzando». La Sapienza
divina, principio cosmogonico per eccellenza della letteratura sapienziale (cfr.
anche Giobbe 28; Baruc 3,9-4,4; Siracide 24 e Sapienza 7,22-8,1), gioca e si
diverte mentre il mondo si fa, simbolo di una vita che gioisce nel trasmettere se
stessa e prefigurazione di una divinità che supera la sua trascendenza per legarsi
all’immanenza delle manifestazioni del cosmo.
Nell’ebraismo queste intuizioni sono giunte a maturità nelle correnti di
pensiero legate alla mistica e note con il nome di Càbbala (scritta anche Càbala,
Qabbalah o Kabbalah, e che significa letteralmente «tradizione»). Per la mistica
ebraica la creazione del mondo è manifestazione diretta della vita di Dio, è
apparizione alla superficie della vitalità del Dio segreto. Per quanto riguarda il suo
vero sé, Dio è destinato a rimanere absconditus, si può concepire del tutto
formalmente solo come En Sof, termine ebraico talora scritto Ein Sof o anche Ain
Sof che alla lettera significa «Senza fine», quindi «Infinito». Dell’essenza divina
null’altro si sa, né mai si saprà, se non per l’appunto che è inconoscibile. La
vitalità divina però è tale da debordare al di fuori del suo misterioso sé,
manifestandosi come una sorta di energia primigenia: tale manifestazione ad extra
dell’energia divina è il mondo, in tutti i suoi elementi. L’energia divina che si
riversa sul mondo portandolo all’essere e rivitalizzandolo di continuo si estrinseca
sotto la forma di dieci forze o potenze originarie dette sefirot, plurale del termine
ebraico sefirah che significa «cifra». È essenziale tenere a mente che le dieci
sefirot non sono creature intermediarie tra Dio e il mondo, come per esempio gli
angeli, i démoni o i demòni, né sono forme decadute della divinità originaria,
come gli Eoni dello gnosticismo, ma sono dispiegamenti, emanazioni,
manifestazioni dello stesso Dio: «Il mondo delle sefirot è Dio», afferma Gershom
Scholem. Puntualizzando subito dopo: «Non Dio in sé, in merito al quale la
religione non sa nulla e non può sapere nulla, ma il Dio vivente, che opera e
dispiega la sua forza creatrice».67 Per la mistica ebraica quindi la vita del mondo
manifesta la vita-vitalità di Dio, e la cosmogonia è teologia. Dio rimane
sconosciuto nella sua essenza, ma diviene manifesto nelle sue operazioni sul
mondo.
La medesima prospettiva si ritrova nel teologo medievale greco-ortodosso
Gregorio Palamas (1296-1359), il quale distingue l’essenza divina, destinata a
rimanere inconoscibile, e le energie divine conoscibili, le quali sono increate
come l’essenza ma si manifestano nel mondo e come mondo permeando ogni
cosa. Scrive Palamas: «La natura divina dev’essere detta al tempo stesso
impartecipabile e, in un certo senso, partecipabile; noi perveniamo alla
partecipazione della natura di Dio, e tuttavia essa rimane del tutto inaccessibile.
Dobbiamo affermare le due cose ad un tempo e conservare la loro antinomia
come criterio della pietà».68
9. Bilancio
Abbiamo passato in rassegna quattro modelli del principio costitutivo del
mondo elaborati dalla mente umana:
1) il logos, ovvero il progetto, la vita come disegno ordinato, la cui
raffigurazione pittorica potrebbe essere il Dio con il compasso di alcune miniature
medievali e il cui passo biblico evocativo potrebbe venire individuato in Proverbi
8,27 dove si parla di Dio che all’origine del mondo «fissava i cieli» e «tracciava
un cerchio sull’abisso»; il logos è la legge o la logica (medesima radice «lg» per
tutti e tre i termini) della natura e della storia;
2) il caos ovvero il caso, la vita come assenza di ogni progetto determinato, sia
positivo sia negativo, una nave che va senza sapere né dove né perché, talora
traendo piacere e talora dolore da questa odissea senza Itaca, la cui raffigurazione
pittorica potrebbe essere La nave dei folli di Hieronymus Bosch (dipinto datato
verso il 1500 e oggi conservato al Louvre di Parigi), quasi certamente ispirato
dall’opera satirica di Sebastian Brant dal medesimo titolo pubblicata nel 1494;
3) la colpa ovvero la catastrofe, la vita come tragedia e come punizione, la cui
raffigurazione pittorica potrebbe essere L’urlo di Edvard Munch (dipinto nel 1893
e la cui versione più famosa è oggi conservata nella Nasjonalgalleriet di Oslo),
ricordato così dall’artista: «Una sera passeggiavo per un sentiero, da una parte
stava la città e sotto di me il fiordo. Ero stanco e malato. Mi fermai e guardai al di
là del fiordo – il sole stava tramontando – le nuvole erano tinte di rosso sangue. /
Sentii un urlo attraversare la natura: mi sembrò quasi di udirlo. Dipinsi questo
quadro, dipinsi le nuvole come sangue vero. I colori stavano urlando. Nacque così
il quadro intitolato L’urlo»;69
4) la vita ovvero la vitalità, la danza e il gioco come il sale della vita, la quale
si dispiega senza altra finalità che non sia il mero piacere di danzare e di giocare,
e la cui raffigurazione potrebbe essere la statua bronzea di S?iva Na?ar?ja, il
danzatore divino, conservata nel Museo Nazionale di New Delhi e riprodotta in
milioni di esemplari nei negozi e nelle bancarelle di tutta l’India.
Nessuno di questi modelli, a mio avviso, è in grado di interpretare l’insieme
dell’esistenza:
– nel principio-logos manca la capacità di rendere conto del negativo, se non
colpevolizzando ulteriormente le vittime come avviene, per esempio, con il
dogma del peccato originale;
– nel principio-caos manca la capacità di rendere conto dell’evoluzione verso
il positivo e la razionalità che è in atto nel processo del mondo, del fatto cioè che,
come ripeteva Einstein, «Dio non gioca a dadi con il mondo»;
– nel principio-colpa manca la bellezza, la gioia e l’innocenza di vivere, parte
fondamentale del nostro essere qui;
– nel principio-vita in quanto gioco manca la capacità di prendere sul serio il
patire umano, tutte le lacrime e le sofferenze di cui si nutre l’esistenza e che non
sono per nulla un gioco, ma costano molto care.
Per questo io ritengo necessario porre una quinta categoria, da me individuata
nel pathos, nella passione. Il principio costitutivo del mondo, ciò che svela la
logica mediante cui la vita sorge e si evolve, è la passione.
10. Pathos-passione
L’assunto teologico si muove all’insegna della lectio difficilior ed è il
seguente: la relazione della Realtà primaria, detta tradizionalmente Dio, con la
realtà secondaria, detta tradizionalmente mondo, è la medesima di quella che con
il mondo ebbe Gesù. Nel processo di incarnazione-passione-morte-risurrezione di
Gesù si manifesta la logica complessiva mediante cui si dà, in ogni istante, la
relazione Dio-mondo, la relazione tra Realtà primaria e realtà secondaria. Se si
prende sul serio ciò che afferma il NT, cioè che in Gesù si dà «la pienezza della
divinità» (Colossesi 2,9: «in lui abita corporalmente tutta la pienezza della
divinità»), ne consegue che nel processo di incarnazione-passione-morterisurrezione si deve individuare l’espressione della forma permanente della
relazione tra Dio e il mondo, una forma all’opera sempre in ogni fenomeno. Il
processo di incarnazione-passione-morte-risurrezione manifesta la logica che
accompagna da sempre e accompagnerà per sempre il rapporto tra il «principio di
tutte le cose» e tutte le cose, tra il principium universitatis e l’effettiva universitas
rerum, tra la Realtà primaria e la realtà secondaria che da essa scaturisce.
Detto ancora in altri termini, è possibile affermare che la modalità con cui tutte
le cose:
– provengono dal principio o Realtà primaria,
– sono mantenute all’esistenza dal principio o Realtà primaria,
– confluiscono nel principio o Realtà primaria,
è da pensarsi alla luce della logica manifestata dall’evento di incarnazionepassione-morte-risurrezione. Si tratta di una logica dialettica, volta
sostanzialmente al positivo ma anche attraversata dal negativo e per questo
intrinsecamente drammatica. Tale logica conosce, anzi produce, il negativo
(passione-morte), ma in modo tale da ospitarlo in una dinamica complessivamente
orientata alla generazione di vita nuova (risurrezione).
In questo senso io penso siano da interpretare i numerosi testi evangelici che
affermano la necessità della morte di Gesù, con i Vangeli sinottici che a tale
proposito usano spesso il verbo impersonale deî, cioè «occorre», «è necessario»
(per esempio Marco 8,31: «E cominciò a insegnare loro che era necessario [deî]
che il Figlio dell’uomo soffrisse molto e fosse rifiutato dagli anziani, dai capi dei
sacerdoti e dagli scribi, venisse ucciso e, dopo tre giorni, risorgesse»), e con il
Vangelo di Giovanni che per ben 26 volte usa il termine ?ra, dal medesimo
significato in greco e in italiano (per esempio 12,23-24: «È venuta l’ora che il
Figlio dell’uomo sia glorificato. In verità, in verità io vi dico: se il chicco di
grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto
frutto»). Il lettore trova in appendice i principali testi evangelici al riguardo, ma
ciò che qui occorre assumere è che la morte di Gesù non va ricondotta a una
decisione prestabilita da parte di Dio Padre, bisognoso, o desideroso, di quel
sangue innocente per redimere il mondo, ma a una logica inscritta da sempre in
tutte le cose, visto che ogni forma di esistenza partecipa della passione primigenia
e inestirpabile della vita.
Così io penso vadano letti anche l’affermazione di Apocalisse 13,8 su
«l’Agnello immolato dalla fondazione del mondo» e i testi del Deutero-Isaia detti
«canti del servo» sul giusto che deve soffrire:
– primo canto in Isaia 42,1-4;
– secondo canto in Isaia 49,1-6;
– terzo canto in Isaia 50,4-11;
– quarto canto in Isaia 52,13-53,12.
La croce, in questa prospettiva, è ben lontana dal doversi interpretare come
dovuta al pagamento di un debito verso Dio Padre (dottrina della soddisfazione o
dell’espiazione) o verso il Diavolo (dottrina dei diritti del Demonio), con tutto il
dolorismo e gli infiniti sensi di colpa che tali teorie hanno generato nei secoli
passati. Dietro la croce c’è qualcosa di molto più profondo, e di molto più vero,
cioè il fatto che la vicenda che ha riguardato Gesù di Nazaret duemila anni fa è la
rappresentazione di una logica perenne che da sempre, anche ora, contrassegna il
rapporto tra la Realtà primaria detta tradizionalmente Dio e la realtà secondaria
detta tradizionalmente mondo.
La medesima logica emerge dai testi di Platone sulla sorte che in questo
mondo attende il giusto, di cui il giovane Platone aveva avuto esperienza diretta
in seguito alla condanna a morte di Socrate, suo maestro, e su cui, maturando con
l’età nella conoscenza del potere, era giunto a scrivere parole drammatiche, come
queste tratte dalla Repubblica: «Il giusto, proprio per i suoi atteggiamenti, sarà
flagellato, torturato, gettato in catene, gli saranno bruciati gli occhi e da ultimo,
dopo aver patito tutti questi mali, verrà affisso al palo».70 Questo passo venne
letto da alcuni Padri della Chiesa come una profezia di Cristo, ma evidentemente
non era una profezia del Gesù storico, bensì una «profezia» del Cristo cosmico, in
quanto intuiva la medesima logica di passione che il bene deve necessariamente
attraversare per dare frutto in questo mondo.
Il 13 febbraio 1937 il matematico, teologo e sacerdote russo Pavel Florenskij,
al quinto anno di prigionia nel lager staliniano dove si trovava per il solo fatto di
non aver voluto abiurare la fede cristiana, scriveva alla moglie Anna: «Sì, la vita è
fatta in modo che si può dare qualcosa al mondo solo pagandone poi il fio con
sofferenze e persecuzioni. E più il dono è disinteressato, più crudeli sono le
persecuzioni, e dure le sofferenze. Tale è la legge della vita, il suo assioma di
base».71 Pavel Florenskij venne assassinato con un colpo di pistola alla nuca in
una località sconosciuta nei pressi dell’allora Leningrado l’8 dicembre 1937, il
suo corpo gettato in una fossa comune insieme a quello di altri sfortunati,
ulteriore manifestazione dell’Agnello immolato «dalla fondazione del mondo»
(Apocalisse 13,8).
L’espressione dell’Apocalisse (nell’originale greco, apò katabolês kósmou)
può essere interpretata sia come complemento di tempo, cioè «a partire dalla
fondazione del mondo», sia come complemento d’agente, cioè «dalla fondazione
del mondo», nel senso che è la fondazione del mondo a richiedere strutturalmente
il sangue dell’Agnello. E questo, come si vedrà meglio più avanti, si lega alla
perfezione con la specificità del messaggio cristiano sulla creazione, che consiste
nel legare l’origine e il farsi del mondo al Cristo («per mezzo del quale tutte le
cose sono state create», afferma di lui il Credo niceno-costantinopolitano). Il
radicamento cristologico esige di impostare ex novo la dottrina della creazione,
facendola passare dal principio-potenza, che legge il Cristo come Pantocrator, al
principio-passione, che legge il Cristo in modo molto più conforme all’umile
storia reale di Gesù.
Si tratta di una visione della vita all’insegna della dinamicità dell’essere,
dell’apparire e dello scomparire delle cose, del farsi e del disfarsi dei fenomeni,
creazione continua e decreazione continua. È la visione che meglio di ogni altra è
in grado, a mio avviso, di rendere ragione al contempo dell’insegnamento della
scienza contemporanea e del vivo senso del Dio cristiano, che è amore, quindi
impegno, capacità di sacrificio e di lavoro, dramma, passione. Da qui discende la
visione della vita come «ottimismo drammatico»: ottimismo, perché qualcosa si
fa ed è tale da essere orientato verso una crescita dell’organizzazione;
drammatico, perché non esiste lavoro che non richieda fatica, dolore e talora
anche incapacità di intravedere un senso in quello che si fa, e soprattutto perché il
farsi del nuovo può avvenire solo mediante il disfarsi di ciò che lo precede. Il
principio quindi è la passione, nel duplice senso di entusiasmo e di sofferenza, di
emozione dominante e di patimento.
Gesù ha interpretato questa logica drammatica quando, prendendo il pane, lo
elevò a simbolo della sua libertà e disse: «Prendete e mangiatene tutti». Lo stesso
fece poco dopo, quando prese il vino, lo elevò a simbolo della sua libertà e disse:
«Prendete e bevetene tutti». In questo gesto appare il senso della vita come
partecipazione generosa alla passione del mondo; appare che la creazione avviene
solo a prezzo della passione. Ma da tale partecipare alla passione del mondo senza
risparmiare se stessi emerge anche qualche raggio della risurrezione. Per questo
nel cuore di chi crede vi è una fiducia di fondo verso la vita e il suo valore, verso
la grandezza dell’essere uomini in quanto esseri dotati di libertà e di
responsabilità.
Qui sta l’essenza della spiritualità credente, al cui proposito vorrei concludere
con alcune parole di William James, filosofo e psicologo, uno dei padri del
pragmatismo americano: «Questa sorta di felicità nell’assoluto e nell’eterno è ciò
che non troviamo altrove se non nella religione. Essa si distingue da ogni
semplice felicità animale e da ogni mero godimento del presente, per un elemento
di solennità [...]. La solennità è difficile da definire astrattamente, ma alcune delle
sue caratteristiche sono sufficientemente evidenti: non è mai nuda e semplice,
sembra contenere sempre una certa misura del suo opposto. Una gioia solenne
contiene una punta di amaro nella sua dolcezza; un dolore solenne è tale che a
esso noi, intimamente, acconsentiamo».72 Parole da cui emerge il medesimo
sentimento di fondo verso la vita che io chiamo principio-passione.
Ma tale visione processuale regge «all’apparir del vero»? Per rispondere
occorre sottoporla a verifica, da parte dell’esperienza vitale e del sapere
scientifico per la sua portata filosofica, e da parte dell’esegesi per la sua portata
teologica.
III. GUARDARE IL MONDO
11. Tsunami
La mattina presto del 12 marzo 2011 avvertii l’esigenza di stendere alcuni
pensieri per orientare la mia mente di fronte alla catastrofe naturale che aveva
colpito il Giappone il giorno prima con il seguente bilancio, pubblicato dalla
Polizia giapponese a distanza di un anno: 15.878 morti, 6126 feriti, 2713
dispersi.1 Ecco quello che scrissi.
1) Quello che è avvenuto ieri non è qualitativamente diverso da quanto avviene
ogni giorno, quando, per esempio, viene al mondo un bambino con una malattia
genetica. Certo, le forze in gioco sono quantitativamente incommensurabili,
tuttavia il terremoto-tsunami che si abbatte su quella giovane vita e sui suoi
genitori è qualitativamente il medesimo del terremoto-tsunami grado 8.9 della
scala Richter abbattutosi ieri 11 marzo 2011 sul Giappone. In entrambi i casi è la
vittoria del caos, del disordine, del disequilibrio.
2) Quello che è avvenuto ieri e sta avvenendo oggi con la messa in moto a
livello mondiale della macchina degli aiuti non è qualitativamente diverso da
quanto avviene ogni giorno, quando, per stare all’esempio, i genitori e i parenti di
un bambino nato con una grave malattia genetica si prendono amorevolmente
cura di lui, e con loro la società nelle sue diverse forme, medici e infermieri,
scuola e assistenti sociali, amici e associazioni. In entrambi i casi è la vittoria del
logos, dell’ordine, dell’equilibrio.
3) Così la nostra vita procede tra caos e logos, tra disordine e ordine, tra
entropia e neghentropia. Esiodo nella Teogonia scrive: «Primo fu Caos»;
Giovanni nel Quarto Vangelo scrive: «In principio era il Logos». Chi ha ragione?
Entrambi. Se ci fosse solo caos, la vita non sarebbe sorta, saremmo ancora ai gas
primordiali dell’inizio, idrogeno ed elio e nulla più, anzi forse neppure idrogeno
ed elio perché anche loro per esserci vincono il caos con la loro struttura logica di
nucleo + elettroni; e se ci fosse solo caos, nessuno di fronte al terremoto-tsunami
si metterebbe in gioco per aiutare gli altri. Ma se ci fosse solo logos, la vita
sarebbe diversa: nessuna catastrofe, nessuna malattia genetica, nessuno scatenarsi
di forze senza volto, le forze caotiche della natura sarebbero sempre domate da
una signoria più potente.
4) Caos + logos, invece, si danno insieme, ogni manifestazione della vita è una
miscela di queste due dimensioni, con il prevalere ora di una, ora dell’altra. Il loro
incontro produce la vera, ultima dimensione della realtà, cioè la passione e il
lavoro che essa richiede. Goethe ha visto bene quando nel Faust scelse di tradurre
il greco del Quarto Vangelo, En arché en ho lógos, con «Im Anfang war die Tat»,
«In principio era l’Azione».2 L’azione, il dramma, è esattamente ciò che
scaturisce dall’incontro tra logos e caos. Se prevalesse solo una delle due
dimensioni, non ci sarebbe azione.
5) Se il caos fosse la dimensione ultima alla quale consegnare la nostra più
preziosa energia, nessuno sentirebbe l’impulso ad arginarlo, a vincerlo, a domarlo
mediante il logos. L’azione, cioè la lotta del logos contro il caos, a mio avviso
dimostra che il nostro orizzonte finale è il logos, ovvero l’armonia e il bene. Tutta
l’impresa umana nella sua più alta significatività è lotta contro il caos, è,
esattamente in linea con quanto scrive Esiodo, «teogonia», cioè generazione del
divino, nascita della divina armonia dentro di noi per immetterla, così come
riusciamo, anche fuori di noi, soprattutto quando ce n’è un estremo bisogno come
in queste ore in Giappone.
12. Due possibili punti di vista
Qual è il punto di vista più idoneo da cui guardare il mondo e la vita di noi
uomini che lo abitiamo? Se il prendere consapevolezza del vivere costituisce una
sorta di elevazione della mente che considera il mondo guardandolo come
dall’alto, qual è la modalità giusta con cui disporre lo sguardo?
Intravedo due sole possibilità, emerse dalla ricerca spirituale degli uomini alle
prese con il senso dell’esistenza:
– guardare il mondo dal punto di vista fisico;
– guardare il mondo dal punto di vista morale.
Posso guardare il mondo prescindendo da me stesso, dalle mie emozioni e dai
miei desideri, come un meccanico che solleva il cofano del motore o come un
medico che legge le radiografie di uno dei tanti pazienti; oppure posso guardarlo
proprio a partire da me stesso, dalle mie emozioni e dai miei desideri, come
quando si incontra un amico o si ascolta la musica preferita. Ma qual è
l’atteggiamento più responsabile? Il distacco o la partecipazione? La distanza o la
vicinanza? L’imparzialità o la solidarietà? L’indipendenza o la comunione?
Nella storia del pensiero e della ricerca spirituale le due prospettive non sono
quasi mai allo stato puro: più spesso si trovano commiste l’una con l’altra, perché
chi guarda dal punto di vista fisico intende dire qualcosa anche sulla morale. Non
a caso il capolavoro di Spinoza, ovvero una delle più pure interpretazioni del
mondo dal punto di vista fisico che giunge persino a negare la legittimità della
distinzione tra bene e male, è intitolato paradossalmente Etica; e viceversa, chi
guarda dal punto di vista morale intende dire qualcosa anche sulla dimensione
fisica: così si spiega per esempio la dottrina biblica della creazione che non è altro
che un tentativo di spiegare il mondo fisico dal punto di vista morale, ponendo il
primato del bene e della giustizia già dentro le fibre primordiali della materia
ricondotta nella sua origine a Dio.
13. Il punto di vista fisico
Guardando il mondo dal punto di vista fisico si giunge a concepire l’unità
dell’essere, e l’io, in questa prospettiva, si concilia con il mondo reale, perché si
considera a tutti gli effetti un frammento del mondo, un elemento tra gli elementi,
una goccia di acqua dell’immenso mare della vita, giunge a capire che lo scopo
del suo essere qui non è altro che essere qui, riconduce i sogni della mente alla
quieta saggezza della fisicità corporea. In questa prospettiva la più alta
produzione della mente è comprendere quanto sia vano fuggire dal mondo fisico
rifugiandosi in un’illusoria metafisica, smascherare l’ingenuità di chi pensa di non
essere «di questo mondo» (Giovanni 18,36), di avere la «patria nei cieli»
(Filippesi 3,20), di prendere origine da un ente trascendente a cui ci si rivolge
dicendo Pater e aggiungendo noster. Chi guarda il mondo dal punto di vista fisico
vede che non c’è nessun cielo che non sia anche terra, e nessuna terra che non sia
anche cielo, perché l’essere è uno e unitario, senza frattura alcuna.
Da questa prospettiva monistica si generano due vie, tra loro opposte: la via
che riconduce la dimensione spirituale alla materia, e la via che riconduce la
dimensione materiale allo spirito. Detto in altri termini: dall’unica prospettiva per
la quale esiste solo la natura si apre la possibilità o di ricondurre la natura
naturans alla natura naturata (giungendo al materialismo), o viceversa di
ricondurre la natura naturata alla natura naturans (giungendo al panteismo). Per il
primo caso si pensi al materialismo di Engels e Marx, per il secondo al panteismo
di Spinoza. In entrambi i casi si giunge all’unità dell’essere concepito come unico
e unitario. Qui mi soffermo in particolare su Spinoza, decisamente più
interessante per la teologia, e lo faccio a partire da questo brano della sua Etica:
«Annovero tra le finzioni quel che si dice comunemente, ossia che la natura
talvolta è in difetto o pecca o produce cose imperfette. La perfezione e
l’imperfezione sono in realtà soltanto modi di pensare, cioè nozioni che siamo
soliti formare perché confrontiamo gli uni agli altri individui della stessa specie o
genere. E per questa ragione ho detto sopra (parte II, def. 6) che per realtà e
perfezione intendo la stessa cosa». Spinoza trae le logiche conseguenze sul piano
etico del suo ragionamento: «Per quanto attiene al bene e al male, queste nozioni
non indicano qualcosa di reale nelle cose, considerate in se stesse, e non sono
altro che modi di pensare, ossia nozioni che formiamo confrontando le cose tra
loro. Infatti, una sola e medesima cosa può essere al tempo stesso buona, cattiva o
indifferente».3
Se il dualismo divide Dio e il mondo, il monismo di Spinoza unisce a tal punto
Dio e mondo da identificarli, nel senso che il mondo quale si dispone davanti a
noi è per lui semplicemente perfetto. Se alla coscienza qualcosa non appare tale, è
solo per l’incapacità di liberarsi del suo ristretto punto di vista; se però essa si
innalza al punto di vista del tutto (l’unico adeguato per un’autentica
considerazione filosofica), allora capirà che realitas et perfectio idem sunt (realtà
e perfezione sono la stessa cosa). E non proverà più nessuno scandalo, neppure di
fronte ai delitti più atroci, semplicemente perché i fatti solitamente chiamati delitti
non sono tali, come Spinoza scrive in una lettera del 13 marzo 1665 a un
interlocutore di nome Willem van Blijenbergh: «Il matricidio di Nerone, in quanto
contiene qualcosa di reale, non era un delitto».4
Provo a ragionare e mi chiedo che cosa contenga di reale l’assassinio della
madre Agrippina ordinato da Nerone. Ecco la descrizione che ne fornisce Tacito:
«I sicari circondarono il letto e il trierarca per primo la colpì al capo con un
bastone; quindi il centurione impugnò la spada per finirla, e allora Agrippina,
protendendo il ventre, esclamò: “Colpisci qui”, e spirò trafitta da più colpi».5 Il
bastone del trierarca, la spada del centurione, il sangue di Agrippina, sono
qualcosa di reale? Sì, lo sono, e infatti essi come tali non sono un delitto: né il
bastone, né la spada, né il sangue in sé sono un delitto. Però un delitto c’è stato, il
bastone ha colpito, la spada è penetrata, il sangue è fuoriuscito. Qualcosa di reale
e che come tale rimane bene (perché non ci sono dubbi che il bastone, la spada e
il sangue in sé sono un bene) ha prodotto qualcosa di altrettanto reale che invece è
un delitto (perché non ci sono dubbi che l’omicidio è un delitto). Lo stesso ad
Auschwitz: anche lì una congerie di oggetti reali che in sé sono un bene (corpi,
stivali, divise, filo spinato, mattoni, cani, gas, forni) hanno prodotto qualcosa che
bene non è. Lo spazio tra il bene in sé degli oggetti fisici e i delitti di Nerone e dei
nazisti è lo spazio della libertà. Ma si tratta di uno spazio che il monismo di
Spinoza, come ogni altro monismo, è destinato necessariamente a ignorare.
Nella medesima prospettiva di Spinoza si colloca Hegel con il celebre assioma
secondo cui «ciò che è razionale è reale, e ciò che è reale è razionale»,6 che
campeggia nella Prefazione alla Filosofia del diritto datata Berlino, 25 giugno
1820, e che prefigura il medesimo monismo destinato a trasformare di necessità
l’etica in diritto e il diritto in etica. Non a caso Hegel, nella Prefazione alla
seconda edizione dell’Enciclopedia datata Berlino, 25 maggio 1827, presenta una
vibrante difesa di Spinoza di cui invita a leggere le pagine che trattano «del male,
degli affetti, della servitù umana e della libertà umana» e conclude: «Non c’è
dubbio che allora ci si convincerà non solo dell’elevata purezza di questa morale,
il cui principio è il più puro amore di Dio, ma anche del fatto che questa purezza
della morale è conseguenza diretta del sistema».7
Un interprete contemporaneo di questa prospettiva è Marco Vannini, insigne
studioso di mistica speculativa, in particolare di Meister Eckhart, ma anche di
altre figure tra cui Margherita Porete, Giovanni Taulero, Daniel Czepko, Angelus
Silesius, Sebastian Franck, nonché autore di notevoli saggi filosofici. Secondo
Vannini, «c’è qualcosa di radicalmente malvagio nel dolore, ovvero il
disconoscimento della ragione universale, della necessità di ciò che avviene», nel
senso che «il dolore c’è perché c’è l’interesse personale». Per Vannini ne viene
che «il pensiero del male è radicato nell’io», ma che è sufficiente sopprimere l’io
praticando la morte dell’anima (come egli intitola un suo saggio) per rendersi
conto che «tutto ha un logos, tutto ha una ragione – non v’è l’irrazionale, non v’è
il male». La conclusione è netta: «Pensare il male è pensare male». E ancora:
«Questa consapevolezza è anzitutto filosofica e accomuna Eckhart a Spinoza [...].
L’uomo pensa il male perché è egli stesso malus – malvagio/malato –, ossia
perché ingiusto, legato al determinato e incapace di riconoscere nella necessità la
voce stessa di Dio».8
Come ho già detto, tutto dipende da quale punto di vista si considera il mondo,
se da quello logico-fisico o da quello morale. Ciò che a me impedisce di accettare
il monismo logico di Spinoza, di Hegel e di Vannini è proprio la realtà a cui
rimanda il termine scelto da Spinoza come titolo della sua opera principale,
l’etica. Io non sono disposto a considerare il bene (e conseguentemente il male
quale sua negazione) un punto di vista imperfetto, ma al contrario lo ritengo la
posizione più nobile a partire da cui pensare e vivere l’esistenza. Ne viene che per
me, a differenza di Spinoza, realtà e perfezione non sono la medesima cosa; che, a
differenza di Hegel, il razionale non diventa sempre reale (ci sono tante cose che
dovrebbero accadere e non accadono) e il reale non è sempre razionale (ci sono
tante cose che accadono e non dovrebbero accadere); e che, a differenza di
Vannini, pensare il male non è pensare male, perché mi si presentano alla mente
una serie di autori che hanno pensato il male e che a mio avviso hanno pensato
molto bene, in primo luogo Kant che ha posto «il male radicale» e poi, per stare
solo ad alcuni nomi del Novecento, Jaspers, Jonas, Arendt, Horkheimer, Buber,
Heschel, Foucault, Pareyson, Girard, oltre alla gran parte dei teologi
contemporanei.
Il punto di vista che ho assunto nel guardare la vita mi consente di scorgere
una notevole imperfezione nel mondo, un mare di sofferenza innocente provocato
dalla natura e dalla storia. Non muovo obiezioni dal punto di vista logico ai
sistemi di Spinoza e di Hegel e alla filosofia mistica di Vannini; essi fanno della
logica deduttiva il loro punto forte, sono elaborazioni della mente che, volendo
chiudere il cerchio, effettivamente lo chiudono. Per me è sufficiente aprire la
porta della mente al teatro del mondo per vedere che i conti non tornano, che il
cerchio chiuso della mente è scardinato dall’ondata delle lacrime di uomini,
piante, animali, di tutto ciò che vive e che vivendo soffre.
14. Il punto di vista morale
Guardando la vita dal punto di vista morale è inevitabile giungere alla rottura
dell’unitarietà dell’essere: realitas et perfectio idem non sunt (realtà e perfezione
non sono la stessa cosa). Da qui due possibilità:
– per chi non crede in Dio, percepire la vita all’insegna dell’assurdo;
– per chi crede in Dio, distinguere la trascendenza dall’immanenza ponendo
una dualità all’interno dell’essere, distinguendo (più o meno rigidamente) una
Realtà primaria detta Dio dalla realtà secondaria detta mondo.
Considerando la vita dal punto di vista morale, leggendola cioè alla luce del
primato del bene e della giustizia, se ne vedono lampanti le imperfezioni, si sente
l’amarezza per la presenza di tante ingiustizie, si scorgono malvagità e ipocrisie,
un mare di sofferenza innocente e un oceano di stupidità che troppo spesso
sembrano sommergere ogni cosa. Da qui il bisogno insopprimibile di rimandare al
di là, di credere a un mondo davvero diverso, a una sorta di tribunale della vera
giustizia, una cassazione celeste che ribalti le ingiuste sentenze di questo mondo e
faccia finalmente prevalere il diritto. Come scrive il NT: «Noi aspettiamo nuovi
cieli e una terra nuova nei quali avrà stabile dimora la giustizia» (2Pietro 3,13).
Da qui la prefigurazione del regno di Dio come contrapposto a «questo mondo»,
talora contrapposto a tal punto da generare collera e persino spirito di vendetta in
chi crede nei valori dell’altro mondo. Si spiegano così alcuni Salmi, alcuni passi
dei profeti biblici e le dure minacce della letteratura apocalittica, Apocalisse
neotestamentaria compresa. Tra gli scritti di Qumran spicca al riguardo la Regola
della guerra. Le più grandi filosofie generate da questa prospettiva sono i dualismi
di Platone e di Kant, contro i quali, per ristabilire l’unità lacerata, sorsero
Aristotele e Hegel.
Il punto di vista morale, della libertà che ha fame e sete di giustizia, desiderio
di pace e di uguaglianza, guarda il mondo e non si ritrova a casa, si percepisce in
esilio, e da qui proietta il suo vero sé nell’alto dei cieli, come questo testo orfico
del IV secolo a.C. ritrovato a Strongoli nei pressi di Crotone che fa dire all’anima:
«Sono figlia della Terra e del Cielo stellato, ma la mia origine è nel Cielo».9
L’utopia comunista, versione secolarizzata di tale prospettiva, proiettò la
realizzazione umana non più verticalmente nel cielo ma in linea orizzontale nel
futuro del «sol dell’avvenir», ma in ogni caso il destino obbligato di chi guarda
alla vita dal punto di vista morale è lo strappo rispetto al reale, perché porre il
primato dell’etica conduce necessariamente alla conclusione che l’essere non è
come deve essere, che questo mondo non è la patria definitiva, che in questa
epoca del mondo (in questo eone dicevano gli gnostici) la patria è forzatamente
«nei cieli». Nelle sue espressioni più radicali questa prospettiva porta l’io a non
identificarsi con l’espressione concreta del corpo e della psiche, ma a concepirsi
come una scintilla misteriosa, sorgente della più intima personalità, che solo il
Padre celeste conosce, e quindi producendo una pericolosa scissione interiore.
Rimane comunque che per chi pone il primato del bene e della giustizia la vita
vera non può essere che di là, perché qui, in questo mondo, regnano ipocrisia,
corruzione, furbizia, ingordigia, malaffare, assurdità, calunnia, il teatro degli
inganni con le sue maschere e le sue illusioni.
Una potente rappresentazione pittorica di questo sentimento della vita sono i
quadri di Hieronymus Bosch (1453-1516), in particolare il trittico delle Tentazioni
di sant’Antonio nel Museu Nacional de Arte Antiga di Lisbona e i trittici del
Giardino delle delizie e del Carro di fieno al Prado di Madrid. Raffigurando
uomini e donne con tratti animali, la pittura di Bosch corrisponde a una severa
visione del mondo a partire dal primato bruciante dell’etica. La medesima
prospettiva è depositata in uno scritto gnostico, il Vangelo di Filippo: «Nel mondo
vi sono molti animali che hanno forma umana; allorché egli [il discepolo di Dio]
li riconosce, getta ghiande ai maiali, getta orzo, paglia ed erba agli animali, getta
ossa ai cani».10
15. Bilancio
Il punto di vista che considera il mondo come organismo naturale si cura poco
delle ingiustizie, giudicate manifestazioni diverse dell’unico essere, tutte legittime
per il fatto stesso di essere reali; e anche quando le riconosce come tali, chi adotta
questo punto di vista si adopera per non preoccuparsene più di tanto, non se ne
affligge, tanto meno si scandalizza, semmai considera anche se stesso come parte
della generale ingiustizia che è la vita e lavora per superarsi e trascendersi, con la
volontà di estinguere l’io con la sua brama, fonte di ogni sofferenza. Qui la libertà
aderisce alla necessità dell’essere in quanto natura, concependosi come parte di
essa e spegnendo in sé ciò che tende a separarla dal flusso impersonale della
natura, del tutto privo di preoccupazioni etiche. Qui la libertà non si ribella,
aderisce; non cerca altrove il senso o Dio, ma sa che il senso o Dio è qui, ben più
alto dell’uomo e delle sue proiezioni necessariamente antropocentriche, fossero
pure le più nobili come la «fame e sete di giustizia» (Matteo 5,6). Considera che i
fenomeni, che per un verso sono iniqui e assurdi, per un altro non lo sono, e che
quindi non c’è nulla di iniquo e di assurdo in sé.
Il punto di vista che considera il mondo come occasione per l’esercizio del
bene e della giustizia si cura poco della logica e della sua necessità; e anche
quando la riconosce come tale, non può cessare di pensare alla sofferenza degli
innocenti e rifiuta di conseguenza ogni idea di eterna armonia, restituendo, come
Dostoevskij fa dire a Ivan Karamazov, il biglietto: «Troppo si è esagerato il valore
di quell’armonia, l’ingresso costa troppo caro per la nostra tasca. E perciò mi
affretto a restituire il mio biglietto d’ingresso». Biglietto d’ingresso per dove?
Non nel regno di Dio, ma in questo mondo, secondo quanto Ivan aveva detto in
precedenza al fratello Alioscia: «Non è Dio che non accetto, comprendi, ma il
mondo da Lui creato, è il mondo di Dio che non accetto e non posso risolvermi ad
accettare».11 La libertà che guarda il mondo dalla prospettiva morale non aderirà
mai alla necessità con la sua logica impersonale, non si arrenderà mai, non cesserà
mai di protestare, si sentirà sempre inappagata della realtà di questo mondo,
considererà anche i sistemi più cristallini dal punto di vista logico-mistico come
astratte costruzioni della mente incapaci di affrontare la spaventosa verità di
questo mondo, privo di pace e di giustizia.
Ma qual è il punto di vista più idoneo da cui guardare il mondo e la nostra
vita? Quello fisico della necessità, che non può essere né buona né cattiva?
Oppure quello morale della libertà, che può essere buona o cattiva? E chi vale di
più? Il saggio che prende atto di una logica ben diversa dal bene degli uomini e
non si indigna né soffre, neppure si scompone, ma continua a essere sereno e a
infondere serenità? Oppure il profeta che non si piega all’ordine delle cose ma vi
si ribella, e per questo soffre tormenti interiori ed esteriori, e vive e fa vivere in
continua tensione? E che cosa vale di più? La resa sapiente a un ordine del mondo
diverso da quello che gli esseri umani si aspettano e forse, almeno i bambini, si
meriterebbero? Oppure la resistenza etica di chi non si piega, e non piegandosi
riesce a far compiere al mondo, magari a prezzo della sua stessa vita, qualche
passo in avanti verso una maggiore giustizia? Qual è insomma il punto di vista da
assumere? Quello che cancella ogni punto di vista antropocentrico e considera le
cose senza gerarchie di valori ma ne accetta la beata necessitas? Oppure quello
espresso da quella parte dell’uomo solitamente designata come coscienza morale
e che genera fame e sete di giustizia?
Sono domande a cui non so rispondere e per questo dubito che l’alternativa tra
punto di vista fisico e punto di vista morale sia davvero conclusiva. Che questa
dicotomia sia reale non ci sono dubbi, c’è l’immenso fiume del pensiero
dell’umanità a testimoniare questa divisione, ma non credo che si tratti dell’ultima
parola sulla possibilità umana di concepire il mondo e di comprendere come agire
in esso. Vedendo i pro e i contro di una parte e dell’altra, io vado alla ricerca della
possibilità di conciliare la logica del mondo fisico con la sapienza del mondo
morale e intravedo tale possibilità nella prospettiva evolutiva, la quale considera il
mondo come un processo ininterrotto per nulla lineare, ma complessivamente
orientato verso una crescente organizzazione.
16. Noi e l’Universo
Così Marco Aurelio diciannove secoli fa: «Chi ignora per quale fine esista
l’Universo, ignora anche chi egli stesso sia [...] non saprebbe dire neppure per
quale fine egli stesso sia nato».12 Questo testo dell’imperatore-filosofo dice che
esiste una stretta relazione tra noi e l’Universo (inteso come insieme di tutti i
possibili mondi) e che, ragionando sull’Universo, ragioniamo anche su noi stessi;
anzi, Marco Aurelio sostiene che noi non possiamo concepire la nostra vera
identità a prescindere da ciò che sappiamo dell’Universo, e questo perché noi
siamo un pezzo di Universo.
Oggi si sente spesso ripetere che l’umanità al cospetto della totalità
dell’Universo è un insignificante granello di polvere, il che è assolutamente vero
dal punto di vista quantitativo che considera l’essere come energia e come
materia, né c’è bisogno di scomodare i tempi e gli spazi del cosmo, basta
considerare la vita sulla terra e sapere che la biomassa di tutta l’umanità è pari a
quella delle formiche e decisamente inferiore a quella dei batteri. Si dimentica di
aggiungere però che, dal punto di vista qualitativo, nella prospettiva cioè che
considera l’essere come informazione, l’umanità in ogni singolo rappresentante è
la più stupefacente elaborazione dell’Universo, visto che non esiste nulla di più
complesso, nell’Universo conosciuto, del cervello umano e delle sue capacità. E
per una corretta valutazione della nostra identità occorre considerare entrambe le
dimensioni, quella quantitativa e quella qualitativa.
L’Universo-mondo non se ne sta solo «là fuori», negli immensi spazi cosmici;
è anche qui, dentro di me: il mio mistero è contenuto nel suo mistero. È questo il
senso delle parole che Amleto rivolge ai falsi amici Rosencrantz e Guildenstern:
«Potrei essere confinato in un guscio di noce e credermi re dello spazio
infinito».13 Ragionando sull’origine dell’Universo-mondo, come gli uomini
hanno sempre fatto a partire dalle cosmogonie dell’antichità, ci si sente re degli
spazi e dei tempi infiniti perché si giunge a dominarli con la mente, fosse anche
solo per sentire di naufragare dolcemente in questo mare.14
In verità tale naufragio a volte non è per nulla dolce e si manifesta come
angoscia e disperazione (Kierkegaard), nausea (Sartre), noia (Moravia), ribellione
(Camus), generando un pessimismo cosmico di cui lo stesso Leopardi, insieme a
Schopenhauer e Cioran, è uno dei vertici moderni. Esso può arrivare a conoscere
l’esito fatale del suicidio, supremo gesto di indipendenza dalla catena che ci lega
al mondo e ci costringe a essere qui. Penso, tra i suicidi italiani, a Emilio Salgari,
Carlo Michelstaedter, Cesare Pavese, Guido Morselli, Alexander Langer, Mario
Monicelli, Lucio Magri. Probabilmente anche Primo Levi mise fine alla sua vita
con il suicidio, ma al riguardo qualcuno avanza dei dubbi ed è più propenso a
credere all’incidente.
Questa ignoranza sul fine e sul senso del vivere non costituisce un problema
per la scienza, la quale non è interessata alla domanda sul fine e sul senso; lo
costituisce però per la filosofia e per la teologia, le quali nascono proprio a partire
da qui, dal desiderio di pensare «per quale fine esista l’Universo», il più grande di
tutti i perché. Filosofia e teologia però possono oggi svolgere il loro compito in
modo adeguato e responsabile solo se soppesano con attenzione i dati offerti dalla
ricerca scientifica sul mondo e la sua conformazione (a proposito dei quali
rimando all’Appendice 1).
17. Cosmovisioni
Nonostante la battuta di Max Weber, oggi spesso ripetuta, che invitava chi
voleva avere visioni del mondo ad «andare al cinematografo»,15 io ritengo che
elaborare una visione del mondo o Weltanschauung rimanga un compito
ineludibile del pensiero, e che il successo della battuta weberiana riveli solo la
profonda crisi in cui si dibattono ai nostri giorni la filosofia, l’etica, l’estetica, la
politica, incapaci di armonizzarsi con i dati delle scienze e di produrre un sapere
unitario. Ritengo in altri termini che avesse perfettamente ragione Karl Jaspers
quando diceva che il senso stesso della filosofia è di presentarsi come esplicita
visione del mondo, intendendo con questa espressione «qualcosa di più di un
semplice sapere», perché la visione del mondo «è il principio, espresso in forma
universale, di un modo di valutare, di comportarsi e di agire».16
La mente umana ha sempre avvertito la necessità di accordare la fisicità del
mondo con la dimensione ideale che spinge a creare il bello e a praticare il bene:
così è per i Veda e le Upanis.ad, gli scritti buddhisti del Canone pali, il Tao Tê
Ching di Lao-tzu, i Quattro libri confuciani. Di questi ultimi il secondo,
L’invariabile mezzo, inizia così: «Il comando del Cielo si chiama natura, seguire
la natura si chiama Via, stabilire le regole della Via si chiama istruire»,17 una
frase da cui emerge con chiarezza il legame organico tra natura ed etica, ovvero
una visione del mondo. Una cosmovisione. Nella stessa prospettiva, per il Buddha
al primo posto dell’ottuplice sentiero vi è «la retta visione» (Sa?yutta Nik?ya,
56.11). E Gesù insegnava: «La lampada del corpo è l’occhio; perciò se il tuo
occhio è semplice, tutto il tuo corpo sarà luminoso» (Matteo 6,22). Tutto dipende
da come disponiamo lo sguardo.
La medesima necessità di accordare natura-phúsis (traslitterato anche physis)
ed etica-éthos si trova alla base delle quattro grandi scuole filosofiche greche
(platonismo, aristotelismo, epicureismo, stoicismo), sistemi nei quali l’etica si
collega alla fisica e all’ontologia, facendo scaturire il retto comportamento nel
mondo dalla retta visione del mondo. Lo stesso vale per le Summae medievali e
per i grandi pensatori della filosofia moderna, Cartesio, Spinoza, Leibniz, fino
agli idealisti tedeschi e a Schopenhauer. Le grandi filosofie e le grandi spiritualità
sono sempre state convinte che per un comportamento responsabile nel mondo sia
necessaria una responsabile visione del mondo. E quando l’armonia tra
dimensione fisica e dimensione etica della vita si realizza (il che può avvenire
solo a livello spirituale, come una costruzione sapienziale della mente e del
cuore), si produce una visione del mondo che è al contempo un’azione nel mondo,
una cosmovisione che è al contempo una cosmoprassi, e la mente avverte un
grande senso di unità. Così il Catechismo della Chiesa cattolica scrive all’articolo
282: «La dottrina sulla creazione è di capitale importanza, concerne i fondamenti
stessi della vita umana e cristiana». E sia chiaro che tra il dire dottrina sulla
creazione e il dire cosmovisione non c’è alcuna differenza.
A mio avviso le principali cosmovisioni sono raggruppabili secondo tre
prospettive, per designare le quali prendo in prestito la terminologia politica:
anarchia, monarchia, democrazia. Mi soffermo inizialmente sulle prime due.
L’anarchia è la cosmovisione oggi dominante tra le élite culturali, per quanto
anche nel passato avesse i suoi autorevoli esponenti. Essa interpreta il mondo
come generato dal caso e mandato avanti dalla necessità naturale che l’avvince
come una catena, ponendo però il fattore decisivo non nella necessità della legge
naturale, ma nell’aleatorietà del caso che l’ha generata. Il mondo quindi non è un
cosmo, una compagine ordinata, meno che mai è dotato di un qualunque fine; in
esso non c’è nessuno scopo, nessun senso, nessun principio, se non un’enorme
quantità di energia che genera e degenera il tutto, sempre e solo all’insegna
dell’unica legge della selezione naturale, la logica fredda che governa la natura in
ogni sua manifestazione, comprese le galassie, con l’unica mira della
propagazione di sé, una logica efficacemente definita del «gene egoista».18
La monarchia è la cosmovisione che dominava nel passato, per quanto anche
ai nostri giorni vi siano suoi sostenitori. Essa interpreta il mondo all’insegna
dell’ordine, ritenendo che il mondo si muova seguendo precise e determinate
leggi fisiche che sono il prodotto di forze tra loro finemente sintonizzate, di modo
che non c’è nulla di casuale ma tutto procede secondo una precisa necessità,
anzitutto fisica. In questa prospettiva Einstein era solito affermare God doesn’t
play dice, «Dio non gioca a dadi».19 C’è una necessitas alla guida del tutto, che
per Einstein corrisponde alle leggi impersonali della fisica, e che le antiche
tradizioni chiamavano anánch? in greco, fatum in latino, e che ancora oggi gli
hindu e i buddhisti chiamano karman in sanscrito e kamma in pali. Per i
monoteismi tale forza alla guida del cosmo è il Dio unico e personale, il quale
vede, prevede e provvede, e il cui disegno inevitabilmente si compie.
La contrapposizione tra queste due cosmovisioni è rispecchiata in quella tra le
due principali teorie alla base della fisica contemporanea, la meccanica
quantistica e la teoria della relatività. La meccanica quantistica si occupa del
comportamento degli atomi e delle particelle subatomiche; la teoria della
relatività riguarda lo spazio-tempo, l’energia e la gravitazione, il comportamento
delle galassie. La prima regna nell’infinitamente piccolo, la seconda
nell’infinitamente grande. Ognuna nel suo ambito funziona alla perfezione, ma i
fisici non sono in grado di conciliarle teoreticamente tra loro. Così Brian Greene,
fisico teorico della Columbia University, presenta la situazione: «Nel modo in cui
sono oggi formulate, la relatività generale e la meccanica quantistica non possono
essere giuste entrambe. Le due teorie responsabili del progresso straordinario
della fisica nell’ultimo secolo, le teorie che spiegano l’espansione dei cieli e la
struttura della materia, sono incompatibili tra loro».20
Forse già qui, nella struttura stessa della materia, si radica l’antinomia che
divide da sempre il pensiero umano, scisso tra caso e disegno, libertà e necessità,
assurdo e senso, contingenza e teleologia, anarchia e monarchia, punto di vista
morale e punto di vista fisico, caos e logos. Le quattro antinomie della ragione
pura delineate da Kant (la prima riguarda la dimensione del cosmo, la seconda la
struttura della materia, la terza il dilemma libertà-necessità, la quarta l’esistenza di
Dio), alle quali il filosofo affianca l’antinomia della ragion pratica (nel mondo,
alla giustizia non corrisponde la felicità),21 sono l’attestazione teoreticamente più
incisiva del conflitto archetipale tra cosmovisioni anarchiche e cosmovisioni
monarchiche, nodo strutturale della mente umana.
Precisamente perché ci troviamo di fronte a una necessità strutturale, e non a
due vie di cui una è vera e l’altra falsa, io ritengo necessario cercare un percorso
che sappia dare ragione a entrambe le prospettive. Come la meccanica quantistica
e la teoria della relatività corrispondono al reale pur non essendo conciliabili tra
loro, allo stesso modo vi corrispondono le cosmovisioni antitetiche dell’anarchia e
della monarchia: da un lato c’è la contingenza e la mancanza di un disegno
lineare, per cui, diceva Eraclito, «il tempo è un fanciullo che gioca spostando i
dadi»;22 dall’altro lato c’è la sensatezza dell’esistere e l’affermarsi di leggi
fisiche che rendono possibile l’esistenza, per cui, diceva Einstein, «Dio non gioca
a dadi». Da tempi i fisici teorici sono al lavoro per raggiungere un’unificazione
tra meccanica quantistica e teoria della relatività ipotizzando a tal fine la teoria
delle stringhe o delle superstringhe. Allo stesso modo, nell’ambito del pensiero,
oltre alle visioni del mondo come anarchia e come monarchia, io ipotizzo una
terza possibilità, quella di pensare il mondo in prospettiva evolutiva come
democrazia.
Secondo questa prospettiva il mondo consiste in un concerto di forze, a volte
più armonioso, a volte più dissonante, ordinato e caotico al contempo,
esattamente come tutti i sistemi democratici, i quali si caratterizzano per risultare
sempre troppo repressivi per la mente anarchica, notoriamente allergica a ogni
forma di ordine e disciplina, e sempre troppo lassisti per la mente monarchica,
notoriamente desiderosa di ordine e disciplina. Secondo la visione democratica
del cosmo, nella natura è all’opera un governo, ma un governo il cui esercizio è
possibile solo attraverso il consenso e sempre mediando tra le spinte contrapposte
di caos e logos, pólemos e armonia, entropia e neghentropia. Se non ottiene il
consenso, tale governo non può operare, per cui è costretto a «chiedere la
fiducia», a consistere in una continua, ininterrotta, richiesta di fiducia.
Dal punto di vista teologico ciò significa che la creazione divina, nella misura
in cui è generazione di spirito libero e non solo di oggetti inanimati o di viventi
privi di attiva responsabilità, istituisce un processo che non è pensabile come
esercizio di un dominio assoluto che procede dall’alto verso il basso in modo
rigorosamente unidirezionale. La creazione è da intendersi piuttosto come
passaggio da uno stato di assenza di vita e di libertà a un mondo che contiene la
vita e la libertà, e che per questo è analogicamente configurabile come una
democrazia basata sul consenso e la fiducia (che in teologia si chiama fede).
La teologia del passato pensava il mondo all’insegna degli ideali politici del
passato, basati sul governo di uno e sull’obbedienza di tutti gli altri. Basta leggere
alcuni passi della Bibbia per vedere che la mente degli uomini di allora pensava
Dio come un monarca assoluto circondato dalla sua corte (per esempio, Isaia 6,1:
«Io vidi il Signore seduto su un trono alto ed elevato», con successiva descrizione
della corte angelica) e non privo di tratti dispotici e arbitrari come ogni imperatore
che si rispetti (per esempio, Giobbe 2,6: «Eccolo nelle tue mani!», così Dio a
Satana a proposito della vita di Giobbe). Oggi l’evoluzione culturale dei sistemi
politici ha portato un numero crescente di regioni del mondo ad avere un governo
basato sul consenso e sulla negoziazione, il che a mio avviso ci fa avvicinare
maggiormente alla logica con cui Dio guida il mondo, la quale non è all’insegna
della dittatura ma della democrazia. Senza il volere del singolo infatti Dio non
governa sulla vita di nessuno; se uno non gli dice di sì, Dio non entra nella sua
esistenza, è solo tramite il sì della coscienza personale che la presenza divina
diventa attiva ed efficace. Si legge in Apocalisse 3,20: «Ecco, sto alla porta e
busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò
con lui ed egli con me». Occorre ascoltare la voce e aprire la porta. E
naturalmente quello che vale per il singolo essere umano occorre moltiplicarlo per
tutti gli esseri umani che vivono oggi, che hanno vissuto e che vivranno sulla
terra, con la conseguenza che da sempre il governo divino si attua
democraticamente. La democrazia del governo è la condizione indispensabile per
il rispetto della libertà dei governati, non sudditi ma cittadini, non schiavi ma
liberi, terminologia ben conosciuta dal NT che parla di «concittadini dei santi e
familiari di Dio» (Efesini 2,19), di «liberati per la libertà» (Galati 5,1), di «uomini
liberi» (1Pietro 2,16).
La libertà, però, ha un prezzo. Tale prezzo consiste nella possibilità quanto mai
concreta del male, con tutto il carico di dolore che esso porta con sé. C’è anche la
possibilità che l’umanità arrivi a fare del tutto a meno di Dio in quanto idea
sussistente del bene e quindi stimolo al primato esistenziale del bene; e in questo
caso Dio, in questo mondo, scomparirà. È quello che già avviene nell’esistenza di
molti. Il Dio che governa il mondo secondo democrazia lascia aperta la storia
della sua alleanza con gli uomini, la quale potrebbe anche fallire, e la meta, invece
del regno di Dio in quanto regno della libertà che vuole solo il bene e la giustizia,
potrebbe essere un immenso centro commerciale, dove tutto è in vendita e ognuno
ha il suo prezzo.
IV. PENSARE LA VITA
18. Evoluzione e/o creazione
Da sempre i credenti si sono interrogati sul tipo di governo che Dio esercita sul
mondo. Essere convinti dell’esistenza di tale governo è condizione essenziale
perché si possa parlare di fede, visto che l’esperienza della fede concretamente
vissuta consiste nella consegna della propria libertà a una dimensione altra, più
grande del singolo, alla quale il singolo cerca di conformarsi facendosi governare,
e dal cui governo, quanto più vi si abbandona, viene trasformato. Ma come
conciliare questo governo sulla propria interiorità tanto evidente alla coscienza
religiosa, con un mondo spesso in balìa dell’arbitrio, dell’irrazionalità, della
fatalità, dell’ingiustizia?
Si tratta di un problema antico, che già divideva i filosofi greci: da un lato gli
stoici che vedevano il mondo governato dal logos, dall’altro gli epicurei che
negavano ogni traccia di razionalità nel governo della natura e della storia e
postulavano la casualità della caduta degli atomi, stato di cose fotografato alla
perfezione da questo passo dello stoico Marco Aurelio: «Tieni presente
l’alternativa: o provvidenza o atomi».1 Qui desidero affrontare la questione dal
punto di vista cosmologico, mettendo cioè a fuoco il rapporto tra l’azione di Dio e
lo sviluppo naturale del mondo.
Qualche anno fa ebbe luogo una disputa abbastanza animata tra due importanti
uomini di Chiesa, entrambi fini intellettuali, il cardinale austriaco Christoph
Schönborn, domenicano, teologo e arcivescovo di Vienna, e il padre gesuita
americano George Coyne, astronomo e per molti anni direttore dell’osservatorio
della Santa Sede detto Specola Vaticana. Riferendosi a padre Coyne, il cardinal
Schönborn dichiarò: «Se un astronomo, che è anche sacerdote e teologo, insiste
addirittura nell’affermare che Dio stesso non poteva sapere con certezza che
dall’evoluzione sarebbe potuto scaturire come risultato l’uomo, allora il nonsenso ha raggiunto il colmo».2 Padre Coyne nega che Dio abbia determinato il
corso del passato persino riguardo a un evento tanto importante quale la comparsa
dell’uomo, ed è logico dedurre che per il padre gesuita tale incertezza vada estesa
anche al presente e al futuro; al presente nel senso che tutto ciò che in questo
momento vi ha corso non è voluto né favorito né impedito da Dio, e al futuro nel
senso che l’esito complessivo della vicenda cosmica è ignoto anche a Dio. Ma se
le cose stanno così, obietta il cardinal Schönborn, che senso ha parlare di Dio,
visto che alla sua essenza deve appartenere di necessità la capacità di prendersi
cura degli uomini e del mondo? Non si dovrebbe avere l’onestà di riconoscere che
se un uomo di fede giunge alle conclusioni di padre Coyne allora veramente «il
non-senso ha raggiunto il colmo» e si è in presenza della morte dell’idea di Dio,
in linea con la teologia autocontraddittoria così denominata?3
Siamo approdati a un terreno rovente, quello del rapporto tra creazione ed
evoluzione, intese non astrattamente quanto nel loro concreto sviluppo, ma è
esattamente qui che le diverse cosmovisioni devono provare se stesse. Al riguardo
è necessario anzitutto adottare il procedimento che i dottori scolastici medievali
definivano explicatio terminorum, cioè previa spiegazione di che cosa si intende
con i termini, per evitare, alla fine, di scoprire che si è discusso intendendo con le
stesse parole concetti diversi o con parole diverse concetti identici. Di
conseguenza io chiarisco che:
– con evoluzione intendo il dato di fatto che ci consegna la scienza, secondo
cui le specie viventi si adeguano e si trasformano al mutare delle condizioni
ambientali;
– con evoluzionismo intendo l’interpretazione dell’evoluzione unicamente
sulla base del nesso «mutazione casuale + selezione naturale», così da togliere
ogni direzione e ogni senso all’evoluzione, equiparata a mero cambiamento;
– con creazione intendo la prospettiva secondo cui tutto proviene da un unico
principio ontologicamente buono, per cui ogni cosa, per il fatto stesso di essere, è
bene, un ottimismo ontologico da cui discende un giudizio di valore sulla vita
come dotata di giustizia, razionalità, bellezza;
– con creazionismo intendo o la negazione di ogni forma di evoluzione in base
alla lettera dei testi biblici per cui si afferma che l’Universo è stato creato in sei
giorni, che la Terra ha un’età inferiore a diecimila anni, che le specie vegetali e
animali sono fisse, che l’origine fisica dell’uomo è da ricondurre direttamente a
Dio e che ovviamente Adamo ed Eva sono reali personaggi storici (creazionismo
radicale);4 oppure una sostanziale accettazione dell’evoluzione considerata però
come un Progetto Intelligente etero-guidato e in alcuni momenti sospeso per
lasciare spazio a interventi diretti di Dio, come nel caso della creazione
dell’anima umana, creata da Dio senza nessun concorso dei genitori
(creazionismo moderato o Intelligent Design).5
È decisivo notare che i poli contrari non sono creazione ed evoluzione, bensì
creazionismo ed evoluzionismo, cioè da un lato l’idea di chi ritiene che tutto
provenga più o meno direttamente da Dio, il corpo e l’anima dell’uomo, e le
stelle, le montagne, le balene, le farfalle, i batteri e i virus e tutti gli altri esseri
(minerali, vegetali, animali) pensati e voluti per se stessi all’insegna di un mondo
guidato dall’alto come in una monarchia; e dall’altro lato l’idea opposta di chi
ritiene che nulla sia pensato e voluto, nulla abbia un senso più ampio che lo
contenga, e quindi un senso della vita semplicemente non ci sia, ma si diano tanti
piccoli sensi che ognuno si inventa da sé in una natura che è bellum omnium
contra omnes, «guerra di tutti contro tutti», all’insegna di un mondo come
anarchia.6 Se quindi i due poli contrari sono creazionismo ed evoluzionismo,
questo significa che creazione ed evoluzione possono essere composte; anzi,
compito di una teologia responsabile è precisamente la loro composizione.
Io sostengo che, teologicamente parlando, l’evoluzione deve essere intesa
come una modalità di interpretare la creazione; e che, viceversa, filosoficamente
parlando, la creazione deve essere intesa come una modalità di interpretare
l’evoluzione. Sul piano teologico è la creazione il dato fondamentale, il punto da
cui partire per concepire il mondo e noi al suo interno; su quello filosofico,
invece, il dato fondamentale, nonché il punto da cui partire per concepire noi e il
mondo, è l’evoluzione.
L’evoluzione è oggi universalmente associata al nome di Charles Robert
Darwin e al suo libro del 1859 On the Origin of Species by Means of Natural
Selection, or the Preservation of Favoured Races in the Struggle for Life
(Sull’origine delle specie per mezzo della selezione naturale, o la preservazione
delle razze favorite nella lotta per l’esistenza). La conoscenza del titolo completo
del capolavoro darwiniano è importante perché mostra qual è l’apporto specifico
di Darwin, che consiste non solo e non tanto nell’affermazione della realtà
dell’evoluzione. Essa era già stata intuita e sostenuta da altri prima di lui, per
esempio in epoca moderna da Georges-Louis Leclerc conte di Buffon, da JeanBaptiste de Lamarck, da suo nonno Erasmus Darwin e ai suoi stessi giorni da
Alfred Russell Wallace; e, cosa abbastanza stupefacente, intuita già molto prima
nel VI secolo a.C. da Anassimandro di Mileto: «Dall’acqua e dalla terra riscaldate
nacquero o dei pesci o degli animali molto simili a pesci; in questi concrebbero
gli uomini».7 L’apporto specifico di Darwin consiste piuttosto nell’affermazione
della modalità mediante cui l’evoluzione si attua, cioè la selezione naturale
(natural selection) operante all’interno di una più complessiva lotta per l’esistenza
(struggle for life), un risultato al quale anche Wallace era a sua volta pervenuto.
Ecco al riguardo una delle frasi più significative di Darwin: «Si può dire,
metaforicamente, che la selezione naturale sottoponga a scrutinio, giorno per
giorno e ora per ora, le più lievi variazioni in tutto il mondo, scartando ciò che è
cattivo, conservando e sommando tutto ciò che è buono; silenziosa e
impercettibile essa lavora quando e ovunque se ne offra l’opportunità per
perfezionare ogni essere vivente in relazione alle sue condizioni organiche e
inorganiche di vita».8
Wittgenstein scriveva nel 1922 che «la teoria darwiniana non ha a che fare con
la filosofia più che una qualsiasi altra ipotesi della scienza naturale»,9
un’affermazione che oggi il grande logico e filosofo probabilmente non rifarebbe,
per il semplice motivo che il dato che Darwin ha contribuito grandemente a
consegnarci non è più una teoria (nel senso del termine che si contrappone a
fatto), allo stesso modo di come non è più una teoria l’ipotesi eliocentrica
copernicana o la struttura molecolare della materia. Dell’evoluzione si hanno
prove sulla base dei fossili e dell’anatomia comparata, mentre «le discipline
biologiche che sono emerse di recente (genetica, biochimica, ecologia, etologia,
neurobiologia e soprattutto biologia molecolare) hanno fornito prove
supplementari e una minuziosa conferma».10 Si tratta di un processo
sperimentato anche di recente, come nel caso dell’evoluzione osservata nel virus
dell’Aids e in quello dell’influenza aviaria, oppure nei batteri dell’influenza che
costringono a escogitare antibiotici sempre più potenti. Tale realtà dell’evoluzione
è stata riconosciuta anche dal Magistero cattolico con il discorso tenuto da
Giovanni Paolo II il 22 ottobre 1996 ai membri dell’Accademia Pontificia delle
Scienze: «Nuove conoscenze conducono a non considerare più la teoria
dell’evoluzione una mera ipotesi».11
L’evoluzione differenzia in modo irreversibile le cosmovisioni moderne da
ogni prospettiva antica, da ogni «ritorno a Parmenide»:12 c’è una storia
nell’essere, qualcosa nasce, qualcosa di nuovo si dà, e qualcosa muore senza
tornare mai più. Al contrario dell’antico saggio che ripeteva «niente di nuovo
sotto il sole» (Qohelet 1,9), e al contrario di Hegel che della natura pensava lo
stesso («nella natura non accade nulla di nuovo sotto il sole, e in tal senso il
gioco, pur così multiforme, dei suoi fenomeni porta con sé una certa noia»13),
l’evoluzione attesta che di cose nuove sotto il sole ne avvengono, alcune nascono
per la prima volta, altre tramontano definitivamente, c’è un divenire che produce
progresso ed estinzione, c’è un continuo mutare.
Occorre quindi prendere atto del dato evolutivo e introdurlo nel modo di
guardare e pensare il mondo, nella propria cosmovisione. Anche la teologia deve
farlo, e va detto che oggi, soprattutto grazie a Teilhard de Chardin e in Italia a
Carlo Molari, il dato dell’evoluzione è sempre più operante nel modo in cui molti
teologi pensano il mondo e l’azione di Dio. Questo ovviamente non significa che
la teologia debba rinunciare al suo apporto specifico nella costruzione di una
cosmovisione. Accostare infatti al dato scientifico dell’evoluzione il concetto
teologico di creazione significa assegnare all’evoluzione una direzione e una
finalità, ottenendo così una cosmovisione dotata di senso. E visto che anche noi
siamo un prodotto dell’evoluzione, questa prospettiva ha una decisiva ricaduta
sull’esistenza, la quale, a sua volta, può giungere ad avere un senso. Ho scritto
può giungere ad avere un senso, perché all’interno della cosmovisione
democratica in cui mi muovo il senso alla propria vita non si ottiene mai senza il
personale consenso. Non c’è senso senza con-senso.
Posso quindi riassumere dicendo che la cosmovisione all’insegna della
democrazia si basa su due tesi, una teologica e una filosofica:
– tesi teologica: la creazione va pensata come evoluzione, come creatio
continua;
– tesi filosofica: l’evoluzione va pensata come creazione, come tendenza della
vita verso una progressiva organizzazione, verso un’emersione dal basso di livelli
sempre più strutturati di complessità.
Tale prospettiva mi porta ad affrontare una duplice battaglia, all’interno e
all’esterno della teologia. Si tratta infatti di rispondere a queste due domande:
– è legittimo, dal punto di vista teologico, interpretare la creazione come
evoluzione?
– è legittimo, dal punto di vista scientifico e filosofico, interpretare
l’evoluzione come creazione?
La prima domanda accende una disputa teologica con chi ritiene che la
creazione non debba essere ridotta all’evoluzione con la sua contingenza e la sua
casualità, soprattutto per quanto concerne l’uomo e la sua anima. Vi sono credenti
infatti che rimangono saldamente ancorati alla prospettiva tradizionale senza
essere in alcun modo disposti a rivedere l’idea del rapporto tra Dio e la natura. Per
loro la teoria di Darwin rimane una minaccia mortale e non perdono l’occasione
di farne un bersaglio polemico, talora anche con una certa aggressività.14
La seconda domanda accende una disputa filosofica con chi legge la natura
come del tutto priva di direzione e considera come arcaici residui metafisici quei
discorsi che, alla luce della progressiva organizzazione della materia da enti privi
di vita a organismi capaci di amare, intendono sostenere una finalità della natura.
19. Creazione = evoluzione
Per la dimensione teologica della tesi (creazione = evoluzione) è utile
riprendere la disputa Schönborn-Coyne. Alle affermazioni del cardinale
domenicano riportate sopra, l’astronomo gesuita replicò: «Il mio punto di vista è
questo: Dio non vuole avere tutto sotto controllo. Vuole che l’Universo abbia la
sua autonomia e il suo dinamismo. L’Universo condivide la sua autonomia e il
suo dinamismo. Ho dovuto affrontare il cardinal Schönborn su questo. Ha detto
che l’evoluzione neodarwiniana non è compatibile con la dottrina cattolica. È
sbagliato. È semplicemente sbagliato».15
Il cardinal Schönborn aveva pubblicato sul «New York Times» del 7 luglio
2005 un articolo intitolato Finding Design in Nature (Scoprire un disegno nella
natura) in cui si leggeva: «L’evoluzione nel senso di una discendenza comune può
essere vera, ma l’evoluzione nel senso neodarwiniano – un processo non guidato e
non pianificato di variazioni casuali e selezione naturale – non lo è. Ogni sistema
di pensiero che nega o cerca di escludere la schiacciante evidenza di un disegno in
biologia è ideologia, non scienza».
Il cardinal Schönborn nel 2005 afferma che l’evoluzione neodarwiniana non è
compatibile con la dottrina cattolica; padre Coyne nel 2006 replica che questo è
simply wrong, semplicemente sbagliato; nello stesso anno il cardinal Schönborn
si riferisce a padre Coyne dicendo che con le sue posizioni si raggiunge il colmo
del non-senso. C’è la possibilità di chiarirsi le idee su come stanno le cose quanto
al rapporto tra dottrina cattolica e teoria dell’evoluzione?
Vent’anni prima, per la precisione il 26 aprile 1985, Giovanni Paolo II aveva
tenuto un discorso con cui il Magistero della Chiesa cattolica apriva le porte
all’evoluzione darwiniana: «La fede nella creazione rettamente compresa e la
teoria dell’evoluzione rettamente intesa non si intralciano a vicenda: l’evoluzione
infatti presuppone la creazione; la creazione si pone nella luce dell’evoluzione
come un avvenimento che si estende nel tempo – come una creatio continua – in
cui Dio diventa visibile agli occhi del credente come Creatore del cielo e della
terra».16 Il 22 ottobre 1996, nel testo indirizzato all’assemblea plenaria della
Pontificia Accademia delle Scienze già ricordato in precedenza, Giovanni Paolo II
divenne ancora più esplicito: «Oggi nuove conoscenze conducono a non
considerare più la teoria dell’evoluzione una mera ipotesi».17
Da queste affermazioni sembra proprio che la Chiesa cattolica ai suoi livelli
più alti non abbia più nessuna difficoltà ad ammettere l’evoluzione. Ma come
spiegare allora l’animata disputa tra il domenicano Schönborn e il gesuita Coyne?
Il punto decisivo in realtà consiste nel come intendere il rapporto tra la volontà
divina e le dolorose contingenze di cui è disseminato il cammino evolutivo: anche
queste sono controllate, e quindi volute, dal Creatore? Fino a quando si considera
l’aspetto glorioso della natura, quello che porta a cantare la domenica a messa «i
cieli e la terra sono pieni della tua gloria» e il sacerdote a recitare rivolgendosi a
Dio nella preghiera eucaristica «fai vivere e santifichi l’Universo», non ci sono
difficoltà a rintracciare l’evidenza, più o meno schiacciante, di un disegno. In un
discorso del 10 luglio 1985 Giovanni Paolo II sottolineava «la perfetta
organizzazione che la scienza non cessa di scoprire nella struttura della materia» e
proseguiva: «Di fronte alle meraviglie di quello che si può chiamare il mondo
immensamente piccolo dell’atomo, e il mondo immensamente grande del cosmo,
lo spirito dell’uomo si sente interamente superato nelle sue possibilità di
creazione e persino di immaginazione, e comprende che un’opera di tale qualità e
di tali proporzioni richiede un Creatore». Fino a quando si guarda la natura nella
prospettiva di questa theologia gloriae non ci sono difficoltà a intendere la
creazione come evoluzione e quindi a integrare il dato scientifico con la dottrina
cattolica. Se però si passa a considerare l’aspetto tragico della natura, purtroppo
altrettanto reale di quello glorioso, l’evidenza di un disegno non è più così
schiacciante, tanto più se il disegno che si svolge in natura è da attribuire a un
essere onnipotente e perfettamente giusto. Le catastrofi cosmiche, le glaciazioni,
le estinzioni e tutti gli altri eventi giunti a turbare il cammino evolutivo fino a
mutarne radicalmente la direzione, sono da intendersi come voluti e progettati da
Dio in quanto parte del disegno con la sua «schiacciante evidenza»? La nutrizione
di buona parte degli animali che avviene a spese della vita di altri animali è parte
del disegno? Le migliaia di malattie che corrodono la salute dei corpi portandoli
alla morte sono parte del disegno? In particolare le malattie genetiche che
incombono sulla nascita degli esseri umani colpendo oltre 8000 neonati al giorno
nel corpo e nella psiche, sono parte del disegno?18
Si è chiesto Yves Coppens, celebre paleontologo francese: «Perché
l’evoluzione funziona così bene nel mondo fisico e tanto male nel mondo degli
uomini?».19 A prescindere dalla considerazione di merito, è significativa la
diversa visuale tra chi guarda dall’alto, per esempio un cosmologo, e chi guarda
dal basso, per esempio un paleontologo. I teologi sono soliti osservare dall’alto,
ma qualche volta assumono anche l’altro punto di vista come in questo brano di
John Henry Newman (1801-1890), teologo e cardinale, proclamato beato da
Benedetto XVI il 19 settembre 2010: «Ad osservare il mondo in lungo e in largo,
le vicende della sua storia, la molteplicità delle razze umane, i loro inizi, le loro
sorti, il loro contrapporsi l’una all’altra, le loro lotte; e i loro usi, costumi, governi,
forme di culto; le loro imprese, il loro procedere senza meta, la casualità delle
conquiste, la misera fine di realtà millenarie, i segni così deboli e dispersi di un
disegno superiore [the tokens so faint and broken of a superintending design],
l’evoluzione cieca [the blind evolution] di quelle che poi si rivelano grandi forze o
grandi verità, il procedere delle cose, come da elementi privi di ragione, non verso
cause finali, la grandezza e la miseria dell’uomo, la grandiosità delle sue
aspirazioni, la brevità della sua vita, il velo che nasconde il suo destino futuro, le
delusioni della vita, la sconfitta del bene, il successo del male, il dolore fisico,
l’angoscia morale, il dominio e la forza del peccato, la diffusione dell’idolatria, la
corruzione, la tristezza di una religione senza speranza, quella condizione
dell’intero genere umano che l’apostolo descrive con così tremenda precisione:
“senza speranza e senza Dio in questo mondo”; si ha una visione che dà sgomento
e vertigine, e impone all’anima un senso di profondo mistero, assolutamente al di
là di una possibile soluzione umana. Che dire di fronte a questa realtà che strazia
il cuore e disorienta la ragione?».20
Penso sia impossibile sfuggire alla verità di queste affermazioni. Ma come
interpretare tutto ciò rispetto al governo di Dio? Da un lato il cardinal Schönborn
sostiene «la schiacciante evidenza di un disegno in biologia», dall’altro il cardinal
Newman scrive di «segni così deboli e dispersi di un disegno superiore» e giunge
persino a parlare di blind evolution, «evoluzione cieca». Accettando in teologia il
dato dell’evoluzione, il punto è precisamente se considerarla cieca o vedente. La
questione concerne l’interpretazione del negativo: si tratta di qualcosa che il
divino permette per trarne un bene maggiore, come scrive il Catechismo della
Chiesa cattolica? Io penso di no. Io penso che occorra riconoscere che il caso,
l’assurdo, il non-senso sono presenti nella vita e nel suo sviluppo senza nessuno
che li abbia disposti o permessi e che poi, vedendoli, provveda. Io penso che il
caos delle origini non sia mai stato domato una volta per sempre, che il tohu
(deserto) e il bohu (vuoto) dello stato iniziale del mondo descritto da Genesi 1,2
siano realtà attuali, operanti qui e ora, e che per questo il lavoro divino, ben lungi
dall’essersi concluso al termine delle sei giornate archetipali (Genesi 2,2: «Dio
cessò nel settimo giorno da ogni suo lavoro»), sia sempre faticosamente all’opera,
sia creatio continua.
Anche Giovanni Paolo II ha parlato di creatio continua, ma si tratta di
rispondere con chiarezza alla seguente domanda: tale creazione continua è da
pensarsi come controllo continuo sul mondo e sulla sua direzione, oppure no? Qui
Schönborn e Coyne divergono: per il primo la risposta è sì, per il secondo la
risposta è no.
Padre Coyne nega che Dio controlli l’evolversi del mondo determinandone la
direzione. Sostiene piuttosto che «Dio alimenta continuamente l’Universo, ha
dato all’Universo la propria creatività, il proprio dinamismo, e lavora con
l’Universo, più che dominarlo». Queste parole rimandano a una logica di
collaborazione, non di controllo; di negoziazione, non di dominio; una logica che
Coyne non teme di applicare persino alla questione cruciale dell’origine della
vita. Chiedendosi infatti se la vita sia nata in modo necessario, risponde: «È una
questione aperta, ma io propendo per il no, perché non era certo che nascesse. Vi
erano implicati alcuni processi casuali. Non è stato solo caso, ma vi sono stati
eventi casuali nell’evoluzione della vita».21 Coyne esclude che la nascita della
vita sia stata solo un caso, quindi dice no all’anarchia; ma ammette che il caso ha
avuto un ruolo, quindi dice no anche alla monarchia: la prospettiva
dell’astronomo gesuita si inserisce nella cosmovisione all’insegna della
democrazia.
Si tratta di una visione coerente con quella dell’attuale Magistero pontificio?
Onestamente non ritengo sia possibile rispondere di sì. A mio avviso non ci sono
dubbi che chi rappresenta con coerenza l’attuale dottrina cattolica su creazione ed
evoluzione sia il cardinal Schönborn e non padre Coyne.
Il punto decisivo è proprio il controllo di Dio sul mondo e quindi l’affermarsi
di un disegno opera di un Disegnatore. Scrivendo sul «New York Times» che di
tale disegno in biologia vi è una «schiacciante evidenza», Schönborn riproduce
esattamente la posizione di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Così per esempio
il pontefice polacco disse il 10 luglio 1985: «Parlare di caso per un Universo che
presenta una così complessa organizzazione negli elementi e un così meraviglioso
finalismo nella vita, significa rinunciare alla ricerca di una spiegazione del mondo
come ci appare».22 Non c’è nessuna differenza rispetto a quanto affermato da
Schönborn. E per quanto riguarda il pensiero del pontefice tedesco, di cui
Schönborn è stato allievo, un articolo molto documentato del cardinale austriaco
mostra la totale assonanza tra i due.23 Tra padre Coyne, che all’interno
dell’evoluzione dei viventi ammette una presenza determinante del caso (per cui
neppure gli uomini potevano essere previsti da Dio), e il cardinal Schönborn, che
nella stessa evoluzione esclude che il caso possa risultare determinante (per cui
gli uomini sono apparsi perché da sempre previsti da Dio), non c’è ombra di
dubbio su chi rispecchi più fedelmente la posizione attuale della dottrina cattolica.
Altra questione è chi dei due sia più vicino alla verità, chi dei due colga meglio
la logica con cui si muove la vita nel mondo. Tra verità e dottrina cattolica infatti
non c’è sempre coincidenza. Per molti credenti dire verità e dire dottrina è la
medesima cosa, ma la storia insegna che non è così, che a volte la dottrina
cattolica ha affermato teorie in seguito rivelatesi contrarie alla verità, e viceversa
ne ha condannate altre in seguito rivelatesi conformi alla verità. È la storia a
evidenziare in modo chiaro (Schönborn parlerebbe di «schiacciante evidenza»)
come alcuni principi sostanziali del cristianesimo quali la libertà religiosa, il
rispetto della sacralità della vita con il no alla tortura e alla pena di morte, l’amore
per la verità al di sopra di ogni spirito di parte, la separazione Chiesa-Stato,
l’uguaglianza di tutti gli uomini e la conseguente condanna della schiavitù,
persino la lettura e lo studio della Bibbia, tutto questo, oggi parte
dell’insegnamento ufficiale della Chiesa, si sia dovuto affermare spesso contro le
gerarchie vaticane (per la documentazione al riguardo rimando al mio libro Io e
Dio).
Ma tornando alla questione specifica di questo paragrafo, ricapitolo quanto
discusso dicendo che la tesi «creazione = evoluzione» comporta due asserti:
– la creazione non è ancora conclusa;
– la creazione si fa in modo libero.
Questi due asserti si pongono contro ogni forma di creazionismo, cioè di
quella cosmovisione che, nella versione più radicale, ritiene che vi sia un disegno
che cala dall’alto senza che il mondo abbia alcun tipo di autonomia e concepisce
la creazione come un evento avvenuto una volta per sempre all’inizio dei tempi;
oppure che, nella versione più moderata, ritiene che l’evoluzione con cui procede
la natura attesti l’intervento diretto di Dio in alcuni snodi particolari perché solo
così si spiegherebbe la comparsa di una grandissima e stupefacente complessità
(l’esempio classico al riguardo è l’occhio). Al contrario la tesi «creazione =
evoluzione», implicando l’idea di un Dio che non ha mai interrotto il suo lavoro
nel cosmo all’insegna della creatio continua, concepisce tale lavoro divino non
come imposizione dall’alto di forme pensate a priori, né come intervento puntuale
per realizzare alcune svolte decisive del cammino evolutivo, ma come
suscitazione dal basso di un cammino orientato verso l’intelligenza e lo spirito,
non senza passare attraverso un’immane fatica e sofferenza di tutte le cose,
compresa la casualità, perché Dio attira verso la meta ma non impone l’itinerario.
Esistono quindi tre possibilità di concepire l’evoluzione:
– come processo senza meta (evoluzionismo ortodosso);
– come processo dotato di meta e di itinerario prefissato, per lo meno in alcuni
tratti decisivi (creazionismo);
– come processo con meta ma senza itinerario prefissato (evoluzione come
creazione).
La terza posizione, quella da me sostenuta, concepisce l’evoluzione come il
viaggio dell’Odissea, orientato globalmente al ritorno a Itaca ma con una serie di
avventure e sbandamenti che non hanno altro senso se non il loro stesso accadere
e che spesso sono contrari rispetto alla meta finale. Così, a mio avviso, stanno le
cose per la natura: c’è in essa un orientamento di fondo verso la crescita
dell’organizzazione e della complessità fino a raggiungere la meta che è data dalla
mente (l’essere che sa se stesso), dallo spirito (l’essere che sapendosi diviene
libero di accettarsi o rifiutarsi) e dallo spirito santo (l’essere che sapendosi accetta
se stesso e il mondo, e riproduce nella prassi la logica tendente all’armonia che ha
reso possibile la vita), ma la natura in questo suo percorso non ha nessun
itinerario prefissato, compresa la comparsa di Homo sapiens, sottoposta, come
ogni altro evento naturale, alla contingenza.
Come interpretare altrimenti le catastrofi cosmiche avvenute sulla Terra
attestateci dai fossili? I dati parlano di diversi eventi accaduti centinaia di milioni
di anni fa, tra cui la catastrofe più nota di 65 milioni di anni fa che portò
all’estinzione dei dinosauri. A mio avviso questi eventi insegnano due cose sulla
storia della vita sulla Terra:
1) che non c’è un Disegnatore esterno al mondo che disegna le vicende dei
viventi come se si trattasse di un cartone animato;
2) che c’è un disegno interno al mondo che va drammaticamente emergendo
dal caos, visto che la vita, dopo ognuna di queste catastrofi, ha sempre ripreso il
suo percorso verso forme più complesse e più organizzate.
In questa prospettiva io penso che Dio non sia un Disegnatore Intelligente
esterno al corso della natura e che la guidi dall’alto. Se infatti fosse così, dato che
all’aspetto positivo e creativo della natura occorre affiancare l’aspetto negativo e
distruttivo (sempre che si voglia rispettare i dati nella loro integralità), la sua
immagine più coerente sarebbe quella della divinità hindu di nome ?iva, il Dio
creatore e distruttore nello stesso tempo, e di lui bisognerebbe parlare non solo
come Disegnatore ma anche come Cancellatore, e affermare l’esistenza non solo
di un Disegno intelligente ma anche di Cancellazioni intelligenti, tra cui far
rientrare accanto alle catastrofi cosmiche fenomeni come carestie, siccità,
inondazioni, uragani, epidemie, terremoti, tsunami... che hanno fatto chissà
quante vittime lungo la sterminata storia del mondo, eventi-cancellazioni in cui si
vede tanto dolore e ben poca intelligenza.
Penso quindi che l’evoluzione sia affidata al caso quanto ai modi concreti di
realizzazione (l’itinerario) e da questa convinzione traggo la conclusione,
concordando con padre Coyne, che il genere umano non era previsto in quanto
tale da Dio, affermazione da cui consegue che tanto meno è previsto il singolo
uomo, sia nella sua nascita sia nella sua morte. L’evoluzione però non procede
casualmente quanto al fine ultimo che intende raggiungere (la meta), cioè la
crescita dell’organizzazione verso la vita come libertà, spirito, spirito di santità.
Dopo ogni estinzione infatti si è avuta una ripresa ancora più intensa della vita, e
dall’estinzione dei dinosauri si è avuta la grande propagazione dei mammiferi. È
lecito chiedersi se senza l’asteroide di 65 milioni di anni fa oggi sulla Terra
avremmo la dominazione degli esseri umani, oppure avremmo ancora quella dei
rettili. Nessuno ovviamente lo sa, perché, come scrive de Duve, «forse i
mammiferi erano destinati a soppiantare comunque i dinosauri per ragioni legate
alle proprietà intrinseche delle due specie animali».24 In ogni caso però, anche
ammettendo la continuazione del dominio dei rettili, io sostengo che avremmo
oggi rettili pensanti, dotati di libertà e creatività, avremmo un Saurus sapiens. C’è
una logica nella storia dell’Universo, ed essa consiste nella costruzione della
Mente. Intuendo tale logica, Aristotele collocò la pienezza dell’essere nel noûs
poi?tikós (tradotto abitualmente con «intelletto attivo», ma traducibile meglio a
mio avviso con «spirito creativo») definendolo «immortale ed eterno»;25 Spinoza
affermò che «la mente umana non può distruggersi del tutto con la distruzione del
corpo, ma di essa rimane qualcosa che è eterno»,26 e Schrödinger ai nostri giorni
è giunto a scrivere che «la teoria fisica nel suo stato presente suggerisce
energicamente l’idea dell’indistruttibilità dello Spirito per opera del Tempo».27
La teologia tradizionale esprime tutto ciò quando afferma che Dio crea il
mondo «per la sua gloria», la quale va intesa proprio come vita dello spirito. La
gloria di Dio infatti è l’uomo vivente in quanto dotato dello spirito di santità
(Ireneo di Lione: «La gloria di Dio è l’uomo vivente e la vita dell’uomo è la
manifestazione di Dio»28). Ne viene che il fine della creazione di Dio non è
l’uomo in quanto animale fisico, in quanto homo, ma l’uomo in quanto spirito, in
quanto sapiens. Il fine della creazione è che la perfetta configurazione dell’essere
che costituisce la Realtà primaria chiamata tradizionalmente Dio arrivi a costituire
anche le creature, in quel processo che la teologia spirituale chiama the?sis,
divinizzazione. Dio è spirito, e quindi vuole lo spirito, cioè la libera
consapevolezza, la personalità. Il fine della creazione non è quindi la persona
umana, ma la personalità spirituale.
In questa prospettiva, se dicendo creazione si esprime un ottimismo ontologico
che conduce a un giudizio positivo sulla vita in quanto dotata di bellezza e
razionalità, dicendo continua si esprime la consapevolezza che la vita esiste come
processo ancora in atto, per nulla definito, esposto ai fallimenti, un processo
drammatico, talora tragico, per sostenere responsabilmente il quale la coscienza
entra in quella disposizione nota come passione.
Si tratta di una visione sostenibile per la teologia cristiana? A mio avviso non
solo è sostenibile ma è la più legittima alla luce della Bibbia, la quale, letta per
intero, appare molto distante dal creazionismo. Più avanti mi soffermerò sui molti
attori negativi che la Bibbia mette in scena sul palcoscenico della creazione, tra
cui il Serpente, i Mostri, le Signorie cosmiche, le Potenze sataniche, immagini
simboliche della carica negativa che attraversa la creazione e la porta a «gemere e
soffrire le doglie del parto» (Romani 8,22). Nel mondo naturale c’è un immenso
carico di disordine e di dolore, il mondo è un processo sottoposto allo scontro di
molteplici forze dall’esito imprevedibile nel quale spesso vincono il caos, il
disordine, la crudeltà: la Bibbia tutto questo lo sa e a suo modo lo insegna.
La maggiore obiezione al creazionismo consiste proprio nel disordine e nelle
crudeltà della natura di fronte alle quali Dio non interviene, un non-intervento
effettivamente inspiegabile se, invece, altre volte interviene. Come spiegare che
Dio interviene a creare direttamente l’occhio e non quando milioni di occhi
vengono spenti per sempre nelle camere a gas? Come spiegare che Dio interviene
a creare direttamente l’anima umana al momento del concepimento e non quando
il corpicino a cui l’anima si unisce contrae una malformazione genetica? Io mi
sono posto per anni queste domande senza mai trovare una risposta adeguata nella
dottrina ufficiale e nella teologia a essa conforme, e per questo sono giunto a
bandire dalla mia mente ogni forma di creazionismo, origine dell’anima umana
compresa.
Il creazionismo infatti non è solo quello che deriva da un’interpretazione
letteralista dei testi sacri, fino all’estremo di un vescovo anglicano del Seicento
che studiando la Bibbia giunse a individuare quale data esatta della creazione il 23
ottobre 4004 a.C. (il suo nome era James Ussher). C’è una forma più raffinata di
creazionismo, quella che sostiene un legame diretto tra l’atto creativo divino e
l’anima spirituale. Si legge a questo proposito nel Catechismo della Chiesa
cattolica: «L’anima spirituale non viene dai genitori, ma è creata direttamente da
Dio» (Compendio, art. 70). Giovanni Paolo II, proprio nel discorso del 1996 con
cui riconosceva che l’evoluzione oggi non è più una teoria, continuava: «Se il
corpo umano ha la sua origine nella materia viva che esisteva prima di esso,
l’anima spirituale è immediatamente creata da Dio».
Poi tirava le logiche conseguenze: «Le teorie dell’evoluzione che, in funzione
delle filosofie che le ispirano, considerano lo spirito come emergente dalle forze
della materia viva o come un semplice epifenomeno di questa materia, sono
incompatibili con la verità dell’uomo».29
Il creazionismo si può definire come la riconduzione dell’uomo (o per intero o
solo per l’anima spirituale) direttamente a Dio, togliendo ogni mediazione della
natura. Al contrario io penso che in questo mondo non vi sia nulla che avvenga
senza la mediazione della natura, compresa la generazione dell’anima spirituale,
generata dai genitori che proprio per questo si chiamano così, perché generano.
Naturalmente anche i genitori fanno parte di un più ampio processo che è la
creazione continua, e quindi non sono certo gli autori né tanto meno i padroni
della vita dei loro figli, ma il loro concorso è decisivo per la vita che appare,
anche per l’anima spirituale.
Nell’omelia della messa inaugurale del pontificato, il 24 aprile 2005,
Benedetto XVI affermò: «Non siamo il prodotto casuale e senza senso
dell’evoluzione. Ciascuno di noi è il frutto di un pensiero di Dio. Ciascuno di noi
è voluto, ciascuno è amato, ciascuno è necessario». In che senso noi siamo voluti
da Dio? Questo corpo, questo carattere, questa dose di intelligenza e di emotività,
questi pregi e questi difetti nella loro insopprimibile concretezza, sono il frutto di
un pensiero di Dio? Ciascuno di noi, così com’è, è davvero pensato in eterno
dall’Eterno? Se penso al modo concreto con cui gli esseri umani vengono al
mondo; se penso al modo concreto con cui se ne vanno dal mondo; se penso ai
loro corpi e ai loro caratteri così irrimediabilmente imperfetti; se penso alle mille
fatalità che incombono sulle loro vite in ogni attimo dell’esistenza; se penso a
queste cose e alle mille altre che sarebbe possibile nominare, la mia mente e il
mio cuore avvertono l’infondatezza delle parole di Benedetto XVI che affermano
l’esistenza di un disegno intelligente per ciascun essere umano. A parte le leggi
naturali della fisica che sono costanti nello spazio e nel tempo, io penso che non
vi sia nulla di necessario nel processo della vita, intendendo per necessario ciò
che discende da una disposizione esterna al processo vitale, più forte del processo
vitale, e tale da attuarsi sempre e comunque. Questo non significa però che per me
nella trama della natura tutto sia casuale e senza orientamento, come discuterò nel
prossimo paragrafo.
Desidero concludere questo paragrafo con un riferimento diretto alla teologia.
La tesi «creazione = evoluzione» rende chiaro che la teologia della creazione è
ben altro che protologia, mera risalita della mente alla ricerca dell’istante
dell’inizio del mondo; la teologia della creazione è piuttosto ricerca del principio
del mondo. Il che avviene solo a condizione di inserire se stessi nel processo che
in ogni momento si fa, e che costruisce senso solo mediante il consenso della
libertà. La teologia della creazione è passione spirituale.
20. Evoluzione = creazione
Visto che non conosce la categoria di fine (in greco télos), la scienza si guarda
da ogni considerazione teleologica e gli scienziati non introducono nelle loro
ricerche la domanda sul fine o lo scopo degli eventi naturali, limitandosi a offrire i
dati puntuali e la considerazione sulle loro cause. In questa prospettiva già nel
1790 Kant parlava del concetto teleologico come di «quel forestiero nella scienza
della natura»,30 e ai nostri giorni la National Academy of Sciences degli Stati
Uniti ha dichiarato: «La scienza non si occupa del problema se vi sia uno scopo
nell’universo o nell’esistenza umana».31
La vita umana però è più della scienza e quindi non è riducibile
all’epistemologia scientifica, prova ne sia che nessuno nell’esistenza concreta
vive a prescindere dalla finalità, e anche gli scienziati, che non introducono la
categoria di fine nelle loro ricerche, perseguono in quanto uomini precise finalità
nel condurle e nel pubblicarle. La mente non è riducibile alla formalizzazione
scientifica del sapere e quindi conosce, utilizza e si muove secondo finalità. Per
questo alcuni scienziati, quando cessano di essere solo scienziati e iniziano a
pensare al senso complessivo dei dati scientifici, prendono a occuparsi della
categoria di fine, alcuni per sostenerne la plausibilità, altri per dimostrarla
all’opera nella natura, altri (attualmente la maggioranza, soprattutto in biologia)
per negarla decisamente. Fu pensando a questi ultimi che il grande matematico e
filosofo inglese Alfred Whitehead ebbe a osservare: «Coloro che si dedicano
interamente al fine di dimostrare che non esiste alcun fine costituiscono un
soggetto di studio interessante».32
Dai ragionamenti condotti risulta che non è e non sarà mai compito della
scienza sostenere o negare la tesi «evoluzione = creazione», visto che alla scienza
in quanto tale interessa solo il dato evoluzione e non la sua interpretazione come
creazione. Negare o sostenere la tesi «evoluzione = creazione» è piuttosto
compito della filosofia, nella fattispecie della filosofia della natura, a cui spetta
discutere se la categoria di fine sia correttamente applicabile all’evoluzione
naturale. Porre la tesi «evoluzione = creazione», sostenere cioè che l’evoluzione
va interpretata come creazione, significa infatti sostenere filosoficamente questa
prospettiva: l’evoluzione si muove in modo tale da produrre un incremento
dell’organizzazione e della complessità, e tale incremento, ben lungi dall’essere
un caso, è la sua finalità. In questa prospettiva l’incremento dell’organizzazione
vitale non è interpretato né come qualcosa che la natura consegue grazie a
interventi soprannaturali dall’esterno, né come qualcosa di casuale o accidentale
che avrebbe potuto benissimo non capitare, ma come una dimensione insita da
sempre nella natura. La natura è orientata intrinsecamente al lavoro continuo,
verso una sempre maggiore organizzazione e complessità. È legittima questa
visione dell’evoluzione come creazione? La risposta a questa domanda compete
alla filosofia.
La quaestio disputata verte sulla natura, un concetto da sempre particolarmente
complesso di cui David Hume ebbe a dire che «niente è più ambiguo ed
equivoco»,33 e quando ci si trova di fronte a un concetto complesso è utile rifarsi
all’etimologia. Natura è un termine latino che viene dalla contrazione di nascitura,
participio futuro del verbo nasci, «nascere». Etimologicamente natura significa
quindi «ciò che sta per nascere», e già con il suo nome rimanda al continuo farsi
delle cose. In greco si ha la medesima situazione, con il termine per natura,
phúsis, che viene dal verbo phu? che significa «generare»: natura-phúsis quindi è
«generazione». Quando Henri Bergson parlava di uno «slancio primitivo del
tutto»,34 non faceva che esprimere la medesima esperienza della natura
depositata nelle lingue madri della tradizione occidentale. Oggi invece quando
parliamo di natura tendiamo a pensarla come l’ambiente là fuori con gli organismi
vegetali e animali in esso contenuti; il che non è certo sbagliato, ma è
insufficiente, perché la natura, oltre a essere l’ambiente con la vita che in esso si
muove, è prima ancora il principio generativo che l’ha fatto nascere e lo fa
continuamente rinascere.
Kant distingueva tra la natura quale «insieme di tutti i fenomeni» (natura
materialiter spectata, la natura materialmente considerata) e la natura quale
«fondamento originario della sua necessaria conformità a leggi» (natura
formaliter spectata, la natura formalmente considerata).35 Prima di lui un’altra
distinzione era stata posta articolando il concetto di natura in natura naturata e in
natura naturans, cioè natura come l’insieme delle cose che esistono (natura
naturata) e natura come il principio che le ha portate all’esistenza (natura
naturans). Ma ora la questione diviene: che rapporto c’è tra la vita che appare
come natura e il principio in cui consiste la natura? La vita in quanto natura
naturata è intrinsecamente implicata nella natura in quanto natura naturans? Tra la
vita generata e il principio generante c’è una relazione intrinseca e necessaria,
oppure estrinseca e contingente?
