Caprarico e Tursi nella storia

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Caprarico e Tursi nella storia
Caprarico e Tursi nella storia
Antologia documenti e Immagini
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Bibliografia
Antonio Nigro, Memoria
topografica istorica sulla città
di Tursi e sull’antica Pandosia
di Heraclea oggi Anglona
Rocco Bruno , Storia di Tursi
Rocco Bruno a cura di , Tursi
Immagini di un secolo
Tursi , la Rabatana. Progetto
di ricerca a cura del Prof.
Cosimo Damiano
Fonseca.Fondazione Sassi
Matera
Le terre del silenzio , Gal
Cosvel.
Archivio di Stato di Potenza.
Fondo Doria
Molte delle immagini i questo
documento sono tratte da:
Tursi Immagini di un secolo. A
cura di Rocco Bruno.
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Presentazione
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Le difficoltà di una ricerca storico bibliografica sulla
storia di Tursi e di Caprarico sono state in parte superate
grazie ai lavori di ricerca e alle pubblicazioni curate da
Rocco Bruno a cui va il nostro ricordo per l’importante
lavoro di studi e ricerche da lui realizzato nel corso di una
vita. L’assenza di un archivio storico comunale e la
frammentazione dei documenti di archivio sono stati in
parte superati dagli studi e ricerche effettuate nell’ambito
del lavoro della Fondazione Sassi curato dal Prof.
C.D.Fonseca., in particolare i lavori di ANTONELLA
PELLETTIERI su “LA PRESENZA ARABA NEL
MEZZOGIORNO D'ITALIA” , di GEMMA
TERESA COLESANTI “ASPETTI DELLA VITA
ECONOMICA DEL TERRITORIO DI TURSI
ATTRAVERSO ALCUNI DOCUMENTI INEDITI
(1473-1488) e di Edoardo Geraldi “Ambientre naturale e
ambiente costruito “ , di cui si riportano stralci
significativi.
Ripreso da tutti i lavori è lo storico Antonio Nigro nel suo , “Memorie topografica e istorica
istorica sulla città di Tursi e sull’antica Pandosia di Heraclea oggi Anglona”.
Di recente è stato dal Gal Cosvel scrl curata la ripubblicazione di tale eccellente lavoro e anche
di un recente lavoro a più mani Le terre del Silenzio che tale società mista ha finanziato.
Si aggiungono a tali materiali storici i documenti del fondo Doria acquisiti presso l’archivio
di stato di Potenza che si ringrazia per la collaborazione.
Relativcamente al sito di Caprarico , divenuto nel XVI secolo , nel contesto di processi che
interessarono tutte le signorie feudali nel mezzogiorno d’Italia , difesa di Caprarico l’unico
documento significativo è la Copia in carta libera dell'Istrurnento di censuazione del Feudo
Caprarico tra il Comune di Tursi, la Duchessa di questi e il Marchese Donnaperna del 1769.
Alcune immagini di Caprarico e dell’insediamento colonico sorto intorno alla masseria
storica Donnaperna Mendaia sono tratte dal lavoro di Francesco Forte , Gangemi editore ,
Architettura –Città , che comprende un a ricerca sulla nascita dei borghi rurali nel secondo
dopoguerra in Italia.
Molte delle immagini i questo documento
sono tratte da:
Tursi Immagini di un secolo.
A cura di Rocco Bruno.
Storia di Tursi , Rocco Bruno
Pandosia
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HERACLEA. Sorta sulle rovine di Siris, fu presto occupata dai Lucani, ma
venne poi presa da Alessandro il Molosso. Nel 281 a.C. alle sue spalle si svolse la
celebre battaglia tra Pirro e i Romani. Già prima di questa battaglia aveva
stretto un patto di alleanza con Roma.
Alcuni storici vogliono che Heraclea sia stata la patria del celebre pittore Zeus i e
che nel suo foro fosse avvenuta la gara tra lui ed, il pittore Parrasio.
Nel 1732, casualmente nel letto del fiume Cavone, presso la località Andriace,
furono trovate le Tavole di Heraclea, risalenti all'epoca del maggiore splendore
della città, cioè dal 331 al 278 a.C. Queste furono interpretate e tradotte dal
celebre Alessio Simmaco Mazzocchi tra il 1754 e il 1755 e, dopo alterne vicende,
vennero esposte nel museo Herculanense di Napoli.
Di Heraclea non si ebbe più notizia fino all'XI secolo, quando ricompare nelle
fonti storiografiche col nome di Pollicorium. L'Ughelli riporta che Policoro nel l
125 venne donata al monastero di Carbone. In questo periodo, grazie al
precedente apporto dei Bizantini, è un luogo abitato, ma più tardi, con
l'instaurazione del sistema feudale e le aspre lotte tra i poteri laico ed
ecclesiastico, finì nell'abbandono.
Sappiamo che successivamente appartenne ai Gesuiti, poi al fisco, nel 1771 ai
principi Serra Cassano di Gerace ed infine ai Berlingieri.
• Nel secolo scorso sorse un'aspra lotta fra i Comuni di Tursi e
Montalbano Ionico per annettersi Policoro. Alla fine prevalse
Montalbano, che l'ha tenuta come frazione fino al 1959.
• La crescita di Policoro fino agli anni Cinquanta è stata pressoché
inesistente soprattutto a causa della malaria che la infestava (il
Pantano e la Valle dell'Olmo). Con il varo della Riforma Fondiaria che
ha risanato le sue paludi, Policoro, nel giro di pochi anni, è divenuta
una cittadina in continua espansione economica e crescita
demografica.
• PANDOSIA. Fu il più antico insediamento nel territorio della storia
di Tursi e si resse a Repubblica. Era situata su un colle a cavallo dei
fiumi Agri e Sinni, guardando il golfo di Taranto. Il nome di Pandosia
deriva dal greco e significa "prodiga di ogni bene", per la fertilità del
suo suolo. Fu fondata dagli Enotri e fu eretta a loro metropoli, come
afferma Strabone: "Pandosiam fuisse aliquando regia Oènotrorium".
• L'Antonini, basandosi su non precisati passi della "Genealogia" di
Feracite e della "Storia antica di Roma" di Dionigi di Alicarnasso, si
compiace di ipotizzare che Pandosia fu fondata da Enotrio, uno dei 23
figli di Licaone, molti secoli prima di Roma e che lo stesso signoreggiò
su tutta la parte orientale della Lucania.
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"Da alcune monete si può congetturare che si fosse confederata con Crotone quando
questa città stringeva lega con Sibari e Metaponto. Le monete pandosiane più
antiche, essendo del genere denominato "incuso", attestano che tali relazioni
risalgono al detto periodo. In particolare, alcune monete "incuse" - in quanto.
riportano su un verso il simbolo di Pandosia e sull'opposto quello di Crotone significano l'alleanza di queste due città. Il simbolo di Pandosia era una giovinetta (la
ninfa che dava il nome alla città); quello di Crotone un giovinetto con la siringa
indicando il fiume Crati".
Fino al ritrovamento delle Tavole di Heraclea l'individuazione del sito ove sorgeva
Pandosia ha dato adito a diverse interpretazioni. Difatti, gli storici non tutti furono
d'accordo nel collocare Pandosia nel luogo ove poi sorse la città di Anglona. Alcuni,
spinti dalla somiglianza del nome di Anglona con quello di Aquilonia, sostennero che
essa si chiamasse così in precedenza e non Pandosia. In verità, Aquilonia fu una città
molto nota ai tempi dell'antica Roma per l'episodio delle Forche Caudine e per la
distruzione che i Romani ne fecero per vendicarsi.
Nell'errore di confondere il sito di Pandosia con quello di Aquilonia cadde anche Tito
Livio".
Il Barrio, poi, collocò Pandosia nel Bruzio, presso Cosenza. Le Tavole di Heraclea
sciolsero ogni dubbio circa il sito di Pandosia, perché in esse si rileva che alcune terre
della città di Heraclea confinavano con quelle di Pandosia. Queste Tavole, dunque,
convinsero gli studiosi titubanti che, oltre alla Pandosia del Bruzio, nell'antichità ne
esistette un'altra e fu quella dove poi sorse Anglona.
Infine, questa convinzione è confermata dal ritrovamento di una necropoli con ricchi
arredi funebri nella zona Conca d'Oro sottostante Pandosia, attuale Anglona,
durante gli scavi del 1978-83.
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La città di Pandosia fu celebre non solo per le sue ricchezze, ma anche perché
sul suo territorio avvennero due famose battaglie. La prima fu quella dei
Lucani contro il re Alessandro il Molosso, il cadavere del quale, secondo alcuni
storici, sarebbe stato ritrovato nel secolo scorso in località Marone.
Seguendo la narrazione di Tito Livio, apprendiamo che Alessandro il Molosso
trovò la morte nel fiume Agri per mano di un soldato lucano. Egli, dice Tito
Livio, era venuto in Italia, per sfuggire a quella morte predettagli dall'oracolo
di Giove Dodoneo, che sarebbe avvenuta nel fiume Acheronte presso Pandosia.
Il Molosso era ignaro di dove si trovassero Pandosia ed il fiume Acheronte
perciò, per sfuggire alla morte, venne nella Magna Grecia, anche accarezzando
il sogno di far sue queste terre. Con questo intento si alleò con le città grecoitaliote, quali: Taranto, Metaponto, Heraclea, Lagarìa, Pandosia ed altre. A
contrastargli il passo trovò i Lucani, tribù che nel secolo VI a.C. era discesa
dall'Italia Centrale approdando da noi verso il 550 a.C. (da allora la nostra
regione fu chiamata Lucania).
I Lucani, intanto, avevano stretto alleanza con i Sanniti ed i Messapi,
quest'ultimi nemici acerrimi di Taranto. Il Molosso, mentre era con una
compagnia di soldati e si apprestava a guadare il fiume, venne a sapere che esso
si chiamava Acheronte e, rammentandosi di quanto gli aveva predetto
l'oracolo, si fece alquanto dubbioso e titubante. Ma, essendo ormai tardi per
tirarsi indietro e vedendo inoltre uno stuolo di nemici venirgli incontro, trasse
la spada e, spronato il cavallo, attraversò le acque del fiume. Appena arrivò
sull'altra sponda del fiume, fu colpito dal dardo scagliatogli da un soldato
lucano che lo trapassò dalle spalle al torace. Dunque la profezia dell'oracolo si
era avverata perché Alessandro il Molosso nel 326 a.C., presso Pandosia, trovò
quella morte che voleva evitare e per il qual motivo era venuto in Italia,
abbandonando la propria patria.
• L'Ughelli parla di tradimento, Tito Livio fa anche accenno a tre
monticelli divisi ma non lontani.
• Il Ricciardi, buon conoscitore del luogo, individua i tre monticelli
in quelli di Cucuzzuta e dove sorgono i paesi di Montalbano e
Rotondella. Ma è più probabile che questi monticelli fossero le
colline più vicine a Pandosia e cioè la Cucuzzuta, Sitigliana e
Tufarello. L'altra battaglia impor¬tante quanto quella del
Molosso fu quella del 281 a.C. fra Pirro, re dell'Epiro, venuto in
soccorso dei Tarentini, contro i Romani. Questa battaglia, passata
alla storia come la battaglia di Heraclea, fu combattuta
soprattutto in territorio di Pandosia. Il Quilici, infatti, ha
riconosciuto che avvenne nella piana sottostante la città di
Pandosia, e, precisamente, tra la masseria Mazzei, Campofreddo,
Conca d'Oro e masseria Barone".
• La città di Pandosia finì di esistere nell'anno 81 a.C. al tempo
delle guerre sociali, distrutta da Lucio Silla. Nello stesso anno la
stessa sorte toccò ad altre illustri città meridionali tra le quali la
lucana Grumentum.
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Anglona
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ANGLONA.
Dalle rovine della pagana Pandosia, sorse, poco prima dell'era volgare, la cristiana
Anglona. I suoi fondatori furono senz'altro gli stessi cittadini di Pandosia, scampati
al furore dei Romani, o i loro prossimi successori. La sua prima menzione è dell'anno
747. Infatti, in una carta del monastero di Montecassino si legge "Locus qui dicitur
Anglonum". Il nome di Anglona, secondo il Quilici, trarrebbe origine dalla grande
ansa che viene a formare, proprio ai suoi piedi, l'alveo del Sinni appena uscito dalla
stretta dei monti e volto verso la foce.
Anglona si vanta di essere stata sede vescovile sin dall'età degli Apostoli. A tal
proposito il Nigro afferma che tutti quei vescovadi che non furono di fondazione
greca, erano stati istituiti dagli Apostoli e soprattutto da San Pietro durante il suo
viaggio per Roma.
La nostra Anglona ebbe non lunga vita, perché, secondo l'Antonini, nel 410 venne
occupata e malridotta dai Goti di Odoacre, quando saccheggiarono altri luoghi, della
Lucania, tra cui Stigliano.
A causa della devastazione dei Goti e per il sorgere di Tursi così vicina. Anglona andò
man mano decadendo fino a ridursi ad un casale ai tempi di Federico II. Ma,
nonostante avesse perso gran parte della sua popolazione durante le invasioni
barbariche prima e saracene poi, perché i suoi abitanti si erano rifugiati nei paesi
vicini: Tursi, Sant'Arcangelo, Colobraro, etc., Anglona ritornò in auge nel periodo
normanno. Guglielmo II, re di Sicilia, riconfermò al vescovo di Anglona (egli pure
Guglielmo) dei diritti feudali sulle terre di Noepoli e Nocara concessigli dai suoi
predecessori.
Che Anglona fosse stata oggetto di elargizioni lo rileviamo anche dal Catalogo dei Baroni
del regno per la spedizione in Terra Santa. In detto Catalogo è nominata Anglona, che
doveva provvedere con sei cavalieri e ben quaranta servienti. Successivamente, Federico II,
in memoria di suo padre e per devozione alla Madonna, concesse al vescovo non solo il
casale di Anglona ma anche il potere sugli uomini che si erano rifugiati in Tursi e
Sant'Arcangelo.
La donazione fatta da Federico II alla chiesa di Anglona era considerevole. Si trattava di
un feudo di vaste proporzioni di circa 30 miglia quadrate, tra i fiumi Agri e Sinni
composto da terre assai fertili. Questo feudo comprendeva le terre di Acinapura, oggi in
territorio di Policoro, fino all'attuale Lauro, contrada in agro di Tursi, ove sorgono i
giardini.
Il Quilici così identifica i confini del feudo di Anglona: "il vallone di Lauro è da riferirsi al
monastero di S. Maria di Lauro sotto Rotondella, Santa Cenapura ad Acenapura, il
flumarium Argri è l'Agri, la Cruce la Croce tutt'ora esistente sul punto più alto della
stretta dello spartiacque a monte di Anglona, Cuntirato l'attuale Cantarato, la via quae
ducit per caput Vulgari è quel tratturo che scendeva dai magazzini di S. Maria di Lauro ai
luoghi di imbarco, per dove poi il confine seguiva il guado sul Sinni del secondo tratturo
regio; la strada Franca è la piana alle falde del secondo rialzo delle colline sul mare, la valle
Cupa la zona degli attuali calanchi di Manche Marone, la fracta per Colubrato, cioè
Colobraro, e la fronte di briga sul Sinni nella zona che va da Santa Maria del Campo alla
Cucuzzuta.
• La città di Anglona, finì di esistere al tempo della regina Giovanna di Napoli,
quando fu incendiata da una centuria facinorosa di soldati. Da una lettera
della regina Giovanna, (per la riedificazione) datata 30 luglio 1369, si riferiva
che la città fu data alle fiamme e ne fu risparmiata solo la Chiesa dedicata alla
Vergine. I suoi cittadini trovarono rifugio nei paesi vicini in Tursi,
Sant'Arcangelo, Chiaromonte.
• Il territorio di Anglona è ricco di reperti archeologici tanto da suscitare
l'interesse degli studiosi sin dai secoli passati. L'Ughelli, ad esempio, parla di
rinvenimenti di tombe antiche con ossa umane due o tre volte più grandi del
normale.
• Il Nigro, a sua volta, dice che nel mese di Aprile o Maggio del 1823 in
territorio di Anglona, detto Marone, furono trovati alcuni cadaveri e che uno
di essi, situato nel mezzo, era di un'ossatura più lunga di quella di un uomo di
alta statura.
• L'Antonini, dal materiale di superficie e da qualche rudere ancora esistente ai
suoi tempi, così si esprime: "che ivi vi fossero non mediocri edifizi e che nei
secoli antichi questa fosse una ragguardevole città.
• Vi sono sempre stati ritrovamenti di tombe o fornaci. Peccato che tanto
materiale sia andato a finire in musei non della regione o in case di privati
cittadini.
Da un ventennio, da quando i lavori di scavo sono stati eseguiti a cura della
Sovrintendenza della Basilicata, il materiale si trova depositato nel Museo della Siritide di
Policoro. Certamente, la più importante scoperta archeologica della zona di Anglona è la
necropoli della Valle Sorigliano (169 sepolture).
Due di queste sono di notevoli dimensioni e per l'abbondante corredo funebre, dice Mina
Andriani, sono da attribuire a personaggi emergenti della tribù: la spada di ferro con
fodero in bronzo, ceramiche, etc., a un personaggio maschile; a quello femminile una ricca
parure ornamentale. Questa necropoli risale all'VII secolo a.C. Altro importante
ritrovamento è la tomba di Panevino risalente al 2000 a.C., appartenente alla prima età
dei metalli (bastone in arenaria, un pugnale di rame, una collana di steatite).
Ad Anglona ogni anno il 2 settembre ha luogo una fiera di bestiame e merci varie, mentre
l'8 dello stesso mese si venera la Madonna con richiamo di fedeli da tutta la Diocesi. Dal
Nigro apprendiamo che la "Festa di Anglona" è iniziata con la fondazione del tempio
dedicato alla Vergine e si è svolta sempre l'8 settembre, giorno in cui se ne ricorda la
Nascita. Il fatto è convalidato da un diploma della Regina Giovanna I: "Casale Angloni in
quo aedificata, et fondata est ipsa Mater Ecclesia Anglonen, quae Beatae Virginis
Genitricis Mariae vocabulo insignitur, ad quam non solum mares, et feminae ipsius
Diocesis immo a longinquis partibus gentes, ad dictam Ecclesiam maxima divotione
concurrunt".
• Lungo i secoli la Festa ha avuto una sola interruzione, nel periodo del
brigantaggio dal 1806 al 1808, sotto la dominazione francese. Durante
questi anni il Tempio divenne rifugio di greggi e pastori, riducendosi ad
un letamaio. La Vergine, allora, mosse il cuore dei più umili dei Tursitani
che con zelo lo ripulirono, riportandolo all'originario splendore. Questa
devozione fu premiata. La Madonna, infatti, fece cadere abbondante
pioggia sui terreni arsi da una lunga e calamitosa siccità e provocò la
morte di locuste e bruchi che infestavano le campagne, con enormi danni
alle colture. Tutto questo, leggendo il più volte citato Nigro.