La constatazione che nella natura vi sia lo «slancio» di cui scriveva Bergson
direi che è esperienza comune. Depositato già nelle lingue madri della nostra
tradizione, tale slancio appare evidente osservando come ogni vivente voglia
vivere e mantenere in vita se stesso, pervaso com’è da un persistente conatus
vivendi o istinto di sopravvivenza. Presento al riguardo due citazioni, la prima di
Spinoza: «Ciascuna cosa, per quanto è ad essa possibile, è spinta a perseverare nel
suo essere»;36 la seconda di Dostoevskij: «Dove ho mai letto – pensò
Raskòlnikov proseguendo il cammino – dove posso aver mai letto di quel
condannato a morte che, un’ora prima dell’esecuzione, dice o pensa che se
potesse vivere in cima a uno scoglio, su una piattaforma così stretta da poterci
tenere soltanto i due piedi, con intorno l’abisso, l’oceano, la tenebra eterna, la
solitudine eterna e l’eterna procella, e rimanersene immobile su quello spazio di
un metro quadrato per tutta la vita, per mille anni, per l’eternità, ebbene,
preferirebbe vivere così piuttosto che morire in quell’istante? Pur di vivere,
vivere, vivere! Vivere in qualunque modo, ma vivere!... Che verità, Signore Iddio,
che verità! L’uomo è un vigliacco! Ed è un vigliacco chi, per questo, lo chiama
vigliacco».37
Lo slancio della natura appare ancora più radicato osservando come in ogni
vivente vi sia anche un irresistibile impulso alla riproduzione, un conatus
generandi, spesso persino più forte dello stesso conatus vivendi visto che gli
esseri viventi non esitano a mettere in gioco la propria sopravvivenza per servire
la riproduzione mettendo al mondo e custodendo la prole. Quindi nella natura vi è
slancio, anzi la natura è slancio, tensione verso la nascita (etimologia latina) e
tensione verso la generazione (etimologia greca). Ma questo slancio in cui la
natura consiste, è definibile come intrinsecamente orientato alla vita, come diretto
alla vita, come slancio vitale? Questo è il nodo filosofico decisivo della filosofia
della natura e su questo i filosofi si dividono.
Né il problema è risolvibile rivolgendosi a coloro che studiano la natura in
presa diretta, biologi, chimici, fisici, perché quando si giunge a vedere come essi
considerano la logica che abita la natura, se tendente alla vita oppure no, se
tendente a una crescente organizzazione vitale oppure no, se abitata da una
tensione orientata alla vita oppure no, si ritrovano esattamente le medesime
divisioni incontrate presso i filosofi. Il caso più clamoroso che io conosca al
riguardo è la polemica condotta da Christian de Duve (1917-2013), biochimico,
Nobel per la medicina nel 1974, contro Jacques Monod (1910-1976), biologo, a
sua volta Nobel per la medicina nel 1965, autore di un celebre saggio intitolato Il
caso e la necessità. Il libro di Monod, la cui intenzione filosofica appare già dal
sottotitolo, Saggio sulla filosofia naturale della biologia contemporanea, descrive
l’Universo come inospitale, connota la natura come non orientata alla vita, parla
dell’uomo come di «uno zingaro» ai margini del cosmo, e conclude: «L’uomo
finalmente sa di essere solo nell’immensità indifferente dell’Universo da cui è
emerso per caso».38 Dalla biologia, per Monod, scaturisce una filosofia naturale
all’insegna della casualità e della marginalità della vita. Precisamente contro
questa interpretazione de Duve nel 1995 pubblicò un libro intitolato Polvere
vitale, a indicare già nel titolo come la direzione verso la vita sia insita nella
stessa materia primordiale dell’Universo, chiamata polvere in evidente allusione
alla polvere del suolo che secondo il racconto biblico Dio plasmò e poi insufflò
dando origine all’uomo (Genesi 2,7: «Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con
polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un
essere vivente»). Per de Duve non c’è nessun bisogno di un soffio aggiuntivo,
perché è la stessa materia primordiale a essere intrinsecamente dotata di uno
slancio verso la vita e per questo è definibile vital dust, «polvere vitale». Scrive
de Duve: «Alla famosa frase di Monod: “L’Universo non era gravido di vita, né la
biosfera era gravida dell’uomo”, io rispondo: “Lei sbaglia; erano gravidi”».39 In
una pubblicazione successiva de Duve ribadiva: «La battuta di Monod –
“l’Universo non stava per partorire la vita, né la biosfera l’uomo” – è viziata da
un punto di vista logico. È evidente che l’Universo fosse incinto della vita e che la
biosfera lo fosse dell’uomo, altrimenti non saremmo qui».40 Ovviamente da
questa interpretazione della biologia discende per de Duve una filosofia naturale
del tutto diversa rispetto a quella di Monod: «Io considero questo Universo non
come uno scherzo cosmico, bensì come un’entità dotata di significato, fatta in
modo tale da generare la vita e la mente, destinata a dare origine a esseri pensanti
in grado di discernere la verità, di apprendere la bellezza, di sentire amore, di
desiderare il bene, definire il male, sperimentare il mistero».41
Monod vinse il Nobel per la medicina, de Duve altrettanto, lo scontro dunque
non è tra uno scienziato e un uomo di Chiesa, ma tra due brillanti uomini di
scienza, entrambi convinti darwiniani nell’assumere il dato dell’evoluzione che
procede mediante variazioni casuali + selezione naturale; quanto alla vita però, il
primo la considera un caso fortuito in un Universo inospitale e senza scopo, il
secondo una logica conseguenza in un Universo bioamichevole (e quindi,
aggiungo io, dotato di teleologia).
Lo stesso Darwin ebbe momenti in cui vacillava tra una prospettiva e l’altra,
come appare da una lettera all’amico Joseph D. Hooker, insigne botanico: «La
mia teologia è una confusione bella e buona: non riesco a considerare l’Universo
come il risultato del cieco caso e d’altra parte, nei dettagli, non riesco nemmeno a
trovare prova alcuna di un disegno benevolo; né in effetti, di un disegno quale che
esso sia».42 La medesima prospettiva era stata esposta da Darwin in una lettera al
botanico statunitense Asa Gray del 3 luglio 1860 come documenta Paolo Costa, il
quale mostra come l’interpretazione della natura come dotata di teleologia fosse
presente fin dalle prime interpretazioni dell’opera di Darwin. Costa cita al
proposito un articolo su «Nature» di Asa Gray, a seguito del quale Darwin scrisse
all’autore le seguenti parole: «Ciò che Lei dice sulla Teleologia mi fa
particolarmente piacere, e penso che nessun altro abbia mai notato la cosa».43
Darwin non aveva alcuna finalità ateistica, lo si capisce bene dalle ultime parole
del suo capolavoro, in cui, dopo aver ricordato che «dalla guerra della natura,
dalla carestia e dalla morte» derivano gli animali superiori, prosegue: «Vi è
qualcosa di grandioso in questa concezione della vita, con le sue diverse forze,
originariamente impresse dal Creatore in poche forme o in una sola».44 E lo si
capisce anche da quanto aggiunse nella sesta edizione dell’Origine delle specie
datata 1872: «Non vedo alcuna buona ragione perché le opinioni espresse in
questo volume debbano urtare i sentimenti religiosi di chicchessia».45
L’ortodossia neodarwinista contemporanea si riconosce nella posizione di
Monod, ma vi sono alcuni scienziati che condividono la prospettiva di de Duve.
Secondo l’astrofisico britannico Paul Davies «un crescente numero di scienziati
sospetta che la vita sia iscritta nelle leggi fondamentali dell’Universo, cosicché
questa sarebbe quasi obbligata a emergere ovunque prevalgano condizioni
ambientali simili a quelle terrestri».46 Tra gli scienziati che condividono questa
prospettiva ricordo, in ordine alfabetico, John Barrow, Fritjof Capra, Francis
Collins, Simon Conway Morris, Freeman Dyson, Fiorenzo Facchini, Stuart
Kauffman, Ervin Laszlo, James Lovelock, Ilya Prigogine, Hubert Reeves, Gerald
Schroeder, Rupert Sheldrake, Brian Swimme. Nell’ottobre 2003 si tenne presso
l’Università di Harvard un simposio dal titolo Fitness of the Cosmos for Life con
la presenza di rappresentanti di tutti i rami della scienza, i cui maggiori contributi
sono raccolti nel volume Fitness of the Cosmos for Life: Biochemistry and FineTuning (Idoneità del cosmo alla vita: biochimica e regolazione fine).47
L’antropologo Fiorenzo Facchini dell’Università di Bologna riassume lo stato
della questione dicendo che «l’intuizione darwiniana che attribuisce un ruolo
fondamentale direttivo alla selezione naturale, ma fuori da ogni intenzionalità, va
oggi arricchita con altre vedute che la scienza suggerisce».48 E dopo aver
ricordato il dibattito sollevato nel 2010 da Piattelli-Palmarini e Fodor, convinti
evoluzionisti e agnostici dichiarati che sono giunti a parlare di «errori di
Darwin»,49 Facchini annota che «la crescita della complessità è strettamente
connessa a una crescita di cooperazione; la cooperazione – che è espressione di
relazionalità, la caratteristica di tutti gli elementi della natura – si può riconoscere
a livello di atomi, di molecole, di cellule, di organismi, di raggruppamenti della
stessa specie».50
Nessuno degli scienziati citati intende introdurre un esplicito rimando a Dio
creando indebite contaminazioni tra fede e scienza, compreso Fiorenzo Facchini
che è un sacerdote cattolico, e il fisico Gerald Schroeder, che fra tutti è il più
vicino a posizioni creazioniste, scrive: «Personalmente non credo che la
complessità della vita dimostri l’esistenza del divino». Schroeder aggiunge però
subito dopo: «Ma dimostra inequivocabilmente che trascuriamo alcuni fattori
basilari relativi all’origine e allo sviluppo della vita»,51 e infatti si tratta
esattamente di questo, della vita, dell’affermazione cioè che la vita non nasce
contro la logica dell’Universo, ma come conseguenza della logica dell’Universo.
Scrive de Duve: «Io non faccio alcuna menzione esplicita di Dio [...] la parola
chiave è chimica, e non una qualche nozione preconcetta di come dovrebbero
andare le cose».52 Quindi non si tratta di credere o non credere in Dio, sul quale
peraltro de Duve ha una posizione tutta sua: «Secondo me, dovremmo
spersonalizzare Dio, allo stesso modo in cui la nuova fisica ci dice che dobbiamo
smaterializzare la materia»;53 si tratta piuttosto dell’interpretazione filosofica
della natura, se sia corretto leggerla come intrinsecamente orientata alla nascita e
alla generazione e quindi informata da un logos, se sia corretto leggerla come
dotata di un senso intrinseco che è la sua continua espansione a livello non solo
quantitativo ma anche qualitativo in una scala che la filosofia greca esprimeva
chiamando la vita, oltre che bíos, anche z?é e psuch?, e giungendo al noûs in
quanto vita spirituale. È in gioco il senso della natura e quindi della vita, e per
questo Paul Davies, a proposito degli scienziati che ritengono insufficiente il
darwinismo, afferma: «Se hanno ragione, se cioè la vita è parte della struttura di
base della realtà, allora noi esseri umani siamo rappresentazioni viventi di un
piano cosmico sbalorditivamente ingegnoso, costituito da un insieme di leggi che
sono in grado di far sorgere la vita dalla non vita e l’intelletto dalla materia non
pensante».54
Ma una volta focalizzato il problema, ora occorre procedere oltre, e chiedersi
perché si danno letture così diverse dei medesimi dati scientifici che attestano
l’evoluzione.
21. Al di là del naturalismo
Perché i medesimi dati scientifici che attestano l’evoluzione della vita vengono
interpretati così diversamente da chi li conosce alla perfezione? La questione a
mio avviso dipende dal punto di vista che si assume nel valutare il dato
dell’evoluzione, al cui riguardo ritengo vi siano sostanzialmente tre possibilità, di
cui io condivido la terza:
– il punto di vista della vita-bios nel suo insieme in quanto unitario fenomeno
naturale di infinite specie vegetali e animali, prospettiva che denomino
naturalismo;
– il punto di vista della specie Homo sapiens, prospettiva che denomino
antropocentrismo;
– il punto di vista di una peculiare dimensione dell’essere, l’informazione (in
termini umani: mente, coscienza, sapere, consapevolezza), prospettiva che
denomino sapienzialità.
In questo paragrafo intendo discutere il primo punto di vista, il naturalismo.
Assumendolo, è logico giungere alla conclusione che non c’è nessuna direzione
nell’evoluzione, nessun progresso, solo mutazione. Per questa prospettiva infatti
non c’è una differenza essenziale tra un vivente che si chiama homo e un altro che
si chiama drosophila melanogaster o tyrannosaurus rex, il fenomeno vita qui è
ricondotto totalmente alla dimensione biologica, alla vita come bíos. Ci si
dimentica però che, oltre alla vita-bios, esistono altre dimensioni della vita,
tenendo presenti le quali si configura necessariamente un’effettiva gerarchia nei
fenomeni viventi.
Ignorando le altre dimensioni della vita al di là della vita-bios, il naturalismo
non è strutturalmente in grado di riconoscere il progresso nell’evoluzione dei
viventi, la quale sarà interpretata unicamente come mera mutazione. Anzi, per i
naturalisti mettere in gioco nell’interpretazione della vita dimensioni diverse dalla
vita-bios significa cadere in un indebito antropocentrismo, del tutto ingenuo o
persino ridicolo se si prende coscienza dell’effettiva posizione della specie umana
nella storia della vita sulla terra, di cui, riducendo la storia biologica a una
giornata di 24 ore, l’umanità occupa gli ultimi secondi. Contro la prospettiva
naturalistica sollevo tre obiezioni.
1) Prima obiezione: il fenomeno vita non è riducibile alla sola dimensione
biologica.
Il fenomeno vita è anzitutto e fondamentalmente bíos, senza cui tutte le altre
dimensioni vitali non potrebbero esistere. Questo però non significa che l’intero
fenomeno vitale sia riducibile alla vita-bios. Una torta senza gli ingredienti non
sarebbe possibile, ma non per questo una torta è riducibile ai soli ingredienti,
perché oltre a essi occorrono anche la ricetta e il lavoro. È chiaro che la biologia
in quanto tale non può riconoscere altra vita se non quella denominabile bíos,
base di tutte le altre; però la filosofia, per il fatto stesso di esistere, è l’attestazione
che il fenomeno umano è più del solo bíos, è anche capacità di attività noetica, di
libera creatività spirituale. La filosofia quindi, per il fatto stesso di essere
filosofia, non può limitarsi al solo dato biologico per interpretare la vita. Al
riguardo viene in mente un brano di Platone: «Se uno dicesse che, se non avessi
ossa, nervi e tutte le altre parti del corpo che ho, non sarei in grado di fare quello
che ritengo di fare, direbbe bene; ma se dicesse che io faccio tutte le cose che
faccio proprio a causa di queste, e che, facendo le cose che faccio, io agisco sì con
la mia intelligenza ma non in virtù della scelta del meglio, costui ragionerebbe
con assai grande leggerezza».55 Nella medesima prospettiva di superamento della
vita-bios verso altre dimensioni vitali Marco Aurelio affermava: «Ricordati che
ciò che muove i fili della tua esistenza è nascosto dentro di te, ed è energia, vita e,
se così si può dire, uomo. Non confonderlo mai, quando te lo immagini, con
l’involucro che l’avvolge, né con gli organi che gli sono stati modellati
intorno».56
Diamo uno sguardo al fenomeno umano nella sua interezza, per illustrare il
quale faccio ricorso ai termini greci perché sono i più adeguati che io conosca:
– sôma, corpo, composto da ossigeno (65%), carbonio (18%), idrogeno (10%),
azoto (3%), calcio (1,5%), fosforo (1,2%) e altri 12 elementi atomici, tra cui
potassio, zolfo, ferro, magnesio, rame;57
– bíos, vita del corpo vivente, composto mediamente da 1014 cellule, ognuna
delle quali produce ogni secondo 10.000 reazioni bio-elettro-chimiche;58
– z?é, fenomeno zoologico o animale, esemplare della specie Homo sapiens,
apparsa all’incirca 150.000 anni fa e oggi giunta a dominare il pianeta;
– psuch?, psiche, vita conscia e inconscia della mente, che si manifesta come
carattere, temperamento, personalità, dando origine alla dimensione del
sentimento, centro esistenziale di ogni individuo;
– lógos, ragione, calcolo, capacità di elaborazione astratta sia a livello verbale
sia a livello tecnico;
– noûs, vita dell’intelletto, capacità di libertà e quindi di innovazione e
creatività, ma anche di trasgressione talora preferendo deliberatamente il male: da
qui la vita come scelta etica e come responsabilità; e da qui la vita come ricerca di
senso mediante il pensiero, l’arte, la spiritualità.
Pur ammettendo che dal punto di vista biologico e zoologico non ci sia
progresso (c’è chi sostiene che i batteri siano molto meglio organizzati e più vitali
di noi), dal punto di vista delle dimensioni vitali che chiamiamo psiche, ragione e
spirito è indubitabile che l’uomo rappresenti un progresso (per quanto per nulla
lineare) rispetto alle altre forme di vita.
L’incapacità di rendere conto dell’insieme delle forme vitali costitutive del
fenomeno umano è precisamente ciò che Hans Jonas rimprovera al darwinismo
ortodosso, da lui accusato di impoverire la complessità della vita. Secondo Jonas
però «il trionfo celebrato dal materialismo nel darwinismo contiene in sé il germe
del proprio superamento»,59 e questo perché, se dopo Darwin non è stato più
possibile interpretare l’uomo a prescindere dalle sue origini animali, è diventato
altresì inevitabile legare ciò che indubitabilmente appare nell’uomo (cioè la
libertà, la creatività, la responsabilità, la spiritualità) alla materia primordiale che
è alla base della vita-bios. Libertà e spirito cioè devono essere da subito
potenzialmente presenti nella materia (che significativamente Jonas chiama
«spirito dormiente»60), se si vuole rendere ragione del fatto che l’evoluzione li
abbia prodotti. Ne viene che alla materia primordiale della vita-bios va attribuita
un’intrinseca tendenza all’organizzazione e alla complessità, ovvero, per dirlo
classicamente, un télos.
Alle medesime conclusioni è giunto di recente Thomas Nagel, professore di
filosofia alla New York University e personalmente scettico in materia religiosa,
che nell’ottobre 2012 ha pubblicato un libro dal titolo abbastanza esplicito: Mind
and Cosmos: Why the Materialist Neo-Darwinian Conception of Nature is Almost
Certainly False (Mente e cosmo. Perché la concezione materialista neodarwinista
della natura è quasi certamente falsa).61 Nagel è un filosofo della mente e proprio
a partire dalla mente si dispone per raggiungere l’obiettivo di ogni vero filosofo,
cioè «un’immagine comprensiva del mondo» (pos. 59). Il problema mente-corpo
infatti, ben lungi dall’essere solo un problema locale, «tocca la nostra
comprensione dell’intero cosmo e della sua storia» (pos. 48) e in questa
prospettiva Nagel sostiene l’insufficienza della spiegazione darwinista ortodossa
per le due questioni filosofiche centrali che sono in gioco nella biologia, cioè
l’origine della vita e la sua evoluzione verso organismi dotati di complessità. La
spiegazione che fa delle variazioni casuali il motore dell’evoluzione è «quasi
certamente falsa» per Nagel, che afferma: «Da tanto tempo considero difficile da
credere il resoconto materialistico di come noi e gli organismi simili a noi siamo
venuti all’esistenza, compresa la versione standard su come lavora il processo
evolutivo. Quanti più dettagli veniamo a conoscere sulle basi chimiche della vita e
la complessità del codice genetico, tanto più il resoconto storico standard cessa di
essere credibile» (pos. 78).
L’enormità delle probabilità contrarie al semplice caso va presa sul serio e
deve portare a ritenere che «principi di genere diverso siano all’opera nella storia
della natura, principi di crescita dell’ordine che nella loro forma logica sono
teleologici più che meccanicistici» (pos. 104). Per questo, riguardo alla
comprensione del mondo oggi basata sul riduzionismo materialista, «occorre
mettere in atto un nuovo inizio, basato su una più ampia comprensione che
include la mente» (pos. 110). E ancora: «La mente, in quanto sviluppo della vita,
deve essere inclusa quale stadio più recente di questa lunga storia cosmologica, e
la sua comparsa, io credo, getta la sua ombra sull’intero processo retrostante e
sugli elementi costitutivi e sui principi da cui il processo dipende» (pos. 116). Si
tratta di affermazioni molto nette e di un importante contributo, il cui unico e
inspiegabile difetto sta nel non aver neppure nominato il pensatore che già negli
anni Cinquanta del secolo scorso affermava la necessità di reintrodurre la
teleologia nella filosofia della natura, cioè Hans Jonas.
2) Seconda obiezione: il radicale abbandono del punto di vista antropocentrico
non è possibile.
Ignorare del tutto le ulteriori dimensioni della vita che si manifesta nel
fenomeno umano per limitarsi esclusivamente alla vita-bios non solo non è
corretto, perché tali dimensioni ci sono e ci sono in quanto generate dalla natura e
quindi vanno interpretate mettendo in gioco la natura, ma non è neppure possibile.
Chi infatti compie le valutazioni su Homo sapiens, se non lo stesso Homo
sapiens? E le considerazioni contro l’antropocentrismo, che si offrono alla mente
con la pretesa di essere veritiere e che intendono falsificarne altre ritenute non
veritiere, che cosa sono se non un’elaborazione di Homo sapiens dotata della
pretesa di essere scientifica e obiettiva? Abbiamo quindi che proprio mentre si
cerca di smontare ogni primato di Homo sapiens secondo la tendenza
postmoderna detta decostruzionismo, in realtà, accumulando dati e strutturandoli
così da costruire una teoria come scienza o come filosofia, si finisce per
affermarne ancora una volta il primato, visto che è sempre e solo Homo sapiens a
parlare di sé e degli altri viventi. Il giorno in cui si presentasse un canguro o una
medusa a tenere un discorso contro l’antropocentrismo, l’argomentazione
potrebbe risultare accettabile. Ma fino a quando è Homo sapiens che parla contro
Homo sapiens essa è viziata in radice, perché è sempre Homo sapiens che afferma
se stesso.
3) Terza obiezione: l’origine della vita manifesta una logica di aggregazione.
Nessuno dubita che la vita presenti continue manifestazioni di disgregazione,
dall’estinzione delle specie alla morte dei nostri cari e un giorno di noi stessi, in
ciò che oggi comunemente è detto «selezione naturale». Tale disgregazione però è
possibile solo perché prima ha operato la logica opposta, l’aggregazione. È solo
l’aggregazione infatti che spiega l’origine della vita a partire dalla materia
inanimata. Sulla comparsa della vita a tutt’oggi non esiste una teoria condivisa e
sperimentata, così che nessuno sa da dove viene la vita, come del resto nessuno sa
da dove viene il puntino cosmico primordiale in cui consisteva l’Universo prima
del Big Bang 13,8 miliardi di anni fa. Una cosa però è sicura: che a proposito
dell’origine della vita non si può parlare di «errore di trascrizione», perché
all’inizio non vi era nulla da trascrivere. L’errore di trascrizione, che è il principio
individuato dal darwinismo quale motore dell’evoluzione della vita, è del tutto
inutilizzabile per la questione dell’origine della vita. Né è sufficiente dire che la
vita viene dallo spazio (teoria detta panspermia, sostenuta tra gli altri da Fred
Hoyle e Francis Crick), perché così il problema è solo spostato più in là, visto che
rimane comunque da spiegare la logica che ha portato in qualche parte dello
spazio i composti biochimici necessari alla vita (proteine, zuccheri, grassi, acidi
nucleici) ad armonizzarsi tra loro, e prima ancora a esistere essi stessi, impresa già
di per sé stupefacente se si pensa alle probabilità contrarie alla sintesi casuale
delle sole proteine. A questo proposito lascio la parola a Paul Davies: «Le
probabilità contrarie alla sintesi puramente casuale delle sole proteine sono circa
1040.000. Ciò significa 1 seguito da 40.000 zeri, un numero che, scritto per
esteso, occuperebbe un intero capitolo di questo libro. Al confronto, ottenere un
poker 1000 volte di fila è un gioco da ragazzi. È nota l’osservazione
dell’astronomo britannico Fred Hoyle, secondo cui le probabilità che un processo
spontaneo metta insieme un essere vivente sono analoghe a quelle che una tromba
d’aria, spazzando un deposito di robivecchi, produca un Boeing 747
perfettamente funzionante».62
Da dove viene quindi la vita? Da dove è saltato fuori LUCA, sigla che sta per
Last Universal Common Ancestor (Ultimo antenato comune universale), il primo
microrganismo apparso tra 3,8 e 3,5 miliardi di anni fa che ormai ha sostituito il
vecchio Adamo? L’ipotesi più accreditata parla della sua origine in ambiente
acquatico («com’è profondo il mare»), in una specie di brodo pre-biotico per
alcuni scienziati molto caldo, per altri molto freddo, dove si ebbe un progressivo
assemblaggio o aggregazione di materie quali idrogeno, carbonio, ossigeno,
azoto. Prescindo dal contenuto della teoria e prendo atto della sua condizione: la
vita sarebbe nata a seguito di una logica di aggregazione. La medesima logica si
ritrova nella teoria più accreditata sull’origine della Terra, del Sole e del Sistema
solare, tutti e tre frutto dell’aggregazione di materiale stellare. Si ritrova inoltre
nel passaggio fondamentale per la storia della vita sulla terra, quello dalle cellule
procariote alle cellule eucariote dotate di nucleo, un passaggio reso possibile da
fenomeni di simbiosi, quindi ancora una volta di aggregazione.63 Questa
medesima logica si ripresenta nei nostri corpi, sia per la loro costituzione in
quanto complessa aggregazione fisico-chimico-biologica, sia per il fatto che essi
riproducono il fenomeno simbiosi ospitando un numero di batteri all’incirca dieci
volte superiore a quello delle loro cellule, batteri senza i quali il nostro
metabolismo non sarebbe possibile.
Provo a ricapitolare:
– aggregazione degli elementi primordiali scaturiti dal Big Bang e produzione
di stelle tra cui il Sole;
– aggregazione di materiale cosmico e formazione di corpi celesti tra cui la
Terra;
– aggregazione sulla Terra di elementi chimici pesanti provenienti
dall’esplosione delle stelle e nascita della vita;
– aggregazione di diversi organismi in simbiosi e formazione delle cellule
dotate di nucleo o eucariote;
– aggregazione all’interno del nostro corpo di altre forme di vita oltre la nostra.
Il fenomeno vita è da considerare come intrinsecamente abitato da una logica
tendente alla relazione che lo porta a istituire sempre nuove e più complesse
aggregazioni. La logica della vita è qualcosa di molto simile al web, alla rete.
Questo non significa che in essa non vi siano momenti di conflitto, è evidente che
ve ne sono e anche di frequente, ma la vita non è riducibile al conflitto, anzi,
prima di tutto non è conflitto, è relazione aggregante.
La dominante visione neodarwinista ignora però questa dinamica
fondamentale. Infatti nello spiegare l’evoluzione della vita essa ritiene che
l’evoluzione proceda solo tramite il binomio «mutazioni casuali + selezione
naturale», negando così alla vita quella stessa tendenza all’organizzazione (télos o
finalità) che l’ha resa possibile e che viene attribuita alla materia priva di vita.
Ricondurre l’evoluzione della vita sulla terra unicamente al binomio mutazioni
casuali + selezione naturale, come fa l’evoluzionismo contemporaneo, porta a
considerare l’evoluzione «una gigantesca mostruosità, a cui l’ameba originaria è
arrivata crescendo attraverso un lungo percorso patologico»; in realtà non bisogna
mai dimenticare che la selezione naturale «spiega la scomparsa, non la comparsa
di forme; sopprime, ma non crea».64 La spiegazione del neodarwinismo
sull’origine della vita risulta quindi illogica e insufficiente. La pensano così
filosofi come Bergson, Whitehead, Jonas, Guitton, Nagel, e gli scienziati «eretici»
ricordati in precedenza.
Alla luce di queste valutazioni contro il naturalismo che considerando la vita
solo in quanto vita-bios non è in grado di rintracciare nessuna direzione
nell’evoluzione, io abbraccio la prospettiva che vede senso e direzione nella
natura ponendomi dal punto di vista di quelle particolari dimensioni della vita che
si chiamano intelligenza, conoscenza, spirito, capacità di libertà e di creatività,
sapienza. In questa prospettiva parlare di trascendenza rispetto all’immanenza
materiale non significa immaginare una meta-fisica come misterioso aldilà;
significa piuttosto custodire la verità di questo dato: che dall’immanenza
materiale emerge una forma di essere che è diversa, è di più, rispetto al mero
esserci della vita-bios.
Ponendomi da questo punto di vista, io intendo custodire l’emergere di questa
più alta dimensione vitale considerandola non un evento casuale, ma la logica
produzione della natura, secondo una prospettiva che vede senso e direzione nella
natura e la ritiene teleologicamente ordinata verso l’emergere dello spirito, o, in
altri termini, verso la sapienza. C’è un fine dell’evoluzione e questo è sapienssapientia. Non homo, come già detto, ma sapiens. Homo è il supporto contingente
che l’evoluzione è riuscita a produrre attraverso una storia impastata di logos e di
caos; sapiens-sapientia è la meta, peraltro ben lungi dall’essere raggiunta dallo
stadio attuale di homo, spesso così poco sapiente.
Nell’interpretare l’evoluzione la prospettiva della sapienzialità mi porta a
privilegiare, rispetto alla mera mutazione casuale, un processo con una logica
intrinsecamente orientata all’aumento dell’organizzazione vitale. L’evoluzione è
mutamento, ma non è cieco mutamento, è mutamento come crescente accumulo
della complessità. L’evoluzione cioè è proprio quello che dice il suo nome,
«evoluzione», «sviluppo», «movimento ordinato a un fine». Per questo
l’evoluzione non solo c’è, ma è irreversibile, nel senso che non esiste nessuna
possibilità che un giorno essa si metta a girare all’indietro, nella direzione di una
«involuzione», e l’umanità da Homo sapiens torni a Homo habilis, poi Homo
erectus, poi non più Homo, come a rigore dovrebbe essere possibile se
l’evoluzione fosse solo mutamento. Nella vita c’è una spinta orientata verso la
crescita dell’intelligenza fino alla sapienza, la quale è proprio una forma
particolare di intelligenza, la più alta: è la bontà dell’intelligenza.
22. Al di là dell’antropocentrismo
Vengo ora a discutere il secondo punto di vista da cui considerare l’evoluzione,
l’antropocentrismo, per il quale credo basterà molto meno per fondare il mio
dissenso.
La presa di consapevolezza di un nostro primato tra i viventi è cosa antica. Già
Aristotele coltivava l’idea di una scala della natura, al cui vertice poneva l’uomo,
per la precisione il maschio. Ma sono soprattutto i racconti biblici della Genesi, in
particolare quello più antico del capitolo 2, ad aver generato in Occidente l’idea
del primato dell’uomo, per la precisione del maschio. Secondo questo racconto
Dio crea l’uomo maschio in una terra semidesertica, senza traccia di vegetazione
(«nessun cespuglio, nessuna erba») e solo dopo la comparsa dell’uomo e in
funzione di lui «piantò un giardino in Eden [...] e fece germogliare dal suolo ogni
sorta di alberi», tra i quali il misterioso «albero della vita» e il fatale «albero della
conoscenza del bene e del male»; e sempre in funzione dell’uomo, per non farlo
sentire solo, Dio «plasmò dal suolo ogni sorta di animali» che gli presentò perché
imponesse loro il nome, e infine plasmò la donna da una costola dell’uomo, il
quale poté così dire: «Si chiamerà donna perché dall’uomo è stata tolta», una
frase che in italiano non ha senso, ma in ebraico sì, perché donna si dice išša e
uomo iš.
Da qui nacque l’antropocentrismo occidentale nelle sue varie versioni. La
prima di esse è senza dubbio la tradizione cristiana che concepisce il mondo e gli
animali finalizzati all’uomo, come scriveva per esempio Ignazio di Loyola
all’inizio della prima settimana degli Esercizi spirituali: «L’uomo è creato per
lodare, riverire e servire Dio nostro Signore e per salvare, in questo modo, la
propria anima; e le altre cose sulla faccia della terra sono create per l’uomo
affinché lo aiutino al raggiungimento del fine per cui è stato creato».65 Giovanni
Calvino, nello stesso periodo, la pensava allo stesso modo: «Sappiamo che il
mondo è stato creato principalmente in vista del genere umano».66 Ancora ai
nostri giorni il teologo gesuita Luis Ladaria scrive dell’Universo che è «tratto dal
nulla e messo a disposizione dell’uomo»,67 e persino un teologo attento alla
scienza come il domenicano Jacques Arnould pone tra le caratteristiche della
dottrina cristiana l’affermazione secondo cui «l’uomo è il padrone della
creazione».68
Tra le manifestazioni dell’antropocentrismo occidentale vanno menzionati
l’umanesimo rinascimentale, che faceva dell’uomo la copula mundi e individuava
nel singolo soggetto un microcosmo dentro cui si rispecchiava alla perfezione
l’intero macrocosmo; il cogito ergo sum di Cartesio, cardine della modernità;
l’illuminismo, che poneva nella luce della conoscenza razionale prodotta dalla
ragione umana il criterio di valore con cui giudicare ogni cosa; il romanticismo di
Novalis secondo cui «l’idea del microcosmo è la più elevata per l’uomo» e «uomo
è come dire universo»;69 la filosofia di Hegel, per il quale la natura è «un sistema
di gradi» il cui vertice è dato dallo spirito che si compie nell’uomo.70 Da qui è
nata anche una delle glorie dell’Occidente, la cultura dei diritti umani, radicata
nella convinzione del valore assoluto di ogni singola vita umana solo per il fatto
che è umana. Penso che lo spirito dell’antropocentrismo sia riassunto bene da
queste parole di Fichte: «La natura, nella quale io devo agire, non è un essere
estraneo, che esista senza riguardo a me, nel quale io non possa mai penetrare.
Essa è formata dalle leggi del mio pensiero e deve ben coincidere con esse; essa
deve ben essermi, ovunque, completamente trasparente e conoscibile, e
penetrabile fin nel suo interno. Essa esprime ovunque nient’altro che rapporti e
relazioni di me stesso con me stesso».71
Come sono distanti queste parole di Fichte rispetto a quelle di Monod, che un
secolo e mezzo dopo si considerava «uno zingaro ai margini dell’Universo».72
Che cosa era successo nel frattempo? Ancora nel 1830 Hegel poteva affermare:
«Bisogna escludere dalla considerazione pensante le rappresentazioni nebulose, e
in fondo sensibili, come per esempio il cosiddetto nascere delle piante e degli
animali dall’acqua, e poi il nascere degli organismi animali più sviluppati da
quelli inferiori».73 Meno di trent’anni dopo Darwin pubblicava L’origine delle
specie, e da allora il pensiero occidentale ha iniziato a fare esattamente il
contrario di quanto scriveva Hegel, a ritenere cioè compito decisivo di ogni
riflessione responsabile la considerazione dell’origine degli animali più sviluppati
da quelli meno sviluppati. Il capovolgimento del tradizionale antropocentrismo
divenne così inevitabile. Oggi sappiamo che la comparsa degli esseri umani sulla
terra è legata a troppe contingenze fortuite per poter essere credibilmente ritenuta
già da sempre programmata come tale, sappiamo che l’umanità concreta è troppo
ricolma di imperfezioni fisiche, prima ancora che morali, per poter essere
considerata il fine della creazione.
Così non solo il punto di vista naturalista per il suo escludere ogni primato di
Homo sapiens e quindi ogni direzione nell’evoluzione della natura, ma anche il
punto di vista antropocentrico per il suo celebrare il primato di Homo sapiens
quale fine diretto dell’evoluzione e del senso stesso della natura, non appare in
grado di rendere ragione della peculiare posizione dell’uomo nel cosmo, che è
solo una canna, un giunco, diceva Pascal contro l’antropocentrismo, ma,
aggiungeva contro il naturalismo, una canna pensante, un roseau pensant.74 Il
dato Homo sapiens è complesso: da un lato occorre affermare che con l’umanità
si è avuta la comparsa di una dimensione assolutamente unica nella vicenda
naturale sulla terra, la dimensione sapiens-sapientia, qualitativamente altra
rispetto alle altre specie viventi, e quindi tale da giustificare la lettura
dell’evoluzione come dotata di finalità; dall’altro lato, però, occorre affermare che
questa evoluzione concreta sfociata in Homo sapiens poteva andare diversamente,
non era necessitata nel suo esito concreto, e che l’uomo nella sua attuale
conformazione non è il fine della natura. Ne viene, quale punto di equilibrio tra i
due estremi appena delineati, la terza posizione, cioè il punto di vista che
all’interno dell’evoluzione privilegia non una singola specie, ma una particolare
disposizione dell’essere, l’informazione, cioè l’intelligenza contenuta nella
natura, quella che indichiamo come mente, conoscenza, spirito, sapienza. In
questa prospettiva, che io definisco sapienzialità, a Homo sapiens spetta un
primato non per il suo essere homo, ma per il suo essere sapiens. E il senso
dell’esistenza umana ai miei occhi appare consistere nell’essere sempre più
sapiens, coltivando ogni giorno con dedizione amorevole la sapienza in quanto
bontà dell’intelligenza.
23. La legge cosmica fondamentale
Le cosmovisioni che ho esposto in precedenza in termini dinamici parlando di
anarchia, monarchia e democrazia, suppongono le tre seguenti impostazioni
ontologiche:
– evoluzionismo monistico: tutto è riducibile alla materia, e quindi la verità dei
fenomeni si ritrova riducendoli agli elementi basilari; la verità è immanenza;
– dualismo metafisico: l’essere è materia + spirito, sostanze incommensurabili
divise da un salto ontologico, di cui lo spirito è norma e guida; la verità è
trascendenza;
– evoluzionismo duale: c’è un’unica sostanza, la natura, strutturalmente
configurata in modo duale (natura naturans + natura naturata; ovvero,
informazione + energia), che evolvendo progressivamente produce stati diversi:
materia inanimata, materia animata, materia spirituale, spirito immateriale (cioè
pura energia senza massa materiale); la verità, quindi, è sia nell’immanenza sia
nella trascendenza.
Io sostengo la terza prospettiva, anche se sono consapevole che si tratta di
prendere coscienza della verità contenuta in tutte le posizioni, istituendo un
dialogo interiore ed esteriore e rifuggendo da ogni dogmatismo. Tutto ciò che
appare infatti ha una sua ragione e compito del pensiero è comprendere la ragione
anche delle prospettive avverse alla propria, in questo caso dell’immanenza
materialista e della trascendenza metafisica, chiedendosi perché la mente le abbia
prodotte e quale sia il dato esperienziale che esse intendono salvaguardare. Io ne
colgo il motivo nel dato contraddittorio dell’esperienza che ci parla di ordine e
razionalità e da subito anche del loro contrario. La precisione matematica e
ingegneristica con cui opera la natura si accosta al caso beffardo degli errori di
trascrizione alla base delle malattie genetiche; lo splendore del logos umano che
genera ospedali e università convive con il terrore di Auschwitz e dell’Arcipelago
Gulag. C’è un ordine che produce bellezza e vita, e un disordine da cui
provengono deformità e morte. Per questo lungo la storia sono emerse visioni del
mondo all’insegna di una sensatezza e di un progetto guidati dalla trascendenza e
altre di segno opposto che a causa dell’insensatezza della vicenda umana hanno
negato ogni possibilità di trascendenza. Per quanto mi riguarda, io aderisco a
quella visione filosofica della natura e della storia che mi consente di non
sacrificare nulla della contraddittorietà del dato empirico, ma di tenere insieme le
seguenti affermazioni: 1) che il mondo conosce una logica e un governo; 2) che il
mondo presenta un carico impressionante di dolori senza perché. Nella natura
ritrovo sia la necessità che orienta verso l’intelligenza, sia la contingenza con la
sua casualità.
Consideriamo che cosa succede quando in un organismo avviene per caso una
mutazione. Se essa non accresce l’organizzazione dell’organismo, non viene
riprodotta, è un handicap e come tale è rigettata dalla specie. Se invece la
mutazione incrementa l’organizzazione dell’organismo nella relazione con se
stesso e con l’ambiente, viene riprodotta dalla specie come una forma di vita più
evoluta. Da ciò appare che il caso con cui avvengono le mutazioni è sottoposto a
una legge superiore. L’evoluzionismo la chiama «selezione naturale», ma dicendo
ciò nomina solo l’aspetto negativo di qualcosa di più generale tendente all’ordine
e alla crescente complessità, di cui occorre saper nominare anche il più
fondamentale lato positivo. Fin dall’antichità la mente umana ha visto questa
legge superiore all’opera nell’organizzazione del mondo: per i greci è Lógos, per
gli ebrei Hokmà, per gli egizi Maat, per gli hindu e i buddhisti Dharma, per i
cinesi Tao, per i giapponesi To.
Tale legge cosmica fondamentale non è solo diversamente nominata nelle varie
tradizioni, ma è anche diversamente concepita: un conto infatti è farne lo
strumento mediante cui il Dio supremo governa il mondo, come avviene nella
Bibbia e in Egitto, e un altro conto è considerarla assoluta in se stessa, priva di un
ulteriore riferimento trascendente, come avviene perlopiù nel buddhismo, nel
taoismo, nello scintoismo. Tuttavia identica è la convinzione profonda che il
mondo non sia in balìa del caos, ma governato da una struttura che lo guida, sulla
quale è possibile modellare il comportamento umano a livello etico. Non è
casuale quindi che tutte le tradizioni spirituali presentino la medesima condanna
dell’assassinio, del furto, del tradimento, della menzogna, dell’oppressione, e la
medesima approvazione del bene, della giustizia, della fedeltà, della sincerità, del
rispetto, esemplificati al meglio nella cosiddetta regola d’oro, «non fare agli altri
quello che non vuoi che gli altri facciano a te», oppure, al positivo, «fai agli altri
quello che vuoi che gli altri facciano a te» (vedi Appendice 4).
Le grandi tradizioni spirituali dell’umanità contengono i frutti di una ricerca
più che millenaria del bene e della sapienza e quindi vanno sempre considerate
con grande rispetto e attenzione. Penso peraltro che la loro testimonianza sia
compatibile con la visione del mondo che oggi ci consegna la scienza. La scienza
ci insegna infatti che le forze cosmiche sono identiche dappertutto, qui e in ogni
altra parte dell’Universo, né mai hanno subito mutamenti dopo il Big Bang.
Questo significa che non tutto si evolve. C’è qualcosa di stabile, fisso, eterno,
indipendente dal tempo e dallo spazio: sono le costanti fisiche, leggi immutabili
che valgono a livello universale per l’infinitamente grande (per esempio la
velocità della luce, la costante di Newton della gravitazione, la costante di Planck)
e per l’infinitamente piccolo (per esempio l’intensità della forza nucleare forte e
debole, la carica dell’elettrone, la massa del protone).
Io non ho la minima competenza per dire quale rapporto vi sia tra la trentina di
costanti fisiche finora scoperte e l’evoluzione cui è soggetta la vita, intuisco però
che il cammino dell’evoluzione dalla materia alla vita intelligente debba loro
molto. In questa prospettiva penso si possa dire, riprendendo e mutando la celebre
frase di Einstein («Dio non gioca a dadi»), che Dio gioca a dadi, ma, nella
sequenza dei colpi, rispetta le regole del gioco, e se vince prende, se perde paga.
Fuori di metafora: il caso c’è, ma viene discriminato nel suo accadere da una
logica che lo precede e che lo vaglia. Il che significa che siamo immersi in una
realtà che riproduce la seguente formula: logos + caos. Il risultato esistenziale di
tale addizione è il pathos: logos + caos = pathos. Per questo l’apostolo Paolo ha
scritto: «Tutta la creazione geme e soffre le doglie del parto fino a oggi» (Romani
8,22).
Io penso quindi che sia possibile sostenere che la logica orientata all’armonia
individuata dalle grandi religioni ed esemplificata dalla sapienza etica
dell’umanità nella regola d’oro sia la medesima che ha reso e rende possibile
nell’evoluzione della vita quel processo che dai gas primordiali ha portato alla
vita intelligente. Nel prossimo capitolo cercherò di verificare la sostenibilità di
tale intuizione alla luce di ciò che emerge riflettendo sui dati scientifici che
riguardano la materia di cui è fatto il nostro mondo.
V. PENSARE LA MATERIA
24. Aggregazione, vuoto, oscurità
La scienza ci insegna che ogni ente esiste in quanto aggregazione di elementi.
Il libro e le mani che lo sorreggono, gli occhi che guardano e la mente che pensa,
l’aria che in ogni istante ci mantiene in vita e l’acqua di cui per la gran parte è
formato il nostro corpo e ogni altro oggetto dentro e fuori di noi, tutto è il risultato
di un’aggregazione di onde-particelle che formano atomi e di atomi che formano
molecole. Questa legge fondamentale delle cose era già stata intuita nel passato
dalle teorie atomistiche di Leucippo e Democrito (V-IV secolo a.C.), riprese in
seguito da Epicuro e Lucrezio. Ma anche Platone e Aristotele, che pure
affermavano l’esistenza di essenze eterne, ritenevano che ogni cosa materiale
consistesse in un’aggregazione, nella fattispecie nell’aggregazione di un sostrato
materiale (upokeímenon) e di un’essenza immateriale detta forma (eîdos) o idea
(idéa).
La specificità dei nostri giorni consiste nella svolta radicale avvenuta sulla
natura dell’aggregazione, in quanto si è compreso che, ben al di là
dell’aggregazione di elementi materiali, ciò che fa consistere le cose è
un’aggregazione di forze. Per gli antichi, e per tutti in Occidente fino a un secolo
fa, gli elementi costitutivi della materia erano gli atomi intesi nel senso proprio
del termine, cioè come mattoncini non ulteriormente divisibili (a-tomo, cioè alfa
privativa + tom?, sostantivo che significa «taglio, divisione»). Fino all’inizio del
Novecento la scienza occidentale credeva all’esistenza della materia in sé,
facendo anzi della materia la base vera e propria della realtà, in un arco di
posizioni che andava dal realismo della scolastica tomista a quello del
materialismo ateo. Poi in fisica si produsse la svolta. Max Planck, il padre della
teoria dei quanti, a metà del Novecento dichiarava: «In quanto fisico che ha
dedicato tutta la sua vita alla scienza più sobria, allo studio della materia, sono
sicuramente libero dal sospetto di essere un sognatore. E così a seguito delle mie
ricerche sull’atomo vi dico: la materia in sé non esiste. Ogni materia nasce e
consiste solo mediante una forza, quella che porta le particelle atomiche a vibrare
e che le tiene insieme come il più minuscolo sistema solare».1 Es gibt keine
Materie an sich: la materia in sé non esiste. Alle Materie entsteht und besteht nur
durch eine Kraft: ogni materia nasce e consiste solo mediante una forza.
Consideriamo l’atomo. Dicono che ingrandendone per ipotesi il nucleo fino a
10 cm bisognerebbe percorrere circa 7 km per trovare gli elettroni orbitanti. Apro
la mano e faccio una specie di lettera C con il pollice e le altre dita, ottenendo
grossomodo 10 cm; poi provo a immaginare una distanza di 7 km dalla mia mano
e di ritrovare alla fine alcuni corpuscoli quasi invisibili, molto più piccoli in
proporzione dell’unghia del mignolo; e infine provo a immaginare uno spazio
vuoto lungo 7 km. Questo stato di cose così impalpabile e diradato è la base della
materia!
L’atomo è vuoto. Siccome però parlando dell’atomo parliamo della base della
materia, dicendo che l’atomo è vuoto stiamo dicendo che tutto il mondo al
99,9999% è spazio vuoto. Ogni cosa dunque è sì un’aggregazione di elementi, ma
ogni elemento a sua volta è un’aggregazione di forze («ogni materia nasce e
consiste solo mediante una forza»). Torna quindi d’attualità la visione formale di
Platone e Aristotele rispetto a quella materiale di Leucippo e Democrito, perché il
fondamento dell’essere non è la materia ma qualcosa che materiale non è, che
Platone e Aristotele chiamavano eîdos o idéa e che Planck nominava parlando di
Geist, uno spirito o una mente (per lui «cosciente e intelligente») che è «il
fondamento» della materia.
L’Oriente intuì molto presto la non consistenza originaria della materia.
All’interno di quella congerie di scuole che è l’hinduismo tale consapevolezza
venne portata al pensiero dal concetto di maya, alla lettera «illusione, inganno,
apparenza» (qualcuno vi vede un legame con il termine latino «magia»), quel
fallace stato della mente che pensa le cose come originarie entità separate perché
è incapace di coglierle quali manifestazioni transeunti dell’unica realtà
fondamentale, non riducibile alla materia, il Brahman, l’immortale essere-energia.
Altre tre antichissime tradizioni spirituali, le prime due sorte in India, la terza in
Cina, tutte nel VI secolo a.C., giunsero alla consapevolezza dell’inesistenza della
materia in sé. Mi riferisco al jainismo e al buddhismo, quest’ultimo radicato sui
concetti di «impermanenza» (anitya) e «non-sé» (anatman), e al taoismo, per il
quale tutto si muove e muta secondo la logica bipolare di Yin e Yang, coppia di
energie opposte che costituisce il principio ordinatore alla guida della generazione
e della degenerazione delle cose materiali e che è l’unica vera realtà, il Tao, che
non a caso non è un concetto statico ma dinamico e significa «via».
Abbiamo quindi da assumere il seguente dato: la logica dell’essere è
l’aggregazione, e lo è perché alla sua base non vi sono sostanze statiche («la
materia in sé non esiste») ma forze. Oggi però sappiamo anche un’altra cosa:
sappiamo che la materia conosciuta, che è un frutto dell’aggregazione di forze, è
solo una piccola parte della totalità dell’essere che costituisce l’Universo.
Sappiamo cioè che la gran parte dell’energia e della materia dell’Universo ci è
ignota, motivo che ha condotto gli scienziati a denominarla oscura,
rispettivamente energia oscura e materia oscura. Fino a poco tempo fa i fisici
presentavano delle stime sulle quantità in cui si suddivide la totalità dell’Universo
che mediamente si aggiravano attorno al 73% di energia oscura, al 22% di materia
oscura e al 5% di materia ordinaria (quella formata da atomi e che costituisce ogni
singolo oggetto visibile, dalle stelle più lontane a ciascuno di noi). Nel marzo
2013 sono stati resi noti i dati inviati a terra dal satellite Planck dell’Agenzia
Spaziale Europea (sigla internazionale ESA, European Space Agency) che hanno
leggermente modificato la situazione, la quale ora prevede: 68,3% di energia
oscura, 26,8% di materia oscura, 4,9% di materia ordinaria. I dati del satellite
Planck hanno portato a rivedere anche l’età dell’Universo, alzandola da 13,7 a
13,82 miliardi di anni.
25. Fermioni, bosoni e il bosone di Higgs
Per quanto riguarda la materia conosciuta, è noto che i nuclei degli atomi sono
scomponibili in protoni e neutroni, e questi infine in quark. I quark, insieme ai
leptoni che comprendono gli elettroni e altre impalpabili entità (leptós in greco
significa «sottile»), vengono classificati insieme come fermioni, termine coniato
in onore di Enrico Fermi (1901-1954). Allo stato attuale delle conoscenze sembra
che i 24 fermioni (quark+leptoni) costituiscano l’ultimo gradino nella
scomposizione della materia.
Ho scritto «sembra» perché non è del tutto chiara la natura dei quark, se siano
particelle oppure onde, e non a caso il loro nome è una simpatica abbreviazione
dell’inglese question-mark, «punto interrogativo», a significare la condizione
della mente quando li considera. Ugo Amaldi, per abbracciare sia lo stato di
particelle sia quello di onde, ha coniato il neologismo «ondelle».2
Ma onde o particelle oppure ondelle che siano, una cosa è sicura: che queste
minuscole entità subatomiche si aggregano a formare la materia da noi
conosciuta, la quale (anche se in sé non esiste) per noi risulta dura, solida,
compatta e decisamente esistente. Ma la domanda a questo punto è: che cosa lega
insieme le ondelle? Se è vero infatti che tutte le cose materiali non sono altro che
un’aggregazione di elementi, è altrettanto vero che questi elementi si sono
aggregati e ora esistono dotati di dura materialità. Che cosa dunque lega insieme i
fermioni (quark + leptoni) a costituire i componenti dell’atomo?
La domanda dovrebbe proseguire chiedendo che cosa lega insieme gli atomi a
formare le molecole, e poi che cosa lega insieme cellule-tessuti-organi-apparati a
costituire un sistema unitario quale l’organismo, capace di dire «io» e di avere
coscienza di questo io, percependosi in ben altro modo che come un’aggregazione
impermanente di elementi. Ma qui mi limito al primo livello: che cosa tiene
insieme i fermioni, dalla cui organizzazione scaturisce tutto il resto?
Il Modello Standard della fisica risponde parlando di bosoni, detti così in
onore del fisico indiano Satyendra Nath Bose (1894-1974). I bosoni, che a
tutt’oggi risultano una dozzina, vengono suddivisi in diverse classi e
significativamente la prima di esse comprende i bosoni chiamati «gluoni», dal
termine inglese per colla, glue, a indicare che sono proprio loro a incollare, a
tenere insieme, le particelle dette fermioni. I bosoni incollano i fermioni perché
sono le particelle mediatrici della forza, nel senso che generano la forza che tiene
insieme i fermioni. Vale a dire: i fermioni sono particelle-materia, i bosoni sono
particelle-forza.
Dato che in natura sono state rilevate quattro forze fondamentali, vi sono
quattro differenti tipi di bosoni che mediano tali forze:
– la forza elettromagnetica è mediata dai bosoni detti «fotoni» (dal greco per
luce, phôs);
– la forza nucleare forte è mediata dai bosoni detti «gluoni» (dall’inglese per
colla, glue);
– la forza nucleare debole è mediata dai bosoni W e Z;3
– la forza di gravità, infine, è mediata da bosoni detti «gravitoni», particelle
ipotizzate ma non ancora sperimentate.
Parlando di bosoni, è impossibile che la mente oggi non corra al più celebre di
essi, il bosone di Higgs, così chiamato perché ipotizzato dal fisico britannico
Peter Higgs nel 1964 e dichiarato ufficialmente esistente al 99% di probabilità il 4
luglio 2012 nell’Aula Magna del Cern di Ginevra. Al restante 1% si è arrivati il 6
marzo 2013. Molto prima della sua individuazione a livello sperimentale, il
bosone di Higgs venne soprannominato «particella di Dio» dal fisico Leon
Lederman, Nobel nel 1988, con il volume del 1993 intitolato The God Particle.4
Come si spiega questa particolare denominazione? I fisici ci fanno sapere che
mentre i bosoni descritti sopra hanno la funzione di collante rispetto alle particelle
dei fermioni in quanto ne consentono l’aggregazione, il bosone di Higgs si pone a
un livello più primordiale, nel senso che alle particelle conferisce la massa. In un
certo senso quindi le crea per quello che sono, e così si spiega la denominazione
di «particella di Dio». Si dice che Higgs, personalmente ateo, non abbia mai
gradito tale qualifica ritenendola potenzialmente offensiva per i credenti, anche
se, dicendo «particella di Dio», a ognuno è lasciata libertà di intendere il genitivo
in senso oggettivo (la particella utilizzata da Dio) o in senso soggettivo (la
particella che è Dio).
Il fisico teorico Claudio Verzegnassi dell’Università di Trieste illustra il lavoro
svolto da tale entità in modo per me molto efficace: «Detto in maniera molto poco
scientifica, si potrebbe immaginare che il bosone di Higgs si comporti con le varie
particelle elementari come una specie di “rugiada” appiccicosa. Quanto più forte è
l’attrazione che le particelle hanno per il bosone di Higgs tanto maggior
quantitativo di questa “rugiada” si deposita sulle particelle rendendole più
pesanti». E aggiunge: «Si capisce perché talvolta l’Higgs sia anche chiamato la
Particella di Dio. In effetti, l’Higgs è l’unica particella che nasca con la sua
propria massa [...] è in sostanza l’Adamo della situazione che, dopo essere stato
creato, dà una costola qui e una costola là».5
La caratteristica del bosone di Higgs è quindi di nascere già con una sua massa
che poi fornisce a tutte le altre particelle, costituendole così di massa materiale e
facendole propriamente nascere. Il bosone di Higgs però non è una normale
particella, come per esempio un elettrone o uno dei sei tipi di quark; in un certo
senso, non è neppure una particella, bensì un’entità che Verzegnassi definisce
«risonanza», cioè «un oggetto che, una volta nato, si dissolve rapidissimamente
trasformandosi in coppie di particelle normali», con la conseguenza che «in
natura non lo si vedrà mai».6 Se la natura è il palcoscenico su cui compaiono i
molteplici fenomeni fisici, del bosone di Higgs si deve dire che non comparirà
mai su tale palcoscenico. Ugo Amaldi parla dei bosoni di Higgs come di «un
campo, un mezzo immateriale che riempie tutto lo spazio, che interagisce con le
particelle che lo attraversano rallentandone alcune più di altre e quindi fornendole
di massa maggiore o minore». E aggiunge che tale scoperta «consente di
affermare che lo spazio è tutto riempito da un campo che chiamiamo il Campo di
Higgs, cioè quel qualcosa che dà la massa alle particelle».7 Sappiamo quindi che
siamo immersi in un campo immateriale che dà sostanza alla materia, un campo
che, pur essendo immateriale, sostanzia la materia.
È dunque possibile concludere che riguardo all’essere che vediamo e
tocchiamo e che chiamiamo materia, il quadro complessivo sia il seguente:
– è il risultato di un’aggregazione di forze;
– come tale è fondato non in se stesso ma nel dinamismo delle forze (da qui
una visione dinamica, e non statica, della realtà);
– è solo una piccola parte del totale dell’essere-energia che compone
l’Universo;
– viene a consistere grazie a misteriose entità chiamate bosoni di Higgs, che
formano il campo che fornisce massa a ogni altra particella.
Si legge in Giobbe 34,14-15: «Se egli pensasse solo a se stesso e a sé ritraesse
il suo spirito e il suo soffio, ogni carne morirebbe all’istante e l’uomo ritornerebbe
in polvere». Io non credo che Lederman, chiamando «particella di Dio» il bosone
di Higgs, avesse in mente questo passo biblico o altri analoghi. Tuttavia, se la
creazione è continua, un modo efficace per pensarla è andare con la mente a quel
campo di forze costituito dai bosoni di Higgs che dà massa a ogni particella
(comprese quelle che formano in questo momento il nostro organismo) e che se
venisse a mancare porterebbe ogni cosa a disgregarsi rapidamente.
26. Forza relazionale
Ciò che conduce i fenomeni all’aggregazione è la forza, operante in quattro
forze fondamentali. La forza fa sì che l’essere-energia, da caos informe, diventi
materia informata, cioè dotata di forma e, in quanto tale, materia in cui consistono
tutte le cose, materia-mater, madre degli enti inanimati e dei viventi. È un po’
come avveniva con i mattoncini di plastica colorata con cui giocavo da bambino,
era la forza delle mie dita a unirli premendoli tra loro. La differenza fondamentale
è che in natura non esistono mattoncini originari precostituiti e indivisibili dotati
di massa propria, ma tutti gli elementi vengono a costituirsi in base alla forza
sviluppata dalle relazioni reciproche; l’unica particella dotata di massa propria e
generatrice della massa altrui, il bosone di Higgs, esiste ma non in natura, in
questa rerum natura che è il nostro mondo, dove decade prontamente e se ne può
identificare solo la scia.
La forza dunque è la grande madre del mondo, intendendo con mondo il
cosmo organizzato in grado di ospitare la vita. Ne consegue che, nella misura in
cui si è parte del mondo, è impossibile uscire dalla logica della forza. L’essere del
mondo esiste e consiste in quanto è mediato dalla logica della forza: l’onda
originaria dell’energia diventa materia e si solidifica in enti solo se, e solo in
quanto, viene mediata dalla forza nelle quattro tipologie conosciute.
Ma eccoci al punto che ritengo decisivo. La forza che governa il mondo è
precisamente connotata: non è la forza bruta che afferma se stessa a scapito di
ogni altra realtà, la forza come arbitrario disordine che coincide con la violenza,
descritta da Nietzsche che ne fu entusiasta cantore come «un voler sopraffare, un
voler abbattere, un voler signoreggiare, una sete di nemici e di opposizioni e di
trionfi».8 Nulla di tutto ciò. Se gli elementi fossero abitati da tale logica
immatura, se fossero paragonabili a un bambino viziato che distrugge i giocattoli
degli altri bambini per il solo gusto di distruggere e di risultare il più forte, non
avremmo l’essere organizzato del mondo, non avremmo il cosmo con le stelle, la
luce, l’acqua, la vita, ma solo caos mostruoso e assassino, come l’ideologia
nazifascista che si nutriva delle parole di Nietzsche e concepiva la forza solo
come violenza. Al contrario, la forza che costituisce il cuore dell’essere-energia è
di tipo relazionale e si esprime costituendo legami. La logica dell’essere-energia è
sì forza, ma forza che promuove organizzazione, crea relazioni, legami, nessi,
connessioni. Una forza che tanto più esprime se stessa quanto più sono consistenti
e durevoli le relazioni prodotte. La logica che vedo emergere dal fondo dell’essere
pensando al campo di Higgs, la forza da cui scaturiscono i fenomeni e le
oggettivazioni della natura naturans che si esplicita in materia-mater, è ciò che la
sapienza classica denomina lógos.
La legge costitutiva dei fenomeni naturali che la fisica quantistica individua
nell’unione delle particelle-materia dette fermioni mediante le particelle-forza
dette bosoni è stata intuita dall’antica filosofia greca, in particolare dallo
stoicismo, da dove poi passò nel cristianesimo, ed è stata espressa mediante il
termine lógos. Logos viene dalla radice «lg», che in greco ha generato il verbo
légo, infinito léghein, che significa primariamente «mettere insieme, raccogliere»
e poi anche «dire, parlare», perché parlando si mettono insieme le parole; e ha
generato il verbo loghízomai, calcolare, e il sostantivo loghismós, calcolo, perché
calcolando si mettono insieme i numeri. La medesima radice in latino ha generato
il sostantivo lex, genitivo legis, in quanto la legge è ciò che lega insieme gli
uomini a livello civile; e ha generato il verbo lego, infinito legere, il cui primo
significato come in greco è «cogliere, raccogliere» nel senso di mettere insieme, e
che poi significa «leggere», perché leggendo si legano insieme i diversi significati
delle parole, le quali a loro volta sono un insieme di suoni. E penso non sia un
caso che i mattoncini di plastica colorata con cui giocavo da bambino si
chiamassero e continuano a chiamarsi «Lego».
Il logos esprime dunque la grande legge che porta all’esistenza i fenomeni in
quanto relazioni ordinate, la legge che prima genera e poi tiene insieme i
minuscoli costituenti della materia, facendo emergere dalla loro unione livelli
dell’essere sempre più complessi e organizzati.
Il fatto che ogni fenomeno è tessuto e tenuto insieme dalla forza spiega anche
perché i fenomeni siano instabili, perché tutto evolve o involve, senza mai
rimanere immobile e identico a se stesso. La vita è un equilibrio instabile, in
quanto il caos preme in continuazione per tornare a scomporre l’ordine stabilito. Il
caos qui però non è da intendere come un’entità originaria al modo delle antiche
cosmogonie, ma piuttosto come un grado minore o nullo di ordine, che si origina
da un venire meno del lavoro della forza, oppure dallo scontro di più forze
contrapposte. È solo così però, solo grazie a questa continua pressione del caos,
creativa e distruttiva al contempo, che l’essere-energia evolve.
L’esempio più clamoroso sono le mutazioni genetiche, che se da un lato
segnano l’ingresso del caos nella fisiologia e producono le malattie genetiche con
le molteplici forme di handicap, dall’altro sono la causa da cui si origina nuova
organizzazione della materia vivente, più evoluta rispetto alle organizzazioni
precedenti. Senza le mutazioni genetiche infatti la vita sarebbe rimasta ferma al
protozoo unicellulare degli inizi (LUCA), riprodotto instancabilmente con sterile
fedeltà. Ne viene che dal medesimo fenomeno di mutazione si produce
un’alterazione della fisiologia che genera handicap e anche, attraverso miliardi e
miliardi di tentativi, l’evoluzione della specie. È in questa dialettica di caos e di
ordine, gioco inesausto delle forze, che il mondo si muove e si fa. Dobbiamo
quindi ripetere con Eraclito che pólemos-conflitto è il padre di tutte le cose, e
insieme aggiungere che armonia è la madre di tutte le cose, come insegnava
Pitagora, «il primo a chiamare cosmo la sfera delle cose tutte per l’ordine che
esiste in essa».9
27. Dualità e processualità
La composizione della materia conosciuta in particelle-materia (fermioni) e in
particelle-forza (bosoni) ci indica che la struttura dell’essere-energia è duale. Non
è né monistica né dualistica, è duale. Ed è da questa dualità che scaturisce il
processo evolutivo ininterrotto in cui l’essere-energia consiste.
La struttura originaria dell’essere-energia non è monistica. Non lo è perché vi
è un’irriducibile differenza di natura tra le particelle-materia e le particelle-forza,
tra i fermioni e i bosoni. Scrive Ugo Amaldi che «i bosoni sono socievoli e
tendono a stare tutti insieme producendo un condensato di bosoni», mentre i
fermioni «sono tutt’altro che socievoli, tanto che non è possibile avere due
fermioni dello stesso tipo nello stesso stato, definito dagli stessi numeri
quantici»,10 e per loro vale il principio di esclusione di Pauli. Le particelle-forza
invece non sottostanno al principio di esclusione di Pauli e se fossero esseri umani
cercherebbero di stare in cento su un’automobile.
I fermioni, particelle-materia, generano materia dotata di massa; i bosoni,
particelle-forza, generano forze. Vi è quindi una differenza ontologica, e per
questo irriducibile, tra i due stati dell’essere-energia. Ne viene che ogni
considerazione filosofica o teologica che non dia conto di questa dualità
originaria, per esempio riducendo tutto a materia come fa il materialismo, è falsa.
Al contempo però la struttura originaria dell’essere-energia non è dualistica.
«Chiunque abbia capito davvero la teoria dei quanti non si sognerà mai di
definirla dualista», diceva Niels Bohr citato da Heisenberg.11 Le particellemateria e le particelle-forza non sono due principi originari che si oppongono e si
escludono a vicenda, come la luce esclude le tenebre o il pieno esclude il vuoto.
Al contrario, le due famiglie di particelle hanno bisogno le une delle altre per
poter consistere: i fermioni senza i bosoni rimarrebbero disuniti, come tanti
mattoncini colorati senza nessun bambino che giocando con loro li colleghi; e i
bosoni senza fermioni rimarrebbero improduttivi, come un bambino con tanta
voglia di costruire un castello ma privo di mattoncini colorati o di sabbia marina.
Per questo, l’ipotesi di una divisione originaria nel cuore dell’essere è altrettanto
falsa, come è falsa quella di chi pensa lo spirito a prescindere dalla materia. La
struttura originaria dell’essere-energia non è né monistica né dualistica. È duale.
Si può riassumere dicendo che l’essere-energia che conosciamo è energiamateria unita inscindibilmente a energia-forza. Aristotele diceva sostanza + forma
(ousía + eîdos) e diceva bene, perché la forza conferisce forma, è formatrice,
produce logica, è logicizzante, benché lo sia in modo evolutivo e quindi non
lineare, ma operando mediante l’introduzione di nuovi livelli di caos e miliardi e
miliardi di tentativi. Allo stesso modo hanno visto bene Schelling, Hegel,
Bergson, Whitehead, Jonas e tutti coloro che hanno pensato il mondo fisico in
modo unitario e processuale. Tra questi Pavel Florenskij, il quale scriveva: «Si
può comprendere un fenomeno come un tutto, nella sua interezza, non dopo aver
staccato da esso un momento sul quale poi si concentrerà tutta l’attenzione, ma
abbracciando complessivamente tutti gli stadi dello sviluppo», perché si tratta di
«comprendere qualcosa come un processo».12 Tra i pensatori che hanno saputo
cogliere il ritmo duale dell’essere vi è naturalmente Teilhard de Chardin, il quale
scriveva che l’unico essere-energia, da lui detto «la stoffa dell’Universo», «si
divide in due distinte componenti», «energia tangenziale» ed «energia radiale».13
Tra i pensatori cristiani che sostengono questa prospettiva ricordo anzitutto gli
esponenti della teologia del processo, nata negli Stati Uniti a seguito della
filosofia di Whitehead grazie a Charles Hartshorne e a John Cobb, e oggi
rappresentata soprattutto da Philipp Clayton. Ricordo inoltre i nomi di Bede
Griffiths, Raimon Panikkar, Hans Küng, Carlo Molari.
Oggi la fisica ci porta a ritenere che il nostro Universo è duale, che l’essereenergia si dice originariamente in due modi strutturalmente relazionati tra loro,
come energia-materia e come energia-forza. Ne consegue che contro il dualismo
occorre sostenere che c’è un’unica natura, nessuna sovra-natura, c’è un’unica
fisica, nessuna meta-fisica; e che contro il monismo occorre sostenere che l’unica
natura sussiste originariamente in due modi distinti, l’evoluzione dei quali
conduce a parlare legittimamente di materia e di spirito, di corpo e di anima, di
mondo e di Dio.
28. Sull’energia
1. Una trattazione della materia quale quella condotta in questo capitolo non
può non occuparsi anche dell’energia, visto che la materia dopo il 1905, l’anno
della relatività ristretta di Einstein, è ontologicamente riducibile all’energia (E =
mc2). Ho già citato Max Planck secondo cui «la materia in sé non esiste», e ciò
per il fatto che «ogni materia nasce e consiste solo mediante una forza», ovvero
mediante l’energia. La materia quindi è energia condensata. È una densità di
campo. Il che significa che ciò che è materiale è espressione di una dimensione
non materiale; ovvero, in altri termini, che l’idea (o lo spirito) viene prima della
materia, perché è la condizione che la rende possibile. L’idealismo è più reale del
materialismo.
2. Stabilisce la scienza che «l’energia è la capacità di un sistema fisico di
compiere lavoro».14 Ora, se l’energia è capacità di compiere lavoro, occorre
chiedersi quale energia è in gioco quando si lavora sugli esseri umani per
migliorare il livello della loro umanità. Quale energia è in gioco quando si
persegue la giustizia nel campo del diritto, il bene comune nel campo dell’etica, la
pace interiore nel campo della spiritualità? Quando un insegnante riesce a
entusiasmare una classe di adolescenti di una periferia degradata leggendo
Leopardi o Ungaretti; quando un magistrato o un membro delle forze dell’ordine
non indietreggia di un palmo di fronte alle minacce subite a causa del suo lavoro;
quando un volontario dedica il tempo libero ad alleviare le sofferenze altrui: in
questi e in molti altri casi simili, quale energia è in gioco?
Non ci sono dubbi che ci troviamo al cospetto di lavoro, di un particolare
lavoro i cui risultati hanno conseguenze decisive sul mondo umano, e che quindi
abbiamo a che fare con una forma di energia. Neppure ci sono dubbi però che si
tratta di un’energia che non deriva da una delle fonti conosciute, né dal sole, né
dal petrolio, né dall’acqua, né da macchinari, né da atomi di uranio.
La fisica definisce l’energia capacità di compiere lavoro, ma si tratta di una
definizione di tipo solo funzionale, descrive ciò che l’energia fa, non ciò che
l’energia è. Che cosa sia l’energia in sé nessuno lo sa, e tuttavia tale termine è
oggi pur sempre il meno inadeguato per riferirsi a ciò che la filosofia chiama
«essere». Energia è il nome dell’essere oggi conosciuto, di ogni suo fenomeno.
L’essere che oggi conosciamo si muove ed evolve, e per questo è denominabile
«essere-energia». Il che appare già a livello etimologico, visto che nella lingua
greca che ha coniato la parola, energia si dice enérgheia, termine formato dalla
preposizione en (in) e dal sostantivo érgon (opera, lavoro), e che significa appunto
«in opera, al lavoro, in atto, in azione». L’essere-energia in cui consistiamo è
lavoro, è azione, il che attesta come la più appropriata visione del reale sia di tipo
processuale: l’essere come processo.
Anche la nostra esistenza è un processo. Nella processualità che ci costituisce,
l’energia che noi siamo assume diverse configurazioni, che qui per semplificare
riassumo nelle tre classiche forme vitali: corpo, psiche, spirito. I materialisti
sostengono che l’energia come spirito non esiste, perché dicono che l’energia può
essere solo meccanica, chimica, termica, elettrica, elettromagnetica, nucleare e di
ogni altra forma misurabile con gli strumenti costruiti dalla tecnologia. Ma oltre
alle forme classiche con cui in Occidente misuriamo e utilizziamo l’energia, ve ne
sono altre che sfuggono all’evidenza scientifica ma che, non per questo, non
esistono, e gli esempi riportati sopra (l’insegnante, il servitore dello Stato, il
volontario) ne sono una dimostrazione. Ha scritto Francis Collins, genetista di
fama internazionale, per lungo tempo a capo dello Human Genome Project: «La
scienza non è l’unica strada che conduce alla conoscenza. La visione spirituale del
mondo offre un’altra via verso la verità». Dopo queste parole Collins riporta una
parabola di Arthur Eddington, l’astrofisico inglese che per primo intuì la validità
della teoria della relatività di Einstein e nel 1919 ne diede la verifica sperimentale.
La parabola narra di un uomo che si mise a studiare le forme di vita degli abissi
marini usando una rete con una maglia di sette centimetri e mezzo, e che, dopo
aver pescato a lungo, concluse con perfetta deduzione logica che non esistono
pesci abissali lunghi meno di sette centimetri e mezzo! Commento di Collins: «Se
adoperiamo la rete della scienza per pescare la nostra particolare versione della
verità, non dovremo sorprenderci che questa non colga l’evidenza dello
spirito».15
Anche per l’energia e le sue forme tutto dipende dalla grandezza della maglia
della rete con cui si scandagliano le acque degli abissi, ed è ovvio che chi pesca
nelle profondità dell’essere con una rete a maglia troppo grossa è destinato
necessariamente a ignorare ogni forma di energia sottile. Ma raggiungere
un’evidenza sperimentale di questa pura energia spirituale è possibile, è
sufficiente considerare come nello yoga di tradizione hindu o nella meditazione di
tradizione buddhista vi siano casi in cui mediante la mente si giunge a controllare
completamente il respiro, il battito del cuore, la temperatura corporea, segno di
come la materia del corpo possa essere controllata dalla pura energia spirituale
che procede dalla mente.16 Ha scritto Paul Fleischman, maestro di meditazione
vipassana della tradizione buddhista therav?da: «L’io sono che abita i nostri
pensieri e le nostre emozioni è un prodotto delle possibilità della biologia, della
chimica e della fisica del nostro corpo. Quando pensiamo, ne modifichiamo la
struttura chimica. E schemi persistenti di pensiero modificano il nostro corpo,
provocano l’ulcerazione del duodeno, spezzano il cuore o ci ridanno vitalità.
Mente e corpo sono le due facce di un’unica medaglia».17 C’è un tipo di energia
che procede dal pensiero e che è in grado di spezzare o di risanare il cuore, che
non fa avvertire il freddo o il caldo consentendo di attraversare le stagioni sempre
con il medesimo saio monastico. C’è un tipo di energia che si può definire
spirituale.
Le grandi spiritualità e le filosofie classiche hanno sempre conosciuto
l’esistenza di tale particolare e raffinatissima forma di energia che è lo spirito:
– gli antichi greci ne parlavano in termini di pneûma e di noûs, con un
significato sia antropologico sia cosmologico, e Aristotele, una delle menti più
empiriche dell’antichità, collocava la pienezza dell’essere nel noûs poi?tikós,
espressione che viene solitamente tradotta con «intelletto attivo» o «intelletto
agente», ma che a mio avviso, come ho già sottolineato, è più pregnante tradurre
con «spirito creativo» (ecco le celebri parole del De Anima, III,5,430 A:
«Separato, esso è solo quel che realmente è, e questo solo è immortale ed
eterno»);
– la sapienza hindu ne parla in termini di dharma a livello cosmologico e di pr?
na o kundalin? o ?akti a livello antropologico, laddove pr?na è definibile come
«energia cosmica che penetra e conserva il corpo e si manifesta nelle creature
sotto forma di respiro»; kundalin?, che letteralmente significa «serpente», come
«la forza spirituale così chiamata perché dorme arrotolata alla base della colonna
vertebrale»; e ?akti come «forza, potere, energia»;18
– la sapienza cinese ne parla in termini di tao a livello cosmologico e di qi a
livello antropologico;
– la sapienza giapponese ne parla in termini di rei a livello cosmologico e di ki
a livello antropologico, parole la cui unione dà il termine reiki, nota pratica di
saggezza e di disciplina del corpo e della mente.
Di ciò si ha evidenza sperimentale nella pratica dell’agopuntura, ormai sempre
più diffusa in Occidente, anche in alcuni ospedali. Ma ciò che davvero colpisce è
che alle stesse intuizioni giungono da tutt’altra via alcuni grandi scienziati
contemporanei. Come ho già avuto modo di ricordare, Erwin Schrödinger non
afferma nulla di diverso quando scrive che «la teoria fisica nel suo stato presente
suggerisce energicamente l’idea dell’indistruttibilità dello Spirito per opera del
Tempo».19 David Bohm, altro fisico internazionalmente noto, ha parlato della
«azione di un’energia che non è meccanica, un’energia che noi chiameremo
intelligenza».20 E Stuart Kauffman, biologo americano tra i principali elaboratori
della teoria della complessità, ha affermato che «la mente immateriale – non reale
oggettivamente – ha conseguenze sul mondo fisico reale».21
Le grandi tradizioni spirituali e anche alcuni grandi scienziati dei nostri giorni
hanno intravisto l’esistenza di una forma di energia non classificabile nei
convenzionali parametri di misurazione del movimento, della luminosità, del
calore, eppure altrettanto reale e in grado di produrre un altro tipo di movimento
(per esempio l’azione in favore della giustizia), un altro tipo di luminosità (la luce
degli occhi), un altro tipo di calore (il calore umano della vicinanza e
dell’empatia). Il termine «spirito» è stato coniato da tutte le grandi tradizioni
spirituali e filosofiche dell’umanità per nominare questa particolare energia,
capace di compiere lavori particolari come l’educazione, la riforma morale, la
conversione, la preghiera, l’amore come stile di vita, una particolare forma di
energia senza mettere in gioco la quale il mondo non svela il suo volto migliore.
3. Dal Diario di Etty Hillesum:22
– «E dovunque mi troverò, io cercherò di irraggiare un po’ di quell’amore, di
quel vero amore per gli uomini che mi porto dentro» (p. 74). Lo spirito è
precisamente l’energia che produce questo irraggiamento di cui parla Etty.
– «Prometto di vivere questa vita sino in fondo, di andare avanti» (p. 75). Lo
spirito è precisamente l’energia che fa formulare e mantenere la promessa di cui
parla Etty.
– «Ieri sera, subito prima di andare a letto, mi sono trovata improvvisamente in
ginocchio nel mezzo di questa grande stanza, tra le sedie di acciaio sulla stuoia
chiara. Un gesto spontaneo: spinta a terra da qualcosa che era più forte di me» (p.
87). Lo spirito è precisamente l’energia che produce questa spinta più forte della
volontà personale.
4. Esiste un lavoro misurabile dalla scienza in termini di energia cinetica,
termica, elettrica, nucleare... ma ne esiste un altro che non è misurabile con i
parametri dell’energia in quanto oggetto di misurazione scientifica. Si tratta del
lavoro che è opera della libertà, quando non si reagisce ma si agisce, quando si
trae da sé qualcosa di nuovo e lo si mette al mondo, generando un dipinto, una
musica, una poesia, un comportamento etico al di là degli interessi biologici e
sociali. Se quindi tutto è energia, non tutto è misurabile nei termini dell’energia
conosciuta dalla scienza. C’è un érgon che va al di là delle forme di energia
soggette alla misurazione scientifica. Questo significa che nell’uomo si muove ed
è attiva una sfera dell’essere che supera la semplice immanenza sperimentabile.
Occorre evitare due errori:
– spiegare la specificità umana senza la materia del mondo (pericolo dello
spiritualismo);
– ridurre la specificità umana alla materia del mondo (pericolo del
materialismo).
5. Sull’energia sessuale. Se la forza mediata dai bosoni si esaurisse
completamente nella costituzione dei fermioni in materia ordinata, non ci sarebbe
la vita ma solo materia inorganica. La vita inizia quando la forza prodotta dalle
interazioni dei bosoni è superiore alla massa materiale prodotta, così che ne
rimanga un surplus, un’eccedenza di energia-forza che consente al corpo di
muoversi.
La passione che ci abita e che ci muove è la più limpida manifestazione del
fatto che noi siamo legati insieme dalla forza e che la forza che ci costituisce non
si esaurisce nei legami che danno origine al corpo materiale. Ne rimane un
surplus che ci fa vivere (l’anima) e un surplus ulteriore che ci fa generare la vita
(l’energia sessuale). La sessualità, esattamente come se fosse un bosone, media la
forza generativa dell’Universo dentro di noi. Per questo va coltivata con grande
rispetto e attenzione, e non a caso le religioni e le spiritualità di tutti i tempi hanno
sempre cercato di codificarla e di disciplinarla. Talora hanno generato tabù da cui
è giusto liberarsi, ma a quale disordine possa portare il mancato rispetto di ogni
forma di disciplina in ambito sessuale è risaputo da sempre a tutte le grandi
sapienze dell’umanità.
Occorre quindi trarre un’importante conseguenza antropologica dal fatto che la
vita è plasmata dalla forza, una conseguenza che conduce a porre il seguente
basilare principio: il principio-passione. Noi siamo passione. Prima e al di là di
ogni altra proprietà (intelligenza, volontà, sentimento, grazia, istinto...), noi siamo
passione. E il nostro essere passione può essere sia distruttivo sia costruttivo, tutto
dipende da come siamo in grado di incanalare questa forza-passione che ci
costituisce e che ci domina. Una cosa sola è sicura: se si spegne la passione, si
spegne la vita.
6. Sull’energia oscura. C’è un dato ormai di dominio comune in fisica: «La
massa-energia dell’Universo è dominata da una forma di energia oscura».23 Tale
energia oscura è ipotizzata dai fisici quale unica spiegazione attendibile del dato
sperimentale della continua e sempre più veloce espansione dell’Universo, la
quale sarebbe impossibile se l’Universo fosse costituito solo dalla materia
conosciuta perché in questo caso la forza gravitazionale attirerebbe la materia
verso il centro impedendone l’espansione. I fisici quindi deducono che
nell’immensità dell’Universo ci deve essere una realtà ulteriore, non soggetta alla
forza gravitazionale, in grado di generare una forma propria di energia all’origine
dell’espansione sempre più accelerata dell’Universo. Siccome però non si sa
praticamente nulla di tale ulteriore realtà, essa è stata chiamata
convenzionalmente energia oscura (dark energy).
Ragionando su tale energia oscura, Verzegnassi presenta alcune considerazioni
a mio avviso interessanti anche a livello filosofico e teologico. Anzitutto egli
illustra la nascita dell’Universo secondo tre fasi che delineano tale scenario
cosmogonico:
– energia oscura;
– inflazione (termine da intendersi nel senso latino di inflatio, da inflare,
«gonfiare», quindi con il significato di «gonfiatura»);
– Big Bang o grande esplosione improvvisa.
Alla luce di questa triplice scansione alla base dell’origine del nostro Universo,
Verzegnassi si chiede cosa succede esattamente nel Big Bang a livello di fisica
teorica e la sua risposta è tale da interessare direttamente la nostra comprensione
dell’essere: «Si verifica uno sdoppiamento dell’originale energia oscura in due
componenti»,24 vale a dire: 1) la nuova energia materiale all’origine
dell’Universo attuale; 2) l’originaria energia oscura.
Il punto è individuare quale relazione esista tra le due forme di energia.
Verzegnassi risponde che esse «si ignorano ed evolvono separatamente», nel
senso che «non c’è trasformazione reciproca dell’una nell’altra, la materia rimane
materia e l’energia oscura rimane oscura». Avremmo quindi una divisione
insormontabile dell’essere, non tale però da far pensare a un dualismo originario
(perché la prima forma di energia è scaturita dalla seconda) ma piuttosto a una
dualità. A questo punto lo scienziato triestino aggiunge: «Però il modo in cui
evolve la materia, ossia lo sviluppo dell’universo, è determinato dall’energia
oscura che è quella che determina l’accelerazione». Se esiste quindi una
differenza ontologica tra le due energie, è altrettanto vero che tra esse esiste una
relazione molto significativa, perché nella sua logica di fondo l’evoluzione
dell’energia materiale dipende dall’energia oscura. Infatti Verzegnassi scrive:
«Nella descrizione scientifica, l’evoluzione dell’universo avviene in modo
separato dall’energia oscura ma è da essa determinata». Il che è perfettamente in
linea con la mia visione teologica, secondo cui il mondo non è governato
direttamente dal Dio personale ma è tuttavia governato; ben lungi dall’essere in
balìa del cieco caso, in esso vi è una logica di fondo definibile come logos o
principio ordinatore.
Nel suo contributo Verzegnassi giunge a confrontarsi direttamente con un mio
scritto in cui, parlando del logos, sostengo che l’unico senso plausibile
dell’esistenza del mondo è la nascita della libertà che si compie come amore. E a
questo riguardo scrive: «A mio avviso, anche la descrizione scientifica prevede un
inizio in cui vi sia soltanto il logos, ammesso che si accetti di identificare il logos
con l’energia oscura». E più avanti: «Sebbene la Scienza non parli e non possa
parlare di amore, l’ipotesi che l’universo sia stato creato con lo scopo di generare
la vita appare sostenibile e, a mio avviso, coinvolgente e affascinante».
Verzegnassi prosegue l’esposizione dicendo che la costante espansione
dell’Universo condurrà inevitabilmente a una diluizione della materia originatasi
dal Big Bang, mentre l’originaria energia oscura non sarà soggetta a nessuna
diluizione. Il che significa: «Trascorso un tempo infinito, nel quale l’universo sarà
diventato enormemente grande con la sua espansione accelerata, l’energia
materiale sarà in pratica sparita ovvero si sarà completamente diluita e rimarrà
solamente l’energia oscura». Siamo quindi al cospetto di questa parabola
dell’energia:
– solo energia oscura;
– energia oscura + energia materiale;
– solo energia oscura.
Il che corrisponde alla più classica delle formule religiose: «Com’era al
principio, ora e sempre, nei secoli dei secoli». Siamo cioè in presenza di qualcosa
di molto simile alla concezione neoplatonica di exitus-reditus e alla visione
cristiana che in principio pone Dio e alla fine ancora Dio, «Dio tutto in tutti»
(1Corinzi 15,28).
Lo scienziato triestino tira così le somme del suo discorso: «Concludere che la
visione qui presentata della ricerca scientifica moderna e la visione di una
teologia avanzata e compatibile con quella cristiana siano, per usare un termine
decisamente riduttivo, “non incompatibili”, mi sembra oggettivamente
sostenibile».
7. Abbiamo quindi trovato un termine per denominare l’energia che portò Etty
Hillesum nel 1942 a decidere di lasciare il posto relativamente sicuro di
dattilografa al Consiglio ebraico di Amsterdam per andare volontaria nel lager di
Westerbork; la medesima energia che portò Dietrich Bonhoeffer nel 1939 a
prendere la nave per la Germania lasciando la sicurezza e la carriera che gli
offriva New York; la medesima energia che negli anni Trenta portò Pavel
Florenskij a non rinnegare la sua fede di fronte alle minacciose pressioni del
regime comunista; la medesima energia che fece dire a padre Kolbe ad Auschwitz
«uccidete me al posto suo»; la medesima energia che portò Oscar Romero a
trasformarsi da prelato in carriera a difensore dei diritti del popolo; la medesima
energia che portò Paolo Borsellino a non indietreggiare di un passo nel suo lavoro
anche dopo la morte dell’amico Giovanni Falcone. La medesima energia che
spinge molti uomini e molte donne ad amare e a lavorare per il bene e la giustizia.
Questo termine è spirito, e il suo prodotto più alto si chiama amore.
VI. LA DOTTRINA CATTOLICA E LA SUA
APORIA
29. Il Credo e le testimonianze neotestamentarie
Il Credo niceno-costantinopolitano, che viene proclamato tutte le domeniche
nelle messe cattoliche e che la tradizione sostiene essere stato composto a Nicea
nel 325 e completato a Costantinopoli nel 381 ma la cui vera origine è oscura,1
nel suo primo articolo recita così: Credo in unum Deum, Patrem omnipotentem,
factorem caeli et terrae, visibilium omnium et invisibilium («credo in un solo Dio,
Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra, e di tutte le cose, visibili e
invisibili», DH 150). Gli storici del dogma fanno notare che l’espressione
«creatore del cielo e della terra» è un’aggiunta posteriore al testo originario, visto
che «in Occidente questa menzione non apparirà che a partire dal VI secolo».2
Anche nelle prime versioni dell’altra antica professione di fede del cristianesimo
detta Simbolo degli apostoli, il riferimento all’essere creatore da parte di Dio è
assente, come si può vedere dal testo del primo articolo, originariamente in forma
interrogativa: «Credi in Dio Padre onnipotente? Credo».3
Questo però non significa che per i primi cristiani il tema della creazione non
giocasse un ruolo essenziale, e che furono solo le dispute con le prospettive
contrarie del paganesimo e dello gnosticismo a farne una caratteristica decisiva
della concezione cristiana di Dio. Infatti già nel NT il tema della creazione
costituisce la base implicita della fede in Dio. Gesù nella sua predicazione parla di
Dio come signore del cielo e della terra (Matteo 11,25: «Ti rendo lode, Padre,
signore del cielo e della terra», parallelo in Luca 10,21), rimanda alla creazione a
proposito della differenza sessuale (Marco 10,6: «Dall’inizio della creazione li
fece maschio e femmina», parallelo in Matteo 19,8) e collega a essa le vicende
cosmiche della fine (Marco 13,19: «Quelli saranno giorni di tribolazione, quale
non vi è mai stata dall’inizio della creazione fatta da Dio», parallelo in Matteo
24,21). La medesima convinzione si ritrova nell’apostolo Paolo, il quale parla
della creazione dicendo che «Dio chiama all’esistenza le cose che non esistono»
(Romani 4,17), che «da lui, per mezzo di lui e per lui sono tutte le cose» (Romani
11,36), che Dio Padre è colui «dal quale tutto proviene e noi siamo per lui»
(1Corinzi 8,6), e nella Lettera agli Efesini designa Dio «creatore dell’Universo»
(Efesini 3,9). Lo stesso fa il libro degli Atti degli apostoli in 4,24 («Signore, tu hai
creato il cielo, la terra, il mare e tutte le cose che in essi si trovano»), in 14,15 («il
Dio vivente ha fatto il cielo, la terra, il mare e tutte le cose che in essi si
trovano»), in 17,24 («ha fatto il mondo e tutto ciò che contiene»). Per l’anonimo
autore della Lettera agli Ebrei Dio è «colui che ha costruito tutto» (Ebrei 3,4) e si
rivolge ai credenti scrivendo che «per fede noi sappiamo che i mondi furono
formati dalla parola di Dio, sicché dall’invisibile ha preso origine il mondo
visibile» (Ebrei 11,3). Per l’Apocalisse infine Dio «ha creato cielo, terra, mare e
quanto è in essi» (10,6; in 14,7 all’elenco si aggiungono «le sorgenti delle
acque»). Si può quindi dire che per il NT confessare la fede in Dio Padre e
proclamare il suo ruolo di creatore del mondo è la medesima cosa. Le dispute
successive hanno certamente contribuito a far prendere coscienza ai cristiani
dell’importanza della creazione e quindi a esplicitarne la dimensione teologica,
ma essa è stata da sempre a fondamento della fede giudaico-cristiana. Non è
perciò un caso che il primo testo del Denzinger-Hünermann, Enchiridion
symbolorum definitionum et declarationum de rebus fidei et morum (cioè:
Manuale dei simboli, delle definizioni e delle dichiarazioni sulle questioni di fede
e di morale), parli di Dio Padre come «dominatore dell’Universo».4
Nel NT vi sono inoltre una serie di testi che, accanto al tradizionale
riconoscimento del ruolo cosmico di Dio Padre ripreso dalle Scritture ebraiche,
presentano un elemento peculiare del cristianesimo, assente nell’ebraismo e nelle
altre tradizioni monoteiste, ovvero il ruolo cosmico di Cristo. In seguito a esso il
principio del mondo non viene più pensato come unico ma diviene duplice,
aprendo così la strada a quella particolare considerazione dell’Assoluto che
porterà alla dottrina trinitaria. Il testo neotestamentario che inaugura questo modo
di pensare si ritrova nella Prima lettera ai Corinzi dell’apostolo Paolo, uno degli
scritti più antichi del NT, posteriore solo alla 1Tessalonicesi e come tale databile
tra il 50 e il 51. In parte l’ho già citato sopra a proposito del ruolo cosmogonico di
Dio Padre, ma l’apostolo Paolo prosegue attribuendo la qualifica creatrice anche
al Cristo, cosa assolutamente inedita in un clima di rigido monoteismo. Ecco il
testo completo di 1Corinzi 8,6:
Per noi c’è un solo Dio, il Padre,
dal quale tutto proviene e noi siamo per lui;
e un solo Signore, Gesù Cristo,
in virtù del quale esistono tutte le cose
e noi esistiamo grazie a lui.
Questo antichissimo testo del NT, precedente a tutti e quattro i vangeli e quindi
alla presentazione del Gesù storico, inaugura l’idea del ruolo cosmogonico del
Cristo, il cosiddetto «Cristo cosmico», espressione cara ad autori quali Teilhard de
Chardin, Bede Griffiths, Raimon Panikkar, George Maloney, Matthew Fox. La
fede cristiana, ancora prima di occuparsi delle vicende storiche di Gesù di Nazaret
(alle quali anzi san Paolo non dedicò mai particolare attenzione), si determinò
come fede nel ruolo cosmogonico del Cristo, posto accanto al ruolo di creatore
assegnato tradizionalmente a Dio Padre.
Tra il Padre e il Cristo le differenze emergono grazie alle diverse preposizioni
usate da san Paolo:
– del Padre si dice: ex oû tà pánta kai emeîs eis autón (dal quale tutto e noi per
lui);
– del Cristo si dice: diá oû tà pánta kai emeîs diá autón (per mezzo del quale
tutto e noi per mezzo di lui).
Quanto all’Universo (tà pánta), il Padre è sorgente (ex: complemento di
origine), mentre il Cristo è mediazione (diá). Quanto a noi, il Padre è fine (eis:
complemento di fine), mentre il Cristo è mediazione (diá).
Il Cristo è sempre mediazione, il che significa che essere cristiani non è il fine
della vita ma solo uno strumento, il fine della vita è essere conformi a Dio, essere
a nostra volta una sorgente di essere in quanto bene.
Il NT contiene altri testi che sottolineano il ruolo cosmico del Cristo che
riporto nell’Appendice 3. Questo dato neotestamentario ha trovato spazio nel
Credo niceno-costantinopolitano laddove, all’interno del secondo articolo
dedicato al Cristo, si dice di lui per quem omnia facta sunt, «per mezzo del quale
tutte le cose sono state create». Né va dimenticato che sempre all’interno del
Credo si definisce lo Spirito santo come colui che «dà la vita», assegnando così
anche allo Spirito una decisiva funzione creatrice all’interno del processo
naturale.
Il retroterra su cui si inserisce il pensiero degli autori del NT è dato dalle
Scritture ebraiche, in particolare dal brano di Proverbi 8,22-31 dove prende la
parola Hokmà-Sapienza (vedi testo in Appendice 4). Ma non è solo la Bibbia a
consegnarci l’intuizione di una legge cosmica universale, perché fin dall’antichità,
come si è già visto in precedenza, la mente umana ha intuito che una legge
superiore è all’opera nell’organizzazione del mondo, e ciò che per i cristiani è
Christós e per gli ebrei Hokmà, per i greci era Lógos, per gli egizi Maat, per gli
hindu e i buddhisti Dharma, per i cinesi Tao, per i giapponesi To.
Tuttavia l’attribuzione della mediazione della creazione al Cristo raggiunge
una specificità tutta propria perché con essa il NT attribuisce a un uomo ciò che le
altre tradizioni spirituali attribuiscono a un’entità impersonale, a una forza
mediatrice attraverso cui la Realtà primaria dà origine e forma alla realtà
secondaria. Questa peculiarità del NT come va giudicata? Come un’ingenuità
teologica e cosmologica, oppure come veicolazione di una particolare concezione
di
Dio
e
del
suo
rapporto
con
l’uomo?
C’è certamente il rischio di incorrere in una visione distorta a tre livelli:
– un concetto di Dio tendenzialmente antropomorfico: se infatti la realtà
mediatrice è pensata come uomo, e se al contempo si predica un rapporto
intrinseco e immediato tra tale realtà mediatrice e la Realtà primaria sorgente
dell’essere, allora ne viene la tendenza a pensare in termini antropomorfici anche
la Realtà primaria sorgente dell’essere;
– una visione antropocentrica della cosmologia: se infatti l’Universo è creato
tramite Cristo, è molto facile essere portati a pensarlo come finalizzato agli esseri
umani, come pensato e voluto per loro;
– una figura di Cristo tendenzialmente monofisita: se infatti Cristo è il
mediatore della creazione, e se egli coincide del tutto con la persona di Gesù di
Nazaret, sorge la tendenza a pensare quest’ultimo come solamente «travestito» da
uomo e non come uomo reale, cioè dotato di coscienza finita, di sapere limitato,
di quella serie di contingenze biologiche e spirituali dovute alle coordinate spaziotemporali di un uomo nato e formatosi in un determinato luogo e in una
determinata epoca.
Tuttavia, nonostante questi pericoli peraltro talora concretizzatisi nella storia
della teologia, la riconduzione a Cristo della mediazione della creazione contiene
qualcosa di molto importante, direi di decisivo, per la peculiarità del
cristianesimo, sia in ordine a Dio sia in ordine al mondo:
– in ordine a Dio, il radicamento cristologico della creazione afferma che la
Realtà primaria è sì altra, ma non totalmente altra, e che anzi la sua identità ultima
è il bene, l’amore, la giustizia, cioè la sigla complessiva del messaggio e
dell’identità di Gesù;
– in ordine al mondo, il radicamento cristologico della creazione significa che
la finalità del mondo, se non deve essere ingenuamente identificata con Homo
sapiens, deve essere però individuata in sapiens, cioè nella sapienzialità intesa
come produzione dello spirito, della libera mente che sa e che sceglie e che
sceglie per il bene in quanto peculiare definizione di sapienza.
Il che porta a due conclusioni decisive:
– a ritenere che l’amore, il bene, la compassione, la gentilezza amorevole non
sono in contraddizione con l’essere del mondo, ma ne sono il coronamento,
perché quando si serve il bene non si fa che potenziare la logica cosmica;
– a ritenere che il compimento dell’uomo che serve il bene e che ama non deve
essere interpretato come estinzione rispetto all’essere, ma come ingresso nella
dimensione eterna dell’essere, a cui rimandano le immagini di «vita eterna»,
«regno di Dio», «paradiso», «comunione dei santi», «Gerusalemme celeste».