• Ancora oggi l'8 settembre è una data di grande importanza per il popolo
credente. Infatti la Festa è sempre più sentita e frequentata dai fedeli di
Tursi e dei paesi di tutta la Diocesi. Oltre alle continue Messe, quel
giorno hanno luogo numerosi altri atti votivi da parte dei fedeli. E' d'uso
acconciare bellamente un vitello e portarlo in dono alla Madonna.
L'animale è stimato da competenti, quindi il prezzo che essi stabiliscono
viene offerto dal proprietario ed appuntato sul manto della Vergine. Non
solo, ma c'è chi allestisce un'imitazione della Statua con candele e ceri di
varia grandezza e la offre al Tempio.
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Ultima era l'asta peripatetica, cui si procedeva fino a pochi anni or sono, durante la
processione del simulacro della Vergine dalla Basilica fino ad un basamento dove
avveniva una sosta, per consentire l'omelia al Vescovo e l'esplosione dei fuochi
pirotecnici.
Dall'uscita della Basilica i fedeli facevano offerte sulla statua della Madonna, secondo
il rituale delle aste pubbliche. Il tutto finiva in corrispondenza di un filare di pini,
distante dalla Basilica circa 300 metri.
L'ultima offerta, fatta in questo punto, veniva corrisposta in danaro dall'offerente
alla procura della festa, che depositava la somma su un libretto bancario intestato
alla Vergine. Così si diceva che la statua era stata "affittata" per quell'anno. La
statua stessa, per esplicito volere della Madonna (secondo una nota tradizione)
dimorava dall'ultima domenica di Agosto all'ultima di Aprile, per otto mesi, nel
Santuario di Anglona, i restanti quattro mesi dell'anno rimaneva nella chiesa
Cattedrale di Tursi.
Fino all'Aprile del 1966 la statua compiva il viaggio da Anglona a Tursi e da qui al
Santuario portata a spalle dai fedeli, che di tale incarico facevano voto. Da questa
data il viaggio avviene a mezzo di un autocarro adeguatamente addobbato.
Anche la fiera di Anglona è di vecchia istituzione e non si conosce la prima
concessione.
In un diploma del re Roberto, del 24 luglio 1332, richiesto da Riccardo, vescovo di
Anglona, si. legge che questa fiera già si svolgeva. Una conferma di concessione fu
data dal re di Napoli Ferdinando I d'Aragona il 21 settembre 1468 al vescovo
Ludovico Fonoblet, cosicché la fiera iniziava la vigilia della festa e continuava per
Otto giorni franca e libera da ogni peso di dogana.
Da tempo però è invalsa l'abitudine di tenerla il 2 settembre.
Tursi
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LE ORIGINI
Lo scenario in cui si collocano le origini di Tursi è quanto mai ampio e denso di avvenimenti
oscuri.
I suoi fondatori furono senz'altro Barbari o i primi Bizantini comparsi in questi luoghi
intorno al sesto secolo.
Dopo la caduta dell'Impero Romano d'Occidente, i Barbari invasero anche le nostre
contrade, portando ovunque terrore, strage e morte.
I primi ad irrompere nel Sud d'Italia furono i Goti di Odoacre i quali, poi, si divisero nei
Visigoti di Alarico e negli Ostrogoti di Teodorico.
Il Racioppi, che segue Procopio, informa che le città di Taranto ed Acerenza furono
presidiate dai Goti, l'Antonini, parlando di Barbari, dice che distrussero molti luoghi della
Lucania tra cui Stigliano ed Anglona nell'anno 410.
I Bizantini comparvero immediatamente dopo i Goti al comando di Belisario prima e di
Narsete poi, li attaccarono e li sconfissero.
Solo uno sparuto gruppo di Goti restò ancora in Lucania ed Apulia continuando a
saccheggiare ed uccidere e fu definitivamente sgominato dai Bizantini nel 554.
I Goti governarono stabilmente il Meridione per 77 anni durante i quali, sempre pressati da
altri popoli, fortificarono luoghi elevati. Teodorico fu il re che particolarmente si distinse
nella costruzione di castelli, lasciandone un gran numero in tutte le terre da lui conquistate.
Dopo aver distrutto Anglona nel 410, questi Barbari ebbero la necessità di costruire un'altra
fortezza nelle vicinanze per vigilate sui territori circostanti e scrutare il non distante litorale
ionico: quale migliore sito della collina di Tursi?
Per questi ed altri motivi si può ragionevolmente sostenere che Tursi fu fondata dai Goti.
Infatti, una tesi che ancora si tramanda vuole Tursi fondata dagli esuli della città di
Anglona, quando questa venne distrutta dai Goti. I fuggiaschi cercarono riparo proprio nella
zona collinare interna chiamata Murata ove i Goti avevano costruito un grandioso castello di
difesa.
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Il Racioppi conferma questa tesi indicando la località Murata sulla destra del fiume Agri,
sostenendo che ivi dovette esistere un villaggio fortificato od oppido.
In verità nella località Murata, distante dall'abitato di Tursi non più di un miglio, ed in
quelle adiacenti si sono sempre rinvenute molte tombe, coperte da enormi lastroni,
generalmente senza alcun corredo funebre. Inoltre, nell'anno 1979 in località Marulli
furono da noi osservate e studiate alcune tombe contenenti più scheletri umani. Altre
tombe ancora sono state rinvenute nel Canale della Rabatana, in Serra Scoverta, etc., tutti
luoghi vicini alla Murata.
Il Nigro, anch'egli convinto che la fondazione di Tursi fu opera dei Goti, ci informa che
nelle sue campagne si sono sempre trovati molti scheletri umani interrati. Il rinvenimento
di tali tombe spinse questo storico a congetturare che Tursi sia esistita prima del VII
secolo, perché il Pontefice San Gregorio Magno, morto nel 604, aveva imposto che i morti
non fossero più sepolti nelle campagne, ma nei pressi dei luoghi di culto.
Perciò secondo il Nigro le molte tombe rinvenute nelle campagne sono da datare tra il V ed
il VII secolo.
Questa tesi del Nigro è confortata dalle indirette affermazioni di altri autorevoli studiosi
quali il Fumagalli e Paolo Diacono.
Il Fumagalli, parlando della peste che flagellò l'Italia, dice che mieté vittime nel Meridione
d'Italia dal 500 al 700.
Paolo Diacono più precisamente afferma che nell'anno 679 la peste che imperversò in tutta
Italia provocò la morte di molta gente e che i membri di una stessa famiglia venivano
composti in un'unica tomba. Dunque possiamo ipotizzare che le tombe con più cadaveri
siano da attribuire a questa peste del VII secolo.
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Ai Goti poi successero i Bizantini e, fra l'altro, la cosa è testata dal Morelli, che attinge dal
D'Ulmo, quando parla di Belisario che si distinse per la sua magnanimità in Matera,
restaurandola e recintandola con torri e fortificazioni.
Le origini e le prime vicissitudini di Tursi sono, comunque, interpretate variamente dagli
storici.
Il Lenormant la identifica nella Turiostum della Tabula Peutingeriana. Molti però indicano
questa città nei pressi di Metaponto e quest'ultima tesi ci appare la più probabile in quanto
sorgeva tra Heraclea e Taranto.
Nicle Sisto Piscitelli, nel suo testo sulla Lucania antica, vuole Tursi patria dei pontefici
San Telesforo e San Dionisio, vissuti rispettivamente nel II e III secolo. La tesi della
Piscitelli è senz'altro da scartare in quanto autorevoli storici affermano che i suddetti santi
siano stati nativi di Turio presso Cosenza.
Il Ribezzo individua Tursi quale antica sede dei primitivi popoli Tirreni o Turseni.
L'Antonini fa risalire le origini di Tursi al diluvio universale a causa del rinvenimento dello
scheletro di un asino risalente a tale fatto nello scavo di un monte posto sopra la città.
Questa tesi ci appare azzardata.
Anche il Romanelli riferisce il rinvenimento nel territorio di Tursi di resti fossili,
accennando ad ossa di quadrupedi ed a scheletri interi di bestiame, trovati a gran
profondità.
Lorenzo Giustiniani nel suo Dizionario geografico ragionato del Regno di Napoli, ritiene i
Saraceni fondatori di Tursi.
Il Trojli, nella sua Historia generale del reame di Napoli fa derivare le origini di Tursi dal
decadimento di Pandosia, ma poi dice che è stata abitata dai Saraceni o Arabi, i quali
lasciarono il loro nome ad una contrada della città detta Rabatana o Arabatana, per
ricordare la loro città di Rabath.
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Il Nigro respinge l'opinione del Trojli, perché nelle campagne di Tursi non si sono mai
trovate vestigia di culti idolatri e confuta anche quella del Giustiniani circa la sua
fondazione ad opera dei Saraceni, perché questi infestarono le nostre contrade non prima
del IX secolo, mentre Tursi nel IX sec. doveva essere già una città notevole, tanto che nel
X sec. fu elevata alla dignità di cattedra vescovile dal patriarca di Costantinopoli. Dunque,
Tursi doveva già esistere al tempo delle scorribande saracene. Tursi, quindi, secondo il
Nigro, nacque sotto i Goti, che vi costruirono un castello, intorno al quale si sviluppò
anche per la successiva venuta di popoli stranieri. Egli conferma le sue congetture con il
fatto che le fabbriche, gli archi di case e di chiese più antichi fossero costruiti col sistema
gotico e ricorda che sul terreno del castello furono trovate palle di piombo da fionda fatte a
foggia di olivo con piccolo foro in uno degli angoli, con lettere greche in alcune ed in latino
in altre, incise e maiuscole. Le lettere formavano le parole EIETHIDE quelle greche,
APNIA quelle latine.
Secondo il Quilici la fondazione di Tursi risale all'872 contemporaneamente a quella di
Castelsaraceno, ma non respinge l'ipotesi che il luogo per l'antichità fosse già occupato da
un casale o da un piccolo pago. Il nome Tursi, sempre secondo il Quilici, sarebbe derivato
dalla torre e che il nome originario di Turcico, Tursico, si sia sviluppato in età bizantinonormanna in Tursia, Torre di Tursico come è chiamata in una bolla del papa Alessandro Il
ad Arnaldo, arcivescovo di Acerenza.
Ancora da Paolo Diacono apprendiamo che nella Lucania, durante il dominio dei
Longobardi, oltre alle città di Acerenza, Venosa e Grumento, vi erano altre 25 terre
abitate.
Secondo noi è possibile che:
a) esisteva un piccolo villaggio agricolo già in epoca romana nella contrada Murata (lo
dimostrano il rinvenimento anche di alcune monete del III-IV secolo);
b) che i Goti vi costruirono il castello (il loro governo stabile durò dal 476 al 553);
c) che con l'arrivo dei fuggiaschi della città di Anglona iniziarono le prime costruzioni attorno
al castello;
d) che sotto i Saraceni si sviluppò il già esistente borgo detto Rabatana;
e) che con la conquista bizantina iniziò, poi, nel X secolo ad espandersi più a valle come
dimostra un Sinodo che nel 1060 si tenne nella chiesa di San Michele Arcangelo.
La città si chiamò prima Turcico, probabilmente dal suo fondatore, poi Tursikon sotto i
Bizantini, Tursico, Tursia, Torre di Tursico ed infine Tursi.
CAPITOLO III
DAI LONGOBARDI ALLA II SPEDIZIONE BIZANTINA
TURSI THEMA DI BASILICATA
La pace che seguì dopo la conquista bizantina durò poco, perché un altro popolo, i
Longobardi, valicate le Alpi Giulie e fatta irruzione nel Friuli, dilagò nella Pianura Padana
e si spinse nelle regioni meridionali dove fondò il ducato di Benevento. Il longobardo
Zotsne, duca beneventano, ampliò il suo ducato fino a incorporare gran parte della
Lucania.
La conquista longobarda non fu senza ostacoli, perché i Bizantini le contesero palmo a
palmo il territorio da loro occupato, anche se alla fine furono costretti ad arrendersi.
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Nel 598 pacificamente Longobardi e Bizantini si spartirono la Penisola. A quest'ultimi
rimasero le isole, l'Esarcato, la Pentapoli, il Ducato romano, Napoli, Amalfi, Paestum,
Agropoli, il Brutium fino a Cassano Jonio e la Puglia, comprendente i Territori a Sud
dell'Ofanto e dal Bradano sino al mare.
Dopo circa 150 anni di dominio i Longobardi furono sconfitti dai Franchi nel 754, ma i loro
ducati del Sud, avendo conservato sempre una certa autonomia dal potere centrale di
Pavia, riuscirono a mantenerla anche verso i nuovi padroni. Il genero di Desiderio, Arechi,
al Sud assunse orgogliosamente il titolo di "Princeps gentis Longobardorum". Adelchi,
figlio del re, si alleò con i Bizantini per impadronirsi del ducato Beneventano in mano a suo
cognato Arechi. Dopo anni di indugi, Bisanzio, finalmente inviò un esercito in cui era
presente lo stesso Adelchi, per combattere contro i Franchi, ma venne da questi sconfitto
sulle coste della Calabria ove Adelchi trovò la morte.
I Bizantini, successivamente, ritornarono nell'Italia Meridionale, occuparono la Calabria,
parte della Lucania e della Puglia, minacciando il ducato beneventano. Grimoaldo,
principe beneventano per mantenere il suo ducato, non esitò ad allearsi con Bisanzio nella
lotta tra Carlo Magno e l'Impero d'Oriente, conclusasi con la pace dell'812. Grimoaldo II,
successo al padre nel ducato di Benevento, fedele alla politica di allearsi con il più forte,
riconobbe la sovranità di Carlo Magno nei suoi territori, accettandone le condizioni di
principe suo tributario. Carlo Magno d'altronde, non si era lasciato invischiare
eccessivamente da queste vicende del Sud perché altre erano le direttrici della sua politica.
Il trattato dell'849 voluto dall'imperatore franco Ludovico II, per porre fine alla lotta tra i
ducati di Benevento e Salerno, ne delimitò i territori. Il trattato sanciva che la Lucania,
dal fiume Lao fino al Sele, dalla costa tirrenica al Bradano, con il territorio di Latiniano,
venisse assegnato al principato di Salerno, ad eccezione di Acerenza. Al ducato di
Benevento erano assegnati i territori di Sant'Agata Telese, Isernia, Bovino, Larino,
Campobasso, Biferno, Alife, Ascoli e in Puglia: il Gargano, Lucera, i diritti sul territorio di
Siponto e dall'Ofanto fino a Brindisi.
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Del castaldato di Latiniano, che doveva essere l'antica Altojanni, vicino all'odierna
Grottole, doveva far parte anche Tursi. Questo castaldato, infatti, si estendeva dal Tanagro
lungo la valle dell'Agri, fino alla costa ionica ed era compreso tra quello di Acerenza e
quelli di Taranto e Cassano. In questi anni un nuovo popolo faceva la sua comparsa sulle
dilaniate terre meridionali: i Saraceni che, dopo aver invaso la Sicilia, approdano sulle
coste meridionali della Calabria, si insediano in Taranto ed in Bari, distruggendo e
devastando anche molti possedimenti Longobardi ed intervenendo al tempo stesso ora in
loro favore ed ora in favore dei Bizantini.
I Saraceni dal litorale ionico si spinsero nell'interno, presero Tursi e ne fecero un sicuro
rifugio per quando ritornavano dalle loro scorrerie. Infatti, la posizione topografica del
castello e del borgo adiacente, da cui è ben visibile la piana costiera, rappresentava un
luogo strategico per la loro difesa. Proseguendo poi lungo le valli dei fiumi Agri e Sinni
occuparono Stigliano e Grumento e si fermarono nell'interno ove fondarono
Castelsaraceno.
In questo passaggio ci conforta il Quilici che dice "nell'immediato entroterra della pianura
del Sinni e dell'Agri, fino all'imbocco delle valli fluviali, venne impiantata la colonia
saracena diTursi, posta a garanzia di tutta la piana costiera".
Tursi risentì molto dell'influenza araba perché proprio da questa prese consistenza il borgo
esistente, anche a spese della vicina Anglona. Essa non subì alcuna distruzione, perché
rappresentava un utile punto di riferimento. Ma la vicinanza e sicurezza di Tursi, le
continue scorrerie e i saccheggi dei Saraceni finirono per intimorire gli abitanti che
l'abbandonarono, rifugiandosi in Tursi. Dunque sotto i Saraceni Anglona subì uno
spopolamento a causa della vicina e vitale Tursi. Infatti, ancora il Quilici informa che
queste erano due città che nello stesso tempo e nello stesso luogo svolgevano le stesse
funzioni, per cui era naturale che una delle due scomparisse.
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La presenza araba nella nostra regione e quindi in Tursi non durò molto, ma lasciò la sua
impronta tanto che il primo rione di questo paese chiamasi Rabatana,o Arabatana.
Certamente, questo nome fu dato dagli Arabi, per ricordare la loro città di Rabath (come
abbiamo riferito prima).
Negli anni che vanno dall'870 alla fine del secolo l'Italia meridionale, per la debolezza e lo
sfascio dell'Impero d'Occidente, era ripiombata in un caotico disordine. Intanto Basilio I,
imperatore d'Oriente, intento a sanare le controversie religiose determinate dallo scisma di
Fozio aveva per qualche tempo abbandonato l'Italia.
Proprio alla fine del IX secolo i Bizantini sbarcarono in Italia, si insediarono stabilmente
ad Otranto e riconquistarono Bari.
Erano questi anni di assoluto caos perché una stessa terra veniva conquistata nel giro di
poco tempo, ora dai Longobardi, ora dai Bizantini e dai Saraceni.
Nella ripresa delle operazioni belliche da parte di Bisanzio si distinse Niceforo Foca, che
stabilì l'autorità di Basilio su tutta la Calabria lasciata libera dai Longobardi in precedenza
e cacciandone anche i Saraceni. I Bizantini, si insediarono, poi, anche nel territorio della
Calabria Settentrionale, nella Lucania sud-orientale, dal fiume Crati al basso Bradano ed
in tutta la Puglia. Agli inizi del X secolo quasi tutto il territorio longobardo era in mano
loro. Inoltre, prendendo pretesto dalle lotte intestine longobarde e avute richieste di aiuto,
un presidio bizantino era stato installato anche a Capua, mentre Salerno fu presidiata.
Rimaneva ultimo baluardo longobardo solo Benevento.
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Del ducato di Benevento, dopo anni di lotte e congiure di palazzo, era diventato padrone
Aione. Intanto lo stratega bizantino di Bari Teofilats, col pretesto di attaccare i Saraceni
dal Garigliano, si impadronì di alcuni castelli e diede aiuto al castaldato di Sant'Agata che
si era ribellato ad Alone. L'attacco ai territori longobardi aveva provocato in Aione una tal
reazione che immediatamente col suo esercito invase le terre bizantine, arrivando
addirittura in Bari. Ma, assediato, fu costretto ad arrendersi. Ormai Bisanzio attraverso i
suoi ufficiali esercitava la più ampia influenza su tutto il territorio di dominio longobardo.
Acerenza, anche se rimase sede di castaldato longobardo, vide la sua autorità limitata
dall'azione degli ufficiali bizantini. La stessa Matera, nominalmente facente parte del
principato di Salerno, veniva regolata nella vita da funzionari di Bisanzio. Nei paesi
dell'antica Lucania l'affermazione bizantina coincise con la formazione di nuove chiese
vescovili che assunsero un'importanza primaria nei contrasti che si verificavano tra la
chiesa latina e quella greca. E intanto ovunque si diffondevano le comunità
monastiche orientali che contribuivano a ravvivare la vita di queste regioni,
abbruttite da guerre e guerriglie. Con queste rifiorirà l'agricoltura delle pianure
costiere, le quali abbandonate da tanto tempo si erano ridotte a paludi.
All'epoca della sua maggiore espansione il territorio bizantino era limitato a Nord dai
Longobardi di Capua, Benevento e Salerno, ad Est dal mare Adriatico, a sud dal Mare
Ionio e ad Ovest dal mar Tirreno, il tutto sotto il comando del Katepan, comandante del
Thema che aveva sede in Bari. Questo thema era chiamato di Longobardia e comprendeva
tutto il territorio italiano di dominio bizantino.
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Successivamente nel 938 venne creato il thema di Calabria che comprendeva quasi tutta
l'odierna Calabria ed aveva capitale in Reggio. Più tardi, per una migliore organizzazione
militare, amministrativa ed economica, il governo bizantino creò il thema di Lucania
fissandone la capitale a Tursikon e nello stesso tempo completò la ristrutturazione già
iniziata agli inizi del secolo, centralizzando i tre themi di Longobardia, di Calabria e di
Lucania sotto l'alto comando del Katepan residente in Bari e nominando per ogni capitale
uno stratega. Dunque, se Tursi ebbe l'onore di diventare capitale di thema, possiamo dire
che la sua importanza demografica ed economica era già iniziata nei secoli precedenti.
Il Katepan nei secoli X e XI era il governatore e comandante di tutti i domini di
Costantinopoli in Italia. Era investito dei poteri militari e civili e la sua nomina proveniva
direttamente dall'imperatore di Costantinopoli. Era dunque la massima autorità bizantina
in Italia. Lo stratega, invece, aveva gli stessi poteri che erano conferiti al Katepan, però
solo nel suo thema. Non ci è dato di conoscere se la nomina dello stratega provenisse dal
Katepan o dall'Imperatore.
Sotto la giurisdizione bizantina in Italia c'era un Katepan con sede in Bari, quale alto
comandante e uno stratega in ogni capitale di thema: Bari, Reggio e Tursikon.
Il Thema di Lucania confinava con quello di Longobardia, di Calabria e con i territori
longobardi di Salerno e Benevento. Comprendeva tre tourmai: quello di Latinianon, quello
di Lagonegro e quello del Merkurion; suddiviso in drongai e bande, amministrate da
drongari e conti. Si estendeva a Est fino al Basento e al Mare Ionio, a Ovest fino al bacino
del Tanagro e al Vallo di Diano, a Sud fino al golfo di Taranto e al Pollino e a Nord fino al
monte Vulture.
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I motivi che indussero il governo di Costantinopoli ad istituire anche il thema di
Lucania furono certamente più di uno, perché bisogna tener presente che questa
regione, anche se impoverita nei tempi delle dominazioni barbariche, era stata
nei secoli precedenti, cioè in quelli delle colonizzazioni greche, una delle più civili
e progredite d'Italia. Infatti a favorire la sua istituzione in thema o regione
autonoma da quella di Longobardia e di Calabria fu certamente la forte base
economica, derivante dalla produzione di legname, resina, l'allevamento del
bestiame ed in ultimo la ripresa attività agricola.
I proventi derivanti da questa regione dovevano essere tali da consentire al
catasto e al fisco bizantino introiti sufficienti per il funzionamento
dell'amministrazione e per la difesa. Anche i fiumi della regione in questo periodo
dovevano essere idonei alla navigazione di piccole imbarcazioni, specialmente
verso la foce del Sinni.
Non mancavano vie di comunicazione. La regione era attraversata da due vie
importanti: la Appia e la Popilia. Dalla costa ionica partiva una strada che dalla
città di Heraclea raggiungeva Anglona, costeggiava l'Agri fino a Grumento,
riallacciandosi alla via Popilia. Questa strada è ricordata nell'atto di donazione
del 1221 di Federico Il alla chiesa di Anglona.
• Sotto i Bizantini la regione lucana si coprì di una fitta rete di abitati e di
città, nuovi castelli sorsero ovunque e questo attirò grandi masse specie
dalle regioni d'oltremare. Con l'immigrazione ebbe inizio il decollo
agricolo di queste terre abbandonate durante le invasioni barbariche. La
Chiesa Orientale era a capo di questo risveglio agricolo, non solo, ma
contribuì con il suo apporto organizzativo anche allo sviluppo della vita
sociale e spirituale. Sorsero nuovi insediamenti urbani come Nocara,
Rotondella, Montalbano, San Basilio, Craco, Colobraro e si rinnovarono i
vecchi di Favale. Bollita e Anglona. Tursi era al centro della ripresa
religiosa ed economica ed il governo bizantino provvide pure a grecizzare
la vita spirituale delle terre conquistate. Infatti, il rito greco fu imposto
in sostituzione di quello latino anche con la forza.
• Da una relazione dell'ambasceria di Liutprando, vescovo di Cremona,
fatta a Costantinopoli nel 968 in nome degli Ottoni, imperatori
d'Occidente, leggiamo nel Baronio che: "Niceforo Foca, re
costantinopolitano, ordinò di elevare la chiesa di Otranto a sede di
arcivescovado. Il patriarca, Polieute, perciò diede privilegio alla chiesa di
Otranto, di ordinare vescovi in Acerenza, Tursi, Gravina, Matera e
Tricarico". Tursi, dunque, sotto i Bizantini diventa anche sede vescovile.
CAPITOLO XIV
TURSI NELLA RELAZIONE GAUDIOSO
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Nella città di Tursi, che in tutto l'arco del '600 aveva dato segni di una graduale, ma
inarrestabile decadenza, verso la fine del secolo e agli inizi del successivo si verificò un
eccezionale incremento demografico.
La popolazione raddoppiò, per cui dai 380 fuochi del 1669, nel 1736 passò a 4.200 abitanti.
Ma continuavano le liti tra l'Università ed alcune potenti famiglie ora con il Vescovo, ora
con il feudatario Doria. Il ceto dei nobili diventò sempre più potente, sia con l'acquisto di
nuove terre, sia con l'usurpazione di altre a spese del Feudatario genovese o a spese del
feudo di Anglona.
Ma quali erano queste potenti famiglie, capaci di far fronte al feudatario Doria e al
Vescovo, se non i Donnaperna, i Brancalasso, i Panevino, i Picolla, i Margiotta, i Giordano,
i Camerino, i Ginnari, i Latronico e poche altre? Considerando che i due feudi di Tursi ed
Anglona, di circa 20 mila ettari, erano di godimento del Vescovo e del Feudatario Doria
oltre che delle suddette famiglie, il popolo tutto, costituito nella maggior parte da
"bracciali" pativa la fame o viveva di stenti. Non furono mai presi provvedimenti da parte
dei regnanti a favore delle classi più povere e se qualcuno di loro ordinò che si facessero
delle inchieste queste rimasero sempre inevase o non prese in considerazione.
La conferma delle misere condizioni della Regione Basilicata, la offre la Relazione
Gaudioso, ordinata da Carlo III, facendoci conoscere le condizioni politiche,
amministrative ed economiche della Basilicata e dei suoi centri abitati, quali erano nel
1736 .
La Basilicata, divenuta provincia autonoma nel 1643, era stata sempre ritenuta come una
delle più belle e più ricche del regno di Napoli.
Di questa convinzione erano stati tutti i regnanti fin dai tempi angioini. I sovrani Angioini
sollecitavano dai paesi della Basilicata l'invio di grano, di vino e di altri alimenti per il
fabbisogno dei loro soldati.
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Scipione Mazzella nel 1601 scriveva che: "E' questa regione la maggior parte montuosa, ma
però molto fertile di ogni sorta di biade e produce buonissimi vini, produce questo bel
paese in abbondanza grano, oglio, mele,cera, coriandoli, zafferano, bambace delli quali
cose grandemente abbonda la terra di Tursi detta anticamente Torsia. Fioriscono in questa
eccellente regione per l'amenità delle aree due volte all'anno gli alberi e le rose dove per
tutto si vede abbondanza grande di diversi saporiti e dolci frutti; sonovi bellissimi giardini,
i quali perché sono rigati da piacevoli fiumi, producono bellissimi cedri, aranci e limoni. E'
non meno ricca di armenti e porci. Il suo mare è di buonissimi pesci abbondantissimo e
produce conche di gusto soavissimo che tengono attaccati dentro di loro finissime perle”.
Sempre dal Mazzella apprendiamo che la Basilicata contava 38.747 fuochi distribuiti in
128 centri abitati e pagava 14.671 ducati alla Regia Corte ed era, dopo la Terra di Lavoro,
la provincia che pagava più tasse ordinarie.
Nel XVIII secolo le condizioni della Basilicata erano ben diverse, quando Carlo III, nel
gennaio del 1735, visitando alcuni paesi, spingendosi sino a Policoro, infestata dalla
malaria, si rese conto dello squallore nel quale essa versava. Non vi erano popolazioni
ricche, non uomini vigorosi, non terreni fertili che producessero in abbondanza, non
piacevoli fiumi, ma contadini poverissimi, affamati ed invecchiati prima del tempo, terreni
in maggior parte montuosi e quindi sterili, clima impossibile con fiumi secchi d'estate e
pieni d'inverno, che arrecavano notevoli danni alle già misere condizioni agricole.
Dovunque vi era miseria e solamente miseria.
Il sovrano perciò dispose che venisse fatta un'inchiesta dettagliata delle condizioni della
regione e Bernardo Tanucci, Ministro del re, il 9 aprile del 1735 incaricò Rodrigo Maria
Gaudioso, avvocato fiscale presso la Udienza di Matera, di redigere un'esatta
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descrizione di questa Provincia, precisando il numero degli abitanti, dei rispettivi luoghi; i
Vescovi con le loro entrate e prebende, badie, conventi dei frati e parrocchie, i baroni con le
loro rendite; i nobili di ciascuna città con le loro entrate; prodotti del terreno; marina,
marcanzia, entrate regie; i tribunali con loro ministri e salari di ciascuno, usanze, leggi, stili
particolari ed inclinazione dei popoli. Attenendosi a quanto impartitogli, il Gaudioso
richiese a tutte le Università della Provincia le informazioni necessarie per la sua relazione
che fu completata nel 1736.
Le notizie fornite dalle singole Università vennero redatte dai Cancellieri e sottoscritte dal
Sindaco e dagli Eletti.
Nella Relazione del Gaudioso a proposito della Basilicata e di Tursi si legge che:
"La Basilicata era raccolta in un'unica provincia con sede in Matera e comprendeva 117
centri abitati oltre due feudi disabitati di San Basilio e Policoro il tutto distribuito in
quattro ripartimenti. Le sedi di questi ripartimenti erano Tursi, Tricarico, Maratea e Melfi.
Il ripartimento di Tursi, comprendeva 30 centri abitati: Montescaglioso, Pomarico,
Bernalda, Pisticci, Montalbano Ionico, Rocca Imperiale, San Giorgio Lucano, Rotondella,
Favale, Noepoli, Colobraro, Casalnuovo Lucano, Cersosimo, Chiaromonte, Teana, Calvera,
San Costantino Albanese, Terranova di Pollino, Francavilla sul Sinni, Senise, Castronuovo
Sant'Andrea, Sant'Arcangelo, Roccanova, Missanello, Alianello, Gallicchio, Aliano, Craco,
Ferrandina oltre ai due feudi disabitati di San Basilio e Policoro, si spingeva da
Montescaglioso e da Ferrandina sino ai confini della Calabria e da Terranova di Pollino sino
a Gallicchio. Quello di Maratea comprendente 30 centri abitati si spingeva dalla costa
tirrenica fino a Viggianello, a Miglionico ed a Corleto.
Il ripartimento di Tricarico con 29 centri abitati, comprende Potenza ed i paesi del basso
Potentino spingendosi sino a Pietrafesa e da Sasso di Castalda sino ai paesi dell'alta Vai
d'Agri, da Montemurro a Tramutola.
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Il ripartimento di Melfi, infine, comprende 28 centri abitati a Nord di Potenza, fino a
Spinazzola e Muro Lucano.
I Centri più popolosi della regione sono: Matera con 13.382 abitanti, Potenza con 8.000,
Lauria con 6.000, Melfi con 5.525, Avigliano con 5.400, Ferrandina con 5.000, Laurenzana
con 4.800, Tursi con 4.200, Pisticci con 4.200, Muro, Rivello, Tricarico e Viggiano con
4.000 ciascuno, Calvello e Venosa con 3.700, Molitemo con 3.500, San Fele con 3.200, Irsina
con 3.071, Rionero con 3.050, ventitré superano i 2.000 abitanti, trentasette i 1.000 ed il
resto al di sotto dei 1.000 abitanti.
Ad eccezione di galantuomini e di pochi civili il resto è composto tutto da bracciali i quali
sono persone che non posseggono terreni, e vivono con la mercede che dà la fatica delle
proprie braccia. In pochi centri della Basilicata ossia a Tursi, Sant'Arcangelo, Montalbano
Ionico, Pisticci, Tricarico, Chiaromonte, Muro, Oppido, Matera, Potenza, Lagonegro, etc.
vi è un ceto di nobili o civili distinto da quello dei bracciali, ma anch'essi vivono d'industria
di semina e di animali.
La città di Tursi vive per catasto che ascende alla somma di ducati 3.000 e rotti l'anno,
tenendo ancora di rendita la gabella nominata la cacciatura della bambacia, che si paga
dai cittadini con regio assenso e si suole affittare da ducati 100 in circa. Detta Università
tiene di peso, che paga alla regia corte docati 474, docàti 1.700 all'illustre duca barone don
Giovanni Andrea Doria e ai di lui eredi. Il popolo ascende al numero di 4.200 in circa
inclinando li cittadini alla coltura dei terreni, colla industria di bambace, grani, biade, vino
ed oglio e pochi aranci. La giustizia viene amministrata da un governatore che n'eligge il
barone. L'illustre duca barone ha di rendita docati 2.500 in circa oltre altri docati 2.300 che
ricava dalli feudi adiacenti di Trisaia e Caramola.
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Ha il vescovo sotto il titolo di Anglona e Tursi il quale tiene di rendita da docati 3.000 in circa
sebbene è caricato da docati 1.000 di pensione. Vi è un'abbadia nomata San Nocito redditizia in
annui docati 16. Vi è la Cattedrale assistita da tre dignità, undici canonici e dieci partecipanti
somministrandoseli anche dall'Università predetta l'oglio per il mantenimento delle lampade
avanti il Venerabile. Vi è altresì la parrocchia sotto il titolo di Santa Maria Maggiore eretta in
colleggiata assistita da una dignità che chiamasi Preposito ed undici canonici colle loro prebende
contribuendoseli ancora dall'Università l'oglio per il mantenimento di due lampade. Vi è
similmente l'altra parrocchia sotto il titolo di San Michele Arcangelo, col curato e dieci sacerdoti
colla rendita a ciascheduno di essi di docati 20, ricevendo dall'Università l'oglio per le lampade. Vi
è dippiù un Oratorio dei PP. di San Filippo Neri, li quali vivono di pura industria di masseria di
campo, pecore, vacche e bambace, somministrandoseli dall'Università predetta certo poco oglio e
docati cinque. Vi sono ancora due conventi il primo dei PP. Cappuccini ed il secondo dei PP.
Francescani che vivono di elemosine, somministrandosili dall'Università ogni anno docati
trentadue e medicamenti franchi ai suddetti Cappuccini e docati 42 ai riferiti Francescani".
Purtroppo il re non la tenne in alcun conto perché la regione continuò a vivere nel suo stato di
miseria e di ignoranza e la si continuò ancora a credere molto ricca e fiorente. Infatti, Giuseppe
Antonini, riportato dal Pedìo, nel primo dei suoi discorsi sulla Lucania nel 1745 affermava che la
Basilicata "è senza dubbio uno dei più belli, ameni ed abbondanti di cui l'Italia debba pregiarsi,
così se vogliamo riguardare il di lui sito, come se si faccia considerare le cose tutte che in esso si
trovano".
Anche in seguito, ad un secolo di distanza, era ritenuta ancora come la più ricca del Regno. Il duca
della Verdura, intendente a Potenza nel 1845, così si esprimeva: "La Basilicata, per molte onorate e
storiche ricordanze può mirare a grandi destini per la posizione fisica che occupa, per l'abbondanza
e la varietà dei prodotti, per l'attitudine di sempre può moltiplicarli e variarli, per l'operosità e
facile sentire dei suoi.
• Vasta per estensione di territorio, provveduta di grassi pascoli, di
abbondanti e squisiti latticini, di lane, di biade, di armenti vestita di
boschi immensa, traversata in più sensi da fiumi perenni atti a
fertilizzare i più svariati terreni, idonei a più svariate colture, bagnata
infine da due mari, ribocca di vantaggi naturali per poter fondatamente
sperare ed ottenere prosperità".
• CAPITOLO XV
• IL CATASTO ONCIARIO
• Il sovrano Carlo III, a seguito della sua visita in Basilicata del 1736,
ordinò a tutte le Università della regione di redigere un Catasto. Questo
Catasto era un documento fiscale e fu chiamato Onciario, poiché in esso
venivano riportate insieme al numero dei componenti il nucleo familiare,
le attività che essi svolgevano e le rendite derivanti dai beni posseduti.
• Le rendite derivanti dalle attività e dai beni erano espresse in ducati,
carlini e grana, mentre la relativa tassa gravante veniva espressa in
oncie. L'oncia era la moneta d'argento del valore di sei ducati, coniata a
Napoli nel XVIII secolo.
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Di ogni famiglia, dunque, fu fissato ciò che possedeva in beni immobili, le rendite
da industria, commercio, arte o mestiere, gli oneri fiscali che derivavano da tale
possesso ed i pesi da dedurne. Furono compilati elenchi distinti per i cittadini
residenti, per i forestieri residenti, per quelli non residenti, per le vedove e vergini
e per i sacerdoti secolari. Furono, altresì, censiti tutti i beni posseduti dalle chiese
e dagli altri luoghi di culto. Le rendite derivanti dall'esercizio della professione di
notaio, "dottore fisico" (medico), avvocato e giudice non erano tassate. I preti
che avevano rendite inferiori a 24 ducati erano esenti da tassazione.
Una tassa fissa di 16 once gravava sugli speziali, di 14 once su commercianti,
artigiani e massari e di 12 sulle attività agricole (bracciali, vaticali, aratori, etc.)