Alla luce di tutto ciò non può non emergere che il limite più grande della
dottrina cattolica tradizionale sulla creazione consiste proprio nel non aver dato
adeguata attenzione al ruolo cosmico del Cristo. Nella misura in cui ciò avviene,
si entra in quell’ordine di idee che io chiamo «principio-passione», perché la
modalità con cui il Cristo cosmico guida il farsi del mondo non può non essere la
medesima che emerge dalla storia di Gesù di Nazaret, la quale è interpretata nei
Vangeli all’insegna della passione. Ne viene che ai termini che ricorrono nei
Vangeli strutturandone la narrazione in funzione della passione, come nei Sinottici
il verbo impersonale deî («è necessario») o come in Giovanni il sostantivo ?ra,
occorre assegnare un respiro cosmico. C’è una necessità del patire divino che non
concerne solo il Gesù storico, ma anche il divino nel suo rapportarsi al mondo,
cioè il Cristo nella sua dimensione cosmica. Dio infatti è in contatto con il mondo
solo mediante la mediazione cristica, il Padre in quanto tale è assente dal processo
cosmico, non c’è nessuna mano dall’alto che guida, provvede, dirige, castiga,
interviene. C’è piuttosto un principio divino che guida l’evoluzione a partire dal
basso, e questo principio è il cristico, il logos, un logos che crea relazione tra gli
elementi portandoli a livelli di organizzazione sempre più complessi, ma che fa
tutto ciò solo attraverso un lavoro continuo per modellare il caos, il che comporta
necessariamente fatica, dolore, fino all’immolazione (Apocalisse 13,8 parla
dell’Agnello «immolato dalla fondazione del mondo»). È il principio-passione.
Dire «Cristo cosmico» e dire «principio-passione» è la medesima cosa.
Ne viene che il peculiare dato cristologico del NT sull’origine del mondo porta
a rivedere all’insegna del principio-passione il rapporto tra Realtà primaria detta
Dio e realtà secondaria detta mondo. Ma anche la Realtà primaria in se stessa
patisce, anch’essa è passione? Premesso che della Realtà primaria in sé non ci è
dato parlare, rimane che i termini usati dal NT per connotarne l’essenza (spirito,
luce, amore) inducono a pensare che la passione-pathos del mondo non debba
essere estranea alla sua vita
30. I testi magisteriali
Il Catechismo della Chiesa cattolica presenta nel migliore dei modi
l’importanza della dottrina della creazione: «La dottrina sulla creazione è di
capitale importanza. Concerne i fondamenti stessi della vita umana e cristiana;
infatti esplicita la risposta della fede cristiana agli interrogativi fondamentali che
gli uomini di ogni tempo si sono posti: “Da dove veniamo? Dove andiamo? Qual
è la nostra origine? Quale il nostro fine? Da dove viene e dove va tutto ciò che
esiste?”. Le due questioni, quella dell’origine e quella della fine, sono
inseparabili. Sono decisive per il senso e per l’orientamento della nostra vita e del
nostro agire» (articolo 282).
Nonostante queste belle parole, anche il Catechismo riproduce il limite più
grande della dottrina cattolica sulla creazione, che, come ho già fatto notare,
consiste nell’aver trascurato proprio l’elemento che rappresenta la peculiarità
cristiana al riguardo, cioè il ruolo cosmico del Cristo e conseguentemente dello
Spirito: prova ne sia che su 103 articoli dedicati dal Catechismo alla creazione
solamente tre (i numeri 291, 292 e 320) trattano esplicitamente del ruolo cosmico
del Cristo e dello Spirito, senza peraltro incidere in alcun modo sulla struttura
complessiva del discorso ma limitandosi a riportare i dati per dovere di
completezza. Il ruolo cosmico del Cristo, l’elemento peculiare del NT per quanto
concerne la dottrina della creazione, non è stato adeguatamente valorizzato dalla
presentazione tradizionale del cristianesimo e dalla riflessione teologica. Nel
passato, e ancora al presente, quando si parla di creazione ci si riferisce pressoché
esclusivamente a Dio Padre.
A riprova di quanto detto, elenco qui di seguito i principali testi del Magistero
ecclesiastico sulla dottrina teologica della creazione.5 Si tratta di 10 testi che
dispongo in ordine cronologico, dando anzitutto l’anno della stesura:
– 543, sinodo di Costantinopoli: «Se qualcuno dice o ritiene, o che la potenza
di Dio sia limitata e tanto egli abbia prodotto quanto poteva stringere con la mano
e pensare, o che le creature siano coeterne a Dio, sia anatema» (DH 410). Viene
affermata l’illimitata potenza di Dio e la finitudine di tutte le cose del mondo.
– 561, sinodo di Braga (città del Nord del Portogallo): tra le idee che vengono
condannate vi sono, contro il panteismo, la provenienza delle anime dalla
sostanza di Dio (DH 455), e, contro il dualismo, l’idea che il Diavolo non sia una
creatura di Dio ma sia emerso dal caos e dalle tenebre senza avere un autore (DH
457), che il Diavolo possa creare (DH 458), che il matrimonio e la procreazione
siano un male (DH 461), che i concepimenti e il corpo umano siano un’opera
demoniaca (DH 462), che la carne non venga da Dio ma da angeli maligni (DH
463).
– 649, sinodo Lateranense: si afferma contro il dualismo che tutto viene da Dio
(DH 501).
– 1208, papa Innocenzo III impone a un valdese riconvertitosi al cattolicesimo
una professione di fede in cui il Dio trino e unico è detto creator, factor,
gubernator e dispositor (creatore, fattore, governatore e ordinatore) di tutte le cose
materiali e spirituali, visibili e invisibili (DH 790, contro il dualismo).
– 1215, concilio ecumenico Lateranense IV: «Unico principio di tutto» (il testo
originale unum universorum principium, oggi, quando si parla di multiverso, è
traducibile anche «unico principio degli universi»), «creatore di tutte le cose
visibili e invisibili, spirituali e materiali, che con la sua forza onnipotente fin dal
principio del tempo creò dal nulla (de nihilo condidit) l’uno e l’altro ordine di
creature, quello spirituale e quello materiale, cioè gli angeli e il mondo, e poi
l’uomo, quasi partecipe dell’uno e dell’altro, composto di anima e corpo. Il
diavolo infatti, e gli altri demoni, da Dio sono stati creati buoni per natura, ma
sono diventati malvagi da se stessi. E l’uomo ha peccato per suggestione del
demonio» (DH 800).
– 1329, papa Giovanni XXII condanna 28 proposizioni di Meister Eckhart
(1260-1328), tra le quali: il mondo è eterno (DH 952); il mondo è stato creato
insieme alla generazione del Figlio (DH 953); tutte le creature sono un puro nulla
(DH 976) essendo come Dio il quale a sua volta è puro nulla.
– 1442, concilio ecumenico di Firenze: tutte le creature sono buone perché
fatte dal sommo bene, a summo bono factae sunt, ma sono mutabili perché fatte
dal nulla, de nihilo factae sunt (DH 1333); si condanna inoltre «la demenza dei
manichei che ammettevano due primi principi» (DH 1336).
– 1860, sinodo provinciale di Colonia: condanna di Anton Günther (17831863, sacerdote e filosofo), il quale, in una prospettiva influenzata dalla filosofia
idealista, pensava Dio come necessitato alla creazione (DH 2828; vedi Eckhart in
DH 953).
– 1870, concilio ecumenico Vaticano I: la Costituzione dogmatica Dei Filius
stabilisce che Dio ha creato non «per aumentare la beatitudine né per acquisire
perfezione, ma per manifestare la sua bontà» (DH 3002); e che ha creato dal
nulla, liberamente, e per la sua gloria (DH 3025); si condanna esplicitamente il
materialismo (DH 3022), il panteismo (DH 3023), e le concezioni sull’origine del
mondo all’insegna dell’emanazionismo e della processualità (DH 3024).
– 1965, concilio ecumenico Vaticano II: la Costituzione pastorale Gaudium et
spes afferma che «l’uomo sulla terra è la sola creatura che Dio abbia voluto per se
stessa» (paragrafo 24, DH 4324) e parlando dell’attività umana nel mondo
afferma che «l’uomo, creato a immagine di Dio, ha ricevuto il comando di
sottomettere a sé la terra con tutto quanto essa contiene, e di governare il mondo
nella giustizia e nella santità, e così pure di riportare a Dio se stesso e tutte le
cose» (paragrafo 34, DH 4334). Nello stesso paragrafo la Gaudium et spes
ribadisce la «subordinazione di tutte le realtà all’uomo».
31. Dio causa del mondo
La teologia della creazione tradizionale si è sviluppata a partire dai racconti di
Genesi 1 e Genesi 2 strutturandosi perlopiù come riflessione sulla causa del
mondo, su ciò che ha causato il mondo portandolo all’esistenza. Questa causa è
comunemente detta «Dio», termine che deriva da una radice che significa luce, o
anche giorno, come nel latino dies. Dire che Dio è creatore nel senso che è la
causa del mondo comporta il chiarimento del concetto di causa (termine che in
tedesco significativamente si dice Ursache, laddove Sache significa «cosa» e Ur è
il prefisso che indica primordialità, quindi causa è la cosa primordiale, che sta
prima, e che per questo produce o causa ciò che viene dopo). Secondo la teoria
aristotelico-scolastica, base della teologia tradizionale, il concetto di causa ha un
quadruplice dinamismo. Così affermava Aristotele: «Il termine causa ha quattro
sensi»; e così specificava Tommaso d’Aquino: «Ogni causa o è materia, o forma,
o efficiente, o fine».6
Il concetto di causa si declina quindi in causa materiale, causa efficiente, causa
formale e causa finale. Ciò significa che si giunge a conoscere veramente un
oggetto quando di esso se ne conosce la materia, il fattore, la forma e lo scopo.
L’esempio classico è quello della casa: la causa materiale sono le pietre e i
mattoni, la causa efficiente i muratori, la causa formale il disegno di chi l’ha
progettata e fatta costruire, la causa finale chi l’abiterà. La realtà del fenomeno
casa è data dalle quattro dimensioni nel loro insieme.
Applicando a Dio tale quadruplice concezione di causa, Dio rispetto al mondo
viene pensato come:
– causa formale, cioè come il creatore in senso ideale, colui che del mondo ha
concepito l’idea, il progetto, che ne è l’ideatore, il divino architetto;
– causa efficiente, cioè come il fattore in senso fisico (factorem), l’artefice,
colui che agisce mettendo in atto il progetto, il muratore dell’immenso cantiere
cosmico;
– causa materiale, cioè come colui che, attraverso la sua parola, suscita la
materia «dal nulla»; il nulla infatti non è la causa materiale perché, come dice un
assioma medievale, ex nihilo nihil fit (dal nulla non si fa nulla); il nulla esprime
piuttosto lo stato del mondo prima dell’intervento creativo di Dio, un mondo che
era proprio nulla in quanto non esisteva, neppure sotto forma di materia caotica
preesistente all’azione creatrice; ex nihilo quindi indica l’ordine di successione,
non l’ordine di provenienza o la causa materiale che rimane sempre Dio;
– causa finale, cioè come meta di tutto l’immenso processo cosmico, una meta
che il NT chiama «regno dei cieli», o anche «cieli e terra nuova», dicendo che si
raggiungerà in modo drammatico (conflagrazione, scenari apocalittici, fine del
mondo).
I concetti decisivi sono quindi due: «creazione» e «dal nulla». Saldati insieme,
essi generano il nucleo concettuale con cui il cristianesimo pensa il rapporto tra
Dio e l’origine del mondo, «creazione dal nulla», in latino creatio ex nihilo, talora
anche creatio de nihilo, formula definita da un autorevole teologo tedesco «una
sorta di sintesi, di carta di identità, di quintessenza di tutta la teologia della
creazione».7
32. Modelli concettuali dell’origine del mondo
Dopo aver presentato la dottrina della creazione nelle sue fonti
neotestamentarie e magisteriali e dopo averne presentato il nerbo speculativo,
penso sia opportuno, prima di proseguire l’analisi, considerare il concetto di
creazione in rapporto agli altri modelli teoretici con cui l’umanità ha cercato di
dar conto dell’origine del mondo. Infatti un concetto viene compreso nella sua
specificità solo collocandolo accanto agli altri concetti sorti per spiegare la
medesima realtà, come per esempio si comprende appieno il concetto di
democrazia tenendo presente gli altri modi con cui si è giunti a concepire la
gestione del potere. Per questo espongo ora in modo sintetico i principali modelli
concettuali sorti per pensare il rapporto di origine tra Dio e il mondo,
disponendoli secondo la tipologia del rapporto, da quello più organico (Dio e il
mondo coincidono, ovvero il panteismo) a quello più estrinseco (Dio e il mondo
sono avversari irriducibili, ovvero il dualismo). Di ciascun modello accanto al
termine italiano presento anche quello greco e latino, salvo in un caso quando
l’originale è ebraico:
– eternità ai?n aeternitas – processione próodos processio, exitus –
emanazione aporroé emanatio – creazione ktísis, poí?sis creatio – trasformazione
metamórph?sis metamorphosis – ritrazione tzimtzum – catastrofe katastroph?
eversio Eternità
Il mondo e Dio sono la medesima cosa ed esistono da sempre, per cui non c’è
nessuna creazione. Di questo paradigma vi sono due versioni:
– il panteismo, secondo cui il mondo è perfetto e la domanda etica sul bene e
sul male suppone una visione distorta perché tutto ciò che è, è solo bene
(Spinoza);
– il materialismo ateo, secondo cui il mondo naturale e storico è insensato e
assurdo; a sua volta questa posizione si divide in ateismo tragico (Camus, Sartre,
Monod, Flores d’Arcais) e ateismo cosiddetto bright (Dawkins, Giorello,
Odifreddi,
Onfray).
Processione
Il mondo viene da Dio nel senso che procede dall’essere di Dio come il raggio
procede dal sole, per cui Dio non poteva non creare e il mondo che ne scaturisce
gode della perfezione divina; non coincide con Dio, tuttavia lo arricchisce nel suo
divenire (idealismo).
Il termine processione è un termine tecnico della teologia trinitaria che indica
l’origine del Figlio e dello Spirito, i quali appunto procedono dal Padre (il Figlio
procede per generazione, lo Spirito procede per spirazione). Come procede il
Figlio dal Padre? Allo stesso modo in cui il raggio procede dal sole, nel senso che
il sole per la sua stessa essenza produce raggi e non può esistere senza produrre
raggi. Neppure l’acqua può esistere senza bagnare, né il vento senza soffiare.
Poiché c’è il sole vi deve essere il raggio, poiché c’è l’acqua vi deve essere
l’umido, poiché c’è il vento vi deve essere il soffio. Il raggio, l’umido e il soffio
sono processi necessari delle realtà denominate sole, acqua e vento. Questa
relazione di necessità è la medesima che intercorre tra il Padre e il Figlio, e tra
loro e lo Spirito: il Padre non può non generare il Figlio, se non lo generasse non
sarebbe padre, è condizione necessaria della sua natura di padre il fatto che da lui
proceda un figlio mediante generazione.
Pensare il rapporto Dio-mondo in termini di processione significa pensare che
come Dio è strutturalmente padre e non può non generare il Figlio, allo stesso
modo è strutturalmente creatore e non avrebbe potuto non creare il mondo. Il che
significa che senza il mondo Dio non sarebbe ciò che è; ovvero che Dio ha
bisogno del mondo per giungere a se stesso.
Emanazione
Il mondo viene da Dio nel senso che emana dall’essere di Dio, e lo fa in modo
disinteressato e involontario attraverso una serie di mediazioni sempre meno
perfette, per cui il mondo che ne scaturisce esprime un essere imperfetto e
corrotto. Il neoplatonismo di Plotino (205-270) pone l’Uno, poi l’Intelletto, poi
l’Anima del mondo, ed è dall’Anima del mondo che sorge il mondo, di cui così si
spiega l’instabilità e la lontananza dalla perfezione. Spiega Giovanni Reale al
riguardo: «La derivazione delle cose dall’Uno è rappresentata come l’irraggiarsi
di una luce da una fonte luminosa in forma di cerchi successivi via via digradanti
in luminosità, mentre la fonte stessa della luce persevera senza impoverirsi pur nel
suo espandersi tutto intorno. Il primo cerchio luminoso dopo la fonte di luce è il
Nous o Spirito, ossia la seconda ipostasi; il successivo cerchio è l’Anima, ossia la
terza ipostasi. Il cerchio che segue ulteriormente segna il momento dello
spegnersi della luce e simboleggia la materia, la quale ha bisogno di un
irraggiamento estraneo, essendo ormai tenebra».8 Nella tradizione neoplatonica a
partire da Giamblico di Calcide (250-330) le ipostasi mediatrici tra la Realtà
primaria che è Dio e il mondo si moltiplicano sempre più.9
Vi è anche una concezione meno negativa dell’emanazione secondo cui Dio o
Realtà primaria trae il mondo da se stesso, come un costruttore gigantesco che per
i suoi edifici usi parti o prodotti del suo corpo, al modo del gigantesco uomo
primordiale dei Veda, Puru?a, o del cinese Pan gu, o del supremo dio egizio Atum
che genera le creature dal suo seme. L’idea della creazione come emanazione
dell’essere del mondo dall’essere di Dio afferma che l’energia del mondo è la
medesima dell’energia primordiale e inestinguibile che è Dio.
Creazione
Il mondo viene da Dio nel senso che è creato liberamente da Dio dal nulla,
senza che ne sia coinvolto l’essere divino in se stesso, che rimane del tutto
inalterato nella sua perfezione originaria (cristianesimo ortodosso).
Trasformazione
Il mondo viene da Dio non quanto alla materia, la quale è coeterna a Dio, ma
quanto alla forma: esso viene trasformato da Dio che lo fa passare dal caos
all’ordine. Chi pensa la creazione come trasformazione ritiene che il Creatore sia
assimilabile al Dio artefice detto demiurgo (d?miourgós) di cui parla Platone, il
quale modella l’Universo a partire da una materia informe e caotica detta ch?ra
(«una specie invisibile e amorfa, capace di accogliere tutto») e ispirandosi alle
idee eterne («è evidente a tutti che Egli guardò all’esemplare eterno»).10 Oppure
ritiene che sia simile a un muratore che si serve di pietre, di tufo o di argilla, o agli
Dei delle antiche cosmogonie che traggono le creature dal corpo di mostri feroci
in precedenza sconfitti. A differenza del cristianesimo per il quale in principio c’è
l’essere come logos per quanto riguarda Dio e non c’è nulla per quanto riguarda il
mondo, secondo questa prospettiva in principio oltre a Dio c’è il caos, ponendo
così
un
altro
principio
accanto
a
Dio.
Ritrazione
Mediante il termine ebraico tzimtzum (scritto anche tzim-tzum, o zimzum),
che letteralmente significa «ritrazione» o anche «contrazione», si designa la
modalità con cui il cabalista Isaac Luria (1534-1572) concepiva la creazione.
Prima della creazione del mondo, Dio, detto Ein Sof (Infinito, Senza fine)
riempiva il tutto, era tutto; poi Dio dispose un vuoto al proprio interno e così poté
avere origine qualcosa di diverso da Dio, cioè il mondo. I principali autori
contemporanei che hanno riproposto la teoria della creazione come tzimtzum
sono Hans Jonas, Jürgen Moltmann, Sergio Quinzio.
La creazione propriamente intesa si ha quando Dio si ritrae. Il Big Bang in
questa prospettiva si può concepire come il ritrarsi di Dio dall’energia primordiale
della singolarità cosmica. Dio si ritrae e l’essere esplode, come un bimbo rimasto
improvvisamente senza genitori che esplode in un pianto disperato correndone
alla ricerca. Per questo una tensione inappagata attraversa ogni frammento di
materia, perché tutto è alla ricerca dell’unificazione originaria.
La creazione quindi non è la posizione di qualcosa, l’energia c’è sempre stata,
è eterna, non si crea né si distrugge; la creazione è l’uscita del Dio personale
dall’energia costitutiva del mondo.
Catastrofe
Il mondo non viene da Dio ma da un principio estraneo e a seguito di un
incidente, per cui tra Dio e il mondo vi è un rapporto di opposizione e ostilità
(gnosticismo). Come già osservato in precedenza, l’essenza contenutistica dello
gnosticismo
è
la
contrapposizione
Dio-mondo,
secondo
quanto
emblematicamente afferma il Vangelo di Filippo: «Il mondo ebbe origine da una
trasgressione».11 L’esperienza desolante della realtà del mondo porta al bisogno
di separare il vero Dio dal governo della natura e della storia in cui domina
l’ingiustizia. Secondo gli gnostici, se Dio è veramente Padre ed è veramente bene,
non può essere la causa di un mondo così intriso di dolore, non può esserne
all’origine, la quale di conseguenza va ricercata altrove e connotata come una
trasgressione dall’esito catastrofico.
In conclusione, questi sette modi di pensare si possono classificare anche in
base all’esistenza o meno di un rapporto di dipendenza del mondo rispetto a Dio.
Infatti da un lato vi sono i modelli processione, emanazione, creazione,
trasformazione, accomunati dal pensare il rapporto Dio-mondo come una
dipendenza più o meno organica, e dall’altro i modelli eternità, tzimtzum e
catastrofe che negano o relativizzano fortemente la dipendenza: il modello
eternità la nega, il modello tzimtzum non istituisce nessun rapporto attuale pur
sostenendo che il mondo ha origine da Dio ma solo in quanto si ritrae, il modello
catastrofe infine afferma un’indipendenza talmente ostile del mondo da risultare
un sistema opposto rispetto a Dio.
33. Sul Creatore che crea dal nulla
La dottrina cristiana della creazione dal nulla si inserisce all’interno di quelle
cosmovisioni che concepiscono il mondo come dipendente da una realtà diversa
dal mondo, identificata come la Realtà suprema o primaria, in Occidente
denominata tradizionalmente Dio. Di tale Dio, la dottrina cristiana dice che è il
creatore di tutte le cose, e specifica che la sua creazione non va intesa né come
processione, né come emanazione, né come trasformazione, ma come creazione
dal nulla, creatio ex nihilo, e precisa che tale creatio ex nihilo è da intendere come
creatio ex nihilo sui et subjecti, letteralmente «creazione dal nulla di sé e del
soggetto».
Dicendo «creazione dal nulla di sé» (creatio ex nihilo sui) si nega che l’oggetto
creato possa in qualche modo contribuire alla sua venuta all’essere, si nega cioè
l’esistenza di una materia preesistente all’azione creatrice di Dio, perché, se vi
fosse tale materia preesistente, essa sarebbe eterna, quindi anch’essa divina, e
quindi tale da introdurre un duplice principio all’origine dell’essere facendo venir
meno il principio base del monoteismo. Un esempio di creazione come
trasformazione è la creazione artistica: Michelangelo prima concepiva nella mente
alcune immagini e poi trasformava il blocco di marmo di Carrara nella Pietà o nel
Mosè, per così dire liberando dall’informe marmo originario le idee che prima
aveva concepito nella mente. Non ci sono dubbi che per le sue statue
Michelangelo debba essere designato come il creatore, ma non si può dire che le
statue siano state oggetto di una creatio ex nihilo sui, perché già prima di
Michelangelo esse possedevano la materia del marmo, né Michelangelo senza di
essa avrebbe potuto realizzarle. Le statue quindi vennero composte non ex nihilo
sui, ma ex aliquo sui (a partire da qualcosa di sé, esse hanno per così dire dato un
contributo). Negando che la creazione sia una trasformazione, la dottrina cattolica
nega che il Creatore sia assimilabile al Dio artefice di cui parla Platone detto
demiurgo (d?miourgós) che modella l’Universo a partire da una materia informe e
caotica (ch?ra) e ispirandosi alle idee eterne. Né è simile agli Dei delle antiche
cosmogonie che traggono le creature dal corpo di mostri feroci in precedenza
sconfitti, o a un muratore che si serve di pietre, di tufo o di argilla. Se fosse così,
non si dovrebbe parlare di creazione, ma piuttosto di trasformazione, di passaggio
dal caos primordiale all’ordine. Ma all’inizio, secondo la dottrina cattolica, non
c’è una materia preesistente allo stato caotico; c’è piuttosto l’essere come logos
(per quanto riguarda Dio) e il nulla (per quanto riguarda il mondo).
Dicendo invece «creazione dal nulla del soggetto» (creatio ex nihilo subjecti)
si nega l’emanazione o la processione degli enti dall’essere di Dio, perché in
questo caso gli enti parteciperebbero della divinità, sarebbero divini, e quindi
verrebbe meno un altro assunto irrinunciabile della visione giudaico-cristiana,
cioè la trascendenza del divino rispetto al mondo, concezione secondo cui il
mondo è bene ma non è il bene. Un esempio di creazione come emanazione è la
generazione di un figlio: un uomo e una donna si uniscono e viene concepita una
nuova vita, la quale non esisteva prima dell’unione del gamete paterno con il
gamete materno, sicché si può dire che l’uomo e la donna l’hanno creata nel senso
di generata, e per questo la lingua italiana dice molto efficacemente di essi che
sono genitori (assonanza che si perde in altre lingue, per esempio nell’inglese
parents, nel francese parents, nel tedesco Eltern, nello spagnolo padres). Non ci
sono dubbi che per la nuova vita i genitori sono gli artefici del suo essere venuta
al mondo, ma non si può dire che tale nuova vita sia stata oggetto di una creazione
ex nihilo subjecti, perché i genitori hanno potuto generarla solo a partire dal
materiale biologico prodotto allo scopo dai loro corpi, solo a partire da una parte
di sé. La nuova vita quindi è stata concepita non ex nihilo subjecti, ma ex aliquo
subjecti (a partire da qualcosa del soggetto che crea, il quale ha per così dire
investito una parte di sé).
Per la dottrina cristiana ne viene che l’idea della creazione come emanazione
dell’essere del mondo dall’essere di Dio va esclusa.
Tanto meno, infine, si può parlare dell’origine del mondo come processione.
Se Dio, infatti, nella sua vita interiore, è strutturalmente padre e non può non
generare il Figlio, in nessun modo è strutturalmente creatore, avrebbe potuto
benissimo non creare il mondo, senza che per la sua essenza cambiasse nulla.
Occorre quindi concludere che con l’ex nihilo sui si nega la creazione come
trasformazione di una materia preesistente, e quindi il dualismo, e con l’ex nihilo
subjecti si nega la creazione come processione o emanazione dalla sostanza
divina, e quindi il panteismo. Secondo la dottrina cattolica Dio crea in modo tale
che la sua opera debba essere intesa come creatio ex nihilo nel senso più radicale:
dove non c’era né materia né energia, né spazio né tempo, a un comando della
mente divina dall’inesistenza assoluta compare l’essere che è energia, materia,
spazio, tempo, senza però che tale essere coinvolga in nessun modo l’essere
sostanziale del Creatore. Così il Catechismo attuale presenta la dottrina cattolica
sulla creazione: «Noi crediamo che Dio, per creare, non ha bisogno di nulla di
preesistente né di alcun aiuto. La creazione non è neppure una emanazione
necessaria della sostanza divina. Dio crea liberamente dal nulla» (articolo 296).
Per il Magistero della Chiesa cattolica questa dottrina della creatio ex nihilo
non è secondaria, prova ne sia che per quei cattolici a cui venisse qualche dubbio
sulla possibilità di una tale origine del mondo, il Magistero stabilisce così: «Se
qualcuno non confessa che il mondo e tutte le cose che esso contiene, sia spirituali
sia materiali, secondo tutta la loro sostanza, sono state prodotte da Dio dal nulla (a
Deo ex nihilo productas), sia anatema».12 Per il Magistero la dottrina della
creatio ex nihilo è talmente importante da colpire con la scomunica chiunque la
contesti. I manuali tradizionali di teologia la connotano come «di fede
definita»,13 il che equivale a conferirle lo status di dogma. Ma qual è l’origine di
questo dogma?
34. Piccola storia del dogma della creatio ex nihilo
In ambito cristiano la formula ex nihilo si ritrova per la prima volta in un libro
del II secolo intitolato Il pastore, opera di un cristiano di nome Erma
(nell’originale greco, Hermas), che, chissà per quale motivo, viene citato quasi
sempre come «Il pastore di Erma», come se autore e opera fossero un unico titolo,
come se si dicesse Il cappotto di Gogol’ oppure Delitto e castigo di Dostoevskij.
Ecco le parole di Erma sulla creatio ex nihilo: «Prima di tutto credi che vi è un
solo Dio, il quale ha creato tutte le cose e le ha ordinate dal non-essere
all’essere».14 Gli studiosi fanno notare che «in questa proposizione fondamentale
del Pastore di Erma appare per la prima volta la formula ex nihilo (nell’originale
greco ek toû mè óntos)».15 In seguito il concetto di creazione ex nihilo ricorre
negli scritti di altri esponenti del cristianesimo primitivo per diventare sempre più
familiare tra i padri del IV-V secolo. Ecco alcune citazioni significative:
– Teofilo di Antiochia (morto nel 183): «La potenza di Dio si rivela proprio nel
creare da ciò che non esiste quello che vuole»;16
– Ireneo (130-202): «Dio per la sua opera di creatore si è procurato da sé
materia che prima non esisteva»;17
– Tertulliano (160-220): «Il creatore del mondo ha tratto ogni cosa dal nulla
per mezzo del suo Verbo»;18
– Origene (182-254): «Vanno rifiutate e respinte le false affermazioni di taluni
sulla materia coeterna a Dio»;19
– Basilio di Cesarea (330-379): «Prima che esistesse alcuna delle cose visibili,
Dio pensò e decise di portare all’esistenza ciò che ancora non era, e nel contempo
escogitò quale dovesse essere il mondo, e insieme alla sua forma creò la materia
adatta ad essa»;20
– Agostino (354-430): «Dio non ha tratto le creature traendole da se stesso,
ossia dalla propria natura e sostanza, ma traendole dal nulla, de nihilo, ossia da
nessun’altra realtà»;21
– Leone Magno (390-461): «Al di fuori di questa unica, consostanziale e
sempiterna e immutabile divinità della somma Trinità non c’è affatto creatura
alcuna che al suo inizio non sia stata creata dal nulla, ex nihilo».22
Nel corso del medioevo il concetto di creazione dal nulla finì per coincidere
del tutto con quello di creazione, come si può constatare da questo passo di
Tommaso d’Aquino: «La Glossa dice a proposito di Genesi 1,1 che “creare” è
“fare qualche cosa dal nulla”».23 La Glossa a cui Tommaso d’Aquino si rifà è la
cosiddetta Glossa Ordinaria, detta anche Glossa Communis, cioè il commentario
ufficiale alla Bibbia in uso nelle scuole teologiche medievali elaborato tra l’XI e il
XII secolo e composto per lo più da frasi dei Padri della Chiesa dette sentenze e
disposte a mo’ di note a margine dette per l’appunto glosse (dalla funzione
esplicativa delle quali deriva il termine glossario). Tommaso d’Aquino certifica
così il punto d’arrivo della dottrina cattolica sulla creazione, per la quale creare
giunge a essere l’equivalente di «produrre qualcosa dal nulla» (aliquid ex nihilo
facere). È naturale quindi che alla domanda sul modo con cui le cose derivino dal
primo principio, Tommaso rispondesse così: «Come la generazione di un uomo
parte da quel non-ente che è il non-uomo, così la creazione, che è l’emanazione di
tutto l’essere, parte da quel non-ente che è il nulla».24
Il paragone proposto da Tommaso però non è convincente. Infatti poco dopo,
volendo specificare come intendere la preposizione ex della formula creatio ex
nihilo, il grande dottore scolastico scrive che «quando si dice che una cosa è fatta
dal nulla, la preposizione ex designa non la causa materiale, ma solo la
successione».25 Nell’espressione creatio ex nihilo quindi si deve intendere l’ex
nihilo non come complemento d’origine, ma come indicazione temporale, «ordre
de succession, non ordre de provenance», chiarisce il Dictionnaire de Théologie
Catholique.26 Tutti capiscono però che nel caso della generazione umana il nonuomo da cui si parte è un ente specifico, sono i gameti del padre e della madre, e
quindi la preposizione ex designa la causa materiale, è complemento d’origine, di
modo che risulta improprio accostare la generazione umana alla formula della
creatio ex nihilo come intesa dalla dottrina cattolica ufficiale. Si potrebbe dire che
nel caso della generazione umana si ha una negazione relativa dell’essere, mentre
nel caso della creazione del mondo si ha una negazione assoluta dell’essere. Ma al
di là di questa osservazione, il dato che occorre assumere è che il concetto di
creazione come creazione dal nulla era sostenuto nel primo millennio cristiano da
molti autorevoli Padri della Chiesa e nel secondo millennio giunse a specificarsi
come dottrina definita.
I primi Padri della Chiesa però non pensavano la creazione tutti allo stesso
modo: alcuni ne avevano un concetto diverso perché l’intendevano come un
plasmare e ordinare una materia caotica preesistente. Per esempio Atenagora
(133-190), a proposito del Figlio e della sua azione creatrice, scriveva: «Mentre
tutte le cose materiali erano come natura informe e magma, amalgamate le più
dense con le più leggere, egli procedette affinché per loro fosse idea e atto» (idéa
kai enérgheia).27 Atenagora, detto «il filosofo cristiano di Atene» e che
indirizzava la sua opera all’imperatore-filosofo Marco Aurelio, pensava il Logos
divino come ciò che dà informazione (idéa) ed energia (enérgheia) a una materia
primordiale informe.
Dello stesso avviso era Giustino martire (100-165): «Ci è stato insegnato che
al principio egli stesso essendo buono creò tutte le cose dalla materia informe a
beneficio degli uomini».28 Nella stessa opera Giustino torna a parlare di «materia
informe» (ámorphos húl?) per sostenere l’argomento del debito intellettuale di
Platone verso i profeti ebraici.29
Anche Clemente di Alessandria (150-215) intendeva la creazione non come
fuoriuscita di enti dal nulla ma come un plasmare e ordinare, e proprio facendo
leva sulla materia primordiale era giunto a riproporre a sua volta la tesi secondo
cui i filosofi greci per le loro dottrine avevano tratto ispirazione dalle Scritture
ebraiche: «Specialmente la famosa frase biblica “la terra era invisibile e grezza”
ha offerto ai filosofi motivo di concepire la sostanza materiale».30 Al di là
dell’infondatezza storiografica dell’influsso della Bibbia ebraica sui filosofi greci,
quello che qui importa sottolineare è l’estraneità anche di Clemente alla tesi della
creatio ex nihilo e la sua condivisione dell’idea di creazione come ordinamento di
una materia caotica preesistente.
Leggendo le Orazioni di Gregorio di Nazianzo (329-390), vescovo di
Costantinopoli durante il concilio ecumenico del 381 e considerato dai bizantini
«il teologo» per eccellenza, si vede come la sua attenzione non fosse mai rivolta
alla creazione dal nulla, espressione che in lui neppure compare, ma
all’ordinamento, nel quale per Gregorio consiste esattamente la creazione:
«L’ordine ha costituito il tutto»; e ancora: «L’ordine è padre di ciò che esiste». In
realtà l’originale greco dell’ultima frase è táxis m?t?r tôn ónt?n estì, con il
sostantivo táxis che, essendo femminile, viene logicamente qualificato da
Gregorio come «madre», così che la frase si può anche tradurre:
«L’organizzazione è madre di ciò che esiste».31
Questa pluralità di posizioni, in grado di far respirare la mente cristiana
facendole scorgere i vantaggi e gli svantaggi dei diversi punti di vista, venne
perduta una volta che entrò in gioco la formalizzazione dogmatica. Il che avvenne
nel secondo millennio con il decreto detto Firmiter del concilio ecumenico
Lateranense IV del 1215, anche se già nel 1208 papa Innocenzo III, in una lettera
all’arcivescovo di Tarragona sulla professione di fede richiesta a un valdese
ritornato cattolico, aveva parlato di creazione dal nulla (de nihilo cuncta creavit,
in DH 790). Il concilio Lateranense IV definì la dottrina della creazione come
creazione dal nulla rendendola parte integrante dell’insegnamento dogmatico
della Chiesa cattolica.
Il concilio era stato indetto da Innocenzo III al fine di fronteggiare
dottrinalmente il movimento dei càtari. I càtari, nome che viene dal greco
katharós che significa «puro», talora chiamati anche «albigesi» perché radicati
nella città di Albi nel Sud della Francia, sostenevano che nel mondo sono
all’opera due principi, il principio del bene e il principio del male, e che la materia
e tutte le sue produzioni necessariamente malvagie andavano ricondotte a
quest’ultimo, all’insegna di un concetto di creazione come catastrofe. Ne
conseguiva per i càtari che la salvezza si può ottenere solo liberando l’anima con
la più rigorosa astensione da tutto ciò che è materiale, in particolare dall’esercizio
della sessualità e dal consumo di carne, latte, uova e di ogni altro alimento di
provenienza animale.
In diretta contrapposizione a queste idee dualiste, il Lateranense IV dichiara di
credere «in un solo principio di tutte le cose, creatore di tutte le cose visibili e
invisibili, spirituali e materiali, che con la sua forza onnipotente, insieme,
dall’inizio del tempo, creò dal nulla (de nihilo condidit) la creatura spirituale e
materiale» (DH 800). Conoscendo l’obiettivo del concilio, si comprende che
l’affermazione della creazione «dal nulla» non intendeva avere un valore fisico,
come se il concilio avesse voluto stabilire in modo scientifico la modalità
concreta dell’origine del mondo, bensì un valore morale, nel senso che con essa si
desiderava difendere la bontà intrinseca di ogni cosa del mondo, spirituale o
materiale che fosse. Di contro al pessimismo càtaro, simile a quello gnostico
contro cui aveva polemizzato Ireneo e a quello manicheo contro cui aveva
polemizzato Agostino, e simile al pessimismo di alcune correnti hindu secondo
cui la materia è mera illusione che va domata con l’ascesi più dura, si pone
l’ottimismo ontologico cattolico, in linea con l’ebraismo e i filoni maggioritari
della grecità, in particolare con il Timeo di Platone, con la fiducia nell’empiria di
Aristotele e con la spiritualità degli stoici. Così Marco Aurelio: «Tutto quanto è in
armonia con te, Universo, è in armonia anche con me. Niente di ciò che per te
giunge al momento giusto è per me prematuro e in ritardo [...] Natura, da te tutto,
in te tutto, a te tutto [...] cara città di Zeus».32
Divenuta un dogma di fede, però, la dottrina della creatio ex nihilo venne
presto ad assumere un valore non più solo morale ma anche fisico, dotato di
pretese filosofiche se non addirittura scientifiche nel voler spiegare il modo
effettivo dell’origine del mondo. È in questa prospettiva che essa venne ribadita
dal concilio Vaticano I con la Costituzione dogmatica Dei Filius del 24 aprile
1870 riprendendo alla lettera il passaggio centrale del Lateranense IV. Contro i
negatori della dottrina professata, il Vaticano I aggiunge cinque canoni di
anatema, trasformando in questo modo la dottrina cattolica sulla creazione da
un’affermazione di fondo sulla bontà originaria del mondo contro ogni
spiritualistica denigrazione della materia, a un’affermazione sulla produzione
fisica del mondo. Ed è tuttora questa l’idea di creazione che compare nell’attuale
Catechismo e che viene insegnata ai fedeli.
Ma qual è il senso esistenziale di questa dottrina e quale visione della vita
contiene e trasmette? Penso che la risposta si trovi in questa espressione del
manuale di teologia dogmatica di Maurizio Flick e Zoltan Alszeghy, due gesuiti a
lungo docenti presso la Pontificia Università Gregoriana nella seconda metà del
Novecento: «La dipendenza totale del mondo da Dio nell’essere e
nell’operare».33 Lo stesso scrive un altro gesuita, a lungo docente alla Gregoriana
e ora Segretario della Congregazione per la Dottrina della Fede, Luis Ladaria: «La
creazione ex nihilo mette in evidenza che questa esistenza è ricevuta, che essa
dipende assolutamente da Dio».34 La teologia della creazione sostenuta dal
Magistero cattolico è all’insegna di una visione del mondo che, con terminologia
politica, si potrebbe definire monarchico-assolutista. Il dogma della creatio ex
nihilo è funzionale all’affermazione del potere assoluto di Dio sull’essere del
mondo, e genera a sua volta una concezione totalitaria della vita. Anche per
questo, oltre che per i motivi esegetici illustrati nel prossimo paragrafo, occorre
rivedere profondamente il rapporto Dio-mondo, all’insegna non più della
dipendenza totale ma della relazione (per quanto, ovviamente, asimmetrica).
35. Un fondamento biblico abbastanza imbarazzante
Ora occorre porre attenzione a un paradosso. Il Magistero pontificio e la gran
parte dei teologi insistono sul fatto che l’idea di creatio ex nihilo sia specifica
della rivelazione biblica e ne costituisca uno dei più originali contributi. Per
questo tale dottrina viene considerata «una sorta di sintesi, di carta d’identità, di
quintessenza di tutta la teologia della creazione»,35 e in questa prospettiva
l’articolo 297 dell’attuale Catechismo afferma che «la fede nella creazione “dal
nulla” è attestata nella Scrittura come una verità piena di promessa e di speranza».
In realtà, per quanto attiene alla Bibbia, le cose non stanno affatto così.
La Bibbia non insegna la creatio ex nihilo, se non in un unico testo per nulla
interessato alla natura che presto analizzerò. Lo si evince già dalla filologia, visto
che sia l’ebraico bara’ sia il greco ktízo hanno oltre al senso primario di
«costruire, edificare, fondare» anche quello di «far crescere», mentre in loro non
esiste il significato di «creazione dal nulla» (il verbo ebraico per creare, bara’,
«non significa mai creare dal nulla»36). Lo stesso vale per il latino creo, infinito
creare (che rimanda al verbo cresco, infinito crescere) che significa appunto «far
crescere, produrre, generare», anche nel senso traslato di «scegliere, eleggere,
nominare», esattamente come oggi in ambito ecclesiastico si dice che il papa crea
i cardinali. Contrariamente quindi a quanto scrive il Catechismo della Chiesa
cattolica nell’articolo 297 citato sopra («la fede nella creazione “dal nulla” è
attestata nella Scrittura come una verità piena di promessa e di speranza»),
nessuno dei testi biblici che parlano esplicitamente dell’origine del mondo
accenna a una creazione avvenuta a partire dal nulla. Quando si occupa
esplicitamente del mondo naturale, la Bibbia non dice una sola parola per
comunicare che la creazione divina è avvenuta dal nulla. Il che vale sia per i
celebri racconti di Genesi 2 e Genesi 1 sia per i molteplici altri testi che parlano di
creazione.
Ma non c’è solo il fatto che nella Bibbia la dottrina cattolica della creatio ex
nihilo è assente; occorre anche aggiungere che i testi biblici presentano la
creazione come avvenuta a partire da una materia preesistente informe e caotica.
Per argomentare quanto ho dichiarato, procederò analizzando in questo paragrafo
l’unico testo biblico che parla esplicitamente di creatio ex nihilo, cioè 2Maccabei
7,28, per soffermarmi in seguito sulla visione opposta di Sapienza 11,17 e sul
testo decisivo di Genesi 1,2, e giungere infine a proporre la prospettiva evolutiva
quale più adeguata visione concettuale per assumere tutta la ricchezza e la
complessità delle pagine bibliche e i diversi modelli di creazione in esse presenti.
L’unico testo biblico che parla espressamente di creazione dal nulla è
2Maccabei 7,28. Eccone il testo: «Ti scongiuro, figlio, contempla il cielo e la
terra, osserva quanto vi è in essi e sappi che Dio li ha fatti non da cose
preesistenti; tale è anche l’origine del genere umano». Tale versetto proviene da
un libro deutero-canonico, cioè non compreso nel canone ebraico e quindi assente
anche dalle Bibbie protestanti, ma ritenuto ispirato dalla Chiesa cattolica che ha
preferito rifarsi al più ampio canone della Bibbia ebraica tradotta in greco, la
cosiddetta Settanta, completata verso il 150 a.C. Ma a prescindere dalla deuterocanonicità, quanto colpisce è il fatto che tale versetto si trova in un brano che nel
suo insieme non ha nessun rapporto con la teologia della creazione, non si cura
minimamente del mondo naturale e meno che mai intende presentare un pensiero
sull’origine del mondo.
2Maccabei 7,28 è ritenuto comunemente la testimonianza biblica più esplicita
a favore della creazione dal nulla perché dice a proposito del cielo e della terra
che «Dio li ha fatti non da cose preesistenti». Il testo greco originario è ouk ex
ónt?n epoí?sen autà ho theós, tradotto in latino dalla Volgata ex nihilo fecit illa
Deus. Siamo quindi al cospetto, sostiene la teologia cattolica tradizionale, di una
precisa prova biblica della creatio ex nihilo. Secondo le più consolidate leggi
dell’ermeneutica però, al fine di capire veramente il testo, nell’analisi dei singoli
versetti non si può prescindere dal contesto complessivo. E il contesto di
2Maccabei, come anche di 1Maccabei, non ha nulla a che fare con la
contemplazione della natura, è piuttosto una storia segnata da violenza,
persecuzioni, omicidi, fanatismi, intolleranza. Siamo nel II secolo a.C., in un
mondo sempre più globalizzato all’insegna dell’ellenismo, nel quale si assiste a
un sanguinoso scontro di civiltà paragonabile per molti aspetti ad alcune vicende
dei nostri giorni. Da un lato una forza militare, economica e culturale che
penetrava sempre più nella vita degli uomini fino a minacciare le singole identità
politiche e religiose; dall’altro un popolo diviso al suo interno tra coloro che
volevano assimilarsi alla cultura dominante e coloro che invece cercavano di
resistere nella propria identità attaccandosi alle tradizioni religiose dei padri e
talora rispondendo con punte di fanatismo fondamentalista e di violenza
terroristica. Da un lato Antioco IV Epifane, il re della Siria ellenistica sotto il cui
dominio ricadeva il territorio di Gerusalemme, e accanto a lui il sommo sacerdote
del tempio di Gerusalemme che si faceva chiamare Giasone perché aveva
ellenizzato così il suo nome originario ebraico Gesù;37 dall’altro lato Giuda detto
Maccabeo, che significa «martello», capo della resistenza culturale e militare dei
giudei. In questo contesto, che storicamente interessa gli anni dal 165 al 161 a.C.,
si svolge la scena narrata in 2Maccabei 7 da cui è tratto il versetto in questione.
Protagonisti sono sette giovani fratelli «costretti dal re, a forza di flagelli e
nerbate, a cibarsi di carni suine proibite» (7,1) e la loro madre. I giovani
preferiscono morire piuttosto che trasgredire la legge di purità alimentare e per
questo vanno incontro ai tormenti più atroci: al primo, per esempio, «il re
comandò di tagliare la lingua, di scorticarlo e tagliargli le estremità, sotto gli
occhi degli altri fratelli e della madre. Dopo averlo mutilato di tutte le membra,
comandò di accostarlo al fuoco e di arrostirlo quando ancora respirava» (7,4-5).
Gli altri fratelli subiscono una sorte analoga, mentre la loro madre «sopportava
tutto serenamente per le speranze poste nel Signore» (7,20). Con l’ultimo dei sette
fratelli Antioco sceglie di mutare tattica e «con giuramenti prometteva che
l’avrebbe fatto ricco e molto felice» (7,24), insistendo anche presso la madre
perché convincesse il figlio a mangiare un boccone di carne suina e avere salva la
vita. La madre allora si avvicina al ragazzo e gli rivolge queste parole: «Figlio,
abbi pietà di me, che ti ho portato in seno nove mesi, che ti ho allattato per tre
anni, ti ho allevato, ti ho condotto a questa età e ti ho dato il nutrimento. Ti
scongiuro, figlio, contempla il cielo e la terra, osserva quanto vi è in essi e sappi
che Dio li ha fatti non da cose preesistenti; tale è anche l’origine del genere
umano. Non temere questo carnefice, ma, mostrandoti degno dei tuoi fratelli,
accetta la morte, perché io ti possa riavere insieme con i tuoi fratelli nel giorno
della misericordia» (7,27-29). Il testo si conclude con il ragazzo che fa
esattamente come gli aveva chiesto la madre e con il re che «si sfogò su di lui più
crudelmente che sugli altri» (7,39), uccidendo alla fine anche la madre.
Ora io chiedo se a qualcuno pare credibile che lo Spirito Santo, ispirando la
Bibbia, abbia voluto consegnare «la carta d’identità» della teologia cattolica della
creazione alle righe di un testo così. Nella Bibbia ebraica ci sono numerosi testi
che si occupano più o meno esplicitamente della creazione del mondo naturale, e
in nessuno si qualifica la creazione come operata da Dio a partire «dal nulla». Il
testo di Genesi 1,2, indubbiamente il luogo più adatto per accogliere un tale
insegnamento, dice qualcosa di molto diverso come si vedrà. Eppure ancora oggi
il Magistero cattolico induce i fedeli a credere che un concetto di tale levatura
metafisica sia stato inserito nel racconto di 2Maccabei, definito dagli studiosi una
composizione «più fantastica che storica [...] dove i tormenti dei martiri sono
senza dubbio ampliati».38 Naturalmente ognuno è libero di credere ciò che vuole,
ma mi chiedo se accettare tale prospettiva consenta poi di ripetere coerentemente
con Joseph Ratzinger che «il racconto della creazione si rivela come
l’“illuminismo” decisivo della storia [...] la consegna del mondo alla ragione, il
riconoscimento della sua razionalità e libertà».39 Io apprezzo questo
«illuminismo» teologico di cui parla Ratzinger, ma proprio per questo lo prendo
sul serio, e quindi mi rifiuto di accettare che l’espressione retorica di 2Maccabei
7,28 possa essere l’indicazione data da Dio all’umanità su come ebbe origine il
mondo. E mi ritrovo in ottima compagnia visto che Gregorio di Nazianzo dedica
un’intera omelia, l’orazione numero 15, al testo di 2Maccabei 7, senza neppure
menzionare la questione della creazione dal nulla.40 Io penso che l’articolo 297
dell’attuale Catechismo («La fede nella creazione “dal nulla” è attestata nella
Scrittura come una verità piena di promessa e di speranza. Così la madre dei sette
figli li incoraggia al martirio») vada completamente riscritto.
36. Creazione da una materia senza forma
Nella Bibbia capita non di rado che vi siano affermazioni opposte (e per questo
essa ha il potere di liberare la mente). Nel nostro caso si tratta di un brano del
libro della Sapienza, a sua volta deutero-canonico e coevo di 2Maccabei, dove al
versetto 11,17 si legge: «Non era certo in difficoltà la tua mano onnipotente, che
aveva creato il mondo da una materia senza forma, a mandare loro una
moltitudine di orsi o leoni feroci». Il libro della Sapienza dice che Dio ha creato il
mondo «da una materia senza forma» (il testo originale greco è ex amórphou húl?
s, tradotto in latino dalla Volgata con ex materia invisa), ovvero da qualcosa di
molto simile alla ch?ra di Platone, «specie invisibile e amorfa», e alla húl?
(materia) di Aristotele.41
Il contesto in cui si colloca il brano del libro della Sapienza è una grande
meditazione sull’azione della sapienza divina nella storia a partire dal primo
uomo, chiamato «padre del mondo» in 10,1 (analogia con il Puru?a hindu), con
l’intento principale di confutare l’idolatria. Secondo il testo biblico, il prototipo
degli idolatri sono gli egizi che «rendevano onori divini a rettili senza parola e a
bestie spregevoli» (11,15) e che per questo vengono puniti da Dio mediante «una
moltitudine di animali irragionevoli, perché capissero che con le cose con cui uno
pecca, con quelle viene punito» (11,16), chiaro riferimento al celebre racconto
delle dieci piaghe mandate contro il faraone e il suo popolo (vedi Esodo 7-11). La
punizione divina però, fa notare l’autore, avviene con moderazione perché Dio
invia rane, zanzare, mosconi, cavallette, animali fastidiosi ma non mortali, mentre
«non era certo in difficoltà la tua mano onnipotente, che aveva creato il mondo da
una materia senza forma, a mandare loro una moltitudine di orsi o leoni feroci»
(11,17). Per sottolineare ancor più la clemenza divina il testo prosegue mettendo
in scena alcuni esseri misteriosi di cui Dio avrebbe pure potuto servirsi per la sua
punizione, «bestie molto feroci, prima sconosciute e create da poco, che esalano
un alito infuocato o emettono un crepitio di vapore o sprizzano terribili scintille
dagli occhi» (11,18). Facile capire che qui l’autore biblico allude ai draghi, da
sempre molto attraenti per l’immaginario umano (e che, con quel loro essere detti
«creati da poco», potrebbero persino costituire un punto di appoggio biblico per la
creazione continua, nonché per l’evoluzione darwiniana). Al libro della Sapienza
però preme soprattutto sottolineare la bontà e la compassione di Dio, e in questa
prospettiva presenta alcuni versetti che costituiscono una delle più belle
testimonianze bibliche sull’amore per la natura: «Tu ami tutte le cose che esistono
e non provi disgusto per nessuna delle cose che hai creato; se avessi odiato
qualcosa, non l’avresti neppure formata. Come potrebbe sussistere una cosa, se tu
non l’avessi voluta? Potrebbe conservarsi ciò che da te non fu chiamato
all’esistenza? Tu sei indulgente con tutte le cose, perché sono tue, Signore,
amante della vita» (11,24-26).
37. Conflitto di autorità
Eccoci quindi di fronte a un bel problema: la Bibbia dice in 2Maccabei che
Dio ha creato il mondo «non da cose preesistenti» (Settanta: ouk ex ónt?n;
Volgata: ex nihilo), mentre in Sapienza dice che l’ha creato «da una materia senza
forma» (Settanta: ex amórphou húl?s: Volgata: ex materia invisa). Non era quindi
un caso se nei primi secoli cristiani Erma e Teofilo di Antiochia sostenevano la
creazione dal nulla, mentre Giustino e Clemente di Alessandria la pensavano
come il plasmare una materia preesistente. Ma quale dei due testi biblici
privilegiare?
Il credente che ragiona in base al principio di autorità non avrà dubbi e
privilegerà 2Maccabei per essere in linea con la scelta dogmatica della Chiesa. Il
credente che invece non fa del principio di autorità l’ultima istanza della mente
perché non intende rinunciare a pensare, andrà alla ricerca di criteri oggettivi per
determinare la sua decisione. Io mi sforzo di appartenere alla seconda categoria e
in questa prospettiva ritengo che le visioni alternative di 2Maccabei e Sapienza
debbano essere tenute presenti entrambe, andando alla ricerca di una posizione
che superi il modo tradizionale di considerare la creazione dal nulla, ma evitando
al contempo di ricadere nel dualismo originario cui conduce l’idea di una materia
preesistente all’atto creativo. Il testo di 2Maccabei 7,28 presenta una visione della
natura all’insegna del logos, il testo di Sapienza 11,17 presenta una visione della
natura all’insegna del caos, e il compito di un pensiero teologico responsabile
consiste nel cercare la sintesi tra queste due visioni opposte, una sintesi che a mio
avviso si dà nella considerazione che la creazione avviene sì dal nulla ma non in
modo perfetto, nel senso che l’essere che scaturisce in seguito all’atto creativo
emerge come caotico e bisognoso di ricevere una continua plasmazione, una
condizione dell’essere che comporta il principio-passione (logos + caos = pathos),
sia per il Creatore sia per gli esseri creati.
Occorre chiedersi però se gli altri testi biblici che parlano della creazione siano
affiancabili più a 2Maccabei oppure più a Sapienza. Per quanto concerne
2Maccabei c’è un solo testo in tutta la Bibbia che gli si può in qualche modo
affiancare, Romani 4,17, talora in effetti citato in questa prospettiva.42 È
sufficiente però leggere il testo senza prevenzione per rendersi conto che non
contiene nessun riferimento alla modalità della creazione del mondo. Nel capitolo
quarto della Lettera ai Romani san Paolo sta proponendo Abramo quale modello
dei credenti e giunge a dire di lui che è «padre di tutti noi – come sta scritto: Ti ho
costituito padre di molti popoli – davanti al Dio nel quale credette, che dà vita ai
morti e chiama all’esistenza le cose che non esistono» (4,17). Come già in
2Maccabei, anche qui l’interesse specifico del testo non riguarda la natura ma
piuttosto la vita di fede, ed è in questa prospettiva che vanno collocate e
interpretate le sue parole. Con esse Paolo non dice affatto che Dio chiama
all’esistenza dal nulla le cose che non esistono, ma semplicemente che «chiama
all’esistenza le cose che non esistono», che non esistono cioè come quei fenomeni
specifici che poi sorgeranno. L’apostolo in altri termini sta solo dicendo che Dio
crea, senza curarsi di specificare la modalità della creazione, tant’è che la sua
frase potrebbe venire completata sia al modo di 2Maccabei («chiama all’esistenza
le cose che non esistono a partire dal nulla») sia al modo di Sapienza («chiama
all’esistenza le cose che non esistono da una materia informe»). Risulta quindi
scorretto affiancare Romani 4,17 a 2Maccabei 7,28 a sostegno della creazione ex
nihilo, perché sulla modalità della creazione il testo di Paolo non dice proprio
nihil. La pensa così anche un teologo con molti studi all’attivo sulla teologia della
creazione come l’ungherese Alexandre Ganoczy: «Romani 4,17 non intende
esprimere alcunché sul rapporto che corre tra il nulla e l’essere nella creazione del
mondo».43 Ne consegue che 2Maccabei 7,28 rimane senza paralleli in tutti i 73
libri del canone cattolico.
La situazione di Sapienza 11,17 è molto diversa. Nella Bibbia infatti le
modalità della creazione sono presentate in forme diverse, a proposito delle quali
un autorevole studioso come Claus Westermann precisa che si danno «quattro
modi inconfondibilmente caratteristici di presentare la creazione», denominati
come segue: «1) creazione attraverso un fare o un operare; 2) creazione mediante
generazione e nascita; 3) creazione attraverso una lotta; 4) creazione mediante una
parola».44
Nelle pagine bibliche quindi la creazione viene descritta alternativamente
come un operare, un generare, un lottare, un pronunciare una parola. Di queste
quattro tipologie, senza alcuna esitazione possono essere affiancati a Sapienza
11,17 i testi che appartengono alle prime tre tipologie (operare, generare, lottare),
soprattutto la terza su cui mi soffermerò più avanti. Ma io ritengo che anche la
quarta e la più celebre modalità con cui la Bibbia descrive l’origine del mondo,
cioè creazione mediante parola, debba essere accostata non alla creazione dal
nulla evocata da 2Maccabei 7,28, ma alla creazione come plasmazione,
ordinamento e lotta. È quindi ora il momento di analizzare Genesi 1,2.
38. Tohu wabohu
Nella disputa tra la prospettiva ex nihilo di 2Maccabei 7,28 e la prospettiva ex
materia di Sapienza 11,17 si rivela decisivo un fatto: il più autorevole tra i testi
biblici sulla creazione presenta una prospettiva analoga al libro della Sapienza.
Ecco i primi tre versetti del libro della Genesi secondo la traduzione ufficiale
della Cei: «In principio Dio creò il cielo e la terra. La terra era informe e deserta,
e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque. Dio
disse: “Sia la luce!”. E la luce fu».
Questo brano, datato dagli studiosi al V secolo a.C., descrive l’evento della
creazione nel modo più spirituale e confacente all’assolutezza divina, cioè
mediante la parola («Dio disse»), un modo ritenuto a lungo peculiarità esclusiva
del Dio biblico mentre abbiamo visto che anche altrove, in particolare in Egitto
nella teologia legata alla città di Menfi, la creazione del mondo da parte della
divinità era concepita come avvenuta mediante la parola. Ma a prescindere
dall’esclusività, rimane che per Genesi 1 è mediante la parola che Dio crea il
mondo; non mediante un’operazione manuale come in Genesi 2,7 («Il Signore
Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo»), né mediante una lotta come in Isaia
51,9-10 («Non sei forse tu che hai fatto a pezzi Rahab, che hai trafitto il Drago?
Non sei forse tu che hai prosciugato il mare, le acque del grande abisso?»). In
Genesi 1 ognuna delle sei giornate della creazione, dette tradizionalmente
esamerone, viene aperta dal ricorrente «Dio disse»: Dio dice e appare la luce, Dio
dice e si separano le acque, Dio dice e la terra produce vegetazione, Dio dice e nel
cielo compaiono sole, luna e stelle, Dio dice e si presentano gli animali, Dio dice
ed ecco l’uomo nell’unità originaria di maschio + femmina.
Naturalmente la parola divina ordinatrice non va intesa in senso antropomorfo,
quasi che Dio abbia una bocca ed emetta suoni riconducibili a una lingua
specifica – e quale poi? l’ebraico della Torah, il greco del NT, l’arabo del Corano,
il sanscrito dei Veda? Questa parola non è altro che la logica immanente
all’essere-energia, la quale fa sì che dal caos si produca organizzazione, vita,
intelligenza, ciò che il linguaggio scientifico denomina informazione, una logica
in-formativa dell’essere-energia. È questo che la Bibbia esprime mediante il
termine «parola» (dabar in ebraico, lógos in greco) e anche mediante la
personificazione della sapienza cosmica come in Proverbi 8,22-31, in Giobbe
28,25-27, in Baruc 3,29-4,1, in Sapienza 7,17-8,1, in Siracide 24,1-9. Ogni
fenomeno è retto dalla logica ordinatrice della parola divina, se non lo fosse
cadrebbe in preda al caos e al disordine degli inizi.
Tra le parole dell’esamerone primordiale il testo afferma chiaramente che la
prima riguardò la luce. La creazione del mondo per Genesi 1 ebbe inizio con la
luce, con il rinomato fiat lux, ricordato così da san Paolo in 2Corinzi 4,6: «E Dio,
che disse: “Rifulga la luce dalle tenebre”, rifulse nei nostri cuori». Si è a lungo
discusso sulla natura di questa luce, visto che le sorgenti luminose da noi
conosciute (il sole, la luna, le stelle) compaiono solo nel quarto giorno, ma si
tratta di problemi che oggi preoccupano solo coloro che leggono Genesi 1 come
un puntuale resoconto scientifico delle origini dell’Universo e della vita,
ignorando che si tratta di un racconto mitologico che rimanda a una visione
sapienziale della natura e della vita. Tale visione sapienziale però si collega a una
precisa filosofia della natura e a questo riguardo il dato da assumere è che per il
testo biblico la prima parola creatrice riguardò la luce: «Dio disse: “Sia la luce!”.
E la luce fu» (Genesi 1,3).
Inevitabile a questo punto porsi una domanda: se la creazione che inizia nel
versetto 3 con la luce è ex nihilo, da dove vengono le realtà naturali nominate in
Genesi 1,2, cioè tohu (deserto), bohu (vuoto), hoshekh (tenebra), tehom (abisso),
mayim (acque)? Di fronte a questa difficoltà molti esegeti contemporanei sono
giunti a concludere che il testo di Genesi 1 non consente in alcun modo di parlare
di creazione dal nulla, poiché sostiene la presenza di una materia caotica
primordiale, preesistente all’azione creatrice. John L. McKenzie, biblista
americano e padre gesuita, afferma a proposito della creazione dal nulla che il
testo di Genesi 1 «è estremamente improbabile che l’affermi», perché
«presuppone una filosofia della natura che gli ebrei non avevano [...]. L’autore
ebreo non era in grado di andare al di là del caos informe che trovava nella
mitologia mesopotamica, la sua immaginazione non poteva concepire una pura
produzione dal nulla».45 L’esegeta tedesco Claus Westermann scrive che
«l’espressione ebraica tohû wabohû indica il deserto spoglio, simile al caos
greco»,46 mentre per l’americano Walter Brueggemann «è ampiamente
riconosciuto che Genesi 1,1-2 costituisce un’importante premessa per la
creazione, il che significa che il caos informe (espresso onomatopeicamente in
ebraico come tohu wabohu) era già “lì” quando Dio iniziò a creare», per
concludere nel modo più esplicito: «Ciò equivale a dire che Dio non creò dal
nulla, ma che l’atto creativo divino consiste nell’imposizione di un ordine
particolare su quella massa di caos indifferenziato».47 Il commentario alla Torah
dell’ebraismo conservatore americano sostiene che a partire da Genesi 1,2 non è
legittimo parlare di creazione dal nulla: «Qui non c’è nessuna indicazione che Dio
fece il mondo a partire dal nulla», anche perché, come già ricordato, il verbo
ebraico per creare, bara’, «non significa mai creare dal nulla»,48 e poi il verbo
decisivo in Genesi 1-2 non è bara’ ma badal, cioè «separare», «mettere ordine».
Prendendo atto dei risultati dell’esegesi scientifica, Hans Küng riassume dicendo
che Genesi 1 «non racconta di una creazione dal nulla, bensì di una creazione
dell’ordine dal caos», concludendo che «di una creazione dal nulla (creatio ex
nihilo) non si parla né nel primo né nel secondo racconto della creazione».49
Rimane però la domanda: da dove vengono le realtà naturali nominate in
Genesi 1,2, il deserto, il vuoto, la tenebra, l’abisso, le acque? Se non vengono da
Dio, com’è possibile non pensare a un dualismo ontologico fondamentale
postulando due principi alla guida del mondo? Se il caos è «già lì» prima che Dio
inizi a creare, significa che esso stesso è divino, eterno come è eterno Dio.
Il gesuita tedesco Medard Kehl, professore di teologia dogmatica a
Francoforte, inquadra bene il problema, anche se poi, a mio avviso, non lo risolve
in modo adeguato. Kehl sostiene che il lettore cattolico della Bibbia, abituato alla
dottrina della creatio ex nihilo, è incapace di concepire la materia caotica a cui
rimanda Genesi 1,2, e quindi tende a interpretare il testo nel senso che Dio prima
creerebbe una terra deserta e caotica avvolta dalla tenebra e poi inizierebbe a
ordinare il mondo mediante la creazione della luce. Ecco le parole di Kehl: «Che
prima della creazione ci debba essere un caos increato, per il lettore cattolico della
Bibbia, inesperto di esegesi e abituato, come è del tutto ovvio, alla dottrina della
creatio ex nihilo, suona come qualcosa di insolito. Normalmente egli interpreta ed
armonizza il primo versetto della creazione nel modo seguente: Dio crea in
principio il cielo e la terra – però inizialmente solo una terra inanimata, deserta e
caotica con una profonda tenebra che tutto avvolge: solo a questo punto egli
comincia a ordinare e a dare forma al mondo. Quindi anche il caos originario
proviene “in qualche modo” da Dio».
Per Kehl questa interpretazione di buon senso è improbabile dal punto di vista
del contenuto e scorretta dal punto di vista del testo. È improbabile perché non si
comprende «perché mai Dio avrebbe dovuto creare un mondo caotico [...] assurdo
pensare che si trattasse di un primo tentativo riuscito male»; ed è scorretta dal
punto di vista del testo perché «la creazione comincia senza dubbi con la
separazione della luce dalle tenebre», luce che, puntualizza il gesuita tedesco,
«non va identificata con la luce del sole, ma è simbolo del potere e della bontà
vivificatrice del Creatore, che in questo modo delimita la tenebra precedente
(simbolo del caos che si oppone alla vita)». Kehl esclude la possibilità di
conciliare l’ordinamento del caos e la creazione dal nulla mediante una
distinzione temporale (prima la creazione del caos, poi l’azione del logos-parola
ordinatore), e tuttavia sostiene che «le due concezioni (“ordinamento del caos”
oppure “creazione dal nulla”) non si escludono a vicenda».50
Io ritengo che la possibilità di conciliare le due prospettive sia assolutamente
essenziale, visto che con ordinamento del caos ci si riferisce alla prospettiva di
gran lunga dominante nella Bibbia e con creazione dal nulla ci si riferisce a
un’altra prospettiva che, per quanto ampiamente minoritaria, porta al pensiero un
principio essenziale della teologia biblica. Infatti, ben più che l’esile versetto di
2Maccabei 7,28, è la stessa concezione di Dio quale emerge dalla Bibbia, cioè il
monoteismo, a imporre al pensiero il concetto della creazione dal nulla. Se infatti
c’è un solo Dio, cioè un solo principio quale sorgente dell’essere, il caos non può
essere «già lì» prima della creazione del mondo. Se lo fosse, di sorgenti
dell’essere ce ne sarebbero due, e avremmo il politeismo e non il monoteismo. È
quindi la fedeltà alla Bibbia a un livello più profondo, quello propriamente
teologico, a suggerire il concetto della creatio ex nihilo, ben al di là della lettera
dei brani che non la contemplano.
Ne viene che il compito di un pensiero teologico responsabile è la ricerca di un
punto di vista in grado di conciliare tali diverse prospettive. A mio avviso però la
conciliazione tra ordinamento del caos e creazione dal nulla può avvenire solo a
una condizione, quella che anche il caos sia a sua volta creato da Dio. Se infatti il
caos preesistesse alla creazione divina, la contraddizione con la dottrina della
creatio ex nihilo sarebbe palese, né da tale contraddizione si potrebbe uscire
dicendo, come fa Kehl, che Dio in quanto «dominatore di tutto» sarebbe diventato
poi anche «il fondamento di tutto», riconducendo così la creazione a un atto di
assoggettamento di un caos originariamente extradivino. Non ci possono essere
dubbi infatti che pensare così equivale a sostenere un dualismo ontologico e a
porsi in netta contrapposizione al principio base della teologia biblica che è il
monoteismo e al primo articolo del Credo secondo cui Dio è il creatore «di tutte le
cose, visibili e invisibili», quindi necessariamente anche del caos.
Ne viene che l’intuizione del lettore cattolico «inesperto di esegesi» su cui
Kehl ha ironizzato, quella secondo cui anche il caos originario proviene da Dio, è
l’unica strada sensata per evitare il dualismo. Anche il caos viene da Dio.
Questo però non è da intendersi nel senso che Dio crei il caos volendolo per se
stesso, e neppure ovviamente nel senso che il caos sarebbe un primo tentativo di
creazione venuto male; è da intendersi piuttosto nel senso che lo stato caotico
dell’essere iniziale è la condizione ontologica necessaria per l’evoluzione del
mondo e per la nascita in esso della libertà. Se il mondo all’inizio non fosse stato
caotico, la libertà non avrebbe potuto nascere e senza di essa non avrebbe potuto
sorgere lo spirito; anzi, se il mondo ancora adesso non fosse caotico in molti suoi
aspetti (compreso l’essere umano con la sua psiche e la sua mente), la libertà non
potrebbe sussistere e senza di essa non potrebbe sussistere lo spirito. La
condizione necessaria per il sorgere della libertà e dello spirito è
l’indeterminazione, la non-necessità, il caos.
L’affermazione secondo cui l’atto creativo inizia propriamente in Genesi 1,3
con la parola divina che suscita la luce va quindi sempre accompagnata dalla
consapevolezza che secondo Genesi 1,2 vi sono alcuni precisi elementi che
preesistono alla parola creatrice sulla luce: la terra informe e deserta (tohu
wabohu), le tenebre (hoshekh), l’abisso (tehom), le acque (mayim).51 È chiaro
che non ha senso ricercare dietro questi nomi delle precise realtà fisiche, perché
essi sono rimandi simbolici al caos indeterminato sotto cui il mondo all’inizio
necessariamente compare. La creazione quindi non è da intendersi come una
subitanea apparizione dal nulla di enti evocati chiamandoli per nome e apparsi già
perfetti e compiuti; la creazione è da intendersi piuttosto come un continuo
processo di ordinamento del mondo a partire dallo stato caotico iniziale sotto cui
Dio dà inizio all’esistenza del mondo, unica condizione perché nel mondo possa
nascere la libertà. Il caos originario quindi proviene da Dio, ma non, come ho già
osservato e intendo ribadire, nel senso che è voluto per se stesso, ma nel senso che
è la logica risultanza di un essere creato in modo non compiuto, non perfetto, non
finito, e ciò al fine di far scaturire in esso la libertà. Riprendendo un’espressione
dell’esegesi tedesca, si può quindi parlare della creazione in termini di
Chaoskampf, di «lotta con il caos», inteso non come una potenza originaria
contrapposta alla luce divina, ma come uno stato dell’essere, che è tale ai suoi
inizi, che è tale anche ora, e che sarà tale fino alla fine dei tempi, unica condizione
perché possa nascere quella indeterminazione non necessitata a cui ci si riferisce
solitamente con il nome di libertà. Ed è precisamente questo il senso della
«creazione continua», quello di una lotta mai conclusa ma sempre
drammaticamente in atto per porre ordine all’interno del caos. Siamo ancora una
volta al cospetto del principio-passione.
39. La prospettiva evolutiva consente di conciliare i diversi modelli biblici di
creazione
Alla luce delle considerazioni esposte io ritengo che la migliore traduzione
della celebre espressione ebraica tohu wabohu di Genesi 1,2 sia esattamente
l’espressione greca ámorphos húl?, «materia informe», adottata dall’autore del
libro della Sapienza, e che secondo Genesi 1,2 Dio crei ponendo
progressivamente ordine mediante la parola sull’iniziale stato caotico dell’essere,
caos che però, sulla scorta del principio base della teologia biblica che è il
monoteismo, non è da considerarsi come una realtà originariamente indipendente,
ma come l’indicazione in termini mitici (tohu wabohu, tehom ecc.) del fatto che
l’essere creato è posto originariamente come imperfetto e incompiuto, e ciò al fine
di far scaturire in esso la libertà. Il caos, in altri termini, è la condizione, il seme,
della libertà.
Io penso che questa prospettiva sia la più adeguata per giungere a una sintesi
tra i diversi modelli biblici di creazione che sono divisi sostanzialmente a metà,
da un lato il modello secondo cui Dio crea mediante la parola, senza fatica né
sporcandosi le mani e con un’assoluta padronanza sul cosmo, dall’altro i modelli
parimenti biblici secondo cui Dio crea mediante un continuo operare, facendo
fatica e sporcandosi le mani, rappresentati o con l’immagine di un Dio artigiano
che plasma il mondo come un vasaio cosmico, o con quella di un Dio guerriero
che sottomette lottando le potenze nemiche del caos. Su questo secondo e
decisivo aspetto mi soffermerò per tutto il prossimo capitolo dedicato allo stato
caotico del mondo quale emerge dalla Bibbia; ora invece elenco una serie di testi
che riguardano l’immagine del Dio artigiano, presente nella Bibbia a partire da
Genesi 2:
– Genesi 2,7: «Il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò
nelle sue narici un alito di vita»;
– Genesi 2,8: «Il Signore Dio piantò un giardino in Eden»;
– Genesi 2,19: «Il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di animali selvatici
e tutti gli uccelli del cielo»;
– Genesi 2,22: «Il Signore Dio formò con la costola che aveva tolto all’uomo
una donna»;
– Isaia 45,11-12: «Volete interrogarmi sul futuro dei miei figli e darmi ordini
sul lavoro delle mie mani? Io ho fatto la terra e su di essa ho creato l’uomo, io con
le mani ho dispiegato i cieli»;
– Isaia 64,7: «Signore tu sei nostro padre, noi siamo argilla e tu colui che ci
plasma, tutti noi siamo opera delle tue mani»;
– Isaia 66,2: «Tutte queste cose ha fatto la mia mano ed esse sono mie –
oracolo del Signore»;
– Giobbe 10,8: «Le tue mani mi hanno plasmato e mi hanno fatto»;
– Salmo 19,2: «L’opera delle sue mani annuncia il firmamento»;
– Salmo 95,5: «Suo è il mare, egli l’ha fatto, le sue mani hanno plasmato la
terra»;
– Salmo 102,26: «I cieli sono opera delle tue mani»;
– Salmo 119,73: «Le tue mani mi hanno fatto e plasmato».
Nel NT l’autore della Lettera agli Ebrei parlando della fede di Abramo dice
che «egli aspettava la città dalle salde fondamenta, il cui architetto e costruttore è
Dio stesso» (Ebrei 11,10), presentando così Dio non solo come technít?s,
architetto, ma anche come d?miourgós, costruttore, facendo uso del medesimo
termine utilizzato da Platone nel Timeo a proposito del Dio artefice.
Quindi secondo l’insieme dei testi biblici Dio crea sia mediante la parola sia
mediante le mani, immagini mitiche che dicono da un lato il dominio divino su
tutto, dall’altro il fatto che la venuta dell’essere da Dio non è compiuta una volta
per sempre ma è tale da richiedere un incessante e faticoso lavoro da parte della
potenza creatrice. La sintesi tra le due prospettive è possibile solo in chiave
evolutiva, considerando cioè la creazione non come avvenuta una volta per
sempre all’inizio del tempo (Genesi 2,2: «Dio nel settimo giorno portò a
compimento il lavoro che aveva fatto e cessò nel settimo giorno da ogni suo
lavoro»), ma come creazione continua, come processo dinamico, come un
cammino privo di itinerario prefissato e che per questo richiede assidua dedizione,
e considerando di conseguenza il caos non dualisticamente opposto rispetto
all’essere e neppure uno «strano stato intermedio che sta tra il nulla e la
creazione»,52 ma come una caratteristica intrinseca della natura creata, la quale è
strutturalmente logos + caos e perciò permanentemente in cammino, in progress.
Tale interpretazione teologica intende la creazione come posizione dell’essere
unicamente da parte di Dio e non di altre potenze (in linea con 2Maccabei 7,28 e
con la dottrina della creatio ex nihilo) ma interpreta l’essere originario come
imperfetto, esposto al caos, e perciò bisognoso di una graduale e continua azione
di ordinamento (in linea con Sapienza 11,17 e con l’idea della creazione come
ordinamento della materia informe).
40. Una conferma neotestamentaria
La Seconda lettera di Pietro è probabilmente lo scritto più tardivo tra i 27 libri
del NT: al suo riguardo la Bibbia di Gerusalemme scrive che «tanti indizi fanno
datare l’epistola alla metà del II secolo d.C.». Si tratta quindi di un testo pseudoepigrafico, che attribuisce cioè a se stesso una falsa paternità, perché quella del
primo versetto, «Simon Pietro, servo e apostolo di Gesù Cristo», risale all’epoca
in cui il Pietro storico era morto da tempo. La pseudoepigrafia però, oltre a essere
un fenomeno abbastanza diffuso nel mondo antico, è anche molto meno
biasimevole di quanto appare in prima battuta perché con il ricondurre la propria
opera a un autore famoso si intendeva dare importanza al suo contenuto,
accettando di conseguenza di mettere del tutto in ombra il proprio nome e
operando così in direzione opposta rispetto al molto più disdicevole e diffuso
plagio.
Verso l’anno 150 Pietro era morto da poco meno di un secolo, diversi decenni
erano ormai passati dagli inizi del cristianesimo, le prime generazioni cristiane se
ne erano andate e le promesse di Gesù e degli apostoli sulla prossima gloriosa
venuta del Figlio dell’uomo e Figlio di Dio non si erano realizzate. La 2Pietro
venne composta precisamente per rispondere a questo problema della mancata
parusía, il termine tecnico per la venuta definitiva di Gesù. Non mancavano infatti
coloro che ironizzavano sull’attesa dei cristiani, probabilmente ebrei o anche
cristiani delusi, come appare dalle parole attribuite loro: «Dov’è la sua venuta che
egli ha promesso? Dal giorno in cui i nostri padri chiusero gli occhi, tutto rimane
come al principio della creazione» (2Pietro 3,4). L’obiezione è potente: la
creazione, ben lungi dall’essere resa nuova dalla venuta definitiva di Gesù, rimane
esattamente com’era al principio, ap’arch?s.
Lo scritto neotestamentario risponde così: «Costoro volontariamente
dimenticano che i cieli esistevano già da lungo tempo e che la terra, uscita
dall’acqua e in mezzo all’acqua, ricevette la sua forma grazie alla parola di Dio, e
che per le stesse ragioni il mondo di allora, sommerso dall’acqua, andò in rovina.
Ora, i cieli e la terra attuali sono conservati dalla medesima Parola, riservati al
fuoco per il giorno del giudizio e della rovina dei malvagi. Una cosa però non
dovete perdere di vista, carissimi: davanti al Signore un solo giorno è come mille
anni e mille anni come un solo giorno. Il Signore non ritarda nel compiere la sua
promessa, anche se alcuni parlano di lentezza. Egli invece è magnanimo con voi,
perché non vuole che alcuno si perda, ma che tutti abbiano modo di pentirsi. Il
giorno del Signore verrà come un ladro; allora i cieli spariranno in un grande
boato, gli elementi, consumati dal calore, si dissolveranno e la terra, con tutte le
sue opere, sarà distrutta» (2Pietro 3,5-10, corsivo mio).
Tralascio qui il problema della mancata parusía e mi concentro sull’analisi
degli elementi cosmogonici ed escatologici. A questo riguardo nel testo si sostiene
che:
– i cieli esistevano molto prima della terra;
– la terra viene dall’acqua (anche qui considerata elemento primordiale);
– la terra riceve la forma da Dio, non viene cioè creata dal nulla ma formata o
modellata;
– Dio agisce mediante la parola;
– esisteva un mondo precedente al nostro che è stato distrutto dall’acqua;
– anche il nostro mondo sarà distrutto, ma mediante il fuoco.
Il versetto di 2Pietro 3,5 è tradotto dalla Bibbia Cei «la terra, uscita dall’acqua
e in mezzo all’acqua, ricevette la sua forma grazie alla parola di Dio». Il testo
originario è il seguente: g? ex údatos kai di’ údatos sunestôsa t? toû theoû lóg?;
letteralmente: «La terra dall’acqua e per mezzo dell’acqua avendo consistenza
alla parola di Dio». La traduzione migliore che io conosca è quella del gesuita
Ugo Vanni, docente di NT presso la Gregoriana: «La terra prese consistenza
dall’acqua e per mezzo dell’acqua in forza della parola di Dio».53 Il Grande
Lessico del Nuovo Testamento a proposito di 2Pietro 3,5 scrive: «La cosmologia
che sottostà al versetto considera l’acqua del tutto pacificamente come un mezzo
della creazione e un elemento originario; essa insegna che la terra è composta di
acqua».54
Il verbo suníst?mi (sun + íst?mi), letteralmente «mettere insieme», è usato
anche in Colossesi 1,17, dove, a proposito del ruolo cosmico di Cristo, si dice:
«Egli è prima di tutte le cose e tutte in lui sussistono» (sunést?ken). Ne viene che
sia in 2Pietro sia in Colossesi la creazione non appare come una miracolosa
produzione di enti laddove prima non c’era nulla, ma come un’opera di
organizzazione che, conferendo forma, fa sorgere gli enti laddove prima c’era
energia allo stato di caos, e che sempre li mantiene in essere perché, se venisse
meno tale in-formazione, gli enti ricadrebbero nel caos. Il NT sostiene quindi la
medesima posizione della Bibbia ebraica, ovvero l’originarietà di logos + caos, e
concepisce la creazione come creazione continua, come ordinamento del caos
tramite il lavoro incessante del logos.
Ma ora è tempo di scavare tra le pagine della Bibbia alla ricerca di quelle zone
oscure di cui solitamente non ci si occupa quando è in gioco il tema della
creazione del mondo e che sono l’attestazione del caos quale elemento originario,
e non invece, come sostiene erroneamente la dottrina cattolica ufficiale, quale
frutto del peccato.
VII. LA BIBBIA E LO STATO CAOTICO DEL
MONDO
41. Sulla materia primordiale
Che cos’è quella materia primordiale, informe, caotica, testimoniata dalla
Bibbia e da molte altre cosmogonie dell’antichità, modellando la quale Dio
configura il mondo attuale? Ci sono a mio avviso solo tre possibilità di risposta:
– è la prima opera della creazione divina, prodotta dal nulla;
– è un principio a sé stante rispetto a Dio e quindi eterno;
– è Dio stesso.
Accogliendo la prima prospettiva si abbraccia una visione del mondo che
filosoficamente si esprime come analogia entis (un solo principio quale fonte
dell’essere, che però non si rispecchia del tutto nel mondo) e che teologicamente
si esprime come teismo (Dio diverso dal mondo, ma origine del mondo). È la
prospettiva classica del cattolicesimo e in genere del cristianesimo. Anch’io vi
aderisco, ma a condizione di rivederla in prospettiva evolutiva risolvendo così le
sue difficoltà, in primo luogo il problema del male.
Accogliendo la seconda prospettiva si abbraccia una visione del mondo che
filosoficamente si esprime come dualismo, cioè non un principio solo, ma due
principi quali fonti dell’essere e guida del mondo, e che teologicamente si esprime
come politeismo (non un solo Dio, ma due Dei o una pluralità ancora maggiore).
Accogliendo la terza prospettiva, si abbraccia una visione del mondo che
filosoficamente si esprime come monismo, cioè un principio comune per ogni
forma di essere, e che teologicamente si esprime con un’opzione duplice e
opposta: o ritenendo che il mondo sia a sua volta divino in quanto partecipa
direttamente della divinità (panteismo), oppure che Dio non sia altro che il mondo
nel suo essere natura e che ciò che diciamo «Dio» sia solo un fenomeno psichico
prodotto
dalla
mente
umana
(materialismo
ateo).
Il cristianesimo non può accettare né il dualismo né il monismo, in nessuna
delle due varianti. Accettare il dualismo significa infatti far decadere il primo
fondamentale asserto in base a cui va pensato il divino secondo la tradizione
biblica, cioè il monoteismo, e significa inoltre, visto che la materia risulterebbe
non derivare da Dio, separare Dio dall’origine del mondo negandogli la
caratteristica di creatore. D’altro lato, accettare il monismo significa far decadere
un caposaldo teologico altrettanto irrinunciabile, cioè la trascendenza, la
distinzione Dio-mondo; o perché, nella versione del monismo panteistico, si
ritiene la natura come divina e il mondo come perfetto, o perché, nella versione
del monismo ateo materialistico, si annulla il senso stesso dell’esperienza
religiosa in quanto rimando alla superiore dimensione dello spirito. E
naturalmente in questa prospettiva viene meno non solo la qualifica di creatore
ma la stessa idea di Dio trascendente.
Al fine di evitare queste due impostazioni teoretiche, il cristianesimo è giunto a
parlare di «creazione dal nulla», cercando così di ricondurre la natura al progetto
e al dominio di Dio (contro il dualismo che la pone come originariamente a sé
stante, lacerando l’unità originaria), e al tempo stesso di salvaguardare la
trascendenza divina senza identificare la natura con Dio (contro il monismo).
L’intenzione che sottostà alla dottrina della creazione dal nulla è quindi
preziosa e va salvaguardata con cura. Essa però deve essere riformulata alla luce
del fatto che nella Bibbia una dottrina della creazione dal nulla in senso esplicito e
formale non è presente, né basta certo il solo testo di 2Maccabei 7,28 a poterla
sostenere a fronte di tutti gli altri testi biblici che presentano una prospettiva ben
diversa sull’origine dell’essere da Dio. Come più volte dichiarato, si esce da
questo problema solo in prospettiva evolutiva, considerando la creazione non
come opera divina già conclusa secondo il mito della perfezione iniziale, ma
come creazione continua, operazione sempre in atto, dinamica costantemente in
progress. Tale prospettiva consente non solo di conciliare il dato biblico con il
dato dogmatico, ma anche di impostare ben diversamente il secolare problema del
male, che nella dottrina tradizionale della creazione dal nulla non può trovare
risposta.
La dottrina cattolica ufficiale afferma:
– la provenienza del mondo da Dio in ogni suo aspetto (dottrina della
creazione dal nulla);
– il governo del mondo da parte di Dio (dottrina della provvidenza);
– la possibilità da parte di Dio di attuare a totale beneplacito tale governo del
mondo (dottrina sul Dio personale onnipotente).
Se tali dottrine corrispondessero al vero, si dovrebbe avere un mondo ben
diverso da quello che ci ospita, di cui è impossibile non constatare lo stato di
ingiustizia, le devastazioni, l’immane carico di dolore sotto cui gemono tutti i
viventi. La realtà quindi attesta che nella dottrina cattolica tradizionale c’è
qualcosa che non va. Se io giungo a metterla in discussione cessando di
professarla acriticamente, è proprio per tentare di assumere responsabilmente il
grido del dolore innocente, a mio avviso condizione imprescindibile perché la
fede in Dio possa continuare a sussistere nella coscienza in modo responsabile.
Per le visioni alternative del dualismo e del monismo la realtà del male e del
dolore innocente non costituisce un problema teoretico, o perché il male viene
ricondotto a una potenza maligna originaria sotto il cui dominio sta il mondo, o
perché esso semplicemente non esiste, è solo frutto dell’ignoranza e dell’egoismo
di chi considerando la vita non sa assumere il punto di vista dell’assoluto per il
quale tutto ciò che avviene è necessariamente bene. Per il cristiano invece, che
pensa il mondo come originariamente buono ma non divino e non perfetto, come
bene ma non come il bene, il problema del male si pone in tutta la sua intensità. Io
penso che ai nostri giorni tale problema imponga una revisione radicale della
teologia del rapporto Dio-mondo e a tal fine credo sia essenziale verificare se vi
sia traccia nella Bibbia di strade alternative che possano contribuire a formare una
più matura visione del mondo che possa richiamarsi alla Bibbia e insieme sia in
grado di sostenere la verità dell’esperienza vitale.
La mia convinzione è che la risposta sia sì: nella Bibbia vi sono non pochi testi
che rimandano a un’esperienza del mondo diversa rispetto a quella professata dal
cattolicesimo del Catechismo. Si tratta dei testi biblici che testimoniano lo stato
caotico del mondo, il suo essere abissale, oscuro, minaccioso, nemico, non solo
nel mezzo della vicenda cosmica ma già al suo inizio, facendo quindi del caos non
l’esito del peccato dell’uomo o dell’angelo, ma un elemento strutturale
dell’essere.
Il caos viene interpretato dalla Bibbia in due opposte direzioni: o
assegnandone la responsabilità a entità alquanto misteriose distinte da Dio, oppure
assegnandone la responsabilità a Dio stesso. Alla prima prospettiva appartengono
i testi che hanno come protagonisti soggetti abbastanza indecifrabili ma
classificabili a mio avviso secondo tre gruppi: Mostri, Signorie cosmiche, Potenze
sataniche (i primi soprattutto nelle Scritture ebraiche, le altre due soprattutto nel
NT). Alla seconda prospettiva appartengono i testi che riconducono il caos e
persino il male a Dio stesso, da me raggruppati nel capitolo intitolato «Il lato
oscuro del divino» (riecheggiando un po’ un album dei Pink Floyd di quand’ero
ragazzo, The Dark Side of the Moon, anno 1973).
In tutti questi casi si tratta di testi che interpretano la negatività e il male del
mondo non secondo quanto insegna la dottrina ufficiale, cioè come conseguenza
del peccato dell’uomo, ma in modo decisamente diverso:
– o come il risultato dell’azione di misteriose entità che contrastano la volontà
divina e contro le quali Dio stesso è costretto a combattere (linea tendenzialmente
dualista);
– o come frutto della stessa volontà divina (linea tendenzialmente monista).
Al di là della dimensione mitica di cui sono avvolti, tali testi segnalano la
consapevolezza che il negativo del mondo è qualcosa che ha a che fare con la
struttura stessa dell’essere creato, non è un incidente imprevisto, arrivato dopo, a
causa del peccato dell’uomo. Penso che la loro analisi risulterà essenziale per
giungere a intravedere la logica ben poco lineare che, secondo la Bibbia, ha creato
e crea continuamente il mondo.
42. I Mostri
Ho già ricordato l’osservazione del biblista tedesco Claus Westermann
secondo cui la Bibbia presenta quattro diverse tipologie di racconti di creazione,
la terza delle quali connota la creazione come lotta. Ma contro chi lotta Dio per
creare il mondo, se prima della creazione non esisteva assolutamente nulla? Gli
autori della Bibbia evidentemente non si ponevano questa domanda, perché
intendevano la creazione non ex nihilo, ma a partire da qualcosa di già esistente.
Per questo nella Bibbia vi sono testi che presentano la creazione come una lotta di
Dio contro esseri avversi e che è possibile definire agonistici. Così si legge alla
voce «Creazione» del Dizionario di Teologia Biblica a cura del gesuita francese
Xavier Léon-Dufour: «Il creatore diventa l’eroe di un combattimento gigantesco
contro le bestie che personificano il caos, Rahab o Leviathan [...] la creazione fu
per Dio la prima vittoria».1 Da molte pagine bibliche l’evento della creazione
emerge come vittoria cruenta contro le forze oscure e minacciose del caos. Uno
dei passi più celebri al riguardo è Isaia 51,9-10:
Svégliati, svégliati, rivèstiti di forza,
o braccio del Signore.
Svégliati come nei giorni antichi,
come tra le generazioni passate.
Non sei forse tu che hai fatto a pezzi Rahab,2
che hai trafitto il Drago?
Non sei forse tu che hai prosciugato il mare,
le acque del grande abisso?
Il profeta vuole sollecitare l’intervento di Dio a favore dei giusti e dopo avergli
detto «svégliati, svégliati» proprio come fanno i genitori al mattino con i figli, si
richiama ai passati interventi divini, a quando Dio aveva fatto a pezzi Rahab,
aveva trafitto il Drago (tannin), prosciugato l’abisso (tehom). Nella Bibbia Cei si
legge in nota a questo testo: «Raab, il drago e il grande abisso: figure mitologiche
del Vicino Oriente antico. Rappresentano le potenze del caos, che minacciano il
mondo e che Dio ha sconfitto al momento della creazione».3 Esatto, gli esperti
della Conferenza episcopale, a parte l’errore della traslitterazione, hanno visto
giusto: secondo questa pagina biblica il momento della creazione coincide con la
sconfitta del caos e con il suo ordinamento. Anche la Bibbia di Gerusalemme
specifica in nota a questo passo di Isaia che qui si ha una vittoria divina «contro le
potenze del caos primordiale». La cosa si specifica particolarmente nel versetto
10, dove il profeta nomina «il grande abisso», in ebraico tehom, il medesimo
termine che ricorre in Genesi 1,2 a indicare lo stato iniziale prima della creazione
avvenuta con il fiat lux di Genesi 1,3. L’atto della creazione divina viene quindi
raffigurato da Isaia come un combattimento vittorioso contro Rahab il mostro,
contro Tannin il drago, e come un prosciugamento delle acque di Tehom l’abisso
primordiale.
Rahab è anche il nome della prostituta di Gerico che tradisce la sua città
favorendo le spie degli ebrei (cfr. Giosuè 2) e che ricorre nella genealogia di Gesù
in quanto madre del nonno del re Davide (cfr. Matteo 1,5); il nome Rahab è
inoltre usato due volte come simbolo dell’Egitto, la prima in Isaia in senso
abbastanza ingiurioso (Isaia 30,7: «Vano e inutile è l’aiuto dell’Egitto, per questo
lo chiamo Rahab l’ozioso»), la seconda nel Salmo 87 in senso più neutro
(«Iscriverò Rahab e Babilonia fra quelli che mi riconoscono; ecco Filistea, Tiro ed
Etiopia: là costui è nato»). Ma è soprattutto come simbolo del mostro del caos che
Rahab ritorna in scena in altri testi biblici, che qui cito dalla versione Cei
correggendone la grafia:
– Giobbe 9,13: «Dio non ritira la sua collera, sotto di lui sono fiaccati i
sostenitori di Rahab»;
– Giobbe 26,12: «Con forza agita il mare e con astuzia abbatte Rahab»;
– Salmo 89,11: «Tu hai ferito e calpestato Rahab».
Oltre a Rahab, la Bibbia conosce altri simboli del caos originario, il più noto
dei quali è il grande serpente Leviatàn, reso celebre nella storia della filosofia da
Thomas Hobbes che lo scelse come titolo del suo trattato sullo Stato: Leviathan,
or The Matter, Forme and Power of a Commonwealth Ecclesiasticall and Civil
(Leviatàn, o la materia, la forma e il potere di uno Stato ecclesiastico e civile),
pubblicato a Londra nel 1651 con un frontespizio su cui svettava un versetto di
Giobbe in traduzione latina che riguarda proprio Leviatàn: Non est super terram
potestas, quae comparetur ei (Non c’è potere sulla terra che possa paragonarsi a
lui, Giobbe 41,24 secondo la Volgata; 41,25 nelle Bibbie moderne; la Bibbia Cei
traduce: «Nessuno sulla terra è pari a lui, creato per non avere paura»). Ecco i
passi biblici in cui compare Leviatàn:
– Salmo 74,13-14: «Tu con potenza hai diviso il mare, hai spezzato la testa dei
draghi sulle acque. Tu hai frantumato le teste di Leviatàn, lo hai dato in pasto a un
branco di belve» (Dio lotta violentemente contro Leviatàn);
– Isaia 27,1: «In quel giorno il Signore punirà con la spada dura, grande e
forte, il Leviatàn, serpente guizzante, il Leviatàn, serpente tortuoso, e ucciderà il
drago che sta nel mare» (la fine del mondo prevede una lotta contro Leviatàn e
l’uccisione di un drago marino da identificarsi con Rahab);
– Giobbe 3,8: «... quelli che imprecano il giorno, che sono pronti a evocare
Leviatàn» (Leviatàn è oggetto di culto da parte dei malvagi);
– Salmo 104,26: «Lo solcano le navi, e il Leviatàn che tu hai plasmato per
giocare con lui» (Leviatàn è un compagno di gioco di Dio); brano da accostare al
Salmo 148,7: «Lodate il Signore dalla terra, mostri marini e voi tutti abissi» (i
mostri marini, tannin, e gli abissi, tehomim, sono capaci di lode al Signore);
– Giobbe 40,25-41,26: è il brano più lungo e più celebre che presenta una
descrizione particolareggiata di Leviatàn in cui, oltre alla frase prescelta da
Hobbes, spiccano affermazioni come le seguenti: «Dalla sua bocca erompono
vampate, sprizzano scintille di fuoco; dalle sue narici esce fumo come da caldaia
infuocata e bollente, il suo fiato incendia i carboni e dalla bocca escono fiamme»
(41,11-13); il suo aspetto viene detto come talmente terrorizzante che «quando si
alza si spaventano gli Dei» (41,17) e la sua massa talmente possente che quando
si muove «fa ribollire come pentola il fondo marino» (41,23); complessivamente
Leviatàn appare qui come uno strumento creato da Dio per mostrare la sua
supremazia su ogni altro vivente.
A Rahab e Leviatàn va accostato un altro essere mostruoso di nome Behemot
(cfr. Giobbe 40,15-24) e altri ancora, tra cui il «drago alato» (Isaia 14,29), i
«serpenti brucianti» (Numeri 21,6; tradotti in Isaia 30,6 con «draghi volanti»,
l’originale ebraico è sempre saraf), i «satiri» (Isaia 13,21 e 34,14). Vi è poi un
animale che in ebraico è re’em e che nel latino della Volgata venne tradotto con
unicornis, da cui il mitico unicorno o liocorno (cfr. Isaia 34,7; Salmo 22,22, Volg.
21,22; Salmo 29,6, Volg. 28,6; Salmo 92,10, Volg. 91,11), e che la Cei traduce ora
con «bufalo» ora con «bisonte». Ha radici bibliche anche un altro essere
fantastico dell’immaginario occidentale, il basilisco, in quanto il Salmo 91,13, che
nella versione Cei è «calpesterai leoni e vipere, schiaccerai leoncelli e draghi»,
venne tradotto dalla Volgata con: Super aspidem et basiliscum ambulabis, et
conculcabis leonem et draconem (camminerai sopra l’aspide e il basilisco, e
schiaccerai il leone e il drago).
Vi sono infine i testi che parlano dei giganti, altre misteriose entità che
rimandano simbolicamente al caos:
– Genesi 6,4: «A quel tempo sulla terra c’erano i giganti»;
– Numeri 13,33 (racconto degli esploratori della terra di Canaan): «Vi abbiamo
visto i giganti, discendenti di Anak, della razza dei giganti, di fronte ai quali ci
sembrava di essere come locuste, e così dovevamo sembrare loro» – una
prospettiva che verrà ripresa da Jonathan Swift nel celebre romanzo del 1726 I
viaggi di Gulliver;
– Giuditta 16,6: «titani e alti giganti»;
– Sapienza 14,6: «superbi giganti»;
– Siracide 16,7: «antichi giganti che si erano ribellati per la loro forza»;
– Baruc 3,6: «i famosi giganti dei tempi antichi, alti di statura, esperti nella
guerra».