Il catasto Onciario di Tursi fu ultimato il 26 gennaio 1754 ed è una miniera di
informazioni e notizie sulle condizioni sociali ed economiche della città. In
quell'epoca Tursi contava 4.267 abitanti ed era uno dei centri più popolosi della
Basilicata. Nel suo territorio sorgevano quattro mulini: due nell'attuale contrada
dei Giardini (proprietari: il dottor Tommaso Brancalasso ed i baroni Donnaperna)
uno in località Pescogrosso della famiglia Santissimo (come ora si chiama quella
contrada) ed il quarto in località Monte (nei pressi della odierna diga di Gannano)
della famiglia Catanzaro. Nel centro abitato esistevano due taverne, adibite anche
a ricovero dei forestieri: una era nel Vallone, appartenente alla famiglia
Santamaria e l'altra nella attuale Piazza Plebiscito di proprietà di Filippo Coirone.
Un "cellaro" (osteria) era situato nel Vallone ed apparteneva ad Antonello
Salerno.
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Vi erano 10 trappeti (frantoi di olive) proprietà delle famiglie più facoltose.
Inoltre, esistevano una diecina di laboratori per la tessitura del cotone, poiché
molti cittadini impiegavano capitali nel commercio della bambagia, di cui Tursi
produceva grandi quantità. In ultimo, collegate a questi filati, esistevano due
tintorie.
In tutto il territorio di Tursi nell'attività agricola erano addetti 64 massari, 32
giardinieri, 18 aratori per conto terzi, 5 agrimensori e più di 500 fra bracciali,
foresi, vaccari, pastori, gualani, etc. Il patrimonio zootecnico della città
annoverava 8.212 tra capre e pecore, 1.490 bovini, 286 cavalli, 320 muli, 850
somari, 2.650 neri (porci). Nelle attività commerciali, artigianali e del terziario
erano impegnati: 6 barbieri, 2 tavernari, 10 tessitori, 14 scarpari, 12 sartori, 13
muratori, 10 ferrari, 8 falegnami, 7 macellari, 9 molinari, 6 bardari, 6 panettieri,
4 bottegai, i fornaciaio, 2 tintori e 15 vaticali.
Esercitavano professioni 14 "dottori fisici", 15 avvocati, 7 speziali, 3 giudici a
contratto, 5 notai.
Erano pubblici funzionari 1 banditore, i barricello(1), 1 baglivo(2), 1
camerlengo(3) ed 1 cursore(4).
Essendo Tursi sede vescovile, vi erano 85 sacerdoti secolari, ai quali bisogna
aggiungere i frati dei conventi di San Rocco e San Francesco. Oltre al seminario,
esisteva il Conservatorio delle donzelle nubili sotto la regola di San Domenico,
tenuto da 16 monache professe, 3 sorelle (suore laiche) ed una priora.
I Nobili a Tursi in quell'epoca erano 21 e oltre 50 i "magnifici".
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Collettiva delle Once
Dai cittadini
once
18139
Da vedove e vergini in capillis
2159
Da sacerdoti secolari
“
697
Da forastieri abitanti
“
2185
Da forastieri non abitanti 437
Da chiese, monasteri e luoghi
23627
pii della città:
Mensa Vescovile “
396
Cappella del Santissimo“
Conservatorio
“
531
Oratorio di San Filippo
“
2444
Chiesa Cattedrale
“
320
Chiesa Collegiata “
666
Chiesa di San Michele
“
266
Cappella del Carmine
“
5062
per metà 2531
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259
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Da chiese, luoghi pii dei
forastieri:
Dalla certosa di San Nicola once
144
Dall'Abbazia di S. Angiolo al Raparo “
per le terre di San Nocito
“
per metà 97
Tot. Once
26255
50 194
La Mensa Vescovile possiede inoltre, tre masserie
nel feudo di Angiona di moggia 760 che non paga.
Il Catasto onciario fu ultimato il 26 gennaio 1754 e così
sottoscritto:
Pietro Antonio Siciliano Sindaco
Dr. Marcantonio Giordano Capo eletto
Antonio Pietoso eletto
Nicola Capitolo eletto
Dr. Domenico Vozzi eletto
Dr. Nicola M. Giordano deputato
Dr. Gio Antonio Guida deputato
Dr. fisico Giuseppe Battifarano deputato
Dr. fisico Saverio Spadetta deputato
Notaro Giambattista Di Pasca
•
Alcune famiglie
•
Riportiamo qui di seguito come nel Catasto Onciario veniva censita, rilevata e
trascritta la situazione anagrafica ed economica delle famiglie. Abbiamo scelto come
esempio 12 famiglie appartenenti a diversi ceti sociali e 2 sacerdoti.
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D. Gioacchino e D. Filippo Picolla
primo anni
48
Giulia Picolla moglie
anni
il secondo
anni
46
Cassandra Picolla moglie anni
43
•
Domenico Cannio mulattiere
anni
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Giovanni Ferraro forese
Nicola Rosano armizero
Nicola De Marco armizero
Teodora Spaltro serva
Giulia Malvaso serva
Rosa Maria Cucaro serva
26
28
30
35
28
18
anni
anni
anni
anni
anni
anni
41
33
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Posseggono in comune indiviso li seguenti beni:
Un mulo, dui cavalli per uso proprio. Una casa palazziata di 23 membri per
uso proprio. Altra casa affittata a Teresa Di Mondo per carlini 15, altra a
Lucrezia Mascolino per carlini 22, altra a Vittoria Micele per carlini 22, altra
a Gio Ferraro per carlini 15, altra a Giannantonio Mitolo per carlini 21, altra
a Nicola Rosano per carlini 21. Due altre case per uso proprio. Alcuni
casaleni diruti, due altre case per uso proprio, una cantina per uso proprio,
altro casaleno diruto, un orticello per uso di casa.
Una massaria nel feudo di Anglona di moggia 500 che si paga la decima
divisa in vari pezzi e confina la chiesa cattedrale, oratorio, canonico Mellis,
Carlo Guida, sig. Panevino, Mensa vescovile, sig. Brancalasso alla contrada
Macchia e Piano di Mezzo. Altro comprensorio di terra in contrada del Golfo
decimale alla Mensa vescovile. Altro pezzo di terra di moggia 10 confina con
canonico Mellis e fiume Agri e Chiesa cattedrale. Altro comprensorio di terra
di moggia 100 in circa boscoso. Altro pezzo di terra in contrada Piano di
Mezzo. Altro pezzo di terra di moggia 70 in circa diviso in'due confina con il
Conservatorio, Gio Battista Giordano e col magnifico Brancalasso sogliono
seminare ogni anno nelle suddette terre ett. 300 di grano e 60 di biade, ,
fruttano ducati. 80. Altra massaria divisa in vari comprensori franchi e
decimali in diverse contrade e sono li seguenti con comprensorio di terra di
moggia 400 in contrada della Valle di Apuzzo. Altro pezzo di terra nel feudo
di Anglona franco di moggia 19, altro di terra franco nell'istesso feudo. Altro
sopra il Petto di Anglona, franco di moggia 45.
Altro in contrada della Valle di Agosto franco di moggia 4. Altro di moggia 20. Altro
franco in contrada della Marina di moggia 60. Altro in contrada della Valle di Gio:
franco di moggia 18. Altro di due moggia e mezzo nell'istessa contrada. Altro in
contrada delle Filici franco. Altro in contrada del Pantanello di moggia 22 franco.
Altro in contrada delli Filici redditizio a decima alla Mensa Vescovile. Altro in
contrada della Canala che frutta canini 15. Altro in contrada delle Serre e proprio a
tre Fontane e Gnuttileo diviso in quattro pezzi franco di moggia 180 frutta docati 25.
Nelli quali terreni di questa massaria sogliono seminare ett. 130 di grano e legumi,
fruttano ducati 24. Di più due pezzi di una massaria nel feudo di Sant'Arcangelo in
contrada di San Vrancato che fruttano annui docati 15. Altro pezzo di terra nel feudo
di Anglona nella contrada del Pantanello detto la casa di Tata che frutta carlini 35.
Altro in contrada del Campo che frutta carlini 30. Altro alla fontana S. Angiolo frutta
carlini 60. Altro in contrada delli Bruchi frutta carlini 25. Altro pezzo di moggia 4
frutta carlini 4. Altro in contrada del Golfo di moggia 10 decimale. Una vigna in
contrada delle Manche frutta carlini 25. Da Gennaro Mastrocola per censo enfiteutico
carlini 35.
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Un oliveto dato a seminare a Giuseppe Gentile e Filippo Ferrara per annui, carlini 40, e
dalle olive che fruttano canini 40. Altro oliveto dato a Filippo Cuccarese che frutta annui
carlini 3. Tengono impignati in negozio di filato docati 300 fruttano annui docati 30. Da
Antonia Simone esigge annui carlini 45.
Da Angelo Pascale carlini 30. Da Gaetano Greco e fratelli carlini 70. Da Filippo Di Pizzo
carlini 5. Da Aurelia Micele carlini 12. Da Gio Putignano carlini 2. Nella massaria di Capo
tengono bovini 29 nell'altra massaria bovini 22 per nove aratri. Vacche n. 26 granni e
piccoli. Pecore e capre al numero di 1.000 in circa fruttano ducati 150.
Discusso, resta di annua rendita per ducati 193 sono once 646
Bovi domati n. 51
““
156
Pecore n. 600
““
64
Capre o. 200
““
21
Pecore scigne n. 200
““
21
Rendita da impieghi“ “21 939
Giovanni Bascetta bracciale anni
Lucrezia moglie anni
30
Lazzaro figlio
anni
13
Vincenzo figlio anni
4
Antonia figlia
anni
7
Rosa figlia
anni
4
Chiara figlia
anni
1
40
Industria di Giovanni once 12
( si omettono altre pagine dedicate ad altre famiglie )
CAPITOLO XVI
LA RIVOLUZIONE DEL 1799
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•
•
Nel 1789, con la presa della Bastiglia, ebbe inizio la Rivoluzione Francese
che, nel 1793, avrebbe incarcerato e giustiziato la famiglia reale e, successivamente, avrebbe
portato al potere Napoleone Bonaparte. Alla Francia spettò, dunque, il merito di iniziare il
processo di svecchiamento dell'Europa e gettare le basi per una nuova società. La
Rivoluzione in Francia divampò al grido di: "Libertà, Uguaglianza e Fraternità"
rivendicando l'abolizione del feudalesimo sociale e l'uguaglianza tra nobili e plebei. Dalla
Francia dilagò nella nostra Penisola, trovando nel Regno di Napoli spiriti pronti ad
accoglierla. Infatti, nel 1793 veniva fondata a Napoli la "Società patriottica" con tendenze
repubblicane e Andrea Vitaliano apriva un club intitolato "Repubblica o morte" .
Nel 1794 venne scoperta una congiura contro i Borboni, formata da
appartenenti a società di tendenze repubblicane e vennero processati 50 cospiratori di cui
tre, Andrea e Vincenzo Vitaliano ed Emanuele De Meo, furono impiccati, mentre gli altri
vennero esiliati, nonostante la difesa del grande penalista lucano Mario Pagano.
Pur con questa reazione, nel 1798 il generale francese Championet entrava
in Roma e vi instaurava la Repubblica Romana, mentre il pontefice Pio VI andava a morire
a Valenza. Intanto Ferdinando IV, movendo da Napoli, il 27 novembre dello stesso anno,
entrò in Roma. Championet non disperò, riordinate le sue forze, assalì le truppe borboniche
e le sconfisse, costringendo Ferdinando IV con la famiglia a ritirarsi in Sicilia, mentre egli il
13 gennaio 1799 entrava in Napoli e vi proclamava la gloriosa Repubblica Partenopea. A
capo del governo provvisorio fu Mario Pagano. I paesi del Regno delle due Sicilie, allora, si
divisero in due fazioni: da una parte i nobili e la maggioranza del clero parteggiavano per la
Monarchia, quindi con Ferdinando IV e le antiche istituzioni, dall'altra parte i contadini, la
media borghesia e le classi meno abbienti per la Repubblica.
• In quasi tutta la Basilicata scoppiarono sommosse per la spartizione
delle terre feudali. A Miglionico il popolo invase la difesa di San Vito.
Anche Tursi fu scossa dai moti rivoluzionari, di cui furono promotori
Ferdinando Saraceno e Domenico Mesola, che con i popolani tentarono
di uccidere il Marchese Giulio Cesare Donnaperna, il quale riuscì a
riparare in Colobraro il 9-2- 1799. Il giorno seguente a Tursi venne
costituita la Municipalità Repubblicana a cui aderirono le masse
contadine e in località Sant'Anna fu impiantato l'albero della libertà.
Intanto, l'8 febbraio il Cardinale Ruffo iniziò la sua lunga marcia,
sbarcando in Calabria, per riconquistare il regno di Napoli a Ferdinando
IV. Il 29 aprile transitò con le sue truppe per Policoro ed il 6 maggio
entrò in Matera da dove si preparava ad assediare Altamura. Alla difesa
di Altamura vi erano due eroi lucani: il generale Felice Mastrangelo di
Montalbano Ionico ed il prete Nicola Palomba di Avigliano. Non solo il
Cardinale Ruffo contribuì alla riconquista del Regno al Sovrano
borbonico, ma anche famosi briganti quali: Frà Diavolo, Mammone (da
quest'ultimo deriverebbe il "Mamone" figura popolare, che spaventa e
turba i sonni dei bambini) etc.
• Caduta Altamura, molti paesi ritornarono al vecchio Sovrano, mentre
altri, come: Grottole, Pescopagano, Muro, Potenza, Avigliano, che non
vollero piegarsi, furono successivamente domati. Anche Tursi si
sottomise al re Ferdinando, ma furono imprigionati i cospiratori
principali: Ferdinando Saraceno e Domenico Mesola.
•
•
Alla stessa maniera il Re si comportò verso tutti gli altri suoi nemici. Difatti fece
imprigionare 8.000 persone, delle quali 920 condannò a morte, 222 alla galera a
vita, 322 a molti anni di carcere, 288 alla deportazione e 67 all'esilio, mentre le
rimanenti furono liberate, dopo avergli giurato fedeltà. Tra gli impiccati figurano
i lucani: Niccolò Carlomagno di Lauria, Felice Mastrangelo di Montalbano Ionico,
Niccolò Fiorentino di Pomarico, Michele Granata prete di Rionero, Cristoforo
Grossi di Lagonegro e l'illustre Mario Pagano. Il Pedìo prova che i "Rei di Stato"
in Lucania furono 1307, di cui molti erano frati e preti.
Durante la Repubblica Napoletana, si provvide ad una nuova ripartizione delle
provincie con la creazione di 11 Dipartimenti. Il dipartimento della Basilicata fu
detto "del Bradano" con sede in Matera. Da questo dipendevano i Cantoni o
Distretti di Altamura, Bisceglie, Molfetta, Trani, Barletta, Montepeloso, Potenza,
Marsiconuovo, Montemurro, Stigliano e Pisticci. Invece i paesi alla destra
dell'Agri con i Cantoni di Tursi, Castelsaraceno, Latronico e Lauria venivano
aggregati al Dipartimento "del Crati" con capitale in Cosenza(6).
Il Cantone di Tursi comprendeva: Anglona, Bollita, Policoro, Colobraro, Favale,
Poliano, Rotonda, Rotondella, Santa Maria, San Giorgio Lucano, Cersosimo,
Casalnuovo, San Costantino Albanese, Oriolo, Farneta, Castroregio, San Lorenzo
Bellizzi, Albidona, Montegiordano, Canna, Le Cesine (casale di Rocca Imperiale),
Rocca Imperiale.
Antonio Nigro, Memoria topografica istorica sulla città di Tursi e
sull’antica Pandosia di Heraclea oggi Anglona
•
SULLO STATO PRESENTE DELLA CITTÀ CON QUALCHE RIFLESSIONE SULLA SUA
FONDAZIONE
•
La Città di Tursi non presenta altro più certo documento di sua antichità, che le sue medesime
fabbriche, e molte anticaglie, mancandovi per la barbarie de' trasandati calamitosi tempi le
iscrizioni, e le medaglie e monete, infallibili attestati della certezza de' fatti.
Si è dessa sul pendio e straripevole declivio di un burrone di uno di quegli Appennini, che quasi
terminano la Lucania verso il mar Jonio al grado 40 minuti 20 di latitudine settentrionale, ed al
grado 34 in circa di longitudine.
Riguarda verso l'oriente, l'antica, rinomata, e distrutta Pandosia di Eraclea, o sia Anglona,
lontana quattro miglia. E distante circa due miglia dal fiume Sinni, Siris in latino, verso
mezzogiorno, e dall'Acri, Aciris, verso borea, altrettanto, due fiumi principali del Regno,
navigabili un tempo, secondo Strabone: Duo amnes navigabiles, Aciris, et Siris (STRAB., LIB.
VI) e circa dodici miglia dal Jonio nella direzione di Eraclea, oggi Policoro. Un torrente le
scorre a piedi verso l'austro, secco di està, gonfio nelle pioggie.
È sentimento di Giovanni Botero Benese nel suo libro Della ragion di Stato (PAG. 334), che per
fare una Città grande giova assai la commodità del sito, la fecondità del terreno, e la facilità
della condotta, la quale ci viene prestata parte dalla terra, s'ella è piana, parte dalle acque se
sono navigabili.
Mancano alla nostra Città la prima e la terza qualità, quantunque abbia la seconda, purché la
stagione colle feconde pioggie corrisponda, per cui il di lei sito è poco gradevole all'estero
spettatore; non però in tutta la sua estensione, mentre la parte superiore detta Rabatana tiene
un esteso e dilettevole orizzonte. Essa riguarda da una parte l'oriente, e con le altre l'occidente
estivo, il mezzogiorno, ed anche nella sua parte superiore il settentrione.
•
•
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•
•
•
Un lungo ed erto selciato la unisce al corpo della Città, assai forte ed
inespugnabile, dove correva a cercarvi sicurezza gente straniera ne' torbidi tempi
delle guerre civili; oggi è tutto diruto, ma se ne osservano i maravigliosi avvanzi.
È veramente uno spettacolo di lagrimevole considerazione degno, quello che le
sue estese fabbriche rappresentano, oggi dirute ed in buona parte rovinate, e che
attualmente van scoscendendo specialmente dietro le copiose pioggie.
Da scritture autentiche si rileva essere stata una città molto popolata.
Si numeravano 1.799 fuochi, che corrispondevano ad 8.550 anime incirca nel
1416 quali fuochi erano tanti capi di famiglia istituiti da Alfonso V d'Aragona
primo re di Napoli Aragonese adottato dalla Regina Giovanna Il. Ma di poi un
tal numero si è andato da tempo in tempo scemando fino a ridursi nel 1728 a
fuochi 380. Oggi sono anime circa 4.000.
Se Tursi ne' secoli passati superava le altre città, e paesi della Lucania nel
numero de' cittadini, li superava ancora nelle ricchezze, non ritrovandosi in essa
che pochissimi proletari, e capite censi; il commodo poi portava al libertinaggio
ed alla dissolutezza, qual maniera di vivere fu poi ridotta alla buona morale,
mercé la fondazione della Congregazione dell'Oratorio di San Filippo Neri, come
si dirà in appresso.
Dentro e fuori della città gran quantità di grotte si osservano incavate in una
certa terra arenosa, ma indurita, e che nelle piogge facilmente scoscende, e di cui
tutta la collina dove sta la città fondata vien formata.