In tutti questi casi (Rahab, Leviatàn, Behemot, draghi alati, serpenti brucianti,
satiri, unicorno o liocorno, basilisco, giganti) si tratta di esseri mitici che
simboleggiano l’oscurità e la contraddittorietà irrazionale della natura, e quindi
della vita. A volte vengono descritti come feroci oppositori di Dio mai domati fino
in fondo, tanto che si dovrà aspettare l’ultimo giorno per vederli definitivamente
soggiogati; altre volte sono al contrario docili giocattoli divini, pronti persino alla
lode e comunque sempre disposti all’obbedienza, come appare anche da un passo
del profeta Amos in cui si presenta la divinità che dice dei suoi nemici che
tentassero di fuggire: «Se si occultassero al mio sguardo in fondo al mare, là
comanderò al serpente di morderli» (Amos 9,3), parole da cui si evince che, per
quanto di natura mostruosa e simbolo del caos, il serpente marino Leviatàn
riconosce l’autorità divina e Dio può comandargli sapendo che verrà ubbidito.
L’accezione prevalente tuttavia è quella negativa, al punto che Giobbe sfogandosi
con Dio paragona se stesso proprio a un mostro marino per sottolineare il livello
dell’inimicizia divina contro di lui: «Sono io forse il mare oppure un mostro
marino, perché tu metta sopra di me una guardia?» (Giobbe 7,12).
Non è certamente un caso che proprio nel libro di Giobbe, che più di ogni altro
si occupa del dolore degli innocenti e delle ingiustizie della vita, i Mostri siano
particolarmente presenti, a suggerire una visione della natura ampiamente
drammatica e però, proprio per questo, in grado di ospitare la contraddizione e il
caos che innervano e talora devastano la vita. Nel finale di Giobbe infatti, in cui
compaiono ampiamente Behemot e Leviatàn, è in gioco la risposta di Dio alle
sofferenze di un uomo giusto, risposta data da Dio evocando Behemot e Leviatàn
con un discorso «in mezzo all’uragano».
Alcuni interpreti, tra cui i compilatori delle note della Bibbia Cei, affermano
che Behemot e Leviatàn sono semplicemente nomi esotici per l’ippopotamo e il
coccodrillo, e in effetti alcuni riferimenti testuali sono tali da poter avallare tale
tesi, ma certamente l’autore del libro di Giobbe aveva in mente ben altro che una
relazione di zoologia. Mediante la menzione «in mezzo all’uragano» di questi due
animali per lui così inquietanti, egli intendeva evidenziare la mostruosità
contenuta nella natura, il suo aspetto ambiguo e proteiforme, il suo fascino
pericoloso, la sua forza irresistibile. Seguendo questa linea interpretativa, il
biblista spagnolo Luis Alonso Schökel afferma che i due animali mostruosi
«rappresentano poteri sovrumani, ostili all’uomo e al cosmo», mentre per
Gianfranco Ravasi si tratta di «due mostri mitologici, simboli delle forze del caos
e del nulla», che portano a considerare che «Dio abbraccia nella sua attività anche
il mistero del male cosmico» (Ravasi aggiunge inoltre che Behemot «rappresenta
simbolicamente il caos ordinato da Dio nella creazione»).4
Del resto solo in questa prospettiva simbolica ha senso il rimando a Behemot e
a Leviatàn in quanto risposta di Dio al grido di dolore e di protesta di Giobbe.
Behemot e Leviatàn si propongono sensatamente al dolore innocente di Giobbe, e
di tutti gli esseri viventi in lui personificati, solo nella misura in cui sono simboli
che rimandano alla caoticità dell’essere, non pienamente controllata neppure da
Dio (o perché a lui esterna, o perché a lui interna). Non a caso Dio, dopo la
risposta a Giobbe, punisce i cosiddetti amici Elifaz, Bildad, Zofar, figure dei
teologi di corte ed espressione dell’ideologia dominante, mostrando di non
apprezzare per nulla la loro teologia razionalistica secondo cui ogni aspetto della
natura è controllato perfettamente da Dio, ragion per cui, se Giobbe soffre, è
perché viene punito a causa di un peccato precedente. Evocando Behemot e
Leviatàn, la voce divina sostiene al contrario una visione dialettica della natura,
che non la riduce alle risposte semplicistiche del prontuario catechistico dei
teologi di corte abituati a ragionare in base al nesso sofferenza-colpa, ma ne sa
custodire l’ambiguità. Behemot e Leviatàn esprimono la dimensione magmatica
dell’energia naturale, la quale produce sì ordine, ma solo come ininterrotta vittoria
sul caos, ininterrotta perché fragile e mai definitiva, così che deve essere in ogni
istante riaffermata e persino rinegoziata, perché talora sono le forze caotiche ad
avere la meglio.
43. I Mostri e l’origine del caos
Leviatàn, Rahab, Behemot e gli altri mostri presenti nella Bibbia quali simboli
del caos sono al contempo da considerarsi creature di Dio: non esistono da
sempre, non sono divini a loro volta. Ne viene che nella loro carica simbolica essi
rivelano non solo la caoticità della natura del mondo, ma anche, in quanto
creature di Dio, l’imperfezione della creazione divina.
Mi spiego meglio. Leviatàn in quanto tale non esiste, è ovvio; esiste però la
mostruosità della natura, la sua terribile aggressività unita alla sua gelida
indifferenza, la sua capacità di suscitare terrore, panico, morte. Leviatàn non
esiste, ma il caos sì, ed esiste non come conseguenza della perturbazione
dell’ordine del mondo da parte del peccato dell’uomo, ma molto prima di esso
come stato primordiale da cui il mondo continuamente si origina. Prendendo atto
di questa esistenza primordiale del caos, a mio avviso ci sono solo tre possibilità
per pensarne adeguatamente l’origine:
– il caos esiste come un principio esterno alla Realtà primaria detta Dio
(dualismo);
– il caos esiste come componente originaria della Realtà primaria o natura
divina (monismo);
– il caos esiste come condizione strutturale dell’essere creato perché possa
nascere la libertà (prospettiva evolutiva).
Non ha senso invece dire, come avviene nella dottrina ufficiale, che il caos è
frutto della corruzione introdotta dal peccato dell’uomo e prima ancora
dell’angelo, come se Dio prima avesse creato il mondo e poi fosse sorto il caos,
non voluto da lui ma causato dagli angeli ribelli e dall’uomo, e Dio non potesse
fare più nulla per rimettere le cose a posto ed evitare il mare di sofferenza
innocente. Rahab, Leviatàn e Behemot non sono stati angeli ribelli prima di essere
animali mostruosi, né lo è stato l’abisso primordiale tehom di Genesi 1,2 prima di
essere tale.
Nei loro commentari al libro di Giobbe, Luis Alonso Schökel e Gianfranco
Ravasi colgono bene il rimando al caos che i mostri rappresentano, ma, com’è
logico per lavori esegetici e non di taglio speculativo, non si occupano del
problema dell’origine del caos, se intra o extra divina, cioè se la sua origine sia
interna a Dio o se provenga da fuori. Neppure però se ne occupano molti testi di
teologia biblica o sistematica. Tra le decine di dizionari biblici e teologici
consultati ho trovato una sola opera che dedica al caos una voce apposita, il
Lexicon für Theologie und Kirche, imponente espressione in undici volumi della
teologia cattolica tedesca. Qui si presenta il caos dal punto di vista biblico,
filosofico e scientifico, anche se nello spazio ridotto di una pagina. Nella parte
biblica l’autore della voce, Erich Zenger, giunge a dire che Dio viene presentato
nelle Scritture ebraiche «persino come creatore del caos» (sogar als Schöpfer des
Chaos) e rimanda a Isaia 45,7 («Io formo la luce e creo le tenebre, produco la
pace e creo il male; io, il Signore, compio tutto questo»), anche se poi si premura
di aggiungere, senza che sia chiaro il perché, che «queste affermazioni non
possono venire sistematizzate dal punto di vista della teologia della creazione».
La voce si conclude, a mio avviso un po’ troppo ermeticamente, così: «Le
immagini bibliche del caos devono essere interpretate come esplicazione
multiprospettica di una dinamica signoria divina storica e cosmica, liberamente
vissuta in modo ambivalente, che “alla fine” diventerà manifesta».5 In che senso
la signoria divina sul mondo è vissuta liberamente in modo ambivalente? Forse
Dio potrebbe mettere fine all’ambivalenza della natura che tanto dolore arreca ai
viventi, e non lo fa? Se fosse così, avrebbero ragione tutti coloro che, seguendo
Ivan Karamazov, vogliono «restituire il biglietto».
Lo spartiacque decisivo nel concepire l’origine del caos primordiale
simboleggiata dalla mostruosità di Rahab, Leviatàn e Behemot e dalle altre entità
tra cui il tohu wabohu e il tehom evocati in Genesi 1,2, sta nella scelta di
collocare tale origine o dentro o fuori Dio, o dentro o fuori la Realtà primaria.
Tra gli autori contemporanei che scelgono la prospettiva monista collocando il
caos all’interno della natura divina vi sono Luigi Pareyson e Mario Trevi, e dato
che del primo parlerò in seguito, qui mi concentro sul secondo. Autorevole
psicanalista junghiano, Trevi in un suo saggio sul libro di Giobbe parla di
Behemot e Leviatàn come di «ardite metafore della potenza di Dio e forse della
stessa distruttività implicita in Lui», afferma che Leviatàn è come «una metafora
della distruttività implicita in Dio» e prosegue: «In quanto autore e reggitore del
cosmo, un margine inconsumabile di distruttività è necessariamente racchiuso in
Jahweh [...]. E l’Antico Testamento è anche il libro del Dio del diluvio, del fuoco
consumatore delle città degli uomini irrispettosi della Legge, dell’ira divina che
colpisce indiscriminatamente il giusto e l’ingiusto», per poi affermare che
«Jahweh chiede di essere riconosciuto anche in Leviatàn». La conclusione di
Trevi non ammette dubbi: «Dio deve avocare a sé una parte del male del mondo
finché rimane fedele all’immagine del Creatore».6 Se Dio è creatore e
governatore del mondo, non può non essere responsabile del male che nel mondo
avviene in così grande quantità, il che significa che per una parte del suo essere
egli vuole la negazione e il caos. Trevi in questo modo si colloca in una
prospettiva inaccettabile per il cristianesimo, per il quale l’essenza di Dio rivelata
in Gesù è interamente e solo amore.
Tra gli autori contemporanei che scelgono la prospettiva dualista collocando il
caos all’esterno della natura divina vi è il gesuita tedesco Medard Kehl.
Ponendosi la domanda «che cos’è questo caos? è anch’esso creato da Dio?», Kehl
risponde con un chiaro no, perché «l’azione creatrice di Dio, che accade
espressamente ed esclusivamente con la parola, inizia con la creazione della
luce».7 Il gesuita di Francoforte esclude quindi la riconduzione diretta del caos
non solo alla natura divina ma anche alla volontà creatrice e alla sua azione, per
lui Dio non crea il caos. Siccome però, per quanto non creato da Dio, il caos in
natura c’è ed è qualcosa contro cui Dio deve lottare per mettere in atto la sua
volontà creatrice, non rimane per Kehl, dovendo escludere un dualismo
ontologico originario, che ricondurre l’origine del caos alla creatura stessa
ricorrendo al dogma del peccato originale. Ma tale prospettiva tradizionale, oltre a
incorrere in tutte le numerose aporie legate al dogma del peccato originale su cui
mi sono più volte soffermato in altri scritti, dimentica che nella Bibbia il caos è
descritto anche come qualcosa di cui Dio è alleato, con cui può giocare e ricevere
lode e obbedienza, e che anzi proviene proprio da lui. Il caos è prima del peccato,
è ciò che lo rende possibile; ne è la radice, non il frutto.
Dal canto mio escludo che il caos possa essere collocato:
– dentro Dio, come sostiene la linea monistica esemplificata da Trevi;
– fuori di Dio in quanto originariamente indipendente, come vuole il dualismo
metafisico;
– fuori di Dio in quanto conseguenza dell’azione peccaminosa della creatura,
come professa il dogma del peccato originale.
Ritengo piuttosto che il caos vada ricondotto alla strutturale imperfezione
dell’essere creato, che esce dalle mani di Dio non come perfettamente compiuto
ma come strutturalmente impastato di logos e di caos, di ordine e di possibilità di
infrangere l’ordine, conditio sine qua non per la nascita della libertà e dello spirito
capace di amore.
44. Le Signorie cosmiche
Ricognizione terminologica
La funzione svolta dai Mostri nelle Scritture ebraiche si ritrova nel NT presso
altre misteriose entità variamente nominate e che sinteticamente si possono
definire «Signorie cosmiche». L’ambiguità che le circonda è la medesima: come
infatti i Mostri a volte sono contrapposti alla volontà divina e a volte vi
collaborano, così le Signorie cosmiche a volte sono presentate come negative
potenze demoniache e a volte rientrano nel piano divino con una precisa funzione
e vengono descritte come parte della struttura originaria del cosmo voluto da Dio.
È in quest’ultima prospettiva che vi si riferiva Dietrich Bonhoeffer nella poesia
Da potenze benigne (Von guten Mächten), composta nella prigione sotterranea
della Gestapo di Prinz Albrecht Strasse a Berlino e allegata alla lettera alla
fidanzata del 19 dicembre 1944, e che inizia così: «Circondato fedelmente e
tacitamente da potenze benigne, meravigliosamente protetto e consolato».8
L’ambiguità di tali Signorie cosmiche si presenta anzitutto nella variegata e
sfuggente terminologia con cui vengono nominate nel NT, soprattutto da san
Paolo. Qui di seguito elenco i quindici termini che le designano, disposti in ordine
alfabetico a partire dall’originale greco, con la traduzione latina e italiana al
fianco.
– Ángheloi Angeli Angeli – Archaí Principatus Principati – Archóntes
Principes huius saeculi Prìncipi o Arconti – Báthos Profundum Abisso –
Dunámeis Virtutes Forze – Exousíai Potestates Potenze – Húpsoma Altitudo
Altezza – Kosmokrátores Rectores mundi Dominatori di questo mondo – Kúrioi
Domini Signori – Kuriót?tes Dominationes Dominazioni – Pneûma toû kósmou
Spiritus huius mundi Spirito del mondo – Stoicheîa toû kósmou Elementa mundi
Elementi del mondo – Thánatos Mors Morte – Theoí Dii Dei – Thrónoi Throni
Troni Presento ora in ordine canonico i testi neotestamentari in cui tali entità
ricorrono, dapprima quelli a connotazione neutra meramente descrittiva, poi quelli
a connotazione negativa.
Testi a connotazione neutra
Vangeli
– Matteo 24,29: «Subito dopo la tribolazione di quei giorni, il sole si oscurerà,
la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo e le Forze dei cieli
[dunámeis tôn ouranôn] saranno sconvolte».
– Marco 13,25: «Le stelle cadranno dal cielo e le Forze che sono nei cieli
[dunámeis ai en toîs ouranoîs] saranno sconvolte».
– Luca 21,26: «... mentre gli uomini moriranno per la paura e per l’attesa di ciò
che dovrà accadere sulla terra, le Forze dei cieli [dunámeis tôn ouranôn] saranno
sconvolte».
Tre sintetiche annotazioni: 1) traduco dunámeis con Forze, e non con Potenze
come la Bibbia Cei, perché Potenze è la traduzione del termine exousíai; 2) il
fatto che il medesimo detto di Gesù ricorra in tutti e tre i Sinottici nella stessa
forma evidenzia l’alta probabilità di ricondurlo direttamente al Gesù storico, a
Yeshua; 3) l’espressione en toîs ouranoîs che si ritrova nel Vangelo di Marco
quale luogo in cui risiedono le Forze è la medesima applicata a Dio Padre nel
Padre nostro secondo la versione di Matteo: «Padre nostro che sei nei cieli» (páter
?môn ho en toîs ouranoîs).
Lettere di Paolo
– 1Corinzi 8,5-6: «... anche se vi sono cosiddetti Dei [theoí] sia nel cielo sia
sulla terra – e difatti ci sono molti Dei [theoí] e molti Signori [kúrioi], per noi c’è
un solo Dio, il Padre».
– Efesini 1,20-21: «... lo fece sedere alla sua destra nei cieli, al di sopra di ogni
Principato [archês] e Potenza [exousías], al di sopra di ogni Forza [dunáme?s] e
Dominazione [kuriót?tos]».
– Efesini 3,9-10: «... l’attuazione del mistero nascosto da secoli in Dio,
creatore di tutte le cose, affinché, per mezzo della Chiesa, sia ora manifestata ai
Principati [archaîs] e alle Potenze dei cieli [exousíais en toîs epouraníois] la
multiforme sapienza di Dio».
– Colossesi 1,16-17: «In lui furono create tutte le cose nei cieli e sulla terra,
quelle visibili e quelle invisibili, sia Troni [thrónoi], sia Dominazioni [kuriót?tes],
sia Principati [archaí], sia Potenze [exousíai]: tutte le cose sono state create per
mezzo di lui e in vista di lui. Egli è prima di tutte le cose e tutte in lui sussistono».
– Colossesi 2,10: «Voi partecipate alla pienezza di lui, che è il capo di ogni
Principato [archês] e di ogni Potenza [exousías]».
Lettere di Pietro
– 2Pietro 3,10 e 12: «Allora i cieli spariranno in un grande boato, gli elementi
[stoicheîa], consumati dal calore, si dissolveranno, e la terra, con tutte le sue
opere, sarà distrutta».
– 2Pietro 3,12: «I cieli in fiamme si dissolveranno e gli elementi [stoicheîa]
incendiati fonderanno».
Qui l’espressione «elementi del mondo» è analoga a Sapienza 7,17: «Egli
stesso mi ha concesso la conoscenza autentica delle cose, per comprendere la
struttura del mondo e l’energia degli elementi» [enérgheian stoicheîon]. Al
contrario della Bibbia Cei traduco enérgheia con «energia» e non con «forza», che
in greco è dúnamis.
Testi a connotazione negativa
Lettere di Paolo
– Romani 8,38-39: «Io sono persuaso che né morte né vita, né Angeli
[ángheloi] né Principati [archaí], né presente né avvenire, né Forze [dunámeis] né
Altezza [húpsoma] né Abisso [báthos], né alcun’altra creatura potrà mai separarci
dall’amore di Dio che è in Cristo Gesù». Diversamente dalla Bibbia Cei traduco
dunámeis non Potenze ma Forze. Húpsoma è un termine astronomico e
astrologico che indica l’apogeo dei pianeti, cioè il punto più alto da loro raggiunto
rispetto alla terra, da dove si riteneva ottenessero il potere di influenzare il destino
dei viventi;9 quindi esso va inteso non come una generica dimensione spaziale ma
come una misteriosa entità cosmica e va scritto al maiuscolo. Lo stesso dicasi per
il correlato báthos, da tradurre, più che con Profondità, con Abisso, perché si tratta
di un riferimento al tehom di Genesi 1,2. I due termini húpsoma e báthos indicano
non solo il punto più alto e il punto più basso del mondo, ma anche forze
misteriose che avvolgono la vita degli uomini.
– 1Corinzi 2,6: «... una sapienza che non è di questo mondo, né dei Dominatori
di questo mondo [archónton toû aiônos toútou], che vengono ridotti al nulla».
– 1Corinzi 2,8: «Nessuno dei Dominatori di questo mondo [archónton toû
aiônos toútou] l’ha conosciuta».
– 1Corinzi 2,12: «Noi non abbiamo ricevuto lo Spirito del mondo [pneûma toû
kósmou], ma lo Spirito di Dio [pneûma tò ek toû theoû]». A differenza della
Bibbia Cei, pongo entrambi i termini, Spirito del mondo e Spirito di Dio, al
maiuscolo.
– 1Corinzi 15,24-26: «Poi sarà la fine, quando egli consegnerà il regno a Dio
Padre, dopo aver ridotto al nulla ogni Principato [archén] e ogni Potenza
[exousían] e Forza [dúnamin]. È necessario infatti che egli regni finché non abbia
posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. L’ultimo nemico a essere annientato sarà la
Morte [thánatos]». Sul motivo per cui morte è in maiuscolo si veda più avanti
Apocalisse 20.
– Galati 4,3: «Anche noi, quando eravamo fanciulli, eravamo schiavi degli
elementi del mondo [stoicheîa toû kósmou]».
– Galati 4,9: «... come potete rivolgervi di nuovo a quei deboli e miserabili
elementi [stoicheîa]?».
– Efesini 6,12: «La nostra battaglia non è contro la carne e il sangue, ma
contro i Principati [archás], contro le Potenze [exousías], contro i Dominatori di
questo mondo tenebroso [kosmokrátoras], contro gli Spiriti del male che abitano
nelle regioni celesti [tà pneumatikà tês ponerías en toîs epouraníois]».
– Colossesi 1,13: Cristo «ci ha liberati dalla Potenza della tenebra [exousían
toû skótous]».
– Colossesi 2,8: «Fate attenzione che nessuno faccia di voi sua preda con la
filosofia e con vuoti raggiri ispirati alla tradizione umana, secondo gli elementi
del mondo [stoicheîa toû kósmou] e non secondo Cristo».
– Colossesi 2,15: «Avendo privato della loro forza i Principati [archás] e le
Potenze [exousías], ne ha fatto pubblico spettacolo, trionfando su di loro in lui». Il
soggetto è Dio che trionfa in Cristo.
– Colossesi 2,20: «Siete morti con Cristo agli elementi del mondo [stoicheîa
toû kósmou]».
Lettere di Pietro
– 1Pietro 3,22: «Egli è alla destra di Dio, dopo essere salito al cielo e aver
ottenuto la sovranità sugli Angeli [anghél?n], le Potenze [exousiôn] e le Forze
[dunáme?n]». Per coerenza con la terminologia complessiva traduco diversamente
dalla Bibbia Cei, che rende exousiôn con Principati (che invece sono archaí) e
dunáme?n con Potenze (che invece sono exousíai).
Apocalisse
– Apocalisse 20,13-14: «La Morte e l’Ade [ho thánatos kai ho ádes] resero i
morti da loro custoditi [...] Poi la Morte e l’Ade furono gettati nello stagno di
fuoco». È evidente qui la personalizzazione della morte quale nemico di Dio, e fa
bene la Bibbia Cei a usare il maiuscolo, come a mio avviso va fatto anche per
1Corinzi 15,26.
Bilancio
Dal primo gruppo di testi le Signorie cosmiche sono ricondotte
ontologicamente a Dio, in quanto appaiono come create da lui e in lui sussistenti:
senza il volere divino esse non sarebbero venute al mondo né potrebbero
rimanervi, come si legge in Colossesi 1,16-17: «In lui furono create tutte le cose
nei cieli e sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili, sia Troni, sia Dominazioni,
sia Principati, sia Potenze: tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in
vista di lui. Egli è prima di tutte le cose e tutte in lui sussistono». Secondo questo
testo si può dire, con terminologia scolastica, che le Signorie cosmiche hanno in
Dio la creatio prima e la creatio secunda, in una dipendenza ontologica che
concerne ogni istante della loro esistenza. Ne viene che la supremazia divina nei
loro confronti dichiarata dai testi neotestamentari del secondo gruppo non è da
intendere come assoggettamento di entità originariamente estranee costrette ad
arrendersi a un potere più forte; se fosse così, si avrebbe un dualismo ontologico e
non si spiegherebbero i testi del primo gruppo. La supremazia divina va intesa
piuttosto a livello ontologico, come ciò che sottostà a tutte le realtà e le rende
possibili, il che vale anche per le Signorie cosmiche, per le quali quindi Dio è la
sorgente che le alimenta senza interruzione. Dicendo che tutte le cose, Signorie
cosmiche comprese, sono create e vengono continuamente mantenute in vita dalla
potenza divina, Paolo presenta un pensiero del tutto coerente con l’idea dell’unità
dell’essere, logica conseguenza della convinzione che Dio è «il creatore di tutte le
cose» (Efesini 3,9).
Da ciò derivano nel suo pensiero due stringenti conseguenze:
– l’idea che il mondo rispecchia a tal punto l’origine divina da rendere
possibile a chi l’osserva attentamente di risalire a Dio conoscendone l’esistenza;
– l’idea che il mondo è, in ogni suo singolo ente, ontologicamente buono.
La prima conseguenza riguarda la mente e la sua capacità di conoscere Dio, ed
è esplicitata da Paolo in Romani 1,19-20, dove, in riferimento ai pagani, dice che
«ciò che di Dio si può conoscere è loro manifesto», il che significa che ogni uomo
a partire dal mondo può giungere alla conoscenza dell’esistenza di Dio.
L’apostolo motiva così la sua affermazione: «Infatti le sue perfezioni invisibili,
ossia la sua eterna potenza e divinità, vengono contemplate e comprese dalla
creazione del mondo attraverso le opere da lui compiute». Paolo dice che il
mondo riflette a tal punto Dio che è sufficiente guardarlo con attenzione
(contemplarlo) per giungere alla conoscenza dell’esistenza di Dio, la quale quindi
deve essere accettata anche dai pagani. Tale affermazione di Romani 1,19-20 è
diventata lungo i secoli il punto di appoggio della tradizione metafisica del
cattolicesimo impostata sulla prospettiva dell’analogia entis (l’essere del mondo e
l’essere di Dio sono analoghi, il secondo conduce al primo in quanto proviene da
esso), il cui vertice teologico-filosofico è dato dalle celebri «cinque vie» con cui
Tommaso d’Aquino intende condurre la mente a riconoscere l’esistenza di Dio
(Quod Deum esse quinque viis probari potest – «che Dio esista si può provare per
cinque vie»10), e il cui vertice magisteriale è dato dall’affermazione dogmatica
del concilio Vaticano I secondo cui «Se qualcuno dice che il Dio unico e vero,
nostro Creatore e Signore, non può essere conosciuto con certezza, grazie al lume
dell’umana ragione, attraverso le cose create, sia anatema» (DH 3026). (A mio
avviso il limite di tale dottrina è di voler dimostrare, e di volerlo fare al fine di
affermare il potere e il controllo; senza dimostrazione, infatti, si rimane al livello
dell’invito che mostra e la libertà rimane viva, non avvinta, e quindi costituisce la
dimensione ultima in base a cui vivere la vita, compresa la vita di fede.)
La seconda conseguenza della dottrina che fa di Dio il creatore del mondo
consiste nel ritenere che ogni ente del mondo, derivando direttamente da Dio, è
ontologicamente buono: l’essere, in ogni singolo ente, è sempre e solo bene. Si
tratta di un’affermazione dai risvolti molto concreti, come appare da queste parole
di Paolo agli abitanti di Corinto: «Tutto ciò che è in vendita sul mercato
mangiatelo pure, senza indagare per motivo di coscienza, perché del Signore è la
terra e tutto ciò che essa contiene» (1Corinzi 10,25-26, con citazione del Salmo
24,1). Vi sono affermazioni simili in altre lettere: «Nulla è impuro in se stesso»
(Romani 14,14); «Ogni creazione di Dio è buona e nulla va rifiutato» (1Timoteo
4,4); «Tutto è puro per chi è puro» (Tito 1,15; il famoso omnia munda mundis che
Manzoni nei Promessi sposi fa pronunciare a fra’ Cristoforo per convincere il
padre guardiano che si opponeva all’ingresso in convento di Agnese e Lucia).11
Paolo quindi coltiva questa ampia prospettiva ontologica: essendo Dio il
creatore di tutte le cose, tutte le cose nel loro insieme lo fanno conoscere e
ciascuna, presa per se stessa, è buona. È a partire da qui che egli giunge a scrivere
che Cristo è «il capo di ogni Principato e di ogni Potenza» (Colossesi 2,10), ne è
il capo perché le ha create e le mantiene all’esistenza.
Tuttavia i testi a connotazione negativa ci fanno sapere che Cristo contro le
Signorie cosmiche ha dovuto lottare, le ha dovute sconfiggere e privare della loro
forza, fino a farne un «pubblico spettacolo» celebrando su di esse il trionfo
(Colossesi 2,15) come si usava nell’antica Roma con i nemici sconfitti, come
Giulio Cesare aveva fatto un secolo prima con il capo dei galli Vercingetorige
conducendolo a Roma per farlo sfilare davanti alla folla prima di farlo
strangolare, e come Vespasiano e Tito avrebbero fatto qualche anno dopo con gli
ebrei dopo aver distrutto Gerusalemme.
Gli esempi proposti però sono veri solo parzialmente. Giulio Cesare infatti non
riforniva di cibo e di vettovaglie i galli di Vercingetorige occupandosi della loro
sussistenza fisica, e per sconfiggerli dovette recarsi in Gallia con le sue legioni e
combattere duramente, dato che i galli esistevano del tutto a prescindere da lui,
non sussistevano grazie a lui. Per il rapporto di Dio con le Signorie cosmiche la
situazione è invece completamente diversa, perché «tutte le cose in lui
sussistono» (Colossesi 1,17). Professare la dottrina della creazione significa
quindi abbracciare una visione del mondo all’insegna di un’immensa relazionalità
cosmica, in base alla quale ogni singolo ente è se stesso solo in quanto dipende da
un nesso di relazioni che ha il suo fulcro in Dio, sorgente dell’essere-energia;
professare la dottrina della creazione significa affermare la dipendenza ontologica
di tutte le cose, ognuna delle quali è ed esiste solo in quanto connessa, e in questo
senso anche le Signorie cosmiche esistono solo in quanto sussistono in Dio; il NT
dice che è Dio, tramite Cristo, a mantenerle all’esistenza creando le condizioni del
loro essere.
In questa prospettiva non c’è nulla che sia altro o totalmente altro rispetto a
Dio. Se così fosse, Dio non sarebbe dio perché sarebbe limitato nel suo essere
dall’ente totalmente altro rispetto a lui. Dio invece può essere tale solo nella
misura in cui nessun ente rispetto a lui è altro, e precisamente questa sua
onnicomprensività ontologica lo rende il dio (il signore) del mondo. Ma
attenzione: questa stessa onnicomprensività ontologica che non lo separa da nulla,
che lo fa essere padre di tutte le cose, è anche ciò che lo rende totalmente altro
rispetto a ogni ente del mondo, perché nessun ente gode di questa sua dimensione
ontologica. Così veramente tramite il profeta può proclamare: «Sono Dio, nulla è
uguale a me» (Isaia 46,9). Dio però è altro non perché sia separato in un qualche
luogo inaccessibile lassù; Dio è altro proprio per la sua radicale immanenza, per
la sua capacità di abbracciare ogni cosa. Dio è trascendente in quanto
perfettamente immanente. Ne viene che è corretto parlare di Dio come totalmente
altro solo se con questo si intende non un essere separato lassù, ma un immenso
abbraccio cosmico che come una rete fa esistere e sussistere tutte le cose (Atti
17,28: «In lui siamo, ci muoviamo, ed esistiamo»; Siracide 43,27: «Potremmo
dire molte cose e mai finiremmo, ma la conclusione del discorso sia: Egli è il
tutto!»).
A questo punto è inevitabile che torni la questione: in che senso Dio ha dovuto
combattere contro le Signorie cosmiche, e prima ancora contro Rahab e Leviatàn?
Si consideri inoltre che la guerra non è finita, né contro gli esseri mostruosi né
contro le Signorie cosmiche, infatti le Scritture ebraiche parlano di una guerra che
ancora si deve concludere (Isaia 27,1: «In quel giorno il Signore punirà con la
spada dura, grande e forte, il Leviatàn, serpente guizzante»), e il NT afferma che
la fine sarà quando Cristo «consegnerà il regno a Dio Padre, dopo aver ridotto al
nulla ogni Principato e ogni Potenza e Forza», e «l’ultimo nemico a essere
annientato sarà la Morte» (1Corinzi 15,24-26). L’esercito nemico non è per nulla
sbaragliato, può fare molto male, e per questo la lotta di Cristo riguarda ogni
fedele, esortato a rivestire «l’armatura di Dio» (Efesini 6,13) perché coinvolto
nella battaglia «contro i Principati, contro le Potenze, contro i Dominatori di
questo mondo tenebroso, contro gli Spiriti del male che abitano nelle regioni
celesti» (Efesini 6,12).
Ma che tipo di lotta è stata quella di Cristo, se dovette e deve combattere
contro realtà sussistenti in lui? E che tipo di lotta è quella di ogni fedele, se le
entità contro cui combatte provengono in ogni istante dalla medesima sorgente di
energia che mantiene in vita anche lui? Forse più che di una guerra in senso
classico sarebbe opportuno parlare di una guerra civile, di un De bello civili più
che di un De bello gallico? La questione si complica se da una visione d’insieme
del mondo si passa a un approccio più analitico. Il mondo per Paolo proviene in
toto da Dio e quindi è ontologicamente buono in tutti i suoi enti; il che porta a dire
che lo dovrebbe essere ancor più nei costituenti base dei singoli enti, i quali
procedono direttamente dall’atto creativo di Dio: se il mondo è buono nel suo
insieme, a maggior ragione lo deve essere nei suoi elementi. Si può anche
ammettere che il mondo nel suo agire e nel suo sviluppo possa deviare dal
progetto originario di Dio e da buono diventi meno buono, ma i suoi elementibase, i mattoni forniti direttamente dalla fabbrica divina per la costruzione
dell’edificio cosmico, devono essere per forza buoni, se il mondo viene
direttamente da Dio. E invece per Paolo non è così: gli elementi del mondo, gli
stoicheîa toû kósmou, possono rendere «schiavi» (Galati 4,3) e per questo sono
«miserabili» (Galati 4,9). È possibile conciliare tali affermazioni con quelle di
Colossesi 1,16-17 secondo cui il mondo viene da Cristo in quanto creatio prima
(«in lui furono create tutte le cose») e viene mantenuto all’essere da lui in quanto
creatio secunda («tutte le cose sussistono in lui»)?
Il problema si ripresenta per quanto concerne la capacità rivelativa del mondo.
Come già osservato, in Romani 1,19-20 si afferma che il mondo conduce la mente
a Dio rivelandone la sua esistenza per ea quae facta sunt (come dice Romani 1,20
secondo la Volgata, cioè mediante le cose che sono state create) e su tale
asserzione il pensiero cattolico ha basato nei secoli la sua filosofia in quanto
analogia entis e la sua teologia in quanto theologia gloriae,12 arrivando a stabilire
che chi nega che Dio possa essere conosciuto con certezza per ea quae facta sunt
debba essere scomunicato (cfr. DH 3026). Com’è possibile allora che in Colossesi
2,8 si mettano in guardia i fedeli da un pensiero che si articola «secondo gli
elementi del mondo» (katà tà stoicheîa toû kósmou) e non «secondo Cristo»?
Com’è possibile che in Colossesi 2,20 si dica che i fedeli sono «morti con Cristo
agli elementi del mondo», quando invece l’attribuzione a Cristo del ruolo di
creatore comporterebbe che gli elementi del mondo siano vivificati dalla sua
energia creativa? Com’è possibile insomma questa contrapposizione tra mondo e
Cristo, se il mondo in tutti i suoi elementi è creato «in lui», «per mezzo di lui e in
vista di lui» (Colossesi 1,6)? La filosofia cattolica dell’analogia entis con le
cinque vie di Tommaso d’Aquino non è forse un pensiero «secondo gli elementi
del mondo»? Ogni forma di teologia naturale e ogni forma di etica basata sulla
legge naturale non sono forse un pensiero «secondo gli elementi del mondo»?
Inevitabile porre ancora una volta la domanda sulla natura del mondo: esso è una
realtà che conduce a Dio, oppure una realtà che separa da lui?
Il noto esegeta tedesco Heinrich Schlier ha scritto a proposito della visione del
mondo che si ricava dalle lettere di san Paolo che «secondo il modo di vedere di
Paolo il mondo non è più armonico, nella sua struttura formale il mondo è per lui
un edificio a più strati ed enigmatico, un tutto incalcolabile, conseguenza di un
intreccio di irrompenti fenomeni di potere, e insieme di una terra che afferma la
propria autonomia, con i suoi cieli».13
I documenti del Magistero cattolico parlano di conoscenza di Dio a partire
dalle cose create, ma quale conoscenza può derivare da uno scenario cosmico così
ambiguo e travagliato? I documenti del Magistero cattolico parlano di una legge
naturale che sta alla base dell’etica, ma quale legge può mai discendere da una
natura così turbolenta ed enigmatica?
45. Le Potenze sataniche
I dati essenziali della dottrina cattolica sul Diavolo si possono riassumere così:
– esiste un essere dotato di volontà di seduzione, chiamato Satana o Diavolo,
di cui Paolo VI in un celebre discorso parlò come di «un essere vivo, spirituale,
pervertito e pervertitore [...] il nemico numero uno, il tentatore per eccellenza.
Sappiamo che questo essere oscuro e conturbante esiste davvero»;14
– esso è un Angelo creato buono ma divenuto malvagio per una libera scelta
che lo condusse a peccare;
– altri Angeli lo seguirono;
– tale peccato angelico è imperdonabile;
– l’Angelo divenuto Diavolo venne cacciato sulla terra;
– il Figlio di Dio è venuto per distruggere le sue opere;
– l’azione attuale del Diavolo sulla terra è permessa dalla divina provvidenza;
– la ragione di questa permissione è ignota, rimane «un grande mistero»
(Catechismo, art. 395).
Secondo Jeffrey Burton Russell, studioso americano che ha dedicato buona
parte dell’esistenza alla demonologia, il nucleo del concetto-Diavolo è il
seguente: «Esiste un altro potere cosmico oltre a quello del buon Signore, un
potere che vuole il male e lo alimenta per amore del male, che odia il bene in
quanto bene, un potere attivo in tutto il cosmo, anche nelle cose umane».15 Se
questo è il nucleo della demonologia, io lo nego in radice perché non credo che
esista un potere cosmico alternativo a Dio, non credo cioè che esista il Diavolo
come «essere vivo, spirituale», per riprendere la definizione di Paolo VI. Le
ragioni di questa mia convinzione le ho argomentate in un libro precedente,
L’anima e il suo destino, qui mi limito a dichiarare che si tratta di una ragione
filosofica legata al concetto di persona (la persona è frutto dell’armonia delle
relazioni, quindi il Diavolo, che è l’idea della negazione di tale armonia
relazionale, come essere personale non esiste) e di una ragione teologica legata
alla natura di Dio come purissimo bene (tutto ciò che esiste può esistere solo in
quanto mantenuto all’esistenza da Dio, sicché, se l’esistenza del Diavolo fosse
reale, essa dipenderebbe da Dio che non potrebbe non risultare il principale
responsabile del male). Credo tuttavia che il concetto di Diavolo, pur senza
corrispondere a una res realmente esistente, segnali l’esistenza di qualcosa di
molto importante, cioè il potere del negativo e la sua forza di suggestione
sull’animo umano. Credo cioè che non esista il Diavolo, ma che esista la
diabolicità. Per questo ritengo che nei testi biblici che parlano del Diavolo
abbiamo a che fare con qualcosa di molto importante e di molto delicato, espresso
al meglio dal filosofo polacco Leszek Kolakowski (1927-2009), che in uno scritto
intitolato Appunti della conferenza stampa metafisica tenuta dal Demonio a
Varsavia il 20 dicembre 1963 così dava voce al Diavolo: «Esaminate da vicino la
vostra coscienza, voi che siete cristiani e voi che siete atei, scavate al di sotto del
terreno vergine del vostro linguaggio fiorito, della vostra metafisica e della vostra
psicologia. Togliete le incrostazioni, tornate in voi stessi [...]. Voi riuscirete a
vedermi senza alcuna meraviglia e avrete l’impressione, contrariamente a quanto
vi insegnano le vostre teorie, di avermi sempre conosciuto. Scoprirete un volto
familiare, abituale, ma visto veramente per la prima volta. Sentirete un alito fresco
e conosciuto anche nei recessi del vostro cervello [...]. Una forza devastatrice che
non desidera altro che la distruzione. La incontrate ovunque e sperimentate la sua
presenza nelle vostre delusioni e nei vostri errori, nella crudeltà e nella morte,
nella solitudine e nelle frustrazioni. Ogni giorno vi trovate faccia a faccia con
essa, che è sempre presente, non dove la distruzione è palese, dove la crudeltà e il
male sono semplici strumenti, ma ovunque essi siano fini a se stessi [...]. Satana
appare solamente là dove la distruzione non ha alcun senso, dove la crudeltà e
l’umiliazione vengono perpetrate per se stesse, la morte per la morte, dove la
sofferenza non ha scopo o dove questi fini sono solo una maschera e un pretesto
per razionalizzare la sete di distruzione [...]. Il Diavolo non si può spiegare,
riempie la vostra esistenza, è un dato di fatto, è quello che è».16
Con questa convinzione della tremenda realtà che è in gioco, mi accingo a
presentare i testi sulle Potenze sataniche.
Ricognizione terminologica
A differenza degli esseri mostruosi e delle Signorie cosmiche, l’ambiguità
biblica viene meno per il terzo gruppo di entità, le Potenze sataniche: esse
agiscono sempre e solo per incrementare il disordine, l’ingiustizia, le malattie, in
una parola sola, il male del mondo. Ciò che invece le accomuna alle entità dei
primi due gruppi è il fatto che la loro natura non può essere in nessun modo
ricondotta all’agire dell’uomo, nel senso che esse erano già così ben prima della
sua comparsa.
La mancanza di ambiguità quanto al senso della loro azione non ha impedito al
loro riguardo il fiorire di una lussureggiante terminologia, ancora più ricca e
variegata di quella concernente le Signorie cosmiche. Occorre inoltre notare che
la loro presenza si dà quasi esclusivamente nel NT, in particolare nei Vangeli, e di
questo occorrerà capire bene il perché. Come già in precedenza, elenco qui di
seguito i termini che le designano, disposti in ordine alfabetico a partire
dall’originale greco e poi nella traduzione latina e italiana.
– Abadd?n o Apollú?n Exterminans Sterminatore – Antíchristos Antichrístus
Anticristo – Árch?n tês exousías toû aéros Princeps potestatis aëris Principe della
potenza dell’aria – Árch?n toû kósmou toútou Princeps huius mundi Principe di
questo mondo – Árch?n t?n daimoní?n Princeps daemoniorum Principe dei
Demoni – Beelzeboúl Beelzebul Beelzebul – Beliár Belial Beliar – Daimónion
Daemonium Demonio – Daím?n Daemon Dèmone – Diábolos Diabolus Diavolo
– Drák?n Draco Drago – Echthrós Inimicus Nemico – Mam?nâs Mammona
Mammona – Óphis archaîos Serpens antiquus Serpente antico – Peiráz?n Tentator
Tentatore – Pneûma akátharton Spiritus immundus Spirito impuro – Pneumatikà
tês ponerías Spiritualia nequitiae Spiriti del male – Ponerós Malus Maligno –
Satanâs Sátanas Satana – Theós toû aiônos toútou Deus huius saeculi Dio di
questo mondo A questi nomi bisogna aggiungerne altri, assenti nel NT ma
presenti nelle Scritture ebraiche dette Antico Testamento e come tali entrati a far
parte della tradizione occidentale: Azazèl, Lilit, Asmodeo, Baal-Peor. Vi è infine
Lucifero, presente nel NT ma senza che sia riferito a un’entità malefica. Il totale è
di 25 termini.
Tra i 20 termini usati dal NT per le potenze del male, solo tre sono nomi
propri: Beelzebul, Beliar e Mammona. Beelzebul ricorre in Matteo 10,25 («Se
hanno chiamato Beelzebul il padrone di casa, quanto più quelli della sua
famiglia!») e in Matteo 12,24-28 e paralleli (Marco 3,22 e Luca 11,14-20) dove
Gesù viene accusato di scacciare i demòni «per mezzo di Beelzebul, capo dei
demòni». Si tratta di un termine certamente usato dal Gesù storico.
Tradizionalmente viene spiegato dicendo che significa «signore delle mosche»
(titolo ripreso da William Golding nel titolo del suo celebre romanzo del 1954,
Lord of the Flies), ma ciò non corrisponde al significato originario di Beelzebul,
nome che proviene dalla religione della città cananea di Ugarit nella quale era un
autorevole nome divino; utilizzato spregiativamente dagli ebrei del tempo,
Beelzebul divenne per loro uno dei nomi del «capo dei demòni».
Beliar si trova una sola volta nel NT, in 2Corinzi 6,15, dove Paolo chiede
retoricamente: «Quale intesa tra Cristo e Beliar?». Il nome deriva dalla letteratura
intertestamentaria, cioè dagli scritti giudaici che vanno dal 200 a.C. al 200 d.C.
non inseriti nel canone biblico e per questo detti anche Apocrifi dell’Antico
Testamento. Qui Beliar designa l’essere demoniaco in sistematica opposizione a
Dio. Così per esempio si legge al termine del Testamento di Levi: «E ora, figlioli
miei, avete ascoltato tutto: scegliete per voi o la luce o la tenebra, la Legge del
Signore o le opere di Beliar».17 Negli scritti maggiori dei cosiddetti Rotoli del
Mar Morto o Manoscritti di Qumran tale nome, sotto la forma Belial, «ricorre più
di trenta volte».18
Mammona infine, termine aramaico che nei Targum e negli scritti di Qumran
significa «proprietà» spesso con una sfumatura negativa, ricorre come
personificazione in un passo del «discorso della montagna», Matteo 6,24, e nel
passo parallelo di Luca 16,13. Ecco il testo: «Nessuno può servire due padroni,
perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà
l’altro; non potete servire Dio e Mammona» (la Bibbia Cei traduce «non potete
servire Dio e la ricchezza», privilegiando il senso della frase ma perdendo per
strada Mammona).
Oltre ai nomi di animali particolarmente pericolosi come Serpente e Drago,
tutti gli altri 15 termini usati dal NT per le Potenze sataniche non sono nomi
propri ma titoli, i principali dei quali (Satana, Diavolo, Demonio) sono diventati
nella cultura occidentale i classici epiteti del negativo. Il titolo Tentatore designa
l’azione per eccellenza del negativo, il titolo Nemico designa la relazione con i
fedeli, mentre quello di Anticristo si spiega formalmente da sé
(contenutisticamente è invece molto più complesso). Vi sono infine i titoli che
intendono sottolineare la potenza dell’entità malefica, chiamata ora sterminatore
(Apocalisse 9,11: «L’angelo dell’Abisso, che in ebraico si chiama Abadd?n, in
greco Apollú?n», cioè distruttore e sterminatore); ora principe nel senso di capo,
«principe di questo mondo» (Giovanni 12,31; 14,30 e 16,11); ora persino dio,
«dio di questo mondo» (2Corinzi 4,4).
Approfondimento 1: Satana
Prima di passare in rassegna i testi, presento alcune sintetiche spiegazioni sul
significato e l’uso dei termini più caratteristici, cominciando dal termine più
pregnante e tipico della sfera semantica del demoniaco: Satana. Tale nome viene
dall’ebraico satan, che ha il significato di «accusatore» oppure di «avversario
militare». Esso è diventato in Occidente il termine più usato per indicare la
personificazione della forza del male e viene inteso comunemente come un nome
proprio: un esempio al riguardo sono le Litanie a Satana nei Fiori del male di
Baudelaire (1857): «O Satan, prends pitié de ma longue misère!»; oppure l’inno A
Satana di Carducci (1863): «Salute, o Satana, o ribellione, o forza vindice de la
ragione!».
Nella Bibbia ebraica il senso di satan come accusatore ricorre nel Salmo 109,6
(«Suscita un malvagio contro di lui e un satan stia alla sua destra»), mentre il
senso di avversario o nemico militare ricorre in 1Samuele 29,4 in riferimento a
Davide di cui i filistei temono che diventi «nostro satan durante il
combattimento» (sulla stessa linea 1Re 11,14 e 1Re 11,23 e 25). In questo
secondo significato il termine ricorre anche al plurale satanim, «avversari», in
2Samuele 19,23 e in 1Re 5,18. In tutte le traduzioni italiane moderne e nelle
versioni in altre lingue da me consultate l’ebraico satan viene tradotto con il nome
«Satana» solo in tre casi: 1Cronache 21,1, Zaccaria 3,1-2, prologo del libro di
Giobbe. Solo nel primo caso però esso appare come un nome proprio, mentre
negli altri casi ha sempre l’articolo, ha-satan, «il satana», a indicare che non si
tratta di un nome proprio ma di un ruolo, quello di chi all’interno della corte
divina si fa carico della pubblica accusa, una specie di pubblico ministero
angelico (purtroppo la Bibbia Cei nel libro di Giobbe e nel libro di Zaccaria
traduce «Satana» come nome proprio senza riportare l’articolo del testo originale,
reso invece fedelmente dalla Bibbia ebraica a cura di Rav Dario Disegni che
traduce in entrambi i casi «il Satan»). È a questa particolare figura che si riferisce
Apocalisse 12,10: «È stato precipitato l’accusatore dei nostri fratelli, colui che li
accusava davanti al nostro Dio giorno e notte».
L’unico versetto delle Scritture ebraiche in cui Satana appare senza articolo e
quindi come nome proprio è 1Cronache 21,1: «Satana insorse contro Israele e
incitò Davide a censire Israele».19 Com’è noto, i libri delle Cronache sono una
trascrizione quasi parallela delle narrazioni dei libri di Samuele e dei Re rispetto
ai quali sono più recenti di circa tre secoli, quindi per coglierne il pensiero
peculiare è importante verificare come il medesimo fatto viene narrato dalla
storiografia precedente. Ecco perciò il versetto parallelo di 2Samuele 24,1: «L’ira
del Signore si accese di nuovo contro Israele e incitò Davide contro il popolo in
questo modo: Su, fa’ il censimento di Israele e di Giuda». In 1Cronache ci
troviamo di fronte a un significativo cambio di soggetto: l’iniziativa del
censimento, che in 2Samuele era ricondotta al Signore incollerito, da 1Cronache
viene attribuita a Satana. Si potrebbe quindi dire che la collera di Yhwh è stata
personificata dando origine alla figura di Satana. Del resto basta leggere l’intero
capitolo di 2Samuele 24 per comprendere la legittima esigenza di introdurre una
figura esterna avvertita dal posteriore autore delle Cronache, visto che si trattava
di risolvere la totale incoerenza del comportamento di Yhwh, che prima ordina a
Davide di fare il censimento e poi lo punisce per averlo fatto colpendolo con
un’epidemia di peste (che però lascia intatto Davide e uccide al suo posto
settantamila persone innocenti).
L’analisi del termine satan nelle Scritture ebraiche ha quindi mostrato che esso
può indicare:
– il ruolo negativo di un essere umano in un processo, l’accusatore (Salmo
109,6);
– il ruolo negativo di un essere umano in un’azione militare, il nemico
(1Samuele 29,4);
– una specie di angelo della corte divina con funzione di pubblico ministero
(Giobbe 1-2);
– una specie di angelo della corte divina che istiga ad azioni non gradite a Dio
(1Cronache 21,1).
In nessun caso il termine satan nelle Scritture ebraiche rimanda al Satana
nemico giurato di Dio quale in seguito si è sviluppato dando origine alla figura
del Diavolo. Di esso la prima traccia scritturistica si ha nel libro della Sapienza,
escluso dal canone della Bibbia ebraica ma incluso in quello della Chiesa cattolica
e perciò detto deutero-canonico, in cui si dice che «la morte è entrata nel mondo
per l’invidia del Diavolo» (Sapienza 2,24).
Approfondimento 2: Diavolo
Il termine greco diábolos venne utilizzato dalla Bibbia dei Settanta (la versione
greca della Bibbia ebraica risalente al II secolo a.C., talora abbreviata con il
numero romano LXX e detta anche Septuaginta) per tradurre l’ebraico satan. I
due termini sono quindi perfettamente sinonimi e infatti i Vangeli parlano ora di
Satana ora di Diavolo senza nessuna specifica distinzione. Per esempio in Marco
4,15 si legge: «Subito viene il Satana (ho Satanâs) e porta via la Parola seminata»,
mentre i passi paralleli degli altri due Sinottici (che chiamiamo così perché
possono essere letti in parallelo con un unico colpo d’occhio, súnopsis) hanno
come soggetto in Matteo 13,19 «il Maligno» (ho ponerós) e in Luca 8,12 «il
Diavolo» (ho diábolos), chiaro segno che per il NT i termini Satana, Diavolo e
Maligno sono del tutto equivalenti.
Il sostantivo diábolos viene dal verbo diabáll?, infinito diabállein, che ha il
senso complessivo di «separare», in diretta contrapposizione a sumbáll?, infinito
sumbállein, che significa invece «unire» e da cui deriva il termine «simbolo» (da
intendersi anzitutto nel significato arcaico di mezzo di riconoscimento costituito
da una delle parti ottenute spezzando in due un oggetto, e poi nel significato
traslato di oggetto o persona in grado di unire la mente a un’idea più ampia, come
quando diciamo che la bandiera è il simbolo della patria o Ulisse il simbolo
dell’astuzia). Contrariamente al simbolo, il dia-bolo disunisce, lacera, divide; è,
come scrive il Catechismo all’art. 2851, «colui che si getta di traverso».
Approfondimento 3: Demonio
Occorre distinguere il termine «demonio» (più frequente) dal termine
«dèmone» (più raro). Demonio viene dal greco daimónion, di genere neutro, in
latino daemonium. Dèmone invece viene dal greco daím?n, di genere maschile, in
latino daemon. I due termini nel mondo classico spesso si sovrappongono, anche
se in linea di massima si può dire che daím?n indica l’essere divino o la divinità
in tutte le sue molteplici gradazioni, comprese quelle negative, mentre daimónion
indica l’influsso, positivo o negativo, sulla vita degli uomini della dimensione
divina. Ma, come detto, i due termini spesso si sovrappongono. Socrate infatti, per
riferirsi alla voce che si manifestava alla sua interiorità distogliendolo dal male,
usava il termine daimónion: «La voce profetica che mi è abituale, quella del
daimónion», mentre Epitteto per affermare lo stesso concetto parlava di daím?n:
«Quando chiudete le porte e fate buio dentro, ricordate di non dire mai che siete
soli; infatti non lo siete: dentro di voi c’è Dio, e il vostro dèmone».20
Il termine dèmone in italiano e in altre lingue europee (l’inglese demon, il
francese démon, il tedesco Dämon) rimanda perlopiù alla personificazione di una
passione negativa che avvince il cuore dell’uomo, come quando si dice «il
dèmone del gioco», o della gelosia, dell’invidia, dell’ambizione... Dèmone ha
quindi un significato perlopiù negativo, avendo perso la connotazione perlopiù
positiva che aveva nel mondo classico. Esso dice l’influsso della forza del male,
in un certo senso stabilizzatasi nell’interiorità umana e diventata una passione
oscura che avvince e imprigiona la mente, ed è precisamente in questo senso che
il termine venne usato da Fëdor Dostoevskij per il romanzo I dèmoni del 1872.
Ancora più univoco e privo di sfumature è diventato il termine demonio, che
contrassegna lo spirito del male, e il plurale demòni che rimanda alle forze
maligne direttamente collegate alla sua azione.
Lo slittamento dei due termini verso il polo negativo è stato senza dubbio
causato dall’influsso del cristianesimo. Nel NT infatti si usa daím?n una volta
sola, in Matteo 8,31, dove si trova al plurale daímones, in un contesto che non
lascia il minimo dubbio sul senso interamente negativo del termine: «E i dèmoni
lo scongiuravano dicendo: “Se ci scacci, mandaci nella mandria dei porci”».21 In
tutti gli altri numerosi passi del NT si usa sempre e solo il termine daimónion con
un senso univocamente negativo.
Approfondimento 4: Azazèl, Lilit, Asmodeo, Baal-Peor
Assenti nel NT, nella Bibbia ebraica vi sono alcuni nomi propri per le potenze
del negativo. Si tratta di Azazèl, Lilit, Asmodeo, Baal-Peor.
Azazèl ricorre in Levitico 16,8 a proposito della grande festa dell’espiazione,
quando si dice che Aronne quel giorno «getterà le sorti sui due capri: un capro
destinato al Signore e l’altro ad Azazèl», specificando poi nel versetto 10 che «il
capro che è toccato in sorte ad Azazèl sarà posto vivo davanti al Signore perché si
compia il rito espiatorio su di esso e sia mandato poi ad Azazèl nel deserto».
Lilit (scritta anche Lilith), figura femminile della tradizione ebraica in cui
rappresenta la prima moglie di Adamo divenuta poi una specie di demone
notturno, ricorre una sola volta nella Bibbia, in Isaia 34,14, dove a proposito del
territorio di Edom devastato dal castigo divino si dice: «Là si poserà anche Lilit e
vi troverà tranquilla dimora».
Asmodeo ricorre in Tobia 3,8 e 3,17 dove viene qualificato come «cattivo
demonio».
Baal-Peor, come già Beelzebul, è di per sé il nome di una divinità che significa
«dio di Peor», formato da Baal, «dio, signore», e dal nome di luogo Peor. Esso
ricorre in Numeri 25, dove si dice che «Israele aderì a Baal-Peor», riportando
poco dopo l’intransigente ordine di Mosè ai giudici israeliti: «Ognuno di voi
uccida dei suoi uomini coloro che hanno aderito a Baal-Peor» (versetti 3 e 5). Con
lo stesso significato negativo il termine è presente in Deuteronomio 4,3 («i tuoi
occhi videro come Yhwh tuo Dio abbia sterminato in mezzo a te quanti avevano
seguito Baal-Peor») e nel Salmo 106,28 («adorarono Baal-Peor e mangiarono i
sacrifici dei morti»), mentre in Osea 9,10 ha valore di nome di luogo: «Appena
arrivati a Baal-Peor, si consacrarono a quell’infamia». Questo nome nella
traduzione greca dei Settanta e nella traduzione latina Volgata divenne
Beelphegor, da cui si originò in italiano Belfagor, nome ripreso dalla tradizione
artistica e letteraria, per esempio da Niccolò Machiavelli per una novella dal titolo
Belfagor arcidiavolo di datazione incerta.
Approfondimento 5: Lucifero
Il nome Lucifero ricorre una volta sola nel NT dove però, ben lungi dall’avere
una connotazione diabolica, si riferisce a Cristo. Il passo è 2Pietro 1,19 che qui
riporto nella parte finale: «... finché non spunti il giorno e non sorga nei vostri
cuori la stella del mattino». L’originale greco tradotto dalla Bibbia Cei con «stella
del mattino» è ph?sphóros, letteralmente «portatore di luce» (dal sostantivo phôs,
luce, + il verbo phéro, portare), termine che nell’antichità indicava il pianeta
Venere in quanto ben visibile all’aurora e che in latino veniva reso allo stesso
modo dall’unione del sostantivo lux con il verbo fero, dando origine al nome
lúcifer (cfr. per esempio Ovidio, Metamorfosi, XI,271). Ecco il passo di 2Pietro
1,19 secondo la Volgata: Donec dies elucescat et lúcifer oriatur in cordibus vestris
(fino a che il giorno rilucerà e lucifero sorgerà nei vostri cuori). Il termine lucifero
quindi denominava il pianeta Venere e non aveva proprio nulla di «luciferino»,
tant’è che il NT non esita a riferirlo a Cristo visto che è del tutto evidente che la
«stella del mattino» che deve sorgere nei cuori dei credenti di cui parla 2Pietro è
Cristo. Allo stesso modo i cristiani dei primi secoli usavano il termine anche come
nome proprio, e nel IV secolo si ebbe anche un santo con tale nome, san Lucifero,
vescovo di Cagliari. Come mai allora Lucifero portatore-di-luce è diventato
sinonimo di Satana portatore-di-tenebre? La risposta a questa domanda sarà di
grande importanza per la comprensione del concetto di Dio e del concetto di
mondo presenti nel cristianesimo.
Un curioso tentativo di sistematizzazione
Così si legge nel Vangelo di Bartolomeo, scritto apocrifo cristiano del V secolo
circa: «Venuto Gesù, Bartolomeo disse: Facci vedere quel nemico degli uomini
affinché vediamo chi è, che cosa fa e donde è disceso, e che forza ha». Più avanti
Bartolomeo, messo in condizione da Gesù di potersi avvicinare senza morire,
domanda al Diavolo: «Dimmi chi sei, che nome hai e che cosa fai per tutta la
terra».22 Il desiderio della mente umana di classificare è sempre stato forte e
risponde all’azione del logos dentro di noi. In ordine alla magmatica materia
demoniaca si ebbe un curioso tentativo in tal senso da parte di un vescovo di
Treviri, Peter Binsfeld, in un’opera sulla stregoneria del 1589 intitolata Tractatus
de confessionibus maleficorum et sagarum (Trattato sulle confessioni dei maghi e
delle streghe) nella quale si offre una visione sistematica dei principali nomi
demoniaci parlando di «Sette Principi dell’Inferno» e legando ognuno a un vizio
capitale:
Lucifero superbia Mammona avarizia Asmodeo lussuria Satana ira Beelzebul
gola Leviatàn invidia Belfagor accidia 46. Sul potere delle Potenze sataniche
Presento ora i principali testi neotestamentari sulle Potenze sataniche, tradotti
rispettando la presenza o meno dell’articolo e classificati secondo due tipologie:
– testi che dichiarano la presenza di un potere satanico sul mondo;
– testi che dichiarano la sconfitta di tale potere (come già avvenuta o ancora da
realizzarsi),
occupandomi in questo paragrafo della prima tipologia.
I testi del NT che parlano di un vero e proprio potere esercitato dalle Potenze
sataniche sono numerosi. Vi è un «potere della tenebra» (Luca 22,53 e Colossesi
1,13: exousía toû skótous), un «potere del Diavolo» (Atti 10,38), un «potere del
Satana» (Atti 26,18: exousía toû Satanâ; cfr. anche 2Corinzi 2,11). In 1Giovanni
5,19 si giunge addirittura a dire che «tutto il mondo sta in potere del Maligno»
(testo originale: ho kósmos hólos en tô ponerô keîtai), un’affermazione
impensabile per le Scritture ebraiche e in contraddizione con altre espressioni
neotestamentarie, per esempio Matteo 28,18: «A me è stato dato ogni potere in
cielo e sulla terra».
In alcuni testi il potere del negativo appare così schiacciante che gli si possono
consegnare gli esseri umani: così per esempio scrive san Paolo: «Questo
individuo venga consegnato al Satana» (1Corinzi 5,5); e ancora, a proposito di
due tali «Imeneo e Alessandro, che ho consegnato al Satana perché imparino a
non bestemmiare» (1Timoteo 1,20). Il libro dell’Apocalisse conosce «il trono del
Satana» (2,13), «le profondità del Satana» (2,24), e riporta per due volte
l’espressione «sinagoga del Satana» (Apocalisse 2,9 e 3,9) che tanto dolore sarà
destinata a causare contribuendo ad alimentare il morbo dell’antisemitismo
cristiano.
In base all’analisi dei testi io ritengo si possa esplicitare un quadruplice ambito
su cui secondo il NT si esercita il potere satanico:
– sullo spirito umano;
– sul corpo umano;
– sulla società e sul mondo;
– sulla sfera della trascendenza.
Potere sullo spirito
Alla forza del negativo è attribuito anzitutto un potere sulla dimensione
spirituale della vita umana. Esso si esprime in modo privilegiato nell’azione per
eccellenza del potere del negativo, cioè la tentazione (ho peirasmós), e
significativamente il Diavolo in Matteo 4,3 viene definito proprio «il Tentatore»
(ho peiráz?n). Gesù assegna alla tentazione un peso essenziale. La nomina alla
fine del Padre nostro affiancandovi colui che ne è la causa: «E non abbandonarci
alla tentazione, ma liberaci dal Maligno» (Matteo 6,13; secondo molti
commentatori e anche secondo l’art. 2851 del Catechismo è più probabile che il
sostantivo ponerós abbia qui un senso personale riferendosi al Maligno per
eccellenza, e non il senso impersonale che porta a tradurre «liberaci dal male»); la
ritiene una minaccia incombente contro cui lottare: «Vegliate e pregate per non
entrare in tentazione» (Marco 14,38 e Matteo 26,41); e avverte Simon Pietro: «Il
Satana vi ha cercati per vagliarvi come il grano» (Luca 22,31). La tentazione
riguarda anche il linguaggio perché porta a moltiplicare le parole: «Sia il vostro
parlare: “Sì, sì”, “No, no”; il di più viene dal Maligno» (Matteo 5,37), e arriva a
interessare persino Gesù, «condotto dallo Spirito nel deserto per essere tentato dal
Diavolo» (Matteo 4,1; parallelo in Luca 4,2). San Paolo dal canto suo scrive agli
sposi di non trascorrere troppo tempo in una vita priva di rapporti sessuali,
«perché il Satana non vi tenti mediante la vostra incontinenza» (1Corinzi 7,5).
Se la tentazione solitamente introduce nello spirito umano quanto
originariamente in esso non c’è, vi sono testi neotestamentari che raccontano di
un’azione del Maligno tesa a estirpare quanto di buono c’è nell’uomo: «Subito
viene il Satana e porta via la Parola seminata» (Marco 4,15; il passo parallelo di
Matteo 13,19 ha «il Maligno», e Luca 8,12 «il Diavolo»). In ogni caso, o
insinuandosi in lui o per sottrazione, l’azione satanica può giungere a
impadronirsi totalmente del centro esistenziale di un essere umano controllandone
la libertà, come Pietro giunge a dire a un tale di nome Anania: «Il Satana ti ha
riempito il cuore» (Atti 5,3). Il caso esemplare riguarda l’apostolo Giuda: «Allora
Satana entrò in Giuda, detto Iscariota» (Luca 22,3; nel testo greco Satana è senza
articolo), oppure: «Dopo il boccone, il Satana entrò in lui» (Giovanni 13,27). È
questa malattia dello spirito da temere maggiormente, raffigurata in Efesini 6,11
come «insidie del Diavolo», in 2Timoteo 2,26 come «laccio del Diavolo», e di cui
1Pietro 5,8 dice: «Siate sobri, vegliate, il vostro nemico, il Diavolo, come leone
ruggente va in giro cercando chi divorare».
Potere sulla natura e sui corpi umani
Al negativo è attribuito anche un potere sulla natura, in particolare sulla
dimensione corporea della vita umana. In Apocalisse 12,3-4 si legge di «un
enorme drago rosso, con sette teste e dieci corna e sulle teste sette diademi»,
evidente simbolo di Satana di cui si dice che «la sua coda trascinava un terzo delle
stelle del cielo e le precipitava sulla terra». Nella Lettera ai Romani san Paolo
parla di una «ardente aspettativa della creazione», scrive che «la creazione è stata
sottoposta alla caducità» e a una «schiavitù della corruzione», e aggiunge: «Tutta
insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino a oggi» (Romani 8,1922). Non solo gli esseri umani, quindi, ma tutti i viventi, animali e vegetali,
partecipano di una sofferenza cosmica che attende il riscatto e la liberazione.
Nell’esistenza terrena di Gesù i casi più evidenti di tale sottomissione della
vita naturale a un potere avverso sono i cosiddetti indemoniati. Dicendo che Gesù
guariva «ogni sorta di malattie e di infermità», il Vangelo di Matteo distingue
quattro categorie di malati in questo preciso ordine: «malati di varie malattie e
dolori, indemoniati, epilettici e paralitici» (Matteo 4,24). Gli indemoniati
appaiono ben distinti non solo dai malati ordinari (prima e quarta categoria), ma
anche da coloro che soffrono di malattie della psiche, che la Bibbia Cei definisce
«epilettici» e che il testo greco designa più genericamente come sel?niazoménous,
letteralmente «soggetti alla luna» o anche «lunatici» (in greco luna si dice sel?n?),
chiaramente altra cosa rispetto ai daimonizoménous, a coloro cioè che risultano
«soggetti ai demòni». La cosiddetta «possessione diabolica» di cui parlano i
Vangeli non è quindi equiparabile alle malattie psichiche.
Nei Vangeli vi sono numerosi casi di possessione diabolica, presentati sia
genericamente (Matteo 8,16: «Gli portarono molti indemoniati ed egli scacciò gli
spiriti con la parola e guarì tutti i malati») sia in singole scene, di cui la più
stupefacente è quella dell’indemoniato della regione di Gerasa. Presente in tutti e
tre i Sinottici, la versione più colorita è senza dubbio quella di Marco. Il più
antico evangelista ci fa sapere che vi era un indemoniato che viveva tra le tombe,
si percuoteva con le pietre e aveva una forza straordinaria che gli permetteva di
spezzare tutte le catene con cui veniva legato. A Gesù che gli aveva chiesto il
nome, lo spirito impuro rispose di chiamarsi Legione «perché siamo in molti»,
scongiurandolo poi di poter entrare in una mandria di porci qualora l’avesse
scacciato dal corpo dello sfortunato, cosa che Gesù permise, così che «gli spiriti
impuri, dopo essere usciti, entrarono nei porci e la mandria si precipitò giù dalla
rupe nel mare» (Marco 5,13). Una scena potente, che Dostoevskij pose in epigrafe
ai Démoni, e che non perde in suggestione neppure se si viene a sapere che, come
scrive in una nota la Bibbia di Gerusalemme, «la città di Gerasa, l’attuale Jerash,
è situata a più di cinquanta chilometri dal lago di Tiberiade, il che rende
impossibile l’episodio dei porci».
Altri casi di possessione diabolica si trovano in Marco 1,23-26 (parallelo in
Luca 4,33-35) e in Marco 9,14-29 (paralleli in Matteo 17,14-21 e Luca 9,37-42).
Solo in Luca invece si legge di una donna inferma a causa di una malattia che la
rendeva curva, sicché lei «non riusciva in alcun modo a stare diritta» (Luca
13,10). Gesù la guarisce, ma siccome è sabato deve replicare alle accuse del capo
della sinagoga e facendolo qualifica la donna come «figlia di Abramo che il
Satana ha tenuto prigioniera per ben diciotto anni» (Luca 13,16), mostrando così
la sua convinzione nell’esistenza di un potere satanico che agisce anche solo sul
corpo, a prescindere da qualunque alterazione psichica. In questa stessa
prospettiva è probabilmente da intendere l’enigmatico passo dell’apostolo Paolo
secondo cui «è stata data alla mia carne una spina, un inviato di Satana per
percuotermi» (2Corinzi 12,7).
In tutti i casi si tratta comunque sempre di malattie, per quanto abbastanza
particolari, che rendono chi le contrae sofferente, a volte molto sofferente, ma mai
malvagio in se stesso, cioè dotato di quella lucida intelligenza negativa che
caratterizza coloro che sono preda di Satana nella dimensione spirituale.
Potere sulla società
Il NT attribuisce al negativo anche un vasto potere sulla dimensione sociale,
politica ed economica della vita umana. Ciò risulta in forte contrasto con la
Bibbia ebraica la cui visione del mondo non conosce poteri alternativi a Dio ma
solo un suo dominio assoluto: «Yhwh regna: tremino i popoli» (Salmo 99,1).
A differenza di questo monopolio divino del potere sul mondo, il NT conosce
un vero e proprio duopolio. Infatti, oltre al trono di Yhwh proclamato dalla Bibbia
ebraica (Salmo 47,9: «Dio regna sulle genti, Dio siede sul suo trono santo»), in
esso si dichiara l’esistenza di un «trono del Satana» (Apocalisse 2,13) e in questa
prospettiva risultano particolarmente significative le parole che il Diavolo rivolge
a Gesù nella scena delle tentazioni: «Il Diavolo lo condusse in alto, gli mostrò in
un istante tutti i regni della terra e gli disse: “Ti darò tutto questo potere e la loro
gloria, perché a me è stata data e io la do a chi voglio. Perciò, se ti prostrerai in
adorazione dinanzi a me, tutto sarà tuo”» (Luca 4,5-7).
Che cosa può dare il Diavolo secondo il NT? Il potere sul mondo e la gloria
che ne deriva, quella stessa gloria (in greco dóxa, in ebraico kavod) che per la
Bibbia ebraica è prerogativa assoluta di Dio: «Il Signore degli eserciti è il re della
gloria [melek hakavod]» (Salmo 24,10). Quello del Diavolo non è un dominio
originario, perché egli a sua volta l’ha ricevuto, e tuttavia è un dominio effettivo,
perché il binomio potere + gloria (exousía + dóxa) è nelle sue mani ed egli lo
concede a chi vuole. Qualcuno potrebbe obiettare che si tratta di millantato
credito, e non sarebbe strano visto che il Diavolo è «menzognero e padre della
menzogna» (Giovanni 8,44). Ma in questo caso si tratterebbe di un’obiezione non
pertinente, perché Gesù stesso ne parla per ben tre volte come del «principe di
questo mondo» (Giovanni 12,31; 14,40; 16,11), laddove il termine «principe»,
utilizzato dalla Bibbia Cei per tradurre il greco árcho ¯n, non è la scelta migliore
perché rimanda all’alto titolo nobiliare, mentre il termine greco ha il senso di
capo, di colui che sta sopra, di comandante, così che l’espressione evangelica si
potrebbe rendere, se il mondo fosse un’azienda, «il principale di questo mondo».
L’apostolo Paolo giunge addirittura a parlare del Diavolo come del «dio di questo
mondo» (2Corinzi 4,4; ho theós toû aiônos toútou) e riconosce che il suo potere si
esplica anche in fatti concreti della vita ordinaria, per esempio quando scrive:
«Più di una volta ho desiderato venire da voi, ma il Satana ce lo ha impedito»
(1Tessalonicesi 2,18).
Ma il testo neotestamentario in cui più chiaramente è affermato il potere
sociale, politico ed economico della forza del male è inequivocabilmente
l’Apocalisse. Essa senza dubbio proclama la vittoria divina (12,10: «Ora si è
compiuta la salvezza, la forza e il regno del nostro Dio e la potenza del suo
Cristo»), ma afferma al contempo che si è trattato di una vittoria avvenuta in cielo
e dall’esito poco fortunato per la terra: «Il grande Drago [ho drák?n ho mégas], il
Serpente antico [ho óphis ho archaîos], colui che è chiamato Diavolo [Diábolos] e
il Satana [ho Satanâs] e che seduce tutta la terra abitata, fu precipitato sulla terra e
con lui anche i suoi angeli» (12,9). Ne scaturisce una conseguenza duplice, da un
lato lieta: «Esultate dunque o cieli», ma dall’altro lato terribile: «Ma guai a voi,
terra e mare, perché il Diavolo è disceso sopra di voi pieno di grande furore,
sapendo che gli resta poco tempo» (12,12).
Il potere diabolico sulla terra va ben al di là della tradizionale tentazione
rivolta all’interiorità umana o dei malanni del corpo. Certo l’Apocalisse conosce
anche questa dimensione, come quando scrive che «il Diavolo sta per gettare
alcuni di voi in carcere per mettervi alla prova» (2,10), ma nella sua prospettiva la
posta in gioco è molto più ampia: al Drago precipitato sulla terra e pieno di
grande furore interessa il dominio del mondo, non il ristretto spazio delle anime.
A tal fine esso suscita un’entità spaventosa: «E vidi salire dal mare una Bestia che
aveva dieci corna e sette teste, sulle corna dieci diademi e su ciascuna testa un
titolo blasfemo. La Bestia che io vidi era simile a una pantera, con le zampe come
quelle di un orso e la bocca come quella di un leone». Tale Bestia però riceve a
sua volta il potere da qualcun altro: «Il Drago le diede la sua forza, il suo trono e
il suo grande potere» (13,1-2), di modo che se la Bestia ha potere è perché glielo
ha conferito il Drago, il Serpente antico, il Diavolo, il Satana. Ma che cosa
rappresenta l’entità spaventosa chiamata Bestia? La chiave per l’interpretazione è
fornita in questi termini: «Qui è necessaria una mente saggia. Le sette teste sono i
sette monti sui quali è seduta la donna. E i re sono sette» (17,9). Si tratta di
un’evidente allusione a Roma, la città dai sette colli e dai sette re, sicché la Bestia
che sale dal mare non è altro che l’impero romano che giunge dal Mediterraneo
con la sua invincibile forza militare e organizzativa. Questo impero domina tutto
il mondo conosciuto e imprime a tutti «un marchio sulla mano destra o sulla
fronte», affinché «nessuno possa comprare o vendere senza avere tale marchio»
(13,16-17). Ne viene che il potere diabolico avvolge completamente la politica e
l’economia. Siamo nella stessa prospettiva della già citata affermazione di
1Giovanni 5,19 secondo cui «tutto il mondo sta in potere del Maligno».
Potere sulla dimensione della trascendenza
Infine il NT attribuisce alle forze del male un potere sul mondo spirituale.
Questo non deve sorprendere più di tanto, visto che il Diavolo ha natura spirituale
e di lui Paolo dice che «il Satana si maschera da angelo di luce» (2Corinzi 11,14).
Avendo il Diavolo natura spirituale, neppure deve sorprendere che per il NT la
sua dimora abituale sia il cielo, e non le profondità della terra come si è soliti
pensare da quando Dante ha collocato Lucifero nel centro della terra. Nella
Lettera agli Efesini infatti si parla del «Principe delle Potenze dell’aria» (Efesini
2,2; nell’originale greco è al singolare: «Principe della Potenza dell’aria»), e più
avanti si legge che «gli Spiriti del male abitano nelle regioni celesti» (Efesini
6,12). Il Diavolo quindi non è sotto terra, ma è sopra, nell’aria, nelle regioni
celesti. Si tratta di una concezione evidentemente condivisa da Gesù, che
altrimenti non avrebbe mai potuto dire ai settantadue discepoli che ritornavano
pieni di gioia perché avevano sconfitto i demòni: «Vedevo il Satana cadere dal
cielo come folgore» (Luca 10,18).
Quindi per il NT il Diavolo non ha solo un immenso potere sulla terra, ma
anche un potere sul mondo spirituale. A questo riguardo la Lettera agli Ebrei
interpreta l’incarnazione e la morte di Cristo come precisamente finalizzate a
togliere al Diavolo tale potere sul mondo spirituale: «Poiché i figli hanno in
comune il sangue e la carne, anche Cristo allo stesso modo ne è divenuto
partecipe, per ridurre all’impotenza mediante la morte colui che della morte ha il
potere, cioè il Diavolo» (2,14). Tale attribuzione al Diavolo di un potere sulla
morte è assolutamente inimmaginabile per la Bibbia ebraica, secondo la quale è
sempre e solo Dio ad avere questa facoltà: «A Yhwh appartengono le porte della
morte» (Salmo 68,21).
Il potere del Diavolo sul mondo spirituale dà origine nel NT all’enigmatica
figura dell’Anticristo. A parlarne esplicitamente è l’autore di 1-2Giovanni, che da
un lato ne annuncia la venuta (1Giovanni 2,18: «Figlioli, è giunta l’ultima ora;
come avete sentito dire che l’Anticristo deve venire, di fatto molti Anticristi sono
già venuti»; e in 2Giovanni 7: «Sono apparsi nel mondo molti seduttori, che non
riconoscono Gesù venuto nella carne. Ecco il seduttore e l’Anticristo»), dall’altro
ne descrive la natura e la funzione (1Giovanni 2,22: «L’Anticristo è colui che
nega il Padre e il Figlio»; e in 1Giovanni 4,3: «Ogni spirito che non riconosce
Gesù, non è da Dio; questo è lo Spirito dell’Anticristo che, come avete udito,
viene, anzi è già, nel mondo»). Anche una lettera del corpus paolino, pur senza
nominare esplicitamente l’Anticristo, fa riferimento a un personaggio simbolo del
male cui si assegna un grande potere a livello spirituale, tanto da descriverlo come
oggetto di adorazione divina da parte degli uomini. Ecco il testo: «Nessuno vi
inganni in alcun modo! Prima infatti verrà l’apostasia e si rivelerà l’uomo
dell’iniquità, il figlio della perdizione, l’avversario, colui che si innalza sopra ogni
essere chiamato e adorato come Dio, fino a insidiarsi nel tempio di Dio,
pretendendo di essere Dio» (2Tessalonicesi 2,3-4). Anche a questo riguardo però
deve essere chiara una cosa: come già la Bestia dell’Apocalisse riceveva il suo
potere dal Diavolo sotto forma di Drago, così «la venuta dell’empio avverrà nella
potenza del Satana» (2Tessalonicesi 2,9).
Bilancio
Il potere satanico non è originario, non lo è ovviamente per la Bibbia ebraica,
ma non lo è neppure per il NT che non ammette nessuna forma di dualismo
ontologico. E tuttavia tale potere è reale e per questo occorre riconoscere un
«regno di questo mondo» contrapposto al «regno di Dio» o «dei cieli». Si tratta di
un dualismo non ontologico ma storico, legato cioè a una serie di circostanze e di
eventi, non alla natura strutturale delle cose, perché c’è un unico principio
dell’essere e dell’energia e se il potere satanico esiste e può agire lo deve a
quell’unico principio che gli conferisce l’essere e l’energia e che, se venisse
meno, lo priverebbe all’istante di ogni possibilità di sussistenza. Viene in mente
un passo del prologo del libro di Giobbe: «Il Signore disse al Satana: “Ecco
quanto possiede è in tuo potere”» (Giobbe 1,12), concessione ribadita nel capitolo
seguente, questa volta non più solo in riferimento ai beni, ma alla stessa carne di
Giobbe: «Il Signore disse al Satana: “Eccolo nelle tue mani!”» (Giobbe 2,6).
Eccolo nelle tue mani: perché il Satana possa agire deve ottenere la
concessione divina, e non solo nel caso di Giobbe, ma ogni volta. È inevitabile
chiedersi per quante esistenze oltre a Giobbe siano state pronunciate quelle
parole: quanti sono gli esseri umani che sono stati gettati in potere delle mani del
Satana? Solo Giobbe? Alcuni altri? Molti altri?
La risposta corretta, a mio avviso, è una sola: tutti. A patto ovviamente di non
intendere il Satana nel senso satanico del termine, come un essere reale dotato di
personalità secondo quanto purtroppo insegna ancora la dottrina cattolica
(Catechismo, art. 2851: «Il Male non è un’astrazione, indica invece una persona:
Satana, il Maligno, l’angelo che si oppone a Dio»), perché altrimenti avremmo a
che fare con un Dio sadico che dà origine egli stesso alla devastante azione del
Satana, un Dio da cui stare alla larga il più possibile. Il Satana va inteso in
tutt’altro senso, molto più vicino alla visione del mondo che scaturisce dalla
Bibbia ebraica, su cui mi soffermerò alla fine di questo capitolo.
47. Sulla sconfitta delle Potenze sataniche
Una vittoria già in atto
La vittoria di Gesù nella scena delle tentazioni (secondo Dostoevskij «i tre
archetipi in cui si concreteranno tutte le insolubili contraddizioni storiche
dell’umana natura su tutta la terra»23) segnala la possibilità della libertà di
vincere i morsi della necessità biologica (il rifiuto di trasformare le pietre in pane
per sedare la fame), la strumentalizzazione della fede religiosa (il rifiuto di
gettarsi dal tempio per farsi portare dagli angeli) e la seduzione del potere politico
ed economico (il rifiuto di onorare il Diavolo che glielo avrebbe dato). Si tratta di
una vittoria di Gesù e con lui della libertà umana, la quale appare veramente
capax Dei, cioè in grado di vivere nella luce della dimensione spirituale, come
mostra anche la luminosa storia della santità. Per il Diavolo però non si tratta per
nulla di una sconfitta definitiva, e infatti il Terzo Vangelo non manca di annotare
che «il Diavolo si allontanò da lui fino al momento fissato» (Luca 4,13; áchri
kairoû): segnale che la vittoria di Gesù ha riguardato solo una battaglia, non la
guerra. La guerra nel NT dura fino all’ultima pagina, e per noi dura tuttora.
C’è poi la vittoria contro l’azione dei demòni che aggrediscono la psiche e il
corpo di molti esseri umani generando patologie. È soprattutto a questo livello che
i Vangeli presentano l’affermazione delle forze del bene, anzitutto da parte di
Gesù, il cui agire può essere descritto complessivamente come azione di
guarigione e di risanamento dalle forze del male, secondo le parole di Pietro in
casa del centurione Cornelio: «Gesù passò beneficando e risanando tutti coloro
che stavano sotto il potere del Diavolo» (Atti 10,38). Gesù stesso interpretava la
sua vittoria sulle forze del male e della malattia come il segno dell’arrivo del
regno di Dio: «Se io scaccio i demòni con il dito di Dio, allora è giunto a voi il
regno di Dio» (Luca 11,20). Secondo John Meier, esegeta e sacerdote cattolico
autore di un’opera monumentale in più volumi sul Gesù storico, «i Vangeli
sinottici presentano sette casi distinti di esorcismi eseguiti da Gesù».24
Nell’ordine con cui Meier li espone essi sono:
– Marco 1,23-28: l’indemoniato nella sinagoga di Cafarnao (parallelo in Luca
4,33-37);
– Marco 5,1-20: l’indemoniato di Gerasa (paralleli in Matteo 8,28-34 e Luca
8,26-39);
– Marco 9,14-29: il ragazzo posseduto (paralleli in Matteo 17,14-21 e Luca
9,37-42);
– Matteo 12,22-23: l’indemoniato muto (parallelo in Luca 11,14);
– Matteo 9,32-33: un altro indemoniato muto;
– Luca 8,2: Maria Maddalena;
– Marco 7,24-30: la figlia della donna sirofenicia (parallelo in Matteo 15,2128).
Il potere sulle forze del male viene trasmesso da Gesù ai discepoli, i quali
ottengono così il «potere di scacciare i demòni» (Marco 3,15), «potere sugli spiriti
impuri» (Marco 6,7), «forza e potere su tutti i demòni» (Luca 9,1) e di fatto
«scacciavano molti demòni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano»
(Marco 6,13), tornando pieni di gioia da Gesù: «Signore, anche i demòni si
sottomettono a noi nel tuo nome» (Luca 10,17). La risposta di Gesù è la seguente:
«Vedevo Satana cadere dal cielo come una folgore. Ecco, io vi ho dato il potere di
camminare sopra serpenti e scorpioni e sopra ogni potenza del Nemico: nulla
potrà danneggiarvi. Non rallegratevi però perché i demòni si sottomettono a voi;
rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nei cieli» (Luca 10,19-20).
È possibile quindi concludere che sui primi due ambiti su cui si estende il
potere satanico, lo spirito e il corpo, i Vangeli testimoniano l’azione vittoriosa di
Gesù e dei discepoli. Il NT riporta inoltre che l’azione vittoriosa continua anche
dopo la morte di Gesù, visto che a Gerusalemme «portavano gli ammalati persino
nelle piazze, ponendoli su lettucci e barelle, perché, quando Pietro passava,
almeno la sua ombra coprisse qualcuno di loro, ed anche la folla delle città vicine
a Gerusalemme accorreva, portando malati e persone tormentate da spiriti impuri,
e tutti venivano guariti» (Atti 5,15-16). Il potere terapeutico di Pietro viene
attribuito dal libro degli Atti anche al diacono Filippo, la cui azione fa sì che «da
molti indemoniati uscivano spiriti impuri emettendo alte grida e molti paralitici e
storpi furono guariti» (Atti 8,7), e all’apostolo Paolo che a Listra in Anatolia
guarisce un uomo «storpio sin dalla nascita» (Atti 14,8). Era quindi logico che
Paolo, elencando i vari carismi di cui lo Spirito arricchiva la comunità cristiana,
menzionasse «il dono delle guarigioni» (1Corinzi 12,9 e 12,28).
Una vittoria che tarda a manifestarsi
Che cosa dire però degli altri due ambiti su cui le forze del male esercitano il
loro potere, cioè la società umana e la dimensione della trascendenza? Qui la
situazione è molto diversa, perché si tratta di fare i conti con l’attesa, rivelatasi
vana, della prossima venuta del Figlio dell’uomo che avrebbe messo fine alla
storia e instaurato il regno di Dio. L’evento era stato annunciato esplicitamente e
più volte da Gesù:
– Matteo 10,23: «In verità io vi dico: non avrete finito di percorrere le città di
Israele, prima che venga il Figlio dell’uomo»;
– Matteo 16,28: «In verità io vi dico: vi sono alcuni tra i presenti che non
moriranno, prima di aver visto venire il Figlio dell’uomo con il suo regno»
(paralleli in Marco 9,1 e Luca 9,27);
– Matteo 24,30: «In verità io vi dico: non passerà questa generazione prima
che tutto questo avvenga» (paralleli in Marco 13,30 e Luca 21,32);
– Matteo 26,64: «Anzi io vi dico: d’ora innanzi vedrete il Figlio dell’uomo
seduto alla destra della Potenza e venire sulle nubi del cielo» (paralleli in Marco
14,62 e Luca 22,69; Luca però omette il «venire sulle nubi del cielo»).
La fine del potere satanico sul mondo è strettamente legata da Gesù alla venuta
del regno di Dio sulla terra, alla venuta del Figlio dell’uomo. Ciò appare evidente
anche dalla parabola del seme buono e della zizzania, spiegata da Gesù dicendo
che «la mietitura è la fine del mondo» (Matteo 13,39), oppure dalla parabola della
rete, conclusa da Gesù dicendo «così sarà alla fine del mondo, verranno gli angeli
e separeranno i cattivi dai buoni» (Matteo 13,49). Il regno di Dio, che per la
Bibbia ebraica è il mondo reale in tutte le sue manifestazioni, non sempre perfette
ma sempre controllate da Dio così che veramente «Yhwh regna» (Salmo 97,1),
per il NT è così distante da questo mondo che il suo avvento deve coincidere con
la fine di questo mondo. È per questo motivo che i discepoli chiedono a Gesù
«quale sarà il segno della tua venuta e della fine del mondo» (Matteo 24,3;
paralleli in Marco 13,4 e Luca 21,7; domanda ripetuta al Risorto in Atti 1,6),
ricevendo in risposta da Gesù un oscuro discorso escatologico il cui succo è
racchiuso nel detto di Matteo 24,36: «Quanto a quel giorno e a quell’ora, nessuno
lo sa, né gli angeli del cielo né il Figlio, ma solo il Padre» (parallelo in Marco
13,32; cfr. anche Atti 1,7: «Non spetta a voi conoscere tempi o momenti»).
È però sicuro che quell’evento, benché di data ignota, per Gesù e per i primi
cristiani doveva essere alquanto prossimo, racchiuso nell’arco di una generazione
umana, così che alcuni avrebbero potuto sperimentarlo da vivi. Così scrive san
Paolo nel più antico scritto neotestamentario, la 1Tessalonicesi, datata dagli
studiosi verso il 48-50: «Questo vi diciamo sulla parola del Signore: noi che
viviamo e saremo ancora in vita per la venuta del Signore, non avremo alcun
vantaggio su quelli che sono morti. Perché il Signore stesso, a un ordine, alla voce
dell’arcangelo e al suono della tromba di Dio, discenderà dal cielo. E prima
risorgeranno i morti in Cristo; quindi noi, i vivi, i superstiti, saremo rapiti insieme
con loro tra le nuvole per andare incontro al Signore nell’aria» (1Tessalonicesi
4,15-17).
Queste parole manifestano l’evidente attesa di una prossima venuta gloriosa di
Cristo, così imminente da compiersi durante la vita terrena dell’autore. Anche in
1Corinzi 15,51 l’apostolo Paolo mostra la medesima attesa scrivendo «non tutti
certo moriremo, ma tutti saremo trasformati in un istante, in un batter d’occhio, al
suono dell’ultima tromba». Forte di questa convinzione, è logico che Paolo
incoraggiasse così i cristiani di Roma: «Il Dio della pace schiaccerà ben presto il
Satana sotto i vostri piedi» (Romani 16,20).
Tale attesa dell’imminente venuta del Signore detta tecnicamente parusía è
presente in ogni tradizione del NT:
– Ebrei 9,28: «Cristo apparirà una seconda volta»;
– Giacomo 5,8: «La venuta del Signore è vicina»;
– 1Pietro 1,5: «La salvezza sta per essere rivelata nell’ultimo tempo»; 4,7: «La
fine di tutte le cose è vicina»;
– Apocalisse 1,3: «Il tempo è vicino»; 22,20: «Sì, verrò presto».
In un mio libro precedente (L’anima e il suo destino, paragrafo 118) avevo
scritto che al riguardo occorre fare eccezione per il Quarto Vangelo, rifacendomi
in questo alla linea consolidata dell’esegesi che, sulla scia di Charles Harold
Dodd, lo legge nella luce della cosiddetta «escatologia realizzata».25 Non ci sono
dubbi infatti che si tratta della tendenza più accentuata di quest’opera, nella quale
la venuta del Figlio dell’uomo di cui parlano i Sinottici è sostituita dalla venuta
dello Spirito, come si legge per esempio in Giovanni 15,26: «Quando verrà il
Paraclito, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito della verità che procede dal
Padre, egli darà testimonianza di me»; anzi, tale venuta dello Spirito diviene
talmente centrale che tende persino a mettere in secondo piano Gesù: «Ma io vi
dico la verità: è bene per voi che io me ne vada, perché, se non me ne vado, non
verrà a voi il Paraclito; se invece me ne vado, lo manderò a voi» (Giovanni 16,7).
Proprio per questo però è ancor più significativo ritrovare persino nel Quarto
Vangelo una chiara attestazione dell’attesa escatologica nei termini tradizionali:
«In verità, in verità io vi dico: viene l’ora – ed è questa – in cui i morti udranno la
voce del Figlio di Dio e quelli che l’avranno ascoltata vivranno. [...] Non
meravigliatevi di questo: viene l’ora in cui tutti coloro che sono nei sepolcri
udranno la sua voce e usciranno, quanti fecero il bene per una risurrezione di vita
e quanti fecero il male per una risurrezione di condanna» (Giovanni 5,25 e 28-29).
Occorre inoltre aggiungere a proposito dell’Apocalisse che l’idea della
sconfitta in cielo del Diavolo, e della conseguente sua cacciata sulla terra dove si
aggira pieno di furore, conduce l’autore a profetizzarne una sconfitta anche sulla
terra: «E vidi un angelo che scendeva dal cielo con in mano la chiave dell’Abisso
e una grande catena. Afferrò il Drago, il Serpente antico, che è Diavolo e il
Satana, e lo incatenò per mille anni; lo gettò nell’Abisso» (20,1-3). Con queste
parole l’ultimo libro della Bibbia sembra quasi voglia chiudere il cerchio apertosi
con il primo libro biblico, perché la potenza satanica viene incatenata e gettata
proprio in quell’Abisso che rimanda al tehom o abisso primordiale di Genesi 1,2 e
per questo giustamente scritto al maiuscolo dalla Bibbia Cei (come già in
Apocalisse 9,11 per «l’angelo dell’Abisso»). Poco dopo però l’Apocalisse
aggiunge: «Quando i mille anni saranno compiuti, il Satana verrà liberato dal suo
carcere» (20,7), affermazione che ha condotto al cosiddetto millenarismo e ai
terrori che avvolsero l’Europa verso l’anno Mille della nostra era.
L’esito della vicenda cosmica è certamente dichiarato in modo esplicito dal
NT: esso sarà la vittoria finale di Dio e l’instaurazione del suo regno. Non si
tratterà però di un processo indolore né tanto meno evolutivamente armonioso,
ma di una violenta tragedia, come appare dal discorso escatologico di Gesù in cui
vengono menzionati (riprendo gli eventi in ordine sparso dalle diverse redazioni
sinottiche di Matteo 24, Marco 13 e Luca 21) «guerre, rumori di guerre,
sommosse, carestie, terremoti, pestilenze, fenomeni terrificanti, segni grandi dal
cielo», vengono profetizzati giorni in cui «molti si tradiranno e si odieranno a
vicenda» per un «dilagare dell’iniquità» e quindi «guai alle donne incinte e a
quelle che allattano», un evento che viene descritto al meglio nella sua atmosfera
complessiva dal seguente detto di Gesù: «Dovunque sia il cadavere, lì si
raduneranno gli avvoltoi» (Matteo 24,28). A questi eventi preparatori ne
seguiranno altri, dalle dimensioni cosmiche, perché «il sole si oscurerà, la luna
non darà più la sua luce, le stelle cadranno e le Potenze dei cieli saranno
sconvolte» (Matteo 24,29). Infine tutto sarà pronto per la vittoria definitiva di Dio
e l’instaurazione del suo regno di giustizia: «Allora comparirà in cielo il segno del
Figlio dell’uomo e allora si batteranno il petto tutte le tribù della terra, e vedranno
il Figlio dell’uomo venire sulle nubi del cielo con grande potenza e gloria. Egli
manderà i suoi angeli, con una grande tromba, ed essi raduneranno i suoi eletti dai
quattro venti, da un estremo all’altro dei cieli» (Matteo 24,30-31). Poco dopo
Gesù aggiungeva: «In verità io vi dico: non passerà questa generazione prima che
tutto questo avvenga» (Matteo 24,34).
Quest’aria di immane tragedia per la storia e per la natura che coincide con
l’instaurazione del regno di Dio è presente in tutti i libri del NT che parlano della
fine del mondo. Paolo usa termini come «ladro di notte», «rovina», «doglie»
(1Tessalonicesi 5,2-3), mentre in 2Pietro 3,13 si legge: «Aspettate e affrettate la
venuta del giorno di Dio, nel quale i cieli in fiamme si dissolveranno e gli
elementi incendiati fonderanno».
Il risultato finale si può esprimere mediante il concetto di palingenesi, termine
usato due volte nel NT (in Matteo 19,28 e in Tito 3,5) e traducibile con «nuova
genesi», «nuova creazione» o anche «rigenerazione» e che rimanda a un concetto
originariamente stoico legato a una visione ciclica della cosmologia, secondo cui
il cosmo nasce dal fuoco e nel fuoco ritorna per poi rinascere di nuovo in un
nuovo ciclo cosmico destinato al medesimo destino. Il NT rifiuta tale ciclicità e
connota la palingenesi come radicalmente nuova, tale da produrre uno stato
definitivo del mondo, un mondo mai visto prima, compiuto, senza la minima
traccia di imperfezione, «un cielo nuovo e una terra nuova» (Apocalisse 21,1),
«nuovi cieli e una terra nuova nei quali abita la giustizia» (2Pietro 3,13). In questo
mondo nuovo però la logica della giustizia retributiva tipica del mondo vecchio
sembra che debba rimanere invariata, con una conclusione molto amara per il
Diavolo: «E il Diavolo, che li aveva sedotti, fu gettato nello stagno di fuoco e
zolfo» (Apocalisse 20,10).
Vi sono però altri testi del NT che affermano una prospettiva diversa in base
alla quale la novità del regno di Dio apparirà anzitutto nella diversa logica che ne
struttura i rapporti, non più quella della giustizia retributiva, ma quella della
misericordia, una misericordia estesa a ogni essere così che Dio possa risultare
veramente «tutto in tutti» (1Corinzi 15,28). Tale prospettiva escatologica
radicalmente evangelica è nota sotto il nome di apocatastasi, una teoria sostenuta
da grandi Padri della Chiesa e scrittori ecclesiastici tra cui Clemente
Alessandrino, Origene, Gregorio di Nissa, Dionigi Areopagita, Massimo il
Confessore, in epoca contemporanea fatta propria da autorevoli teologi come Karl
Barth, Sergej Bulgakov, Hans Urs von Balthasar, ma purtroppo condannata
formalmente dal Magistero ecclesiastico con un editto del 543 dell’imperatore
Giustiniano confermato in seguito da papa Vigilio (cfr. DH 411) e da ben quattro
concili ecumenici (Costantinopoli II, III e IV e Nicea II).