• Tali luoghi altri non erano che sirti, in tempo che dalle acque del mare
ingombrati restarono per qualche secolo dopo il diluvio universale,
siccome chiaramente lo dimostrano gli strati orizzontali di conchiglie
marine e di pietruzze, che nelle di loro viscere si ritrovano nello scavarsi le
dette grotte; avendo le nostre contrade alzato il capo dalle acque del mare,
dentro cui erano state sommerse più secoli dopo il diluvio, allorché o per
terremoto, o per urto delle acque stesse, o per altra cagione a noi ignota, il
passo si aprirono tra i monti di Abilo e Calpe, e si scaricarono nell'oceano.
(Ved. MONSIGNOR PASSERI PART. 2 IST. DE FOSTIL.)
• La facilità d'incavarsi le grotte in detti banchi di arena per uso di
abitazioni di uomini, e di animali ancora, e di cantine, forse il motivo sarà
stato che gli abitatori indusse di quei tempi a dilatare la città in luogo
straripevole, e di poco gusto al secolo presente, sebbene avrebbero potuto
in luoghi più eminenti e vistosi distendersi e dilatarsi.
• Ma quanto facili sono state dette grotte ad incavarsi, altrettanto
facilissime sono a rovinarsi nelle dirotte pioggie.
• Più plausibile però mi sembra questa ragione: come congetturavasi Tursi
fondato ne' tempi delle barbare invasioni, non è maraviglia se non
cercarono sito dilettevole alla vista con vagheggiar la natura e nei mari, e
ne' fiumi, e ne' fonti, e nelle selve, e negli albori, e piante tutte, ma bensì
badarono alla sicurezza de' beni e della vita, da preferirsi a qualunque
gusto de' sensi, e specialmente degli occhi.
È divisa l'intiera città in tre Parrocchie, cioè Cattedrale, Collegiata insigne, e S.
Michele Arcangelo, divisione antica e necessaria per la posizione della città. Il Duomo
o la Cattedrale è di un disegno di buon gusto, e gradevole alla vista.
Essa è in forma di una maestosa croce latina, con tre porte nella facciata maggiore,
che l'occidente riguarda, e vi si osserva un gran Campanile fatto a spese di Monsignor
Sabbatino nel 1718, come apparisce dalla seguente lapidare iscrizione situazione
sotto un finestrone dello stesso: La Rabatana, porzione di Tursi oggi esistente, fu così
detta perché dagli Arabi o Saraceni abitata, ma non già fondata, e da' medesimi
tenuta come un luogo di ritiro dopo le scorrerie che per più anni esercitarono nelle
nostre contrade; ma di poi da' Longobardi scacciati, lasciarono in varie parti del
Regno colla terribile memoria delle loro rapine anche il di loro originario nome, come
di Rabatello ad un borgo di Girgenti in Sicilia, di Rabata oggi Aureta ad un borgo
settentrionale di Tricario, di Rabatana al nostro castello.
Essa sta situata sopra la collina dal castello soprastata, nel di cui pendio di quà e di
là fino ai sottoposto canale ossia torrente, il corpo della città risiede, in maniera tale
però che la
• Rabatana riman divisa dal detto corpo della Città, sembrando un paese distinto;
ed una prospettiva dilettevole del Mar Jonio, de' fiumi Sinni, ed Acrie
vagheggia; e questa , di campagne verdeggianti, di vigneti, ed albori di
varie sorti, di piante, e di alcuni paesi gode a proporzione che dalla cima
della collina nella sottoposta valle si cala vien da vicine colline, che d'intorno
intorno fan corona limitata e circoscritta.
• Varie contrade della Città prima erano abitate e fino al 1785 e qualche anno dopo,
ma oggi son dirute e disabitate, e si vedono le sole grotte desolate, ed alcuni
orticelli.
• Sulla cima, siccome si è detto, ne' secoli trasandati il castello signoreggiava: oggi
si osserva tutto rovinato. Esso ne' secoli passati dell'accanimento delle guerre
civili i cittadini da tutte le parti difendeva dagli insulti e da' mal talenti di oste
nemica; anzi servì di ricovero a' miserabili cittadini d'Anglona con i loro beni, in
tempo che invasi furono nell'undecimo secolo da gente facinorosa e di misfatti
piena, come da un diploma della Regina Giovanna 1 apparisce, in data de' 30
luglio 1369. Ma di ciò se ne parlerà in appresso.
• All'Occidente del Castello una cappellania semidiruta osservasi, detta il Calvario.
In essa si adoravano cinque croci, come ancora nell'istesso tempo accanto della
Cattedrale, inalberate nel 1746 a 27 Gennajo da alcuni PP. Missionari di San
Giorgio de' Cocchieri de' Pii Operai di Napoli, che al numero di dieci vennero in
Tursi per far la Missione; sette dei quali predicarono nella Cattedrale, e tre nella
Rabatana, che abitarono in casa de' Signori Donnaperna dei Marchesi, Baroni
allora, di Colobraro, e si chiamavano D. Biase Taglialatela, D. Filippo di Biasio,
D. Emmanuele Pansuti.
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Essi accompagnati da' PP. di S. Francesco di Assisi processionalmente si
portarono col canto: Vexilia Regis procedunt, in detta Cappella. Ivi giunti si
predicò con molto zelo e carità dal P. D. Emmanuele; quindi benedetta la prima
croce, s'intonò dal fratello Nicola Jaccarino de' detti Pii Operari la seguente
canzoncina:
Io ti adoro o S. Croce
duro letto del Signore,
io ti adoro con il cuore,
ti saluto colla voce,
io ti adoro o S. Croce.
I terreni di ogni prodotto capaci sono, come di grano, biade, legumi,
vino, olive, frutti di ogni genere, agrumi di varie sorti, ortaggi, e
specialmente bambagia, essendo stata questa l'unica industria, filata
dalle donne per vivere, e quasi l'unico mezzo di rendita ad accrescere le
sostanze delle famiglie civili. Il Governo vi teneva un regio procaccio per
vetturare continuamente nella Capitale rolli di cottone filato, il quale fu poi
levato da Gioacchino Murat in tempo della sua occupazione militare nel 1811.
L'ordine plebeo è addetto chi alla zappa, e chi all'aratro, e chi alla coltura de'
giardini: non vi sono mancati de' buoni sartori, falegnami, calzolai, pittori,
vasai, ecc. Oggi tutto è in decadimento, ed in scarsezza. Le donne sono addette
a continuamente filare` bambagia, che in tempo del procaccio si mandava così
filata nella capitale; oggi perchè un tal negozio è decaduto, se ne formano tele
di varia larghezza, e coperte da letto di vario lavoro; le quali manifatture poi a'
mercatanti si vendono, che spesso spesso in traccia ne vanno.
•
CONGETTURE CIRCA LA FONDAZIONE DI TURSI
•
È cosa malagevole assai l'origine rinvenire degli avvenimenti antichi,
specialmente delle Città: esempio ne sono la maggior parte dei paesi del Mondo,
il di cui principio per lo più suol favoloso raccontarsi. Se leggeremo le istorie,
ritroveremo che presso di esse non si fa di Tursi menzione prima del 969 nella
legazione appunto di Luitprando Vescovo di Cremona in Costantinopoli nella
Corte di Niceforo Foca, giusta il Baronio, nel sudetto anno mandato da Ottone
Imperatore di Occidente a richiedere in isposa per suo figlio Ottone III Adelaide
Teofania, figlia di Romano suo predecessore.
Ma questo l'antichità de' paesi non deroga, mentre leggiamo appresso il Salmon
(T0M. 18) che la Città di Chieri nell'alta Italia, quantunque antichissima, pure
però la prima volta che dagli storici rammentata si trova si è nel 1152 allorché
Federico Barbarossa a sacco e fuoco la pose. Varj e diversi sono i sentimenti degli
storici circa la fondazione di Tursi. Il Barone Antonini dice d'ignorare la sua
antichità, dagli stessi naturali sconosciuta (LUCAN., PAG.405). Il Padre Troyli
la vuole dal decadimento di Pandosia, e che in progresso di tempo poi venisse
abitata da' Saraceni, o siano Arabi, i quali lasciarono il loro nome ad una
contrada della Città detta Rabatana, o sia Arabatana. Ma se essa fosse stata
fondata dopo il decadimento di Pandosia, sarebbe stata una Città idolatra,
com'era Pandosia, che fu edificata dagli Enotrj, circa otto secoli prima di Roma,
e fu, secondo alcuni, distrutta nella guerra sociale negli anni di Roma 659, prima
di Cristo anni 97 (FL0R0, PAG. 99) essendo Consoli Lucio Mario Filippo, e Sesto
Giulio Cesare; secoli tutti d'idolatria, e privi della luce evangelica, per cui il culto
e la religione idolatra di Pandosia si sarebbe trasfusa anche in Tursi nella sua
fondazione.
•
•
•
Ma di ciò non vi è tradizione alcuna, né vi sono monumenti di templi, statue, o
medaglie che indicassero un culto idolatro. Piuttosto possiamo dire, che dal
decadimento di Pandosia idolatra sia nata Anglona Cristiana, che ebbe ne' primi
secoli della Chiesa l'onore della Cattedra Vescovile, o da S. Pietro allorché venne
in Italia, o da qualche suo discepolo, e che poi da Anglona incendiata da una
centuria di gente facinorosa, al dir dell' Ughelli, in tempo della Regina di Napoli
Giovanna I, si sia ingrandita la popolazione di Tursi oggi esistente, in cui come
luogo ben fortificato concorsero a rifugiarsi con i loro beni quei miseri cittadini di
Anglona.
Lorenzo Giustiniani crede che i Saraceni fossero stati i suoi fondatori nel suo
Dizionario Geografico Ragionato del Regno di Napoli, al di cui parere si appigliò
Monsignor Carlo Gagliardi Vescovo di Muro, nella sua continuazione al Salmon
(T0M.23, PAG. 24) essendo lo stesso l'autore de' Ragionamenti sul pieno dominio
della Regal Mensa Vescovile di Anglona e Tursi sul feudo di Anglona, (PART. 1, N.
126 E 127, PAG.97). Ma una tal credenza non è conforme alla cronologia,
all'osservazione, ed alla ragione. Alla prima perché i Saraceni cominciarono ad
infestare il nostro Regno non prima del nono secolo, e Tursi in tal tempo fu
dichiarata Città Vescovile dal Patriarca di Costantinopoli; dunque esisteva. Alla
seconda, perché nelle campagne di Tursi si ritrovano molti scheletri umani
interrati, segno che esisteva prima del nono secolo, mentre si cominciò ad
abbandonare un tal uso fin dal secolo di S. Gregorio Magno, che visse regolando
la Chiesa fino al 604, ed a poco a poco, al dir del Panvinio, restituita la pace alla
Chiesa, si passò a dar la sepoltura a' cristiani vicino a' tempj.
• Pace Ecclesiae data intra urbes ad templorum limina, postea in templis
ipsis sepeliti mos invaluit. sepul. mort. e questo costume invalse per tutti
nel nono secolo, donec tandem, ci assicura il Cavallare, saeculo nono, et
deinceps mos receptus ut cadavera omnia in ecclesiis humarentur (INST.
JUR. CANON., CAP. 28, §2) in nota. Alla terza finalmente, perché fu
costume antico della Chiesa di dare i Vescovi ai luoghi popolosi:
Episcopalia gubernacula nonnisi in majoribus populis, et frequentioribus
civitatibus praesidere oportet, ne honor sui numerositate vilescat (LEON.
PAP., DE PRIVIL. EPISC.), ed altrove si legge: Episcopos non in
castellis aut modicis civitatibus atque villis debere constitui (C. EPIC. 80
DIST.). Chiaro quindi si scorge che Tursi nel nono, o decimo secolo era
talmente numeroso di popolo che vi fu costituita la Cattedra Vescovile
dal Patriarca di Costantinopoli: dunque esisteva non come un villaggio,
ma come Città rispettabile. Ecco le parole del Luitprando presso gli
Annali del Baronio (anno 968): Scripsititaque Polientus
CostantinopolitanusPatriarchaprivilegium Hydruntino Episcopo, quatenus
sua auctoritate abeat Episcopos consecrandi in Acirentula, Turcici (Tursi),
Gravina, Maceria (Matera). Ecco Tursi Città Vescovile nel X secolo; come
dunque si asserisce nascente in tale epoca?
•
•
Resterà dunque la primiera fondazione di Tursi fra le caligini de' secoli trasandati
involta? Or mancandoci la manifesta conoscenza di sua origine, bisogna ricorrere
alle congetture, che giudiziosamente adattate alle circostanze del dubbio di rado
o mai ingannano.
È certo, dunque, per evidenza fisica che Tursi ebbe il suo principio da un forte
castello naturalmente sicuro per le profonde rupi che lo circondano: ma i castelli
servivano di asilo, e sicurezza de' beni e della vita di gente malsicura. Fino al
tempo di Costantino il Grande, l'impero romano visse tranquillo né temeva
insulto di barbare e nemiche nazioni, e ciascuno vivea sicuro sotto i patrii lari;
perciò non vi era bisogno di castelli e luoghi fortificati. Se consideriamo i Romani
medesimi, essi per l'ambizione di distendere i confini dell'Impero e per spirito di
vendetta, piuttosto distruttori, che edificatori di Città erano: lo dicono tante
famose repubbliche della Magna Grecia, divorata, per così dire, dalle aquile
romane. Quindi possiamo congetturare che avendo Costantino diviso in quattro
parti l'Impero, ed avendone il governo affidato a quattro principali personaggi
detti Prefetti del Pretorio, ed essendo rimaste le frontiere dell'Impero senza la
custodia delle militari legioni, l'affare mutò faccia, e si diede occasione ad alcune
barbare, feroci, e settentrionali nazioni tratto tratto d'introdursi nell'Italia, ed a
poco a poco nel nostro regno, e tra le nostre fonde Provincje. Ed allettate dalla
fertilità del suolo e dalla clemenza dell'aria, vi si stabilirono, e cominciarono
verso la fine del quarto secolo, e quindi per più anni anzi secoli dopo a renderla
un miserabile teatro di rapina e di stragi. Fra le varie suddette barbare nazioni, i
Goti furono i primi ad aprirsi il sentiero d'Italia, che alle loro invasioni esposta
rimase per qualche tempo.
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Da questi Goti appunto, che la terza volta vennero in Italia sotto Odoacre nel
475 di Cristo, possiam congetturare avesse avuto il suo principio Tursi, mentre
allora vi posero stanza e Regno. Essi dovettero edificare prima il castello per loro
rifugio e sicurezza, e quindi di mano in mano originarsi il paese ed ingrandirsi di
fabbriche e popolo, per l'ulteriore venuta di altri popoli stranieri. Infatti
sappiamo dall'istoria che detti Goti non solamente occuparono luoghi fortificati
nel Regno, come tra essi fu Stigliano, siccome l'attesta Antonino nella sua
Lucania, ma vi fondarono benanche Città. Non vi era ancora in quel tempo l'uso
della polvere nitrata, altrimenti non avrebbero i barbari sottoposto al loro
dominio i bellicosi popoli della Magna Grecia. Essa polvere fu la prima volta
conosciuta presso i Greci nel 655 sotto l'impero di Costantino Bogonato, allorché
un certo Callinio Egizio fuggendo dalla saracenica tirannia, che occupava
l'Egitto rifuggiossi in Costantinopoli, dai quali Saraceni avea imparato l'uso della
polvere nitrata, la cui conoscenza passò dopo dagli Egizi a' Greci, da' Greci ai
Latini. L'uso poi di sparare colle palle non si legge nelle nostre storie prima del
1344 nell'espugnazione di Algozira in Mauritania.
(Ved. SARNEL., LET. ECCL., TOM.4, PAG.70, LET.55 - N.5 E 6.)
Attestano la mia congettura l'osservarsi fabbriche, ed archi di case e di chiesa i
più antichi formati sul sistema gotico. La polvere nitrata mentre usavasi in tal
epoca Tursi era divenuto paese popoloso, e propriamente nel 1152, allorché sotto
la monarchia di Federico Barbarossa Duca di Svevia insorsero atrocissime
guerre, che memorabile un tal secolo resero, tra imperadori e pontefici per
tumulti degli antipapi e per le diversioni de' Normanni, e per le pretenzioni tra
popolo e popolo fino a vedersi vendicare le ingiurie colle armi alla mano, e per gli
attacchi sanguinosi di gente fuoriscita e ribelle.
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Or non potendosi far rimontare l'origine di Tursi né a' secoli d'idolatria, per non
esser mai stata città idolatra; né a' tempi della monarchia romana, mentre i
Romani ed in tempo de' Re, ed in tempo de' consoli, ed in tempo del triumvirato,
e delle tre guerre Cartaginesi, nonché in tempo degl'imperadori, avevano molto
che pensare per la sicurezza della monarchia, che fondar paesi.
Quindi congetturando si conchiude: essere stati alcuni popoli della Scandinavia
chiamati Goti, che ritrovando senza difesa le frontiere dell'impero romano, ne
vennero qui tra noi nella terza volta (circa il secolo quarto o quinto) che si
stabilirono, e per loro sicurezza vi edificarono quel castello che oggi ancor si
vede, che divenne poi per le misere vicende del regno e de' paesi ingrandito, e
successivamente popolato, fino a divenire una città rispettabile del regno.
Inoltre vennero i Goti da nemici, e come nemici dovettero mettersi in sicuro la
vita ed i beni; e quindi fabbricarono un castello, i di cui avvanzi ancora
presentemente si osservano pensili su i greppi di cupa valle, circondata d'intorno
intorno da profondi dirupi, che inespugnabile si rendeva a qualunque asta
nemica, e che prese il nome di terra del Turcico, forse dal suo fondatore chiamato
Turcico. Da lui si disse poi Tursico, e finalmente Tursi.
Le ulteriori poi invasioni degli Unni, de' Vandali, degli Eruli, de' Longobardi
concorsero all'ingrandimento della novella fortezza, che divenne paese talmente
fortificato, che si rese l'asilo di que' abitatori de' paesi resi impotenti a difendersi,
e quindi ad fortellitia vicinarum terrarum cum corum bonis accesserunt; e così
mentre nel cominciar del secolo decimo terzo cioè nel 1207 le guerre civili
facevano strage tra i popoli del Regno di Napoli, fino ad abbattere paesi, Tursi
stava sicuro, e la sicurezza formava de' circonvicini popoli. Cita queste guerre
civili il Chioccarelli (F. 144), Cum enim 1207 in Regno hoc Neapolitano bella
vigerent, atque civilia arma effervescerent, armata militum civitatesfunditus
destruxerunt.
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Da quanto si è detto agevolmente si conosce la cagione dell'incremento di Tursi,
che da un castello fra lo giro di pochi secoli giunse ad esser città ben numerosa di
popolo. Concorse ancora in questi ultimi secoli al suo ingrandimento la
distruzione di Anglona e de' Vescovi pro tempore (20), incendiata ne' tempi di
Giovanna I Regina di Napoli, siccome si rileva da una lettera della medesima in
data del giorno penultimo di luglio 1369 fatta a richiesta del Vescovo di allora
Filippo, Primicerio della Cattedrale di Salerno, che cercò alla Regina la
riedificazione di Anglona, incendiata nel turbine delle guerre civili, tempo in cui
le campagne venivano ingombrate da gente depravata; per cui i cittadini di
Anglona dispersi stavano nelle fortezze vicine: turbine temporis retrolapsi, ac etiam
invasione pravae campanae (compagnia depravata) quae dictum casale combussit
(cioè Anglona) damnaque plurima intulit eidem, enormiter destructum estitit, et
partim ab ipso casali Vassalli ipsius Ecclesiae recesserunt, et ad fortillitia vicinarum
terra rum (cioè Tursi) cum esrum bonis omnibus accesserunt, et in iisdem terris
vicinis traxerunt, trahunt suum proprium incolatum; ecco le parole della suddetta
lettera, e prima della Regina Giovanna I anche l'Imperadore Federico 11 nel 1227
a 21 Aprile concedè al Vescovo di Angiona Guglielmo tutti gli uomini anglonesi,
che erano domiciliati in castris Tursii, et S. Archangeli.
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ANELLI DI FERRO, VULGO BOCCOLE, IN UN MURO DELLA PIAZZA
DI TURSI.
Si osservano nella piazza di Tursi due grosse boccole di ferro conficcate in un
muro. Oggi ve ne è una solamente. Furono esse credute documenti di franchigia
da' dazi baronali aboliti in favore de' cittadini di Altamura, e Trecchiana, creduti
originari della distrutta Anglona. Falsa credenza era questa, sì perchè gli
Altamurani e Trecchianesi hanno differenti la loro origine, come si ha dagli
storici, e sì perché si conosce l'uso di dette boccole di ferro dall'art.6 delle
Capitolazioni e Statuti de' Baglivi della Città di Tursi nell'anno 1519 in tempo del
governo di Carlo V, nipote di Ferdinando il Cattolico, essendo padrone di Tursi
Ferdinando Sanseverino d'Aragona, Principe di Salerno, e Duca di Villa
Formosa, e signore di Eboli, confinnato in Salerno a 27 Gennaio 1531. Ecco le
parole del detto articolo:
È statuto ed ordinato ut supra, che se alcuno fosse ritrovato dannificando alle vigne,
giardini, ed altre possessioni degli uomini di Tursi, cogliendo frutti, fogliame,
incontanente si debba notificare ed accusare all'ufficiale di detta Città, e per suo
comandamento si debba pigliare dal dannificante; se la pena pare e piace e costi del
maleficio, detto ufficiale comanda che detto malfattore sia castigato per tutta la terra
di Tursi con la cosa rubata, ovvero si debba punire colla boccola dove stia un giorno,
ovvero si compensa un augustale, senza remissione alcuna; la quale pena si debba
dividere due all'ufficiale della terra, e la terza parte al padrone dannficato, ovvero si
emenda a sua elezione, ed intenzione sia ceduto la prigione cumjuramento se sia
uomo di buona fama e coscienza, e che non porti odio al malfattore.
Saremmo giunti al porto dopo una tenebrosa navigazione, ma valicar ci resta un
mare di sirti e scogli ripieno.
20) Nell'undecimo secolo incominciarono i feudi sotto i Normanni, che
impadronitisi del regno ed avendo fatto molti acquisti, acciocché non sorgesse
alcuna discordia tra loro, pensarono dividere le terre e le città conquistate, con la
condizione che ciascuno l'avesse con le proprie leggi governate qual padrone di
essi luoghi assumendosi il titolo di Conte e di Duca, nel che si consigliarono col
saggio Guaimero Principe di Salerno e con Rainulfo conte di Aversa, avendo
convocata un'assemblea in Melfi, secondo Rostiense (Lrn. 2, CAP. 63), e secondo il
Tassone (DE ANTEF., VERS. 3, OSSER. 4, R. 3) erano tanti Regoli i Baroni:
postquam omnes regiones Regni in possessione Normandorum pervenere .... Dei
gratia Duces, et Contes titulabantur. Essi introdussero tanti aggravi tra i cittadini
ed abitanti, costretti a macinare il grano ne' loro mulini, a cuocere il pane ne' loro
forni, a sedare i panni nella loro qualchiera; soggettavano i coltivatori in tempo
delle messe e delle vendemmie a personale servigio, sottoponevano a dazio le
merci che si andavano a vendere in aliena giurisdizione, e quindi i diritti del
passo, della carrozza, della piazza ecc.
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Vuole Strabone nel Libro 6 che due fossero state le Pandosie, l'una de' Bruzj, e l'altra di Eraclea
nella Lucania. Che poi la nostra Angiona sia la Pandosia di Eraclea, è indubitato appresso tutti gli
scrittori d'istorie, siano Greci, siano Latini. Vagliano per tutti due autorità, che della verità da noi
ricercata ci convingono. La prima è di Plutarco, che parlando dell'incontro del Re Pirro con Levino
Console Romano, vuole che l'Epirota Pirro si accampasse tra Eraclea e Pandosia: Castra modico
tempore inter Pandosiam urbem et Eracleam posuit, mentre il Console ultra Sirim amnem (fiume
Sinno) castra posuit; aveva preso i suoi quartieri di là del fiume Sinno, quantunque nell'attaccarsi
l'esercito Romano passò di quà del fiume, e forse in quel piano dove oggi sono i nostri giardini, e
dicesi per antonomasia Campo; ma Anglona appunto è vicina anzi confina con Policoro, senza
dubbio anticamente chiamata Eraclea, Siri, Leutemia, per la di cui campagna scorrono le acque del
fiume Sinno. Dunque la nostra Anglona è la Pandosia di Plutarco, circa quattro miglia distante da
Eraclea.
La seconda poi si ricava da una lamina di bronzo, alta due piedi e mezzo, e larga un piede e mezzo, e
grossa più di un'oncia, resa oggi celebre dal signor Canonico Mazzocchi, a caso da un bifolco trovata
nel fiume della Salandreila, che dopo fu venduta ad un Capitano di nave inglese chiamato Briano
Fairfax; che trasportatala in Londra e tradotta dal signor Maittaire, antiquario e letterato
Brittanico, fu molto gradita ed assai accetta, come un raro monumento di antichità. In essa lamina
da una parte erano caratteri Greci, e dall'altra Romani, che alcune leggi de' medesimi contenevano.
In essa adunque vengono assegnati i campi a Bacco, i quali prima al tempio di Minerva Poliade
appartenevano, compresi nella misura fatta dagli Agrimensori, e descritta in Dialetto Dorico.
Si descrivono per termine tanto Pandosia, quanto il fiume Aciri. Ecco il contenuto di una delle due
tavole di Eraclea, giusta la versione fatta in Inghilterra dal suddetto Maittaire.
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L'altra tavola si conserva nel Museo di Napoli, illustrata colle osservazioni del celebre
antiquario e letterato Alessio Simmaco Mazzocchi, ed eccone il contenuto:
Essendo Eforo Aricardo figliolo di Araclide, correndo il mese Apelleo (ossia Ottobre), la Città e i
Terminatori Ge: Tripode Filonimo figlio di Zopirino, Pe: Carialcio Apollonio di Erodito, Ai:
Scuti, Filota d'istico, Me: Architrave, Eraclide di Zopiro Abano.
Così riportano negli atti i Terminatori eletti sopra i terreni sacri di Bacco, Filonimo di
Zopirino, Apollonio di Eraclito, Dazzimo di Pirro, Filoto D'Istico, Eraclito di Zopiro. Siccome
vollero, stimarono, misurarono e divisero.
Stando gli Eraclesi nel Concilio convocato abbiamo misurato minutamente incominciando dall
'Antomato sù di Pandosia, che conduce e divide i fondi sacri e la propria terra sin sopra
Antomato terminante i Campi di Bacco. Abbiamo fatto quattro parti. La prima dall'Antomato
fino a' sepolcrini: larghezza fino ai trenta piedi, che conduce per ifondi sacri; lunghezza, di sopra
dalle fontane sino al fiume Acri. Ed in questa porzione sono state di terra lavorate pertiche 201 di
terra bianca non rotta, e di bosco pertiche 646e mezzo; nella seconda porzione, larghezza dalli 30
piedi all'Antomato primo, lunghezza dalle fontane sino al fiume. E sono state misurate in questa
parte di terra lavorate pertiche 273 di non rotta, di bosco 500.
La terza parte, larghezza dell'Antomato secondo, lunghezza dalle fontane sino alfiume. E furono
misurate in questa parte di terra lavorata pertiche 312 e mezzo di terra bianca, di non rotta, e di
bosco 537 e mezzo. La quarta parte, larghezza dell 'Antomato , termine della terra sacra, è la
propria larghezza dalle fontane sino al fiume. E furono misurate da questa parte di terra lavorata
pertiche 308 e mezzo, di terra bianca non lavorata e bosco pertiche 541 e mezzo. La somma di tutta
la terra lavorata è pertiche 1.095; di terra bianca non lavorata e bosco è pertiche 2.225.
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L'isola che si formò ivi presso l'abbiamo misurata come terra non lavorata. Della
suddetta terra sono pertiche 303 e mezzo di terra bianca non rotta, e di bosco 435.
Nella prima parte verso i sepolcrini di lavorata 56 pertiche, di bianca, di non
rotta; e di bosco 185.
Nella quarta parte presso le fontane di lavorata pertiche 227 e mezzo: e di non
lavorata e di bosco 250 somma totale della terra che abbiamo riservato a Bosco
pertiche 738 e mezzo.
La suddetta lamina di bronzo era alta due piedi e mezzo, larga un piede e
mezzo, e grossa più di un'oncia. Da una parte contenea una iscrizione
Romana di 75 linee, e dall'altra una Greca descrizione, ossia atto pubblico
della città di Eraclea intorno la divisione di certi terreni (Ved. il continuatore
di SALMON, nel VOL. 23, cp. 8, DELLA BASILICATA, PAG. 227).
Da queste due autorità si conosce incontrastabilmente come ad Anglona ed
Eraclea confine sia l'antica e rinomata Pandosia. Che poi a questa Pandosia
vicino e non in quella dei Bruzi sia stato ucciso Alessandro Re de' Molossi,
due autorità, di Plinio l'una, di Livio l'altra, c'inducono a ciò credere.
Il secondo istorico nel Lib. 8 dice che la Città di Pandosia, ove morì
Alessandro, era situata non in mezzo della Lucania, né in mezzo de' Bruzi,
ma bensì tra confini dell'una e degli altri: Haud procul Pandosia urbe
imminente Lucanis, Brutiisque finibus. Ma la nostra Pandosia è tra i confini
Orientali della Lucania e della Bruzia, e non già la Pandosia de' Bruzi;
dunque nella nostra, e non già in quella de' Bruzj dobbiamo credere sia morto
il celebre Capitano Epirota Alessandro.
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Dippiù egli fu ucciso da' Lucani, i quali promisero di darlo a' di loro concittadini Lucani, e non
già ai Bruzj: ab Lucanis exulibus ad suos nuntios missi sunt; come infatti i Lucani e non i Bruzj
assalirono il quartiere generale d'Alessandro, il quale valorosamente uccise il Capitano de'
Lucani: ipse egregiurn facinus ausus per medios erurnpit hostes, et Ducern Lucanurn quominus
congressus obtruncat. Ciò fu l'anno di Roma 429 Olimpiade 113. Finalmente il Re morì nel
fiume Acheronte, oggi detto Acri, e non nel fiume Campagnano vicino la Pandosia de' Bruzj,
non essendo stato mai chiamato detto fiume Acheronte.
Il primo poi cioè Plinio nel Lib. 3, cap. 2 all'autorità di Teopompo poggiato, dice così:
Pandosiarn Lucanorum urbern fuisse, in qua Alexander Epirota occubuit. Autorità è questa
molto chiara e decisiva a prò del nostro parere. Si vuole ciò essere accaduto nell'anno di Roma
429, prima di Cristo 323.
Ma vaglia per tutti gli addotti motivi la seguente riflessione. Rispose l'oracolo di Giove
Dodaneo ad Alessandro consultante, che si guardasse dalle acque dell'Acheronte, e dalla città
di Pandosia, mentre ivi terminerebbe i suoi fatidici giorni: data dictio erat, caverat Acherusiarn
aquarn, Pandosiamque Ui-bern, ibifatis terrninurn ejus dar (TIT0 Liv., LIB. 8).
Dunque la Pandosia dove Alessandro dovea dar termine alla sua vita, era vicina ad un fiume
chiamato Acheronte; ma la nostra Pandosia de' Lucani, ossia Anglona, è vicina al fiume Acri
detto anticamente Acheronte, le di cui acque irrigano i terreni Pandosiani; dunque nella nostra
de' Lucani, e non in quella de' Bruzi morì il gran Capitano Alessandro d'Epiro. Che poi il fiume
nostro Acri dicevasi anticamente Acheronte, lo contesta la seguente antica lapidare iscrizione:
Nurnini Hercoli Acheruntino
Vitalis C. L. Siridae regionis p. e. clarissimus
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V. 1.5. idest votum libens solvit.
In Eraclea situata nella region Sintide si adorava il Dio Ercole. Esso si chiamava
Ercole Acherontino, non per altro se non pel fiume Acheronte, che bagna le
campagne di Eraclea; e qual altro può esser mai questo fiume se non l'Acri,
essendo l'Eraclea, egualmente che Pandosia, situata tra due fiumi, dei quali uno
Sinno si appella, e l'altro Acri?
Alle sponde del primo si accampò Levino Console Romano, e nel passaggio
dell'altro morì Alessandro Molosso così avvertito dall'oracolo:
Pandosia perdes populum, quandoque trivertex.
E finalmente, come dice lo stesso celebre Romanelli, alle diverse ragioni del
sito di Pandosia si possono aggiungere le parole di Aristotile de mirabilibus.
Egli narrò che in tutta l'Italia si vedevano infiniti monumenti di Ercole per tutte
le vie da lui battute, e che presso di Pandosia nella Japigia si rispettavano ancora
le sue orme, perché non si potevano calcar coi piedi: Circa Japigiae Pandosiam
vestigia ejus apparere, quae neque pedibus calcari licet. Chiara pruova del sito di
Pandosia presso Siri, dove negli antichi tempi si stese la Japigia, e non già nella
regione de' Bruzj verso Cosenza. Ed i Lucani s'impadronirono di Eraclea essendo
Consoli Cajo Potilio, e Lucio Papirio Cursore.
Questa Pandosia così antica e famosa fu distrutta, siccome vogliono alcuni, da
Silla nella guerra sociale, che fu nell'anno 663 di Roma, prima di Cristo 81,
essendo Consoli L. Cesare, e Pub. Rutilio in tempo che furono distrutte altre
famose Città: Ecce Ocriculum, ecce Grumentum, ecce Fesulae, Carscolae, referatae,
Nuceriae, et Picontae, cordibus,ferro, et igne vastantur (HOR. BELL. S0CIAL.,
LIB. 3, CAP. 18). Altri la vogliono distrutta dal gran Cursore Romano L.
Papirio.
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Dalle rovine di Pandosia Repubblica gentile risorse Anglona Cristiana forse da qualche suo
ristoratore, della quale credo che fosse stato cittadino un certo chiamato Burresto di Anglona,
persona molto cara ad Innocenzo IV Papa, che fu ucciso da Manfredi; per cui gli fu spedito contra
l'esercito del Papa, che vinto da Manfredi, pel dolore morì in Napoli a' 7 dicembre 1315 (SUMMON.,
LIB. 5, PAG. 567). Come poi Pandosia avesse pigliato il nome di Anglona, il tutto è tra le caligini de'
secoli. A quest'Anglona fu dato il Vescovo fin dalla nascente Cristiana religione, che presso di noi
cominciò nell'anno 44 di Cristo, allorché Claudio Imperadore scacciò da Roma i Cristiani dal
giudeismo convertiti.
Anno Chris. 44, Claudii vero Imperatoris secundo, et Licinio Largo Coss. Petrus ex Oriente Romam
petens multis discipulis comitatus hic appulit.
S'intende della venuta di S.Pietro. (CARACC., CAP. 3, PARAG. 7, PAG, 62).
Essendo più che certo che tutti quei Vescovadi che erano in Regno prima di quelli di fondazione
Greca erano stati dagli Apostoli eretti, e specialmente da S.Pietro. Manifestum est omnem ltaliam,
Siciliamque non ab alio quam a Petro, ab eo missosfuisse Christi legibus instituto. (INNOC. I)
Primus Petrus in Ponto, Galitia, Cappadocia, Bithinia, Italia praedicans Evangelium, Romae tandem
sub Nerone crucifigitur. (EUMONDO, COMMENT. DI 12 APOST.)
Si vuole di nuovo malridotta da' Goti, che nel 410 occuparono molti luoghi fortificati della Lucania
come tra questi si annovera Stigliano. (ANTONINI, TOM. 1, PAG. 120)
Onde andò di mano in mano decadendo, fino a ridursi in forma di Casale ne' tempi di Federico TI
Imperadore e Re di Sicilia, e detto Casale finì di esistere ne' tempi della Regina di Napoli Giovanna I
, per esser stato incendiato da una centuria facinorosa di Soldati giusta l'Ughelli. È da una lettera
della detta Regina perla riedificazione della distrutta Città d'Anglona in data de' 30 Luglio 1369 si
rileva che Anglona fu bruciata: turbine retrolapsi temporis, ac etiam invasione pravae campanae, quae
dictum Casale (cioè Anglona) combussit.
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Ed i Cittadini andarono raminghi in altri paesi fortificati, essendone venuti in
Tursi ancora molti a domiciliarvi, giusta le parole della stessa lettera;
insinuando la Regina che fossero ritornati a riedificare la propria distrutta
patria Anglona, secondo le istanze fatte dal Vescovo di allora Filippo
Primicerio Salernitano.
Et ad fortilia vicinarum terrarum cum eorum bonis omnibus accesserunt, et in
eisdem terris convicinis traxerunt, et trahunt proprium incolatum.
Le fortezze circonvicine erano Tursi e qualche altro paese, quale era S.
Arcangelo, Chiaromonte, espresso nel Diploma di concessione del feudo di
Anglona a' Vescovi pro tempore, fatta da Federico II. Quot homines habet in
castris Tursii, et S. Arcangeli.
Di una Città prima Gentile sotto la protezione di Apolline, come si ravvisa
nelle sue monete, e poi Cristiana, convertita secondo alcuni da S. Pietro
allorché girò per queste nostre parti predicando l'Evangelo, e vi diede il
Vescovo (altri vogliono da S. Marco allorché passò da Taranto in Reggio per
rinvenirvi l'Apostolo S. Paolo, siccome scrive Giovanni Giovane nella Storia
Tarantina (LIB. 8) appresso il Pacichelli (PARTE II, PAG. 27) altro vestigio
non abbiamo oggi, che la sola Chiesa Cattedrale coll'Episcopio attaccata. Essa
è stata preservata intatta dall'eccidio di quei scellerati aggressori, che nei tempi
della suddetta Regina Giovanna I di Napoli la finirono di bruciare.