48. Il passaggio dal satan ebraico al Satana cristiano
Nelle Scritture ebraiche il satan gioca un ruolo decisamente marginale, mentre
nel NT Satana o il Satana diviene un protagonista. Come mai? La causa di questa
evoluzione consiste a mio avviso nella progressiva spiritualizzazione della figura
divina: l’ombra del negativo venne progressivamente estromessa dal concetto di
Dio, così che Dio, dall’essere ritenuto origine sia del bene sia del male (Isaia 45,7:
«Io formo la luce e creo le tenebre, faccio il bene e provoco il male, io, il Signore,
compio tutto questo»), giunse a essere identificato solo con la pura luce, senza
nessuna traccia di tenebra: «Dio è luce e in lui non c’è tenebra alcuna»
(1Giovanni 1,5). L’ombra del negativo rimase così senza dimora, ma, rimandando
pur sempre a un fenomeno reale, creò la necessità di un’altra figura in cui farla
risiedere, figura che non fu difficile rintracciare in quell’antipatico angelo della
corte divina con funzione di pubblico ministero chiamato in ebraico satan.
L’ombra del negativo però era molto più forte di tale originario satan, così che lo
fece crescere enormemente d’importanza, facendolo passare dalla mera
designazione di un ruolo (il satan) a una precisa identità ipostatica, autonoma
rispetto a Dio e dotata di nome proprio (Satana).
Fu quindi l’espulsione del negativo dall’essenza divina al fine di pensarla
unicamente come amore a provocare nel NT una notevole amplificazione del
ruolo del satan ebraico, originariamente tanto modesto. Infatti o con il termine
Demonio (63 occorrenze compresi i plurali), o con Diavolo (37 occorrenze) o con
Satana (36 occorrenze), o con Spirito impuro (23 occorrenze compresi i plurali), o
con Maligno in quanto personificazione del male (19 occorrenze), o con Drago
(13 occorrenze), o con Beelzebul (7 occorrenze tutte sulla bocca di Gesù), o con
Anticristo (5 occorrenze), o con uno degli altri termini elencati sopra, gli scritti
del NT assegnano un ruolo di primo piano a questo nuovo protagonista biblico,
nominato all’incirca 220 volte – un dato per valutare il quale si consideri che
Maria la madre di Gesù è menzionata solo 39 volte (18 con il nome proprio e 21
come «madre di Gesù» o «sua madre»).
I risultati ottenuti si possono sintetizzare così:
– mentre nelle Scritture ebraiche tutto il controllo del mondo è riferito alla
divinità, sia nel bene sia nel male, e la vita è concepita come unitaria, per il NT
l’essere è dolorosamente diviso in due, con un Dio totalmente buono da un lato e
un mondo perlopiù cattivo detto «questo mondo» dall’altro;
– per alcuni passi neotestamentari la divisione riguarda persino la dimensione
della trascendenza, perché anche in cielo vi sono forze avverse a Dio;
– mentre nelle Scritture ebraiche tra Dio e il satan non vi è alcuna inimicizia
strutturale, nel NT tra Gesù e Satana emerge la più totale inimicizia.
Se però le cose stessero veramente come affermato dal NT, sarebbe molto
difficile o addirittura impossibile sfuggire alla domanda rivolta da un irochese a
un padre gesuita e riportata da Kant in una nota della sua opera sulla religione:
«Padre Charlevoix narra che un catecumeno irochese, al quale stava spiegando
tutto il Male che lo Spirito maligno ha introdotto nella creazione originariamente
buona e tutti i continui tentativi da lui compiuti per vanificare le migliori
istituzioni divine, gli chiese con impazienza: “Ma perché Dio non uccide il
Diavolo?”, e confessa francamente di non aver saputo trovare lì per lì nessuna
risposta».26
La difficoltà di un gesuita francese del Settecento nel rispondere all’obiezione
così efficace nella sua semplicità di un nativo nordamericano dimostra la grande
aporia che si trova al centro della dogmatica cattolica riguardo al problema del
male. Essa discende direttamente dal mito della perfezione iniziale secondo cui il
mondo venne creato come perfettamente governato dal logos, mentre il caos con
il negativo che esso comporta venne introdotto in un secondo tempo a seguito di
un peccato, il peccato originale di Adamo ed Eva, il quale però venne provocato a
sua volta da un peccato ancora più originale, a cui, secondo la dogmatica
tradizionale, va ricondotta la vera e propria archeologia del negativo.
VIII. ARCHEOLOGIA DEL NEGATIVO: UN
PECCATO DEGLI ANGELI?
49. La necessità di una spiegazione
Il negativo attraversa le nostre esistenze e le fa gemere. Secondo
l’insegnamento del Buddha esso coincide con la struttura stessa dell’esistenza,
come si legge nel suo primo fondamentale discorso tenuto nell’odierna S?rn?th,
cittadina indiana nei pressi di Varanasi-Benares: «Questa, o monaci, è la nobile
verità del dolore [dukkha]: la nascita è dolore, la vecchiezza è dolore, la malattia è
dolore, la morte è dolore, l’unione con ciò che non è caro è dolore, la separazione
da ciò che è caro è dolore, il non ottenere ciò che si desidera è dolore».1 La prima
nobile verità insegnata dal Buddha, fondamento e logica strutturante di tutte le
altre, concerne il negativo e il dolore che esso provoca nei viventi. Il Buddha non
si preoccupa di specificare le cause metafisiche di questo negativo, prende
semplicemente atto che esso impasta la vita, e offre i risultati delle sue
meditazioni come sentiero per liberarsene e per aiutare gli altri a fare altrettanto.
Anche per la rivelazione biblica l’esistenza è dolore-dukkha, basti ricordare le
parole del Salmo: «Si logora nel dolore la mia vita, i miei anni passano nel
gemito; inaridisce per la pena il mio vigore e si consumano le mie ossa» (Salmo
31,11). Credendo però che il mondo è stato generato ed è governato da un Dio
personale alleato dell’uomo, la rivelazione biblica non può non preoccuparsi di
esaminare le cause di questo dolore che pervade l’esistenza dei viventi. In un
mondo di cui si predica che è creato e governato da un Dio personale e colmo di
amore, occorre dare spiegazione del negativo presente nella natura, nell’uomo e
persino nel mondo spirituale. La rivelazione biblica però, più che spiegarne in
senso stretto la causa, ne descrive ampiamente la presenza riconducendone
l’origine a misteriose entità mitologiche (i Mostri, le Signorie cosmiche, le
Potenze sataniche, a cui naturalmente è da aggiungere il Serpente sul quale mi
concentrerò alla fine di questo capitolo) che hanno tutte un’unica funzione: far
comprendere che il negativo viene prima della scelta consapevole dell’uomo. La
libertà umana con i suoi cedimenti non è la causa del negativo, ne è una
manifestazione; la causa va ricercata altrove, in una struttura dell’essere che
preesiste alla libertà umana. L’osservazione di un grande archeologo e biblista del
passato, il domenicano Marie-Joseph Lagrange (1855-1938), indica la strada su
cui il cristianesimo delle origini ha cercato di venire a capo del problema di un
mondo uscito buono, anzi «molto buono», dalle mani di Dio, ma presto ricolmo di
male e dolore. A proposito dei Mostri, padre Lagrange affermava che «per gli
scrittori sacri essi sono veramente esseri reali e temibili; lottarono nel principio
contro Dio, sono un primo accenno alla ribellione degli angeli».2
50. La dottrina del peccato degli angeli
Il cristianesimo ha avuto da sempre un urgente bisogno di risolvere il problema
dell’origine del male, la quaestio subtilis unde malum. È vero che tale problema
accompagna il pensiero umano fin dal suo sorgere, ma nel cristianesimo esso
acquista una speciale intensità perché, a differenza di altre religioni e prospettive
filosofiche, il cristianesimo non può rinunciare a nessuno di questi tre assunti:
– Dio è onnipotente e governa il mondo con giustizia (assunto a cui rinuncia il
dualismo);
– il male c’è (assunto a cui rinuncia il monismo);
– Dio è amore e vuole solo il bene (assunto a cui possono rinunciare
l’ebraismo e l’islam).
Comporre logicamente le tre asserzioni non è possibile, e questo suscita nella
mente cristiana una serie di perplessità compendiabili nel seguente interrogativo:
se il mondo è creato direttamente da Dio a partire dal nulla, quindi senza alcun
condizionamento che ne possa limitare l’agire, e se al contempo è governato in
ogni suo aspetto dall’onnipotenza divina, la quale è perfetta giustizia e non vuole
altro che il bene, come mai, in questo mondo, vi è così tanto male? Unde malum?
I testi del NT che parlano delle Potenze sataniche rispondono dicendo che il
male ha così tanto potere a causa dell’azione di Satana, «capo di questo mondo»
(Giovanni 12,31; 14,40; 16,11). Ma la mente non è soddisfatta perché la questione
si rinnova da sé: se ogni cosa è creata da Dio e quindi è originariamente buona,
anche Satana viene da Dio, quindi anche Satana è ontologicamente buono: come
può allora essere l’origine del male? Quale catastrofe deve essere avvenuta perché
una creatura di Dio si sia potuta corrompere a tal punto da dare origine al male e
devastare con tanta determinazione il mondo creato? Unde Satanas? Sono
domande antiche che assediano da secoli la mente cristiana. Già Agostino,
indagando l’origine del male, si interrogava così: Si diabolus auctor, unde ipse
diabolus? («Se il diavolo è l’autore, da dove viene lo stesso diavolo?»).3
Si impose quindi la necessità di trovare un nesso tra queste due asserzioni
contrastanti: l’origine divina del mondo e quindi la bontà sostanziale di ogni
entità, Diavolo compreso (Genesi 1,31: «Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era
cosa molto buona»), e la condizione attuale del mondo, attraversata e talora
dominata da dolore, morte, ingiustizia (1Giovanni 5,19: «Tutto il mondo sta in
potere del Maligno»). Il nesso venne trovato dal cristianesimo nel peccato
angelico, detto anche ribellione, caduta, apostasia degli angeli, che divenne così
una specie di mega peccato originale dagli effetti cosmici. Il primo di essi fu
naturalmente la trasgressione di Adamo ed Eva nota come peccato originale,
secondo il Catechismo «un fatto accaduto all’inizio della storia dell’uomo» a
seguito del quale «tutta la storia umana è segnata dalla colpa originale
liberamente commessa dai nostri progenitori» (art. 390). Viene così messo in atto
un progressivo procedimento a ritroso: il male e la morte presenti nel mondo
rimandano alla colpa dei progenitori, la quale a sua volta rimanda a una colpa
ancora più originaria commessa dagli angeli. Così scrive il Catechismo: «Dietro
la scelta disobbediente dei nostri progenitori c’è una volontà seduttrice, che si
oppone a Dio, la quale, per invidia, li fa cedere nella morte. La Scrittura e la
Tradizione della Chiesa vedono in questo essere un angelo caduto, chiamato
Satana o diavolo» (art. 391).
Riproducendo tale prospettiva tradizionale, Jorge Mario Bergoglio afferma
così nel dialogo con Abraham Skorka, rabbino di Buenos Aires: «Il Demonio è,
teologicamente, un essere che scelse di non accettare il piano di Dio. Il
capolavoro del Signore è l’uomo, alcuni angeli non lo accettarono e si ribellarono.
Il Demonio è uno di loro». E più avanti: «Il male è entrato nel mondo per astuzia
del Demonio che divenne invidioso perché Dio aveva fatto l’uomo come l’essere
più perfetto. Per questo il Demonio entrò nel mondo».4 E nelle sue omelie e nei
suoi discorsi da vescovo di Roma papa Francesco è tornato spesso a citare il
Diavolo, attribuendogli una presenza reale e una personalità altrettanto reale.
Ma che tipo di importanza riveste all’interno della dottrina cattolica la
credenza nel peccato angelico? Si tratta di un dogma di fede che ogni credente è
tenuto a professare, oppure lo si può considerare un mito che ha solo una valenza
simbolica?
Il Dictionnaire de Théologie Catholique scrive che «è di fede divina che vi
sono degli angeli decaduti»,5 e lo stesso afferma Michael Schmaus (1897-1993),
uno dei professori di Joseph Ratzinger, nel suo classico manuale di teologia
dogmatica: «Non tutti gli angeli vennero fatti partecipi della perfezione
soprannaturale a cui erano destinati: alcuni peccarono e furono condannati
all’eterna dannazione. È dogma di fede».6 Quale fonte della dogmaticità,
Schmaus rimanda a questa proposizione del concilio Lateranense IV del 1215: «Il
diavolo e gli altri demòni sono stati creati da Dio buoni per natura, ma essi stessi
da sé si sono fatti malvagi» (DH 800).
A seguito di crescenti critiche verso tale prospettiva tradizionale la
Congregazione per la dottrina della fede chiese a un esperto di lingua francese
rimasto anonimo di redigere un apposito documento sulla demonologia che venne
pubblicato il 26 giugno 1975 con il titolo Foi chrétienne et démonologie, nel
quale si legge che l’affermazione del Lateranense IV ha «valore dogmatico» e che
«l’esistenza del mondo demoniaco si rivela come un dato dogmatico».7 A
proposito dell’esistenza di angeli decaduti e con ciò divenuti diavoli, Paolo VI in
precedenza aveva affermato in un celebre discorso del 15 novembre 1972: «Esce
dal quadro dell’insegnamento biblico ed ecclesiastico chi si rifiuta di riconoscerla
esistente; ovvero chi ne fa un principio a sé stante, non avente essa pure, come
ogni creatura, origine da Dio; oppure la spiega come una pseudo-realtà, una
personificazione concettuale e fantastica delle cause ignote dei nostri malanni».8
Secondo Paolo VI sia chi attribuisce al Diavolo un’esistenza originaria (deviando
per così dire a destra), sia chi riduce la sua figura a un simbolo escogitato per
spiegare l’origine ignota di alcuni malesseri (deviando per così dire a sinistra),
non si può più definire cristiano, perché «esce dal quadro dell’insegnamento
biblico ed ecclesiastico». Direi che è davvero difficile attribuire al dato del
peccato angelico un più alto tasso di dogmaticità! Per questo il documento del
1975 pubblicato dalla Congregazione per la dottrina della fede sottolineava a
proposito del discorso di Paolo VI del 1972 che «né gli esegeti né i teologi
dovrebbero trascurare questo avvertimento» e si chiudeva ricordando la
definizione papale secondo cui il principio del male «è un essere vivo, spirituale,
pervertito e pervertitore».9
L’attuale Catechismo presenta il peccato degli angeli come parte integrante
della dottrina cattolica in quattro articoli (391-393 e il riassuntivo 414). In essi si
sostiene che «dietro la scelta disobbediente dei nostri progenitori c’è una volontà
seduttrice che si oppone a Dio», «un angelo caduto chiamato Satana o diavolo», il
quale «all’inizio era un angelo buono» ma che (il Catechismo passa al plurale)
«da se stessi si sono trasformati in malvagi». Si specifica inoltre che «tale caduta
consiste nell’avere, questi spiriti creati, con libera scelta, radicalmente e
irrevocabilmente rifiutato Dio e il suo regno», e che si tratta di un peccato che non
può essere perdonato per «il carattere irrevocabile della loro scelta». Il riassuntivo
articolo 414 compendia la materia come segue: «Satana o il diavolo e gli altri
demoni sono angeli decaduti per avere liberamente rifiutato di servire Dio e il suo
disegno. La loro scelta è definitiva. Essi tentano di associare l’uomo alla loro
ribellione contro Dio».
Occorre prestare attenzione a quanto osserva poco dopo il Catechismo sul
rapporto tra l’azione del Diavolo e il governo onnipotente di Dio, perché si tratta
di uno degli aspetti più problematici della dottrina cattolica nella sua attuale
conformazione, tale da generare a mio avviso una vera e propria aporia. Ecco il
passo in questione, tratto dall’articolo 395: «Sebbene Satana agisca nel mondo per
odio contro Dio e il suo Regno in Cristo Gesù, e sebbene la sua azione causi gravi
danni di natura spirituale e indirettamente anche di natura fisica per ogni uomo e
per la società, questa azione è permessa dalla divina Provvidenza, la quale guida
la storia dell’uomo con forza e dolcezza». Gli autori del Catechismo,
probabilmente preavvertendo la perplessità destinata a generarsi nella mente,
aggiungono: «La permissione divina dell’attività diabolica è un grande mistero».
Tornerò su questo punto, ma ora riassumo schematicamente i dati essenziali della
dottrina cattolica sul peccato angelico in quanto origine del male:
– esiste uno spirito dotato di volontà di seduzione, chiamato Satana o Diavolo,
«un essere vivo, spirituale, pervertito e pervertitore [...] il nemico numero uno, il
tentatore per eccellenza. Sappiamo che questo essere oscuro e conturbante esiste
davvero»;10
– esso è un angelo decaduto, creato cioè buono ma poi divenuto malvagio;
– è divenuto malvagio a causa di una libera scelta connotabile come peccato;
– si tratta di un peccato imperdonabile;
– a seguito di questo peccato l’Angelo è divenuto il Diavolo;
– la sua azione sulla terra consiste nella tentazione al male;
– il Figlio di Dio è venuto per distruggere le sue opere;
– la sua azione attuale è permessa dalla divina provvidenza;
– la ragione di questa concessione è ignota e rimane «un grande mistero».
Non tutti i teologi però sono d’accordo sul fatto che il peccato angelico possa
essere definito un dogma di fede; è significativo che persino un teologo
conservatore come René Laurentin sia giunto a scrivere che «il demonio non è
oggetto di dogma».11 Molti biblisti e molti teologi escludono che la fede cristiana
possa obbligare ad ammettere l’esistenza del Diavolo e dei suoi angeli malefici in
quanto esseri personali, o perché non è chiaro l’insegnamento della rivelazione al
riguardo, o perché occorre semplicemente liberarsi del falso mito del Diavolo
retaggio di una visione del mondo decisamente superata.12 Ed è sorprendente che
tra questi teologi vi sia l’attuale Prefetto della Congregazione per la dottrina della
fede, il tedesco Gerhard Ludwig Müller, il quale scrive così nella sua Dogmatica
cattolica: «L’esistenza e l’attività degli angeli non sono un oggetto esplicito di
fede. Nella cornice della gerarchia delle verità rivelate basata sul loro rapporto
con il centro, la dottrina dell’esistenza e della rilevanza storico-salvifica degli
angeli è solo un tema di secondaria importanza. È una dottrina
concomitantemente creduta dalla Chiesa e rimessa nei suoi singoli punti alla fides
implicita». In particolare, per quanto riguarda il Diavolo, Müller afferma: «Non
c’è nessuna ragione per una fede nel diavolo a sé stante».13 Mentre per Paolo VI
la realtà del Diavolo è di una tale importanza che «esce dal quadro
dell’insegnamento biblico ed ecclesiastico chi si rifiuta di riconoscerla esistente»,
per l’attuale custode dell’ortodossia cattolica «l’esistenza e l’attività degli angeli
non sono un oggetto esplicito di fede», secondo una linea su cui si era già
espresso Walter Kasper, uno dei più noti teologi cattolici tedeschi attualmente
cardinale: «Non si potrà nemmeno credere, in senso propriamente teologico, al
diavolo».14
Le idee non sembrano molto chiare e forse anche così si spiega l’incertezza
che a mio avviso si riscontra nella teologia di Joseph Ratzinger. In un contributo
del 1973 sul male e sul Diavolo, Ratzinger fece uso del concetto di relazione, la
categoria decisiva della filosofia di Martin Buber. Per Buber la relazione è il
raccordo che trasforma un individuo in una persona, ciò che fa di un punto isolato
un centro di rapporti; se noi abbiamo una personalità, anzi se noi siamo una
personalità, lo si deve alle nostre relazioni, al nostro esistere tra altre persone e ai
legami costitutivi che ne discendono; l’uomo, scrive Buber, «diventa io a contatto
con il tu».15 Il principio dell’essere persona è l’armonia delle relazioni, e quanto
più si cresce nella capacità di armonia relazionale, tanto più si cresce nell’essere
persona. Il che è esattamente il cuore della teologia trinitaria di Tommaso
d’Aquino, il cui principio è personae sunt ipsae relationes subsistenses («le
persone sono le stesse relazioni sussistenti»).16
Ebbene, secondo Ratzinger il Diavolo va pensato come una realtà che «si
dirige contro quel rapporto saldamente stabilito che lega gli uomini l’uno
all’altro», per cui «si chiarifica una particolarità tutta specifica del demoniaco,
cioè la sua assenza di fisionomia, la sua anonimità». Segue la frase più
importante: «Quando si chiede se il diavolo sia una persona, si dovrebbe
giustamente rispondere che egli è la non-persona, la disgregazione, la
dissoluzione dell’essere persona e perciò costituisce la sua peculiarità il fatto di
presentarsi senza faccia, il fatto che l’inconoscibilità sia la sua forza vera e
propria».17 La medesima prospettiva è affermata da Walter Kasper: «Il diavolo
non è una figura personale bensì una non-figura che si dissolve in qualcosa di
anonimo e senza volto, un essere che si perverte nel non-essere: è persona nel
modo della non-persona [...]. Egli esiste personalmente nel modo della
decomposizione e dissoluzione del personale».18
Io sono d’accordo con questa definizione del Diavolo come «non-persona»
proposta da due autorevoli teologi di cui uno è diventato papa e l’altro cardinale,
ma mi chiedo in che senso essa possa combinarsi con l’affermazione di un altro
papa, Paolo VI, secondo cui il Diavolo è «un essere vivo, spirituale». Un essere
vivo e spirituale infatti è precisamente ciò che noi definiamo persona. Ne viene
che la definizione del Diavolo come non-persona, o come dissoluzione dell’essere
persona, dovrebbe logicamente portare a negare che esso sia un essere vivo e
spirituale, ovvero a negarne l’esistenza in senso reale (il Diavolo come persona
non esiste) per affermarne l’esistenza in senso simbolico (esiste la diabolicità,
cioè la concreta possibilità della separazione dalla sorgente della vita e
dell’armonia). Ancora più difficile del resto è conciliare la frase di Ratzinger
citata sopra con un’altra frase dello stesso Ratzinger, secondo cui «checché ne
dicano certi teologi superficiali, il Diavolo è, per la fede cristiana, una presenza
misteriosa ma reale, personale, non simbolica».19 Come può la non-persona
(Ratzinger 1973) essere al contempo una presenza personale (Ratzinger 1985)?
Qualcuno ha mai visto una curva dritta?
Un alone di incertezza avvolge la dottrina cattolica sul Diavolo, sulla sua
personalità e sul suo peccato all’origine del male, e lascia la mente in preda alla
perplessità, incapace di chiarirsi le idee sulla duplice questione dell’unde malum e
dell’unde Sátanas.
51. Radici bibliche ed extrabibliche
Se il peccato angelico non si può fondatamente definire un dogma, penso sia
lecito parlarne come di un teologumeno, intendendo con questo termine un
enunciato teologico che non è stato oggetto di un pronunciamento diretto del
Magistero (e per questo non è un dogma) ma che è virtualmente contenuto in altri
enunciati dogmatici e quindi richiede un’attenta considerazione. Per questo è
importante indagarne le radici.
Il NT accenna a un peccato degli angeli a causa del quale essi furono cacciati
dal cielo in due scritti minori e tardivi, la 2Pietro e la Lettera di Giuda. Ecco i due
testi:
– 2Pietro 2,4: «Dio non risparmiò gli angeli che avevano peccato, ma li
precipitò in abissi tenebrosi, tenendoli prigionieri per il giudizio»;
– Giuda 6: «Tiene in catene eterne, nelle tenebre, per il giudizio del grande
giorno, gli angeli che non conservarono il loro grado ma abbandonarono la
propria dimora».
Entrambi i testi affermano che gli angeli ribelli ora sono prigionieri, incatenati
nelle tenebre in attesa del giudizio divino, e perciò, occorre dedurne,
impossibilitati a nuocere. Tali testi quindi non potevano fornire una spiegazione
risolutiva alla questione del male. Tuttavia fornirono la traccia lungo la quale
cercare e per i primi pensatori cristiani la figura della ribellione angelica divenne
la chiave con cui rispondere alla doppia questione unde malum e unde Sátanas.
In verità l’idea della ribellione degli angeli sorge prima della nascita del
cristianesimo in ambiente ebraico, in quella letteratura intertestamentaria nota
anche come Apocrifi dell’Antico Testamento. Tra la decina di opere che ne fanno
parte è di grande importanza per la nostra ricerca il Libro di Enoc, detto anche
Enoc etiopico perché pervenutoci per intero nella traduzione in lingua ge’ez e
talora scritto Enoch. Si tratta di un’opera composita, consistente di cinque testi tra
loro cronologicamente distanti che vanno dal IV al I secolo a.C. e dei quali il più
antico è intitolato Libro dei Vigilanti. Questo scritto costituisce il primo
documento conosciuto che si sofferma in modo approfondito sull’evento
considerato ancora oggi dal Catechismo della Chiesa cattolica l’origine di tutti i
mali. I due testi del NT citati sopra, 2Pietro 2,4 e Giuda 6, vi si rifanno
esplicitamente, anzi, l’autore della Lettera di Giuda ne cita addirittura un passo
(Giuda 14-15: «Profetò anche per loro Enoc, settimo dopo Adamo, dicendo:
“Ecco il Signore è venuto con migliaia e migliaia dei suoi angeli...”; la citazione è
tratta da Enoc I,1,9), a significare quanta importanza tale testo rivestisse per lui
che probabilmente lo riteneva ispirato. E non era il solo, visto che fino al III
secolo il Libro di Enoc veniva considerato parola di Dio anche da altri cristiani,
tra cui l’anonimo autore della Epistola di Barnaba, Atenagora, Clemente
Alessandrino, Tertulliano; altri, pur non considerandolo ispirato, lo leggevano con
grande venerazione, come nel caso di Ireneo.20
Inaugurando una prospettiva destinata ad avere grande fortuna nei secoli
successivi, il Libro di Enoc presenta così l’evento che avrebbe dato inizio
all’imperversare del male nel mondo: «Ed accadde, da che aumentarono i figli
degli uomini, che in quei tempi nacquero, ad essi, ragazze belle di aspetto. E gli
angeli, figli del cielo, le videro, se ne innamorarono, e dissero fra loro: “Venite,
scegliamoci delle donne tra i figli degli uomini e generiamoci dei figli”». Dopo
aver detto che si trattava di duecento angeli e averne nominato i principali, il testo
prosegue: «E si presero, per loro, le mogli ed ognuno se ne scelse una e
cominciarono a recarsi da loro. E si unirono con loro ed insegnarono ad esse
incantesimi e magie, e mostrarono loro il taglio di piante e radici. Ed esse
rimasero incinte e generarono giganti la cui statura, per ognuno, era di tremila
cubiti».21
All’inizio di tutte le disgrazie del mondo, quindi, c’è il desiderio sessuale, la
concupiscentia carnis. Fu essa che si impadronì di alcuni angeli spingendoli ad
abbandonare il cielo e a rivolgersi alla più seducente delizia della terra, la bellezza
femminile. Nello scrivere queste cose l’autore del Libro di Enoc non si
abbandonava certo alla fantasia, ma aveva in mente uno specifico brano della
Bibbia di cui intendeva fornire una narrazione allargata per spiegarne e
approfondirne il senso. Ecco il testo della Genesi a cui rimanda il Libro di Enoc:
«Quando gli uomini cominciarono a moltiplicarsi sulla terra e nacquero loro delle
figlie, i figli di Dio videro che le figlie degli uomini erano belle e ne presero per
mogli a loro scelta. Allora Yhwh disse: “Il mio spirito non resterà sempre
nell’uomo, perché egli è carne e la sua vita sarà di centoventi anni”. C’erano sulla
terra i giganti a quei tempi – e anche dopo –, quando i figli di Dio si univano alle
figlie degli uomini e queste partorivano loro dei figli: sono questi gli eroi
dell’antichità, uomini famosi» (Genesi 6,1-4).
Qui ovviamente il problema consiste nel determinare l’identità di questi «figli
di Dio», e al riguardo la Bibbia di Gerusalemme informa che «l’ebraismo
posteriore e quasi tutti i primi scrittori ecclesiastici hanno visto in questi figli di
Dio angeli colpevoli»; colpevoli, occorre aggiungere, di una trasgressione di
natura sessuale. In questa interpretazione il Libro di Enoc venne seguito dal Libro
dei Giubilei, dal Testamento dei dodici patriarchi e da altri testi della letteratura
intertestamentaria. Così per esempio il Libro dei Giubilei: «E fu quando i figli
dell’uomo cominciarono a moltiplicarsi sulla terra e nacquero ad essi delle figlie
che gli angeli del Signore le videro nell’anno uno di questo giubileo e, poiché
erano belle a vedersi, si presero mogli tra tutte quelle che scelsero ed esse
generarono loro dei figli e questi erano giganti. E crebbe la malvagità sulla terra e
tutti gli esseri corruppero il loro modo di vivere, dagli uomini agli animali».22
Nel Libro di Enoc la narrazione continua mostrando le devastanti conseguenze
del peccato angelico. Esse si manifestarono anzitutto nell’alimentazione, perché
prima ci si nutriva senza ricorrere alla violenza, ma dopo il peccato
«cominciarono a peccare contro gli uccelli, gli animali, i rettili, i pesci e a
mangiarsene tra loro la carne e a berne il sangue». La situazione precipitò a tal
punto che gli orribili giganti generati dalle donne in seguito all’unione carnale con
gli angeli «si voltarono contro di loro per mangiare gli uomini».23 Gli angeli
decaduti insegnarono poi agli esseri umani a costruire armi («spade, coltello,
scudo, corazza da petto»), gioielli («braccialetti, ornamenti, pietre preziose»),
cosmetici («tingere e abbellir le ciglia»); istruirono «gli incantatori e i tagliatori di
radici», svelarono «la soluzione degli incantesimi», fecero vedere come leggere «i
segni degli astri» e praticare l’astrologia, con il risultato di un «cambiamento del
mondo» che portò a «grande scelleratezza e molto fornicare» così che «tutta la
terra si riempì di sangue e di pravità».24 Il principale responsabile di questa
situazione è individuato dal Libro di Enoc nel capo dei duecento angeli ribelli,
presentato ora con il nome di Semeyaza, ora con quello di Azazèl. Così il Libro di
Enoc fa parlare il Signore che si rivolge all’angelo Raffaele: «Tutta la terra si è
corrotta per aver appreso le opere di Azazel, ascrivi a lui tutto il peccato!».25
Entrato nel NT tramite due opere che, per quanto minori, sono comunque parte
del canone fondativo del cristianesimo, il mito del peccato degli angeli ebbe
grande fortuna nei primi secoli cristiani presso i Padri della Chiesa e poi nel corso
del medioevo presso gli scolastici fino a essere proclamato dal concilio
Lateranense IV nel 1215 (cfr. DH 800), con un tasso di dogmaticità su cui non c’è
accordo, ma che comunque è tale da farne parte integrante della dottrina cattolica
fino ai nostri giorni, come appare dai quattro articoli al riguardo dell’attuale
Catechismo.
52. Il peccato degli angeli nella riflessione teologica
Il peccato degli angeli è stato presente nella riflessione teologica del
cristianesimo fin dagli inizi dell’epoca patristica e, per quanto in misura molto
minore, neppure ai nostri giorni cessa di essere oggetto di indagine.26 Se nessun
Padre della Chiesa ha mai avuto dubbi sul fatto che il Diavolo fosse un Angelo
apostata, sul momento e soprattutto sul motivo della sua apostasia si riscontrano
diverse tradizioni. Quanto al momento, vi era chi lo poneva prima della creazione
dell’uomo e del tutto indipendentemente da esso; chi lo riteneva coincidente con
il peccato di Adamo ed Eva nel senso che esso consistette esattamente con la
tentazione che li fece cadere; e chi lo poneva dopo la creazione degli uomini
identificandolo con l’attrazione di natura sessuale provata dagli angeli per alcune
donne. All’indicazione del momento temporale corrispondeva evidentemente una
precisa interpretazione della natura del peccato angelico:
– se avvenuto prima della creazione dell’uomo, esso veniva inteso come
peccato di superbia verso Dio;
– se avvenuto contestualmente al peccato di Adamo ed Eva, esso veniva inteso
come invidia verso il genere umano;
– se avvenuto dopo la propagazione degli esseri umani per l’attrazione verso
alcune donne, esso veniva inteso come lussuria.
Queste tre diverse tipologie si ritrovano più o meno sovrapposte nei Padri della
Chiesa, fino a quando tra il IV e il V secolo si impose progressivamente la prima
di esse, ovvero che il peccato angelico avvenne prima della creazione dell’uomo e
consistette in un atto di superbia verso Dio.
A metà del II secolo Giustino (100-165) nella Prima apologia sostiene la natura
sessuale del peccato degli angeli: «Bisognerà dire la verità: nell’antichità, alcuni
dèmoni [daímones] malvagi nelle loro manifestazioni hanno sedotto delle donne».
Nella Seconda apologia ritorna sull’argomento e, dopo aver affermato che Dio
aveva affidato la cura degli uomini agli angeli, prosegue: «Ma gli angeli hanno
tradito quest’ordine, abbassandosi ad unioni con donne e generando figli, che
sono appunto quelli che chiamiamo dèmoni [daímones]».27 Per Giustino quindi il
peccato angelico ha natura sessuale.
Atenagora di Atene (133-190), di poco posteriore, distingue il peccato del
Principe dei demòni, da lui chiamato «principe della materia», da quello degli
angeli che lo seguirono, connotando sessualmente solo il secondo, mentre il
peccato primordiale sarebbe dipeso dal fatto che il principe della materia fu
«negligente e malvagio nel governo delle cose che gli erano state affidate».28
Tale distinzione verrà ripresa un secolo dopo da Clemente di Alessandria (150215).
Taziano il Siro (120-180) conosce un peccato degli angeli iniziato da «colui
che era più intelligente di tutti gli altri» a seguito del quale «i demòni divennero
depravati e cupidi», senza però specificare la natura di tale peccato. Egli parla
inoltre dei pianeti come «dèmoni erranti», ponendo così il seme della
trasformazione semantica del nome lucifero, che, da termine indicante il pianeta
Venere che appare all’aurora e quindi è luci-fero cioè portatore di luce, diventerà
il nome proprio di colui che è all’origine del male, Lucifero.29
Riprendendo la distinzione di Atenagora, Ireneo di Lione (130-202) scrive
nella sua opera maggiore dal titolo Adversus haereses (Contro le eresie) che il
Diavolo è un «angelo apostata e nemico» divenuto tale perché «fu geloso della
creatura plasmata da Dio» e «invidiò l’uomo»,30 sostenendo tra i primi in ambito
cristiano la tradizione secondo cui il peccato angelico consistette nella gelosia e
nell’invidia verso l’uomo, tradizione iniziata già in ambiente giudaico e che si
ritrova anche nel Corano.31 In un’opera minore però, l’Esposizione della dottrina
apostolica, Ireneo da un lato ribadisce che il peccato angelico consistette nella
gelosia e nell’invidia dell’uomo, dall’altro presenta una totale dipendenza dal
Libro di Enoc quanto alla natura sessuale del peccato angelico: «Perciò sulla terra
avvennero accoppiamenti illegittimi: gli angeli si accoppiavano con la
discendenza femminile degli uomini e furono partoriti figli che per la
straordinaria taglia furono chiamati Giganti. Allora questi angeli diedero in regalo
alle loro donne dottrine perverse: insegnarono loro i poteri delle piante e delle
erbe, l’arte delle tinture e dei cosmetici, la scoperta delle sostanze preziose, i filtri
magici, gli odi, gli amori, le passioni, le seduzioni d’amore, le catene magiche,
ogni genere di divinazione e di idolatria che Dio detesta. Una volta entrati nel
mondo i traffici malvagi ingrossarono e strariparono, mentre si assottigliava e
diminuiva la giustizia».32 In Ireneo quindi è presente sia la tradizione della
concupiscentia mentis sia quella della concupiscentia carnis.
La medesima doppia impostazione si ritrova in Tertulliano (160-220), cristiano
di lingua latina originario di Cartagine: Satana ha peccato per libera scelta (a
semetipso translatus in malum), trasformandosi da sé in un essere malvagio a
causa della gelosia e dell’invidia verso l’uomo, mentre il peccato degli angeli che
l’hanno seguito, al cui riguardo Tertulliano si rifà al Libro di Enoc ritenuto
canonico, è di natura sessuale.33
Molto più articolato è il pensiero di Origene di Alessandria (185-254). Egli
rigetta del tutto le affermazioni del Libro di Enoc sulla natura sessuale del peccato
angelico e, in coerenza con la sua visione del mondo come drammatica della
libertà («dipende da noi e dalle nostre azioni essere beati e santi oppure per
inerzia e negligenza passare dalla beatitudine al male e alla perdizione»34), parla
del peccato angelico come di un atto assolutamente volontario, consistente in una
mancanza di amore verso Dio a causa dell’orgoglio e della superbia, poiché il
Diavolo «ha attribuito a suo merito i privilegi che aveva quando era ancora
irreprensibile».35 Scoprendosi totalmente luminoso, il Diavolo si ritenne non un
semplice trasparente riflesso, ma la sorgente stessa della luce. In questa
prospettiva Origene interpreta due passi biblici concernenti due regnanti
innalzatisi ben al di là della condizione umana (la colpa che i greci chiamavano
húbris, cioè arroganza, eccesso) come riferimenti allegorici al peccato angelico. Il
primo brano è la profezia di Ezechiele 28,1-19 contro il re di Tiro, nella quale
ricorrono espressioni quali «il tuo cuore si è insuperbito e hai detto: Io sono un
dio, siedo su un trono divino in mezzo ai mari» (v. 2), «eri come un cherubino
protettore» (v. 14), seguite dall’esito di un tale gesto di superbia: «Io ti ho
scacciato dal monte di Dio e ti ho fatto perire, o cherubino protettore» (v. 16). Per
Origene tali espressioni «si riferiscono a una potenza contraria e chiaramente
dimostrano che essa prima era stata una potenza buona e santa, che è stata
precipitata giù dalla sua condizione beata e immersa nella terra dopo che in lei era
stato trovato il peccato [...] riteniamo che tali parole siano dette di un angelo».36
Il secondo brano, destinato a essere ancora più decisivo per l’immaginario
teologico occidentale, è la profezia di Isaia 14,4-23 contro il re di Babilonia, il cui
passo centrale ai versetti 12-15 è il seguente:
Come mai sei caduto da cielo,
astro del mattino [Lucifer nella versione latina], figlio dell’aurora?
Come mai sei stato gettato a terra,
signore di popoli?
Eppure tu pensavi nel tuo cuore:
«Salirò in cielo,
sopra le stelle di Dio
innalzerò il mio trono,
dimorerò sul monte dell’assemblea,
nella vera dimora divina.
Salirò sulle regioni superiori delle nubi,
mi farò uguale all’Altissimo».
E invece sei stato precipitato negli inferi,
nelle profondità dell’abisso!
Secondo Origene, «si vede chiaramente anche in questo passo che è caduto dal
cielo colui che prima era Lucifero e sorgeva al mattino [...]. Questi una volta era
luce, prima che prevaricasse e cadesse in questo luogo e la sua gloria si
tramutasse in polvere».37 Per quanto ne so, qui siamo in presenza del primo passo
che legge il versetto di Isaia 14,12 sull’astro del mattino portatore di luce (TM:
helel; LXX: E?sphóros; Volg: Lucifer)38 come direttamente riferito all’angelo
decaduto dalla condizione originaria a causa della sua superbia e divenuto il
Diavolo, trasformando così la sua condizione di luci-fero portatore di luce in
Lucifero, nome proprio del principe del male. Nelle Omelie su Ezechiele Origene
specifica che «l’orgoglio, la superbia, l’arroganza sono i peccati del diavolo ed è
per queste colpe che dovette lasciare il cielo [...]. La superbia è il più grande di
tutti i peccati e la principale colpa del diavolo stesso».39
Individuare nella superbia il peccato all’origine di tutti gli altri peccati
significa rimandare a qualcosa di molto profondo. Infatti in tutte le altre occasioni
di peccato dette «vizi capitali» l’energia vitale viene attratta da qualcosa di
esterno al sé, come il denaro per l’avarizia, il corpo altrui per la lussuria, il
successo altrui per l’invidia, cibi e bevande per la gola, una persona per l’ira,
oppure non viene attratta da nulla e si lascia spegnere come nel caso dell’accidia.
Nel caso della superbia invece siamo in presenza di un morboso
autocompiacimento dell’energia vitale in quanto attratta dal proprio sé, in una
vera e propria prigionia dell’ego da parte dell’ego che è la peggiore segregazione
che a un essere umano possa capitare, certamente la più difficile da cui liberarsi.
La superbia è la malattia della libertà in quanto prigioniera di se stessa e della
propria immagine, e per questo incapace di aprirsi agli altri e alla realtà. E
naturalmente a questa tenebrosa patologia sono maggiormente soggetti proprio
coloro che hanno fondati motivi per compiacersi di sé, i più belli, i più potenti e
soprattutto i più intelligenti, perché non c’è maggiore autocompiacimento
dell’intelligenza che contempla se stessa. Eccoci quindi al paradosso: la libertà
della mente nasce dalla capacità di capire la realtà, e quanto più si capisce la
realtà tanto più cresce la libertà verso di essa nella capacità di indipendenza e di
autodeterminazione; ma da questa stessa libertà frutto dell’intelligenza nasce
facilmente la schiavitù dell’intelligenza verso se stessa e la propria immagine,
così che la libertà si ritrova prigioniera di se stessa in un circolo autoreferenziale
tradizionalmente detto narcisismo. Si creda o no all’esistenza di Satana e al suo
primo fatale peccato, certamente dietro il mito della sua caduta vi sta questa reale
e drammatica condizione della libertà.
A seguito di Origene l’interpretazione di Isaia 14 e di Ezechiele 28 come
riferita alla caduta di Satana si impose progressivamente e condusse a privilegiare
la superbia quale essenza del peccato angelico, mentre l’interpretazione sessuale,
anche alla luce del fatto che nel frattempo il canone biblico si era chiuso senza
comprendere il Libro di Enoc, perse terreno fino a scomparire. Sulla linea della
concupiscentia mentis si muovono importanti figure tra il IV e il VI secolo quali
Basilio di Cesarea, Gregorio di Nazianzo, Ambrogio, Giovanni Crisostomo,
Agostino, Gregorio Magno. Ecco quanto scrive al proposito Agostino nel De
civitate Dei: «Se si domanda la causa dell’infelicità degli angeli cattivi, la si può
fondatamente trovare nell’allontanamento dall’essere sommo e nel rivolgersi
verso se stessi, cioè verso chi non è in modo sommo. Questa forma di corruzione
non si può chiamare che superbia».40 Per Agostino il peccato angelico consiste
nella superbia e la superbia è un «rivolgersi verso se stessi» (ad se ipsos conversi),
un essere attratti al sommo grado dal proprio sé, dalla propria immagine di sé,
subordinando, e quindi deformando, ogni altra relazione con la realtà.
Ma da dove viene questa fatale auto-attrazione? Come spiegare che in un
essere che è puro spirito, anzi il più eccelso di tutti i puri spiriti (superior inter
omnes per Tommaso d’Aquino),41 si sia introdotto il più esiziale dei vizi? Se lo
chiese a lungo anche sant’Agostino: «Se è stato il diavolo, da dove viene un
diavolo siffatto? E se anch’egli è diventato diavolo, da angelo buono che era, per
un atto di volontà perversa, da dove gli è venuta questa volontà malvagia di
diventare diavolo, dal momento che era stato fatto tutto angelo da un creatore
sommamente buono?».42 Dopo molta riflessione, la risposta di Agostino fu la
seguente: «Certo, se si ricerca la causa efficiente di questa volontà cattiva, non si
trova nulla: che cos’è infatti che rende la volontà cattiva, se non è essa stessa a
rendere un atto cattivo? Perciò è la volontà cattiva la causa di un atto cattivo,
mentre non c’è una causa della volontà cattiva».43 Più avanti Agostino specifica
che «la volontà diventa cattiva quando abbandona ciò che le è superiore per
volgersi verso l’inferiore, e non perché ciò verso cui si rivolge è cattivo, ma per il
carattere di perversione che assume questo suo rivolgersi. Dunque non è stata una
cosa inferiore a produrre una volontà cattiva, ma essa stessa è divenuta cattiva in
quanto ha desiderato in modo disordinato e abietto una cosa inferiore».44 La
conclusione è lapidaria: «Dunque nessuno ricerchi una causa efficiente della
cattiva volontà; tale causa infatti non è efficiente, ma deficiente, non è una
esecuzione, ma una defezione», e cercare di comprendere la causa di tale
defezione «è come voler vedere le tenebre o udire il silenzio».45 Si tratta della
medesima conclusione cui giungerà molti secoli dopo Immanuel Kant, con la sola
differenza che il filosofo non parlava dell’angelo ma di noi: «Noi dunque non
siamo in grado di concepire il fondamento da cui si sia potuto originare in noi il
Male morale».46
È possibile riassumere l’evoluzione della dottrina dicendo che al termine
dell’epoca patristica si erano affermati i seguenti punti fermi, che costituiscono
ancora oggi i cardini della dottrina cristiana sull’origine del male nella creazione
divina:
– tutte le creature sono create buone per natura, non esiste nulla di
intrinsecamente malvagio;
– c’è stato un peccato angelico, causa della caduta degli angeli dal cielo e
dell’origine del male nel mondo;
– questo peccato avvenne prima del peccato degli uomini e ne fu la causa
prossima;
– esso consistette in un atto di superbia;
– a commetterlo fu colui che era il primo tra gli angeli;
– il suo nome, in seguito alla lettura allegorica di Isaia 14,12, venne
individuato in Lucifero;
– altri angeli lo seguirono nella caduta;
– il loro numero, per quanto ignoto, è consistente;
– occorre escludere l’idea di rapporti sessuali tra gli angeli e alcune donne
poiché gli angeli non possunt coire corporaliter;47
– sulla terra il Diavolo e i suoi angeli hanno attualmente un forte potere;
– tale potere dipende però dalla concessione divina, che lo lascia sussistere per
provare gli uomini e accrescerne i meriti mediante la fortificazione della volontà;
– l’idea di una reintegrazione finale per il Diavolo e i suoi angeli (apocatastasi)
è da respingere, perché per loro, e per chi li ha seguiti, vi sarà la dannazione
eterna.
53. Un approfondimento speculativo
Anselmo d’Aosta (così lo chiamiamo noi italiani, per il resto del mondo è
Anselmo di Canterbury) tra il 1080 e il 1085 compose un’opera appositamente
dedicata al peccato angelico intitolata De casu diaboli (La caduta del diavolo), un
testo il cui ristretto numero di pagine è inversamente proporzionale alla profondità
speculativa. In sintesi Anselmo vi sostiene che il diavolo peccò perché volle
essere libero.
Si è visto che l’idea sulla natura del peccato angelico si era andata
specificando con il superamento definitivo della concezione del Libro di Enoc che
lo identificava nella lussuria. Tale interpretazione era risultata insostenibile per i
seguenti motivi: 1) per l’impossibilità di pensare che esseri puramente spirituali
quali gli angeli potessero avere un’unione carnale; 2) per la sconvenienza nella
predicazione; 3) per l’impossibilità di ricondurre al Diavolo il Serpente di Genesi
3 (se infatti il Diavolo fosse diventato tale a seguito del desiderio sessuale,
essendo le donne concupite evidentemente posteriori a Eva, egli non avrebbe
potuto esistere quando comparve il Serpente). Si era così universalmente imposta
l’interpretazione del peccato angelico come superbia, nel senso che il Diavolo
aveva peccato perché voleva essere come Dio o persino superiore a Dio.
Muovendosi in questa prospettiva, Anselmo precisa che l’angelo era
abbastanza intelligente da sapere che era impossibile farsi come Dio quanto a
potenza, cioè a un livello per così dire contenutistico. Tommaso d’Aquino due
secoli dopo ribadirà il concetto dicendo che «non è possibile che abbia desiderato
l’uguaglianza assoluta con Dio».48 Il Diavolo piuttosto si volle fare simile a Dio
a livello formale. Ecco le parole di Anselmo: «Volle qualcosa di sua volontà,
senza sottomettere a nessuno la sua volontà. Infatti il volere qualcosa di propria
volontà, senza obbedire a nessuna volontà superiore, deve essere prerogativa solo
di Dio».49 Il primo peccato del mondo, origine di tutti gli altri peccati, viene qui
interpretato come consistente in null’altro che nella libertà, visto che esso secondo
Anselmo avvenne come esercizio della signoria su se stessi, come
autodeterminazione: «Volle farsi uguale a Dio perché pretese di avere una sua
volontà».50 Per Anselmo il peccato angelico consistette nella pretesa di avere una
volontà propria, nella pretesa cioè di essere libero. Lo stesso dirà Tommaso
d’Aquino per il quale il peccato dell’Angelo consistette nel desiderare la
beatitudine «con la potenza della propria natura».51
E anche quando Anselmo poco dopo specifica (non senza contraddizione con
quanto detto prima) che il Diavolo «volle anche essere superiore a Dio», le cose
non mutano, perché tale superiorità è sempre di natura formale, nel senso che il
Diavolo volle essere superiore a Dio «volendo ciò che Dio non voleva che egli
volesse, e ponendo la sua volontà al di sopra di quella di Dio».52 Siamo sempre
alle prese con l’affermazione della libertà, della volontà di potenza della propria
natura.
Sul peccato del Diavolo occorre quindi concludere che esso non solo avvenne
con libertà, come la tradizione aveva sempre affermato, ma anche e soprattutto
che esso avvenne come libertà, in quanto desiderio di avere una volontà propria e
di esercitarla, libertà come liberazione dalla tutela altrui. Kant ne parlerebbe come
«uscita dallo stato di minorità», laddove la minorità «è l’incapacità di valersi del
proprio intelletto senza la guida di un altro», la «mancanza di decisione e del
coraggio di far uso del proprio intelletto senza essere guidati da un altro».53
Ma se le cose stanno così, si tratta veramente di un peccato? Oppure la
dimensione spirituale, a cui l’angelo decaduto appartiene di diritto, in un certo
senso persino impone questa autonomia? In che cosa consiste infatti la
dimensione spirituale, se non nel volere in prima persona, nella libertà? E chi
diede all’angelo la natura spirituale, se non Dio? L’angelo, allo stesso modo di
ogni altra creatura, non aveva nulla che non avesse ricevuto da Dio, quindi anche
la natura spirituale in quanto volontà-che-vuole gli venne donata da Dio, e quindi
non può essere male avere una volontà propria, perché si tratta di una
disposizione naturale ricevuta in dono dal Creatore. Anselmo inoltre specifica che
«se il voler essere simili a Dio fosse male, il Figlio di Dio non vorrebbe essere
simile al Padre»,54 e quindi non è male neppure tale desiderio di voler essere
come Dio, perché tutti gli esseri spirituali, a partire dal Figlio di Dio, vogliono
essere come Dio. Infatti la divinizzazione, la the?sis, è precisamente il loro fine.
In che cosa consiste dunque il peccato angelico?
Il peccato nasce quando la volontà non vuole più servire qualcosa di più
grande e più importante di sé, concetto espresso dalla lingua latina mediante il
termine ordo, che significa, come in italiano, sia ordine in quanto «comando», sia
ordine in quanto «disposizione oggettiva». La volontà rifiuta di conformarsi a un
ordine che la precede e che la norma, e si ripiega su se stessa, vuole solo se stessa,
e così cade in quell’autocompiacimento noto come superbia. A questo proposito è
interessante osservare come veniva concepita la superbia nell’ambiente monastico
di Anselmo: «La superbia è chiamata così perché essa si innalza al di sopra della
via in cui dovrebbe camminare, e infatti superbia significa super-gressio
(oltrepassamento). Così la volontà che non è sottomessa a Dio ma si eleva al di
sopra di lui è chiamata superbia. Essa è il cominciamento di ogni peccato poiché
da essa nasce ogni genere di peccato».55
Analogamente a sant’Agostino, anche sant’Anselmo si interroga sulla causa
del volere perverso dell’angelo e la sua conclusione è simile a quella agostiniana,
e a quella a cui, mutatis mutandis, giungerà Kant:
Discepolo: Perché volle ciò che non voleva?
Maestro: Nessun motivo precedette questa volontà se non il fatto che poté
volerlo [...]
Discepolo: Perché dunque volle?
Maestro: Semplicemente perché volle.56
Se Anselmo si fosse fermato qui, sarebbe stato necessario trarre la seguente
conclusione: all’origine del mondo spirituale, quale prima mossa che ne ha messo
in moto il dinamismo, vi è un che di arbitrario, un atto privo della benché minima
sensatezza, un gesto di anarchia nel senso etimologico di an-arché cioè assenza di
principio, vi è il caos. Questo però era evidentemente inaccettabile per una mente
come quella di Anselmo, così attratta da concetti quali ordo, necessitas, ratio,
necessitas rationis. Ecco quindi che verso la fine del De casu diaboli Anselmo
introduce alcune osservazioni tese a ricondurre l’origine del peccato angelico
sotto la giurisdizione della necessità divina. Il discepolo a un certo punto afferma:
«Vedo derivarne qualcosa che non credo debba essere ammessa e che tuttavia non
vedo come sia eludibile, se è vero quello che dici. Se infatti il voler essere simile
a Dio non è nulla, né è male, ma è un qualche bene, questo volere non può
derivare se non da Colui dal quale procede tutto ciò che è». Ne consegue,
conclude il discepolo, che se l’angelo «ebbe la volontà di essere simile a Dio, la
ebbe perché Dio gliela diede».57
Il maestro, senza scomporsi, risponde: «E che c’è di strano: come si dice che
Dio induce in tentazione, allo stesso modo possiamo ammettere che egli dia una
cattiva volontà, quando non la impedisce pur potendolo fare».58 Dio, per
Anselmo, è anche colui che dà malam voluntatem.
Poco sotto il maestro aggiunge: «Dunque cosa diciamo di contrario alla verità
se affermiamo che, quando il diavolo volle ciò che non doveva, ricevette questo
volere da Dio?». E anche se subito dopo Anselmo aggiunge che il Diavolo «al
tempo stesso non lo ricevette, poiché Dio non diede il suo assenso a quel
volere»,59 tuttavia il centro di gravità del suo ragionamento è teso a mostrare che
anche il peccato dell’angelo è determinato dal volere divino, e infatti poco dopo
afferma: «Quando dunque il diavolo volse la sua volontà a ciò che non doveva, il
suo stesso volere e lo stesso volgersi della volontà furono qualcosa, e tuttavia egli
non ebbe alcunché se non da Dio, poiché non poteva volere alcunché né volgere
la sua volontà se non con il permesso di Colui che ha creato tutte le nature
sostanziali e accidentali, universali e individuali».60
L’affermazione secondo cui il Diavolo ebbe da Dio la malam voluntatem era
evidentemente molto dura da mandare giù, e non a caso il discepolo mostra la sua
perplessità: «Che Dio crei le nature di tutte le cose è certo, ma chi può ammettere
che faccia essere le singole azioni delle volontà perverse, come pure il perverso
moto della volontà con il quale la cattiva volontà si determina?». Il maestro però è
fermo nel replicare: «Che c’è di strano se diciamo che Dio fa essere le singole
azioni che sono compiute con una volontà cattiva, quando ammettiamo che egli fa
esistere le singole sostanze che agiscono con una volontà ingiusta e con azioni
colpevoli?». Al che il discepolo osserva: «Non posso obiettare niente».61
Alla fine dell’opera il maestro puntualizza ancora che il volere dell’angelo
«venne da Dio, da cui viene tutto ciò che è qualcosa», per ribadire in conclusione
la tesi già affermata: «Dunque l’angelo cattivo prevaricò con il permesso di
Dio».62 Ovvero, come dice il proverbio, «non si muove foglia che Dio non
voglia».
Forse però, nonostante il discepolo non avesse nulla da obiettare, qualcosa da
obiettare c’è. Nella prospettiva affermata da Anselmo infatti il peccato angelico
all’origine del male, e quindi in ultima istanza lo stesso male, viene ricondotto al
volere di Dio, in quanto origine consapevole del moto della malam voluntatem.
Ma come accordare questa prospettiva con il fatto che «Dio è luce e in lui non c’è
tenebra alcuna» (1Giovanni 1,5)?
Il pensiero a questo punto si ritrova al cospetto di due alternative, entrambe
inaccettabili:
– o il mondo è ricondotto a un arbitrio privo di logica che non sia la superbia
di chi vuole semplicemente per il gusto di volere, una specie di primordiale Wille
zur Macht o volontà di potenza quale verrà celebrata da Nietzsche e realizzata dal
nazifascismo;
– o il mondo è ricondotto a una ferrea necessitas divina, che vuole tutto e
prevede tutto, persino la trasgressione verso se stessa e il male e il dolore che ne
conseguono.
L’aporia su cui si chiude il De casu diaboli di sant’Anselmo non è altro che
l’aporia che si ritrova al centro della teologia della creazione della dottrina
cattolica ufficiale, e che si radica nell’errata concezione che interpreta il mondo a
partire dall’idea della perfezione iniziale. L’aporia di Anselmo, incapace di
accettare l’abissalità della libertà e per questo disposto persino a ricondurre a Dio
il volere che il male ci sia, segnala l’aporia cui è inevitabilmente destinata ogni
impostazione che voglia tenere insieme:
– lo stato originariamente perfetto del mondo;
– la presenza del male nella natura e nella storia;
– il giusto e onnipotente governo divino.
Dentro questa aporia si muove ancora oggi la dottrina ufficiale del
cattolicesimo, con tutto il malessere che essa provoca nella mente e nella vita
concreta. Da tale aporia si potrà uscire solo se si abbandonerà la falsa idea di una
creazione inizialmente perfetta e poi all’improvviso inspiegabilmente corrottasi,
per accogliere la prospettiva evolutiva di una creazione continua, che si costruisce
faticosamente giorno dopo giorno, in un drammatico impasto di logos e di caos, di
necessitas e di libertas, che si chiama passione e che genera passione.
54. La vera identità del Serpente
Secondo Origene «le tenebre che coprivano l’abisso» di Genesi 1,2 sono
un’immagine che rappresenta Satana.63 Può sembrare un’assurdità, ma una volta
privato dell’aspetto moralistico che interpreta la fisicità degli elementi in termini
di bene e di male con il conseguente dualismo che porta a concepire la materia
come «una meretrice»,64 il collegamento intuito da Origene tra l’essere originario
come abisso primordiale (tehom) e la divisione-lacerazione dell’essere in quanto
inevitabile condizione perché gli enti si diano (il senso originario di diabállein) è
molto fruttuoso. L’aveva già intuito Anassimandro: «Principio degli esseri è
l’infinito... da dove infatti gli esseri hanno l’origine, ivi hanno anche la
distruzione secondo necessità: poiché essi pagano l’uno all’altro la pena e
l’espiazione dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo».65
Perché ci possa essere il mondo, un mondo vero di eventi e di storia e non un
teatro di marionette dove tutto è già predeterminato dall’alto, Dio non poteva
creare la perfezione. La perfezione iniziale non esiste, è un mito, comprensibile
ma anche dannoso, di cui occorre liberarsi. Origene era sulla strada giusta quando
affermava che il mondo non nasce come perfezione ma come imperfezione. Se
non fosse stato per le pesanti eredità neoplatoniche che lo portavano a concepire
la materia come negatività, se avesse avuto più attenzione verso l’interpretazione
positiva della materia attestata nella Bibbia ebraica, Origene avrebbe intuito la
necessità del carattere fisicamente imperfetto (e non moralmente imperfetto) del
mondo materiale creato da Dio. Tale necessità risiede nella nascita della libertà.
Per il darsi di un mondo reale di storie reali, e non di un semplice palcoscenico
dove si recitano copioni scritti da altri, per il darsi di un mondo destinato a
ospitare la libertà e la responsabilità e l’amore in quanto suo coronamento, era
inevitabile l’imperfezione iniziale, l’impasto di logos + caos.
Il senso di tutto questo discorso può essere sintetizzato dalla figura del
Serpente, il protagonista di Genesi 3 e in un certo senso il demiurgo della storia
universale, visto che a lui si deve l’uscita dall’Eden e l’inizio della vita sulla terra.
In un mio libro precedente, Rifondazione della fede, mi sono già occupato
dell’identità del Serpente e riconoscendomi ancora in quanto scrissi a suo tempo
riprendo qui le principali argomentazioni.
La lettura tradizionale di Genesi 3 ha sempre individuato dietro il simbolo del
Serpente la figura di Satana, punto di vista che rappresenta un dato indiscusso
della teologia cristiana. Si tratta però di una forzatura del testo biblico, il quale
non dice mai e neppure lascia supporre che il serpente sia Satana, né nel libro
della Genesi né in tutti gli altri libri del canone ebraico. L’antica tradizione
ebraica a cui si deve il racconto di Genesi 3 non conosce neppure una figura
ipostatizzata del Diavolo, e per questo oggi i più autorevoli esegeti sono concordi
nell’escludere dal racconto di Genesi 3 l’identificazione tradizionale Serpente =
Diavolo. Gerhard von Rad scrive del Serpente che «è difficile che esso sia per
l’agiografo la personificazione di una potenza demoniaca; certamente non lo è di
Satana», e conclude con la necessità di «liberare questo inizio del racconto da
tutta la carica teologica che tutta l’interpretazione ecclesiastica vi ha annesso».66
Claus Westermann giunge ai medesimi risultati sostenendo che «il serpente non è
altro che la raffigurazione narrativa della forza della seduzione».67 Il gesuita
Norbert Lohfink scrive che «il serpente tentatore è in realtà solo un requisito
mitico che ha già perso ogni suo significato corrispondente».68 Gianfranco
Ravasi, dopo aver ricordato l’identificazione tradizionale del serpente con Satana,
dice a proposito di Genesi 3 che «nel nostro testo, tuttavia, il valore di tale
simbolo è differente [...]. Il serpente, infatti, nell’antico Vicino Oriente era segno
di giovinezza perenne, di immortalità, di fecondità e vita, soprattutto a causa del
suo mutar pelle. Esso evoca l’idolatria cananea [...]. Il tentatore per eccellenza è,
quindi, l’idolo».69 L’esegesi esclude quindi la lettura tradizionale Serpente =
Diavolo. Ma allora chi è il Serpente? Chiarirsi le idee al riguardo è decisivo per
comprendere l’origine del male.
La sua figura gioca un ruolo molto importante nelle religioni, dove viene
associato tanto alle forze del male quanto alle forze del bene. Esso è anzitutto
colui che turba con le sue intrusioni impreviste e pericolose l’ordine della vita.
Sotto questa forma gli egizi conoscevano Apofi, un enorme serpente divino
nemico dell’ordine cosmico che ogni giorno cercava di opporsi alla nascita del
sole; presente anche nella mitologia babilonese come un grande serpente marino
simbolo del caos primordiale all’origine della creazione, conosciuto nella Bibbia
con il nome di Leviatàn che ho analizzato in precedenza.
Ma il serpente nell’immaginario religioso è anche un simbolo del bene,
anzitutto come simbolo della fecondità e della trasmissione della vita per la sua
evidente simbologia fallica. Così la mitologia assira e cananea presentava quali
simboli del Dio della fecondità dei serpenti intrecciati. In particolare nella
religione cananea il serpente era associato al culto della fertilità legato al dio Baal,
la cui consorte, Astarte, era spesso raffigurata con un serpente. Nel mito preellenico della creazione la dea primordiale Eurinome si accoppia con il grande
serpente Ofione da cui concepisce e genera l’Uovo Universale da cui uscirono
tutte le cose esistenti.70 Nella stessa prospettiva, per i popoli dell’Amazzonia ad
aver generato gli uomini è l’anaconda primordiale, poi salita in cielo dove è
ancora visibile in quella miriade di stelle che noi chiamiamo Via Lattea.
Il serpente risulta essere anche un simbolo di protezione, come appare dal
serpente sacro posto sulla fronte del faraone, l’ureo. Ma ancora più radicalmente
il serpente è anche simbolo di salute. Il dio greco Esculapio (o Asclepio), il cui
santuario di Epidauro era famoso per le ricorrenti guarigioni miracolose, ha come
emblema proprio un serpente, che nella forma di un serpente attorcigliato a un
bastone detto caduceo è ancora oggi il simbolo dei farmacisti. Il legame tra
serpente e guarigione è presente anche nella Bibbia, dove in Numeri 21,4-9 si
racconta di una punizione divina inflitta tramite serpenti velenosi così che «un
gran numero di israeliti morì», ma dove, si aggiunge subito dopo, si poteva
guarire sempre grazie a un serpente, guardando quello di bronzo innalzato da
Mosè. Gesù riprese questa immagine nel dialogo notturno con Nicodemo: «E
come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio
dell’uomo» (Giovanni 3,14), associando il serpente alla prefigurazione del
simbolo più sacro del cristianesimo, la croce.
A motivo del ricambio annuale della pelle il serpente è anche un simbolo
dell’eterna giovinezza, come appare nell’epopea di Gilgameš, dove è proprio un
serpente a mangiare la pianta dell’immortalità sottraendola all’eroe e giungendo
così a godere del privilegio di sconfiggere il tempo. Inoltre, il serpente
simboleggia l’intelligenza, o meglio, un suo uso particolarmente redditizio,
l’astuzia, come dice il testo biblico introducendolo sulla scena: «Il serpente era la
più astuta di tutte le bestie», immagine ripresa da Gesù quando invitò i discepoli a
essere «prudenti come i serpenti» (cfr. Matteo 10,16). E a proposito di
intelligenza-astuzia, non è certo un caso ciò che scrive Plutarco, che «il serpente è
sacro ad Atena».71 Tale legame del serpente con la conoscenza tocca l’apice con
la setta gnostica degli ofiti, da óphis, il termine greco per serpente, la quale
collocava il vertice spirituale nell’adorazione del serpente comunicatore di
sapienza. Nell’antico Egitto infine era un serpente il Dio signore degli alimenti e
della nutrizione, Nehebkau (talora scritto anche Neheb-ka o Neheb-kaw). Il
serpente presenta dunque una complessità quasi sconcertante di rimandi
simbolici, che diventerebbe ancora più intensa considerando le tradizioni
orientali, a proposito delle quali mi limito a dire che dagli hindu l’energia vitale
contenuta nella profondità di ognuno di noi è detta kundalin?, termine che
significa per l’appunto serpente.
Simbolo del caos e del demoniaco, figura cosmica negativa, immagine della
morte, ma anche metafora della trasmissione della vita, della nutrizione, della
protezione, dell’intelligenza e dell’astuzia, dell’eterna giovinezza, dell’energia
vitale: il serpente è tutto questo insieme. Ora la domanda è: esiste una realtà che
contenga in sé questa ricchezza antitetica simboleggiata dal serpente, una realtà
che dà protezione ma insieme uccide, che è fecondità fino all’eterna giovinezza
ma insieme trasmette la morte, che guarisce ma contiene veleno, che è sapienza
raffinata ma anche astuzia maliziosa?
La risposta è sì, questa realtà esiste e il suo nome è vita. Il serpente è il
simbolo per eccellenza della sconcertante ambiguità della vita. Il serpente
simboleggia la fecondità. Si conoscono antiche scene in cui la dea cananea della
fecondità è presentata nuda con in mano un serpente: ognuno di noi è nato così,
queste scene sono il racconto della nostra nascita, di nostra madre penetrata dalla
potenza generativa di nostro padre. Il serpente simboleggia il sapere, e noi
accumuliamo sapere. Ma spesso da questo sapere, oltre che il bene, discende
anche il male, e mai come nel Novecento, con i suoi grandi progressi scientifici,
questo è diventato chiaro, visto che non appena gli uomini hanno scoperto i
segreti dell’atomo li hanno utilizzati contro Hiroshima il 6 agosto 1945, che
secondo il calendario liturgico cattolico è la festa della trasfigurazione del
Signore, mentre secondo quello scienifico è la festa della trasfigurazione della
materia, la più efficace applicazione di E = mc2.
La sfera divina, la sfera demoniaca, la sfera cosmica, la sfera sapienziale, in
realtà non sono altro, tutte insieme, che la più ampia sfera della vita che avvolge
l’uomo da ogni parte e lo confonde, negandogli un qualunque punto fermo se
vuole tenere gli occhi aperti di fronte al suo manifestarsi. E in verità sembra
proprio un serpente questa vita, un serpente che striscia malizioso e non si sa mai
dov’è, e se talora lo si vede e lo si vuole afferrare occorre essere circospetti al
massimo perché quello stesso serpente-vita può procurare anche la morte, dato
che se ci si concede troppo alla vita con le sue gioie e i suoi divertimenti il suo
veleno fatale non tarda a entrare nel corpo.
La tentazione per l’uomo e per la donna che viene dal Serpente non è altro che
il simbolo della natura ambigua e contraddittoria della vita, perché il Serpente di
Genesi 3 è la vita. La Genesi non parla del Diavolo ma della vita, il che rende la
nostra esistenza molto più complessa. Fino a quando la tentazione era vista come
qualcosa proveniente dal di fuori, era ancora possibile ignorarla coltivando una
buona e integra coscienza di sé. Ma se la tentazione viene dalla vita, se è la vita
stessa con la sua logica implacabile, allora tutti, nessuno escluso, ne sono
coinvolti. Ecco l’autentico senso esistenziale del dogma del peccato originale,
anche se questo dogma andrebbe completamente smontato e rimontato già a
partire dal nome, non più «peccato originale», bensì «caos originale». In origine
non c’è nessun peccato da parte degli esseri umani, non è colpa loro se la vita si
presenta così, nessuno nasce gravato da una colpa, e il continuare a ribadire
questa prospettiva colpevolizzante del dogma del peccato originale può solo
contribuire ad accrescere il malessere dell’umanità e il suo conseguente
allontanamento dal cristianesimo.
Il principio è logos + caos, ovvero il Serpente simbolo della vita, di questa
irrefrenabile voglia di vivere che non si cura del bene e del male e che finalizza a
sé ogni riferimento oggettivo di bene e di male. Il serpente è la caotica volontà di
potenza che la vita contiene e che la vita è, per ordinare la quale occorre lavoro e
fatica, tutto il lavoro e tutta la fatica di una vita. È il principio-passione.
IX. IL LATO OSCURO DEL DIVINO
55. Un discorso temerario: il male in Dio
Finora ho analizzato le immagini bibliche che spiegano la presenza del
negativo nella creazione facendo ricorso a entità extradivine: i Mostri e le
Signorie cosmiche per quanto riguarda il mondo naturale; le Signorie cosmiche e
le Potenze sataniche per quanto riguarda la dimensione spirituale; il peccato
dell’Angelo e quello di Adamo ed Eva per quanto riguarda l’uomo.
Accanto a queste spiegazioni che riconducono l’origine e la realtà del male a
motivi extradivini vi sono non pochi testi biblici che presentano un’altra
prospettiva, la quale può risultare spiazzante e persino scandalosa per la
coscienza, perché indica l’origine del male in Dio. Ho parlato di spiazzamento e
scandalo perché ricordo ciò che provocò in me il libro postumo di Luigi Pareyson
(1918-1991), Ontologia della libertà, che lessi nel 1995 appena pubblicato, in
particolare quando giunsi al capitolo Un discorso temerario: il male in Dio.1 Tutto
il senso del cristianesimo, protestavo dentro di me, non consiste forse nel
rimandare a una realtà del tutto pura, senza traccia di ambiguità, solo bene, solo
luce, solo amore, unica consolazione spirituale per chi su questa terra vive
immerso in una realtà sempre irrimediabilmente ambigua? E il Dio annunciato da
Gesù nelle pagine dei Vangeli non è forse privo di ogni traccia di ambiguità, non è
il padre colmo di amore che aspetta il figlio sulla soglia, il pastore che ama a tal
punto le pecore da andare alla ricerca anche di una sola che si fosse smarrita?
Com’è possibile quindi che persino Dio sia intaccato dalla medesima ambiguità
che avvolge ogni aspetto del mondo? Com’è possibile che nella sorgente del bene
vi sia anche solo una traccia di male? Com’è possibile che nella sorgente della
luce vi sia anche solo un’ombra di tenebra?
Eppure Pareyson presentava e commentava alcuni passi della Bibbia che
sembrano proprio affermare il contrario. Tali testi di solito vengono giustificati
come testimonianza di uno stadio immaturo dell’umanità al quale la Parola di Dio
si dovette necessariamente adattare per poter parlare agli uomini nella loro
concretezza storica, anche perché, si aggiunge, la Parola di Dio non cessa mai di
rimanere anche parola di uomini, con tutte le imperfezioni che ne conseguono. Si
tratta di una spiegazione che ha le sue buone ragioni e che può aiutare a superare
lo scandalo della violenza e dell’immoralità presenti nella Bibbia, ma, al di là di
queste argomentazioni socio-culturali, a favore di Pareyson c’è il fatto che egli
leggeva quei testi proprio come la Bibbia stessa pretende che siano letti, cioè
come Parola eterna di Dio. E con un discorso forse temerario ma certamente
logico, Pareyson tirava le conseguenze giungendo a parlare di male «in» Dio,
collocandosi decisamente dalla parte della prospettiva monistica salvaguardando
l’unità dell’essere.
La presenza del male nella divinità è ampiamente documentata nelle religioni
non cristiane. Per il mondo greco si pensi ai terribili spiriti della vendetta che sono
le Erinni e che i latini chiamavano Furie, ai Titani, ai Giganti e in genere a quel
cupo sottobosco di semidei irrazionali e ambigui, ma anche agli stessi Dei, spesso
violenti, menzogneri, malvagi. Il più spirituale tra loro, Apollo, il dio delle arti e
della musica, dopo aver battuto il sileno Marsia con uno stratagemma in una
competizione musicale, lo uccide nel modo più atroce legandolo a un palo e
scorticandolo vivo per la gelosia verso chi suonava il flauto così bene da
competere con lui. Nell’hinduismo il dio ?iva è il dio della distruzione, ha il
tridente nelle mani come il Diavolo nell’iconografia cristiana e non esita a farne
uso per cancellare e abbattere, spesso senza altro motivo che il solo desiderio di
farlo; una delle sue spose è la dea Kali, nota per la sete di sangue e la collana di
teschi. Tra i 99 Bellissimi Nomi di Allah ve ne sono alcuni che alla coscienza non
possono non risultare meno belli di altri, per esempio l’81°, «il Vendicatore», e il
91°, «Colui che nuoce». Anche il buddhismo conosce Mara, il dio del male e della
malvagità che tentò il Buddha sotto l’albero dell’illuminazione. E si potrebbe
continuare perché in nessuna religione la divinità è priva di un lato oscuro. Ma il
cristianesimo, si chiede la coscienza cristiana, non consiste nell’annuncio che il
Dio unico è da intendersi come amore, che Dio in se stesso è amore? Eppure basta
aprire la Bibbia per ritrovare una serie di passi, nelle Scritture ebraiche e anche
nel NT, che testimoniano senza possibilità di smentita l’esistenza di un lato oscuro
della divinità.
56. Classificazione
Un grande biblista come il padre gesuita Stanislas Lyonnet ha scritto: «Ciò che
i popoli vicini attribuivano volentieri ai demòni, la Bibbia lo riferisce direttamente
a Yhwh: malattie, piaghe, morte. È lui per esempio che rende lebbrosa Maria, la
sorella di Mosè (Deuteronomio 24,9), infligge le pene meritate ai violatori della
legge (Numeri 11,1ss.), invia i serpenti contro il popolo (Numeri 21,6), si riserva
la punizione delle colpe (Esodo 20,5-6) o di abbandonare Israele ai nemici
(Giudici 2,14; 3,8) [...]. L’agiografo non esita neanche a rappresentare Dio come
un “tentatore”, non solamente nel senso che egli tenta Abramo (Genesi 22,1) per
provare il suo amore (Genesi 22,16), ma nel senso che indurisce il faraone (Esodo
4,21 etc. e Romani 9,18)».2
Si tratta di un argomento molto delicato e occorre essere rigorosi. I numerosi
testi biblici che inducono a parlare di male in Dio hanno infatti motivi diversi alla
loro origine e bisogna saperli distinguere senza fare di ogni erba un fascio.
Personalmente ritengo che essi siano classificabili secondo queste tre grandi
categorie:
– sacralità: Dio appartiene a una sfera dell’essere del tutto separata, la cui
pericolosità si manifesta per l’uomo soprattutto quando vi entra in contatto
fisicamente a partire dalla dimensione corporea;
– rigore: Dio non ammette sconti sul rispetto dell’alleanza contratta con lui e
punisce in modo inflessibile i trasgressori; allo stesso modo Dio persegue un suo
piano nella storia e non esita a distruggere tutti coloro che vi si oppongono;
– arbitrio: Dio gode di un potere assoluto e non deve rendere conto a nulla e a
nessuno per le sue decisioni, comprese quelle che colpiscono i giusti e gli
innocenti.
57. Sacralità
Attributo essenziale del Dio biblico è la sacralità-santità, laddove i due termini
a questo livello sono perfettamente equivalenti. In ebraico vi è infatti per essi
un’unica radice, qd, che significa «tagliare, separare», da cui provengono il
sostantivo qodeš e l’aggettivo qadoš. Dio è sacro-santo perché è separato da tutto
il resto, una caratteristica che lo pone in una condizione ontologica
inevitabilmente preclusa alla mente umana e tale da suscitare in essa un senso di
piccolezza, indegnità, disagio. Tale separazione di un Dio inaccessibile comunica
timore, tremore, a volte persino terrore, in tutti coloro che si imbattono in lui, non
senza pesanti conseguenze. Ecco alcuni esempi:
– Esodo 19,21-22 (parole del Signore a Mosè): «Scendi, scongiura il popolo di
non irrompere verso il Signore per vedere, altrimenti ne cadrà una moltitudine.
Anche i sacerdoti che si avvicinano al Signore si santifichino, altrimenti il Signore
si avventerà contro di loro»;
– Levitico 16,2 (parole del Signore a Mosè): «Parla ad Aronne, tuo fratello:
non entri in qualunque tempo nel santuario, oltre il velo, davanti al propiziatorio
che sta sull’arca, affinché non muoia, quando io apparirò in mezzo alla nube sul
propiziatorio»;
– Numeri 4,20 (parole del Signore a Mosè riguardo a un gruppo di uomini):
«Essi non entrino a guardare neanche per un istante il santuario, perché
morirebbero»;
– Deuteronomio 5,24-26 (parole degli israeliti a Mosè): «Ecco, il Signore,
nostro Dio, ci ha mostrato la sua gloria e la sua grandezza, e noi abbiamo udito la
sua voce dal fuoco; oggi abbiamo visto che Dio può parlare con l’uomo e l’uomo
restare vivo. Ma ora, perché dovremmo morire? Questo grande fuoco infatti ci
consumerà. Se continuiamo ancora a udire la voce del Signore, nostro Dio,
moriremo. Chi, infatti, tra tutti i mortali ha udito come noi la voce del Dio vivente
parlare dal fuoco ed è rimasto vivo?»;
– Giudici 6,22-23: «Gedeone vide che era l’angelo del Signore e disse:
“Signore Dio, ho dunque visto l’angelo del Signore faccia a faccia!”. Il Signore
gli disse: “La pace sia con te, non temere, non morirai”»;
– Isaia 6,5: «Ohimè! Io sono perduto [...] i miei occhi hanno visto il re, il
Signore degli eserciti».
Tale carattere di santità-separazione riguarda non solo Dio in se stesso ma
anche le cose a lui collegate: luoghi, tempi, persone, oggetti. Ecco alcuni esempi a
partire dai luoghi:
– Genesi 28,16: «Giacobbe si svegliò dal sonno e disse: “Certo, il Signore è in
questo luogo e io non lo sapevo”. Ebbe timore e disse: “Quanto è terribile questo
luogo!”»;
– Esodo 19,12-13 (parole del Signore a Mosè per il popolo): «Guardatevi dal
salire sul monte e dal toccarne le falde. Chiunque toccherà il monte sarà messo a
morte. Nessuna mano però dovrà toccare costui: dovrà essere lapidato o colpito
con tiro di arco. Animale o uomo, non dovrà sopravvivere».
La sacralità che concerne il tempo si concretizza nell’istituzione di feste
(Pasqua, Azzimi, festa delle Settimane, festa dell’Espiazione, festa delle Capanne)
e soprattutto nell’istituzione del sabato, con relativa sanzione per la sua
violazione:
– Esodo 20,8 e 10: «Ricordati del giorno di sabato per santificarlo [...] non
farai alcun lavoro»;
– Esodo 35,2: «Chiunque in quel giorno farà qualche lavoro sarà messo a
morte»;
– Numeri 15,32-36 (applicazione della sanzione stabilita): «Mentre gli Israeliti
erano nel deserto, trovarono un uomo che raccoglieva legna in giorno di sabato.
Quelli che l’avevano trovato a raccogliere legna, lo condussero a Mosè, ad
Aronne e a tutta la comunità. Lo misero sotto sorveglianza, perché non era stato
ancora stabilito che cosa gli si dovesse fare. Il Signore disse a Mosè: “Quell’uomo
deve essere messo a morte; tutta la comunità lo lapiderà fuori
dell’accampamento”. Tutta la comunità lo condusse fuori dell’accampamento e lo
lapidò; quello morì secondo il comando che il Signore aveva dato a Mosè».
Per quanto riguarda le persone, è noto che il segno più sacro sulla carne di un
maschio ebreo è la circoncisione. Ecco un testo biblico al riguardo, i cui
protagonisti sono Mosè e sua moglie Sipporà in viaggio verso l’Egitto: «Mentre
era in viaggio, nel luogo dove pernottava il Signore-Yhwh lo affrontò e cercò di
farlo morire. Allora Sipporà prese una selce tagliente, recise il prepuzio al figlio e
con quello gli toccò i piedi e disse: “Tu sei per me uno sposo di sangue”. Allora il
Signore-Yhwh si ritirò da lui. Ella aveva detto “sposo di sangue” a motivo della
circoncisione» (Esodo 4,24-26).
Il potere terrificante che compete a Dio, e che può condurre alla morte chi
entra in contatto con lui e con la sua sfera sacrale, si trasmette anche agli oggetti
consacrati, tra i quali è soprattutto l’arca dell’alleanza, detta anche arca del
Signore o arca di Dio, a mostrare una devastante capacità di nuocere a prescindere
da ogni considerazione etica, e quindi a ricondurre il negativo alla pura volontà
divina introducendo il male in Dio. Due esempi penso siano sufficienti (chi
volesse approfondire potrà leggere con profitto gli interi capitoli di 1Samuele 5-6
e 2Samuele 6):
– 1Samuele 6,19: «Il Signore colpì gli uomini di Bet-Semes perché avevano
guardato nell’arca del Signore; colpì nel popolo settanta persone»;
– 2Samuele 6,6-7: «Giunti all’aia di Nacon, Uzzà stese la mano verso l’arca di
Dio e la sostenne perché i buoi vacillavano. L’ira del Signore si accese contro
Uzzà; Dio lo percosse per la sua negligenza ed egli morì sul posto, presso l’arca
di Dio».
Quest’ultimo episodio di un uomo che viene ucciso da Yhwh per aver sorretto
l’arca evitandone la caduta è a mio avviso, nella sua semplicità, tra i più
sconcertanti dell’intera Bibbia. Non si creda però di avere a che fare con una
logica che riguarda solo la Bibbia ebraica. In una delle più importanti lettere di
san Paolo si legge infatti, dopo alcune parole di rimprovero per l’indisciplina
nell’accostarsi alla cena del Signore: «Chi mangia e beve senza riconoscere il
corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna. È per questo che tra voi ci
sono molti ammalati e infermi, e un buon numero sono morti» (1Corinzi 11,2930).
58. Rigore
Il profeta Nahum (che la Bibbia Cei italianizza in Naum) apre il suo libro,
compilato sette secoli prima di Cristo, con queste parole: «Un Dio geloso e
vendicatore è il Signore, vendicatore è il Signore, pieno di collera. Il Signore si
vendica degli avversari e serba rancore verso i nemici» (Nahum 1,2). Qualcuno
potrebbe pensare che questo profeta minore abbia esagerato nel descrivere Dio
così, ma sarebbe smentito dal ritrovare la medesima prospettiva sulla bocca di
Mosè e poi dello stesso Yhwh. Ecco, nell’ordine, i due testi:
– Deuteronomio 4,24 (parole di Mosè agli israeliti): «Il Signore tuo Dio è
fuoco divoratore, un Dio geloso»;
– Esodo 20,5 (parole di Yhwh agli israeliti sul Sinai): «Io, il Signore, tuo Dio,
sono un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla
quarta generazione».
Si tratta di una prospettiva teologica che alcuni secoli dopo farà scrivere a un
autore del NT: «È terribile cadere nelle mani del Dio vivente» (Ebrei 10,31). C’è
un patto tra Dio e il popolo che va rispettato, Dio non accetta trasgressioni di
sorta. La sua sete di fedeltà al patto stipulato, mentre da un lato gli fa promettere
grandi benedizioni per i fedeli, dall’altro lo porta a minacciare maledizioni
inaudite verso i disobbedienti. Basta dare un’occhiata ai capitoli al termine del
Levitico e del Deuteronomio, rispettivamente il 26 e il 28, per rendersi conto della
valanga di mali che questi testi biblici attribuiscono al potere di Dio. Secondo il
Levitico è da Dio che provengono il terrore, la consunzione, la febbre, la sconfitta
a opera dei nemici, le bestie feroci che rapiscono i figli e uccidono il bestiame, la
peste, ogni altro tipo di sciagura. A quelli che risultano infedeli all’alleanza il testo
giunge a minacciare: «Mangerete persino la carne dei vostri figli e mangerete la
carne delle vostre figlie» (Levitico 26,29), parole che nella loro efferatezza
neppure considerano che la vita dei bambini non c’entra nulla con il peccato dei
genitori. L’elenco delle sciagure di Deuteronomio 28 è persino peggiore, sia per
quantità sia per qualità dei mali attribuiti potenzialmente alla capacità punitiva di
Dio.
Di passi biblici di questo tenore ve ne sono altri e tra essi spiccano i resoconti
militari della conquista del territorio di Canaan, la cosiddetta «Terra promessa»,
nei quali domina il concetto di herem. Tradotto dalla Bibbia Cei come «sterminio
per il Signore», tale concetto appartiene alla logica della guerra santa e
rappresenta una specie di anatema lanciato sulla città nemica per la quale si
prevede, dopo la conquista, il totale annientamento di ogni forma di vita.
L’istituzione di tale regola è fatta risalire a Mosè e si trova in due passi del libro
del Deuteronomio, 7,1-2 e 20,16-18. Ecco il primo testo: «Quando il Signore tuo
Dio ti avrà introdotto nella terra in cui stai per entrare per prenderne possesso e
avrà scacciato davanti a te molte nazioni: gli Ittiti, i Gergesei, gli Amorrei, i
Cananei, i Perizziti, gli Evei e i Gebusei, sette nazioni più grandi e più potenti di
te, quando il Signore tuo Dio le avrà messe in tuo potere e tu le avrai sconfitte, tu
le voterai allo sterminio [herem]. Con esse non stringerai alcuna alleanza e nei
loro confronti non avrai pietà».
Ed ecco come la Bibbia descrive la prima applicazione del comando di herem,
eseguito sulla città di Gerico dopo che venne conquistata grazie al potere dell’arca
dell’alleanza e delle trombe sacerdotali che ne fecero crollare le mura: «Votarono
allo sterminio tutto quanto c’era in città: uomini e donne, giovani e vecchi, buoi,
pecore e asini, tutto passarono a fil di spada» (Giosuè 6,21).
La medesima procedura di herem viene messa in atto per altre località: se ne
può vedere il freddo resoconto in Giosuè 10,28-43 per i territori meridionali e in
Giosuè 11 per quelli settentrionali. L’ultimo versetto di Giosuè 11 riassume così
l’esito delle campagne militari israelite: «Giosuè prese tutto il territorio, come il
Signore aveva ordinato a Mosè. Giosuè lo assegnò in eredità a Israele, secondo le
loro divisioni in tribù. E la terra visse tranquilla, senza guerra» (Giosuè 11,23). A
parte l’infondatezza storica dell’ultima osservazione, per rendersi conto della
quale è sufficiente continuare a leggere la Bibbia e arrivare al successivo libro dei
Giudici, quello che qui interessa è l’osservazione che riconduce la guerra e lo
herem alla volontà di Dio, facendo di Dio un guerriero che milita da una parte e
che necessariamente deve fare del male alla parte avversa.
In questa stessa prospettiva vanno compresi i passi dei profeti contro le nazioni
confinanti con Israele, di cui questa frase di Isaia a proposito della terra di Edom
può essere considerata l’emblema: «Egli stenderà su di essa la misura del vuoto e
la livella del nulla» (Isaia 34,11). Anche il celebre episodio di Genesi 22, detto
«sacrificio di Abramo» o «sacrificio di Isacco» a seconda se si privilegia il
genitivo soggettivo o il genitivo oggettivo, rientra in questa categoria di testi che
attribuiscono a Dio una determinata capacità di operare o far operare il male con
uno scopo preciso: o per esigenze di giustizia, o per assicurare ai suoi vittoria e
prosperità, o per provarne la fedeltà come appunto nel caso del sacrificio di
Abramo-Isacco. Anche il sacrificio della figlia da parte di Iefte, capo militare del
periodo dei Giudici che aveva fatto voto di sacrificare a Yhwh in caso di vittoria
la prima persona che avrebbe incontrato tornando a casa, rientra in questa
casistica e a questo proposito mi sono sempre chiesto perché Yhwh non sia
intervenuto come aveva fatto nel caso di Isacco permettendo che Iefte gli
sacrificasse la giovane figlia (il triste evento è narrato in Giudici 11,30-40 senza
nessuna parola di biasimo). Credo che, rimanendo all’interno della teologia
tradizionale, non sia possibile trovare risposta.
La prospettiva del rigore divino è abbondantemente testimoniata anche dal NT,
soprattutto nei testi escatologici. Giovanni Battista, per esempio, afferma del
Messia che «brucerà la paglia con fuoco inestinguibile» (Matteo 3,12). Spesso si
usa contrapporre la sua severità alla misericordia di Gesù, ma si tratta di una
contrapposizione relativa, perché anche Gesù manifesta grande severità a
proposito dei peccatori e della loro punizione. Ecco alcune sue parole:
– Matteo 7,19 (nel Discorso della montagna): «Ogni albero che non dà buon
frutto viene tagliato e gettato nel fuoco»;
– Matteo 13,41-42 (al termine della parabola della zizzania): «Il Figlio
dell’uomo manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno dal suo regno tutti gli
scandali e tutti quelli che commettono iniquità e li getteranno nella fornace
ardente, dove sarà pianto e stridore di denti»;
– Matteo 13,49-50 (al termine della parabola della rete): «Così sarà alla fine
del mondo, verranno gli angeli e separeranno i cattivi dai buoni e li getteranno
nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti»;
– Matteo 22,13-14 (al termine della parabola del banchetto nuziale): «Allora il
re ordinò ai servi: “Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà
pianto e stridore di denti”. Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti»;
– Matteo 24,51 (al termine della parabola del maggiordomo): «Lo punirà
severamente e gli infliggerà la sorte che meritano gli ipocriti: là sarà pianto e
stridore di denti»;
– Matteo 25,30 (al termine della parabola dei talenti): «E il servo inutile
gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti».
È probabile che Gesù abbia ripreso l’espressione «fornace ardente» dal Salmo
21,9-10: «La tua mano raggiungerà tutti i nemici, la tua destra raggiungerà quelli
che ti odiano. Gettali in una fornace ardente nel giorno in cui ti mostrerai; nella
sua ira li inghiottirà il Signore, li divorerà il fuoco». A proposito di fuoco, Gesù
parlava spesso anche di Geenna, letteralmente Ge-Hinnom, una valle di
Gerusalemme che designava il luogo riservato ai cattivi alla fine dei tempi e che
sulla bocca di Gesù ricorre 11 volte (7 in Matteo, 3 in Marco, una in Luca). Gesù
parlava anche di «fuoco eterno» (Matteo 18,8), «fuoco inestinguibile» (Marco
9,43), «supplizio eterno» (Matteo 25,46). In Marco 9,49 afferma: «Ognuno sarà
salato con il fuoco», anche se non è per nulla chiaro il senso della frase.
L’apostolo Paolo nella Lettera ai Romani, probabilmente rifacendosi al profeta
Sofonia che usa l’espressione 4 volte, annuncia «il giorno dell’ira» (Romani 2,5),
espressione che nel medioevo darà origine a uno dei più celebri canti della
tradizione cristiana, il Dies irae, di Tommaso da Celano (incipit: Dies irae, dies
illa, solvet saeculum in favilla, «Giorno dell’ira, quel giorno, dissolverà il mondo
in cenere»). Ma è nell’Apocalisse che la prospettiva di inflessibile rigore finale
raggiunge il vertice con l’annuncio di sanguinose stragi sulla terra e di un eterno
«stagno di fuoco, ardente di zolfo» che attende la massa dei peccatori (19,20; cfr.
anche 20,10 e 21,8). Tale luogo di eterna perdizione viene fatto sussistere per
sempre accanto alla Gerusalemme celeste, la quale quindi viene così privata della
possibilità di abbracciare tutte le cose, con il risultato che la storia e il senso del
mondo per l’autore dell’Apocalisse si chiuderanno all’insegna della divisione e
della lacerazione. Nell’ultima pagina del NT si legge: «Fuori i cani, i maghi, gli
immorali, gli omicidi, gli idolatri e chiunque ama e pratica la menzogna»
(Apocalisse 22,14). Quell’avverbio, fuori, in greco éxo, sembra inchiodare il NT a
un insuperabile dualismo. Impossibile però non chiedersi se tutto ciò non sia in
aperto contrasto con quanto Gesù richiede ai discepoli, di perdonare «settanta
volte sette» (Matteo 18,22), cioè praticamente sempre. Occorre chiedersi perché
Gesù avanzi questa richiesta, e la risposta è che si tratta dello stile di Dio. Se
infatti Dio non perdonasse tutto a tutti nella sua infinita misericordia, non si
potrebbe mai realizzare quanto annunciato da san Paolo, cioè che l’ultima parola
della creazione sarà «Dio tutto in tutti» (1Corinzi 15,28). Com’è possibile allora
tenere insieme da un lato «lo stagno di fuoco e zolfo» e dall’altro la piena
realizzazione del regno di Dio finalmente «tutto in tutti» grazie al suo perdonare
«settanta volte sette»?
In ogni caso l’immagine complessiva che emerge dai testi analizzati in questo
paragrafo è quella di un Dio sovrano del mondo, un «Dio degli eserciti»
(espressione che ricorre una quarantina di volte nella Bibbia) che non esita a
utilizzare la violenza per far rispettare i patti stipulati con lui e dal quale non è
assente anche un certo spirito di vendetta.
59. Arbitrio
Sono soprattutto i testi classificabili all’insegna dell’arbitrio divino a creare i
maggiori problemi alla coscienza eticamente formata e a rendere più che
plausibile un discorso sul male in Dio. Qui infatti non si tratta di uomini che più o
meno inavvertitamente entrano nella sfera del sacro e lo contaminano, meno che
mai si tratta di trasgressori della divina alleanza o di nemici del popolo eletto; qui
ci sono singoli credenti che si ritrovano all’improvviso come circondati da una
serie inspiegabile di sventure che minano la salute fisica, l’integrità psichica, la
saldezza spirituale, distruggendo la vita fin nei suoi fondamenti. Ecco alcuni
lamenti di questi giusti perseguitati da Dio senza alcuna specifica ragione:
– Salmo 39,11 e 14: «Allontana da me i tuoi colpi, sono distrutto sotto il peso
della tua mano [...]. Distogli da me il tuo sguardo, che io possa respirare»;
– Salmo 90,7: «Sì, siamo distrutti dalla tua ira, atterriti dal tuo furore»;
– Giobbe 7,19: «Fino a quando da me non toglierai lo sguardo e non mi
lascerai inghiottire la saliva?»;
– Giobbe 14,6: «Distogli lo sguardo da lui perché trovi pace».
Lo sguardo di Dio, dice Giobbe rivolgendosi a Dio, può generare nell’uomo
uno stato di angoscia, di insicurezza, di terrore, un malessere da intendersi proprio
nel senso primo dei termini, un essere male, un esistere male. Si tratta esattamente
di quanto era avvenuto a lui, la cui celebre e tragica storia (perdita di tutti i beni,
morte dei figli, lunga e orrenda malattia) si svolge interamente all’insegna
dell’arbitrio divino. Yhwh infatti prima scommette con Satana sulla capacità di
Giobbe di mantenere la fede anche in mezzo alle sciagure più orribili mettendolo
in balìa dell’avversario (Giobbe 2,6: «Il Signore disse a Satana: “Eccolo nelle tue
mani!”»), poi si irrita per le legittime proteste di Giobbe (Giobbe 38,2: «Chi è
costui che oscura il mio piano con discorsi da ignorante?»).
La rivelazione biblica afferma quindi che da Dio può giungere anche il male
senza che il soggetto colpito abbia una minima responsabilità. Non è solo la storia
di Giobbe ad affermare questa sconvolgente verità. Se si legge il libro dell’Esodo
ci si accorge di come sia lo stesso Yhwh a provocare volutamente l’ostinazione
del faraone per impedire che accetti le richieste di Mosè, e questo ben prima che
Mosè arrivi in Egitto, quindi con lucida premeditazione. Mosè si trovava ancora
nel territorio di Madian, ben lontano dall’Egitto, e Dio a proposito del faraone gli
si rivolge così: «Io indurirò il suo cuore» (Esodo 4,21). La dichiarazione è ripetuta
tale e quale in Esodo 7,3, quando Mosè è arrivato in Egitto, e messa in atto in 9,12
(«il Signore rese ostinato il cuore del faraone»), in 10,20 («il Signore rese ostinato
il cuore del faraone»), in 10,27 («il Signore rese ostinato il cuore del faraone») e
in 11,10 («il Signore aveva reso ostinato il cuore del faraone»). Ne viene che Dio
stesso appare il primo responsabile di tutte le sciagure che ne seguirono, note
come «piaghe d’Egitto», di cui l’ultima fu l’uccisione di tutti i bambini maschi
primogeniti dell’intero Egitto, un evento al cospetto del quale la strage dei
bambini di Betlemme voluta da Erode non può che impallidire.
Dio può indurire il cuore degli uomini, dice la Bibbia. E non solo ai potenziali
nemici (ammesso che Dio ne possa avere), ma anche ai suoi stessi eletti. Era stato
infatti Dio a scegliere Saul quale primo re di Israele, ma al suo eletto toccò la
medesima sorte del faraone: «Lo spirito del Signore si era ritirato da Saul e
cominciò a turbarlo un cattivo spirito venuto dal Signore» (1Samuele 16,14),
affermazione ripetuta altre tre volte (cfr. 1Samuele 16,15-16; 18,10; 19,9).
Non ci sono prima il faraone e Saul che si determinano in modo negativo così
da lasciare spazio al male; c’è prima l’azione divina che indurisce
inspiegabilmente il cuore dell’uno o toglie il favore all’altro, senza alcuna
motivazione. La Bibbia afferma che per questi progetti negativi Dio ha al suo
servizio esseri particolari come gli angeli sterminatori (cfr. Genesi 19,13; Esodo
12,23; Numeri 17,13; 2Samuele 24,16; Salmo 78,49; Isaia 37,36) e gli spiriti
tentatori (Numeri 5,14; 1Samuele 18,10; 1Re 22,22; Osea 4,12), ma non ci
possono essere dubbi sul fatto che la piena responsabilità sia sua. Del resto è la
stessa voce divina mediante il profeta a rivendicarlo: «Io formo la luce e creo le
tenebre, produco la pace e creo il male; io, il Signore, compio tutto questo» (Isaia
45,7). La Bibbia Cei traduce «faccio il bene e provoco la sciagura», ma si tratta di
una pudica foglia di fico per non turbare troppo i lettori, visto che il testo
originale ebraico presenta il termine ra’, «male», che è l’esatto opposto di tov,
«bene» (anche se in Isaia 45,7 in contrapposizione a ra’ non c’è tov, ma shalom,
pace). Un’altra pudica foglia di fico consiste nel cambiamento del verbo riferito a
Dio, che nell’originale ebraico è il medesimo, bara’, «creare», lo stesso verbo che
ricorre in Genesi 1 e che qui viene usato da Isaia sia per l’oscurità sia per il male,
mentre nella traduzione della Bibbia Cei si sdoppia divenendo nel secondo caso
«provocare».
In tutto questo non si deve commettere il consueto errore di ritenere che tale
concezione della divinità in grado di «creare il male» riguardi solo la Bibbia
ebraica, che esattamente per questo meriterebbe la denominazione di Antico o
persino di Vecchio Testamento. Il lato oscuro della divinità infatti è presente
anche nel NT, persino in Gesù. Prendiamo la spiegazione data da Gesù sul perché
egli parlasse in parabole:
– Marco 4,11-12: «Ed egli diceva loro: “A voi è stato dato il mistero del regno
di Dio; per quelli che sono fuori invece tutto avviene in parabole, affinché
guardino, sì, ma non vedano, ascoltino, sì, ma non comprendano, perché non si
convertano e venga loro perdonato”». Il brano in corsivo è una citazione (non alla
lettera) di Isaia 6,9-10 che Gesù fa sua sostenendo in questo modo che è Dio a
impedire la comprensione e la conversione di quelli di «fuori»;
– Matteo 13,10-13: «Gli si avvicinarono allora i discepoli e gli dissero:
“Perché a loro parli con parabole?”. Egli rispose loro: “Perché a voi è dato
conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato. Infatti a colui che ha,
verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a colui che non ha, sarà tolto anche quello
che ha. Per questo a loro parlo con parabole: perché guardando non vedono,
udendo non ascoltano e non comprendono”». Segue la citazione di Isaia 6,9-10;
– Luca 8,10: «A voi è dato conoscere i misteri del regno di Dio, ma agli altri
solo con parabole, affinché vedendo non vedano e ascoltando non comprendano»
(citazione di Isaia 6,9).
C’è qualche motivo che spieghi perché a qualcuno è dato e a qualcun altro non
è dato di comprendere la parola della salvezza? Perché qualcuno è collocato
dentro e qualcun altro fuori? L’apostolo Paolo si è occupato di questi spinosi
problemi soprattutto nel capitolo 9 della Lettera ai Romani, dove, a partire dal
versetto 6, presenta un ragionamento secondo cui per la vita di un uomo a essere
determinante è il favore di Dio, sicché non conta il fatto di essere figlio di
Abramo ma di essere il favorito di Dio (Isacco rispetto a Ismaele), e non conta il
fatto di essere figlio di Isacco ma di essere il favorito di Dio (Giacobbe rispetto a
Esaù). Ma con quale logica si diventa favorito di Dio? Inutile domandarselo,
perché logica non c’è, c’è solo un favore che a uno viene concesso e a un altro no,
e che teologicamente si chiama elezione (Romani 9,11: «il disegno divino fondato
sull’elezione, non in base alle opere, ma alla volontà di colui che chiama») e nel
linguaggio comune favoritismo. Poi Paolo, forse riecheggiando discussioni avute
in precedenza, o forse ricordandosi di quello che lui stesso aveva scritto in
precedenza (Romani 2,11: «Dio non fa preferenza di persone»), si chiede: «Che
diremo dunque? C’è forse ingiustizia da parte di Dio?». E risponde: «No,
certamente!». E motiva la risposta come segue: «Egli infatti dice a Mosè: Avrò
misericordia per chi vorrò averla, e farò grazia a chi vorrò farla. Quindi non
dipende dalla volontà né dagli sforzi dell’uomo, ma da Dio che ha misericordia»
(Romani
9,14-16).
Come ognuno vede da sé, la risposta di Paolo alla sua domanda se ci sia
ingiustizia da parte di Dio non motiva nulla, sicché l’unica risposta sensata è sì,
c’è ingiustizia, visto che qui viene smentito uno dei principi-base della giustizia,
unicuique suum, «dare a ciascuno il suo», e se ne instaura un altro del tutto privo
di criteri oggettivi che, come già detto, nel linguaggio teologico ha un nome
(grazia, elezione) e nel linguaggio comune un altro (favoritismo, arbitrio). Di qui
il versetto di Romani 9,18, l’icastico testo che turbò la mente di Agostino
distogliendolo dalla sapienza e dall’equilibrio del suo primo periodo cristiano:
«Dio quindi ha misericordia verso chi vuole e rende ostinato chi vuole».3
Ma il problema si aggrava ulteriormente perché Dio non si limita a eleggere
alcuni e a ignorare gli altri, ma giunge a condannare questi ultimi. Ritenendoli
colpevoli di che cosa? Solo di non essere stati eletti da lui. Penso sia il caso di
riprendere l’interrogativo sollevato da san Paolo: «Che diremo dunque? C’è forse
ingiustizia da parte di Dio?». Ognuno risponda da sé.
Per quanto mi riguarda, a questo punto la mia ragione non può non avvertire
un senso di disagio e un moto di ribellione, probabilmente sperimentati dallo
stesso Paolo quando esponeva a voce queste idee ai suoi interlocutori, visto che
egli prontamente risponde: «O uomo, chi sei tu per contestare Dio? Oserà forse
dire il vaso plasmato a colui che lo plasmò: Perché mi hai fatto così? Forse il
vasaio non è padrone dell’argilla, per fare con la medesima pasta un vaso per uso
nobile e uno per uso volgare?» (Romani 9,20-22). L’apostolo, che altrove ha
composto una delle più belle pagine di tutti i tempi sul primato e la purezza
dell’amore scrivendo tra l’altro che «l’amore non manca di rispetto» (1Corinzi
13,5), qui presenta l’apoteosi dell’onnipotente arbitrio divino che si relaziona agli
uomini a prescindere da ogni minimo senso di rispetto e di giustizia, una piatta
logica dei muscoli, una specie di bullismo divino.
In questa stessa prospettiva si legge in 2Tessalonicesi 2,11: «Dio manda loro
una forza di seduzione, perché essi credano alla menzogna». Persino i Vangeli non
sono privi di questa sinistra ambiguità che attribuisce a Dio la volontà di
predestinare al male alcuni esseri umani. Secondo il Quarto Vangelo infatti
durante l’ultima cena Gesù ha appena detto che uno dei suoi lo tradirà, Pietro
allora dice al discepolo prediletto di chiedere a Gesù chi possa essere il traditore
ed ecco come prosegue il testo: «Rispose Gesù: “È colui per il quale intingerò il
boccone e glielo darò”. E, intinto il boccone, lo prese e lo diede a Giuda, figlio di
Simone Iscariota. Allora, dopo il boccone, il Satana [ho Satanâs] entrò in lui»
(Giovanni 13,26-27).
60. Bilancio
Il NT non si cura di definire Dio nella sua essenza, però per tre volte usa
l’espressione «Dio è», aggiungendo un termine per connotarne l’essere. I testi, in
ordine canonico, sono i seguenti:
– Giovanni 4,24: «il Dio è spirito» (pneûma ho Theós);
– 1Giovanni 1,5: «il Dio è luce» (ho Theós phôs estín);
– 1Giovanni 4,8 e 4,16: «il Dio è amore» (ho Theós agáp? estín).
Sintetizzando le tre affermazioni si ottiene la rappresentazione
neotestamentaria della Realtà primaria che presiede la realtà secondaria del
mondo e che per questo è detta «il Dio»: uno spirito luminoso colmo di amore, o,
come scrive Dante, «luce intellettual, piena d’amore» (Paradiso, XXX,40). Anzi,
uno spirito colmo esclusivamente di amore, visto che di tale Realtà non si dice
che ha amore, bensì che è amore; se avesse amore, in essa l’amore potrebbe
coesistere con altri sentimenti, persino opposti, come accade negli esseri umani,
in quel guazzabuglio del loro cuore; dicendo invece «il Dio è amore», si esclude
necessariamente la presenza di sentimenti contrastanti, perché, se tale Realtà
primaria odiasse, invidiasse, volesse il male in qualunque forma, cesserebbe di
essere se stessa.
Ciò porta a considerare che chi parla nei testi analizzati sopra presentandosi
come Dio e ordinando e praticando il male, non sia per nulla il vero Dio, visto che
non ha niente a che fare con spirito-luce-amore, e a ritenere che quei testi non
siano altro che una strumentalizzazione a fini di potere dell’idea di Dio, nel
migliore dei casi un tentativo non riuscito di avvicinarsi all’essere di Dio non con
la purezza che appartiene di diritto alla divinità, ma con categorie antropomorfe,
spesso maschiliste, basate sull’ideale della forza e del potere. Il che conduce a
leggere la Bibbia introducendo in essa il punto di vista dell’evoluzione e della
processualità anche riguardo all’idea di Dio da essa veicolata. Ma si faccia
attenzione: se la Bibbia è da intendersi come reale Parola di Dio, questo significa
che l’evoluzione biblica rivela una vera e propria evoluzione anche in Dio nel suo
rapporto con il mondo.
Sto dicendo che il lato oscuro della divinità presentato da numerosi testi
biblici, se non può appartenere a Dio nella sua essenza che è luce e amore, d’altro
lato non può essere facilmente cancellato dicendo che tali testi biblici riflettono
stadi preparatori e impuri della rivelazione, scritti a scopo pedagogico per
un’umanità non ancora in grado di accogliere la pienezza della rivelazione, come
spesso si ripete. Tale consueta spiegazione non regge per almeno tre motivi: 1)
perché ogni essere umano è figlio di Dio ed è inconcepibile pensare che Dio
privilegi alcuni, ai quali rivela se stesso nella sua pienezza come amore, e
discrimini altri, ai quali rivela di sé solo un aspetto parziale e contingente; 2)
perché in quegli stessi libri che contengono passi problematici ve ne sono altri che
vengono comunemente utilizzati dalla teologia e dalla liturgia; 3) perché anche al
vertice della rivelazione cristiana che è il NT sono presenti lati oscuri della
divinità, persino in alcune parole attribuite a Gesù. Rimane quindi il problema di
come collocare questi testi che, ritenuti Parola di Dio, testimoniano un
imbarazzante lato oscuro della divinità.
Io penso che fino a quando questi testi vengono letti alla luce della teologia
tradizionale che non conosce l’originarietà strutturale dell’oscurità del caos ma
solo la pura luce del logos (e per questo interpreta il caos come peccato) non c’è
nessuna possibilità di poterli conciliare con le pagine bibliche su Dio come amore,
luce, spirito di santità. Per avere la possibilità di schiodare la Bibbia da questa
intrinseca e imbarazzante contraddizione proprio sull’aspetto decisivo, cioè
l’identità di Dio nel suo rapporto con il mondo, è necessario cambiare il
tradizionale paradigma cosmologico mondo creato = Logos (con la conseguente
interpretazione del caos come peccato) mutandolo in Logos + Caos (nel senso che
il mondo è originariamente anche caos), e ciò al fine di permettere la nascita della
libertà e quindi dell’amore.
A proposito dell’amore occorre aggiungere che ai credenti è comandato di
«amare Dio», ma com’è possibile amare Dio se lui per primo non è amore, nel
senso di esclusivamente amore? Se non è solo amore, lo si potrà temere, riverire,
omaggiare, ma non amare. Per esistere infatti l’amore ha bisogno a sua volta di
amore, l’amore si nutre di amore, e se l’idea di Dio non trasmette amore non è
possibile amarlo. Chi coltiva un’immagine di Dio che, oltre a essere amore, è
anche all’occasione qualcos’altro (per esempio calcolo che permette che il dolore
e la morte si abbattano su un innocente per trarne un bene maggiore, come
insegnava Agostino e come ripete oggi il Catechismo), è strutturalmente incapace
di amare Dio, e anche se dice di amarlo, in realtà ama solo la propria religione, la
propria istituzione, la propria appartenenza, in fondo solo se stesso e le proprie
sicurezze. In realtà, per amare veramente Dio, Dio per primo deve essere amore e
trasmettere amore. Ma per giungere a sostenere legittimamente, al cospetto del
dramma del mondo, che Dio è amore, la condizione indispensabile è l’abbandono
del paradigma cosmologico tradizionale della dottrina cattolica (quello, ripeto,
secondo cui Dio crea il mondo originariamente perfetto e lo governa con
onnipotenza assoluta, e le imperfezioni del mondo sono dovute al peccato
dell’uomo e permesse dall’onnipotenza divina per trarne un bene maggiore).
Occorre abbandonare questo modo di pensare per assumere il paradigma che
legge il mondo come un processo alla cui origine non c’è nessuna perfezione
iniziale e quindi nessun peccato che l’abbia infranta, quanto piuttosto un quantum
di energia originariamente imperfetto in cui convivono logos e caos, ordine e
disordine, e da cui scaturisce un processo dinamico orientato alla produzione di
sempre maggiore ordine, ma con l’inevitabile conseguenza di generare sempre
maggiore disordine: il risultato è che nel mondo aumenta il logos e aumenta
insieme il caos, per un dramma il cui nome più appropriato è, a mio avviso, quello
di pathos-passione.
Assumere questa prospettiva significa coinvolgere Dio nel farsi del mondo,
rifiutandosi di concepirlo come già pienamente realizzato a prescindere dal
mondo e rifiutandosi di ritenere il mondo come inessenziale per la sua divinità.
Questa prospettiva conduce piuttosto a concepire il mondo come essenziale per
l’identità di Dio, tale cioè da toccarne e plasmarne la vita. Accettarla significa
collocare la passione nell’essere stesso di Dio.
In questa prospettiva i numerosi testi biblici che presentano un volto oscuro di
Dio appaiono come l’attestazione, certamente segnata dai limiti di una cultura di
molti secoli fa, di un unico ininterrotto processo dentro cui Dio e il mondo sono
insieme coinvolti, un processo dialettico di logos + caos al cospetto del quale, più
che parlare come fa Pareyson di «male» in Dio, a me pare più opportuno parlare
di «caos» in Dio, o meglio nel rapporto di Dio con il mondo (visto che di Dio in
sé a noi non è dato parlare). Nella figura divina che emerge dalla rivelazione
biblica c’è un fondo oscuro, non sempre illuminato dalla luce del logos. Ne hanno
già parlato alcuni grandi autori spirituali. Meister Eckhart per esempio giunse a
distinguere Dio da divinità, Gott da Gottheit, sostenendo che la Divinità è più
ampia di Dio, contiene più essere, è maggiormente in grado di abbracciare
l’universalità della vita in tutte le sue contraddittorie manifestazioni, le quali non
sono solo logos, ma sono anche caos. Ecco le sue parole: «Vi dirò qualcosa che
non ho mai detto: Dio e la Divinità sono separati l’un l’altra così ampiamente
come il cielo lo è dalla terra». E più avanti, nello stesso sermone: «Dio opera, la
Divinità non opera, non ha niente da operare, in lei non è alcuna opera; mai ha
guardato ad un’opera. Dio e la Divinità sono separati dall’agire e dal non agire».4
Come sia Dio in se stesso alla mente dell’uomo non è dato concepirlo e a un
cristiano non resta che ripetere quanto afferma al proposito il NT, cioè che Dio è
spirito, luce, amore. Ma nel suo rapporto con il mondo, un rapporto divenuto
essenziale a seguito della creazione, Dio non è definibile solo dalla luce del logos,
è necessario convocare anche la tenebra del caos. Oltre a Meister Eckhart l’hanno
intuito e prima ancora sperimentato Gregorio di Nissa, Dionigi Areopagita,
Nicolò Cusano, Giovanni della Croce. Con la scelta di creare (ammesso che
questa terminologia sia lecita), la caoticità dell’essere e della vita entra in Dio ed
egli, in quanto relazione reale con un mondo caotico, ospita anche il caos. Se la
creazione segna l’ingresso del logos nel caos, come si ritiene solitamente, essa è
anche l’ingresso del caos nel logos; la creazione è questo impasto drammatico,
questo pathos ininterrotto che fa gioire e gemere al contempo ogni vivente, e
quindi anche Dio.
C’è infatti una sola possibilità di intendere Dio nel suo rapporto con il mondo
come definito interamente solo dal logos: prendere alla lettera i testi analizzati in
questo capitolo, sostenendo che Dio abbia effettivamente fatto operare e operato
egli stesso il male. Queste pagine bibliche impongono un’alternativa radicale nel
pensare la logica che presiede il mondo:
– o logos sempre e comunque (e quindi Dio è autore anche del male, perché
tutto l’essere dipende dal suo logos che determina ogni fenomeno del mondo);
– o logos + caos (e quindi Dio non è autore del male, perché una porzione
rilevante di essere non dipende da Dio logos).
Io sostengo questa seconda prospettiva. Ben lungi dal panteismo speculativo
che nega la legittimità della distinzione tra bene e male, e ben lungi dal teismo
dogmatico che non sa rendere conto del male e del caos testimoniati dai numerosi
testi biblici qui analizzati e ne parla solo in termini di peccato (il dogma del
peccato originale), io mi colloco in una posizione che sostiene che anche Dio
nella sua relazione con il mondo è in divenire, che anche Dio è alle prese con un
processo che riguarda non solo il mondo ma anche il suo essere in quanto creatore
continuo del mondo.
Questa prospettiva individua l’assoluto non in Dio, ma nel regno di Dio, nel
«Dio tutto in tutti» prefigurato da san Paolo al termine della Prima lettera ai
Corinzi (15,28: «E quando tutto gli sarà sottomesso, anch’egli, il Figlio, sarà
sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti»).
Questa visione processuale, ponendo l’assoluto non in Dio ma nel regno di Dio,
concepisce l’assoluto come «Dio + mondo», e quindi fa del mondo una
componente essenziale per la pienezza della divinità di Dio. Essa supera il teismo
senza cadere nel panteismo, dando vita alla figura concettuale del pan-en-teismo.
X. DIO E IL MONDO
«I criteri che abitualmente si richiedono per una buona teoria sono che essa sia
semplice, elegante, controllabile, e che abbia un grande potere di unificazione.»1
George Coyne
61. La necessità di una nuova visione del mondo
La posta in gioco delle analisi finora condotte è la sostenibilità dell’amore
quale filosofia di vita e il primato del bene e della giustizia che a livello etico ne
consegue. Io sono convinto che al cospetto della mente e dei suoi dubbi non si
possono sostenere né etica né spiritualità senza una visione del mondo e la
conseguente filosofia della natura che essa porta con sé, e l’idea di «un’etica
senza ontologia» di cui ha parlato Hilary Putnam è destinata a mio avviso a non
andare molto lontano,2 perché ogni etica è necessariamente il riflesso di
un’ontologia di cui riproduce nella pratica la complessiva visione e valutazione
del mondo. Se è vero, come scrive Dante nell’ultimo celebre verso della
Commedia, che è «l’amor che move il sole e l’altre stelle» (Paradiso,
XXXIII,145), allora la vita all’insegna dell’amore appare una piena realizzazione
dell’essere naturale che ciascuno di noi è; se invece non è così, se invece il mondo
naturale non ha nulla a che fare con l’amore ma è solo forza e guerra, allora la
vita all’insegna dell’amore non potrà che essere alienazione e generare infelicità.
Precisamente per questo, il compito a cui il pensiero deve tendere è la
produzione di una visione del mondo, intendendo con essa «il principio, espresso
in forma universale, di un modo di valutare, di comportarsi e di agire».3 In questa
prospettiva penso che la crisi attraversata dall’etica ai nostri giorni sia dovuta in
radice all’assenza di un sapere unitario che sappia armonizzare i dati scientifici
con i principi etici e giuridici, e alla conseguente incapacità di produrre una
sintesi teoretica in grado di abbracciare la realtà e infondere orientamento alla
mente nella vita concreta, come i grandi sistemi filosofici del passato hanno
sempre fatto.
La necessità di tornare ad avere una credibile visione del mondo è un compito
urgente soprattutto per il cristianesimo. Per prenderne coscienza è sufficiente
riflettere sui fondamenti della sua fede. Nell’articolo del Credo a proposito di
Gesù si legge che «discese dal cielo», che «è salito al cielo», che «siede alla
destra del Padre», che «di nuovo verrà nella gloria». La dottrina quindi colloca
Gesù nel cielo. Lo stesso fa la preghiera più importante dei cristiani a proposito di
Dio Padre seguendo quanto aveva insegnato Gesù in conformità alla cosmologia
di duemila anni fa («Padre nostro che sei nei cieli»). Lo stesso fa il dogma più
recente della Chiesa cattolica, stabilito 1950 anni dopo la nascita di Gesù, che
proclama la Madonna «innalzata in anima e corpo alla gloria del Cielo» (DH
3902). Lo stesso fanno i genitori cristiani quando devono rispondere ai figli che
chiedono dove siano andati il nonno o la nonna ora che sono morti. Ma che cos’è
questo cielo?
Recitare gli articoli del Credo, pregare il Padre Nostro o prefigurarsi il
Paradiso conduce necessariamente a pensare a un Universo a tre piani, e il punto è
che si tratta di contenuti così decisivi della fede cristiana che un credente
responsabile non può fare a meno di professarli; al contempo però essi
contengono affermazioni sul mondo così superate che un uomo responsabile non
può più in coscienza continuare a sostenerle. Da qui il «disagio dell’intelligenza»
già denunciato da Simone Weil che sempre più pervade il cristianesimo.4 Il
problema consiste esattamente nell’invecchiamento irreversibile della visione del
mondo che fa da impalcatura alle affermazioni della dottrina.
La questione è se sia possibile ritrascrivere i dogmi alla luce di una nuova
cosmovisione e a quale prezzo. Per quanto mi riguarda, sono convinto che il
problema non è più rimandabile almeno per due motivi. Anzitutto perché la
discrepanza tra la dogmatica e l’odierna visione del mondo rende l’intero
cristianesimo sempre meno credibile e sempre più sorpassato, con la conseguenza
che il suo luminoso messaggio esistenziale, cioè l’esistenza vissuta all’insegna
dell’amore e della fiducia verso la vita, non ha più un’àncora a cui aggrapparsi e
viene sbattuto qua e là nella tempesta della mente. In secondo luogo perché il
modo con cui si pensano il mondo e la natura decide anche quello con cui si pensa
Dio; non è solo infatti la teologia a influenzare la cosmologia, è anche la
cosmovisione a influenzare la teo-visione, e da tale reciproca correlazione tra
pensiero di Dio e pensiero del mondo consegue inevitabilmente che a
un’antiquata visione del mondo corrisponde un’antiquata visione di Dio.
All’Universo a tre piani corrisponde l’immagine di Dio quale vecchio signore
nerboruto con la barba bianca, il triangolo in testa, il mondo nella mano, e un fare
sempre un po’ minaccioso. È quindi necessario che la teologia e la spiritualità
recepiscano i risultati delle ricerche scientifiche e cerchino di ripensare la visione
del mondo della tradizione, come del resto si è sempre fatto nella storia del
cristianesimo, visto che i grandi teologi del passato nell’elaborare la loro teologia
si appoggiavano su una precisa cosmovisione.
Ovviamente è chiaro che, com’è crollata l’immagine del mondo a tre piani che
avevano Gesù, gli apostoli, i Padri della Chiesa e i teologi medievali, allo stesso
modo crollerà la cosmovisione che oggi si tenta di costruire. È naturale che sia
così, il cosmo con il suo mistero è tanto immenso che nessuna mente o sistema di
menti lo racchiuderà mai, e anzi questa radicale indeterminazione della mente nel
rapporto con il mondo è necessaria perché si possa continuare a dare la libertà.
Infatti il giorno in cui il sapere giungesse a stabilire con certezza l’origine e la fine
delle cose non ci sarebbe più spazio per la libertà, rimarrebbe solo l’obbedienza,
come di fronte all’aritmetica o alla geometria che studiavo a scuola il cui unico
scopo era giungere al quod erat demonstrandum (come volevasi dimostrare)
disciplinando la mente con il loro inflessibile rigore. Anche la cosmovisione
contemporanea crollerà e ne sorgerà una più ricca e più affidabile, anche se, a sua
volta, provvisoria, come tutto ciò che riguarda questo mondo che proprio per
questo va pensato come realtà secondaria. Tale stato di cose tuttavia non dispensa
dal compito di giungere a una cosmovisione il più possibile coerente con i dati
forniti dalla ricerca attuale, così da poter rinvenire alla sua luce l’ipotesi più
plausibile sul senso del nostro essere e del nostro agire.
Nei capitoli precedenti ho illustrato la mia visione del mondo denominata
«principio-passione» (logos + caos = pathos) confrontandola con altre
cosmogonie, con i risultati della ricerca scientifica, con la dottrina cattolica
tradizionale, con l’insegnamento sul negativo e sul caos che scaturisce da una
considerazione dei testi biblici sulla natura. In quest’ultimo capitolo, dal taglio più
sistematico, affronterò le quattro questioni fondamentali che a mio avviso
definiscono la teologia della creazione: caos, motivo della creazione, forma della
creazione, teodicea. Dapprima mi occuperò della decisiva questione del caos o del
negativo, discutendone l’origine e il ruolo nel processo cosmico e mostrandone
l’originarietà, cioè il suo essere da sempre un elemento strutturante la dinamica
del mondo, e non invece scaturito in un secondo tempo a seguito di un peccato
cosiddetto originale (paragrafi 62-63). Presenterò poi le mie riflessioni sulla
teologia della creazione o della natura rispondendo a tre domande basilari:
– perché Dio ha creato il mondo (paragrafo 64)?
– in che senso Dio è, e in che senso Dio non è, il creatore del mondo (paragrafi
65-68)?
– perché nel mondo creato da Dio c’è una così grande presenza del male
(paragrafo 69)?
Concluderò il capitolo con alcuni pensieri su Dio e sulla fede (paragrafi 7071).
62. Il caos
Penso che a livello di storia della cultura la modernità si possa interpretare
come l’ingresso del caos nella mente e nella società. Le proiezioni mentali erette
dalla tradizione classica e medievale a mo’ di barriere protettive contro
l’insinuarsi del caos, le quali avevano consentito per lungo tempo di concepire
l’Universo, la società e la mente come un cosmo, «all’apparir del vero»
(Copernico, Keplero, Galileo, Darwin, Marx, Freud) crollarono con la stessa
facilità con cui erano crollate le mura di Gerico al suono delle trombe degli
israeliti. La modernità coltivò il sogno di ergere gli ideali dell’umanità
(esemplificabili nella triade rivoluzionaria liberté, égalité, fraternité) a far da
barriera contro il caos, ma la postmodernità è sorta esattamente per il fallimento
di tale progetto, e oggi sembra non sia rimasto più nulla a proteggere le anime dal
soffio gelido di un caos senza traccia di logos, da un nichilismo che si insinua in
ogni considerazione sulla natura e sulla storia togliendo fondamento e sostanza ai
sacri ideali dell’umanità quali il bene, la giustizia, il pudore, la fedeltà, la
solidarietà. Dei tre ideali rivoluzionari solo la libertà sembra rimasta in auge, ma
anch’essa inizia a essere minacciata nella sua stessa condizione di possibilità, cioè
il libero arbitrio.5
Alla luce di questa situazione io ritengo compito inderogabile del pensiero
teologico occuparsi del caos, cercando di comprenderne il ruolo e la funzione
nell’evoluzione della natura e della storia. A questo riguardo penso sia
indispensabile superare l’impostazione teologica tradizionale che interpreta il
caos unicamente in termini di peccato e che ha condotto al cristianesimo
amartiocentrico della tradizione basato sul nesso «peccato originale + redenzione»
con la colpa originaria quale vero centro generatore del cristianesimo e gli infiniti
sensi di colpa che ne sono scaturiti.6
L’incapacità della dottrina tradizionale di considerare il caos elemento
originario riducendolo moralisticamente a peccato costituisce la grande aporia
della visione cristiana del mondo, da cui derivano le altre insufficienze a livello
antropologico (il mito del peccato originale e il pessimismo di fondo sulla natura
umana), a livello di morale sessuale (l’incapacità di comprendere la libido, bollata
sempre e solo come concupiscenza), a livello ecclesiologico (un verticismo
autoritario che reprime l’indeterminazione della libertà), a livello della
considerazione del rapporto Dio-mondo (incapacità di rendere conto del male e
del negativo). La Bibbia al contrario conosce il caos, sia quello primordiale,
rappresentato dai termini di Genesi 1,2 («la terra era tohu wabohu e le tenebre
ricoprivano tehom»), sia quello attualmente operante nella natura, rappresentato
dalle immagini dei Mostri e delle Potenze cosmiche e sataniche, e tale da evocare
un lato oscuro del divino. Se questi elementi non vanno certamente letti come
precise indicazioni sul mondo fisico, è altrettanto vero che intendono comunicare
qualcosa del mondo naturale nella sua fisicità e questo qualcosa è l’esperienza del
caos. Questa dimensione caotica e non logica (nel senso di non riconducibile al
logos) rappresenta una viva esperienza della natura attestata dalla Bibbia in
numerosi passi e che come tale deve entrare nella comprensione cristiana della
natura. Sorge però inevitabile la questione: da dove viene questo caos? E prima
ancora,
che
cos’è?
Dal punto di vista della teologia cristiana non è possibile sostenere che esso sia
la stessa natura divina, cioè la Realtà primaria in sé, e questo perché la rivelazione
neotestamentaria attesta che la Realtà primaria di Dio è spirito, luce, amore
(pneûma, phôs, agáp?). Ne viene che il caos non appartiene a Dio in sé, né tanto
meno è Dio in sé. Il caos però non è neppure un principio sussistente da sempre
all’infuori di Dio, perché il principio cardine del monoteismo esclude tale
dualismo dell’essere e ogni conseguente denigrazione della natura. Il caos infine
sembra non poter essere neppure la prima cosa creata da Dio, perché questa
secondo Genesi 1,3 è la luce («Dio disse: “Sia la luce!”. E la luce fu»). Torna
quindi la domanda: da dove viene e che cos’è questo caos?
Rifaccio il ragionamento cercando di approfondirlo e allo stesso tempo di
chiarirlo. Il caos o è dentro la Realtà primaria detta Dio o ne è fuori, cioè solo
nella realtà secondaria del mondo. In fedeltà al NT escludo che la Realtà primaria
di Dio possa contenere il caos, e quindi assumo che il caos abbia origine fuori da
Dio. A questo punto vi sono solo tre possibilità:
– il caos è originario, cioè sussistente da sempre accanto a Dio e quindi divino
esso stesso;
– il caos è creato da Dio quale prima opera della creazione;
– il caos è introdotto da una creatura contro la volontà di Dio.
La terza possibilità è quella sostenuta dalla dottrina cattolica tradizionale
mediante il dogma del peccato originale del primo uomo e mediante il
teologumeno del peccato angelico. Essa però si rivela aporetica perché il caos
deve essere già nella creatura perché essa lo possa volere. All’origine della scelta
per il caos e non per il logos vi deve essere già nella creatura l’indeterminazione
della libertà. Il peccato originale del primo uomo, e il peccato angelico a cui esso
rimanda, non possono quindi essere l’origine del caos, dello spazio vuoto e
indeterminato che a livello umano si chiama libertà e a livello fisico si chiama
indeterminazione, caso, contingenza. Al contrario, il peccato originale, sia umano
sia angelico, suppone il caos, lo esprime, lo manifesta, perché senza il caos non
sarebbe stato possibile. Se il principio del mondo fosse stato solo il logos, nessun
peccato sarebbe mai potuto avvenire, né umano né angelico.
Escludendo quindi la terza posizione, ed escludendo anche la prima per il
dualismo metafisico e la denigrazione della materia che porta con sé, non rimane
che la seconda: il caos è la prima opera della creazione divina, il caos è creato da
Dio. Il vero autore del caos risulta Dio stesso in quanto creatore dello spirito
libero, cioè per definizione indeterminato e caotico.
Questo però non va inteso nel senso che Dio disse: «Sia il caos, e il caos fu»,
nel senso cioè che Dio volle il caos in quanto tale; va inteso piuttosto nel senso
che l’essere creato è da subito un intreccio originario di logos e di caos. La
creazione genera non un essere perfetto ma un essere imperfetto, non un essere
già compiuto ma un essere incompiuto, e perciò essa è destinata a modellarsi
lentamente e faticosamente lungo il processo cosmico. Ma ecco il punto decisivo:
tale indeterminazione iniziale è la condizione necessaria per la nascita della
libertà. Se Dio non avesse posto l’essere iniziale quale impasto di logos e di caos
in un’originaria dialettica di ordine e di disordine a causa della sua incompiutezza,
non sarebbe mai potuta sorgere la libertà, né lo spirito che l’esprime. Ma siccome
la finalità della creazione è esattamente il sorgere della libertà perché essa si
determini liberamente come amore (cioè, per usare la terminologia religiosa, la
santità), è del tutto coerente con questo obiettivo che l’essere iniziale sia non
perfettamente compiuto ma allo stato caotico. Senza il caos originario, la libertà e
l’amore non avrebbero mai potuto nascere.
Questa dialettica originaria di logos + caos è ciò che emerge dal libro della
Genesi nei suoi primi undici capitoli, i quali sono da leggere non come narrazioni
separate ma come un’unica storia che dice esattamente l’originarietà di logos
(Genesi 1-2) e di caos (Genesi 3-11), cioè la contraddizione della vita presentata
mediante un dittico composto dalla pala luminosa dei primi due capitoli (dove la
creazione è tutta luce perché tutto è buono e molto buono) e dalla pala oscura
degli altri nove capitoli (dove tutto è negativo o negativamente connotato: si pensi
alla cacciata dal paradiso terrestre, all’omicidio di Abele da parte di Caino,
all’unione sessuale tra i «figli di Dio» e le figlie degli uomini, al diluvio
universale, alla torre di Babele). Il messaggio concettuale del dittico
contraddittorio di Genesi 1-11 è per l’appunto l’impasto originario di logos +
caos. Il portale d’ingresso nel libro sacro dell’Occidente è la testimonianza
dell’insolubile contraddizione che da sempre costituisce l’esperienza vitale, ma da
cui solo può scaturire la libertà. Il caos appare come la prima necessaria
caratteristica della creazione perché possa nascere la libertà, la condizione per un
pensiero in grado di accettare o no la realtà, di accettare o rifiutare la vita, di dire
sì oppure no al mondo e alla Realtà primaria.
In questa prospettiva la vita si può esprimere come un processo che, attraverso
il disordine, acquista sempre nuovo ordine. Senza disordine nessun livello
superiore è possibile, il negativo è parte essenziale del motore dell’evoluzione del
cosmo come testimoniano le mutazioni genetiche che producono malattie
incurabili e handicap gravosi ma senza le quali non si sarebbe avuta nessuna
crescita dell’organizzazione vitale. Ne viene che l’aumento del positivo ha
implicato un parallelo accumulo di negativo, con l’inevitabile passione dell’essere
che ne scaturisce: logos + caos = pathos. Dalla negazione dell’ordine introdotta
dal disordine sono scaturiti più ordine, più informazione, più complessità, più
relazioni, mai però a costo zero, sempre piuttosto a costo del sangue.
Rispettando l’azione della libertà che al livello naturale si dà come caos-caso,
il logos guida lo sviluppo dell’essere a due livelli: lo guida dall’alto, in quanto
fine che esercita un potere di attrazione, e lo guida dal basso, in quanto forza o
slancio vitale che agisce dentro i fenomeni. Questa seconda considerazione porta
a pensare che il logos non guidi dall’alto di un trono, ma, come dice il linguaggio
cristiano, amando «fino alla fine» (Giovanni 13,1), laddove la fine corrisponde
alla passione e alla consumazione della morte.
«In principio era il caos», dice Esiodo; «In principio era il logos», dice il
Quarto Vangelo. Io penso che la verità (la quale necessariamente si fa mediante
antinomia, come insegna Pavel Florenskij7) scaturisca dalla sintesi di queste due
affermazioni capitali, le quali portano al pensiero la libertà e la necessità, il
disordine e l’ordine, e il cui risultato si chiama pathos-passione.
63. Logos + caos ovvero «le verità profonde»
In polemica con Bertrand Russell e Peter Atkins, l’astrofisico britannico Paul
Davies ha affermato: «Nulla all’interno della scienza costringe a favorire
l’entropia rispetto alla complessità organizzata per caratterizzare l’evoluzione
dell’Universo». Ciò significa che non è corretto assumere solo il negativo come
unico parametro-guida per valutare globalmente l’Universo, e questo perché, oltre
all’entropia, è in gioco un altro parametro fondamentale, cioè la neghentropia o
disordine negativo (cioè ordine in quanto aumento della complessità). Scrive
ancora Davies: «La ricchezza e la diversità dei sistemi fisici che osserviamo oggi
sono emerse a partire dall’inizio attraverso una lunga e complicata serie di
processi di auto-organizzazione e di auto-accrescimento della complessità. Da
questo punto di vista, la lunga storia dell’Universo è una storia di arricchimento
progressivo, non di decadenza. Si potrebbe persino definire una misura della
complessità organizzata che aumenta nel tempo come aumenta l’entropia».8
Si dà quindi coesistenza tra aumento di entropia e aumento di organizzazione o
complessità. Il che significa che nel mondo aumenta il disordine e,
contestualmente, aumenta anche l’ordine. L’ordine e il disordine sono due
dinamiche contrapposte ma entrambe vere, secondo quella logica della profondità
di cui parlava Niels Bohr, il padre della meccanica quantistica: «Ci sono due tipi
di verità: le verità ovvie, dove gli opposti sono chiaramente assurdi, e le verità
profonde, riconoscibili dal fatto che l’opposto è a sua volta una profonda verità».9
Hegel aveva individuato il medesimo dinamismo a proposito della logica che
governa il farsi della verità: Contradictio est regula veri, non contradictio falsi
(«la contraddizione è la regola del vero, la non contraddizione del falso»).10 Il
vero non coincide con la staticità dell’esatto, coincide piuttosto con la dinamicità
del buono nel senso fisico del termine, cioè in quanto incremento
dell’organizzazione vitale. E a questo proposito occorre sempre ricordare che
talora al fine di incrementare l’organizzazione è necessario introdurre disordine,
dare spazio al caos, esporre il sistema al negativo. È la visione processuale
dell’essere: caos ? organizzazione ? caos ? organizzazione e così via, verso livelli
sempre più complessi di organizzazione e verso livelli sempre più estesi di caos (e
proprio per questo diventa sempre più difficile vivere).
Penso che le acquisizioni per elaborare una visione sulla forma e la finalità del
cosmo (alla cui luce pensare anche il senso del nostro essere) si possano
riassumere in tre passi fondamentali:
1) l’Universo ha iniziato a espandersi e continua a espandersi; il dato della
espansione cosmica è il dato fondamentale;
2) l’Universo in questa sua espansione tende a perdere calore, a degradare la
propria energia: è l’entropia di cui parla il secondo principio della termodinamica;
3) l’Universo in questa sua espansione aumenta in organizzazione e
informazione, cioè evolve passando da minore a maggiore organizzazione; la
massima manifestazione di questa organizzazione della materia e dell’energia è,
per quanto ci è dato conoscere, la vita intelligente e libera dell’uomo.
Siamo parte di un processo che produce ordine mediante disordine,
organizzazione mediante caos, evoluzione mediante involuzioni, ovvero logos +
caos; un processo che, su chi lo vive, produce una condizione che possiamo
chiamare pathos-passione.
La coesistenza originaria di logos e di caos conduce ad affrontare in modo
nuovo l’antica contrapposizione tra teismo e ateismo. Secondo il teismo il mondo
è governato dall’alto, c’è una provvidenza che si occupa di tutte le cose, e il male,
che deriva dalla colpa dell’uomo e prima ancora degli angeli, è comunque
permesso da Dio-logos al fine di trarne un bene maggiore. Secondo l’ateismo il
mondo è in balìa del caso, non c’è alcun disegno o scopo in esso, e il male e il
dolore (così come il bene e la felicità) non sono altro che manifestazioni di questa
casualità originaria priva di ogni plausibile senso all’insegna di una comune, per
citare il celebre romanzo di Milan Kundera, «insostenibile leggerezza
dell’essere».
Entrambe le teorie esprimono una visione molto cupa: la prima dell’uomo (la
libertà di cui gode è intrinsecamente corrotta dalla macchia con cui nasce); la
seconda del mondo, ed è questo pessimismo di fondo l’atmosfera nella quale oggi
siamo immersi, una malattia spirituale data dall’incapacità di pensare insieme il
mondo e il nostro destino.
A mio avviso c’è la possibilità di sciogliere tale nodo teoretico solo se si
considera che ciò che aumenta nel mondo è sia il caos-entropia sia il logosinformazione. Non aumenta solo l’una o l’altra grandezza, come ritengono le due
visioni contrapposte del teismo tradizionale e dell’ateismo altrettanto tradizionale;
nell’espansione ininterrotta dell’Universo aumenta l’entropia e aumenta la
neghentropia, aumenta il caos e aumenta il logos, e la somma di questi due
aumenti contrapposti produce l’antinomia sempre più intensa dentro cui le nostre
esistenze si svolgono che si chiama passione e che ci chiama alla passione nel
duplice senso del termine, come sentimento che appassiona e come condizione
che fa soffrire.
Tale struttura di aumento del disordine e dell’ordine nello stesso tempo ma a
livelli diversi si riproduce nella persona umana. Anche qui si dà un processo
mediante cui nell’organismo aumenta l’entropia fino alla morte, ma mediante cui
è anche possibile un aumento dell’informazione al livello dello spirito come
progressiva purificazione, leggerezza, libertà da sé, fino al diventare bambini di
cui parlava Gesù, e che traspare da quegli anziani che hanno raggiunto il vertice
dell’arte di vivere, cioè la semplicità, e non chiedono più nulla se non di essere,
così come un albero o come una montagna, dando compimento a uno dei passi più
belli della Bibbia: «Io sono quieto e sereno: come un bimbo svezzato in braccio a
sua madre, come un bimbo svezzato è in me l’anima mia» (Salmo 131,2).
L’essere umano con l’avanzare dell’età mostra un aumento di entropia a livello
fisico, ma può anche mostrare un aumento di neghentropia sotto forma di
informazione che a livello di vita spirituale si chiama tradizionalmente saggezza.
In questa prospettiva di logos + caos ora affronterò in modo sistematico le
tematiche fondamentali della teologia della creazione, esemplificate da queste tre
semplici domande: 1) perché Dio ha creato il mondo? 2) In che senso Dio è il
creatore del mondo? 3) Perché nel mondo creato da Dio c’è così tanto male?
64. Perché Dio ha creato il mondo?
Porre il caos all’inizio del processo cosmico quale elemento strutturale dovuto
all’indeterminazione dell’essere creato conduce a rivedere in radice la tradizionale
teologia della creazione e della natura. Una luce nuova si diffonde anzitutto sulla
mai chiarita questione del motivo per cui Dio abbia messo in moto il processo
cosmico. Perché Dio ha creato il mondo? Non è una domanda a cui sia facile
rispondere, se persino Jean Guitton è giunto a dichiarare: «Se io fossi stato al
posto di Dio, mi sarei contentato di esistere; non avrei creato nulla. Perché Egli ha
creato qualcosa quando poteva non farlo?».11
La dottrina tradizionale sostiene che «il mondo esiste per un disegno di Dio
assolutamente libero»,12 nel senso che Dio di fronte all’esserci del mondo gode
di assoluta libertà: il mondo con tutti i viventi avrebbe potuto serenamente non
esistere senza scalfire in nulla la perfezione di Dio. La creazione del resto si
chiama così proprio per distinguerla dai processi dominati dalla necessità, come la
processione e l’emanazione. Secondo la visione cattolica tradizionale Dio è
strutturalmente padre solo del Figlio nella dinamica della vita trinitaria, mentre
non lo è in alcun modo del mondo. Il mondo avrebbe potuto tranquillamente non
esistere senza che per Dio in sé mutasse nulla. Sorge però inevitabile la domanda:
perché allora Dio l’ha creato? Che cosa voleva? Che cosa vuole? Qual è
l’obiettivo di tale immane processo che si chiama mondo?
A tale questione la teologia fornisce abitualmente due risposte, la prima
teocentrica, la seconda antropocentrica. Un esempio di teocentrismo è quanto
prevede l’attuale Catechismo all’articolo 293, riprendendo il concilio Vaticano I:
«È una verità fondamentale che la Scrittura e la Tradizione costantemente
insegnano e celebrano: Il mondo è stato creato per la gloria di Dio». Un esempio
di antropocentrismo è la già menzionata affermazione della prima pagina degli
Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola: «L’uomo è creato per lodare, riverire e
servire Dio nostro Signore e per salvare, in questo modo, la propria anima; e le
altre cose sulla faccia della terra sono create per l’uomo affinché lo aiutino al
raggiungimento del fine per cui è stato creato»,13 oppure ciò che scriveva
Calvino nello stesso periodo: «Sappiamo che il mondo è stato creato
principalmente in vista del genere umano».14
Nella storia della teologia ci sono state anche altre teorie: per esempio Origene
riconduceva la creazione del mondo alla necessità impostasi a Dio di rimpinguare
le schiere celesti dopo la caduta degli angeli ribelli e la relativa loro
trasformazione in diavoli, un evento che Origene collocava prima della creazione
del mondo materiale e considerava la causa immediata della creazione.15 Tale
idea però non ebbe mai fortuna, soprattutto perché introduce una logica di
necessità che contraddice l’assolutezza divina. Così la tradizionale risposta del
cristianesimo alla domanda sul motivo della creazione consiste nel sostenere che
Dio ha creato il mondo per la sua gloria e, secondariamente, per il bene degli
uomini.
A mio avviso però né la risposta teocentrica né la risposta antropocentrica sono
adeguate. La prima, cioè che Dio abbia fatto il mondo per la sua gloria, fa di Dio
il più raffinato dei narcisisti; la seconda, cioè che Dio abbia fatto il mondo per noi
uomini, rispecchia platealmente il nostro narcisismo. La questione è posta in ben
altro modo da Kant, laddove, riflettendo sul senso del mondo ex parte Dei, scrive:
«L’unica cosa che possa fare di un mondo l’oggetto del decreto divino e il fine
della creazione, è l’umanità in tutta la sua perfezione morale».16 Io penso che qui
vi sia l’indicazione della direzione giusta: il fine della creazione è «l’umanità in
tutta la sua perfezione morale», non è cioè né una solipsistica gloria di Dio né
l’umanità nella sua attuale concretezza. Ben lungi dal collocare il fine della
creazione nell’umanità attuale (questo «legno così storto»17), Kant individua il
senso del mondo nella perfezione morale. In precedenza, nella Critica della ragion
pura, aveva scritto: «Senza dubbio l’intenzione ultima della natura – che si prende
cura saggiamente di noi – era propriamente rivolta, nel costituire la nostra
ragione, soltanto all’interesse morale».18
Ma che cosa significa «morale»? Di certo non bisogna pensare che l’immane
lavoro cosmico di miliardi di anni sia stato messo in moto perché noi facciamo i
bravi e ci comportiamo bene. Dicendo «morale», Kant non intende il buon
comportamento, intende piuttosto rimandare alla dimensione spirituale dell’uomo,
alla libertà. E questo è in effetti stupefacente: che il lavoro cosmico a partire dalla
materia inanimata abbia prodotto la libertà. Non tanto l’uomo in quanto animale,
che è solo il supporto concreto, temporaneo, e quasi sempre imperfetto, in cui si
manifesta la libertà; ma che abbia prodotto la mente capace di intelligenza e così
di giungere alla libertà, la mente che si dice come cuore, centro esistenziale di ciò
che intendiamo con umanità. Ecco l’unico scopo di questo immane processo
cosmico che io, seguendo Kant, riesco a intravedere: la libertà in quanto mente
che giunge a essere consapevole di tutto il lavoro necessario per crearla e che,
trasformandosi in cuore, riproduce dentro e fuori di sé la medesima logica
tendente all’organizzazione e all’armonia (e per questo Kant parla di «morale»).
Lo scopo dell’Universo è la mente consapevole e giusta, la mente buona, il
cuore. Lo scopo della vita in questa prospettiva è giungere a comprendere se
stessi e ad agire in conformità con questa sapienza eterna, secondo quanto scritto
sull’architrave del tempio di Delfi: «Conosci te stesso» e «Nulla di troppo»,
ragion pura + ragion pratica.
Se consideriamo l’Universo dal punto di vista quantitativo nell’estensione,
nella sua energia e nella sua materia, è evidente che noi uomini non siamo il fine
della creazione. Ma se consideriamo l’essere dal punto di vista qualitativo, cioè
come informazione, dire che noi siamo il prodotto più alto del lavoro
dell’Universo in quanto creazione continua non è più così ridicolo. Anzi, allo
stato attuale delle conoscenze è un dato di fatto. Da qui a mio avviso è possibile
sostenere ragionevolmente con Kant che l’uomo in tutta la sua perfezione morale
sia il fine del lavoro cosmico. E del resto le due cose che riempivano di
meraviglia l’anima di Kant, il cielo stellato e la legge morale, sono in radice un
unico fenomeno, perché è dalle stelle che prende origine la vita da cui si produce
il pensiero e in particolare quel pensiero al servizio della vita che chiamiamo
legge morale.
L’uomo in tutta la sua perfezione morale non è ovviamente l’uomo concreto:
tra i due c’è la medesima differenza che intercorre tra kósmos oútos e basileía toû
Theoû, tra «questo mondo» e il «regno di Dio». E in verità io penso che dire
«umanità nella sua perfezione morale» e dire «regno di Dio» sia la medesima
cosa. La perfezione morale di cui scrive Kant e lo spirito di santità di cui parla il
cristianesimo in quanto meta della vita dell’uomo sono la medesima cosa. Si dà
infatti perfezione morale solo quando si ha una libertà che liberamente sceglie il
bene e la giustizia, senza altra finalità che non sia il sentimento di rispetto e di
venerazione verso il bene e la giustizia. Ma se questa è la perfezione morale,
stiamo parlando dello spirito, cioè di quella dimensione dell’esistenza libera da
interessi biologici e sociali e che una volta si chiamava «nobiltà dello spirito».19
Quindi l’obiettivo della creazione è che il mondo produca lo spirito e che lo
spirito prodotto si doni come amore, tornando così alla sorgente dell’amore che
liberamente lo ha posto.
Non si tratta di un processo ciclico dal bilancio perfettamente in equilibrio
come pensava Nietzsche, per il quale il pensiero dell’«eterno ritorno dello stesso»
(ewige Wiederkehr des Gleichen) è «la suprema formula dell’affermazione che
possa mai essere raggiunta».20 Anche in questo Nietzsche si sbagliava, perché i
dati sperimentali che nel 1965 registrarono la radiazione cosmica di fondo grazie
alle rilevazioni di Arno Penzias e Robert Wilson attestano un Universo in
evoluzione, non stazionario. Quindi l’exitus della realtà secondaria dalla Realtà
primaria produce qualcosa di realmente inedito, fino a generare il frutto più alto
che è lo spirito. La Realtà primaria, che secondo il NT è spirito luminoso colmo di
amore, tende alla produzione nella realtà secondaria di spiriti luminosi colmi
d’amore. I giusti. La giustizia e il suo bene sono il senso della creazione.
Io penso che tale prospettiva debba aprirci alla consapevolezza che la nostra
anima spirituale non è nostra. Intendo dire che è stato necessario un immenso
lavoro cosmico per la comparsa della vita, un processo che ha richiesto la
sconfinata vastità dell’Universo per poter produrre gli elementi chimici pesanti
alla base della vita; allo stesso modo è stato e continua a essere necessario un
immenso lavoro biologico per la nascita della libertà. Senza il lavoro di chissà
quanti miliardi di organismi, dai batteri agli insetti, dai pesci ai mammiferi
passando per la variegata processione dei funghi e dei vegetali, senza questo
lavoro infinito e ininterrotto della vita come bíos, su questo pianeta non avrebbe
potuto sorgere la libertà, cioè la mente consapevole in grado di scegliere e di
essere responsabile, né potrebbe continuare a sussistere. Ne viene che la preziosa
consapevolezza di esistere e di determinarsi responsabilmente data a Homo
sapiens è il frutto del lavoro di tutti gli organismi viventi, vegetali e animali; per
questo ho detto che la nostra anima spirituale non è nostra. Essa è la vita che si è
data coscienza di sé su questo minuscolo pianeta.
Prenderne consapevolezza capendo che noi siamo solo i portatori di questa
coscienza cosmica è essenziale per comprendere quanto essa sia preziosa e per
giungere all’esercizio del principio-responsabilità, su cui ha scritto così
profondamente Hans Jonas.
65. Prima considerazione sul Creatore: Dio non è causa efficiente, ovvero la
libertà del mondo
Il Catechismo di san Pio X all’articolo 87 definiva Dio «Padrone della natura».
Da allora è passato un secolo ma la sostanza del pensiero cattolico non è mutata:
Dio viene sempre considerato il Padrone della natura. Anzitutto della natura
umana, perché l’anima proviene direttamente da lui senza concorso dei genitori al
momento del concepimento e deve tornare a lui al momento della fine naturale
intendendo con ciò la morte da lui stabilita. Ma poi è anche Padrone della natura
in genere, come si evince dalle preghiere che ancora ai nostri giorni vengono fatte
recitare ai fedeli per invocare la pioggia in casi di particolare siccità (tra i diversi
casi ricordo la lettera ai parroci dell’arcivescovo di Torino cardinal Poletto del 17
luglio 2003 e quella dell’arcivescovo di Firenze cardinal Betori del 29 marzo
2012).
La definizione di Dio «Padrone della natura» è molto indicativa del modo con
cui ancora oggi non pochi cattolici considerano il mondo naturale, cioè come uno
strumento nelle mani di Dio per punire o ricompensare gli uomini, esattamente in
linea con la lettera di alcune pagine bibliche. E come la catastrofe abbattutasi
sull’antica città di Sodoma venne letta dalla Genesi quale punizione per i peccati
dei sodomiti, allo stesso modo le catastrofi naturali dei nostri giorni vengono
interpretate dai cattolici tradizionalisti come una punizione divina per i peccati.21
Ovviamente si tratta di farneticazioni prive di umanità che non meriterebbero di
essere considerate se non fosse che nella loro consequenzialità hanno il pregio di
far emergere l’aporia del pensiero cristiano tradizionale riguardo al rapporto tra
Dio e la natura. Se infatti a Dio viene attribuito il potere di mandare la pioggia
come le lettere cardinalizie ricordate sopra inducono a pensare, com’è possibile
non vedere in lui anche il responsabile di quella pioggia tanto abbondante che
unita al vento diviene uragano, inondazione, onda anomala? E se a Dio viene
ricondotto il dono della vita fisica, come non ricondurre a lui le malattie genetiche
che si sviluppano nel grembo materno? Così al cospetto di un cieco ragionavano
anche i discepoli di Gesù: «Rabbi, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia
nato cieco?» (Giovanni 9,2). La risposta di Gesù, «né lui ha peccato né i suoi
genitori», cancella ogni legame tra manifestazioni naturali e volontà divina, ma è
ancora ben lungi dall’essere compresa a dovere da molti cattolici (anche perché
Gesù ne presenta altre in direzione contraria, per esempio Matteo 10,29: «Due
passeri non si vendono forse per un soldo? Eppure nemmeno uno di essi cadrà a
terra senza il volere del Padre vostro»).
La natura non ha padroni, è libera. È libera, ma al contempo è orientata. Per
comprendere questa particolare condizione si pensi a un uomo che deve
raggiungere una meta ma non è costretto in un itinerario prefissato e per questo
può vagare ora qua ora là. Per il fatto che la natura è orientata, essa si evolve
verso la crescita dell’organizzazione vitale e della complessità; per il fatto che è
libera, lo fa disordinatamente e con tantissimo spreco, senza nessun padrone che
sia responsabile delle sue manifestazioni, né quelle benevole che danno la pioggia
contro la siccità o fanno nascere un bambino dalla vista perfetta, né quelle
malevole che procurano inondazioni o fanno nascere un bambino cieco.
La visione tradizionale della natura governata da un Padrone è stata condotta
alla bancarotta dalle rivoluzioni scientifiche della modernità. Il crollo della
concezione tradizionale non rappresenta però la fine della teologia della
creazione, ma solo la fine di una sua particolare versione, cioè quella che pensa
Dio nel ruolo di creatore a partire dalla causa efficiente come produttore di ogni
singolo ente (il Credo ne parla in termini di factorem). La fine di tale concezione
è da salutare con favore, perché il fatto che gli esseri viventi non derivino
direttamente da Dio nella loro configurazione particolare, ma si siano costituiti
mediante un lungo e variegato processo evolutivo, libera la fede da una serie di
problemi irrisolvibili e gravosi la cui considerazione va normalmente sotto il
nome di teodicea. In questa prospettiva il teologo cattolico John Haught della
Georgetown University è giunto a parlare di Darwin’s gift to theology, «dono di
Darwin alla teologia»,22 espressione ripresa dallo scienziato credente Francisco
Ayala, biologo dell’Università della California, per il quale «la teoria
evoluzionistica di Darwin rappresenta un dono sia per la scienza sia per la
religione», e questo perché dà «un contributo significativo, se non addirittura
definitivo, alla teodicea».23 Il che significa che Dio in quanto creatore non va
inteso come causa efficiente del mondo. Già nel 1920 Pierre Teilhard de Chardin,
aprendo la strada alla nuova teologia della creazione, aveva affermato: «A rigor di
termini, Dio non fa: Egli fa sì che le Cose si facciano».24
Rendendo impossibile la teologia della creazione impostata a partire dalla
causa efficiente, l’evoluzione costringe di conseguenza a ripensare l’idea cardine
della teologia tradizionale, cioè Dio quale causa del mondo. Questo conduce a
negare del tutto che Dio sia la causa del mondo, e quindi a sopprimere la sua
qualifica di padre e di creatore? Io penso di no e nei paragrafi che seguono
cercherò di esprimere la mia concezione della causalità-paternità di Dio rispetto al
mondo, evidenziando come intendo il suo essere causa formale, materiale e finale,
cioè le altre tre dimensioni del concetto di causa secondo il pensiero aristotelicotomista.
66. Seconda considerazione sul Creatore: Dio causa formale, ovvero il
progetto del mondo
Secondo la visione tradizionale Dio è causa formale del mondo nel senso che
al mondo fornisce la forma. Il che significa che se il mondo fosse una casa, Dio
sarebbe l’autore del progetto o del disegno con cui la casa viene concepita prima
di essere materialmente costruita. In quanto causa formale, Dio quindi è
qualificabile come il progettista o il disegnatore del mondo, colui che ne ha
concepito la forma che poi concretamente «in-forma» la sua materia, cioè
conferisce forma all’energia materiale originariamente caotica. In termini
contemporanei dire che Dio è la causa formale del mondo significa sostenere che
è la sorgente della sua informazione.25
Vi sono due modi di intendere Dio come fonte dell’informazione, un modo
diretto e uno indiretto. Il modo diretto riproduce la visione classica delle idee,
termine da intendersi ovviamente non nel senso di opinione, ma di dimensione
ultima dell’essere, di pura energia che si lega alla massa materiale dandole forma.
La teoria delle idee fu concepita inizialmente da Platone «partendo dal postulato
che esista un bello in sé e per sé, un buono in sé e per sé, un grande in sé e per sé,
e così via»,26 e poi venne ripetutamente ripresa dai Padri della Chiesa e dagli
scolastici, tra cui Agostino, Massimo il Confessore, Giovanni Damasceno,
Anselmo d’Aosta, Bonaventura, Tommaso d’Aquino. Quest’ultimo dedica alle
idee un’apposita quaestio della Summa theologiae intitolata De ideis (Le idee),
dove sostiene che le idee, nel senso di «forme delle cose esistenti fuori delle cose
stesse», esistono, sono molteplici e corrispondono a ogni singola cosa presente nel
mondo. Ecco il passo centrale del testo di Tommaso: «Se l’ordine dell’universo è
stato creato direttamente da Dio e voluto da lui, Dio deve avere in se stesso,
necessariamente, l’idea dell’ordine dell’universo. Ora, non è possibile avere l’idea
di un tutto, se non si hanno le idee delle varie parti onde il tutto è costituito [...]
Così dunque è necessario che nella mente divina ci siano le idee proprie di tutte le
cose. Per questo sant’Agostino afferma che “le singole cose sono state create da
Dio conformemente all’idea di ciascuna”. Per conseguenza, nella mente di Dio vi
sono più idee».27
Volendo spiegare oggi questa teoria senza farla apparire qualcosa di puramente
mitologico, si può iniziare a dire che a livello delle più fondamentali strutture
ontologiche, che sono le particelle subatomiche, tra un uomo e una pietra non c’è
differenza, ma che da quelle stesse strutture fondamentali man mano che si cresce
nell’organizzazione si dà origine qui a una pietra, lì a un organismo. Perché?
Perché identiche particelle-materia e identiche particelle-forza producono enti
diversissimi? Perché l’idea-informazione che guida la formazione e
l’organizzazione della materia è diversa: c’è l’idea-informazione della pietra che
dà origine alla pietra, e c’è l’idea-informazione dell’uomo che dà origine
all’uomo. Il che significa, per quanto riguarda l’essere umano, che non c’è prima
il corpo materiale e poi l’anima che l’informa, ma al contrario c’è prima l’anima,
cioè l’idea-informazione, e poi c’è la materia che viene organizzata in corpo
secondo le istruzioni che riceve dall’idea. È pensando in questa prospettiva che
tutti coloro che hanno seriamente riflettuto sulla provenienza del mondo da un
Primo Principio hanno considerato la creazione come creazione delle idee, come
pensiero di Dio che pensa le idee (Giovanni Damasceno: «Dio crea pensando»28)
e che poi su questa base organizza la materia. Ai nostri giorni questa impostazione
traspare da quanto afferma il fisico Gerald Schroeder: «L’essenza della vita
risiede nell’elaborazione dell’informazione. La meraviglia della vita è la
complessità a cui quell’informazione dà origine. Il paradosso della vita è
l’assenza di ogni traccia in natura, nel mondo fisico, della fonte di quella
informazione. Per quanto come scienziato sia riluttante ad ammetterlo, la
metafisica potrebbe fornire la risposta giusta a questo paradosso».29 Per
Schroeder in natura non vi è traccia della fonte dell’informazione e quindi
l’informazione che pervade la natura deve provenire da una fonte non naturale:
ecco la pensabilità contemporanea di Dio quale causa formale del mondo.
Il modo indiretto di intendere Dio quale fonte dell’informazione (modo che io
sostengo) nega l’esistenza di idee preesistenti in mente Dei destinate a realizzarsi
nel mondo e come tali fonte dell’informazione; parla piuttosto di un’unica grande
idea presente da sempre in mente Dei e in natura, l’idea del logos, la quale
fornisce alla natura una tendenza all’organizzazione in base a cui i singoli enti,
liberamente e casualmente, si costituiscono.
Il logos in questa prospettiva è da concepirsi duplicemente:
1) quanto alla vita divina, esso esprime l’idea nella quale la Realtà primaria
detta Dio ha pensato e creato il mondo, cioè l’idea del Figlio, della relazione
originaria; Dio Realtà primaria pensa il Figlio-logos, lo pensa da sempre, e
pensandolo lo genera da sempre, e in lui e per mezzo di lui pensa anche il mondo
o realtà secondaria;
2) quanto alla sua azione nella realtà secondaria del mondo, il logos è da
concepirsi non come ente separato e personale, ma come logica orientata alla
relazione e all’aggregazione che nella materia genera la tendenza (la spinta, lo
slancio, la tensione, l’eros) verso la costruzione di legami e di relazioni, facendo
sì che, a causa dell’instabilità della materia a seguito di questa tendenza a
fuoriuscire da sé, si produca informazione; quindi l’informazione che dà forma al
mondo non scende dall’alto ma sale dal basso, anche se può salire perché vi è
qualcosa di esterno rispetto a questo mondo, di più alto rispetto a questo mondo,
che lo attrae come inquietandolo e al tempo stesso orientandolo.
In questa prospettiva Dio è la causa formale del mondo nel senso che ne
costituisce la tendenza verso l’aggregazione. L’essere-forma di Dio rispetto al
mondo (ciò che tradizionalmente si chiama causa formale) è paragonabile non a
un disegno, ma a una tensione, a una propensione, a una passione. Dio genera
eros nelle fibre del mondo.30 Lo fa perché egli stesso nella sua essenza originaria
è eros, relazionalità originaria. In questo senso la causa formale coincide con la
causa finale, sulla quale mi intratterrò nel prossimo paragrafo.
Questo significa che Dio non è la causa formale di questo mondo così come
esso appare, Dio non è il disegnatore di questo mondo, come ritengono coloro che
concepiscono il mondo totalmente dipendente dal volere divino. L’esperienza
attesta che il mondo è un processo continuo di aggregazione e disgregazione, di
logos e caos, di essere e non-essere, in un ininterrotto sconcertante divenire che il
buddhismo chiama «impermanenza di tutte le cose» (in sanscrito anitya, in pali
anicca). Ebbene, di questo processo che è il mondo, Dio è la causa formale nel
senso che la sua realtà vi immette una tendenza, un eros, una passione, verso la
relazione e l’uscita da sé, vincendo la tendenza intrinseca in tutto ciò che vive
all’autoaccentramento. Dio è causa formale del mondo nel senso che ne
costituisce la permanente tendenza all’esodo, all’uscita da sé, alla vittoria contro
la forza di gravità. Se la vita del mondo qui sulla terra si sviluppa nonostante la
tendenza irreversibile verso l’entropia stabilita dal secondo principio della
termodinamica, ciò è dovuto al fatto che il sistema mondo non è un sistema
chiuso ma è un sistema aperto, aperto non solo alla discesa della luce solare, ma
anche alla discesa di un’altra luce, non materiale ma spirituale, che suscita eros,
passione, desiderio di servire la vita al di là di ogni considerazione e calcolo del
gene egoista, e fa mettere al mondo figli e li fa allevare, e soffrire per essi anche
quando non converrebbe per nulla, come fanno gli esseri viventi a partire dai
pesci (i salmoni che risalgono la corrente) fino agli esseri umani. Dio è amore, e il
suo essere causa formale non può che esprimersi come causa che genera l’amore
in un mondo che sembra ben poco predisposto, così come spesso appare, alla
gratuità dell’amore. Ma l’amore in questo mondo c’è e questo costituisce il
mistero del mondo: «Ecco il mistero, / sotto un cielo di ferro e di gesso / l’uomo
riesce ad amare lo stesso, / e ama davvero, / senza nessuna certezza, / che
commozione, che tenerezza».31 Ciò che porta a pensare Dio come causa formale
del mondo è la presenza dell’amore: Dio è la passione originaria che suscita
passione.
67. Terza considerazione sul Creatore: Dio come télos, ovvero la finalità del
mondo
Perché il mondo si muove? Perché lavora producendo organizzazione vitale?
Perché tutto non torna al caos degli inizi? Perché l’entropia non vince una buona
volta e per sempre? Si ripete spesso che la domanda fondamentale è quella
formulata da Leibniz e ripresa da Heidegger: «Perché c’è l’essere e non il nulla?».
Così Heidegger: «La domanda conclusiva è evidentemente quella che il
metafisico Leibniz ha posto nei suoi Principes de la nature e de la grâce:
“Pourquoi il y a plutôt quelche chose que rien?”».32 Io ritengo ve ne sia un’altra
più incisiva: perché c’è l’essere organizzato e non il caos? Alla domanda di
Leibniz si può rispondere infatti che l’essere c’è per il semplice fatto che c’è,
senza nessuna ulteriore spiegazione, come una cosa che si dà punto e basta, come
una giostra che gira sempre sullo stesso posto, allo stesso ritmo, con lo stesso
movimento, «eterno ritorno dello stesso». Ma l’essere che la scienza consegna
alla nostra riflessione (lo stato del mondo quale al momento è possibile ricostruire
sulla base dei dati empirici universalmente condivisi) non è eterno ritorno
dell’uguale; al contrario, il modello cosmologico standard accettato dalla gran
parte dei fisici ci parla di una singolarissima vicenda, del tutto irreversibile,
iniziata miliardi di anni fa in un modo che neppure il più imprevedibile scrittore
di fantasy avrebbe mai potuto immaginare, e che da quella dimensione
dell’infinitamente piccolo è passato al cosmo attuale infinitamente grande,
destinato a diventare sempre più grande grazie a un’accelerazione che non solo
non tende a diminuire ma aumenta; e che all’interno di questa continua
espansione di energia materiale, poco meno di 4 miliardi di anni fa, in una
minuscola porzione del tutto insignificante quanto al tempo e allo spazio globali,
ha dato origine a qualcosa di assolutamente imprevedibile alla luce delle
condizioni iniziali che si chiama vita. La comparsa di questo fenomeno ha reso
l’insignificante porzione di spazio-tempo cosmico che lo ospita qualcosa di molto
significativo a livello qualitativo, cioè dal punto di vista del livello di
informazione raggiunto dall’essere-energia. E allora torna la domanda: perché c’è
l’essere organizzato e non il caos? Perché c’è l’essere così finemente regolato
nelle sue strutture base (in fisica si parla di fine tuning) da dare origine a un
fenomeno altamente improbabile come la vita? La risposta che rimanda al caso mi
sembra poco all’altezza del fenomeno, una semplice dichiarazione di impotenza
che nasconde l’intenzione di non voler fare i conti con la stupefacente realtà della
sequenza: caos ? materia ? vita ? intelligenza ? libertà ? amore.
La vita non era assolutamente prevedibile alla luce dei gas primordiali ma essa
sulla terra è apparsa (e forse anche altrove negli spazi cosmici), e non
accontentandosi di apparire ha iniziato a evolversi in forme sempre più
complesse, passando dal primo organismo monocellulare procariota a organismi
con miliardi di cellule dotate di nucleo, fino a giungere, con Homo sapiens, alla
consapevolezza di tutto ciò, e, grazie alla consapevolezza acquisita, all’incredibile
privilegio di poter scegliere se dire di sì a questa vicenda, configurando la propria
vita come risposta in forma di legame (il significato etimologico di religio),
oppure dire di no, rifiutando ogni legame o religio con la logica del lavoro
cosmico. Questo privilegio ha un nome: si chiama libertà, e tutto il senso della
vita di ogni esemplare di Homo sapiens sta nel diventare cosciente della propria
libertà e nel lavorare disponendo tale libertà alla produzione di armonia
relazionale. La domanda quindi ricompare: perché c’è l’essere organizzato?
Perché il mondo si evolve dando origine alla vita, alla mente, al cuore?
Hans Jonas ha definito «enigmatica» la direzione anti-entropica seguita dalla
vita, così improbabile per la fisica eppure così reale per la biologia.33
Contrariamente infatti alla tendenza verso l’entropia che governa ogni sistema
chiuso, il percorso della vita sulla terra ha portato dal disordine del caos iniziale a
inimmaginabili livelli di complessità. Io penso che tutto ciò vada preso
teoreticamente sul serio e in questa prospettiva ritengo plausibile pensare che la
direzione anti-entropica sia da attribuire a una forza di attrazione esterna rispetto
alla realtà secondaria detta mondo, alla forza della Realtà primaria che agisce in
quanto causa finale. Essa non interviene direttamente, ma suscita, attrae, richiama,
sollecita, stimola, e lo fa sempre dall’interno delle cose. Questo spiega il viaggio
anti-entropico dell’energia che risale la corrente dell’entropia e crea legami
sempre più complessi nel segno dell’armonia e della maturazione dell’essere
come spirito.
Affermando ciò, credo di compiere la medesima operazione mentale condotta
a livello di astrofisica laddove si è giunti a ipotizzare l’esistenza di una forma
sconosciuta di energia detta comunemente «energia oscura» per cercare di
giustificare l’espansione dell’Universo. L’espansione dell’Universo infatti non
solo non tende a diminuire, come sarebbe logico a causa della forza
gravitazionale, ma risulta in continua crescita. Secondo gli scienziati tale crescita
si può spiegare solo ipotizzando la presenza di un’altra forma di energia, a noi del
tutto ignota e per questo denominata oscura. A mio avviso la medesima inferenza
deve essere condotta a proposito del dato dell’evoluzione della vita, la quale è
appunto tale, cioè evoluzione o progressivo accumulo di informazione e di
organizzazione, a dispetto della seconda legge della termodinamica che prevede la
vittoria del disordine e quindi l’involuzione.
È chiaro che nel sistema pianeta Terra l’entropia non vince perché si tratta di
un sistema aperto in cui viene continuamente immessa nuova energia grazie alla
luce solare, ma se avesse ragione il riduzionismo oggi dominante nella
considerazione della realtà (una teoria secondo cui l’essere è riducibile alla
materia e ai suoi componenti fondamentali) sarebbe stato molto più logico per la
vita interrompere la sua evoluzione con le forme batteriche, visto che i batteri
sono molto più adatti a sopravvivere, sono molto più fit to survival di tutti gli altri
organismi viventi per quanto riguarda la riproduzione, il nutrimento, la capacità di
sopravvivere in condizioni ambientali sfavorevoli. Se l’unico senso della natura
fosse la propagazione della stessa natura, un «gene egoista» che moltiplica geni
egoisti,34 l’evoluzione avrebbe dovuto fermarsi ai batteri. Più si sale infatti, più la
vita diventa precaria, debole, bisognosa, meno adatta alla sopravvivenza. Tuttavia
la vita è attraversata da una spinta verso l’alto che la fa procedere oltre la vitabios, mostrando con ciò che essa non è abitata solo da una logica utilitaristica, ma
è irrazionale, irruente, irriverente, nel senso che irride ogni prospettiva che la
voglia incasellare in calcoli ragionieristici «umani troppo umani». Come spiegare
questo dinamismo? Ogni disciplina dovrà rispondere da sé. A livello teologico io
ipotizzo un’attrazione esercitata dalla Realtà primaria su ogni quantum di energia
della realtà secondaria, in seguito alla quale tutte le cose avvertono come una
dolorosa attrazione a oltrepassare continuamente i confini (l’apostolo Paolo scrive
in Romani 8,22 che tutta la natura «geme e soffre le doglie del parto»). Tale
struggimento viene espresso da musicisti, pittori, poeti, e fu probabilmente
intuendo qualcosa del genere che Montale giunse a scrivere: «Sotto l’azzurro fitto
del cielo qualche uccello di mare se ne va; / né sosta mai: perché tutte le immagini
portano scritto: / “più in là!”».35
La direzione anti-entropica, la tendenza a risalire la corrente che spinge il
disordine ad andare controcorrente verso l’ordine, riguarda anche l’interiorità, ciò
che classicamente si chiama anima. L’idea di Dio (di una Realtà Suprema viva,
sussistente, operante, attiva nel mondo e nella coscienza), orienta l’energia libera
di ognuno nella sua intima personalità e in questo senso si può dire anti-entropica
perché genera ordine nella vita interiore e nella vita morale.
68. Quarta considerazione sul Creatore: Dio causa materiale, ovvero la
creazione dal nulla
Trattando la causa materiale, tocchiamo il tema delicato della creatio ex nihilo,
formula che la teologia specifica in creatio ex nihilo sui et subjecti (letteralmente
«creazione dal nulla di sé e del soggetto») e che sintetizza la più classica
prospettiva cristiana riguardo all’origine del mondo naturale. Secondo il
cristianesimo Dio è causa materiale del mondo non nel senso che la materia del
mondo procede dall’essere stesso di Dio, né ovviamente nel senso che essa è
preesistente alla creazione e quindi divina; Dio è causa materiale del mondo nel
senso che la materia viene all’esistenza grazie alla sua parola laddove prima non
vi era nulla, né materia preesistente né forme sconosciute di energia.
Ho scritto prima in corsivo, perché è improprio parlare di tempo e di spazio in
assenza di materia, ma la nostra mente, configurata secondo il tempo e lo spazio,
non ne può fare a meno. Il fatto che sia improprio parlare di spazio e di tempo in
assenza di materia da un lato suggerisce una via su come pensare la Realtà
primaria di Dio, cioè come un quantum di pura energia senza nessuna traduzione
nella massa materiale, dall’altro indica che il tempo e lo spazio sono parte
integrante della creazione del mondo, venuti all’esistenza in seguito alla comparsa
della materia. Alcuni grandi del passato l’avevano già intuito. Così scriveva
Agostino all’inizio del V secolo: «Se nulla passasse, non vi sarebbe un tempo
passato, e se nulla venisse, non vi sarebbe un tempo futuro, e se nulla esistesse,
non vi sarebbe un tempo presente», il che mostra, concludeva il vescovo di
Ippona rivolgendosi a Dio, che «il tempo stesso è opera tua».36 Quattro secoli
prima alle stesse conclusioni era giunto il pensatore ebreo Filone di Alessandria:
«Il tempo non esisteva prima del mondo, ma è nato insieme a esso, o dopo. Il
tempo infatti è uno spazio intermedio determinato dal movimento del mondo e il
movimento non può esistere prima dell’oggetto che viene mosso, ma
necessariamente si produce o dopo o simultaneamente. Ne consegue dunque la
necessità che anche il tempo sia coevo al mondo o più giovane di esso».37 Anche
il tempo, quindi, è oggetto di creatio ex nihilo.
Il concetto di creatio ex nihilo è però un tema molto delicato. Ho già
evidenziato infatti come a tale modello classico della dogmatica cristiana si debba
affiancare la prospettiva che parla dell’origine del mondo in termini di
ordinamento del caos, di gran lunga dominante nella Bibbia. La dottrina della
creazione dal nulla esprime il principio essenziale della teologia biblica, cioè
l’unicità del principio dell’essere ovvero il monoteismo, mentre l’ordinamento del
caos esprime l’esperienza vitale secondo la quale la provenienza dell’essere dal
principio divino non è mai conclusa ma deve in ogni istante lottare per affermare
se stessa. Occorre quindi un concetto di creazione che possa conciliare il modello
della creatio ex nihilo con il modello dell’ordinamento del caos.
Tale conciliazione può avvenire solo a una condizione: che anche il caos sia a
sua volta creato da Dio. Ciò non va inteso nel senso che Dio crea il caos
volendolo per se stesso, ma nel senso che l’iniziale stato caotico dell’essere è la
condizione necessaria per l’evoluzione del mondo e la nascita in esso della libertà.
Se il mondo all’inizio non fosse stato caotico, la libertà non avrebbe potuto
nascere; e se ora il mondo cessasse di essere caotico, la libertà verrebbe meno,
perché la condizione necessaria per il sorgere della libertà è la non-necessità,
l’indeterminazione, il caos. Il caos quindi è una caratteristica intrinseca della
natura creata, la quale è strutturalmente logos + caos, e ciò porta a concepire la
creazione non come una subitanea apparizione dal nulla di enti già perfetti, ma
come un processo continuo di ordinamento del mondo a partire dallo stato caotico
iniziale. Il caos proviene da Dio in quanto indispensabile espressione di un essereenergia creato in modo non compiuto al fine di farvi nascere la libertà. Il caos che
pervade l’essere del mondo è la conditio sine qua non della libertà.
Una decisiva applicazione di tale visione generale a proposito dell’origine
della materia del mondo (e di Dio quale causa materiale del mondo) riguarda
l’origine della vita. A questo proposito, in assenza di una teoria scientifica
consolidata e universale, vi sono ai nostri giorni sostanzialmente tre teorie:
– creazionismo o disegno intelligente: la vita si deve a un intervento diretto di
Dio; tale intervento diretto si ripete ogni volta che viene al mondo un essere
umano, perché l’anima viene infusa direttamente da Dio senza alcun concorso dei
genitori;
– caso o colpo di fortuna chimico: l’Universo è fondamentalmente ostile alla
vita e la comparsa della vita in esso è paragonabile a un jackpot cosmico
assolutamente imprevedibile e del tutto casuale, e quel che più conta contrario alla
logica cosmica che è complessivamente orientata all’assenza della vita e non alla
vita;
– vitalismo (o anche panpsichismo o ilozoismo): la vita emerge dalla materia
perché già la materia è vitale.
Quest’ultima posizione è la mia, sostenuta ben prima di me da scienziati come
Schrödinger, Prigogine, de Duve, Davies, Capra, Barrow e da filosofi come
Bergson, Whitehead, Jonas e, ai nostri giorni, Nagel. Essa rispecchia anche la
posizione detta ilozoismo (dai termini greci húl?, materia, e z?é, vita), professata
dai grandi pensatori del rinascimento italiano, Pico della Mirandola, Bernardino
Telesio, Giordano Bruno, Tommaso Campanella. Al fine di denigrarla qualcuno la
connota come animismo, ma a mio avviso la prospettiva degli uomini primitivi o
dei nativi americani che credevano animate anche le pietre non è così lontana da
quanto pensava Isaac Newton che considerava l’Universo un organismo animato
(«Non possiamo forse dire che tutta la Natura sia viva?»)38 e soprattutto da
quanto emerge dalla moderna ricerca scientifica che parla di entanglement,
letteralmente «intreccio», termine introdotto in fisica da Schrödinger per
connotare l’Universo come un grande sistema dove ogni cosa è connessa al tutto e
dove tutto lavora. In questa prospettiva il chimico James Lovelock ha coniato la
teoria secondo cui la terra sarebbe un superorganismo da lui chiamato Gaia, e il
fisico David Bohm la teoria di un ordine implicito dell’Universo presente in ogni
singolo fenomeno. Per quanto mi riguarda mi limito a constatare che in questa
prospettiva che considera tutta la natura come viva (non solo quindi natura
naturata, ma anche natura naturans, come ritenevano oltre a Eriugena, Bruno,
Spinoza, anche Goethe, Bergson, Florenskij)39 è contenuta più conoscenza e più
saggezza che nel mero materialismo, se non altro per la possibilità di pensare
l’Universo materiale come un campo di energie e per il rispetto ecologico che ne
discende. Anche Tolstoj la pensava così: «Se un batterio osservasse e studiasse
l’unghia di un uomo, potrebbe crederla sostanza inorganica. Allo stesso modo noi.
Osservandone la crosta, consideriamo sostanza inorganica la crosta terrestre. Ed è
sbagliato».40
Contro il creazionismo io ritengo che la vita provenga dalla materia, e contro
la teoria del caso ritengo che ne provenga logicamente, essendo la materia già in
se stessa «vitale». Guardando dal nostro ristrettissimo punto di vista, noi non
possiamo scorgere il movimento o l’animazione che pervade la materia e quindi ci
sembra che tutto in essa sia statico, ma grazie alla scienza sappiamo che la
materia non è altro che energia condensata – «polvere vitale» la definisce
Christian de Duve, «spirito dormiente» Hans Jonas –, e in questa prospettiva
appare particolarmente significativa l’intuizione dei nostri padri latini che
coniarono il termine materia da mater, prefigurando la materia come la genitrice
di tutte le cose.
Per il darsi della vita non c’è bisogno di un apposito intervento esterno, è già
l’origine della materia dall’energia viva dell’inizio a portarla a cercare la vita e
poi a realizzarla in forme sempre più complesse e sempre più animate, cioè dotate
di livelli superiori di anima o di vita. C’è un’unica spinta che continua. Come
l’energia tende alla complessità e all’organizzazione passando dalla fisica alla
chimica, alla biologia, alla zoologia, all’antropologia, così nell’uomo è la
medesima spinta a produrre energia sotto forma di diritto, etica, arte, filosofia,
religione. L’onda è la medesima, è la medesima spinta insita nella materia, che
Bergson chiamava élan vital, a tendere verso. Verso dove? Lo schema platonico di
exitus-reditus dice verso l’origine, e oggi, alla luce della teoria cosmologica che
fa derivare l’energia materiale dall’energia oscura, possiamo in qualche modo
tornare a pensare in questa prospettiva, con la differenza essenziale, rispetto al
platonismo, di connotare l’exitus iniziale come positivamente orientato alla
costruzione di qualcosa che prima non c’era, alla nascita e all’evoluzione dello
spirito dalla materia. L’energia oscura di cui parlano i fisici può prefigurare la
Realtà primaria da cui la realtà secondaria di questo mondo si è originata e verso
la quale tende.
A proposito di energia oscura mi permetto di concludere il paragrafo con la
seguente riflessione. La tradizione cristiana ha sempre affermato che Dio ha
organicamente a che fare con questo mondo, nel senso che ne è il creatore, il
creatore di tutto quanto il mondo contiene, così che non c’è nulla che possa
vantare un’origine diversa: il cristianesimo quindi ha sempre rigorosamente
escluso ogni dualismo. Al contempo però esso ha sempre altrettanto chiaramente
affermato che Dio non è identificabile con nessun oggetto di questo mondo, che
esiste una distinzione invalicabile tra Dio in sé e il mondo da lui creato: il
cristianesimo quindi ha sempre escluso ogni panteismo, ogni identificazione di
Dio con la natura (l’equazione teologica cristiana non è la spinoziana Deus sive
Natura, bensì l’evangelica Deus sive Spiritus). Questa posizione tradizionale ha il
vantaggio di preservare sia la trascendenza di Dio sia la bontà del mondo; ha lo
svantaggio però di trovarsi in difficoltà nel raccordare l’azione di Dio e la libertà
del mondo, un raccordo che invece è molto più semplice per la posizione dualista
(per la quale il mondo gode di una libertà completamente opposta al volere
divino) e per la posizione monista (per la quale il mondo non gode di nessuna
libertà e rispecchia la necessità divina). Ora io penso che l’identificazione di una
nuova forma di energia denominata energia oscura, che è sempre energia ma è del
tutto diversa dall’energia conosciuta, può consentire di raggiungere l’unità
dell’essere (perché c’è un’unica sostanza che è l’energia) e insieme di mantenere
la distinzione all’interno dell’essere tradizionalmente espressa mediante lo
schema natura-sovrannatura (perché l’energia oscura è completamente diversa
dall’energia materiale). Lo sdoppiamento dell’energia in energia oscura e in
energia materiale permette di superare il dualismo natura-sovrannatura posto nel
cuore della cosmovisione cristiana senza per questo cadere nel monismo
panteistico.
Tale sdoppiamento dell’energia consente infatti di considerare Dio come
energia, senza con ciò identificarlo con una forma di energia materiale,
preservando la sua trascendenza al di là di tutto ciò che possiamo vedere, toccare,
manipolare. Introducendo in teologia la distinzione tra energia oscura ed energia
materiale, e concependo Dio come energia oscura, Dio viene pensato come
realmente al di là senza però risiedere in un inesistente aldilà, viene pensato come
realmente trascendente senza cessare di essere immanente. E noi siamo in Dio
senza essere Dio, con la possibilità di conciliare passi biblici come Atti 17,28 («in
lui siamo, ci muoviamo ed esistiamo») con gli altri che collocano Dio nei cieli,
del tutto separato dal mondo.
Si tratta ovviamente solo di ipotesi che hanno il sapore della metafora e
tuttavia acquistano una certa plausibilità alla luce di queste affermazioni di
Claudio Verzegnassi, fisico teorico dell’Università di Trieste, sul rapporto tra
energia oscura ed energia materiale: «Apparentemente, le due energie si ignorano
ed evolvono separatamente. Non c’è trasformazione reciproca dell’una nell’altra,
la materia rimane materia e l’energia oscura rimane oscura. Però il modo in cui
evolve la materia, ossia lo sviluppo dell’Universo, è determinato dall’energia
oscura che è quella che determina l’accelerazione». E ancora: «Mentre l’Universo
si espande, l’energia materiale totale rimane costante, quindi ce ne sarà sempre
meno in un volume dato. La materia quindi continua a diluirsi. Invece l’energia
oscura non si diluisce: aumentando il volume dell’Universo ce ne sarà quindi in
tutto sempre di più. Detto in altre parole, in un volume dato ci sarà sempre lo
stesso quantitativo di energia oscura. Ciò vuol dire che, trascorso un tempo
infinito, nel quale l’Universo sarà diventato enormemente grande con la sua
espansione accelerata, l’energia materiale sarà in pratica sparita, ovvero si sarà
completamente diluita e rimarrà solamente l’energia oscura. Come era al
principio».41
69. Unde malum?
Ho già esposto in altri scritti il clamoroso contrasto di opinioni tra Giovanni
Paolo II e Benedetto XVI a proposito del rapporto tra il volere di Dio e la
presenza del male nella storia del mondo, ma si tratta di un esempio di tale
pregnanza riguardo alla difficoltà in cui versa il pensiero cattolico sul problema
del male da doverlo ripresentare anche qui. Nel libro Memoria e identità,
pubblicato nel 2005 ma contenente scritti che riproducono conversazioni del 1993
con i filosofi polacchi Józef Tischner e Krzysztof Michalski, Giovanni Paolo II
spiega così il senso di fenomeni storici negativi quali furono il comunismo e il
nazismo: «Ciò che veniva fatto di pensare era che quel male fosse in qualche
modo necessario al mondo e all’uomo. Succede, infatti, che in certe concrete
situazioni dell’esistenza umana il male si riveli in qualche misura utile, in quanto
crea occasioni per il bene». E per rafforzare la tesi della necessità e dell’utilità del
male, il papa aggiunge: «Non ha forse Johann Wolfgang von Goethe qualificato il
diavolo come ein Teil von jener Kraft, die stets das Böse will und stets das Gute
schafft – “una parte di quella forza che vuole sempre il Male e opera sempre il
Bene”?». Infine, dopo una citazione dalla Lettera ai Romani, Giovanni Paolo II
conclude: «In definitiva si arriva così, sotto lo stimolo del male, a porre in essere
un bene più grande».42
Nel libro Fede verità tolleranza Benedetto XVI, allora cardinale, scrive: «Il
male non è affatto – come reputava Hegel e Goethe vuole mostrarci nel Faust –
una parte del tutto di cui abbiamo bisogno, bensì la distruzione dell’Essere. Non
lo si può rappresentare, come fa il Mefistofele del Faust, con le parole: ein Teil
von jener Kraft, die stets das Böse will und stets das Gute schafft – una parte di
quella forza che vuole sempre il Male e opera sempre il Bene». Poi, per rafforzare
la contrapposizione a Goethe, l’autore si collega proprio alle «stragi del
comunismo» negando che quel male possa in alcun modo essere definito «una
parte necessaria della dialettica del mondo».43
Abbiamo quindi un papa che fa sua la visione di Goethe e un altro che l’attacca
esplicitamente. L’opposta valutazione della medesima frase indica due opposte
filosofie in ordine al rapporto tra Dio e il mondo. Il tema è di un’importanza tale
che ne va del cuore della visione cattolica del mondo: Giovanni Paolo II,
appoggiando Goethe, dice che il male rientra nel progetto divino sul mondo, è
voluto come parte di tale progetto; Benedetto XVI, contrastando Goethe, dice che
il male non rientra nel progetto divino sul mondo, non è voluto come parte di tale
progetto. Chi dei due papi esprime meglio l’idea cristiana di Dio? Chi rappresenta
di più l’idea cristiana del rapporto tra volere di Dio e presenza del male nel
mondo?
Certamente la posizione di Giovanni Paolo II è la più tradizionale all’interno
del cristianesimo. Così per esempio scriveva sant’Agostino: «Adoriamo quel Dio
che regola inizi, sviluppo e fine delle guerre, quando in tal modo il genere umano
deve essere purificato e punito; egli ha creato e dirige il fuoco di questo mondo,
così gagliardo e impetuoso secondo l’armonia dell’immensa natura»,44 parole in
cui campeggia l’immane Signore assoluto della storia e della natura, il «Dio degli
eserciti» di molte pagine bibliche. Per l’attuale Catechismo cattolico si dà
«completa dipendenza in rapporto al Creatore» (art. 301), «sovranità assoluta di
Dio sul corso degli avvenimenti» (art. 303), «primato di Dio e sua signoria
assoluta sulla storia e sul mondo» (art. 304). Notare in particolare l’uso frequente
dell’aggettivo «assoluto», segnale di una mentalità tendente all’assolutismo anche
politico.
In ambito protestante Giovanni Calvino riteneva che la possibilità di leggere
teologicamente la storia e la natura all’insegna della potenza di Dio dovesse
costituire un tratto distintivo dei cristiani: «In questo principalmente dobbiamo
distinguerci dai pagani e dalla gente profana: per noi la potenza di Dio risulta
evidente nella condizione attuale del mondo come nella sua creazione».45
Rispetto al Catechismo cattolico Calvino ha il pregio di essere conseguente e di
applicare con coerenza le affermazioni generali ai casi particolari perché non esita
ad affermare che «tra le madri, le une hanno le mammelle piene e ben fornite di
latte, le altre sono quasi secche, a seconda che Dio voglia nutrire più
abbondantemente un bambino e più parcamente un altro»; oppure a presentare «il
caso di un mercante che, entrato in una foresta in buona e sicura compagnia, si
smarrisce e cade in mezzo a una banda di briganti che gli tagliano la gola: la sua
morte non era solamente prevista da Dio ma decretata nella sua volontà».46 Sono
affermazioni crude ma obbligatorie se si vuole essere coerenti con l’immagine di
Dio quale creator, factor, gubernator e dispositor di tutte le cose (così papa
Innocenzo III in DH 790), con il concetto secondo cui tutte le cose sottostanno
alla provvidenza divina non in universali tantum sed etiam in singulari (Tommaso
d’Aquino: «È necessario dire che tutte le cose sottostanno alla divina provvidenza
non solo generalmente ma anche singolarmente considerate»),47 e con il
riconoscimento di una «sovranità assoluta di Dio sul corso degli avvenimenti»
(Catechismo della Chiesa cattolica, art. 303). Alla luce di questa impostazione
infatti si deve dedurre, come faceva logicamente Calvino, che «non c’è più posto
per il caso in tutto quello che avviene agli uomini»,48 e quindi concludere, con
Giovanni Paolo II, parlando di male «necessario» e rispondendo alla quaestio
unde malum con il dire che il male procede dal necessario volere divino.
Siamo al cospetto di un assolutismo fisico e metafisico che sa pensare l’essere
solo in termini di potenza e Dio solo in termini di onnipotenza, una visione
totalitaria che dimentica che il cuore dell’insegnamento cristiano consiste nel
primato ontologico della relazione, e non nel controllo assoluto su ogni singolo
evento. Tale visione totalitaria ha prodotto a livello storico un totalitarismo
politico che, saldandosi al totalitarismo teologico, non ha esitato a reprimere con
la violenza ogni manifestazione di dissenso e di libero pensiero, come dimostrano
emblematicamente il rogo di Michele Serveto a Ginevra il 27 ottobre 1553 voluto
da Calvino e il rogo di Giordano Bruno a Roma in Campo de’ fiori il 17 febbraio
1600 voluto da papa Clemente VIII.
Io penso che dopo il Novecento e i suoi genocidi il fallimento di tale
totalitarismo teologico sia sotto gli occhi di tutti (ovviamente di tutti quelli che
vogliono aprirli) e che ogni riferimento a una insondabile necessità divina che
utilizza la sofferenza degli uomini come strumento per realizzare se stessa possa
solo aumentare a dismisura la distanza tra la coscienza eticamente formata e la
religione ufficiale. La storia contemporanea smentisce l’immagine di una mente a
mo’ di grande occhio triangolare alla guida del mondo e allo stesso tempo ricolma
di amore e tesa unicamente al bene. La storia contemporanea pone un aut-aut: o
guida o amore; tenere insieme le due prospettive non è possibile se non a prezzo
di disonesti sofismi. Essa impone perciò di rivedere in radice la visione teologica
tradizionale del rapporto Dio-mondo, facendola passare dal verticismo della
potenza all’armonia della relazione.
Benedetto XVI aveva quindi ragione a sostenere che il male non può essere
considerato «una forza necessaria della dialettica del mondo», ma il punto ora
consiste nel vedere come egli risponda a sua volta alla quaestio unde malum. Ed è
noto che nei suoi scritti egli risponde individuando l’origine del male nel peccato,
in quel peccato originale che trasforma gli esseri umani, che del male ne sono
anche e soprattutto vittime, in principali protagonisti.
Il desiderio di tenere insieme la prospettiva teocentrica di Giovanni Paolo II
con la prospettiva antropocentrica di Benedetto XVI ha prodotto il sofisma
dell’articolo 311 del Catechismo: «Dio non è in alcun modo, né direttamente né
indirettamente, la causa del male morale [prospettiva Benedetto XVI]. Però,
rispettando la libertà della sua creatura, lo permette e, misteriosamente, sa trarne il
bene [prospettiva Giovanni Paolo II]».49 Il Catechismo qui insegna che Dio si
serve del male permettendone l’esistenza per operare il bene, sennonché nella
parte morale lo stesso testo scrive per ben tre volte che «non è lecito compiere il
male perché ne derivi un bene» (art. 1756, 1761 e 1789), specificando che «il fine
non giustifica i mezzi» (art. 1759). Ne viene un’incoerenza imbarazzante, perché
il Catechismo attribuisce alla Divinità nell’art. 311 (Dio permette il male per
trarne il bene) esattamente la stessa logica condannata negli articoli sulla morale,
e non si viene certo a capo del problema distinguendo tra volere e permettere,
come se permettere che una cosa accada non significhi per ciò stesso volerla,
anche solo in funzione strumentale.
In realtà l’origine del male (sia del disordine fisico, sia del male morale vero e
proprio) non è da collocarsi né nella necessità divina né nel peccato dell’uomo,
bensì nella struttura stessa dell’essere che è originariamente caos oltre che logos.
Il peccato umano, che di certo esiste ed è purtroppo tremendamente efficace, non
è la causa, ma è una manifestazione del male. La causa del male, a livello sia
fisico sia morale, è il caos inerente all’essere originario, posto così dal Creatore
quale unica condizione per il darsi della libertà. Il male quindi appare come il lato
oscuro del bene e dell’amore, la condizione inevitabile perché nel mondo
nascesse la mente libera che liberamente vuole.
La prospettiva più plausibile con cui rispondere alla domanda sull’origine del
male esclude che la risposta possa essere Dio, nel senso che Dio voglia
direttamente o indirettamente i singoli eventi negativi; ed esclude che possa essere
l’uomo in quanto autore del cosiddetto peccato originale, perché l’uomo è la
prima vittima dell’indeterminazione dell’essere, non l’autore. La prospettiva più
plausibile con cui rispondere alla domanda sull’origine del male rimanda
all’impasto originario di logos + caos che costituisce il mondo nella sua concreta
effettualità.
70. Dio = passione
Oggi la coscienza avverte come insostenibile la visione tradizionale
dell’assolutismo teologico, che aveva portato nel passato a bollare come eresie
tutte le prospettive che parlavano di una sofferenza che tocca lo stesso Dio,
definite dall’ortodossia vincente ora come patripassiani (III secolo) ora come
teopaschisti (V-VI secolo). In realtà la fede cristiana che ha al centro la croce ha
veramente un senso solo se il primo che passa attraverso il dolore è stato, e
continua a essere, Dio. L’aveva già intuito molti secoli fa il grande Origene che,
nelle sue omelie sul profeta Ezechiele composte tra il 244 e il 245, dopo aver
parlato della passione del Figlio, continuava: «È la passione dell’amore. Persino il
Padre, il Dio dell’Universo, pietoso e clemente e di gran benignità, non soffre
anche lui in certo qual modo? Non sai che quando governa le cose umane,
condivide le sofferenze degli uomini? [...] Nemmeno il Padre è impassibile. Se lo
preghiamo, prova pietà e misericordia, soffre d’amore e s’immedesima nei
sentimenti che non potrebbe avere, data la grandezza della sua natura, e per causa
nostra sopporta i dolori degli uomini».50
Oggi l’immagine di un Dio separato dal mondo e insieme governatore del
mondo non regge più, oggi si riesce a elaborare un’idea sostenibile di Dio solo a
condizione di pensarlo non più come reggitore imperturbabile delle vicende dei
popoli e dei singoli, ma come vittima egli stesso del processo storico, come «Dio
crocifisso», unico ruolo degno della nostra adorazione, o anche solo della nostra
stima.