Essa è costituita sul sistema Gotico alla semplice, colla porta rivolta verso
l'Occidente, ed un solo altare nel fondo in faccia al muro; e questo indicava
l'unità della Chiesa e del Sacerdozio, come ancora perché una sola Messa in
quei tempi celebravasi; oltrecché un solo altare bastava ancorchè se ne avessero
voluto celebrare più, perché mai più messe si celebravano
contemporaneamente, ma bensì successivamente.
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Sopra detto Altare in una nicchia si adora una statua antichissima sotto il
titolo della Madonna di Anglona. Nella parte di dietro di detta nicchia al di
fuori del Tempio verso il mar Jonio osservasi la forma di una nicchia con
colonnetta di tufo, sù di cui poggiano archi dimozzati, ed avanti alcuni gradini,
forse per indicare al devoto passeggiero il luogo della miracolosa statua della
Vergine, onde poterla ossequiare ed onorare.
Ma porta qui il pregio di esaminare se un tal Tempio fosse stato prima Gentile,
e poi alla nostra religione consacrato, o pure di fondazione Canonica Cristiana.
Onde diciamo che il primo non si può credere, non essendo la sua architettura
sul sistema delle Basiliche de' Gentili.
Possiamo bensì asserire il secondo, osservandosi architettato secondo il
prescritto de' sacri canoni: Aedes sit oblonga ad instar Navis, ad Occidentem
conversa. Così le costituzioni dette Apostoliche (LIB. 2, CAP. 17). La sua
costruzione è sullo stile gotico, alla semplice, con un solo altare senza organo
(gli organi col canto furono ordinati nelle Chiese Cattoliche nel 660 dal Sommo
Pontefice Vitaliano I) e senza coro al di dietro. Il quale altare nel 1821 sotto il
Presulato di D. Arcangelo Gabriele Cela, Vescovo di essa Chiesa, fu edificato
dove oggi si vede dalla pietà e divozione de' fedeli, che in ogni anno da vicini e
lontani paesi vi concorrono con obblazioni ed offerte, in contrassegno di
pubblica religiosa attestazione delle grazie e benefici dalla Vergine ottenuti ne'
loro bisogni e necessità.
Onde in ricordanza di un tal fatto fu fatta una iscrizione della quale
aggiungeremo qui sotto una copia. Essa non più si osserva per trascuraggine di
chi poco ne intendeva l'utile.
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D.O.M.S.
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Lateralmente vi sono due altri altari, aggiunti posteriormente da Monsignor Scondito, la di
cui impresa vi si osserva; un altare nel corno dell'Evangelo dedicato alla nascita della Vergine,
e l'altro verso la parte dell'Epistola alla morte ed assunzione della medesima, vicino l'entrata
della Sagristia. Le navi sono tre, sostenute in una parte da archi gotici, e dall'altra da archi
rotondi; la sua porta maggiore, ossia l'entrata principale è rivolta all'occidente, e tiene verso il
lato boreale un campanile Gotico; il Santuario poi riguarda l'oriente, secondo le costituzioni
Apostoliche, che ordinavano si facessero le Chiese in forma di nave, e rivolto all'oriente il
Santuario: Aedes sit oblonga ad instar navis, ad orientem conversa, essendo stato costume degli
antichi Cristiani pregare colla faccia all'oriente rivolta. Si entra per una porta situata sotto
un arco formato di tufi, con intorno intorno esteriormente tante teste di differenti animali
scolpiti, e sopra vi era un'aquila, spezzata tra il 1806 e 1807 tempi di occupazione militare e di
violenza.
Da questo suo ingresso, giusta il costume de' tempi antichi, si passa ad un portico o vestibolo,
secondo i Greci Nartece, lungo quanto la facciata della chiesa, e quindi si passa alla porta
maggiore del Tempio.
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Hocce Altare majus, quod unicum ex veteri disciplina, hujusce Sacri Templi parieti, a fronte sine
choro adhaerebat, ut Sacerdotii unitatem indicent, ab aliquorum Christi fidelium pietate, et erga
Deiparae Virginis Angionen observantia propriis sumptibus in isto praesenti loco cum Choro retro,
iuxta novam disciplinam, annuente hujusce Anglonensis Ecclesiae Antistite D. Arcangelo
Gabriele Cela aedzficatafuit, mense Juliopost reparationem salutis an. 1851
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La sua fondazione si congettura essere stata tra il VII ed l'VIII secolo, perché essendo stato
sistema Gotico esso in Italia non fu introdotto prima dell'ottavo secolo; ed essendo dedicato
alla nascita di Maria Vergine vi si adora una statua della medesima, ed il culto sacro delle
statue non fu prima del secolo ottavo, in cui si era allontanato ogni sospetto di idolatria;
sebbene fosse data la libertà a' Cristiani fin da' tempi di Costantino, che visse nel quinto secolo
dell'era Cristiana, di fabbricar Chiese e Basiliche magnifiche, mentre prima i Vescovi inter
martyrum tumulos, et monumenta Sacramenta administrabant, concionebanturque, e la festività
della nascita di Maria fosse introdotta nel 466 (CRUSSET, TOM. 2, PAG. 266) tanto presso la
Chiesa Greca che Latina, subito dopo il Concilio Efesino.
Esso Tempio sacro maggiore anticamente era tutto adornato di varie immagini rappresentanti
le storie del Vecchio e Nuovo Testamento, non che altri Santi e Sante, uso introdotto dal
quarto secolo in poi, mentre ne' primi tre secoli e più niente o di rado si costumavano immagini
di Santi nelle Chiese; il che apertamente era stato proibito dal Concilio Illibesitano nel Canone
26: Placuit picturas in Ecclesia esse non debere, ne quod colitur, et adoratur in parietibus
dipingatur.
Ma oggi tutto imbiancato si osserva; solamente vi è rimasta sopra l'altar Maggiore la pittura
del Paradiso con la SS.Vergine dell'augustissima Triade coronata, con di sotto varj cori di
Confessori, di Vergini, di Martiri, e di Angioli.
Sopra detto altare si osserva una finestra rotonda non molto grande, da cui nell'equinozio
autunnale entrano la mattina i raggi della luce subito allo spuntar del Sole. Sotto vi è la
nicchia della Vergine, e la statua è di un legno duro concavo al di dietro, vestita dallo scultore
con abito dello stesso legno indorato.
Oggi per la pietà de' fedeli si veste con abito di seta. Il soffitto è alla Gotica: vi si osserva lunga
serie di travi senza tavolato di sotto.
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La festività è stata fin dalla fondazione del Tempio celebrata agli 8 di Settembre, come si è
detto, concorrendovi anche da Paesi lontani molta gente con offerte alla Vergine, come dalle
seguenti parole del Diploma della Regina Giovanna I:
Casale Angioni in quo aedzficata, et fondata est ipsa mater Ecclesia Angionen, quae Beatae
Virginis Genitricis Mariae vocabulo insignitur, ad quam non solum mares, et feminae ipsius
Diocoesis, immo a longinquis partibus gentes, ad dictam Ecclesiam maxima divotione concurrunt.
Una tal statua fu dedicata alla Nascita della Vergine da un certo Roberto.
Un tal divoto concorso si era impedito in quegli anni infelici di brigantaggio (1806-1807-1808),
fino a racchiudere nella Basilica della Vergine le greggi in tempo d'inverno, riducendola da
Chiesa una mandra. Ma la Vergine mal soffrendo l'irriverenza al suo Santuario, mosse il cuore
di alcuni Tursitani, forse i più deboli, la spazzatura fra gli altri, ad accorrere con devote donne
ad espurgare da quelle immondezze la Chiesa al suo nome dedicata, colla fiducia di ottenere la
pioggia in quel tempo alle inaridite campagne necessaria, e l'esterminio totale de' bruci, che da
più anni avevano le medesime di ogni prodotto rovinate.
Non si andò fallito, poiché nello stesso giorno dell'espurgamento, che fu nel 1814, si ebbe
l'acqua dal Cielo, e nell'anno seguente 1815 non si viddero comparire più locuste. Che però il
divoto concorso, e le pietose offerte dei popoli nel giorno della Nascita della Vergine agli 8 di
Settembre fu ripigliato con molto fervore, e cresciuto nel 1815 con gran concorso di popolo,
numerose oblazioni di Messe cantate e piane, litanie, cere, tovaglie di altare, oro, argento,
ornamenti di donne, nonché armenti votivi.
L'ecclesiastica sacra funzione si celebra dal Capitolo della Cattedrale di Tursi, qual
rappresentante del Capitolo della distrutta Anglona, e vi si recita divota orazione al popolo
concorso in lode della Vergine, ed in fine la processione della statua in quella maniera più
solenne, che le circostanze di una campagna permettono.
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Ma prima di passar oltre convien ricordare per l'integrità della memoria come
l'antico sopraddetto, e descritto altar maggiore, che stava in faccia al muro
fabbricato sotto la nicchia della Vergine immediatamente sottoposto, per
divozione di alcuni Tursitani è stato rifabricato dal muro distaccato con un
piccolo coro dietro, come oggi si osserva; vi è stato però lasciato il primiero
grosso tufo dove stava il primo altare eretto.
Esige il Vescovo di Anglona e Tursi ogni anno l'obbedienza col bacio della mano
degli Arcipreti Cantori e degli Abati della sua Diocesi a 25 Marzo; ne' fasti
Ecclesiastici è dedicato un tal giorno alla Vergine Nunziata, Titolare della Chiesa
Cattedrale di Tursi. Prima della traslazione una tale obbedienza si chiamava agli
8 settembre, giorno titolare della nascita di Maria della Cattedrale di Angiona; e
ciò apparisce dalle seguenti parole ricavate dall'opera del P. Gregorio Lauro nella
vita del B. Giovanni da Caramola di Tolosa (CAP. 5):
Quinto decimo saeculo decurrente vi, et metu proscriptorum hominum de mandato
cujusdam Principis, cujus nomen pro honestate silendum .... qui quosdam ad
torturam, et alios adfurcam ob flagitia damnaret, nihilominus tamen ad haec usque
tempora, singulo quoque anno, in festo Nativitatis Deiparae Virginis, obedientiam
exigit Anglonensis Antistes in Parocho S. Mariae Castro Sicilei.
In questo Santuario si celebra ogni anno un mercato di animali, e di ogni altro
genere necessario agli usi della vita; oggi si fa a' 2 e 3 di Settembre. Una tal
concessione fu confermata dal Re di Napoli Ferdinando I di Aragona a' 21
Settembre del 1468 a richiesta del Vescovo di allora Ludovico Fonobiet, ma da
cominciarsi nella vigilia della festa dedicata alla nascita di Maria Vergine, giorno
solenne in tutta la Cattolica Chiesa, ma specialmente in quella Cattedrale della
distrutta Città di Anglona, e da continuare franco e libero da ogni peso di dogane
per otto giorni in ogni anno, come dal Diploma di detto Monarca:
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Ut ipsa Civitas Angioni, pristinam dignitatem recipiat et instauratur tenore praesentium de certa nostra
scientia indulgamus, quod in dicta Civitate Angioni singulis annis in perpetuum, infesto nativitatis B.
M. Virginis in dicta civitate solemni quolibet anno, incipiendo in vigilia per octo dies ab inde continuos
celebrandae nundinae rerum venalium generales .... quas nundinas praedicto modo futuras francas esse
volumus, et exemptas ab omni onere Dohanae. (Vedi CODICE DIPLOMATICO DI ANGLONA)
Si è detto di sopra che la concessione fu confermata, perché la fiera di Angiona è di tempo più antico
del secolo decimoquinto, rilevandosi da un altro Diploma del Re Roberto in data de' 24 di Luglio
dell'anno 1332, che in quel tempo ancor si celebrava detta fiera.
Ecco le parole del Diploma rispedito a richiesta del Vescovo Riccardo:.... Praedecessores vestri .... ad
Civitatem praedictam (parlando di Anglona), tempore Nundinarum, quae ibi singulis annis celebrantur.
Segue dunque evidentissimo che la fiera di Anglona è antichissima, e prima del XIV secolo e da più
reali Diplomi convalidata.
Varj sono stati degli autori i sentimenti circa l'origine delle fiere, dette in latino Nundinae; tutti però
convengono che instituton ne furono i Romani.
Dicono alcuni che furono introdotte da Romolo allorché accumunossi nel Regno con Tito Tazio Re de'
Sabini, avendo stabilito sacnifizj e mercati in memoria di ciò. Cassio l'attribuisce a Servio Tullio anche
Re di Roma, avendo ordinato che il popolo dalla campagna si fosse ritirato alla Città, e fosse stato
presente al trattamento degli affari pubblici sì urbani, che rustici. Geminio vuole che le fiere
cominciarono in Roma dopo l'espulsione de' Re, nelle quali i plebei si univano per celebrare la funebre
memoria del defunto Re Servio Tullio, al qual sentimento acconsente Varrone.
Rutilio scrive che le fiere furono originate da quella unione che il popolo Romano faceva nel ritirarsi
dalle campagne in Città dopo 9 giorni, per assistere agli affari politici e militari della Repubblica, e
perciò dette in latino Nundinae, quasi noventinae: si appigli ciascuno a quella opinione che più gli
piace.
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(Vedi MANOBIO SATUR., LIB. 1, CAP. 16 E RICCICELLI AR., Arcivescovo Cosent. in
LUCUBR. ECCLES., LIB. 6, PAG. 284)
Ma cade qui in acconcio dir qualche cosa intorno quella fiera che secoli dietro celebravasi nella
contrada del Monte, bagnata ed inaffiata dalle acque del fiume Acri, un tempo detto Acheronte.
Che fossevi stato un tal mercato di animali, e di altre cose venali necessarie agli usi della vita,
oltre la costante tradizione, l'attestano gli archi di fabbrica detti logge per uso dei Mercanti, oltre
la Cappella detta Madonna del Monte, ed una diruta abitazione per i Maestri di fiera, in cui si
osservano alcune pietre bucate per farvi sventolare le bandiere in segno di essere una fiera libera e
franca. Che tali bandiere indicassero franchigia, ce l'attesta una Prammatica del Vicerè di
Napoli, il signor Conte di Benevento, in data de' 18 Novembre 1609, emanata per celebrarsi le
fiere del Regno né prima né dopo; ed un'altra del Vicerè Conte di Lemos a' 16 Aprile 1614. Eccone
le parole ....lagnandosi che non si facciano le fiere predette a' tempi stabiliti ed ordinati non ostante
che le università pongono, e levano le Bandiere di franchigia a' tempi concessili 'privilegi loro.
Quando una tal fiera fosse cominciata non si sa: si può però probabilmente credere che la sua
soppressione fosse avvenuta nel principio del XVI secolo, e propriamente nel 1518, allorchè il
Vicerè D. Raymond Cardona con sua Prammatica in data de' 10 Giugno detto anno ordinò che
fra lo spazio di un anno avessero presentato al Vicerè il privilegio della loro concessione,
intitolato: De privilegiis intra annum exhibendis a Rege obtentis, coram Prorege alias sint nuilius
roboris; altrimenti non presentandosi per essersi disperso, fra lo spazio di un anno, restava estinto
e di niun vigore, come se non si fosse ottenuto: or non essendosi il privilegio della fiera del Monte
da' Tursiani al Vicerè presentato fra detto tempo, restò la fiera soppressa ed abolita.
Non così avvenne per la fiera di Anglona, che ancor oggi conserva il privilegio di sua
confirmazione concessala dal Re di Napoli Ferdinando I di Aragona sotto il dì 21 Settembre
1468, come si è di sopra detto.
Ma in qual tempo poteva farsi una tal fiera? Una costumanza antica, conservata fin oggi, ci fa
venire in cognizione del tempo della sua celebrazione: a' 5 del mese di Agosto, giorno dalla Chiesa
ne' suoi fasti dedicato a S. Maria ad Nives, si portano in detta Cappella del Monte, due miglia in
circa da detta Città distante, alcuni Sacerdoti per offerirvi solennemente il S. Sacrifizio della
Messa, segno circa questo tempo la fiera si fosse celebrata, la quale quanti giorni durava neppure
si sa, dovendo però durare alcuni giorni. Comunque sia andata la faccenda, ella era assai comoda
e per la vicinanza delle acque del fiume Acri, e per l'abbondanza del pascolo degli animali che visi
conducevano.
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In S. Quaranta anche si celebrava un mercato detto di S. Marco, come
apparisce dalle Capitolazioni tra la Città di Tursi ed il Principe Don Carlo
Doria, fatte in Napoli nel Monastero di S. Maria di Piedigrotta a' 12
Novembre 1594. In essa si fa menzione di un certo luogo del Principe
chiamato Menestello, che altro non era che una piccola volta di fabbrica, che
oggi anche esiste verso la metà di detto piano.
Pandosia, oggi Angiona, era una Città Repubblica, e quindi coniò le sue
monete, le quali alle volte si osservano con iscrizioni, alle volte nò. Erano
senza iscrizione per dinotare, come scrive Mariofiori, che nelle monete
l'iscrizione serviva per quelle Città che non troppo erano conosciute, laddove
essendo Ella famosissima nel rimanente del Mondo, non aveva bisogno di
simiglianti iscrizioni. Si scriveva talvolta in alcune la voce greca IIAV (Pan)
per distinguersi dalle altre.
Dette monete sono varie, e rappresentano nel diritto o la testa di Apolline od
un cavallo, e nel rovescio un tripode. L'autore Della Calabria Illustrata riflette,
che siccome Apolline col suo Tripode ed oracoli in Delfo era il più celebre,
riverito ed adorato dal Mondo, così la Repubblica di Pandosia era l'oracolo di
tutte le altre Repubbliche della Magna Grecia: o perché forse Apolline era il
Dio Tutelare di Pandosia, come lo era di Troia (Pro Troja stabat Apollo), o il
Dio Nettuno. Alle volte nel rovescio si osservava il vuoto del Tripode, giacché
ne' primi tempi le monete si coniavano coll'impronta di una sola parte.
Dentro la campagna di Pandosia suole il bifolco scovrire coll'aratro alcune
grandi pile di tufo, le quali servivano di sepoltura a' cadaveri, ed anche oggi se
ne vanno alla giornata scoprendo
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Quelli che hanno osservato tali cadaveri, li hanno ritrovati di una statura
maggiore della nostra ordinaria: segno che erano di uomini più robusti, e
maggiori di noi nella statura. In attestato di ciò non ha molto nel mese d'Aprile o
Maggio del 1823, in un territorio di Anglona, detto Marone, di pertinenza della
Chiesa Cattedrale di Tursi, sù di un promontorio furono trovati molti cadaveri;
tra' quali ve ne era uno situato in mezzo di un'ossatura più lunga di quella di un
uomo di alta statura, ed un altro cadavere che teneva conficcata dal basso delle
coste spurie destre fino alla mammella sinistra una lama di spada tutta
irruginita, con cui forse era stato ucciso, e la punta era stata trattenuta da una
delle coste vere sinistre a non uscire all'altra parte. Essi stavano situati alla
supina col volto verso il Cielo, e con una mano sul pube, e coll'altra distesa sulla
coscia. Tre di detti cadaveri furono ritrovati in una stessa fossa distesi, due
orizzontalmente in modo che dove era il capo d'un cadavere arrivavano i piedi
dell'altro, e sopra i due ve ne era un altro disteso a traverso. Ognuno di questi
teneva prima sopra di se uno strato di terra circa mezzo palmo, e poi una gran
pietra. Nei denti dell'ucciso si conosceva ancora lo smalto. Si presuppone che ivi
fossevi stato qualche attacco di guerra, anche perché prima vi fu ritrovata una
spada di finissimo acciaio, della quale i contadini fecero fucili.