Non sono pochi i pensatori credenti che in questa prospettiva hanno iniziato a
riconsiderare in radice la teologia tradizionale, ipotizzando l’essere di Dio come
profondamente coinvolto nella sofferenza, cioè come passione. Per quanto
riguarda il Novecento tra i precursori di questa linea di pensiero vi è il
matematico e filosofo Alfred North Whitehead, che già nelle Gifford Lectures del
1927-1928, pubblicate poi nel 1929 con il titolo Process and Reality, giunse a
scrivere che Dio è «il grande compagno – il vicino che soffre e che comprende»
(the great companion – the fellow-sufferer who understands).51 In seguito alla
Shoah sono stati i pensatori ebrei a rimarcare la necessità di una svolta radicale
nel pensiero di Dio. A questo proposito ha scritto Primo Levi: «Se non altro per il
fatto che un Auschwitz è esistito, nessuno dovrebbe ai nostri giorni parlare di
Provvidenza».52 La Provvidenza scritta con il maiuscolo contrassegna la
tradizionale teologia della storia secondo cui Dio dall’alto vede e provvede,
un’immagine presente in molti libri biblici e che ha dominato per secoli la mente
occidentale. Tra i pensatori ebrei che hanno proposto un superamento di tale
teologia ricordo Martin Buber (1878-1965), Franz Rosenzweig (1886-1929),
Emmanuel Lévinas (1906-1995), Abraham Heschel (1907-1972). Quest’ultimo ha
parlato esplicitamente di pathos divino e prefigurato una theologia pathetica. In
questa stessa prospettiva Elie Wiesel, come Levi testimone diretto di Auschwitz,
ha scritto una pagina indimenticabile e molto nota. Nel lager è avvenuta la triplice
impiccagione di due adulti e un bambino, davanti al patibolo dei quali tutti i
prigionieri devono sfilare per trarne una lezione esemplare: «I due adulti non
vivevano più. La lingua pendula, ingrossata, bluastra. Ma la terza corda non era
immobile: anche se lievemente il bambino viveva ancora [...]. Più di una
mezz’ora restò così, a lottare tra la vita e la morte, agonizzando sotto i nostri
occhi. E noi dovevamo guardarlo bene in faccia. Era ancora vivo quando gli
passai davanti. La lingua era ancora rossa, gli occhi non ancora spenti. Dietro di
me udii il solito uomo domandare: “Dov’è dunque Dio?”. E io sentivo una voce
che gli rispondeva: “Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca”».53
La storia del Novecento impone una teologia che parli di un Dio che condivide
nel suo stesso essere la sofferenza del mondo, perché in caso contrario non
sarebbe degno dell’amore degli uomini. Il Dio della tradizione, il «Signore degli
eserciti», lo si potrà forse temere e riverire, non più però amare. Se invece, come
vuole la spiritualità biblica, si tratta di amare Dio, la sigla della sua relazione con
il mondo non può più essere l’onnipotenza e l’impassibilità; è solo un Dio
passibile, per il quale la passione del mondo è la sua stessa passione, a essere
degno della libera adorazione della libera coscienza. Tra i credenti che sono giunti
a queste conclusioni desidero menzionare in primo luogo Simone Weil e la
folgorante figura di Etty Hillesum; poi Dietrich Bonhoeffer, Edith Stein, Pierre
Teilhard de Chardin, Kazoh Kitamori, Jürgen Moltmann, Dorothee Sölle,
Eberhard Jüngel, Johann Baptist Metz, Hans Urs von Balthasar, Heribert Mühlen;
tra gli italiani, Adriana Zarri, Sergio Quinzio, David Maria Turoldo, Ernesto
Balducci, Tonino Bello, Arturo Paoli, Paolo De Benedetti.
Una cosa comunque è certa: che se Dio Realtà primaria voleva la libertà, l’ha
effettivamente ottenuta. Il sangue che tutto ciò comporta impone però una precisa
condizione, l’unica che possa riscattare ai miei occhi l’intero processo: cioè che
Dio si assuma le sofferenze del processo cosmico in prima persona, ovvero che la
Realtà primaria sia coinvolta essa stessa nella dolorosa evoluzione della realtà
secondaria. Io leggo l’incarnazione fino alla morte di croce di cui parla il
cristianesimo come l’attestazione che tale drammaticità del processo vitale
riguarda anche lo stesso Principio o Realtà primaria che l’ha messo in moto. La
passione della realtà secondaria che si chiama mondo è la medesima della Realtà
primaria che viene chiamata Dio.
Dio Realtà primaria guida l’evoluzione solo nella misura in cui ne è coinvolto,
quindi non solo dall’esterno ma anche dall’interno. In questa prospettiva la Realtà
primaria detta Dio patisce gli stessi patimenti della realtà secondaria detta mondo,
a cui ha dato origine traendola da sé (in quanto entrambe le realtà sono energia)
ma trasformandola in qualcosa di diverso da sé (in quanto l’energia materiale del
mondo è diversa dalla Realtà primaria che è pura energia), operazione concepibile
mediante la distinzione tra energia oscura ed energia materiale.
Così, tornando alla terminologia tradizionale, si deve dire che Dio patisce gli
stessi patimenti della creazione. Tutto è in Dio, tutto è nella Realtà primaria,
quindi Dio necessariamente patisce i dolori e gioisce le gioie della realtà
secondaria che da lui dipende e che è continuamente creata. Dio patisce, ma non
nel senso, ancora intriso di dualismo, che Dio se ne sta fuori, guarda, sospira e si
commuove; ma nel senso che i patimenti della materia, della vita e della psiche
sono i suoi patimenti, perché materia, vita e psiche sono dentro la Realtà primaria,
sono sorretti dalla Realtà primaria.
Da ciò consegue che quando si fa violenza a qualunque forma di vita, a
qualunque essere senziente come ama dire il buddhismo, si fa violenza alla Realtà
suprema che è immanente e sottostante a tutte le cose; e viceversa quando si fa del
bene a qualunque forma di vita o essere senziente, si fa del bene alla Realtà
primaria. Il che riproduce esattamente quanto affermava Gesù: «Tutto quello che
avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me»
(Matteo 25,40). Dio Realtà primaria è Principio di tutte le cose non dall’esterno
ma dall’interno, un principio incarnato dalla fondazione del mondo.
In questa prospettiva l’incarnazione al centro del cristianesimo non è un
rimedio sopravvenuto a seguito di un peccato (linea anselmiana-tomista), né è
qualcosa che doveva avvenire anche a prescindere dal peccato ma che è avvenuto
solo in un determinato momento e in un determinato uomo (linea scotista); è
piuttosto la logica che da sempre presiede il rapporto tra Realtà primaria e realtà
secondaria, cioè il principio-passione. L’uomo Gesù di Nazaret è stato colui che
ha preso piena consapevolezza di questa comunione intrinseca da sempre
operante tra realtà secondaria e Realtà primaria, percependo quest’ultima con tale
intensità e affetto da parlarne in termini di padre, anzi di abbà, parola aramaica
che è il diminutivo affettuoso di padre.
La Realtà primaria è il principio di signoria di tutte le cose e come tale è in
tutte le cose; quindi la sofferenza e la gioia di tutte le cose, il loro brivido mortale
o vitale, passano anche al suo interno. Se così non fosse, tale Realtà non sarebbe
primaria, non sarebbe il Dio, cioè il Principio che sostiene tutte le cose, e che in
questo senso è definibile come amore universale. In questa prospettiva Dio non è
l’anima del mondo è poco dire che Dio è l’anima del mondo. Dio Realtà primaria
è il cuore del mondo, la sua passione, ciò che appassiona la realtà secondaria e
che la porta a evolvere e a intessere relazioni sempre più complesse, fino alla
consapevolezza di tutto ciò e a riprodurne concretamente la logica (mente +
cuore).
Dio Realtà primaria fa muovere il processo del mondo attraendone l’energia.
Fa muovere il processo standosene fuori, come vuole il teismo? Non
completamente, perché se stesse completamente fuori, non sarebbe la Realtà
primaria, cioè base e fondamento di ogni altra realtà, non sarebbe infinito perché
qualcosa lo limiterebbe, non sarebbe il creatore continuo e il sostenitore continuo
di tutte le cose. Allora fa muovere il processo cosmico standosene dentro, come
vuole il panteismo? Non completamente, perché se stesse completamente dentro,
la Realtà primaria sarebbe il mondo, e non vi sarebbe nessun altro tipo di realtà se
non l’energia materiale che vediamo e tocchiamo, e l’Universo sarebbe
stazionario, beato ed eterno, mentre esiste un’altra realtà oltre a quella che
vediamo e che ci forma, un’altra realtà a cui la mente contemporanea può riferirsi
metaforicamente in termini di energia oscura. Ne viene che Dio fa muovere il
processo stando sia fuori sia dentro: è la prospettiva nota in teologia con il nome
di pan-en-teismo.
71. Il Dio in cui credo
Così Etty Hillesum scriveva nel suo diario in un martedì mattina del giugno
1942: «Il dolore [...] mi ha anche insegnato che si deve poter condividere il
proprio amore con tutta la creazione, con il cosmo intero. Ma in quel modo si ha
anche accesso al cosmo. Però il prezzo di quel biglietto di ingresso è alto e
pesante, e lo si guadagna risparmiando a lungo, con sangue e lacrime. Ma nessun
dolore e lacrime sono troppo cari per questo. E tu dovrai passare attraverso le
stesse cose, cominciando dal principio».54
Usando l’espressione «biglietto d’ingresso» un’esperta lettrice di Dostoevskij
come Etty Hillesum non poteva non riferirsi alla celebre frase di Ivan Karamazov
già citata in precedenza: «Mi affretto a restituire il mio biglietto d’ingresso». Il
punto è esattamente questo: il prezzo. Grazie al lavoro degli elementi e alla
produzione di armonia relazionale il mondo consiste e si fa: ma quanto costa
questo suo farsi? Perché si possa dare la luce di un sorriso, con quante lacrime e
con quanto sale è necessario pagare? Perché si possa dare un gesto d’amore,
quanta impurità e quanta lotta sono necessarie?
Penso che credere in Dio quale creatore del mondo equivalga a esprimere
fiducia verso la vita, a dichiarare che l’essere, per quanto sia costoso, è meglio del
non essere. Etty Hillesum ha scritto che «nessun dolore e lacrime sono troppo
cari» per il prezzo del biglietto dell’esistenza, e la sua vita, terminata il 30
novembre 1943 ad Auschwitz, ne è stata una luminosa testimonianza.
Ma come intendere il Dio personale e il suo rapporto con la creazione? A
questo riguardo io condivido quanto sostiene padre Coyne, cioè che Dio non può
sapere dove e come si evolve la vita. Il Dio personale, se è davvero personale,
cioè libero, creativo e non necessitato, non può essere né onnisciente né
onnipotente. Lo era prima della creazione, nella dimensione dell’eternità, senza
tempo e senza spazio, quand’era veramente «assoluto», cioè sciolto (ab-solutus)
da ogni relazione, privo di legami e quindi veramente onnipotente, onnisciente,
onniveggente... onni-tutto. Ma la decisione di creare ha significato al contempo
l’abbandono dell’assolutezza e di tutti gli onni che ne conseguono, la rinuncia alla
pienezza del potere a favore dell’autonomia dell’essere creato. L’assoluto ha così
cessato di essere tale, per diventare Dio, o meglio il Dio, il Signore di un mondo
con cui giungere ad avere un rapporto di comunione, di alleanza, di amore.
Questo concetto di Dio è a mio avviso il più vicino alla figura divina che
emerge dai passi evangelici. Prendiamo Luca 15,11-32, il famoso brano detto
«parabola del figliol prodigo» e che bisognerebbe chiamare più opportunamente,
come fa la Bibbia Cei, «parabola del padre misericordioso». Qui il padre non sa
dove se ne andrà e che cosa farà il figlio, semplicemente lo lascia libero, libero
per davvero, e il figlio va dove neppure lui sa e gli accadono cose che nessuno
aveva previsto e tanto meno voluto. Però il padre sta sulla soglia e attende,
costituendo per la libertà del figlio un forte potere di orientamento e di attrazione,
e quando vede il figlio in lontananza è pronto a corrergli incontro per perdonarlo e
festeggiarlo. Dio, concedendo al creato una parte della sua potenza e cessando di
essere onnipotente (unica condizione perché la libertà del creato sia
effettivamente reale e non una beffarda illusione), sta sulla soglia e attende che
l’energia uscita da lui ritorni a lui sotto la forma della consapevolezza acquisita,
della relazione di figliolanza, sotto la forma della gioia di essere figlio, energia
diventata veramente «a sua immagine e somiglianza» in quanto spirito santo.
Il suo «stare sulla soglia» però non è pura inattività, perché egli nella sua
pienezza ontologica di Realtà primaria costituisce un forte potere di attrazione per
la realtà secondaria del mondo, esattamente come il ricordo del padre attraeva il
figlio lontano. Ma c’è un’altra cosa, ancora più importante, e cioè che Dio è sì
trascendente rispetto al processo del mondo (il padre che attende a casa è diverso
dal figlio andatosene da casa) ma è anche immanente a questo processo, perché in
caso contrario non sarebbe realmente infinito, cioè presente in ogni frammento di
essere. Ne consegue un legame organico tra Dio e la passione del mondo. In
quanto creatore del mondo, secondo una creazione da intendere non come
perfettamente compiuta in un ristretto arco di tempo (e poi decaduta a seguito di
un peccato) ma come creazione continua che sempre richiede un ininterrotto
lavoro, Dio è sempre al lavoro, pienamente coinvolto in un processo drammatico
che si chiama vita e che necessariamente richiede dolore e sofferenza. Questa
frase di Lucio Dalla esprime bene ciò che voglio dire: «Credo molto nel dolore
come elemento evolutivo. Per cui credo nella poesia».55 Il legame necessario tra
dolore e poesia (termine che viene dal greco poí?sis, «poesia» ma ancora prima
«produzione», perché il verbo di riferimento è poié?, cioè «fare, produrre,
creare») è il medesimo che c’è tra dolore e creazione.
Ne viene la conseguenza decisiva più volte esplicitata in ordine al principiopassione, cioè che la passione del Figlio (il deî dei Sinottici, l’?ra di Giovanni)
non è un secondo tempo per rimediare a un incidente umano (il peccato di
Adamo) o prima ancora a un incidente angelico (la ribellione di Lucifero), ma non
è altro che la continuazione del movimento originario di un Dio che «spezza il
suo corpo e versa il suo sangue» per dare vita al mondo. La logica della passione
di Cristo, sintetizzata nelle parole dell’Ultima cena, è la medesima logica che
presiede alla creazione del mondo. Così come Gesù, parlando del suo corpo e
della sua libertà, disse ai discepoli: «Prendete, mangiate, questo è il mio corpo»
(Matteo 26,26), aggiungendo, nel Terzo Vangelo, «dato per voi» (Luca 22,19),
allo stesso modo il movimento originario di Dio dice in ogni istante a tutti gli enti
dell’Universo: «Prendete, mangiate, questo è il mio corpo dato per voi». Se è vero
che Gesù è, come dice Colossesi 2,9, la pienezza della divinità, la logica di autodonazione alla base della sua vita deve essere la medesima di Dio nei rapporti con
il mondo. Il che significa: tutto ciò che serve veramente la vita si dona. Ovvero: in
principio era la relazione. Ovvero: il principio-passione.
Questo è il Dio in cui credo. Credo in un Dio che prende così sul serio
l’alleanza col mondo da essere coinvolto nel processo vitale mediante cui il
mondo si fa, un Dio che si pone al servizio del mondo per farne scaturire
mediante un ininterrotto processo il «regno di Dio». Credo in un Dio che, proprio
come Gesù quella sera depose le sue vesti e prese a lavare i piedi ai discepoli, al
momento della creazione depose la sua assolutezza e istituì quale assoluto non più
se stesso, ma se stesso in comunione con il mondo, cioè il regno di Dio. Il regno è
«Dio + mondo» ed è questo, cristianamente parlando, il vero assoluto, cioè la
relazionalità totale dell’amore. In seguito all’incarnazione, Dio diviene un pezzo
di mondo, e quindi l’assoluto non è più Dio in sé, ma Dio insieme al mondo, Dio
«tutto in tutti» (1Corinzi 15,28).
Credo altresì in un Dio che legandosi al mondo rimane al contempo sempre al
di là del mondo, e che, con questo suo essere al di là, opera come una specie di
attrattore cosmico verso cui il mondo si orienta e orientandosi produce
evoluzione, e verso cui la mente umana si orienta e orientandosi produce bene e
giustizia, andando a sanare laddove è possibile le ingiustizie che scaturiscono dal
processo naturale.
Credere in Dio significa per me in questa prospettiva attribuire la parola
definitiva dell’essere al senso di giustizia e di bene che trova la più alta
realizzazione in quella speciale consacrazione dell’energia libera che chiamiamo
amore.
EPILOGO (IN FORMA DI PUNTI FERMI)
72. Sul mondo e la sua origine
a) La mente umana ha pensato il rapporto tra Dio e il mondo secondo diverse
modalità, ai cui estremi vi sono il monismo panteistico e il dualismo gnostico.
Secondo il monismo vi è perfetta coincidenza tra l’origine dell’essere e l’essere a
noi dato, tra Dio e mondo. All’estremo opposto il dualismo separa nel modo più
radicale Dio e mondo, ritenendo la creazione una catastrofe causata da una
divinità di infimo livello.
b) Parlando di creazione dal nulla (creatio ex nihilo sui et subjecti) il
cristianesimo si colloca a metà tra questi due estremi. Credere nella creazione
significa infatti ritenere che l’essere come appare nel mondo viene realmente da
Dio, ma non è esso stesso divino. È bene (contro il dualismo gnostico), ma non è
il bene (contro il monismo panteista). L’essere creato è da intendersi piuttosto
come una realtà secondaria rispetto a una Realtà primaria da cui proviene.
c) La creazione è dal nulla (ex nihilo) nel senso che occorre escludere una
qualche forma di energia materiale allo stato caotico preesistente all’atto creativo.
Questa affermazione è oggi resa plausibile in base all’ipotesi cosmogonica che fa
derivare tutta l’energia materiale dall’energia oscura.
d) Esiste una differenza sostanziale tra la considerazione della creazione in
quanto «conclusa» e la considerazione della creazione in quanto «continua».
L’idea della creazione continua presuppone la comprensione dell’essere come
logos + caos, necessità e indeterminazione, progetto e casualità. La presenza
originaria e strutturante del caos rende la creazione un’impresa che necessita
ininterrotta continuazione.
e) Pensare il mondo come «creazione continua» (o anche «processo orientato»)
comporta le seguenti affermazioni:
– dicendo creazione si esprime un ottimismo ontologico sulla vita in quanto
dotata di bellezza e razionalità;
– dicendo continua si esprime la consapevolezza che la vita esiste come
processo ancora in atto, per nulla definito, esposto ai fallimenti, un processo
drammatico e talora tragico per sostenere il quale la coscienza entra in quella
disposizione nota come passione;
– dicendo creazione continua si sostiene che non c’è nessuna perfezione
iniziale, che l’essere del mondo non è stato posto da Dio come pienamente
realizzato per poi decadere a un certo punto a causa di un incidente non previsto,
denominato «peccato originale»;
– a causa dell’imperfetta condizione iniziale l’essere non è interamente
sottoposto al rigore del logos, ma ospita strutturalmente al suo interno anche
l’indeterminazione del caos, e precisamente per questo è in continua evoluzione.
f) L’indeterminazione iniziale è la condizione necessaria per la nascita della
libertà.
73. Sul mondo e la sua forma (e sul suo fine)
a) Dio è la causa formale del mondo nel senso che ne costituisce la tendenza
verso l’aggregazione. L’essere-forma di Dio rispetto al mondo (l’esserne la causa
formale) non è paragonabile al rapporto tra un disegnatore e il suo disegno, ma a
una tensione, a una propensione, a una passione, nel senso che Dio genera eros
nelle fibre del mondo; lo fa perché egli stesso nella sua essenza è eros,
relazionalità sorgiva e originaria. In questo senso la causa formale coincide con la
causa finale.
b) Nel mondo c’è finalità, ma non finalismo; l’essere ha una meta ma non un
itinerario prefissato mediante cui raggiungerla. In tutte le cose c’è tensione,
tendenza, anelito, eros, verso la crescita dell’organizzazione all’insegna della
relazionalità, senza che ciò conduca però a una corsa lineare dell’essere verso la
sua realizzazione. Al contrario ci sono fallimenti, ce ne sono stati, ce ne saranno, e
non è garantito in alcun modo che l’evoluzione raggiunga il suo fine di rendere la
realtà secondaria pienamente conforme alla Realtà primaria.
74. Sul principio-passione
a) Credere cristianamente alla creazione significa pensare che il rapporto tra la
Realtà primaria tradizionalmente detta Dio e la realtà secondaria tradizionalmente
detta mondo è consegnato in modo esemplare e normativo nella vicenda di Gesù,
lectio difficilior. Significa credere che la vicenda di incarnazione-passione-morterisurrezione, ben lungi dall’essere solo una storia avvenuta duemila anni fa, ci
consegna qui e ora la logica eterna mediante cui avviene da sempre il rapporto tra
Realtà primaria e realtà secondaria. Ovvero: perché in questo mondo si possa dare
evoluzione (o anche creazione continua), perché il cosmo possa subentrare al
caos, occorre immettere lavoro nel sistema-mondo, e questa immissione di lavoro
richiede passione, una passione che si chiama amore, ma si può anche chiamare
croce.
b) La croce in questa prospettiva non è più da interpretarsi come dovuta al
pagamento di un debito verso Dio Padre (dottrina della soddisfazione o
dell’espiazione) o verso il Diavolo (dottrina dei diritti del Demonio), con tutto il
dolorismo che ciò ha comportato. Dietro la croce c’è qualcosa di molto più
profondo, perché la vicenda che ha riguardato Gesù di Nazaret duemila anni fa è
la rappresentazione di una logica perenne che da sempre, anche ora, contrassegna
il rapporto Dio-mondo. Il Cristo crocifisso è il Cristo cosmico.
c) Questa logica è esemplificata dai martiri di tutti i tempi, credenti e non
credenti, che hanno dato la vita per introdurre giustizia e armonia in questo
mondo. Per stare solo al Novecento italiano la lista sarebbe lunghissima e perciò
mi limito a quattro vittime della criminalità organizzata, due magistrati e due
sacerdoti: Giovanni Falcone († 1992), Paolo Borsellino († 1992), Pino Puglisi (†
1993), Giuseppe Diana († 1994).
Il bene e la giustizia in questo mondo incontrano necessariamente opposizione.
È per questo che i cristiani credono alla creazione continua attraverso l’amore,
ovvero attraverso la passione.
75. La formula del mondo
Logos + Caos = Pathos.
76. Il mondo come creazione
Chi accetta di guardare il mondo e la natura come creazione ritiene che vivere
secondo il bene non sia qualcosa che si contrappone al proprio essere naturale, ma
al contrario qualcosa che lo compie e lo perfeziona. Il che significa che quando si
lavora per il bene si potenzia la logica della creazione o della natura; e che anche
la materia partecipa alla santità; e che tra spirito e materia non vi è
contrapposizione ma armonia.
77. Sul negativo
a) Il modello della «creazione continua» aiuta a impostare in modo nuovo il
problema del negativo o del male. Presupponendo un processo in divenire e non
una perfezione iniziale, il negativo del mondo non è interpretato come la
conseguenza di un evento particolare detto «peccato originale» che ha infranto la
perfezione, per il semplice motivo che una perfezione iniziale non c’è. Il negativo
viene prima della scelta consapevole dell’uomo. La libertà umana con i suoi
cedimenti non è la causa del negativo, ne è piuttosto una manifestazione.
b) La causa del negativo va ricercata in una struttura dell’essere che preesiste
alla libertà umana e che la rende possibile, cioè l’indeterminazione del caos. Lo
stato iniziale del mondo è pensabile come un quantum di energia informe e
caotica che, a poco a poco, riceve forma producendo oasi di cosmo. Tutta la
natura e tutta la storia sono una continua lotta contro il caos; il processo in cui
siamo inseriti è, ovunque, logos + caos.
c) L’aporia della dottrina cattolica è la riduzione del caos a peccato.
d) Non si deve intendere Satana (o meglio, il satana) nel senso satanico del
termine, come un essere reale dotato di personalità. È piuttosto il simbolo
immaginario di una possibilità reale, cioè la diabolicità, intesa come desiderio
perverso della mente di volere il male e di odiare il bene.
e) Il caos però non è soltanto un fattore negativo, è anche la condizione perché
possa nascere il nuovo. A volte la vita richiede l’apertura all’azione del caos,
talora persino che lo si incrementi. Il confine tra «resistenza e resa» è ogni volta
da comprendere e definire attraverso la pratica spirituale del discernimento.
78. Sull’evoluzione di Dio in quanto creatore
a) L’assenza di perfezione iniziale vale anche per Dio in rapporto al mondo,
nel senso che Dio, in quanto creatore del mondo, istituisce un rapporto con il
mondo tale da far evolvere anche lui. Non affermo che Dio evolva in se stesso
perché a questo proposito non è possibile dire nulla (sono comunque portato a
negare tale evoluzione di Dio in sé); affermo che Dio evolve in quanto creatore.
Non è infatti certamente la stessa cosa relazionarsi con gas e polveri stellari, con
cellule viventi, con dinosauri, con ominidi o con esemplari di Homo sapiens. Solo
in quest’ultimo caso nella relazione tra Realtà ultima e realtà secondaria entra in
gioco lo spirito e la relazione avviene tra due libertà.
b) L’assoluto non è Dio in sé, ma è il regno di Dio, è Dio + mondo.
79. Sull’amore
Il processo cosmico mostra che la forma in cui esso consiste e attraverso cui si
sviluppa è la relazione. La logica ultima delle cose, quindi, è la relazione. Il che
significa che quanto più si immette energia positiva nel mondo potenziando le
relazioni e creando armonia tra i diversi elementi, tanto più si realizza se stessi,
anzitutto come esseri naturali; si diventa cioè più reali, nel senso che si aderisce di
più al reale. Per questo l’amore è la forma di esistenza più reale che c’è.
Alla domanda di Lucio Dalla su «che cos’è l’amore, dov’è che si prende, dov’è
che si dà», occorre rispondere che l’amore è la risultanza della logica cosmica
tesa all’armonia relazionale, il che avviene mediante il processo per nulla lineare
che scaturisce dall’interazione di logos e di caos e che, in chi lo vive, produce
pathos-passione.
APPENDICE 1: DATI SULL’UNIVERSO E
SULLA VITA
Universo, dati storici:
– tempo zero: il tutto o Universo è un punto costituito da sola energia oscura,
misurante cm 10-33, nella completa assenza di tempo e di spazio;
– 13,82 miliardi di anni fa: Big Bang o Grande esplosione, a seguito della
quale inizia una progressiva espansione, tuttora in corso, che ha portato il puntino
cosmico primordiale infinitamente piccolo a una grandezza infinitamente grande
di 13,82 miliardi di anni-luce;
– formazione dell’energia materiale sotto forma di particelle subatomiche e dei
primi elementi atomici, quindi delle prime aggregazioni molecolari;
– formazione delle stelle e delle galassie;
– esplosione delle stelle e disseminazione degli elementi pesanti; aggregazione
di nuove stelle, nuove esplosioni e ancora aggregazione, in un processo tuttora in
corso;
– 4,57 miliardi di anni fa: da una nube di gas e polveri stellari nasce la stella
chiamata Sole e un sistema di pianeti orbitanti tra cui la Terra;
– tra 5 miliardi di anni: il Sole si ingrandirà fino a diventare una stella «gigante
rossa», con un forte aumento della temperatura sulla Terra che porterà alla fine di
ogni forma di vita terrestre e dello stesso pianeta;
– tra un’infinità di tempo la continua espansione avrà reso l’Universo talmente
grande da disperdere o diluire tutta l’energia materiale, così che rimarrà la sola
energia oscura.
Universo, dati ontologici:
– il 95% della massa dell’Universo è costituito da energia e materia oscura,
precisamente al 73% da energia oscura e al 22% da materia oscura (sempre in
seguito ai dati inviati dal satellite Planck, la quantità di energia oscura rispetto al
totale dell’energia dell’Universo sarebbe il 68,3%);
– solo il 5% della massa dell’Universo è costituito dall’energia materiale
conosciuta, formata da particelle-materia (quark + leptoni, insieme detti fermioni)
e da particelle-forza (bosoni);
– oltre all’energia materiale, c’è un’ulteriore grandezza fondamentale detta
informazione, ciò che Platone e Aristotele chiamavano forma (eîdos) e idea (idéa).
L’informazione è ciò che dà forma all’energia, che la in-forma in modo che essa
produca questo o quell’altro oggetto materiale. A livello fisico fondamentale essa
è mediata dalle particelle-forza, a livello biologico è mediata dalla molecola
dell’acido desossiribonucleico, il Dna (il quale non è l’informazione, ma contiene
l’informazione). La grande questione è quella della sorgente dell’informazione: è
prima dell’energia oppure scaturisce dal lavoro dell’energia? Nel primo caso c’è
la possibilità di postulare un Universo aperto alla meta-fisica, nel secondo caso
no.
Vita, dati storici:
– 3,5-3,8 miliardi di anni fa: nasce in ambiente acquatico il primo vivente, oggi
denominato LUCA (Last Universal Common Ancestor), un organismo
unicellulare procariota;
– 2 miliardi di anni fa: organismi con cellule dotate di nucleo detti eucarioti;
– 1 miliardo di anni fa: organismi pluricellulari vegetali e miceti (funghi e
muffe);
– 600 milioni di anni fa: vita animale (invertebrati marini);
– 500 milioni di anni fa: pesci;
– 400 milioni di anni fa: anfibi;
– 350 milioni di anni fa: rettili;
– 300 milioni di anni fa: uccelli;
– 225 milioni di anni fa: mammiferi;
– 6-7 milioni di anni fa: passaggio dalle scimmie antropomorfe agli
australopitechi;
– 2,5 milioni di anni fa: Homo habilis;
– 2 milioni di anni fa: Homo ergaster e Homo erectus;
– 250.000 anni fa: Homo neanderthalensis (estinto 30.000 anni fa);
– 160-150.000 anni fa: Homo sapiens;
– gli esemplari di Homo sapiens viventi oggi sulla Terra si aggirano attorno ai
7 miliardi; il totale di quelli comparsi finora ammonterebbe a 100 miliardi;
– a causa loro oggi la vita sul pianeta è in pericolo, alcuni scienziati stimano
che le attività industriali e i conseguenti cambiamenti climatici possono portare
all’estinzione di numerose specie vegetali e animali.1
Vita, dati ontologici:
– la vita è s?ma, cioè corpo fisico, composto a livello atomico principalmente
da ossigeno, carbonio, idrogeno, azoto;
– la vita è bíos, vita di corpi viventi, composti da unità chiamate cellule, le
quali esistono o prive di nucleo (cellule procariote, che costituiscono i batteri e gli
archeobatteri) o dotate di nucleo (cellule eucariote). Le cellule eucariote formano
organismi pluricellulari, dotati cioè di cellule in quantità elevata e di qualità molto
differenziata (nel corpo umano ci sono all’incirca 200 tipi di cellule);
– la vita è z?é, fenomeno zoologico o animale, con 1,2 milioni di specie finora
censite (metà delle quali insetti) e con una stima di quasi 9 milioni di specie in
totale;2
– la vita è psuch?, psiche, vita conscia e inconscia della mente, presente oltre
che negli esseri umani di certo anche negli animali superiori, e forse in ogni forma
di vita, piante comprese;
– la vita, nell’essere umano, è lógos, cioè ragione, calcolo, capacità di
elaborazione astratta;
– la vita, nell’essere umano, è anche noûs, vita dell’intelletto, capacità di
libertà, innovazione, creatività, ricerca di senso mediante il pensiero, l’arte e la
spiritualità; noûs è anche capacità di trasgressione trascurando deliberatamente il
bene e/o ponendo deliberatamente il male, da cui si origina la vita come scelta
etica e come responsabilità.
APPENDICE 2: TESTI SULLA NECESSITÀ
DELLA MORTE DI GESÙ
– Matteo 16,21: «Da allora cominciò a spiegare ai suoi discepoli che era
necessario [deî] che lui andasse a Gerusalemme e soffrisse molto da parte degli
anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi, e venisse ucciso e risorgesse il terzo
giorno»;
– Matteo 17,12: «Il Figlio dell’uomo dovrà soffrire»;
– Matteo 17,22-23: «Il Figlio dell’uomo sta per essere consegnato nelle mani
degli uomini e lo uccideranno, ma il terzo giorno risorgerà»;
– Matteo 20,18-19: «Ecco, noi saliamo a Gerusalemme e il Figlio dell’uomo
sarà consegnato ai capi dei sacerdoti e agli scribi; lo condanneranno a morte e lo
consegneranno ai pagani perché venga deriso e flagellato e crocifisso, e il terzo
giorno risorgerà»;
– Matteo 26,54: «Così deve avvenire» (parole rivolte nel Getsèmani a un
discepolo che aveva messo mano alla spada per impedirne l’arresto);
– Marco 8,31: «E cominciò a insegnare loro che era necessario [deî] che il
Figlio dell’uomo soffrisse molto e fosse rifiutato dagli anziani, dai capi dei
sacerdoti e dagli scribi, venisse ucciso e, dopo tre giorni, risorgesse»;
– Marco 9,31: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e
lo uccideranno, ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà»;
– Marco 10,33-34: «Il Figlio dell’uomo sarà consegnato ai capi dei sacerdoti e
agli scribi; lo condanneranno a morte e lo consegneranno ai pagani, lo
derideranno, gli sputeranno addosso, lo flagelleranno e lo uccideranno, e dopo tre
giorni risorgerà»;
– Luca 9,22: «È necessario [deî] che il Figlio dell’uomo soffra molto, venga
rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venga ucciso e risorga
il terzo giorno»;
– Luca 9,44: «Mettetevi bene in mente queste parole: il Figlio dell’uomo sta
per essere consegnato nelle mani degli uomini»;
– Luca 12,49-50: «Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che
fosse già acceso! Ho un battesimo nel quale sarò battezzato, e come sono
angosciato finché non sia compiuto»;
– Luca 13,33: «È necessario [deî] che oggi, domani e il giorno seguente io
prosegua nel cammino, perché non è possibile che un profeta muoia fuori di
Gerusalemme»;
– Luca 17,25: «È necessario [deî] che il Figlio dell’uomo soffra molto e venga
rifiutato da questa generazione»;
– Luca 18,31-33: «Ecco, noi saliamo a Gerusalemme, e si compirà tutto ciò
che fu scritto dai profeti riguardo al Figlio dell’uomo: verrà infatti consegnato ai
pagani, verrà deriso e insultato, lo copriranno di sputi e, dopo averlo flagellato, lo
uccideranno e il terzo giorno risorgerà»;
– Luca 24,7: «Bisogna [deî] che il Figlio dell’uomo sia consegnato in mano ai
peccatori, sia crocifisso e risorga il terzo giorno» (parole dette dagli angeli alle
donne dopo la risurrezione);
– Luca 24,25-27: «Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i
profeti! Non bisognava [deî] che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare
nella sua gloria? E cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le
Scritture ciò che si riferiva a lui» (parole del Risorto ai due discepoli di Emmaus);
– Luca 24,44-46: «“Bisogna [deî] che si compiano tutte le cose scritte su di me
nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi”. Allora aprì loro la mente per
comprendere le Scritture e disse: “Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai
morti il terzo giorno”» (parole del Risorto agli apostoli);
– Giovanni 2,4: «Non è ancora giunta la mia ora»;
– Giovanni 7,30: «Non era ancora giunta la sua ora»;
– Giovanni 8,20: «Non era ancora giunta la sua ora»;
– Giovanni 12,23-24: «È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato. In
verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore,
rimane solo; se invece muore, produce molto frutto»;
– Giovanni 12,27: «Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre,
salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora»;
– Giovanni 13,1: «Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo
mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine»;
– Giovanni 16,32: «Ecco, viene l’ora, anzi è già venuta, in cui vi disperderete
ciascuno per conto suo e mi lascerete solo»;
– Giovanni 17,1: «Padre, è venuta l’ora».
APPENDICE 3: TESTI SUL RUOLO COSMICO
DEL CRISTO
– 1Corinzi 8,6: «Per noi c’è un solo Dio, il Padre, dal quale tutto proviene e
noi siamo per lui; e un solo Signore, Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte
le cose e noi esistiamo grazie a lui».
– Colossesi 1,15-17 (con soggetto Cristo): «È immagine del Dio invisibile,
primogenito di tutta la creazione, perché in lui furono create tutte le cose nei cieli
e sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili [...]. Tutte le cose sono state create
per mezzo di lui e in vista di lui. Egli è prima di tutte le cose e tutte in lui
sussistono»;
– Efesini 1,4 (con soggetto Dio Padre): «In lui [Cristo] ci ha scelti prima della
creazione del mondo»;
– Ebrei 1,2 (con soggetto Dio Padre): «Ha parlato a noi per mezzo del Figlio,
che ha stabilito erede di tutte le cose e mediante il quale ha fatto anche il mondo»;
– Ebrei 1,3: (con soggetto Cristo): «Tutto sostiene con la sua parola potente»;
– Giovanni 1,3 (con soggetto Cristo): «Tutto è stato fatto per mezzo di lui e
senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste»;
– Giovanni 1,10 (con soggetto Cristo): «Il mondo è stato fatto per mezzo di
lui»;
– Apocalisse 3,14 (con soggetto Cristo): «Il Principio della creazione di Dio»;
– Apocalisse 13,8 (con soggetto Cristo): «Libro della vita dell’Agnello,
immolato fin dalla fondazione del mondo».
APPENDICE 4: TESTI SULLA LEGGE
COSMICA E SULLA REGOLA D’ORO
Sulla legge cosmica fondamentale:
– sul Logos si legge in Eraclito che «è da sempre», che «è comune» e che
«ascoltando non me, ma il logos, è saggio convenire che tutto è uno» (in DielsKranz 22 B 1, 2 e 50);
– su Hokmà-Sapienza si legge in Proverbi 8,12: «Io, Hokmà, abito con la
prudenza e possiedo scienza e riflessione»; e in Proverbi 8,22-23: «Il Signore mi
ha creato come inizio della sua attività, prima di ogni sua opera, all’origine.
Dall’eternità sono stata formata, fin dal principio, dagli inizi della terra»;
– su Maat, la dea egizia che personifica l’ordine cosmico e quindi anche etico
e giuridico, la cui piuma viene posta sull’altro piatto della bilancia durante la
pesatura dell’anima o del cuore, così la liturgia prevedeva che il sacerdote si
rivolgesse al Dio supremo: «Tu esisti perché Maat esiste e Maat esiste perché tu
esisti» (dalla voce «Maat» del Dizionario delle religioni);
– sul Dharma, che per le religioni hindu e per il buddhismo è la legge
universale del tutto a livello fisico ed etico, scrive la più antica Upanis.ad
(dicendo di riportare una più antica tradizione vedica): «Ciò da cui il sole sorge,
ciò in cui esso tramonta gli Dei hanno elevato al rango di legge eterna [dharma];
così è oggi e così sarà domani» (B?had?ra?yaka Upani?ad, V,23);
– sul Tao, concetto base del taoismo scritto anche Dao, si legge nel Tao Tê
Ching, «Il libro della via e della virtù» attribuito a Lao-tzu: «C’è un qualcosa che
completa nel caos, il quale vive prima del Cielo e della Terra. Com’è silente,
come è vacuo! Se ne sta solingo senza mutare, ovunque s’aggira senza correr
pericolo, si può dire la madre di quello che è sotto il cielo. Io non ne conosco il
nome e come appellativo lo dico Tao» (Tao Tê Ching, 25).
Sulla regola d’oro:1
– hinduismo: «Non bisognerebbe comportarsi con gli altri in un modo che non
è gradito a noi stessi: questa è l’essenza della morale» (Mah?bh?rata, XIII,114.8);
– jainismo: «L’uomo dovrebbe trattare tutte le creature del mondo come egli
stesso vorrebbe essere trattato» (S?trakrit?nga, I,11.33);
– buddhismo: «Una condizione che non è gradita o piacevole per me, come
posso io imporla a un altro?» (Sa?yutta Nik?ya, V,353);
– confucianesimo: «Quello che non desideri per te, non farlo neppure ad altri
uomini» (Confucio, Dialoghi, 15,23);
– ebraismo: «Non fare ad altri ciò che non vuoi che essi facciano a te» (Rabbi
Hillel, Shabbat 31a);
– cristianesimo: «Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi
fatelo a loro» (Matteo 7,12 e Luca 6,31);
– islam: «Nessuno di voi è un credente fintanto che non desidera per il proprio
fratello quello che desidera per se stesso» (40 Hadithe – Detti di Muhammad – di
an-Nawawi 13).
GUIDA BIBLIOGRAFICA
Ogni tema toccato da questo libro presenta una letteratura che si usa
solitamente definire sterminata e visto che si tratta di argomenti su cui gli esseri
umani scrivono da sempre credo non sia un’esagerazione. Consapevole di ciò e
ben lontano dal voler presentare una bibliografia sistematica esaustiva, mi limito a
due semplici obiettivi:
– ordinare i libri di cui ho fatto uso, perlopiù citati nelle note;
– presentare possibilità di approfondimento segnalando libri che conosco e
ritengo importanti ma che non ho utilizzato direttamente.
A differenza delle note, dove ho sempre indicato curatori e traduttori, qui per
maggiore chiarezza espositiva mi limito ai curatori. Presento i titoli in ordine
sistematico, o cronologico, o alfabetico, a seconda della logica specifica della
materia. Sempre per motivi logici a volte qualche libro compare in più di una
sezione.
1. Religioni (ordine sistematico)
Prospettiva generale
Storia delle religioni, fondata da Pietro Tacchi Venturi, diretta da Giuseppe
Castellani, 5 voll., Utet, Torino 1970-1971.
Mircea Eliade, Storia delle credenze e delle idee religiose [1975-1983], 3 voll.,
Sansoni, Milano 1981-1983.
Dizionario delle religioni [1984], a cura di Paul Poupard, Mondadori, Milano
2007.
Mythologies of the Ancient World, a cura e con una Introduzione di Samuel
Noah Kramer, Doubleday, New York 1961.
David Adams Leeming e Margaret Adams Leeming, A Dictionary of Creation
Myths, Oxford University Press, Oxford 1994.
Rudolf Otto, Il sacro. L’irrazionale nell’idea del divino e la sua relazione al
razionale [1917], Feltrinelli, Milano 1989.
Julien Ries, Il sacro nella storia religiosa dell’umanità [1978], Jaca Book,
Milano 19902; L’uomo e il sacro nella storia dell’umanità [scritti a partire dal
1978], Jaca Book, Milano 2007.
The Meaning of Life in the World Religions, a cura di Joseph Runzo e Nancy
M. Martin, Oneworld Publications, Oxford 2000.
Antropogenesi. Ricerche sull’origine e lo sviluppo del fenomeno umano, a
cura di Antonio Pavan ed Emanuela Magno, il Mulino, Bologna 2010; in questo
volume sono presenti diversi contributi citati nelle rispettive sezioni, qui in
prospettiva generale ricordo: Massimo Raveri, I racconti dell’inizio, pp. 85-104; e
Martin Nkafu Nkemnkia, L’origine dell’universo nella «vitalogia» delle culture
africane, pp. 179-205.
Antico Egitto
Testi religiosi dell’antico Egitto, a cura di Edda Bresciani, Mondadori, Milano
2001.
La saggezza dell’antico Egitto. Massime sapienziali, testi religiosi e letterari
scelti da Manfred Kluge, Tea, Milano 1994.
Roberto Buongarzone, Gli Dei egizi, Carocci, Roma 2007.
Jean-Pierre Corteggiani, Maat, in Dizionario delle religioni, a cura di Paul
Poupard, Mondadori, Milano 2007.
Mesopotamia
Testi sumeri e accadici, a cura di Giorgio R. Castellino, Utet, Torino 1977.
The Ancient Near East. An Anthology of Texts and Pictures, a cura di James B.
Pritchard, Princeton University Press, Princeton 2011.
L’epopea di Gilgameš, a cura di N.K. Sandars, Adelphi, Milano 1987.
Ellen van Wolde, Racconti dell’Inizio. Genesi 1-11 e altri racconti di creazione
[1995], Queriniana, Brescia 1999.
Jean Bottéro, La plus vieille religion. En Mésopotamie, Gallimard, Paris 1998.
Hinduismo Jainismo Buddhismo
Dizionario della saggezza orientale [1986], a cura di Kurt Friedrichs, Ingrid
Fischer-Schreiber, Franz-Karl Ehrhard, Michael S. Diener, Mondadori, Milano
2007.
Hinduismo antico, vol. I, Dalle origini vediche ai Pur??a, a cura di Francesco
Sferra, Mondadori, Milano 2010.
Raimon Panikkar, I Veda. Mantramañjar?. Testi fondamentali della rivelazione
vedica, Bur, Milano 2001.
Upani?ad vediche, a cura di Carlo Della Casa, Tea, Milano 2000.
Alain Daniélou, Miti e Dei dell’India [1992], Bur, Milano 20083.
Antonio Rigopoulos, Concezioni cosmogoniche e cosmologiche hindu, in
Antropogenesi. Ricerche sull’origine e lo sviluppo del fenomeno umano, il
Mulino, Bologna 2010, pp. 133-145.
Sama? Sutta?. Il canone del Jainismo, a cura di ?ri Jinendra Var?i e Sagarmal
Jain, ed. it. a cura di Claudia Pastorino e Claudio Lamparelli, Mondadori, Milano
2001.
La rivelazione del Buddha, vol. I, Testi antichi, a cura di Raniero Gnoli,
Mondadori, Milano 2001.
Damien Keown, A Dictionary of Buddhism, Oxford University Press, OxfordNew York 2003.
Emanuela Magno, L’origine dell’esistenza nell’insegnamento buddhista, in
Antropogenesi. Ricerche sull’origine e lo sviluppo del fenomeno umano, il
Mulino, Bologna 2010, pp. 147-157.
Dalai Lama, Nuove immagini dell’Universo. Dialoghi con fisici e cosmologi
[2004], a cura di Luca Guzzardi, Raffaello Cortina, Milano 2006.
Confucianesimo e Taoismo
Dizionario della saggezza orientale [1986], a cura di Kurt Friedrichs, Ingrid
Fischer-Schreiber, Franz-Karl Ehrhard, Michael S. Diener, Mondadori, Milano
2007.
Testi confuciani, a cura di Fausto Tomassini, Utet, Torino 1977.
Tao. I grandi testi antichi, a cura di Lionello Lanciotti, Utet, Torino 2003.
Tao Tê Ching. Il Libro della Via e della Virtù, a cura di J.J.L. Duyvendak,
Adelphi, Milano 19983.
François Jullien, La concezione dell’energia nel pensiero cinese e il nonproblema dell’origine, in Antropogenesi. Ricerche sull’origine e lo sviluppo del
fenomeno umano, il Mulino, Bologna 2010, pp. 159-166.
Amina Crisma, Il Cielo, gli uomini. Percorso attraverso i testi confuciani
dell’età classica, Cafoscarina, Venezia 2000; Le cosmogonie assenti: il
confucianesimo, in Antropogenesi. Ricerche sull’origine e lo sviluppo del
fenomeno umano, il Mulino, Bologna 2010, pp. 167-178.
Antica Grecia
Omero, Iliade, Introduzione e traduzione di Giovanni Cerri, commento di
Antonietta Gostoli, Rizzoli, Milano 1996.
Esiodo, Teogonia, a cura di Graziano Arrighetti, Bur, Milano 200413.
Il mito greco, vol. I, Gli dèi, a cura di Giulio Guidorizzi, Mondadori, Milano
2009.
Robert Graves, I miti greci [1955], Longanesi, Milano 1983.
Le religioni dei Misteri, vol. I, Eleusi, Dionisismo, Orfismo, a cura di Paolo
Scarpi, Fondazione Valla-Mondadori, Milano 2002.
Zoroastrismo
Inni di Zarathushtra, Mondadori, Milano 1996.
Jean Varenne, Zoroastre. Le Prophète de l’Iran, Éditions Dervy, Paris 1996.
Ebraismo
Bibbia Ebraica, a cura di Rav Dario Disegni, 4 voll., Giuntina, Firenze 20103.
Etz Hayim. Torah and Commentary, The Rabbinical Assembly-The United
Synagogue of Conservative Judaism, The Jewish Publication Society, New York
2001.
Apocrifi dell’Antico Testamento, a cura di Paolo Sacchi, 2 voll., Utet, Torino
1981 e 1989.
I manoscritti di Qumran, a cura di Luigi Moraldi, Tea, Milano 1994.
Filone di Alessandria, La creazione del mondo, in Tutti i trattati del
Commentario allegorico alla Bibbia, a cura di Roberto Radice, Rusconi, Milano
1994.
Zohar. Il libro dello splendore, a cura di Giulio Busi, Einaudi, Torino 2008.
Mistica ebraica. Testi della tradizione segreta del giudaismo dal III al XVIII
secolo, a cura di Giulio Busi ed Elena Loewenthal, Einaudi, Torino 1995.
Gershom Scholem, Le grandi correnti della mistica ebraica [1938-1941],
Einaudi, Torino 1993; I segreti della creazione. Un capitolo del libro cabbalistico
«Zohar» [1971], Adelphi, Milano 2003.
Joseph Dan, La cabbalà. Breve introduzione [2006], Raffaello Cortina, Milano
2006.
Gnosticismo
Testi gnostici in lingua greca e latina, a cura di Manlio Simonetti, Fondazione
Valla-Mondadori, Milano 1993.
I Vangeli gnostici. Vangeli di Tomaso, Maria, Verità, Filippo, a cura di Luigi
Moraldi, Adelphi, Milano 1993.
Hans Jonas, Gnosi e spirito tardo antico [1934-1993], a cura di Claudio
Bonaldi, Bompiani, Milano 2010; Lo gnosticismo [1958], a cura di Raffaele
Farina, Sei, Torino 1991; Il principio gnostico [1967], a cura di Claudio Bonaldi,
Morcelliana, Brescia 2011.
Simone Pétrement, Le Dieu séparé. Les origines du gnosticisme, Cerf, Paris
1984.
Islam
Il Corano, a cura di Hamza Roberto Piccardo, revisione e controllo dottrinale
di Unione delle Comunità e Organizzazioni Islamiche in Italia, Newton &
Compton, Roma 1996.
Dizionario del Corano [2007], a cura di Mohammad Ali Amir-Moezzi, ed. it. a
cura di Ida Zilio-Grandi, Mondadori, Milano 2007.
Ida Zilio-Grandi, Il Corano e il male, Einaudi, Torino 2002.
Vincenzo Pace, La narrazione delle origini nell’Islam, in Antropogenesi.
Ricerche sull’origine e lo sviluppo del fenomeno umano, il Mulino, Bologna
2010, pp. 117-131.
2. Bibbia
Fonti e strumenti
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Uelci, Roma 2008.
La Bibbia di Gerusalemme (testo biblico: La Sacra Bibbia, versione ufficiale a
cura della Conferenza episcopale italiana 2008; note e commenti: La Bible de
Jerusalem, 1998), EDB, Bologna 2009.
Bibbia Emmaus. Nuovissima versione dai testi originali, Edizioni San Paolo,
Cinisello Balsamo 1998.
Bibbia Ebraica, a cura di Rav Dario Disegni, 4 voll., Giuntina, Firenze 20103.
Etz Hayim. Torah and Commentary, The Rabbinical Assembly-The United
Synagogue of Conservative Judaism, The Jewish Publication Society, New York
2001.
Torah Neviim Ketuvim, a cura di N.H. Snaith, The British and Foreign Bible
Society, London 1958.
The Greek New Testament, a cura di Barbara Aland, Kurt Aland, Johannes
Karavidopoulos, Carlo Maria Martini e Bruce M. Metzger, Deutsche
Bibelgesellschaft, Stuttgart 1993.
Nuovo Testamento greco e italiano, a cura di Agostino Merk e Giuseppe
Barbaglio, EDB, Bologna 20107.
Nuovo Testamento greco, latino, italiano (con tr. interlineare), a cura di
Piergiorgio Beretta, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 20034.
Konkordanz zum Novum Testamentum Graece, von Nestle-Aland, 26. Auflage
und zum Greek New Testament, 3rd Edition, herausgegeben vom Institut für
neutestamentliche Textforschung und vom Rechenzentrum der Universität
Münster, unter besonderer Mitwirkung von H. Bachmann und W.A. Slaby, Walter
de Gruyter, Berlin-New York 19873.
Apocrifi dell’Antico Testamento, a cura di Paolo Sacchi, 2 voll., Utet, Torino
1981 e 1989.
Apocrifi del Nuovo Testamento, a cura di Luigi Moraldi, 3 voll., Piemme,
Casale Monferrato 1994.
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Kittel, 10 voll., Eerdmans, Grand Rapids 1964-1976, 19952.
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John L. McKenzie, Dizionario biblico [1965], ed. it. a cura di Bruno Maggioni,
Cittadella, Assisi 1978.
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Bob Becking, Pieter W. van der Horst, Brill-Eerdmans, Leiden-Grand Rapids
19992.
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Giuseppe Barbaglio, Creazione, in Nuovo Dizionario di Teologia, Edizioni
Paoline, Cinisello Balsamo 1982.
Paolo Bettiolo, Nel monoteismo ebraico-cristiano. Creare, generare, fare: da
Genesi ai primi secoli cristiani, in Antropogenesi. Ricerche sull’origine e lo
sviluppo del fenomeno umano, il Mulino, Bologna 2010, pp. 105-116.
Raymond Brown, Giovanni. Commento al Vangelo spirituale [1966 e 1970],
Cittadella, Assisi 1979; The Death of the Messian. From Gethsemane to the
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New York 1994.
Walter Brueggemann, An Introduction to the Old Testament. The Canon and
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Westminster John Knox Press, Louisville 2010.
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Norbert Lohfink, Attualità dell’Antico Testamento [1965], Queriniana, Brescia
1968.
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creazione [1997], Queriniana, Brescia 2006.
John P. Meier, Un ebreo marginale. Ripensare il Gesù storico [1991-2009], 4
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Joseph Ratzinger, Gesù di Nazaret. Seconda parte: dall’ingresso in
Gerusalemme fino alla risurrezione, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano
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Heinrich Schlier, Principati e potestà nel Nuovo Testamento [1959],
Morcelliana, Brescia 1967; Linee fondamentali di una teologia paolina [1978],
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Giobbe, a cura di Amos Luzzatto, Feltrinelli, Milano 20063.
Ellen van Wolde, Racconti dell’Inizio. Genesi 1-11 e altri racconti di creazione
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Claus Westermann, Teologia dell’Antico Testamento [1978], Paideia, Brescia
1983; Genesi [1986], Piemme, Casale Monferrato 1989; cfr. anche Il racconto
della creazione all’inizio della Bibbia [1966], in Nicola Negretti, Claus
Westermann, Gerhard von Rad, Gli inizi della nostra storia, Marietti, Torino 1974,
pp. 61-95.
3. Tradizione cristiana (in ordine cronologico)
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Giustino, Apologia per i cristiani, a cura di Charles Munier, Edizioni San
Clemente-Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2011; Le Apologie, in Gli
apologeti greci, a cura di Clara Burini, Città Nuova, Roma 1986.
Atenagora di Atene, Supplica per i cristiani, in Gli apologeti greci, a cura di
Clara Burini, Città Nuova, Roma 1986.
Taziano il Siro, Discorso ai greci, in Gli apologeti greci, a cura di Clara Burini,
Città Nuova, Roma 1986.
Ippolito di Roma, Traditio Apostolica, a cura di Elio Peretto, Città Nuova,
Roma 1996.
Ireneo di Lione, Contro le eresie e gli altri scritti, a cura di Enzo Bellini e per
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Tertulliano, Contro gli eretici, a cura di Claudio Moreschini, Città Nuova,
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Clemente Alessandrino, Stromati. Note di vera filosofia, a cura di Giovanni
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Origene, I Principi, a cura di Manlio Simonetti, Utet, Torino 1989; Contro
Celso, a cura di Aristide Colonna, Utet, Torino 1989; Omelie su Ezechiele, a cura
di Normando Antoniono, Città Nuova, Roma 19972; La preghiera, a cura di
Giuseppe Del Ton, Mondadori, Milano 1984.
Basilio di Cesarea, Sulla Genesi (Omelie sull’Esamerone), a cura di Mario
Naldini, Fondazione Lorenzo Valla-Mondadori, Milano 19992.
Gregorio di Nazianzo, Tutte le orazioni, a cura di Claudio Moreschini,
Bompiani, Milano 20022.
Agostino di Ippona, La vera religione, a cura di Onorato Grassi, Rusconi,
Milano 1997; Le Confessioni, Fondazione Lorenzo Valla-Mondadori, Milano
1997; La città di Dio, a cura di Luigi Alici, Rusconi, Milano 19923; Contra
secundam Iuliani responsionem imperfectum opus, ed. it. Polemica con Giuliano
II/2. Opera incompiuta, libri IV-VI, Città Nuova, Roma 1994.
Dionigi Areopagita, Teologia mistica, in Tutte le opere, Rusconi, Milano
19973.
Giovanni Damasceno, La fede ortodossa, a cura di Vittorio Fazzo, Città
Nuova, Roma 1998.
Anselmo d’Aosta, Opere filosofiche, a cura di Sofia Vanni Rovighi, Laterza,
Roma-Bari 1969; La caduta del diavolo, a cura di Giacobbe Elia e Giancarlo
Marchetti, Bompiani, Milano 20072.
Giovanni Calvino, Istituzione della religione cristiana [1559], a cura di Giorgio
Tourn, Utet, Torino 1983.
Tommaso d’Aquino, Somma contro i gentili, a cura di Tito S. Centi, Utet,
Torino 19922; La somma teologica, a cura dei domenicani italiani, testo latino
dell’edizione Leonina, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1984; Il male, a
cura di Fernando Fiorentino, Rusconi, Milano 1999.
Gregorio Palamas, Atto e luce divina. Scritti filosofici e teologici, a cura di
Ettore Perrella, Bompiani, Milano 2003.
Ignazio di Loyola, Esercizi spirituali, a cura di Giuliano Raffo, Edizioni Adp,
Roma 1991.
John Henry Newman, Apologia pro vita sua, in Opere, a cura di Alberto Bosi,
Utet, Torino 1997.
4. Scienza (ordine alfabetico)
Ugo Amaldi, Dal Big Bang all’uomo: teologi, uscite dall’impasse, «Vita e
Pensiero», 6(2010).
Antropogenesi. Ricerche sull’origine e lo sviluppo del fenomeno umano, a
cura di Antonio Pavan ed Emanuela Magno, il Mulino, Bologna 2010.
Francisco Ayala, Darwin and Intelligent Design, Fortress Press, Minneapolis
2006; Il dono di Darwin alla scienza e alla religione [2007], Jaca Book-San Paolo,
Milano-Cinisello Balsamo 2009.
John D. Barrow e Frank J. Tipler, Il principio antropico [1986], Adelphi,
Milano 2002.
John D. Barrow, Teorie del tutto. La ricerca della spiegazione ultima [1991],
Adelphi, Milano 1992; L’Universo come opera d’arte [1995], Bur, Milano 20042.
Marco Bersanelli e Mario Gargantini, Solo lo stupore conosce. L’avventura
della ricerca scientifica, Bur, Milano 2003.
David Bohm, Wholeness and the Implicate Order, Routledge, London 1980;
cfr. anche Massimo Teodorani, David Bohm. La fisica dell’infinito, Macro
Edizioni, Diegaro di Cesena 2009.
Fritjof Capra, Il Tao della fisica [1975], Adelphi, Milano 199810; La rete della
vita [1996], Bur, Milano 20066.
Francis Collins, Il linguaggio di Dio [2006], Sperling & Kupfer, Milano 2007.
Simon Conway Morris, Life’s Solution. Inevitable Humans in a Lonely
Universe, Cambridge University Press, Cambridge 2003.
George Coyne, L’Universo e il tempo, in Carlo Maria Martini, Orizzonti e
limiti della scienza. Decima Cattedra dei non credenti, a cura di Elio Sindoni e
Corrado Sinigaglia, Raffaello Cortina Editore, Milano 1999; The Fertile Universe,
«America», 23 ottobre 2006, ora in americamagazine.org; cfr. anche Riccardo
Chiaberge, La variabile Dio. In cosa credono gli scienziati? Un confronto tra
George Coyne e Arno Penzias, Longanesi, Milano 2008.
George Coyne e Alessandro Omizzolo, Viandanti nell’Universo. Astronomia e
senso della vita, Mondadori, Milano 2000.
Charles Darwin, L’origine delle specie [1859, 18726], Bollati Boringhieri,
Torino 2011; Opere, a cura di Giuseppe Montalenti, Newton, Roma 1994; Lettere
sulla religione, a cura di Telmo Pievani, Einaudi, Torino 2013.
Paul Davies, Da dove viene la vita, Mondadori, Milano 2000; Scienza e
religione nel XXI secolo, conferenza tenuta a Filadelfia nel 2000, ora nel sito
disf.org; The Universe – What’s the Point?, in Spiritual Information. 100
Perspectives on Science and Religion, a cura di Charles Harper Jr., Templeton
Foundation Press, Philadelphia-London 2005; Una fortuna cosmica. La vita
nell’universo: coincidenza o progetto divino [2007], Mondadori, Milano 2007.
Richard Dawkins, Il gene egoista [1976], Mondadori, Milano 1992.
Christian de Duve, Polvere vitale [1995], Longanesi, Milano 1998; Come
evolve la vita. Dalle molecole alla mente simbolica, Raffaello Cortina, Milano
2003; Genetica del peccato originale. Il peso del passato sul futuro della vita
[2010], Raffaello Cortina, Milano 2010; Da Gesù a Gesù passando per Darwin.
Un itinerario personale [2011], San Paolo, Cinisello Balsamo 2013.
Freeman Dyson, Turbare l’universo [1979], Boringhieri, Torino 1981.
Albert Einstein, Come io vedo il mondo [1949], in Come io vedo il mondo. La
teoria della relatività, Newton Compton, Roma 1992; Pensieri, idee, opinioni
[1950], Newton Compton, Roma 2006; cfr. anche William Hermanns, Einstein
and the Poet, Branden Press, Boston 1983.
Fiorenzo Facchini, Il cammino dell’evoluzione umana. Le scoperte e i dibattiti
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In particolare sul Diavolo
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Antologia diabolica. Raccolta di testi sul diavolo nel primo millennio cristiano,
a cura di Renzo Lavatori, Utet, Torino 2007.
Corrado Balducci, Il Diavolo, Piemme, Casale Monferrato 199010.
René Laurentin, Il Demonio. Mito o realtà? Insegnamento ed esperienza del
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Renzo Lavatori, Satana un caso serio. Studio di demonologia cristiana, EDB,
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Walter Kasper, Il problema teologico del male, in Diavolo, Demoni,
Possessione. Sulla realtà del male, a cura di Walter Kasper e Karl Lehmann
[1978], Queriniana, Brescia 1983.
Leszek Kolakowski, La chiave del Cielo. Conversazioni con il Diavolo [1965],
Queriniana, Brescia 1982.
Joseph Ratzinger, Liquidazione del diavolo?, in Dogma e predicazione [1973],
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Jeffrey Burton Russell, Satana. Il Diavolo e l’inferno tra I e V secolo [1981],
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7. Per una nuova spiritualità (in ordine alfabetico)
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Firenze 1990.
Leonardo Boff, La voce dell’arcobaleno. Per un’etica planetaria e una
spiritualità ecologica [2000], a cura di Carlo Molari, Cittadella, Assisi 2002.
Dietrich Bonhoeffer, Resistenza e resa. Lettere e scritti dal carcere [19431944], a cura di Alberto Gallas, San Paolo, Cinisello Balsamo 1989.
Pier Cesare Bori, Per un consenso etico tra culture, Marietti, Genova 20052;
Universalismo come pluralità delle vie, Marietti, Genova 2004.
Sergej Bulgakov, La luce senza tramonto [1916], Lipa, Roma 2002.
Dalai Lama, L’abbraccio del mondo [2005], Sperling & Kupfer, Milano 2008;
Incontro con Gesù. Una lettura buddhista del Vangelo [1996], Mondadori, Milano
1997.
Michele Do, Per un’immagine creativa di cristianesimo, a cura di Clara
Gennaro, Silvana Molina e Piero Racca, pro manuscripto, senza luogo di edizione
e senza data.
Pavel A. Florenskij, La colonna e il fondamento della verità. Saggio di
teodicea ortodossa in dodici lettere [1914], Rusconi, Milano 1998, nuova edizione
a cura di Natalino Valentini, San Paolo, Cinisello Balsamo 2010; Ai miei figli.
Memorie di giorni passati [1916-1925], a cura di Natalino Valentini e Lubomír
Žák, Mondadori, Milano 2003; Non dimenticatemi. Dal gulag staliniano le lettere
alla moglie e ai figli del grande matematico, filosofo e sacerdote russo [19331937], a cura di Natalino Valentini e Lubomír Žák, Mondadori, Milano 2000.
Etty Hillesum, Diario. 1941-1943, edizione integrale a cura di Jan G.
Gaarlandt, Adelphi, Milano 1985; Diario [antologia], Adelphi, Milano 20004;
Lettere. 1942-1943, Adelphi, Milano 19982.
Daisaku Ikeda, Per il bene della pace. Sette sentieri verso l’armonia globale:
una prospettiva buddista [2001], Esperia, Milano 2012.
Paul Knitter, Senza Buddha non potrei essere cristiano [2009], Fazi, Roma
2011.
Carlo Maria Martini, Le ragioni del credere. Scritti e interventi, a cura di
Damiano Modena e Virginio Pontiggia, Mondadori, Milano 2011.
Carlo Molari, Credere laicamente nel mondo, Cittadella, Assisi 2006; Per una
spiritualità adulta, Cittadella, Assisi 2007.
Raimon Panikkar, Il silenzio del Buddha. Un a-teismo religioso, Oscar
Mondadori, Milano 2006.
Arturo Paoli, Dialogo della liberazione, Nino Aragno Editore, Torino 2012
(prima edizione 1969).
Corrado Pensa, La tranquilla passione. Saggi sulla meditazione buddhista di
consapevolezza, Ubaldini, Roma 1994.
Yves Raguin, Il Tao della mistica. Le vie della contemplazione tra Oriente e
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Andrea Schnöller, La via del silenzio. Meditazione e consapevolezza, Appunti
di Viaggio, Roma 1995.
Albert Schweitzer, My Life and Thought. An Autobiography [1931], Guild
Books, London 1955; Rispetto per la vita [1947], a cura di Charles R. Joy,
Edizioni di Comunità, Milano 1957; Rispetto per la vita. Gli scritti più importanti
nell’arco di un cinquantennio raccolti da Hans W. Bähr [1966], Claudiana, Torino
1994.
Pierre Teilhard de Chardin, La mia fede. Scritti teologici [1920-1953],
Queriniana, Brescia 1993; L’ambiente divino. Saggio di vita interiore [1926],
Queriniana, Brescia 20095; Il cuore della materia [1950], Queriniana, Brescia
20073; Il fenomeno umano [1955, postuma], Queriniana, Brescia 20012.
Thich Nhat Hanh, Il Buddha vivente, il Cristo vivente [1995], Neri Pozza,
Vicenza 1996; Essere pace [1985-1988], Ubaldini, Roma 1989; L’energia della
preghiera. Come approfondire la pratica spirituale quotidiana [2006], Oscar
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David Maria Turoldo, Anche Dio è infelice, Piemme, Casale Monferrato 1991.
Simone Weil, Quaderni, 4 voll. [1941-1942], Adelphi, Milano 19973; Lettera a
un religioso [1942], Adelphi, Milano 1996; Attesa di Dio [1942], a cura di Maria
Concetta Sala, Adelphi, Milano 2008; La prima radice. Preludio a una
dichiarazione dei doveri verso l’essere umano [1942-1943], Leonardo, Milano
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scienza, San Paolo, Cinisello Balsamo 2011.
Adriana Zarri, Un eremo non è un guscio di lumaca, Einaudi, Torino 2011;
Teologia del quotidiano, Einaudi, Torino 2012.
INDICE DEI NOMI DI PERSONA
Abelardo, Pietro
Adams Leeming, David
Adams Leeming, Margaret
Adl, Sina
Ageno, Mario
Agostino d’Ippona, sant’
Agrippina, madre di Nerone
Aland, Barbara
Aland, Kurt
Alemanno, Marco
Alici, Luigi
Alighieri, Dante vedi Dante Alighieri
Alonso Schökel, Luis
Alszeghy, Zoltan
Altizer, Thomas
Amaldi, Ugo
Amann, Émile
Ambrogio, sant’
Amir-Moezzi, Mohammad Ali
Amos, profeta
Anassimandro di Mileto
Ancona, Giovanni
Anselmo d’Aosta, sant’
Antioco IV Epifane
Antoniono, Normando
Arber, Werner
Arendt, Hannah
Aristofane
Aristotele
Arnould, Jacques
Arrighetti, Graziano
Artioli, Maria Benedetta
Artosi, Alberto
Ascher Corsetti, Maria Concetta,
Atenagora di Atene
Atkins, Peter
Auger, Pierre
Auvray, Paul
Ayala, Francisco
Azzali, Ali Stefano
Badiali, Federico
Balducci, Celso
Balducci, Corrado
Balducci, Ernesto
Balthasar, Hans Urs von
Balzarotti, Rodolfo
Barbaglio, Giuseppe
Barbiero, Giuseppe
Barbour, Ian G.
Barra, Giovanni
Barrow, John
Barth, Karl
Bartocci, Claudio
Basilide
Basilio di Cesarea
Baudelaire, Charles
Becchi, Paolo
Becking, Bob
Behe, Michael
Bellini, Enzo
Bello, Tonino
Bemporad, Gabriella
Benedettine di Civitella San Paolo
Benedettini di Germagno
Benedetto XVI (vedi anche Ratzinger, Joseph)
Berdjaev, Nikolaj
Bergoglio, Jorge Mario (papa Francesco)
Bergson, Henri
Bernardino Telesio
Bersanelli, Marco
Bertalot, Renzo
Berti, Enrico
Betori, Giuseppe
Bettiolo, Paolo
Bianco, Giuseppe
Biava, Pier Mario
Bielawski, Maciej
Binsfeld, Peter
Blijenbergh, Willem van
Blum, Isabella C.
Bobbio, Norberto
Bof, Giampiero
Boff, Leonardo
Bogdanov, Grichka
Bogdanov, Igor
Bogomil
Bohm, David
Bohr, Hans
Bohr, Niels
Boismard, Émile
Bonaldi, Claudio
Bonaventura da Bagnoregio
Bonhoeffer, Dietrich
Bonola, Gianfranco
Borgonovo, Gianantonio
Bori, Pier Cesare
Born, Max
Borsellino, Paolo
Bosch, Hieronymus
Bosco, Nynfa
Bose, Satyendra Nath
Bosi, Alberto
Bottéro, Jean
Botturi, Francesco
Brant, Sebastian
Brehmer, Karl
Bresciani, Edda
Brotti, Giulio
Brown, Raymond
Brueggemann, Walter
Bruno, Giordano
Brzozowska, Zofia J.
Buber, Martin
Buddha (Siddharta Gautama)
Bulgakov, Sergej
Buonaiuti, Ernesto
Buongarzone, Roberto
Burini, Clara
Burton, Jeffrey
Busi, Anna
Busi, Giulio
Bussi, Natale
Cabibbo, Nicola
Cafaro, Francesco
Cagni, Luigi
Calabrò, Paolo
Calasso, Roberto
Calogero, Guido
Calonghi, Ferruccio
Calvino, Giovanni
Campanella, Tommaso
Campi, Emidio
Camus, Albert
Canobbio, Giacomo
Cantoni, Remo
Capra, Fritjof
Carducci, Giosuè
Carli, Eddy
Carpocrate
Carrara Pavan, Milena
Cartesio (René Descartes)
Casale, Umberto
Castellani, Giuseppe
Castellino, Giorgio R.
Cavallo, Paolo
Celso
Centi, Tito S.
Cerdone
Cerinto
Cerri, Giovanni
Ceva, Maristella
Chang, Raymond
Charlevoix, padre gesuita
Chiaberge, Riccardo
Chiarini, Gioacchino
Chiodi, Pietro
Cicero, Vincenzo
Cilento, Vincenzo
Cioran, Emil
Civalleri, Luigi
Clayton, Philip
Clemente di Alessandria
Clemente VIII, papa
Cobb, John
Collins, Francis
Colombi, Giulio
Colombo, Giuseppe
Colonna, Aristide
Colzani, Gianni
Comba, Aldo
Conte, Amedeo G.
Conway Morris, Simon
Copernico, Niccolò
Coppens, Yves
Corbin, Michel
Corte, Giorgio
Corteggiani, Jean-Pierre
Costa, Filippo
Costa, Paolo
Coyne, George
Cravignani, Maria Caterina
Crespi, Pietro
Crick, Francis
Crisma, Amina
Cromie, William J.
Cross, Frank L.
Cumano, Carlo
Curi, Umberto
Cusano, Nicolò
Czepko, Daniel
Dacquino, Pietro
D’Agostino, Marcello
Dalai Lama
Dal Bo, Federico
Dalla Vecchia, Flavio
Dalla, Lucio
Dalton, Joseph
Damasceno, Giovanni
Dan, Joseph
Daniélou, Alain
Danna, Carlo
Dante Alighieri
Darwin, Charles,
Darwin, Erasmus
Davies, Paul
Dawkins, Richard
De Benedetti, Paolo
de Duve, Christian
Della Casa, Carlo
Dell’Asta, Adriano
Dellavalle, Sergio
Del Ton, Giuseppe
De Mattei, Roberto
Dembski, William
Democrito
De Negri, Enrico
Denzinger, Heinrich
de Rosnay, Joël
Diana, Giuseppe
Dianich, Severino
Diaz, José Luis Sicre
Diels, Hermann
Diener, Michael S.
Dionigi Areopagita
Disegni, Dario
Do, Michele
Dodd, Charles H.
Dostoevskij, Fëdor
Dotolo, Carmelo
Dozon Daverio, Annetta
Dunn, James D.G.
Duquoc, Christian
Dürr, Hans-Peter
Duyvendak, Jan J.L.
Dyson, Freeman
Eckhart von Hochheim (Meister Eckhart)
Eddington, Arthur
Ehrhard, Franz-Karl
Einstein, Albert
Elia, Giacobbe
Eliade, Mircea
Eloisa
Emerson, Ralph Waldo
Engels, Friedrich
Epicuro
Epitteto
Eraclito
Erasmo da Rotterdam
Eriugena, Giovanni Scoto
Erma
Esiodo
Ezechiele, profeta
Facchini, Fiorenzo
Faggin, Giuseppe
Falcone, Giovanni
Faranda, Giovanna
Farina, Raffaele
Fatta, Corrado
Fazzo, Vittorio
Fedeli, Carlo
Feiner, Johannes
Fermi, Enrico
Ferraresi, Silvio
Ferrari, Giuseppe
Ferretti, Giovanni
Ferri, Corrado
Fichte, Johann Gottlieb
Filone di Alessandria
Filoramo, Giovanni
Finet, André
Fiorentino, Fernando,
Fioroni, Andrea
Firpo, Luigi
Fischer-Schreiber, Ingrid
Flavio Giuseppe
Fleischman, Paul
Flick, Maurizio
Florenskij, Anna (Anna Michaijlovna Giacintova)
Florenskij, Pavel
Flores D’Arcais, Paolo
Fodor, Jerry
Fornari, Giuseppe
Foucault, Michel
Fox, Matthew
Frache, Stefano
Francavilla, Antonietta,
Franck, Sebastian
Franzini Tibaldeo, Roberto
Franzosi, Teresa
Fratini, Luciana
Freeland, Stephen
Freud, Sigmund
Friedrichs, Kurt
Fries, Heinrich
Gaarlandt, Jan G.
Gaeta, Giancarlo
Galiero, Antonella
Galileo Galilei
Galimberti, Umberto
Gallas, Alberto
Galli, Antonio
Ganoczy, Alexandre
Gargantini, Mario
Garin, Eugenio
Garroni, Emilio
Gatti, Enzo
Gennaro, Clara
Gentiloni Silveri, Filippo
Gesù ben Sira (Siracide)
Gesù di Nazaret
Ghiberti, Giuseppe
Giamblico di Calcide
Giannantoni, Gabriele
Giannoni, Paolo
Giasone (Gesù)
Gibellini, Rosino
Giobbe
Giorello, Giulio
Giovanni Battista
Giovanni Crisostomo
Giovanni Damasceno
Giovanni della Croce
Giovanni Evangelista
Giovanni Paolo II
Giovanni XXII
Girard, René
Girardet, Maria
Giuda Iscariota
Giuda Maccabeo,
Giuditta, Antonio
Giulio Cesare
Giustiniano
Giustino, martire
Glashow, Sheldon Lee
Gnoli, Raniero
Goethe, Johann Wolfgang von
Gogol’, Nikolaj V.
Golding, William
Gostoli, Antonietta
Goya, Francisco
Grampa, Giuseppe
Grassi, Onorato
Graves, Robert
Gray, Asa
Greene, Brian
Gregorio di Nazianzo
Gregorio di Nissa
Gregorio Magno
Gregorio Palamas
Grelot, Pierre
Griffin, David Ray
Griffiths, Bede
Groeben, Karl Konrad von
Gross, Heinrich
Grossi, Vittorino
Guercetti, Emanuela
Guerriero, Elio
Guglielmoni, Paolo
Guicciardini, Niccolò
Guidorizzi, Giulio
Guitton, Jean
Günther, Anton
Guzzardi, Luca
Haag, Herbert
Hadjadj, Fabrice
Hamilton, William
Hammurabi
Harnack, Adolf von
Harper, Charles Jr.
Hartshorne, Charles
Haught, John
Hegel, Georg Wilhelm Friedrich
Heidegger, Martin
Heisenberg, Werner
Heller, Michael
Helmont, Jean Baptiste van
Hermanns, William
Herrigel, Eugen
Herrmann, Friedrich-Wilhelm von
Heschel, Abraham Joshua
Hick, John
Higgs, Peter
Hillel, rabbi
Hillesum, Etty
Hobbes, Thomas
Hohenegger, Hansmichael
Hooker, Joseph D.
Horkheimer, Max
Hoyle, Fred
Hume, David,
Hünermann, Peter
Ignazio di Loyola
Ikeda, Daisaku
Ilting, Karl-Heinz
Innocenzo III
Ippolito di Roma
Ireneo di Lione
Isaia, profeta
Jaeger, Werner
Jain, Sagarmal
James, William
Jaspers, Karl
Joannes, Fernando Vittorino
Johnson, Elizabeth A.
Joli, Elena
Jonas, Hans
Jossua, Jean-Pierre
Joy, Charles R.
Jullien, François
Jüngel, Eberhard
Kant, Immanuel
Karavidopoulos, Johannes
Kasper, Walter
Kauffman, Stuart
Kehl, Medard
Kemeny, Tomaso
Keown, Damien
Keplero, Giovanni
Kern, Walter
Kierkegaard, Søren A.
Kitamori, Kazoh
Kittel, Gerhard
Knitter, Paul
Knox, John
Kolakowski, Leszek
Kolbe, Massimiliano M.
Kraiski, Giorgio
Kramer, Samuel N.,
Kranz, Walther
Kraus Reggiani, C.
Kundera, Milan
Küng, Hans
Ladaria, Luis F.
Lafuma, Louis
Lagrange, Marie-Joseph
Lamarck, Jean-Baptiste de
Lamparelli, Claudio
Lanciotti, Lionello
Langer, Alexander
Langone, Camillo
Lanzoni, Angelo
Lao-tzu
Laszlo, Ervin
Laurenti, Renato
Laurentin, René
Lavatori, Renzo
Lawrence, David Herbert
Leclerc, Georges-Louis conte di Buffon
Lécrivain, Philippe
Lederman, Leon
Lefèvre, André
Lehmann, Karl
Leibniz, Gottfried Wilhelm von
Leisegang, Hans
Léon-Dufour, Xavier
Leone Magno
Leopardi, Giacomo
Lettieri, Giovanni
Leucippo
Levi, Primo
Lévinas, Emmanuel
Loewenthal, Elena
Lohfink, Norbert
Löhrer, Magnus
Löning, Karl
Lorini, Arturo
Lossky, Vladimir
Lovelock, James
Luca, apostolo
Lucrezio
Luria, Isaac
Lutero, Martin
Luzzatto, Amos
Lyonnet, Stanislas
Machiavelli, Niccolò
Maddalena, Antonio
Maggioni, Bruno,
Magno, Emanuela
Magri, Lucio
Malerba, Carla
Maloney, George
Manacorda, Guido
Mangenot, Eugène
Mani
Mantovani, Fabio
Manzoni, Alessandro
Marchetti, Giancarlo
Marchetti, Valerio
Marcione
Marco Aurelio
Marco il Mago
Marco, apostolo
Margulis, Lynn
Maria, madre di Gesù
Martin, Nancy M.
Martinelli Tempesta, Stefano
Martinelli, Edoardo
Martini, Carlo Maria
Marx, Karl
Maschio, Giorgio
Masini, Ferruccio
Massimello, Maria Anna,
Massimo il Confessore
Mastromarco, Giuseppe
Mathieu, Vittorio
Matteo, apostolo
Mazzarol, Riccardo
McCurry, Jeffrey
McGrath, Alister E.
McKenzie, John L.
Meier, John
Melegari, Gianni
Meli, Marcello
Menandro
Meo, Antonio
Merk, Agostino
Messer, Thomas M.,
Messori, Vittorio
Metz, Johann Baptist
Metzger, Bruce M.
Meyer, Stephen C.
Micalizzi, Pierluigi
Michalski, Krzysztof
Michelangelo Buonarroti,
Micheli, Gianni
Michelstaedter, Carlo
Micks, Anna Maria,
Mignini, Filippo
Milanoli, Ambretta
Modena, Damiano
Modesto, Pietro
Molari, Carlo
Molina, Silvana
Moltmann, Jürgen
Monicelli, Mario
Monk, Ray
Monod, Jacques
Montale, Eugenio
Montalenti, Giuseppe
Mora, Camilo
Moraldi, Luigi
Morandini, Simone
Moravia, Alberto
Moreschini, Claudio
Moretto, Giovanni
Morpurgo, Elisa
Morselli, Guido
Moser, Sabina
Mühlen, Heribert
Müller, Gerhard Ludwig,
Munch, Edvard
Munier, Charles
Muratore, Saturnino
Musil, Robert
Nacci, Bruno
Nagel, Thomas
Nahum, profeta,
Naldini, Mario
Negretti, Nicola
Nerone
Newman, John Henry
Newton, Isaac
Nietzsche, Friedrich
Nkafu Nkemnkia, Martin
Novalis
Occhipinti, Giuseppe
Odifreddi, Piergiorgio
Olivetti, Marco M.
Omero
Omizzolo, Alessandro
Onfray, Michel
Origene di Alessandria
Otto, Rudolf
Ovidio
Pace, Vincenzo
Pacomio, Luciano
Paggi, Dida
Panikkar, Raimon
Pannenberg, Wolfhart
Paoletti, Paolo
Paoli, Arturo
Paolo VI
Paolo, apostolo
Pareyson, Luigi,
Parizzi, Massimo
Pascal, Blaise
Passanti, Chiara
Pastorino, Claudia
Pauli, Wolfgang
Pavan, Antonio
Pavese, Cesare
Pensa, Corrado
Penzias, Arno
Penzo, Giorgio
Peretto, Elio
Perrella, Ettore
Pétrement, Simone
Pezzetta, Dino
Piattelli-Palmarini, Massimo
Piccardo, Hamza Roberto
Pico della Mirandola, Giovanni
Pietro, apostolo
Pievani, Telmo
Pighetti, Lidia
Pini, Giovanni
Pio X, papa
Pio XII, papa
Pitagora
Planck, Max
Platone
Plotino
Plutarco
Pocar, Ervino
Poggi, Alfredo
Poletti, Anna
Poletti, Gianni
Poletto, Severino
Polidori, Fabio
Politi, Marco
Polkinghorne, John
Polledro, Alfredo
Poma, Andrea
Pontiggia, Virginio
Porete, Margherita
Poupard, Paul
Prigogine, Ilya
Priscillano
Pritchard, James B.
Proietti, Omero
Provine, Will
Puglisi, Pino
Putnam, Hilary
Quacquarelli, Antonio
Quinzio, Sergio
Racca, Piero
Rad, Gerhard von
Radice, Roberto
Raffo, Giuliano
Raguin, Yves
Rahner, Karl
Ratzinger, Joseph (vedi anche Benedetto XVI)
Ravasi, Gianfranco
Raveri, Massimo
Reale, Giovanni
Rees, Martin
Reeves, Hubert
Rho, Anita
Riccio, Antonella
Ricoeur, Paul
Riconda, Giuseppe
Ries, Julien
Rigopoulos, Antonio
Riva, Giuliano
Rocci, Lorenzo
Romero, Oscar
Ronchi, Franco
Roncoroni, Massimo
Ropers, Roland R.
Rosemberg, Diego F.
Rosenzweig, Franz
Rosnay, Jöel de
Rossi, Valentina
Rosso Ubigli, Liliana
Rozental, Stefan
Rubbia, Carlo
Runzo, Joseph
Russell, Bertrand
Russell, Jeffrey B.
Russell, Robert J.
Sabato, Giovanni
Sacchi Balestrieri, Anna
Sacchi, Paolo
Saint-Exupéry, Antoine de
Sala, Maria Concetta
Sala, Virginio B.
Salam, Abdus
Salgari, Emilio
Salio, Giovanni
Salomoni, Antonella
Sánchez Sorondo, Marcelo
Sandars, Nancy K.
Sani, Chiara
?a?kara,
Sanna, Ignazio
Sartre, Jean-Paul
Saturnino
Scarpi, Paolo
Schelling, Friedrich
Schiavoni, Giulio
Schleiermacher, Friedrich
Schlier, Heinrich
Schmaus, Michael,
Schnackenburg, Rudolf
Schnöller, Andrea
Scholem, Gershom
Schönborn, Christoph,
Schoonenberg, Piet
Schopenhauer, Arthur
Schrödinger, Erwin
Schroeder, Gerald
Schweitzer, Albert
Seelmann, Hoo N.
Semmelroth, Otto
Serenthà, Luigi
Serra, Adriana
Serra, Cristina
Serra, Laura
Serveto, Michele
Sesboüé, Bernard
Severino, Emanuele
Sferra, Francesco
Shakespeare, William, e n
Sheldrake, Rupert
Sherburne, Donald W.
Sicre Diaz, José Luis
Silesius, Angelus
Simon Mago (Simone il Samaritano)
Simonetti, Manlio
Simonnet, Dominique
Simpson, Alastair G.B.
Simpson, Zachary
Sindoni, Elio
Sinigaglia, Corrado
Skorka, Abraham
Snaith, Norman H.
Socrate
Soffritti, Omero
Sofonia, profeta
Solari, Gioele
Sölle, Dorothee
Sosio, Libero
Spera, Salvatore
Spinoza, Baruc
Spranzi, Marta
Staglianò, Antonio
Stancari, Pino
Stein, Edith
Stengers, Isabelle
Stoeger, William R.
Strummiello, Giusi
Swennen, Philippe
Swift, Jonathan
Swimme, Brian
Tacchi Venturi, Pietro
Tacito
Taulero, Giovanni
Taziano il Siro
Teilhard de Chardin, Pierre
Telesio, Bernardino
Teodorani, Massimo
Teofilo, di Antiochia,
Teresi, Dick
Tertulliano
Thich Nhat Hanh
Tillich, Paul
Timossi, Roberto
Tipler, Frank J.
Tischner, Józef
Tito, imperatore
Tittensor, Derek P.
Tolomeo
Tolomeo, Claudio
Tomassini, Fausto
Tommaso d’Aquino, san,
Tommaso da Celano
Toorn, Karel van der
Tourn, Giorgio
Trabattoni, Franco
Travaglino, Carlo
Trevi, Mario,
Turoldo, David Maria
Turribio, vescovo
Ungaretti, Giuseppe
Usiglio, Donata
Ussher, James
Vacant, Alfred
Valentini, Natalino
Valentino
Valla, Riccardo
Van der Horst, Pieter W.
Vanni Rovighi, Sofia
Vanni, Ugo
Vannini, Marco
Varenne, Jean
Var?i, Rri Jinendra
Vercingetorige
Verson, Adolfo
Verzegnassi, Claudio
Vespasiano, imperatore
Viano, Carlo Augusto
Vidari, Giovanni
Vigorelli, Giancarlo
Vincelli, Maria
Viola, Giovanni
Vogelmann, Daniel
Volpi, Franco
Volpi, Italo
Vorgrimler, Herbert
Wagner, Gerhard
Wallace, Alfred Russell
Weber, Hubert Philipp
Weber, Max
Weil, Simone
Weinberg, Steven
Weizsächer, Carl Friedrich von
Westermann, Claus
Whitehead, Alfred North
Whitesides, George M.
Wiesel, Elie
Wiley, John
Wilson, Edward O.
Wilson, Robert
Wittgenstein, Ludwig
Woese, Carl
Wolde, Ellen van
Worm, Boris
Yahya, Harun
Yeshua (Gesù di Nazaret)
Zaccherini, Giovanni
Žák, Lubomír
Zampa, Giorgio
Zanda, Momi
Zanini, Roberto
Zarathustra
Zarri, Adriana
Zenger, Erich
Zilio-Grandi, Ida
Zonghetti, Claudia
Zugan, Rossella
INDICE DEI NOMI DIVINI, DIABOLICI E
MITOLOGICI
Abele
Abisso
Adamo
Ade
Afrodite
Agni
Ahura Mazda,
Altezza
Angeli
Anticristo
Apofi
Apollo
Apsu
Arconti
Asmodeo
Astarte
Atena
Atum
Azazèl
Baal-Peor (Belfagor)
Baal
Beelzebul
Behemot
Beliar
Bestia
Brahman
Caino
Caos (Abisso)
Ciclopi
Crono
Dei
Demetra,
Dèmone
Demòni
Dèmoni
Demonio
Diavolo
Dio di questo mondo
Dominatori di questo mondo
Dominazioni
Drago
El
Elementi del mondo
Era
Erebo
Erinni (Furie)
Eros
Esculapio (Asclepio),
Estia
Eurinome
Eva
Forze
Gaia (Gea)
Gheb
Giganti
Illuyanka
Indra
Iside
Kali
Khepri
Kingu
Leviatàn
Lilit (Lilith),
Lucifero
Maligno
Mammona
Mara
Marduk
Marsia
Morte
Mostri
Nammu
Nefti
Nehebkau
Nemico
Notte
Nun
Nut
Oceano,
Ofione
Osiride
Pan gu (Pangu)
Pan
Poseidone
Potenze sataniche
Potenze
Principati
Principe dei demoni
Principe della potenza dell’aria
Principe di questo mondo
Prìncipi
Ptah
Puru?a
Ra
Rahab
Rea
Satana
Saturno (Crono)
Saul, re
Sciu
Semeyaza
Serpente antico
Serpente
Seth
Signori
Signorie cosmiche
?iva
Sophia
Spiriti del male
Spirito del mondo
Spirito impuro
Sterminatore
Tartaro
Tefnut
Telipinu
Tentatore
Tiamat
Tifeo (Tifone)
Titani
Troni
Urano
Yam
Yhwh
Zeus
INDICE DEI PASSI BIBLICI
PRIMO TESTAMENTO
Genesi
1
1-2
1-11
1,1
1,1-2
1,2
1,3
1,31
2
2,2
2,7
2,8
2,19
2,22
3
3-11
6,1-4
6,4
19,13
22
22,1
22,16
28,16
Esodo
4,21
4,24-26
7,3
7-11
9,12
10,20
10,27
11,10
12,23
19,12-13
19,21-22
20,5
20,5-6
20,8
20,10
35,2
Levitico
16,2
16,8
26
26,29
Numeri
4,20
5,14
11,1
13,33
15,32-36
17,13
21,4-9
21,6
25,3
25,5
Deuteronomio
4,3
4,24
5,24-26
7,1-2
20,16-18
24,9
28
Giosuè
2
6,21
10,28-43
11
11,23
Giudici
2,14
3,8
6,22-23
11,30-40
1Samuele
5-6
6,19
16,14
16,15-16
18,10
19,9
29,4
2Samuele
6
6,6-7
19,23
24
24,1
24,16
1Re
5,18
11,14
11,23
11,25
22,22
1Cronache
21,1
Tobia
3,8
3,17
Giuditta
16,6
2Maccabei
7
7,1
7,4-5
7,20
7,24
7,27-29
7,28
7,39
11,17
Giobbe
1-2
1,12
2,6
3,8
7,12
7,19
9,13
10,8
14,6
26,12
28
28,25-27
34,14-15
38,2
40,15-24
40,25-41,26
41,11-13
41,17
41,23
41,25 (Volg. 41,25)
Salmi
19,2
19,2-3
21,9-10
22,22 (Volg. 21,22)
24,1
24,10
29,6 (Volg. 28,6)
31,11
33,6
33,9
39,11
39,14
47,9
68,21
74,13-14
74,13-15
77,17
78,49
87
89,11
90,7
91,13
92,10 (Volg. 91,11)
93
93,3-4
95,5
97,1
99,1
102,26
104
104,7
104,9
104,26
106,28
109,6
119,73
131,2
147
148,7
Proverbi
8,12
8,27
8,22-23
8,22-31
8,30-31
Qohelet
1,9
4,2-3
Sapienza
1,14
2,24
7,17
7,17-8,1
7,22-8,1
10,1
11,15
11,16
11,17
11,18
11,24-26
14,6
Siracide
16,7
24
24,1-9
43,27
Isaia
6,1
6,5
6,9
6,9-10
13,21
14
14,4-23
14,12
14,12-15
14,29
27,1
30,6
30,7
34,7
34,11
34,14
37,36
42,1-4
45,7
45,11-12
46,9
49,1-6
50,4-11
51,9-10
52,13-53,12
64,7
66,2
Baruc
3,6
3,9-4,4
3,29-4,1
Ezechiele
28
28,1-19
28,2
28,14
28,16
Osea
4,12
9,10
Amos
9,3
Nahum
1,2
Zaccaria
3,1-2
SECONDO TESTAMENTO
Matteo
1,5
3,12
4,1
4,3
4,24
5,6
5,37
6,13
6,20
6,22
6,24
7,12
7,19
8,16
8,28-34
8,31
9,32-33
10,16
10,23
10,25
10,29
11,25
12,22-23
12,24-28
13,10-13
13,19
13,39
13,41-42
13,49
13,49-50
15,21-28
16,21
16,28
17,12
17,22-23
17,14-21
18,8
18,22
19,8
19,28
20,18-19
22,13-14
24
24,3
24,21
24,28
24,29
24,30
24,30-31
24,34
24,36
24,51
25,30
25,40
25,46
26,26
26,41
26,54
26,64
28,18
Marco
1,23-26
1,23-28
3,15
3,22
4,11-12
4,15
5,1-20
5,13
6,7
6,13
7,24-30
8,31
9,1
9,14-29
9,31
9,43
9,49
10,6
10,33-34
13
13,4
13,19
13,25
13,30
13,32
14,38
14,62
Luca
4,2
4,5-7
4,13
4,33-35
4,33-37
6,31
8,2
8,10
8,12
8,26-39
9,1
9,22
9,27
9,37-42
9,44
10,17
10,18
10,19-20
10,21
11,14
11,14-20
11,20
12,49-50
13,10
13,16
13,33
15,11-32
16,13
17,25
18,31-33
21
21,7
21,26
21,32
22,3
22,19
22,31
22,53
22,69
24,7
24,25-27
24,44-46
Giovanni
1,1
1,3
1,10
2,4
3,14
4,24
5,25
7,30
8,20
8,44
9,2
12,23-24
12,27
12,31
13,1
13,26-27
13,27
14,30
14,40
15,26
16,7
16,11
16,32
17,1
18,36
28,29
Atti degli apostoli
1,6
1,7
4,24
5,3
5,15-16
8,7
10,38
14,8
14,15
17,24
17,28
26,18
Romani
1,19-20
1,20
2,5
2,11
4,17
8,18-22
8,22
8,38-39
9,6
9,11
9,14-16
9,18
9,20-22
11,33
11,36
14,14
16,20
1Corinzi
2,6
2,8
2,12
5,5
7,5
8,1
8,5-6
8,6
10,25-26
11,29-30
12,8
12,9
12,28
13,5
15,24-26
15,26
15,28
15,51
2Corinzi
2,11
2,14
4,4
4,6
6,15
11,14
12,7
Galati
4,3
4,9
5,1
Efesini
1,4
1,20-21
2,2
2,19
3,9
3,9-10
6,11
6,12
6,13
Filippesi
3,20
Colossesi
1,6
1,13
1,15-17
1,16-17
1,17
2,3
2,8
2,9
2,10
2,15
2,20
1Tessalonicesi
2,18
4,5-17
5,2-3
2Tessalonicesi
2,3-4
2,9
2,11
1Timoteo
1,20
4,4
6,20
2Timoteo
2,26
Tito
1,15
3,5
Ebrei
1,2
1,3
2,14
3,4
9,28
10,31
11,3
11,10
Giacomo
5,8
1Pietro
1,5
2,16
3,22
4,7
5,8
2Pietro
1,5
1,19
2,4
3,4
3,5
3,5-10
3,10
3,12
3,13
1Giovanni
1,5
2,18
2,22
4,3
4,8
4,16
5,19
2Giovanni
7
Apocalisse
1,3
2,10
2,13
2,24
2,9
3,9
3,14
3,20
9,11
10,6
12,3-4
12,10
12,9
12,12
13,1-2
13,8
13,16-17
14,7
17,9
19,20
20
20,1-3
20,7
20,10
20,13-14
21,1
21,8
22,14
22,20
INDICE GENERALE
AVVERTENZE
Altre piccole avvertenze iniziali
SOMMARIO
PROLOGO
I. ALLA RICERCA DEL PRINCIPIO
1. Crisi di civiltà
2. Il principio dell’Universo
3. Obiezione
II. COSMOGONIE
4. «Com’è profondo il mare»
5. Logos - progetto
6. Caos - caso
7. Colpa - catastrofe
8. Vita - vitalità
9. Bilancio
10. Pathos-passione
III. GUARDARE IL MONDO
11. Tsunami
12. Due possibili punti di vista
13. Il punto di vista fisico
14. Il punto di vista morale
15. Bilancio
16. Noi e l’Universo
17. Cosmovisioni
IV. PENSARE LA VITA
18. Evoluzione e/o creazione
19. Creazione = evoluzione
20. Evoluzione = creazione
21. Al di là del naturalismo
22. Al di là dell’antropocentrismo
23. La legge cosmica fondamentale
V. PENSARE LA MATERIA
24. Aggregazione, vuoto, oscurità
25. Fermioni, bosoni e il bosone di Higgs
26. Forza relazionale
27. Dualità e processualità
28. Sull’energia
VI. LA DOTTRINA CATTOLICA E LA SUA APORIA
29. Il Credo e le testimonianze neotestamentarie
30. I testi magisteriali
31. Dio causa del mondo
32. Modelli concettuali dell’origine del mondo
Eternità
Processione
Emanazione
Creazione
Trasformazione
Ritrazione
Catastrofe
33. Sul Creatore che crea dal nulla
34. Piccola storia del dogma della creatio ex nihilo
35. Un fondamento biblico abbastanza imbarazzante
36. Creazione da una materia senza forma
37. Conflitto di autorità
38. Tohu wabohu
39. La prospettiva evolutiva consente di conciliare i diversi modelli biblici di
creazione
40. Una conferma neotestamentaria
VII. LA BIBBIA E LO STATO CAOTICO DEL MONDO
41. Sulla materia primordiale
42. I Mostri
43. I Mostri e l’origine del caos
44. Le Signorie cosmiche
Ricognizione terminologica
Testi a connotazione neutra
Vangeli
Lettere di Paolo
Lettere di Pietro
Testi a connotazione negativa
Lettere di Paolo
Lettere di Pietro
Apocalisse
Bilancio
45. Le Potenze sataniche
Ricognizione terminologica
Approfondimento 1: Satana
Approfondimento 2: Diavolo
Approfondimento 3: Demonio
Approfondimento 4: Azazèl, Lilit, Asmodeo, Baal-Peor
Approfondimento 5: Lucifero
Un curioso tentativo di sistematizzazione
46. Sul potere delle Potenze sataniche
Potere sullo spirito
Potere sulla natura e sui corpi umani
Potere sulla società
Potere sulla dimensione della trascendenza
Bilancio
47. Sulla sconfitta delle Potenze sataniche
Una vittoria già in atto
Una vittoria che tarda a manifestarsi
48. Il passaggio dal satan ebraico al Satana cristiano
VIII. ARCHEOLOGIA DEL NEGATIVO: UN PECCATO DEGLI ANGELI?
49. La necessità di una spiegazione
50. La dottrina del peccato degli angeli
51. Radici bibliche ed extrabibliche
52. Il peccato degli angeli nella riflessione teologica
53. Un approfondimento speculativo
54. La vera identità del Serpente
IX. IL LATO OSCURO DEL DIVINO
55. Un discorso temerario: il male in Dio
56. Classificazione
57. Sacralità
58. Rigore
59. Arbitrio
60. Bilancio
X. DIO E IL MONDO
61. La necessità di una nuova visione del mondo
62. Il caos
63. Logos + caos ovvero «le verità profonde»
64. Perché Dio ha creato il mondo?
65. Prima considerazione sul Creatore: Dio non è causa efficiente, ovvero la
libertà del mondo
66. Seconda considerazione sul Creatore: Dio causa formale, ovvero il
progetto del mondo
67. Terza considerazione sul Creatore: Dio come télos, ovvero la finalità del
mondo
68. Quarta considerazione sul Creatore: Dio causa materiale, ovvero la
creazione dal nulla
69. Unde malum?
70. Dio = passione
71. Il Dio in cui credo
EPILOGO (IN FORMA DI PUNTI FERMI)
72. Sul mondo e la sua origine
73. Sul mondo e la sua forma (e sul suo fine)
74. Sul principio-passione
75. La formula del mondo
76. Il mondo come creazione
77. Sul negativo
78. Sull’evoluzione di Dio in quanto creatore
79. Sull’amore
APPENDICE 1: DATI SULL’UNIVERSO E SULLA VITA
APPENDICE 2: TESTI SULLA NECESSITÀ DELLA MORTE DI GESÙ
APPENDICE 3: TESTI SUL RUOLO COSMICO DEL CRISTO
APPENDICE 4: TESTI SULLA LEGGE COSMICA E SULLA REGOLA
D’ORO
GUIDA BIBLIOGRAFICA
1. Religioni (ordine sistematico)
Prospettiva generale
Antico Egitto
Mesopotamia
Hinduismo Jainismo Buddhismo
Confucianesimo e Taoismo
Antica Grecia
Zoroastrismo
Ebraismo
Gnosticismo
Islam
2. Bibbia
Fonti e strumenti
Studi (ordine alfabetico)
3. Tradizione cristiana (in ordine cronologico)
4. Scienza (ordine alfabetico)
In particolare sul creazionismo
5. Filosofia (ordine alfabetico)
6. Teologia
Strumenti
Testi di riferimento (ordine alfabetico)
In particolare sul Diavolo
7. Per una nuova spiritualità (in ordine alfabetico)
INDICE DEI NOMI DI PERSONA
INDICE DEI NOMI DIVINI, DIABOLICI E MITOLOGICI
INDICE DEI PASSI BIBLICI
PRIMO TESTAMENTO
SECONDO TESTAMENTO
1 L’espressione «luce da luce», in latino lumen de lumine, in greco phôs ek
photós, viene dal Credo del concilio di Nicea del 325 (cfr. DH 125, dove
l’espressione è lumen ex lumine, mutata nella forma citata a partire dal
Costantinopolitano I) e prima ancora da Plotino, Enneadi, IV,3,17,10.
2 Lucio Dalla, Le rondini, dall’album Cambio, 1990.
3 Eugenio Montale, Ossi di seppia [1920-1927], in Tutte le poesie, a cura di
Giorgio Zampa, Mondadori, Milano 1984, p. 35.
4 Ud?na, 8.3 (73); ed. it. a cura di Francesco Sferra, in La rivelazione del
Buddha, vol. I, Testi antichi, a cura di Raniero Gnoli, Mondadori, Milano 2001, p.
698.
5 Immanuel Kant, Antropologia dal punto di vista pragmatico [1798], par. 81,
ed. it. a cura di Pietro Chiodi, Tea, Milano 1995, pp. 150-151.
6 Georg W.F. Hegel, Filosofia della storia [1840], I,62-63, tr. di Guido
Calogero e Corrado Fatta, La Nuova Italia, Firenze 1981, pp. 73-74.
1 Jean Guitton, Il secolo che verrà. Conversazioni con Philippe Guyard [1997],
tr. di Antonietta Francavilla, Bompiani, Milano 1999, p. 14.
2 Riprendo la citazione da Immanuel Kant, Antropologia dal punto di vista
pragmatico [1798], I,2, ed. it. a cura di Pietro Chiodi, Tea, Milano 1995, p. 11.
3 Georg W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, I,8 [1807], tr. di Enrico De
Negri, La Nuova Italia, Firenze 199210, p. 7. In Iliade VIII,19 Zeus dice agli Dei
di appendere «alla volta del cielo una gomena d’oro» (tr. di Giovanni Cerri,
Rizzoli, Milano 1996, p. 451). Un esempio del cielo quale custodia del patrimonio
morale sono queste parole di Plutarco: «Certamente lì, nel cielo e negli astri,
perseverarono immobili le ragioni supreme delle cose e le forme e tutto ciò che
emana dal Dio; per contro, quaggiù...» (Plutarco, Iside e Osiride, 59 B, ed. it. a
cura di Vincenzo Cilento, Bompiani, Milano 2002, p. 109).
4 Riprendo i versi di Antoine de Saint-Exupéry da Gianfranco Ravasi,
L’incontro. Ritrovarsi nella preghiera, Mondadori, Milano 2013, p. 7.
5 Plutarco, De defectu oraculorum, 17 D, tr. di Vincenzo Cilento, in Iside e
Osiride e Dialoghi delfici [La E delfica; I responsi della Pizia; Il tramonto degli
oracoli], Bompiani, Milano 2002, p. 317.
6 Riprendo la frase di John Henry Newman da Jean Guitton, Che cosa credo
[1971], tr. di Marta Spranzi, Bompiani, Milano 2003, p. 41.
7 Agostino d’Ippona, De civitate Dei, V,11, ed. it. La città di Dio, a cura di
Luigi Alici, Rusconi, Milano 19923, pp. 278-279.
8 Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, I, q. 22, a. 2, resp.
9 Georg W.F. Hegel, Filosofia della storia universale. Secondo il corso tenuto
nel semestre invernale 1822-1823, a cura di K.H. Ilting, K. Brehmer e H.N.
Seelmann, tr. di Sergio Dellavalle, Einaudi, Torino 2001, p. 22.
10 Daisaku Ikeda, Per il bene della pace. Sette sentieri verso l’armonia
globale: una prospettiva buddista [2001], tr. di Momi Zanda, Esperia, Milano
2003, p. 110. La frase di D.H. Lawrence è tratta da Apocalypse, William
Heinemann Ltd., London 1931, p. 104.
11 Robert Musil, L’uomo senza qualità [1930-1943], tr. di Anita Rho, Einaudi,
Torino 19858, vol. I, p. 574.
12 Friedrich D.E. Schleiermacher, Sulla religione. Discorsi a quegli
intellettuali che la disprezzano [1799], ed. it. a cura di Salvatore Spera,
Queriniana, Brescia 20052, p. 121.
13 Il detto di Eraclito in Diels-Kranz 22 B 41, tr. di Gabriele Giannantoni, in I
presocratici. Testimonianze e frammenti, Laterza, Roma-Bari 19904, tomo I, p.
205.
14 Aristotele, Metafisica, I,3,983 B, ed. it. a cura di Carlo Augusto Viano, Utet,
Torino 2005, p. 189.
15 Steven Weinberg, I primi tre minuti [1977], tr. di Libero Sosio, Mondadori,
Milano 199810, p. 170.
16 Freeman Dyson, Turbare l’universo [1979], tr. di Riccardo Valla,
Boringhieri, Torino 1981, p. 289; citato da Christian de Duve, Polvere vitale
[1995], tr. di Libero Sosio, Longanesi, Milano 1998, p. 474.
17 Aristotele, Metafisica, I,982 B, ed. it. cit., p. 186.
18 Karl Jaspers, La fede filosofica di fronte alla rivelazione [1962], tr. di
Filippo Costa, Longanesi, Milano 1970, p. 194.
19 Weinberg, I primi tre minuti, cit., pp. 170-171.
1 Cfr. Mircea Eliade, Storia delle credenze e delle idee religiose [1975], tr. di
Maria Anna Massimello e Giulio Schiavoni, Sansoni, Milano 1981, vol. I, p. 71.
2 Edda Bresciani, «Introduzione», in Testi religiosi dell’antico Egitto, a cura di
Edda Bresciani, Mondadori, Milano 2001, p. 5.
3 Libro dei Morti, capitolo 175, in Testi religiosi dell’antico Egitto, cit., p. 757.
4 Testo citato da Ellen van Wolde, Racconti dell’Inizio. Genesi 1-11 e altri
racconti di creazione [1995], tr. di Antonio Nepi, ed. it. a cura di Flavio Dalla
Vecchia, Queriniana, Brescia 1999, p. 23.
5 ?g-Veda, X,129; tr. di Philippe Swennen, in Hinduismo antico, vol. I, Dalle
origini vediche ai Pur??a, a cura di Francesco Sferra, Mondadori, Milano 2010, p.
51.
6 Testi di Guodian, citato da Amina Crisma, Le cosmogonie assenti: il
confucianesimo, in Antropogenesi. Ricerche sull’origine e lo sviluppo del
fenomeno umano, a cura di Antonio Pavan ed Emanuela Magno, il Mulino,
Bologna 2010, p. 176.
7 Gerald L. Schroeder, L’Universo sapiente [2001], tr. di Pierluigi Micalizzi, Il
Saggiatore, Milano 2002, p. 83.
8 George M. Whitesides, The Improbability of Life, in Fitness of the Cosmos
for Life: Biochemistry and Fine-Tuning, Cambridge University Press, Cambridge
2008, p. XIII.
9 Christian de Duve, Genetica del peccato originale. Il peso del passato sul
futuro della vita [2010], ed. it. a cura di Libero Sosio, Raffaello Cortina, Milano
2010, p. 43.
10 William Shakespeare, Amleto, 3,4 [1600], tr. di Antonio Meo, Garzanti,
Milano 1981, p. 70.
11 Blaise Pascal, Pensieri, n. 44 ed. Lafuma [1669 ed. postuma], in Oeuvres
complètes, présentation et notes de Louis Lafuma, Seuil, Paris 1963, p. 504.
12 Riprendo il detto di Lao-tzu da Eugen Herrigel, Lo zen e il tiro con l’arco
[1953], tr. di Gabriella Bemporad, Adelphi, Milano 2007, p. 40.
13 Carlo Maria Martini, Il Vangelo secondo Giovanni nell’esperienza degli
esercizi spirituali, a cura di Pino Stancari, Borla, Roma 1980, p. 26; tale testo
riproduce un corso di esercizi del 1974 ed è pubblicato anche con il titolo Gli
esercizi spirituali alla luce del Vangelo di Giovanni, in Le ragioni del credere.
Scritti e interventi, a cura di Damiano Modena e Virginio Pontiggia, Mondadori,
Milano 2011, pp. 338-339.
14 Plotino, Enneadi, III,2,15, ed. it. a cura di Giuseppe Faggin, Rusconi,
Milano 1992, pp. 374-375.
15 Plotino, Enneadi, III,2,13, ed. it. cit., p. 371.
16 Ibidem.
17 Ibidem.
18 Baruch Spinoza, Etica, IV, Prefazione [1677], ed. it. a cura di Filippo
Mignini, in Opere, Mondadori, Milano 2007, p. 971; Gottfried W. von Leibniz,
Saggi di teodicea sulla bontà di Dio, sulla libertà dell’uomo, sull’origine del male
[1710], Prefazione, ed. it. a cura di Vittorio Mathieu, San Paolo, Cinisello
Balsamo 1994, p. 121; Georg W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto
[1820], Prefazione, ed. it. a cura di Vincenzo Cicero, Rusconi, Milano 19982, p.
59.
19 Testi delle Piramidi, 571; in Testi religiosi dell’antico Egitto, cit., p. 12.
20 Heinrich Gross, Esegesi teologica di Genesi 1-3, in Mysterium salutis II/2,
vol. 4, La storia della salvezza prima di Cristo [1967], ed. it. a cura di Fernando
Vittorino Joannes, Queriniana, Brescia 1970, p. 43.
21 Bresciani, «Introduzione», in Testi religiosi dell’antico Egitto, cit., p. 6; cfr.
anche Walter Kern, Interpretazione teologica della fede nella creazione, in
Mysterium salutis II/2, vol. 4, cit., p. 95; e Giuseppe Barbaglio, Creazione, in
Nuovo Dizionario di Teologia, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1982, p. 186.
22 Zarathustra, Yasna, XXXI,7 e 11; cfr. Inni di Zarathustra, a cura di Marcello
Meli, Mondadori, Milano 1996, pp. 34 e 36; cfr. anche Jean Varenne, Zoroastre.
Le Prophète de l’Iran, Éditions Dervy, Paris 1996, pp. 189-190.
23 Raimon Panikkar, I Veda. Mantramañjar?. Testi fondamentali della
rivelazione vedica [1977], ed. it. a cura di Milena Carrara Pavan, Bur, Milano
2001, vol. I, p. 52.
24 Voce «creazione» del Dizionario del Corano, a cura di Mohammad Ali
Amir-Moezzi, ed. it. a cura di Ida Zilio-Grandi, Mondadori, Milano 2007, p. 183.
25 Eliade, Storia delle credenze e delle idee religiose, cit., p. 104.
26 Joseph Ratzinger, La teologia e il magistero della Chiesa. Un contributo
alla discussione e comprensione della «Istruzione sulla vocazione ecclesiale del
teologo» [1990], in Natura e compito della teologia. Il teologo nella disputa
contemporanea. Storia e dogma, tr. di Riccardo Mazzarol e Carlo Fedeli, rev. di
Elio Guerriero, Jaca Book, Milano 1993, p. 91.
27 Joseph Ratzinger, Introduzione al cristianesimo. Lezioni sul simbolo
apostolico [1968], tr. di Edoardo Martinelli, Queriniana, Brescia 1974, pp. 41, 47,
111-112 e 117. Cfr. dello stesso autore Creazione e peccato. Catechesi sull’origine
del mondo e sulla caduta [1986], tr. di Carlo Danna, Edizioni Paoline, Cinisello
Balsamo 1986, dove a p. 17 si legge che il mondo «proviene dalla ragione, dalla
ragione di Dio, e poggia sulla parola di Dio. In tal modo il racconto della
creazione si rivela come l’“illuminismo” decisivo della storia, l’esodo dalle paure
che avevano attanagliato l’uomo. Significa la consegna del mondo alla ragione, il
riconoscimento della sua razionalità e libertà. Dimostra di essere il vero
illuminismo».
28 Joseph Ratzinger, Il cristianesimo – la religione vera? [2000], tr. di Giulio
Colombi, in Fede, verità, tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo,
Cantagalli, Siena 2003, pp. 191-192.
29 Benedetto XVI, Discorso a conclusione degli esercizi spirituali della Curia
romana, 23 febbraio 2013.
30 Agostino, Enchiridion de fide, spe et caritate, 11, 3, citato dal Catechismo
della Chiesa cattolica, art. 311.
31 En?ma Eliš, I,1-5; citato da Ellen van Wolde, Racconti dell’Inizio, cit., p.
172 (l’edizione italiana si rifà a J. Bottéro - S.N. Kramer, Uomini e dèi della
Mesopotamia, Einaudi, Torino 1992). Cfr. anche Luigi Cagni, La religione assirobabilonese, in Storia delle religioni, fondata da Pietro Tacchi Venturi, diretta da
Giuseppe Castellani, Utet, Torino 1971, vol. II, p. 107.
32 Cfr. Le Code de Hammurabi, a cura di André Finet, Cerf, Paris 1983, p. 31;
citato da Julien Ries, L’uomo e il sacro nella storia dell’umanità, tr. di Riccardo
Nanini, Jaca Book, Milano 2007, p. 55.
33 En?ma Eliš, IV,100-104; citato da Eliade, Storia delle credenze e delle idee
religiose, cit., p. 85.
34 En?ma Eliš, IV,137; cfr. van Wolde, Racconti dell’Inizio, cit., p. 178; e
Bottéro-Kramer, Uomini e dèi della Mesopotamia, cit., p. 165.
35 Il celebre studioso di demonologia Jeffrey Burton Russell, a lungo docente
presso l’Università della California, ha scritto che il Diavolo nell’immaginario
della Chiesa dei primi secoli «è associato all’acqua salata, per la connessione di
quest’ultima con Leviatàn e in ultima istanza con l’antico principio del caos»
(Satana. Il Diavolo e l’inferno tra I e V secolo [1981], tr. di Massimo Parizzi,
Mondadori, Milano 1994, p. 172).
36 Eliade, Storia delle credenze e delle idee religiose, cit., p. 173.
37 Esiodo, Teogonia, versi 116, 117 e 120; ed. it. a cura di Graziano Arrighetti,
Bur, Milano 200413, p. 71.
38 Scrive Werner Jaeger che «il pensiero genealogico di Esiodo considera
divenuto anche il caos. Egli non dice: in principio era il caos, ma: per primo è
divenuto il caos, poi la terra ecc.» (La teologia dei primi pensatori greci [1953], tr.
di Ervino Pocar, La Nuova Italia, Firenze 1982, p. 16). Sulla stessa linea Giulio
Guidorizzi: «Il Caos esiodeo non esiste da sempre», in Il mito greco, vol. I, Gli
dèi, a cura di Giulio Guidorizzi, Mondadori, Milano 2009, p. 1168.
39 Aristofane, Nuvole, versi 423, 822-823 e 827-828; ed. it. in Commedie, vol.
I, a cura di Giuseppe Mastromarco, Utet, Torino 2007, pp. 365 e 393-394.
40 Publio Ovidio Nasone, Metamorfosi, I,5-9, tr. di Giovanna Faranda Villa,
Bur, Milano 200510, p. 45.
41 Claus Westermann, Genesi [1986], tr. di Antonella Riccio, rev. di Flavio
Dalla Vecchia, Piemme, Casale Monferrato 1989, p. 22.
42 Il termine «neghentropia» risulta dall’espressione «entropia negativa»
coniata dal fisico austriaco Erwin Schrödinger, uno dei padri della meccanica
quantistica, Nobel nel 1933, per portare al pensiero il fenomeno della vita in
quanto superamento dell’entropia-disordine, e quindi ordine e vittoria sul caos
(cfr. Erwin Schrödinger, Che cos’è la vita? La cellula vivente dal punto di vista
fisico [1944], tr. di Mario Ageno, Adelphi, Milano 20105, pp. 122-127).
43 Cfr. Ernesto Buonaiuti, Lo gnosticismo, storia di antiche lotte religiose,
Ferrari, Roma 1907; Adolf von Harnack, Marcione. Il Vangelo del Dio straniero
[1920], a cura di Federico Dal Bo, Marietti, Genova-Milano 2007; Hans Jonas, Lo
gnosticismo [1958], a cura di Raffaele Farina, Sei, Torino 1991; Hans Leisegang,
Die Gnosis [1924], Kröner, Stuttgart 1985.
44 Vangelo di Tomaso 42,30, loghion 56, tr. in I Vangeli gnostici. Vangeli di
Tomaso, Maria, Verità, Filippo, a cura di Luigi Moraldi, Adelphi, Milano 1993, p.
13.
45 Vangelo di Filippo 73,20, 75,3 e 63,24, tr. in I Vangeli gnostici, cit., pp. 66,
67 e 58.
46 Jonas, Lo gnosticismo, cit., p. 63.
47 Simone Pétrement, Le Dieu séparé. Les origines du gnosticisme, Cerf, Paris
1984.
48 Cfr. Adversus haereses, I,24,3-4, ed. it. Contro le eresie e gli altri scritti, a
cura di Enzo Bellini e per la nuova edizione di Giorgio Maschio, Jaca Book,
Milano 19972, p. 102.
49 Per quanto riguarda il nome del secondo Eone, Enzo Bellini traduce il greco
sigé con «Silenzio», come effettivamente vuole il suo significato primario, ma in
questo modo si perde l’essenziale connotazione femminile che questo termine
deve avere in quanto secondo membro della coppia divina o sizigia. Per questo
traduco con «Quiete», ma si potrebbe anche rendere con «Afasia» o «Segretezza».
50 Adversus haereses, I,2,2, ed. it. cit., p. 53.
51 Ivi, I,2,3, ed. it. p. 53.
52 Ibidem.
53 Ivi, I,4,2, ed. it. p. 57.
54 Ivi, I,5,4, ed. it. p. 60.
55 Paul Ricoeur, Il conflitto delle interpretazioni [1969], tr. di Rodolfo
Balzarotti, Francesco Botturi e Giuseppe Colombo, Jaca Book, Milano 1986, p.
296. Cfr. dello stesso autore Finitudine e colpa [1960], tr. di Maria Girardet, il
Mulino, Bologna 1970.
56 Adversus haereses, I,29,1, ed. it. cit., p. 108.
57 Il detto di Anassimandro in Diels-Kranz, 12 B 1, tr. di Renato Laurenti, in I
presocratici. Testimonianze e frammenti, Laterza, Roma-Bari 19904, tomo I, pp.
106-107.
58 Bollati Boringhieri, Torino 2008.
59 Testi delle Piramidi, 1248a, tr. in Testi religiosi dell’antico Egitto, cit., p.
13.
60 Henri Bergson, L’evoluzione creatrice [1907], tr. di Fabio Polidori,
Raffaello Cortina, Milano 2002; cfr. anche dello stesso Bergson L’energia
spirituale [1919], tr. di Giuseppe Bianco, Raffaello Cortina, Milano 2008.
61 ?g-Veda, X,90,8-14, in Panikkar, I Veda, I, cit., pp. 101-102.
62 I Veda, I, cit., p. 75. Il medesimo concetto viene espresso in quest’altro
testo ricordato da Raimon Panikkar: «Al principio, è certo, nulla esisteva, né il
cielo, né la terra, né lo spazio tra i due. Allora il Nonessere, avendo deciso di
essere, divenne spirito e disse: “Possa io essere!”. Riscaldò se stesso e da questo
calore nacque il fuoco. Si scaldò ancora di più e da questo calore nacque la luce»
(Taittir?ya-br?hma?a, II,2,9,1-2, in Panikkar, I Veda, I, p. 65).
63 ?g-Veda, X,129,1-4 e 6-7; in Panikkar, I Veda, I, cit., pp. 76-77; Roberto
Calasso, L’ardore, Adelphi, Milano 2010.
64 Cfr. Taittir?ya-upani?ad, III, 1; in Panikkar, I Veda, I, cit., p. 314.
65 Fritjof Capra, Il Tao della fisica [1975], tr. di Giovanni Salio, Adelphi,
Milano 199810, pp. 11-12.
66 I passi della Bhagavad G?t? provengono dalla traduzione a cura di Raniero
Gnoli, in Hinduismo antico, vol. I, cit., pp. 793, 796, 797 e 799.
67 Gershom Scholem, I segreti della creazione. Un capitolo del libro
cabbalistico «Zohar» [1971], tr. di Gabriella Bemporad, Adelphi, Milano 2003, p.
43.
68 Gregorio Palamas, Teofane, 13, citato da Vladimir Lossky, La teologia
mistica della Chiesa d’Oriente [1944], tr. di Maria Girardet, EDB, Bologna 1985,
p. 388. In italiano la principale raccolta delle opere di Palamas è Atto e luce
divina. Scritti filosofici e teologici, a cura di Ettore Perrella, Bompiani, Milano
2003. Il brano citato si trova, con diversa traduzione, a p. 1271.
69 Riprendo la frase di Munch da Thomas M. Messer, Edvard Munch, tr. di
Andrea Fioroni, Garzanti, Milano 1975, p. 84. Nella litografia del 1895 Munch
iscrisse la seguente dicitura: Geschrei / Ich fühlte das grosse Geschrei / durch die
Natur, ovvero: «Urlo – ho sentito un grande urlo attraversare la natura».
70 Platone, Repubblica, II,361 E – 362 A, tr. di Roberto Radice in Platone,
Tutti gli scritti, a cura di Giovanni Reale, Rusconi, Milano 19944, p. 1112; cfr.
anche Teeteto, 176 A.
71 Pavel Florenskij, Non dimenticatemi. Dal gulag staliniano le lettere alla
moglie e ai figli del grande matematico, filosofo e sacerdote russo [1933-1937], a
cura di Natalino Valentini e Lubomír Žák, Mondadori, Milano 2000, p. 375.
72 William James, Le varie forme dell’esperienza religiosa. Uno studio sulla
natura umana [1902], ed. it. con Introduzione di Giovanni Filoramo, tr. di Paolo
Paoletti, Morcelliana, Brescia 1998, pp. 60-61.
1 Dalla voce 2011 «Tohoku earthquake and tsunami» di Wikipedia English.
2 Johann Wolfgang Goethe, Faust [1806-1831], Studio I, verso 1238, ed. it. a
cura di Guido Manacorda, Bur, Milano 2005, pp. 92-93.
3 Baruch Spinoza, Etica, IV, Prefazione [1677], ed. it. a cura di Filippo
Mignini, in Opere, Mondadori, Milano 2007, pp. 971-972.
4 Spinoza, Epistola 41, tr. di Filippo Mignini e Omero Proietti, in Opere, cit.,
p. 1383.
5 Tacito, Annali, XIV,8,5, ed. it. a cura di Lidia Pighetti, Mondadori, Milano
2007, vol. II, p. 251.
6 Georg W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Prefazione [1820], ed.
it. a cura di Vincenzo Cicero, Rusconi, Milano 19982, p. 59.
7 Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, Prefazione alla
seconda edizione [1827], ed. it. a cura di Vincenzo Cicero, Rusconi, Milano 1996,
pp. 53-55.
8 Marco Vannini, Mistica e filosofia, Piemme, Casale Monferrato 1996, pp.
120-124; cfr. anche La morte dell’anima. Dalla mistica alla psicologia, Le Lettere,
Firenze 2003.
9 «Laminetta d’oro di Petelia», in Le religioni dei Misteri, vol. I, Eleusi,
Dionisismo, Orfismo, a cura di Paolo Scarpi, Fondazione Valla-Mondadori,
Milano 2002, p. 432.
10 Vangelo di Filippo 81,9-12, in I Vangeli gnostici. Vangeli di Tomaso, Maria,
Verità, Filippo, a cura di Luigi Moraldi, Adelphi, Milano 1993, p. 72.
11 Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov, V,4 e 3 [1879], tr. di Alfredo
Polledro, Garzanti, Milano 1974, pp. 262 e 251.
12 Marco Aurelio, Pensieri, VIII,52, ed. it. a cura di Maristella Ceva,
Mondadori, Milano 1989, p. 189.
13 William Shakespeare, Amleto, 2,2, tr. di Antonio Meo, Garzanti, Milano
19816, p. 37.
14 La celebre chiusa dell’Infinito di Giacomo Leopardi del 1819 è la seguente:
«Così tra questa immensità s’annega il pensier mio: / e il naufragar m’è dolce in
questo mare».
15 Riprendo la battuta da Paolo Flores d’Arcais nel libro scritto insieme a me,
Il caso o la speranza? Un dibattito senza diplomazia, Garzanti, Milano 2013, p.
15.
16 Karl Jaspers, Filosofia, 1: Orientazione filosofica nel mondo [1931], ed. it.
a cura di Umberto Galimberti, Mursia, Milano 1977, p. 193.
17 L’invariabile mezzo (Chung Yung), 1, ed. it. in Testi confuciani, tr. di
Fausto Tomassini, Utet, Torino 1977, p. 103.
18 Cfr. Richard Dawkins, Il gene egoista [1976], tr. di Giorgio Corte e Adriana
Serra, Mondadori, Milano 1995.
19 «Nature doesn’t know chance, it operates on mathematical principles. As I
have said so many times, God doesn’t play dice with the world» (La natura non
conosce il caso, essa opera sulla base di principi matematici. Come ho detto molte
altre volte, Dio non gioca a dadi con il mondo), da William Hermanns, Einstein
and the Poet, Branden Press, Boston 1983, p. 58. La frase citata risale a una
conversazione tra l’autore e Einstein tenuta a Princeton nell’agosto 1943.
20 Brian Greene, L’Universo elegante. Superstringhe, dimensioni nascoste e la
ricerca della teoria ultima [1999], a cura di Claudio Bartocci, tr. di Luigi Civalleri
e Claudio Bartocci, Einaudi, Torino 2000, p. 5.
21 Cfr. Immanuel Kant, Critica della ragion pura, B 454 A 426 – B 489 A 461;
e Critica della ragion pratica, A 204-205.
22 Il detto di Eraclito in Diels-Kranz, 22 B 52, ed. it. I presocratici.
Testimonianze e frammenti, a cura di Gabriele Giannantoni, Laterza, Roma-Bari
19904, tomo I, p. 208.
1 Marco Aurelio, Pensieri, IV,3, ed. it. a cura di Maristella Ceva, Mondadori,
Milano 1989, p. 61. Sul concetto della caduta degli atomi o clinamen, cfr.
Lucrezio, De rerum natura, II,220-225.
2 Christoph Schönborn, Caso o disegno? Evoluzione e creazione secondo una
fede ragionevole, a cura di Hubert Philipp Weber [2007], tr. di Maria Concetta
Ascher Corsetti, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2007, p. 158. Il volume
riproduce una serie di lezioni tenute nel Duomo di Vienna tra il 2005 e il 2006.
3 Cfr. Thomas Altizer e William Hamilton, La teologia radicale e la morte di
Dio [1966], tr. di Tomaso Kemeny, Feltrinelli, Milano 1969. Si veda anche
Thomas Altizer, Il Vangelo dell’ateismo cristiano [1966], tr. di Anna Maria Micks,
Ubaldini, Roma 1969, con prefazione di Sergio Quinzio, e dello stesso Quinzio,
La sconfitta di Dio, Adelphi, Milano 1992.
4 Le espressioni principali di tale fondamentalismo biblico provengono dagli
Stati Uniti, in primo luogo attraverso il movimento detto Young Earth
Creationism (Creazionismo della Terra giovane), poi attraverso l’Institute for
Creation Research (Istituto per la ricerca sulla creazione). Un esempio di
fondamentalismo coranico è Harun Yahya, L’inganno dell’evoluzione. Il
fallimento scientifico del darwinismo e del suo bagaglio ideologico [1999], tr. di
Ali Stefano Azzali, Ed. Al Hikma, Imperia 2001.
5 I principali esponenti del creazionismo moderato o Intelligent Design sono
gli americani Michael Behe, biochimico, e William Dembski, matematico. Il
primo ha pubblicato Darwin’s Black Box: The Biochemical Challenge to
Evolution, Touchstone, New York 1996 (tr. it., La scatola nera di Darwin, a cura
di Antonella Galiero, Alfa & Omega, Caltanissetta 2007), e The Edge of
Evolution: The Search for the Limits of Darwinism, Free Press, New York 2007;
il secondo The Design Inference, Cambridge University Press, Cambridge 1998.
Cfr. anche Stephen C. Meyer, Signature in the Cell: Dna and the Evidence for
Intelligent Design, HarperOne, New York 2009.
6 Riprendo il detto latino da Thomas Hobbes, De cive, Prefazione [1646], ed.
it. Elementi filosofici sul cittadino, a cura di Norberto Bobbio, Tea, Milano 1994,
p. 67; cfr. anche Leviatano, XIII [1651], tr. di Gianni Micheli, La Nuova Italia,
Firenze 1987, p. 120.
7 Il detto attribuito ad Anassimandro in Diels-Kranz, 12 A 30, tr. di Renato
Laurenti, in I presocratici. Testimonianze e frammenti, Laterza, Roma-Bari
19904, tomo I, p. 106. In Diels-Kranz, 12 A 10 si riporta un brano di Plutarco
secondo cui Anassimandro «dice che da principio l’uomo fu generato da animali
di altra specie», ivi, p. 99.
8 Charles Darwin, L’origine delle specie [1859; 18726], tr. di Luciana Fratini,
Bollati Boringhieri, Torino 2011, p. 157.
9 Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, 4.1122 [1922], ed. it. a
cura di Amedeo G. Conte, Einaudi, Torino 19986, p. 50.
10 Francisco Ayala, Il dono di Darwin alla scienza e alla religione [2007], tr. di
Laura Serra, Jaca Book-San Paolo, Milano-Cinisello Balsamo 2009, p. 122.
11 Giovanni Paolo II, Messaggio ai partecipanti alla plenaria della Pontificia
Accademia delle Scienze, 22 ottobre 1996.
12 Cfr. Emanuele Severino, Ritornare a Parmenide, in «Rivista di filosofia
neoscolastica», LVI(1964), n. 2, pp. 137-175; poi in Essenza del nichilismo,
Adelphi, Milano 1982, pp. 19-61.
13 Georg W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, III,1,1,129 [18221823]; tr. di Guido Calogero e Corrado Fatta, La Nuova Italia, Firenze 1989, p.
150.
14 Un esempio al riguardo sono queste parole comparse sul quotidiano «Il
Foglio» del 7 marzo 2013 a commento dell’incendio doloso del museo Città della
Scienza di Napoli: «Ho scoperto che nei capannoni dell’ex Italsider si
propagandava l’evoluzionismo, una superstizione ottocentesca ancora presente
negli ambienti parascientifici. Il darwinismo è una forma di nichilismo e secondo
il filosofo Fabrice Hadjadj dire a un ragazzo che discende dai primati significa
approfittare della sua natura fiduciosa per gettarlo nella disperazione e indurlo a
comportarsi da scimmia. Dovevano bruciarla prima, la Città della Scienza».
L’autore si chiama Camillo Langone, il suo articolo è intitolato Dovevano
bruciarla prima.
15 George Coyne, The Fertile Universe, intervista su «America» del 23 ottobre
2006, ora in americamagazine.org.
16 Giovanni Paolo II, Discorso del 26 aprile 1985.
17 Giovanni Paolo II, Discorso del 22 ottobre 1996.
18 «Oggi nel mondo circa il 5% dei bambini nascono con un disordine
congenito o ereditario»; di questi «si stima che siano 3 milioni all’anno i bambini
che nascono con malformazioni molto gravi, la maggior parte dei quali muore
entro i primi tre anni di vita» (Organizzazione Mondiale della Sanità, Human
Genetics and Noncommunicable Diseases, rapporto 209, gennaio 1999; ricerca un
po’ datata, ma temo che la situazione attuale non sia molto diversa). Pensato su
scala giornaliera, ciò significa che ogni giorno vengono al mondo oltre 8000
bambini con handicap. L’Associazione Italiana Studio Malformazioni (ASM) fa
sapere che «ogni anno in Italia nascono circa 28.000 bambini con malformazioni
o difetti congeniti», il che significa 76 bambini al giorno.
19 La frase di Yves Coppens si trova nell’opera collettiva La più bella storia
del mondo. Il segreto delle nostre origini, con interventi di Hubert Reeves, Jöel de
Rosnay, Yves Coppens e Dominique Simonnet [1996], tr. di Donata Usiglio,
Mondadori, Milano 1999, p. 144.
20 John Henry Newman, Apologia pro vita sua, V,334-335 [1864], ed. it. in
Opere, a cura di Alberto Bosi, Utet, Torino 1997, pp. 365-366.
21 Coyne, The Fertile Universe, op. cit.
22 Giovanni Paolo II, Discorso del 10 luglio 1985.
23 Christoph Schönborn, Pope Benedict XVI on Creation and Evolution, in
Scientific Insights into the Evolution of the Universe and of Life, a cura di Werner
Arber, Nicola Cabibbo, Marcelo Sánchez Sorondo, Pontificia Academia
Scientiarum, Acta 20, Città del Vaticano 2009, pp. 12-21.
24 Christian de Duve, Come evolve la vita. Dalle molecole alla mente
simbolica [2002], tr. di Cristina Serra, Raffaello Cortina, Milano 2003, p. 244.
25 Aristotele, De Anima, III,5,430 A, tr. di Renato Laurenti, in Aristotele,
Opere, vol. IV, Laterza, Roma-Bari 2001, p. 177.
26 Baruch Spinoza, Etica, V,23 [1677], ed. it. a cura di Filippo Mignini, in
Opere, Mondadori, Milano 2007, p. 1071.
27 Erwin Schrödinger, Spirito e materia [1956], in L’immagine del mondo, tr.
di Adolfo Verson, Bollati Boringhieri, Torino 2001, p. 353.
28 Ireneo di Lione, Adversus haereses, 4,20,7, ed. it. Contro le eresie e gli altri
scritti, a cura di Enzo Bellini e per la nuova edizione di Giorgio Maschio, Jaca
Book, Milano 19972, p. 349.
29 Giovanni Paolo II, Discorso del 22 ottobre 1996. Così l’Humani generis di
Pio XII: «La fede cattolica ci obbliga a ritenere che le anime sono create
direttamente da Dio» (DH 3896).
30 Immanuel Kant, Critica della facoltà di giudizio, 72,320 [1790]; ed. it. a
cura di Emilio Garroni e Hansmichael Hohenegger, Einaudi, Torino 1999, p. 223.
31 National Academy of Sciences, Teaching About Evolution and the Nature
of Science, National Academy Press, Washington 1998, p. 58, citato da Ayala, Il
dono di Darwin alla scienza e alla religione , cit., p. 248.
32 Alfred North Whitehead, The Function of Reason, Princeton University
Press, Princeton 1929, p. 12 (tr. it., La funzione della ragione, a cura di Francesco
Cafaro, La Nuova Italia, Firenze 1978); devo la citazione a Christoph Schönborn,
Tutta la creazione geme: il dibattito su creazione ed evoluzione, «L’Osservatore
Romano», 17 luglio 2008.
33 David Hume, Trattato sulla natura umana [1739], libro III, parte I, sezione
II, 474, ed. it. a cura di Paolo Guglielmoni, Bompiani, Milano 20103, pp. 936937.
34 Henri Bergson, L’evoluzione creatrice [1907], ed. it. a cura di Fabio
Polidori, Raffaello Cortina, Milano 2002, p. 49.
35 Cfr. Immanuel Kant, Critica della ragion pura, B 163 e 165, ed. it. a cura di
Pietro Chiodi, Utet, Torino 2005, pp. 182-183.
36 Spinoza, Etica, III,6 [1677], ed. it. cit., p. 905.
37 Fëdor Dostoevskij, Delitto e castigo [1866], tr. di Giorgio Kraiski, Garzanti,
Milano 1981, p. 178.
38 Jacques Monod, Il caso e la necessità. Saggio sulla filosofia naturale della
biologia contemporanea [1970], tr. di Anna Busi, Mondadori, Milano 1997, p.
164.
39 Christian de Duve, Polvere vitale [1995], tr. di Libero Sosio, Longanesi,
Milano 1998, p. 490.
40 de Duve, Come evolve la vita, cit., p. 399.
41 de Duve, Polvere vitale, cit., p. 15.
42 Charles Darwin, Lettera a Joseph Dalton Hooker del 12 luglio 1870, da
Charles Darwin, Lettere sulla religione, a cura di Telmo Pievani, tr. di Isabella C.
Blum, Einaudi, Torino 2013, pp. 90-91.
43 Charles Darwin, Lettera a Asa Gray del 5 giugno 1874, da Paolo Costa,
Un’idea di umanità. Etica e natura dopo Darwin, EDB, Bologna 2007, p. 128; il
testo originale inglese, reperibile nel sito darwinproject.ac.uk, è il seguente:
«What you say about Teleology pleases me especially, and I do not think any one
else has ever noticed the point».
44 Darwin, L’origine delle specie, cit., p. 552.
45 Ivi, p. 544. Che si tratti di una variante introdotta da Darwin nel 1872 lo si
ricava dall’edizione italiana a cura di Celso Balducci che traduce la prima
edizione del 1859 ma riporta le varianti introdotte nella sesta edizione del 1872,
cfr. Charles Darwin, L’evoluzione (L’origine delle specie, L’origine dell’uomo e
la selezione sessuale, I fondamenti dell’origine delle specie, Autobiografia),
Newton, Roma 1994, p. 514.
46 Paul Davies, Scienza e religione nel XXI secolo, conferenza tenuta a
Filadelfia nell’aprile del 2000, che riprendo dal sito disf.org, Documentazione
Interdisciplinare di Scienza e Fede.
47 Cfr. Fitness of the Cosmos for Life: Biochemistry and Fine-Tuning, a cura
di John Barrow, Simon Conway Morris, Stephen Freeland, Charles Harper Jr.,
Cambridge University Press, Cambridge 2008.
48 Fiorenzo Facchini, Evoluzione. Cinque questioni nel dibattito attuale, Jaca
Book, Milano 2012, p. 4.
49 Cfr. Massimo Piattelli-Palmarini e Jerry Fodor, Gli errori di Darwin [2010],
tr. di Virginio B. Sala, Feltrinelli, Milano 2010.
50 Facchini, Evoluzione, cit., p. 41.
51 Gerald L. Schroeder, L’Universo sapiente [2001], tr. di Pierluigi Micalizzi,
Il Saggiatore, Milano 2002, p. 116.
52 de Duve, Polvere vitale, cit., p. 15.
53 de Duve, Come evolve la vita, cit., p. 406; in questa prospettiva de Duve
giunge a parlare di «realtà ultima», che a conclusione del libro scrive al
maiuscolo, «Realtà Ultima». Cfr. dello stesso autore Da Gesù a Gesù passando
per Darwin. Un itinerario personale [2011], tr. di Carlo Travaglino, San Paolo,
Cinisello Balsamo 2013. Va detto infine che de Duve è morto per eutanasia il 4
maggio 2013 e che nell’ultima intervista al quotidiano belga «Le Soir» dell’8
aprile ebbe a dichiarare: «Sarebbe troppo dire che la morte non mi spaventa, ma
non ho paura di quello che verrà dopo perché non sono credente, quando sparirò
sarà per sempre, non resterà niente».
54 Davies, Scienza e religione nel XXI secolo, cit.
55 Platone, Fedone, 99 A-B, tr. di Giovanni Reale, in Platone, Tutte le opere,
Rusconi, Milano 19944, p. 106.
56 Marco Aurelio, Pensieri, X,38, ed. it. cit., pp. 243-245.
57 Traggo il dato da Raymond Chang, Chemistry, McGraw-Hill, New York
2007, p. 52.
58 Traggo il dato da Ervin Laszlo, L’informazione nell’Universo, in Il senso
ritrovato, a cura di Ervin Laszlo e Pier Mario Biava, Springer, Milano 2013, p. 5.
59 Hans Jonas, Aspetti filosofici del darwinismo [1951], in Organismo e
libertà. Verso una biologia filosofica [1966], ed. it. a cura di Paolo Becchi,
Einaudi, Torino 1999, p. 68.
60 Hans Jonas, Materia, spirito e creazione. Reperto cosmologico e
supposizione cosmogonica [1988], ed. it. a cura di Paolo Becchi e Roberto
Franzini Tibaldeo, Morcelliana, Brescia 2012, p. 67.
61 Thomas Nagel, Mind and Cosmos: Why the Materialist Neo-Darwinian
Conception of Nature is Almost Certainly False, Oxford University Press, New
York-London 2012. Citerò dalla versione Kindle indicando la posizione.
62 Paul Davies, Da dove viene la vita [2000], tr. di Giovanni Sabato,
Mondadori, Milano 2000, p. 100.
63 Decisivi al riguardo i lavori di Lynn Margulis e Carl Woese. Della prima
ricordo: Symbiotic Planet. A New Look at Evolution, Basic Books, New York
1999. Sul secondo riporto questo passo di Francis Collins: «Carl Woese ha
avanzato la plausibile ipotesi che in quel periodo della storia della Terra lo
scambio di Dna tra gli organismi avvenisse senza difficoltà. Essenzialmente, la
biosfera consisteva di un vasto numero di minuscole cellule indipendenti, che
però interagivano ampiamente l’una con l’altra. Se un particolare organismo
avesse sviluppato una proteina o una serie di proteine che offrivano un sicuro
vantaggio, i suoi vicini avrebbero potuto acquisire rapidamente tali nuove
caratteristiche. In questo senso, forse, si può dire che all’inizio l’evoluzione fu il
frutto di un’attività più comunitaria che individuale. Questo genere di
trasferimento genetico orizzontale è ben documentato nelle più antiche forme
batteriche oggi esistenti sul pianeta, gli archeobatteri» (Francis Collins, Il
linguaggio di Dio [2006], tr. di Corrado Ferri, Sperling & Kupfer, Milano 2007, p.
87. Il riferimento è a Carl Woese, A New Biology for a New Century,
«Microbiology and Molecular Biology Reviews», 68(2004), n. 2, pp. 173-186).
64 Jonas, Aspetti filosofici del darwinismo, cit., pp. 66-67.
65 Ignazio di Loyola, Esercizi spirituali, 23 [1544]. La traduzione è di Carlo
Maria Martini, in Il discorso della montagna. Meditazioni, Mondadori, Milano
20063, p. 35.
66 Giovanni Calvino, Istituzione della religione cristiana, I,16,6 [1559], ed. it.
a cura di Giorgio Tourn, Utet, Torino 1983, p. 313.
67 Luis F. Ladaria, La creazione del cielo e della terra, in Storia dei Dogmi,
direzione di Bernard Sesboüé, vol. II, L’uomo e la sua salvezza [1995], tr. a cura
dei monaci benedettini di Germagno, Piemme, Casale Monferrato 1997, p. 27.
68 Jacques Arnould, La teologia dopo Darwin. Elementi per una teologia della
creazione in una prospettiva evoluzionista [1998], tr. di Pietro Crespi, Queriniana,
Brescia 2000, p. 14.
69 Novalis, Frammenti, nn. 698-699; tr. di Ervino Pocar, Bur, Milano 19873,
p. 187. Devo la citazione a Nikolaj Berdjaev, Il senso della creazione. Saggio per
una giustificazione dell’uomo [1915], ed. it. a cura di Adriano Dell’Asta, Jaca
Book, Milano 1994, p. 87.
70 Georg W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio,
par. 249 [1830], ed. it. a cura di Vincenzo Cicero, Rusconi, Milano 1996, pp. 424425.
71 Johann G. Fichte, La missione dell’uomo [1800], ed. it. a cura di Remo
Cantoni, Laterza, Bari 1970, p. 115.
72 Monod, Il caso e la necessità, cit., p. 157.
73 Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, par. 249
[1830], ed. it. cit., pp. 424-425.
74 Blaise Pascal, Pensieri, nn. 113 e 200 ed. Lafuma [1669 ed. postuma], in
Oeuvres complètes, presentazione e note di Louis Lafuma, Seuil, Paris 1963, pp.
513 e 528.
1 Max Planck, Das Wesen der Materie [L’essenza della materia], discorso del
1944 in Archiv zur Geschichte der Max-Planck-Gesellschaft, Abt. Va, Rep. 11
Planck, n. 1797. Planck continuava: «Dal momento però che in tutto il mondo
fisico non esiste né una forza intelligente né una forza eterna – all’umanità non è
riuscito di inventare il tanto a lungo desiderato perpetuum mobile – noi dobbiamo
assumere dietro questa forza uno spirito cosciente intelligente. Questo spirito è il
fondamento di tutte le cose materiali».
2 Ugo Amaldi, Fisica moderna, con la collaborazione di Gianni Melegari ed
Elena Joli, Zanichelli, Bologna 2008, p. 432.
3 Visto che la scoperta di questi bosoni si deve a Carlo Rubbia, che per questo
vinse il Nobel nel 1984, non sarebbe logico eliminare queste anonime sigle e
chiamarli «rubbioni»?
4 Scritto insieme a Dick Teresi, il libro venne tradotto da Mondadori nel 1996
(La particella di Dio, tr. di Alberto Artosi e Marcello D’Agostino) ed è curioso
notare il totale ribaltamento del sottotitolo, che nell’originale è If the Universe Is
the Answer, What Is the Question? (Se l’Universo è la risposta, qual è la
domanda?) e che nell’edizione italiana è diventato: Se l’Universo è la domanda,
qual è la risposta?
5 Claudio Verzegnassi, La luce della Conoscenza: da Prometeo al bosone di
Higgs, in Il senso ritrovato, a cura di Ervin Laszlo e Pier Mario Biava, Springer,
Milano 2013, pp. 14-15.
6 Ivi, p. 15.
7 Ugo Amaldi, intervista ad «Avvenire» del 15 novembre 2012, a cura di
Roberto Zanini.
8 Friedrich Nietzsche, Genealogia della morale. Uno scritto polemico [1887],
tr. di Ferruccio Masini, Adelphi, Milano 19904, p. 34.
9 Il detto di Eraclito in Diels-Kranz, 22 B 53, tr. di Gabriele Giannantoni, in I
presocratici. Testimonianze e frammenti, Laterza, Roma-Bari 19904, tomo I, p.
208. Il detto su Pitagora in Diels-Kranz, 14 B 21, tr. di Antonio Maddalena, ivi, p.
131.
10 Amaldi, Fisica moderna, cit., p. 443.
11 Werner Heisenberg, Fisica e oltre. Incontri con i protagonisti 1920-1965
[1971], tr. di Marco e Dida Paggi, Bollati Boringhieri, Torino 20083, p. 229.
12 Pavel Florenskij, Il significato dell’idealismo [1914], ed. it. a cura di
Natalino Valentini, tr. di Rossella Zugan, Rusconi, Milano 1999, p. 111.
13 Pierre Teilhard de Chardin, Il fenomeno umano [1955, ed. postuma], tr. di
Fabio Mantovani, Queriniana, Brescia 20012, p. 59.
14 Ugo Amaldi, L’Amaldi di Ugo Amaldi. Introduzione alla fisica, con la
collaborazione di Gianni Melegari, Paolo Cavallo e Giuseppe Ferrari, Zanichelli,
Bologna 2004, p. 59.
15 Francis Collins, Il linguaggio di Dio [2006], tr. di Corrado Ferri, Sperling &
Kupfer, Milano 2007, p. 234.
16 Cfr. William J. Cromie, Meditation Changes Temperatures: Mind Controls
Body in Extreme Experiments, in «Harvard Gazette», 18 aprile 2002, disponibile
nel sito news.harvard.edu/gazette.
17 Paul Fleischman, Karma e caos. Perché meditare [1999], tr. di Maria
Caterina Cravignani, Ubaldini, Roma 2011, p. 49.
18 Traggo le definizioni dalle rispettive voci del Dizionario della saggezza
orientale [1986], a cura di Kurt Friedrichs, Ingrid Fischer-Schreiber, Franz-Karl
Ehrhard, Michael S. Diener, tr. di Anna Poletti, Mondadori, Milano 2007.
19 Erwin Schrödinger, Spirito e materia [1956], in L’immagine del mondo, tr.
di Adolfo Verson, Bollati Boringhieri, Torino 2001, p. 353.
20 David Bohm, Relazione sul pensiero di Krishnamurti, citato da Massimo
Teodorani, David Bohm. La fisica dell’infinito, Macro Edizioni, Diegaro di
Cesena 2009, p. 69.
21 Stuart Kauffman, Reinventare il sacro. Una nuova concezione della scienza,
della ragione e della religione [2008], tr. di Silvio Ferraresi, Codice Edizioni,
Torino 2010, p. 205.
22 Etty Hillesum, Diario 1941-1943, a cura di Jan G. Gaarlandt, tr. di Chiara
Passanti, Adelphi, Milano 1985.
23 Amaldi, Fisica moderna, cit., p. 563.
24 Verzegnassi, La luce della Conoscenza, cit., p. 18. Tutte le successive
citazioni del contributo di Verzegnassi derivano dal medesimo volume citato tra p.
18 e p. 21.
1 Così il teologo e gesuita francese Bernard Sesboüé: «L’origine di questo
simbolo, ufficialmente attribuito al primo Concilio di Costantinopoli da parte di
quello di Calcedonia (451) è per certi versi oscura» (Bernard Sesboüé, Il
contenuto della tradizione: regola di fede e Simboli, in Storia dei Dogmi, vol. I, Il
Dio della salvezza [1994], tr. a cura dei monaci benedettini di Germagno,
Piemme, Casale Monferrato 1996, p. 84).
2 Ivi, p. 97.
3 Ippolito di Roma, Traditio Apostolica, 21, in DH 10.
4 DH 1 presenta una professione di fede tratta da un’opera apocrifa, l’Epistola
apostolorum, scritta verso il 160-170 e giunta a noi solo nella versione etiopica.
5 Riprendo l’elenco da Gerhard Ludwig Müller, Dogmatica cattolica. Per lo
studio e la prassi della teologia [1995], tr. di Carlo Danna, San Paolo, Cinisello
Balsamo 1999, pp. 206-208.
6 Aristotele, Metafisica, I,3,983 A; e Tommaso d’Aquino, Summa contra
gentiles, III,10, testo originale: «Omnis causa vel est materia, vel forma, vel
agens, vel finis».
7 Walter Kern, Interpretazione teologica della fede nella creazione, in
Mysterium salutis II/2, vol. IV, La storia della salvezza prima di Cristo [1967], ed.
it. a cura di Fernando Vittorino Joannes, Queriniana, Brescia 1970, p. 146.
8 Giovanni Reale, Storia della filosofia antica. IV. Le scuole dell’età imperiale,
Vita e Pensiero, Milano 19844, p. 520; il riferimento è Enneadi, IV,3,17.
9 Cfr. Reale, Storia della filosofia antica. IV, cit., p. 648.
10 Platone, Timeo, 51 A e 29 A, ed. it. a cura di Giovanni Reale, Rusconi,
Milano 1997, pp. 147 e 85.
11 Vangelo di Filippo 75,3, in I Vangeli gnostici. Vangeli di Tomaso, Maria,
Verità, Filippo, a cura di Luigi Moraldi, Adelphi, Milano 1993, p. 67.
12 Vaticano I, Costituzione dogmatica Dei Filius del 24 aprile 1870, canone 5,
in DH 3025.
13 Cfr. Maurizio Flick e Zoltan Alszeghy, Il Creatore. L’inizio della salvezza,
Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1959, p. 54; vedi anche Michael Schmaus,
Dogmatica cattolica [1938-1941], tr. di Natale Bussi, Marietti, Casale Monferrato
1959, vol. I, p. 468.
14 Erma, Il pastore, 26,1, ed. it. Il pastore d’Erma, in I padri apostolici, a cura
di Antonio Quacquarelli, Città Nuova, Roma 1978, p. 267.
15 Kern, Interpretazione teologica della fede nella creazione, cit., p. 150.
16 Teofilo di Antiochia, Ad Autolico, 2,4, ed. it. a cura di Clara Burini, in Gli
apologeti greci, Città Nuova, Roma 1986, p. 383.
17 Ireneo di Lione, Adversus haereses 2,10,4, ed. it. Contro le eresie e gli altri
scritti, a cura di Enzo Bellini e per la nuova edizione di Giorgio Maschio, Jaca
Book, Milano 19972, p. 140.
18 Tertulliano, De praescriptione haereticorum, 13,1, ed. it. Contro gli eretici,
a cura di Claudio Moreschini, Città Nuova, Roma 2002, p. 46.
19 Origene, De principiis, I,3,3, ed. it. a cura di Manlio Simonetti, Utet, Torino
1989, p. 167.
20 Basilio di Cesarea, Omelie sull’Esamerone, II,7, ed. it. Sulla Genesi
(Omelie sull’Esamerone), a cura di Mario Naldini, Fondazione Lorenzo
VallaMondadori, Milano 19992, p. 45.
21 Agostino, Contra secundam Iuliani responsionem imperfectum opus, V,42,
ed. it. Polemica con Giuliano II/2. Opera incompiuta, libri IV-VI, tr. di Italo Volpi,
Città Nuova, Roma 1994, p. 961; cfr. anche Confessioni, XII,8, ed. it. Le
Confessioni, tr. di Gioacchino Chiarini, Fondazione Lorenzo Valla-Mondadori,
Milano 1997, p. 15.
22 Leone Magno, Lettera Quam laudabiliter del 21 luglio 447 indirizzata a un
vescovo spagnolo di nome Turribio, in DH 285.
23 Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, I, q. 45, a. 1. Testo originale:
«“Creare” est “aliquid ex nihilo facere”».
24 Ibidem.
25 Ivi, ad tertium.
26 Dictionnaire de Théologie Catholique, voce «Création», colonna 2036.
27 Atenagora, Supplica per i cristiani, 10,3, ed it. a cura di Clara Burini, in Gli
apologeti greci, cit., p. 262 (corsivo mio). Vedi anche La risurrezione dei morti,
3,2, ivi, p. 311.
28 Giustino, Prima Apologia, 10,2, ivi, p. 90 (corsivo mio).
29 Ivi, pp. 138-139.
30 Clemente Alessandrino, Stromati. Note di vera filosofia, V,14,90,1, ed. it. a
cura di Giovanni Pini, Edizioni Paoline, Milano 1985, p. 621. La frase biblica a
cui si riferisce Clemente è Genesi 1,2.
31 Gregorio di Nazianzo, Orazioni, 32,8 e 32,10, ed. it. Tutte le orazioni, a
cura di Claudio Moreschini, tr. di Chiara Sani e Maria Vincelli, Bompiani, Milano
20022, pp. 786-789.
32 Marco Aurelio, Pensieri, IV,23, ed. it. a cura di Maristella Ceva,
Mondadori, Milano 1989, p. 69.
33 Flick e Alszeghy, Il Creatore, cit., p. 54. In precedenza si legge che «il
mondo nel suo essere e nel suo agire dipende totalmente da Dio suo creatore», che
vi è una «totale dipendenza del mondo da Dio sotto l’aspetto statico e sotto
l’aspetto dinamico» e che «tutto ciò che è ed avviene nel mondo ha una relazione
di essenziale dipendenza da Dio» (p. 23).
34 Luis F. Ladaria, La creazione del cielo e della terra, in Storia dei Dogmi,
direzione di Bernard Sesboüé, vol. II, L’uomo e la sua salvezza [1995], tr. a cura
dei monaci benedettini di Germagno, Piemme, Casale Monferrato 1997, p. 29.
35 Kern, Interpretazione teologica della fede nella creazione, cit., p. 146.
36 Etz Hayim. Torah and Commentary, The Rabbinical Assembly-The United
Synagogue of Conservative Judaism, The Jewish Publication Society, New York
2001, p. 4.
37 È lo storico Flavio Giuseppe a trasmetterci la notizia: «Gesù cambiò il suo
nome in Giasone», in Antichità giudaiche, XII,239, ed. it. Storia dei Giudei. Da
Alessandro Magno a Nerone, a cura di Manlio Simonetti, Mondadori, Milano
2002, p. 47.
38 Così il gesuita John L. McKenzie nel suo Dizionario biblico, ed. it. a cura
di Bruno Maggioni, tr. di Filippo Gentiloni Silveri, Cittadella Editrice, Assisi
1978, p. 567.
39 Joseph Ratzinger, Creazione e peccato. Catechesi sull’origine del mondo e
sulla caduta [1985], tr. di Carlo Danna, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1986,
p. 17.
40 Cfr. Gregorio di Nazianzo, Tutte le orazioni, cit., pp. 374-391.
41 Platone, Timeo 51 A, ed. it. cit., p. 147; e Aristotele, Metafisica, VII,3, 1029
A, ed. it. a cura di Carlo Augusto Viano, Utet, Torino 2005, p. 358. Così scrive
Reale nella voce «materia» del suo Lessico della filosofia antica: «Il creatore del
concetto di materia, anche se non del termine, è Platone, soprattutto con la
dottrina della chora [...]. La determinazione piena del concetto e la fissazione di
esso con un termine tecnico è dovuta ad Aristotele» (Storia della filosofia antica,
vol. V, Lessico Indici e Bibliografia, Vita e Pensiero, Milano 19832, p. 165).
42 Così Walter Kern: «Le due esplicite testimonianze bibliche per la creazione
dal nulla (2Mac 7,28 e Rm 4,17)», in Interpretazione teologica della fede nella
creazione, cit., p. 149. Così anche Ladaria: «L’insegnamento della creazione ex
nihilo non si trova formulato esplicitamente se non in 2Mac 7,28 e Rm 4,17», in
Storia dei Dogmi [1995], vol. II, cit., p. 32. Ladaria ribadisce la tesi in
Antropologia teologica, tr. di Giuseppe Occhipinti e Carmelo Dotolo, Piemme,
Casale Monferrato 1995, p. 90. In questo testo Ladaria giunge a scrivere persino
che «difende la creazione dal nulla anche san Giustino» (p. 92, nota 56),
rimandando proprio al passo di Prima Apologia 10 citato sopra, nel quale Giustino
scrive che Dio «creò tutte le cose dalla materia informe». Ladaria inoltre non cita
mai Sapienza 11,17. Impossibile non notare la differenza con Flick e Alszeghy,
che interpretano Giustino correttamente (p. 42), affrontano il nodo di Sapienza (p.
38) e non accostano Romani 4,17 a 2Maccabei 7,28 (p. 40).
43 Alexandre Ganoczy, Dottrina della creazione [1983], tr. di Dino Pezzetta,
ed. it. a cura di Paolo Giannoni, Queriniana, Brescia 1985, p. 102.
44 Claus Westermann, Teologia dell’Antico Testamento [1978], tr. di Anna
Sacchi Balestrieri, rev. di Omero Soffritti, Paideia, Brescia 1983, p. 119.
45 McKenzie, «Creazione», in Dizionario biblico, cit., pp. 206-207.
46 Claus Westermann, Genesi [1986], tr. di Antonella Riccio, rev. di Flavio
Dalla Vecchia, Piemme, Casale Monferrato 1989, p. 22.
47 Walter Brueggemann, An Introduction to the Old Testament. The Canon
and Christian Imagination, Westminster John Knox Press, Louisville 2003, p. 34
(tr. it., Introduzione all’Antico Testamento, a cura di Carla Malerba, Claudiana,
Torino 2005). Più sfumata, invece, nel senso di più attenta alle ragioni della
dogmatica, la posizione di Brueggemann nel commentario a Genesi: Genesis,
Westminster John Knox Press, Louisville 2010, pp. 29-30 (tr. it., Genesi, a cura di
Teresa Franzosi, Claudiana, Torino 2002).
48 Etz Hayim, cit., p. 4.
49 Hans Küng, L’inizio di tutte le cose. Scienza e religione a confronto [2005],
tr. di Valentina Rossi, Rizzoli, Milano 2006, pp. 139-140.
50 Medard Kehl, «E Dio vide che era cosa buona». Una teologia della
creazione [2006], tr. di Valentino Maraldi, Queriniana, Brescia 2009, pp. 126-128.
51 È esattamente quanto sostengono Karl Löning ed Erich Zenger, professori
di esegesi biblica all’Università di Münster, nell’opera In principio Dio creò.
Teologie bibliche della creazione [1997], tr. di Carlo Danna, Queriniana, Brescia
2006, p. 29.
52 Gerhard von Rad, Genesi, traduzione e commento [1969 e 1978], ed. it. a
cura delle benedettine di Civitella San Paolo, Paideia, Brescia 1978, p. 57.
53 Bibbia Emmaus. Nuovissima versione dai testi originali, Edizioni San
Paolo, Cinisello Balsamo 1998, p. 2155.
54 Cito dall’edizione inglese Theological Dictionary of the New Testament,
vol. VII, Eerdmans, Grand Rapids 1964-1976, 19952, p. 897.
1 Paul Auvray, «Creazione», in Dizionario di Teologia Biblica [1962],
direzione di Xavier Léon-Dufour, ed. it. a cura di Giovanni Viola e Ambretta
Milanoli, Marietti, Torino 1971, colonna 225.
2 È più corretto traslitterare così il nome ebraico, e non semplicemente Raab
come fa la versione Cei, visto che la lettera ebraica «he» corrisponde a una h
aspirata e si potrebbe leggere anche Rachab.
3 La Sacra Bibbia, a cura della Conferenza episcopale italiana, Uelci, Roma
2008, p. 1223.
4 Luis Alonso Schökel e José Luis Sicre Diaz, Giobbe. Commento teologico e
letterario, ed. it. a cura di Gianantonio Borgonovo, Borla, Roma 1985, p. 660;
Gianfranco Ravasi, Giobbe, Borla, Roma 1979, pp. 787-788.
5 Erich Zenger, «Chaos», in Lexicon für Theologie und Kirche, Herder,
Freiburg im Breisgau 20093, colonna 1007.
6 Mario Trevi, Giobbe: dolore e interrogazione, Introduzione a Il libro di
Giobbe, a cura di Amos Luzzatto, Feltrinelli, Milano 20063, pp. 41-43.
7 Medard Kehl, «E Dio vide che era cosa buona». Una teologia della creazione
[2006], tr. di Valentino Maraldi, Queriniana, Brescia 2009, p. 125.
8 Dietrich Bonhoeffer, Da potenze benigne [1944], in Resistenza e resa.
Lettere e scritti dal carcere [1943-1944], ed. it. a cura di Alberto Gallas, San
Paolo, Cinisello Balsamo 1989, p. 485.
9 Cfr. James D.G. Dunn, The Theology of Paul the Apostle, Eerdmans, Grand
Rapids 1998, p. 106 (tr. it., La teologia dell’apostolo Paolo, a cura di Franco
Ronchi, Paideia, Brescia 1999), e la voce apposita nel Grande Lessico del NT.
10 Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, I, q. 2, a. 3.
11 Alessandro Manzoni, I promessi sposi [1827], VIII,78.
12 Riprendo l’espressione theologia gloriae da Lutero, all’articolo 21 della
disputa di Heidelberg del 1518 («Il teologo della gloria chiama il male bene e il
bene male, il teologo della croce chiama le cose per nome», in Emidio Campi,
Protestantesimo nei secoli. Fonti e documenti, vol. I, Cinquecento e Seicento,
Claudiana, Torino 1991, p. 30). Con tale espressione Lutero contrassegnava la
teologia della Scolastica a cui contrapponeva il suo pensiero definito theologia
crucis.
13 Heinrich Schlier, Linee fondamentali di una teologia paolina [1978], tr. di
Enzo Gatti, Queriniana, Brescia 20085, pp. 46-47.
14 Paolo VI, Discorso all’udienza generale del 15 novembre 1972.
15 Jeffrey Burton Russell, Satana. Il Diavolo e l’inferno tra I e V secolo
[1981], tr. di Massimo Parizzi, Mondadori, Milano 1994, p. 204.
16 Leszek Kolakowski, La chiave del Cielo. Conversazioni con il Diavolo
[1965], tr. di Arturo Lorini, Queriniana, Brescia 1982, pp. 178-179.
17 Testamenti dei dodici patriarchi. Testamento di Levi, XIX,1, in Apocrifi
dell’Antico Testamento, a cura di Paolo Sacchi, vol. I, Utet, Torino 2006, p. 808.
18 Luigi Moraldi, nota allo scritto Regola della guerra, in I manoscritti di
Qumran, a cura di Luigi Moraldi, Tea, Milano 1994, p. 291.
19 Questa volta l’imprecisione è della traduzione della Bibbia ebraica a cura di
Rav Dario Disegni, che traduce conservando l’articolo mentre il testo originale
ebraico non lo possiede.
20 Platone, Apologia di Socrate, 40 A, ed. it. in Platone, Tutti gli scritti, a cura
di Giovanni Reale, Rusconi, Milano 1994, p. 44. Epitteto, Diatribe, I, 14,13-14,
ed. it. in Epitteto, Tutte le opere, tr. di Cesare Cassanmagnago, Bompiani, Milano
2009, p. 187.
21 La Bibbia Cei traduce erroneamente non «dèmoni» ma «demòni»,
scambiando daímones con daimónioi.
22 Vangelo di Bartolomeo, 3,15, ed. it. a cura di Luigi Moraldi, in Apocrifi del
Nuovo Testamento, vol. I, Piemme, Casale Monferrato 1994, pp. 840-841.
23 Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov [1879], tr. di Alfredo Polledro,
Garzanti, Milano 1974, p. 269.
24 John P. Meier, Un ebreo marginale. Ripensare il Gesù storico, vol. II,
Mentore, messaggio e miracoli [1994], tr. di Enzo Gatti, Queriniana, Brescia
20073, p. 759.
25 Così scrive Dodd a proposito di Giovanni: «L’evangelista subordina
deliberatamente l’elemento “futurista” dell’escatologia della Chiesa primitiva
all’escatologia realizzata» (Charles H. Dodd, The Apostolic Preaching and Its
Developments (1935), Harper and Row, New York 1964 [tr. it., La predicazione
apostolica e il suo sviluppo, Paideia, Brescia 1973]. Riprendo il testo dal sito
religion-online.org della Claremont School of Theology).
26 Immanuel Kant, La religione entro i limiti della semplice ragione [1793],
106-108, ed. it. a cura di Massimo Roncoroni e Vincenzo Cicero, Rusconi, Milano
1996, p. 199. Già il filosofo platonico Celso nella sua polemica anticristiana
osservava a proposito di Dio che «avrebbe dovuto punire il diavolo, e non
pronunciare minacce contro gli uomini insidiati dal diavolo» (si veda il testo in
Origene, Contro Celso, VI,42; ed. it. a cura di Aristide Colonna, Utet, Torino
1989, p. 533).
1 Il discorso della messa in moto della ruota del Dharma (Sa?yutta Nik?ya,
56.11), ed. it. a cura di Claudio Cicuzza, in La rivelazione del Buddha, vol. I,
Testi antichi, a cura di Raniero Gnoli, Mondadori, Milano 2001, pp. 7-8.
2 Marie-Joseph Lagrange, Revue Biblique, 1916, p. 598; citato da André
Lefèvre, Angelo o bestia?, in Satana [1948], tr. di Carlo Cumano e Giovanni
Barra, Vita e Pensiero, Milano 1953, p. 11.
3 Agostino, Confessioni, VII,3,5.
4 Jorge Mario Bergoglio e Abraham Skorka, Il cielo e la terra, a cura di Diego
F. Rosemberg, Mondadori, Milano 2013, pp. 19 e 77.
5 Dictionnaire de Théologie Catholique, voce «Démon», colonna 408.
6 Michael Schmaus, Dogmatica cattolica [1938-1941], ed. it. a cura di Natale
Bussi, Marietti, Casale Monferrato 1959, vol. I, p. 627.
7 Foi chrétienne et démonologie, in Enchiridion Vaticanum, 5, nn. 1378 e
1388.
8 Paolo VI, Udienza generale del 15 novembre 1972.
9 Foi chrétienne et démonologie, cit., nn. 1388 e 1392.
10 Paolo VI, Udienza generale del 15 novembre 1972.
11 René Laurentin, Il Demonio. Mito o realtà? Insegnamento ed esperienza del
Cristo e della Chiesa [1995], tr. di Antonio Galli, Editrice Massimo-Edizioni
Segno, Milano-Udine 1995, p. 81.
12 Tra i biblisti e i teologi cattolici che condividono questa impostazione
ricordo Marie-Émile Boismard, Christian Duquoc, Pierre Grelot, Herbert Haag,
Jean-Pierre Jossua, Walter Kasper, Hans Küng, Rudolf Schnackenburg, Piet
Schoonenberg, Otto Semmelroth.
13 Gerhard Ludwig Müller, Dogmatica cattolica. Per lo studio e la prassi della
teologia [1995], tr. di Carlo Danna, San Paolo, Cinisello Balsamo 1999, p. 163.
14 Walter Kasper, Il problema teologico del male, in Diavolo, demoni,
possessione. Sulla realtà del male, a cura di Walter Kasper e Karl Lehmann
[1978], tr. di Dino Pezzetta, Queriniana, Brescia 1983, p. 74.
15 Martin Buber, Io e tu [1923], in Il principio dialogico e altri saggi, ed. it. a
cura di Andrea Poma, San Paolo, Cinisello Balsamo 2011, p. 79.
16 Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, I, q. 40, a. 2, ad primum.
17 Joseph Ratzinger, Dogma e predicazione [1973], tr. di Gianni Poletti,
Queriniana, Brescia 20052, p. 197.
18 Kasper, Il problema teologico del male, cit., p. 72.
19 Vittorio Messori e Joseph Ratzinger, Rapporto sulla fede, Edizioni Paoline,
Cinisello Balsamo 1985, p. 145. Il concetto di «realtà non simbolica ma
personale» viene ribadito a p. 148.
20 Cfr. Paolo Sacchi, Introduzione del curatore, in Apocrifi dell’Antico
Testamento, a cura di Paolo Sacchi, vol. I, Utet, Torino 2006, pp. 429-430.
21 Libro di Enoc, VI,1-2 e VII,1-2, in ivi, pp. 472-473.
22 Libro dei Giubilei, V,1-2, in ivi, pp. 240-241.
23 Libro di Enoc, VII,5 e VII,4, in ivi, p. 474.
24 Libro di Enoc, VIII,1-3 e IX,9, in ivi, pp. 474 e 476.
25 Libro di Enoc, X,8, in ivi, p. 478. Verso la fine del Libro di Enoc, in una
parte dell’opera intitolata Epistola di Enoc di molto posteriore alla prima parte o
Libro dei Vigilanti, si sostiene una prospettiva del tutto opposta: «Il peccato non
fu mandato sulla terra, ma sono gli uomini che lo hanno creato da se stessi e quelli
che lo hanno fatto sono destinati alla grande maledizione» (Libro di Enoc,
XCVIII,4, in ivi, p. 646).
26 Cfr. per esempio Jeffrey McCurry, Why the Devil Fell: A Lesson in
Spiritual Theology From Aquinas’s Summa Theologiae, «New Blackfriars»,
87(2006), pp. 380-395.
27 Giustino, Prima apologia, 5,2 e Seconda apologia, 5,3, ed. it. a cura di
Charles Munier, tr. di Maria Benedetta Artioli, Edizioni San Clemente-Edizioni
Studio Domenicano, Bologna 2011, pp. 160-161 e 352-353.
28 Cfr. Atenagora, Legatio, 24,5, ed. it. Supplica per i cristiani, in Gli
apologeti greci, a cura di Clara Burini, Città Nuova, Roma 1986, p. 287.
29 Taziano, Oratio ad Graecos, 7,12 e 9, ed. it. Discorso ai greci, in Gli
apologeti greci, cit., pp. 191, 198 e 194.
30 Ireneo di Lione, Adversus haereses, IV,40,3 e V,24,4, ed. it. Contro le eresie
e gli altri scritti, a cura di Enzo Bellini e per la nuova edizione di Giorgio
Maschio, Jaca Book, Milano 1997, pp. 403 e 457.
31 Per la letteratura giudaica cfr. Vita di Adamo ed Eva, 12-16, ed. it. a cura di
Liliana Rosso Ubigli, in Apocrifi dell’Antico Testamento, cit., pp. 452-454; per il
Corano, cfr. sura 15,30-35 e sura 38,73-78.
32 Ireneo di Lione, Esposizione della predicazione apostolica, 18; ed. it.
Contro le eresie e gli altri scritti, cit., p. 495. Colpisce che a cose negative si
accostino cose buone come la conoscenza del potere terapeutico delle piante o
l’arte dei cosmetici, custoditi dalla millenaria tradizione dei monasteri cristiani.
33 Sul primo aspetto cfr. Tertulliano, Adversus Marcionem 2,10,4, testo in
tertullian.org; sul secondo cfr. la voce «Démon» del Dictionnaire de Théologie
Catholique alla colonna 348.
34 Origene, De Principiis I,5,5, ed. it. I principi, a cura di Manlio Simonetti,
Utet, Torino 1989, p. 198.
35 Ivi, III,1,12, p. 383.
36 Ivi, I,5,4, p. 195.
37 Ivi, I,5,5, pp. 196-197.
38 TM sta per Testo Masoretico, il testo base della Bibbia ebraica; LXX sta per
Settanta, la Bibbia ebraica tradotta in greco verso il II secolo a.C.; Volg. sta per
Volgata, la Bibbia cristiana (Antico e NT) tradotta in latino nel IV-V secolo d.C.
39 Origene, Omelie su Ezechiele, IX,2, ed. it. a cura di Normando Antoniono,
Città Nuova, Roma 19972, p. 154. Sempre in questa prospettiva Origene scrive in
De oratione 26,5 che il peccato angelico avvenne «a causa della loro superbia»
(Origene, La preghiera, a cura di Giuseppe Del Ton, Mondadori, Milano 1984, p.
118).
40 Agostino, De civitate Dei, XII,6, ed. it. La città di Dio, a cura di Luigi Alici,
Rusconi, Milano 19923, p. 567.
41 Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, I, q. 63, a. 7, resp.
42 Agostino, Confessioni, VII,3,5, tr. di Gioacchino Chiarini, Fondazione
Valla-Mondadori, Milano 1994, p. 15.
43 Agostino, De civitate Dei, XII,6, ed. it. cit., p. 568.
44 Ivi, p. 569.
45 Ivi, p. 570.
46 Immanuel Kant, La religione entro i limiti della semplice ragione [1793],
I,IV,46-47, ed. it. a cura di Massimo Roncoroni e Vincenzo Cicero, Rusconi,
Milano 1996, p. 125.
47 Così Agostino secondo il Dictionnaire de Théologie Catholique, voce
«Démon», colonna 370. Cfr. anche De Civitate Dei, XV,23.
48 Tommaso d’Aquino, De malo, q. 16, a. 3, resp., ed. it. Il male, a cura di
Fernando Fiorentino, Rusconi, Milano 1999, p. 1153.
49 Anselmo, De casu diaboli, 4, ed. it. La caduta del diavolo, a cura di
Giacobbe Elia e Giancarlo Marchetti, Bompiani, Milano 20072, p. 73.
50 Ibidem.
51 Tommaso d’Aquino, De malo, q. 16, a. 3, resp., ed. it. cit., p. 1155.
52 Anselmo, De casu diaboli, 4, ed. it. cit., p. 73.
53 Immanuel Kant, Risposta alla domanda: Che cos’è l’illuminismo? [1784],
in Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, tr. di Gioele Solari e
Giovanni Vidari, ed. it. postuma a cura di Norberto Bobbio, Luigi Firpo, Vittorio
Mathieu, Utet, Torino 19953, p. 141.
54 Anselmo, De casu diaboli, 19, ed. it. cit., p. 135.
55 Liber de similitudinibus, VII; citato da Michel Corbin, Prière et raison de la
foi. Introduction à l’oeuvre de S. Anselme de Cantorbéry, Cerf, Paris 1992, pp.
82-83. Traggo dall’edizione tedesca di Wikipedia l’informazione secondo cui il
Liber de similitudinibus, detto anche Liber de similitudinibus et exemplis o
Tabula exemplorum, è un’antologia di detti sapienziali dell’inizio del XIII secolo,
talora attribuita a sant’Anselmo e per questo spesso inclusa nell’edizione delle sue
opere.
56 Anselmo, De casu diaboli, 27, ed. it. cit., pp. 167-169.
57 Ivi, p. 137.
58 Ibidem.
59 Ibidem.
60 Ivi, p. 139.
61 Ibidem.
62 Ivi, p. 171.
63 Lo fa notare un esperto studioso di demonologia come Renzo Lavatori:
«Origene interpreta l’abisso di cui parla la Genesi come il complesso delle
potenze demoniache malvagie, e le tenebre che coprivano l’abisso come il
principe dei demòni, cioè Satana» (Antologia diabolica. Raccolta di testi sul
diavolo nel primo millennio cristiano, Utet, Torino 2007, pp. 256-257).
64 Origene, Commento al Vangelo di Giovanni, XX,133; citato in Lavatori (a
cura di), Antologia diabolica, cit., p. 249.
65 Il detto di Anassimandro in Diels-Kranz, 12 B 1, tr. di Renato Laurenti, in I
presocratici. Testimonianze e frammenti, Laterza, Roma-Bari 19904, tomo I, pp.
106-107.
66 Gerhard von Rad, Genesi. Traduzione e commento [1967], ed. it. a cura
delle benedettine di Civitella San Paolo, Paideia, Brescia 19782, p. 107.
67 Claus Westermann, Genesi [1986], tr. di Antonella Riccio, rev. di Flavio
Dalla Vecchia, Piemme, Casale Monferrato 1989, p. 35.
68 Norbert Lohfink, Attualità dell’Antico Testamento [1965], tr. di Pietro
Dacquino, Queriniana, Brescia 1968, p. 98.
69 Gianfranco Ravasi, Il racconto del cielo. Le storie, le idee, i personaggi
dell’Antico Testamento, Mondadori, Milano 1995, pp. 51-52.
70 Cfr. Robert Graves, I miti greci [1955], tr. di Elisa Morpurgo, Longanesi,
Milano 1983, p. 21.
71 Plutarco, Iside e Osiride, 379 D, tr. a cura di Vincenzo Cilento, Bompiani,
Milano 2002, p. 127.
1 Luigi Pareyson, Ontologia della libertà. Il male e la sofferenza, Einaudi,
Torino 1995; il capitolo sul male in Dio riproduce un saggio pubblicato
nell’«Annuario filosofico», 4(1988), pp. 7-75.
2 Stanislas Lyonnet, Le démon dans l’AT, in Dictionnaire de Spiritualité
ascétique et mystique, 3,142; traggo la citazione da Renzo Lavatori, Satana un
caso serio, EDB, Bologna 1995, p. 61.
3 Sull’evoluzione-involuzione di Agostino, cfr. Gaetano Lettieri, L’altro
Agostino. Ermeneutica e retorica della grazia dalla crisi alla metamorfosi del De
doctrina christiana, Morcelliana, Brescia 2001.
4 Meister Eckhart, Nolite timere eos qui corpus occidunt, animam autem
occidere non possunt, in Sermoni tedeschi, a cura di Marco Vannini, Adelphi,
Milano 1991, pp. 78-80.
1 George Coyne, L’Universo e il tempo, in Carlo Maria Martini, Orizzonti e
limiti della scienza. Decima Cattedra dei non credenti, a cura di Elio Sindoni e
Corrado Sinigaglia, Raffaello Cortina Editore, Milano 1999, p. 39.
2 Hilary Putnam, Etica senza ontologia [2004], tr. di Eddy Carli, Bruno
Mondadori, Milano 2005.
3 Karl Jaspers, Filosofia, 1, Orientazione filosofica nel mondo [1931], ed. it. a
cura di Umberto Galimberti, Mursia, Milano 1977, p. 193.
4 Simone Weil, Lettera a un religioso [1942], tr. di Giancarlo Gaeta, Adelphi,
Milano 1996, p. 63.
5 Così afferma il biologo americano Will Provine: «Il libero arbitrio, così
com’è tradizionalmente concepito, ossia libertà di scegliere in maniera autonoma
e imprevedibile tra linee d’azione alternative, non esiste affatto» (Evolution and
the Foundation of Ethics, «MBL Science», 3(1988), pp. 25-29, citato da Francisco
Ayala, Il dono di Darwin alla scienza e alla religione [2007], tr. di Laura Serra,
Jaca Book-San Paolo, Milano-Cinisello Balsamo 2009, p. 247).
6 Di tale amartiocentrismo il seguente articolo del Catechismo è un’eloquente
testimonianza: «La dottrina del peccato originale è, per così dire, “il rovescio”
della Buona Novella che Gesù è il Salvatore di tutti gli uomini, che tutti hanno
bisogno della salvezza e che la salvezza è offerta a tutti grazie a Cristo. La Chiesa,
che ha il senso di Cristo, ben sa che non si può intaccare la rivelazione del peccato
originale senza attentare al Mistero di Cristo» (art. 389); parole ben lontane dal
trasmettere l’idea del ruolo cosmico del Cristo testimoniato dal NT ed espressione
della riduzione di Cristo a una specie di tappabuchi o di smacchiatore, visto che,
per questa prospettiva, vi deve essere prima un buco da tappare o una macchia da
levare perché Cristo abbia senso.
7 «Una formula intellettuale può essere superiore agli attacchi della vita solo
se accoglie in sé tutta la vita, con tutte le sue varietà e le contraddizioni presenti e
future. Una formula intellettuale può essere verità solo se, per così dire, prevede
tutte le obiezioni a tutte le risposte. Ma per prevedere tutte le obiezioni bisogna
assumerle non già nella loro concretezza, ma coglierne il limite. Ne deriva che la
verità è un giudizio che racchiude in sé anche il limite di tutto ciò che lo può
cassare, in altre parole, che la verità è un giudizio auto-contraddittorio [...] Tesi e
antitesi costituiscono insieme l’espressione della verità; in altre parole la verità è
antinomica e non può non essere tale» (Pavel Florenskij, La colonna e il
fondamento della verità [1914], tr. di Pietro Modesto, Rusconi, Milano 1998, pp.
194-195).
8 Paul Davies, The Universe – What’s the Point?, in Spiritual Information. 100
Perspectives on Science and Religion, a cura di Charles Harper Jr., Templeton
Foundation Press, Philadelphia-London 2005, pp. 132-133.
9 Hans Bohr, «My Father», pubblicato in Neils Bohr: His Life and Work as
Seen by His Friends and Colleagues, a cura di S. Rozental, North Holland
Publishing Co., Amsterdam; John Wiley, New York 1967, p. 328.
10 Georg W.F. Hegel, Habilitationsthesen [1801], in Jenaer Schriften 18011807, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1986, p. 533.
11 Jean Guitton, Il secolo che verrà [1997], tr. di Antonietta Francavilla,
Bompiani, Milano 1999, p. 83.
12 Maurizio Flick e Zoltan Alszeghy, Il Creatore. L’inizio della salvezza,
Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1959, p. 67.
13 Ignazio di Loyola, Esercizi spirituali, 23 [1544]. La traduzione è di Carlo
Maria Martini, in Il discorso della montagna, Mondadori, Milano 2006, p. 35.
14 Giovanni Calvino, Istituzione della religione cristiana, I,I,16,6 [1559], ed.
it. a cura di Giorgio Tourn, Utet, Torino 1983, p. 313.
15 Cfr. Origene, De Principiis, 234, 247, 454-456; critica di Agostino in De
civitate Dei, XI,23, ed. it. La città di Dio, a cura di Luigi Alici, Rusconi, Milano
19923, pp. 543-545. Cfr. anche Renzo Lavatori, Antologia diabolica. Raccolta di
testi sul diavolo nel primo millennio cristiano, Utet, Torino 2007, p. 184.
16 Immanuel Kant, La religione entro i limiti della sola ragione [1793], B 73,
tr. di Pietro Chiodi, in Critica della ragion pratica e altri scritti morali, a cura di
Pietro Chiodi, Utet, Torino 2006, p. 381.
17 Immanuel Kant, Religione, p. 241; l’espressione era stata già usata da Kant
nello scritto Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico del
1784: «Da un legno storto, come è quello di cui è fatto l’uomo, non può uscire
nulla di interamente diritto» (tr. di Gioele Solari, in Scritti politici e di filosofia
della storia e del diritto, ed. it. a cura di Norberto Bobbio, Luigi Firpo e Vittorio
Mathieu, Utet, Torino 1995, p. 130).
18 Immanuel Kant, Critica della ragion pura [1781], B 829 A 801, ed. it. a cura
di Pietro Chiodi, Utet, Torino 2005, p. 604.
19 Cfr. Meister Eckhart, Dell’uomo nobile, a cura di Marco Vannini, Adelphi,
Milano 1999.
20 Friedrich Nietzsche, Ecce homo. Come si diventa ciò che si è [1888], ed. it.
a cura di Roberto Calasso, Adelphi, Milano 199212, p. 94.
21 Cfr. Roberto De Mattei, Il mistero del male e i castighi di Dio, Fede e
Cultura, Verona 2011; sulla stessa linea anche il parroco austriaco Gerhard
Wagner, diventato noto per essere stato nominato vescovo ausiliare di Linz da
Benedetto XVI e aver dovuto rinunciare all’incarico a causa delle proteste del
clero e dei fedeli (cfr. Marco Politi, Joseph Ratzinger. Crisi di un papato, Laterza,
Roma-Bari 2011, pp. 141-148).
22 John Haught, Darwin’s Gift to Theology, in Evolutionary and Molecular
Biology: Scientific Perspectives on Divine Action, a cura di R.J. Russell, W.R.
Stoeger e F.J. Ayala, Specola Vaticana e Center for Theology and the Natural
Sciences, Città del Vaticano-Berkeley 1998, pp. 393-418.
23 Ayala, Il dono di Darwin alla scienza e alla religione , cit., pp. 17 e 25.
Nella stessa prospettiva il fisico tedesco Friedrich von Weizsächer ha parlato di
Charles Darwin niente di meno che come Kirchenvater, Padre della Chiesa.
24 Pierre Teilhard de Chardin, Nota sulla modalità dell’azione divina
nell’Universo [1920], in La mia fede. Scritti teologici, tr. di Annetta Dozon
Daverio, Queriniana, Brescia 1993, p. 33. Devo la citazione a Carlo Molari e alla
sua preziosa amicizia.
25 Così il fisico tedesco Carl Friedrich von Weizsächer: «L’informazione non è
materia né energia [...] mette in gioco i due antichi antipoli della materia, forma e
coscienza [...] può essere definita come la quantità della forma [...] Così
l’informazione misura la forma» (The Unity of Nature, Farrar Straus Giroux, New
York 1980, pp. 278-279; devo la citazione al professor Antonio Giuditta del
Dipartimento di Scienze Biologiche dell’Università di Napoli).
26 Platone, Fedone, 100 B; tr. di Giovanni Reale, in Platone, Tutte le opere,
Rusconi, Milano 19944, p. 107. Nell’edizione del Fedone a cura di Franco
Trabattoni e tradotta da Stefano Martinelli Tempesta (Einaudi, Torino 2011) la
versione è significativamente diversa: «ponendo come ipotesi che ci sia un bello
in sé, un buono in sé, un grande in sé e così via per tutto il resto», pp. 190-193;
traducendo upothémenos non con postulato ma con ipotesi si sottolinea, come fa
Trabattoni in una nota al testo, «il preciso rifiuto, da parte di Platone, di elaborare
una vera e propria teoria delle idee».
27 Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, I, q. 15, a. 2, resp. Riprendo la
traduzione dall’edizione a cura dei domenicani italiani, Edizioni Studio
Domenicano, Bologna 1992.
28 Giovanni Damasceno, La fede ortodossa, II,2, ed. it. a cura di Vittorio
Fazzo, Città Nuova, Roma 1998, p. 90.
29 Gerald L. Schroeder, L’Universo sapiente [2001: titolo originale The
Hidden Face of God], tr. di Pierluigi Micalizzi, Il Saggiatore, Milano 2002, p. 111.
30 Jonas nega un disegno da sempre inscritto nel mondo e specifica: «Alla
materia non si potrebbe ascrivere alcun disegno, se non forse una tendenza o una
sorta di anelito che coglie al volo un’opportunità offerta da un caso del mondo e
finisce per spingerla ancora più avanti. Pertanto l’“eros cosmogonico” si
avvicinerebbe di più alla verità rispetto al “logos cosmogonico”» (Hans Jonas,
Materia, spirito e creazione. Reperto cosmologico e supposizione cosmogonica
[1988], ed. it. a cura di Paolo Becchi e Roberto Franzini Tibaldeo, Morcelliana,
Brescia 2012, pp. 44-45). Quanto all’esistenza di Dio, più avanti Jonas specifica
che «la testimonianza antropica [...] ci porta a postulare all’origine delle cose un
che di spirituale, pensante, trascendente e sovratemporale» (ivi, p. 68).
31 Lucio Dalla, Balla balla ballerino, dall’album Dalla, 1980.
32 Martin Heidegger, Introduzione a «Che cos’è la metafisica?» [1949], ora in
Segnavia [1967], a cura di Friedrich-Wilhelm von Herrmann, ed. it. a cura di
Franco Volpi, Adelphi, Milano 19943, p. 333.
33 Jonas, Materia, spirito e creazione, cit., p. 30.
34 Cfr. Richard Dawkins, Il gene egoista [1976], tr. di Giorgio Corte e Adriana
Serra, Mondadori, Milano 1995.
35 Eugenio Montale, L’agave su lo scoglio, in Ossi di seppia [1920-1927], in
Tutte le poesie, a cura di Giorgio Zampa, Mondadori, Milano 1984, p. 73. Si tratta
del verso citato da Carlo Maria Martini in occasione dell’omelia per il funerale di
Montale celebrato nel Duomo di Milano il 14 settembre 1981, ora in Carlo Maria
Martini, Le parole alla città. Lettere e discorsi alla diocesi (1981-1982), EDB,
Bologna 1982, p. 113.
36 Agostino, Confessioni, XI,14,17, tr. di Gioacchino Chiarini, Fondazione
Valla-Mondadori, Milano 1996, pp. 126-127. Agostino ribadisce il pensiero anche
altrove: «Non c’è dubbio che il mondo non è stato creato nel tempo, ma con il
tempo» (De civitate Dei, XI,11,6, ed. it. cit., p. 522).
37 Filone di Alessandria, La creazione del mondo, VII,26, ed. it. in Tutti i
trattati del Commentario allegorico alla Bibbia, a cura di Roberto Radice, tr. di C.
Kraus Reggiani, Rusconi, Milano 1994, p. 15.
38 Riprendo la frase di Isaac Newton da Niccolò Guicciardini, Newton,
Carocci, Roma 2011, p. 95.
39 Goethe: die wirkende Natur, «la natura operante», in Johann Wolfgang
Goethe, Faust , Notte, v. 441 [1772-1831], ed. it. a cura di Guido Manacorda, Bur,
Milano 2005, p. 37; Bergson: élan vital, «slancio vitale», in Henri Bergson,
L’evoluzione creatrice [1907], ed. it. a cura di Fabio Polidori, Raffaello Cortina,
Milano 2002, p. 49; Florenskij: «In mia madre amavo la Natura, o nella Natura la
Madre, la Natura naturans di Spinoza», in Pavel Florenskij, Ai miei figli.
Memorie di giorni passati (1916-1925), ed. it. a cura di Natalino Valentini e
Lubomir Žák, tr. di Claudia Zonghetti, Mondadori, Milano 2003, p. 70.
Significativa la grande stima di Florenskij per Bergson, definito «il più notevole e
influente filosofo attuale» (La colonna e il fondamento della verità, cit., p. 252), e
del tutto decisiva la sua vera e propria affinità spirituale con Goethe: «Sin da
bambino, sin da quando imparai a leggere o quasi, avevo sempre in mano Goethe
e ancora Goethe [...] era il cibo della mia mente. Razionalmente lo capivo poco,
mentre sentivo con certezza che era qualcosa a me affine. E ciò a cui tendevo era
il protofenomenico goethiano [...] lo Urphänomenon» (Ai miei figli, cit., p. 207).
40 Lev Tolstoj, Risurrezione [1889-1899], tr. di Emanuela Guercetti, Garzanti,
Milano 201013, p. 391.
41 Claudio Verzegnassi, La luce della Conoscenza: da Prometeo al bosone di
Higgs, in Il senso ritrovato, a cura di Ervin Laszlo e Pier Mario Biava, Springer,
Milano 2013, pp. 18-19.
42 Giovanni Paolo II, Memoria e identità. Conversazioni a cavallo dei
millenni, tr. di Zofia J. Brzozowska, Rizzoli, Milano 2005, p. 27. Il passo di
Goethe è tratto dal Faust, parte prima, Studio, versi 1336-1337.
43 Joseph Ratzinger, Fede verità tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del
mondo, tr. di Giulio Colombi, Cantagalli, Siena 2003, p. 48.
44 Agostino, De civitate Dei, VII,30, ed. it. cit., p. 373.
45 Calvino, Istituzione della religione cristiana, I,XVI,1 [1559], ed. it. cit., p.
305.
46 Ivi, I,XVI,3, p. 309 e ivi, I,XVI,9, p. 318.
47 Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, I, q. 22, a. 2, resp.
48 Calvino, Istituzione della religione cristiana, I,XVI,8, ed. it. cit., p. 316.
49 Il Catechismo riprende Agostino, Enchiridion de fide, spe et caritate, 11,3:
«Dio onnipotente [...] essendo supremamente buono, non permetterebbe mai che
un qualsiasi male esistesse nelle sue opere, se non fosse sufficientemente potente
e buono da trarre dal male stesso il bene».
50 Origene, Omelie su Ezechiele, VI,6, ed. it. a cura di Normando Antoniono,
Città Nuova, Roma 19972, p. 119.
51 Alfred North Whitehead, Process and Reality. An Essay in Cosmology
[1929], a cura di David R. Griffin e Donald W. Sherburne, The Free Press, New
York-London 1978, p. 351 (tr. di Nynfa Bosco, Il processo e la realtà, Bompiani,
Milano 1965).
52 Primo Levi, Se questo è un uomo [1947], Einaudi, Torino 1989, p. 140.
53 Elie Wiesel, La notte [1958], tr. di Daniel Vogelmann, Giuntina, Firenze
1980, p. 67.
54 Etty Hillesum, Diario 1941-1943, a cura di Jan G. Gaarlandt, tr. di Chiara
Passanti, Adelphi, Milano 1985, p. 130.
55 Lucio Dalla, Sulla bellezza, in Marco Alemanno e Lucio Dalla, Gli occhi di
Lucio, Bompiani, Milano 2008, p. 90.
1 Così scrive Edward O. Wilson, celebre entomologo dell’Università di
Harvard: «Se le attività distruttive dell’uomo continueranno al ritmo attuale, metà
delle specie animali e vegetali sulla Terra scomparirà [...]. L’attuale tasso di
estinzione è, secondo le stime più prudenti, circa cento volte superiore a quello
esistente prima della comparsa dell’uomo sulla Terra. Ci si aspetta che possa
diventare mille volte più elevato nei prossimi decenni» (La creazione. Un appello
per salvare la vita sulla Terra [2006], tr. di Giuseppe Barbiero, Adelphi, Milano
2008, p. 15).
2 Cfr. Camilo Mora (insieme con D.P. Tittensor, S. Adl, Alastair G.B. Simpson,
B. Worm), How Many Species Are There on Earth and in the Ocean?, in «PLoS
Biology», 9(2011), n. 8, consultabile nel sito plosbiology.org.
1 Cito da una pubblicazione della Stiftung Weltethos, Fondazione per l’etica
mondiale, istituita nel 1995 in Germania dal conte Karl Konrad von Groeben a
seguito del libro di Hans Küng Project Weltethos del 1990 (ed. it. Progetto per
un’etica mondiale, tr. di Giovanni Moretto, Rizzoli, Milano 1991).