Questo è quanto si è potuto finora notare tra l'oscura notte che ci ha ingombrato
gli antichi fatti dell'antichissima purtroppo celebre e rinomata Pandosia, gentile
bensì fino al suo devastamento, essendo poi risorta con maggior sua gloria e
pompa, mentre con lasciar il nome di Pandosia gentile, prese quello di Angiona
Cristiana sotto la protezione della nascita di Maria sempre Vergine miracolosa.
Fu bensì una Repubblica famosa tra le altre della Magna Grecia, da cui le altre
prendevano norma e regolamento. Ed oggi?
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Oggi è tutto desolazione, tutto è silenzio, tutto è solitudine, tutto cuopre arena ed erbe; cosicché
dir possiamo con Camillo Peregrino della rinomata Angiona, prima Pandosia, ciocche disse
parlando di Capua antica nell'istoria de' Principj Longobardi:
A' bei tetti lucenti
cangiati in muto orror Tempj, e Teatri insultano gli armenti,
cuopre, nasconde l'erba
Angion superba,
e chi per quegli orror volge gli aratri dica quì stiè
la gran Città, che per rio fuoco ardè.
Oggi esiste la sola Cattedrale, in cui si venera una statua sotto il nome di Anglona, Madonna da
cui si ottengono da' devoti fedeli copiosissime grazie, specialmente in tempo di siccità. Infatti nel
1827 per lunga siccità precorsa, fu la sua statua a' 9 di Maggio con processione di penitenza
portata in Tursi, e girando pel petto, giunta nella piazza fu dal Vescovo Monsignor Giuseppe
Saverio Poli accompagnata fino alla Cattedrale insieme col Seminario, e si ottenne la grazia
dell'acqua dopo dodici giorni, e quindi a' 27 Maggio tra il suono di vari strumenti musicali,
accompagnata dai Sacerdoti e dal popolo, fu riportata in Anglona.
Similmente nel 1844 perla siccità da circa un anno, essendo cadute rarissime pioggie e di breve
durata, e minacciando l'anno gran carestia, fu la sua statua portata in Tursi a 28 Aprile; igi
giunta, e propriamente in S. Quaranta, accompagnata dal Capitolo e Seminario, e popolo tutto,
salendo pel petto fu portata nella sua Chiesa Cattedrale, e si ottenne la desiderata pioggia dopo
tre giorni, che continuò per molti giorni, con teneri ringraziamenti alla Vergine, tanto del paese
di Tursi, che de' paesi vicini e lontani.
La mattina de' 27 Maggio, accompagnata da gran popolo e da istrumenti musicali fu riportata in
Anglona.
È stata veramente nostra gran ventura aver avuto i natali in contrade così cospicue d'Italia, e per
l'antichità de' suoi abitatori, e per gli strepitosi fatti di guerra ivi accaduti, ove pompeggiavano le
famose Repubbliche della Magna Grecia, dal tempo, dalla violenza, e dall'aratro, al suolo tutte
adequate; quindi con ammirazione possiamo esclamare: O rerum humanarum misera biles vices! o
tragicam humanae potentiae permutationem! Vidito nunc rudera, et lamentabiles ruinas! Noli, noli
nimiumfidere viribus tuis, sed in eum confidito, qui dicit: Ego Dominus Deus vester. Così Gerbel
parlando di Atene moderna appresso Chateaubriand. (ITNER., VOL. 1, PAG. 28)
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DIOCESI DI ANGLONA E TURSI
GIUSTA L'ORDINE TENUTO NEL SINODO DI MONSIGNOR QUARTI
Tursi Metropoli
Roccanova
Chiaromonte
Francavilla
Senise S. Giorgio
CarboneBollita
Colobraro
Terranova
S. Arcangelo
Rotondella
Rocca Imperiale
Roseto
Oriolo Montegiordano
Amendolara
Alessandria
Canna Favale
Teana Cersosimo
Episcopia
S. Severino
Noja S. Fardella
Nocara
S. Quirico Raparo
Castelsaraceno
S. Martino
Castroregio
Spinoso Farneta
Calvera Costantino
Castronuovo
Casalnuovo
GRECI
• I Greci della nostra Diocesi, detti Albanesi dall'Albania, vennero tra noi
chiamati da Carlo V nel 1534, e furono ricolmi di molte franchigie.
Vengono i loro Sacerdoti promossi agli ordini da un Vescovo Italo-Greco
previe le Dimissoriali del Diocesano. Risiede detto Vescovo greco in S.
Demetrio, nel Monistero di S. Adriano de' Basiliani, traslatati quivi dal
Paese di S. Benedetto Ullano per esser luogo di aria malsano, e ciò in
seguito di real dispaccio del i Marzo 1794.
• Il primo però che dall'Albania si fosse stabilito nel Regno di Napoli fu
Giovanni Castriotto figlio di Giorgio soprannominato Scanderebergo,
cioè Alessandro il Grande, terribile a' Turchi, dai quali fu spogliato dei
suoi stati nell'Albania, Epiro, e Macedonia, conquistati dopo la morte del
Padre dalla potenza Ottomana, e venne ad abitare nella Puglia in alcuni
Feudi, donati in ritaggio a suo padre da Ferdinando I di Aragona, per
averlo riposto sul Trono da cui era caduto per la ribellione di alcuni
grandi del Regno.
Le terre del silenzio
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Il cotone nell'economia del Basso Sinni
Fabiola PASCALE
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Breve storia agraria dell'Italia meridionale
Lo storico che ci racconta i grandi eventi del passato non si sofferma a considerare la vita
quotidiana degli uomini che hanno vissuto in quel contesto. Tuttavia, a determinare la
vita umana sono le strutture mentali degli uomini comuni, che con le loro azioni ed il loro
pensiero influenzano l'ambiente in cui vivono. L'uomo comune lavorava, mangiava e per lui
tutto ruotava intorno al matrimonio, alla nascita e alla morte; tuttavia è lui che,
indirettamente, fa la storia: è lui che entra a contatto diretto con i conquistatori, con i
dominatori. Ricostruire la storia, quindi, comporta l'analisi di tutti gli aspetti degli
accadimenti e della quotidianità. Tutto il sud Italia per lunghi secoli è stato dominato
dagli arabi che hanno lasciato, tra l'altro, tracce notevoli in tutto ciò che concerne
l'agricoltura, l'irrigazione, gli strumenti e le tecniche di lavoro di campi.
La presenza degli Arabi nel Mediterraneo non produsse solo insicurezza e scarsa
circolazione della moneta, ma spinse anche le maggiori potenze dell'epoca a cercare nuove
rotte commerciali con minori rischi e costi che permettessero di aggirare l'ostacolo dei
turchi. Questo rese necessario aumentare la produzione agricola per approvvigionare le
navi destinate all'esplorazione di mari sconosciuti. Si utilizzò il legno della macchia
mediterranea per la loro costruzione e il cotone meno pregiato per ottenere le vele. Da
allora, la produzione del cotone conobbe un andamento crescente in tutti i Paesi.
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L'uomo è il maggior responsabile delle configurazioni del paesaggio agrario. Infatti, il
carattere economico di una zona dipende in primo luogo dalle esigenze, dalle capacità fisiche e
intellettuali, dalla mentalità economica e dal livello di civiltà delle popolazioni.
Per molti secoli, tre capofamiglia su quattro, si sono dedicati esclusivamente
all'agricoltura e di conseguenza anche le mogli e i figli svolgevano dei compiti in tale attività
aiutandolo. Chi non partecipava direttamente al lavoro dei campi ne dipendeva
indirettamente per la sua sussistenza e per il materiale di base occorrente all'attività di
trasformazione.
Ancora oggi è più facile ritrovare le immagini tramandate dal passato, gli utensili, le
usanze, i costumi, le superstizioni della vita tradizionale negli ambienti montani e collinosi, in
cui si trovano paesi che li hanno da sempre custoditi gelosamente. Sono tutti fenomeni molto
antichi, che si sono perpetuati in uno spazio in cui i vecchi sistemi agricoli non avevano la
possibilità di lasciare il passo alle tecniche moderne. I paesaggi che ne derivano sono diversi:
le colture, infatti, sono scelte dal suolo; le risorse idriche stabiliscono se coltivare o allevare
bestiame. La dimensione dell'azienda agricola ne determina la produttività, non solo per la
resa totale ma anche per il numero di animali da tiro necessari per la coltivazione. Si decide
quanta terra coltivare in base agli animali che forniscono il letame: questo fattore era decisivo
anche per la determinazione della superficie destinata al pascolo degli stessi.
L'aumento della produttività era strettamente legato alla concimazione: più bestiame si
allevava, più alta era la produzione (questo resta vero finché aumenta il suolo coltivato,
altrimenti c'è il rischio dell'inquinamento da letame).
Rese maggiori si ottengono solo utilizzando tecniche agricole più raffinate e questo non è
stato possibile fino a quando il proprietario terriero non fu disposto a investire di più nel processo
produttivo, cioè nel miglioramento degli attrezzi agricoli.
La bellezza dei paesaggi nasconde il duro lavoro che permette di avere campi arabili: la
montagna tronca la circolazione, sottrae spazio, limita le pianure e questo fa si che i campi spesso
sono piccole strisce difficili da raggiungere: i sentieri in salita sono ardui per uomini e animali. La
pianura è stata per molto tempo vittima del dilagare delle acque, si è reso necessario
riconquistarla combattendo contro la natura per proteggerla dall'azione devastatrice dei fiumi
ingrossati dall'inverno. Coltivare la pianura significò sconfiggere l'acqua malsana.
La prova degli sforzi compiuti a tal fine è rappresentata dagli antichissimi sistemi di
drenaggio e di irrigazione, nonché dagli impianti di ridistribuzione dell'acqua. Basta risalire il
corso dei secoli per constatare come qualsiasi pianura mediterranea fosse alle origini ricoperta
dalle acque. La lunga bonifica e la lenta organizzazione delle zone pianeggianti spiega perché nel
sud e in tutto il Mediterraneo, la storia dell'uomo abbia avuto inizio sulle colline e sulle
montagne, dove la vita agricola è da sempre più dura e precaria, ma che in compenso riparavano
dalla micidiale malaria e dai troppo frequenti pericoli di guerra. Per questo ci sono tanti piccoli
paesi inerpicati sui pendii, e tante cittadine aggrappate alla montagna, le cui fortificazioni si
fondono con la massa rocciosa dei declivi.
Allorché le condizioni di vita dei contadini divennero sempre più difficili da sopportare, a
causa dei bassi prezzi dei cereali, si ritenne più conveniente intraprendere un'attività industriale.
Molti di loro si dedicarono alle attività manifatturiere e prese vita o semplicemente si
svilupparono le manifatture rurali, in cui i mercanti di tessuti distribuivano a domicilio il lavoro
e portavano il prodotto finito sui mercati di smercio.
Alla lavorazione partecipavano braccianti a giornata e piccoli proprietari insieme alle mogli
e ai figli. Generalmente il lavoro si svolgeva in condizioni deplorevoli. La filatura e la tessitura
dopo essere state a lungo sussidiarie del lavoro campestre, divennero, l'occupazione principale
degli agricoltori.
In epoche di abbondante raccolto venivano celebrati numerosi matrimoni e le nascite erano
in crescita; negli anni di cattivo raccolto, s'innalzava il tasso di mortalità, diminuivano i
matrimoni e di conseguenza le nascite. L'alto tasso di mortalità non dipendeva dal verificarsi di
carestie, ma soprattutto dalla povertà del cibo consumato, ossia dalla scarsità di vitamine, dalla
cattiva igiene e dalle epidemie che colpivano la popolazione.
L'uso dei vestiti di cotone, economici e facili da lavare, a scapito degli abiti di lino e di lana, fece
migliorare le condizioni igienico sanitarie. Il cotone, alla fine del XIX secolo era ancora molto caro;
cominciò ad essere lavorato su larga scala industriale grazie all'applicazione di numerose invenzioni
tecniche che ne aumentarono anche lo smercio, tanto da farlo diventare un tessuto di uso comune.
Questo processo fu favorito anche nel periodo Napoleonico dal blocco continentale alle importazioni
di manufatti e prodotti che giungevano dall'Inghilterra, che era diventata una delle maggiori
produttrici di materie tessili provenienti dalle colonie americane, in relazione a questo ci fu la 'messa
a coltura di molte terre europee fino allora utilizzate solo per pascoli o coperte da boschi. L'Unità
d'Italia introdusse nel sud la leva obbligatoria alla quale non si ricorreva nel Regno delle due Sicilie.
La legge piemontese distruggeva le famiglie e la loro economia: tutti i figli maschi erano obbligati a
prestare servizio militare e spesso mandati nel nord a prendere istruzioni per poi combattere "i
fratelli briganti". La coscrizione obbligatoria fece diminuire il numero dei coltivatori; inoltre, molti
giovani per sfuggire all'obbligo militare si diedero alla macchia dando luogo al fenomeno del
brigantaggio.
Dopo la guerra civile americana le piantagioni di cotone italiano persero importanza; alcuni
Paesi africani intensificarono la loro produzione facendo entrare in crisi tutti i produttori europei,
che uscirono dal mercato mondiale. In quegli anni non fu capita l'importanza che la coltivazione del
cotone poteva avere in tutto il sud Italia per svolgere un ruolo attivo nelle attività commerciali del
mar Mediterraneo. Il ruolo che il cotone avrebbe potuto avere nell'economia meridionale non fu
compreso né dagli imprenditori locali, né dalle autorità pubbliche, legati ancora ai vecchi sistemi
produttivi. Nonostante le favorevoli condizioni climatiche, e la particolare conformazione dei
territori mancò un miglioramento delle tecniche produttive, anche perché il costo del cotone
americano era basso.
I contadini ed i proprietari terrieri preferirono dedicarsi ad altre coltivazioni più remunerative
e comunque adatte alla situazione climatica del meridione come uliveti e vigneti. Fondamentale
debolezza del sistema produttivo del cotone fu la scarsa attrezzatura tecnica, che in pratica
riguardava tutte le varie fasi di lavorazione del tessuto e rendeva perciò elevati i costi di produzione.
Le Società Agricole e i consorzi agrari tentarono alcune iniziative per diffondere la coltivazione di
varietà di cotone americano, ma la crisi era in atto e si accentuò con il processo di unificazione.
Durante il precedente periodo dell'occupazione francese sorsero delle Società Economiche
istituite con Decreto del 10 marzo 1810 che ebbero diversi obiettivi: si occuparono di viticoltura,
olivicoltura, e cerealicoltura oltre alla coltivazione di piante destinate all'industria tessile. Il 26
marzo 1817 venne restaurato il Regno borbonico e continuò l'attività delle Società per la formazione
agricola dei cittadini.
Il cotone, al tempo della dominazione borbonica nel Regno di Napoli, era coltivato con molto
profitto nei luoghi del Materano, specialmente a Tursi, Rotondella e Valsinni. Dai documenti
dell'epoca si apprende che gli abitanti di questi paesi traevano il necessario sostentamento dalla
coltivazione della bambagia.
I signori dei luoghi speculavano su questa coltivazione: esigendo talvolta il diritto della piazza
sul filato (ius plateae), che riguardava la compra e vendita della "bambace lavorata alla durissima
ragione di un carlino per ogni trentacinque canini che si ritraevano dalla vendita di detto genere di
robba".
Sempre in età borbonica (Statistica del Regno di Napoli disposta da Gioacchino Murat nel
1811), sappiamo che "il cotone di produzione locale, dopo essersi purgato dei semi, suoi battersi
coll'arco per preparano alla filatura, e tali operazioni nel modo più fine costano grana 20, nel modo
mediocre grana 15, nel modo grossolano grana 12 la libbra. Ed il cotone è destinato per fabbricare
delle tele per biancheria da letto e di addosso, berretti, calze, tricò, volgarmente detto cotonino,
quello di qualità media detto piedivolto, coperta da letto...; il lavoro viene eseguito talvolta da
operaie a giornata il cui giornaliero salario suole ascendere a grana 8".
Dati importanti si possono desumere anche dallo studio dei catasti: erano tassati solamente i
locali e le attività professionali. Non venivano riportati i dati relativi alle scorte dei prodotti lavorati,
agli attrezzi e agli strumenti di lavoro di uso comune, in quanto pur presenti nelle botteghe non
erano sottoposti a tassazione poiché necessari a svolgere l'attività. Il termine bottega, usato per la
redazione dei Catasti onciari, nella dichiarazione dei beni posseduti, corrisponde ad un piccolo
opificio di uso familiare. La manifattura era legata strettamente al mondo agricolo. L'attività
professionale, indicata per ogni capofuoco (capofamiglia), è importante per conoscere la struttura
sociale ed economica del tempo.
Con la Guerra di Secessione venne a delinearsi l'ipotesi che l'Europa si potesse sostituire
all'America come produttrice di cotone.
Le alte tariffe protettive poste all'ingresso dei manufatti di cotone provenienti dal di fuori del
Regno, colpivano indiscriminatamente l'approvvigionamento della bambagia e dei prodotti
semilavorati. Tale sistema doganale se proteggeva le manifatture meridionali, permettendo ad esse di
vendere più facilmente sul mercato interno, rendeva costoso l'approvvigionamento del cotone grezzo
dall'estero. La produzione era insufficiente al fabbisogno e di qualità scadente rispetto a quella
americana.
La politica del cotone non fu mai presa in seria considerazione dal governo borbonico. Con
l'unificazione crebbe l'interesse alla tutela e al miglioramento della produzione, ma le condizioni del
settore erano cambiate in tutto il mondo: era difficile difendere una produzione arretrata, costituita
da un'industria casalinga, povera di capitale e con attrezzatura inadeguata, e la crisi divenne
inevitabile quando mancarono gli interventi di sostegno del governo.
Nel corso degli anni seguenti l'Unità d'Italia, la necessità di capire il modo di vivere del popolo
del sud diede vita a numerose inchieste agrarie che riguardarono anche le condizioni igienico
sanitarie. La redazione dei questionari fu affidata ai sindaci o ai medici condotti dei singoli paesi;
questo materiale ci permette, accanto alle testimonianze orali affidate agli anziani dei paesi, di
ricostruire in modo attendibile la vita quotidiana del tempo.
Il Nigro, lo storico di Tursi, lamenta che nel corso dell'Ottocento la coltivazione del cotone era
molto scaduta, e scaduta era anche la filatura a cui attendevano molte donne, che lavoravano anche
la làna con cui confezionavano coperte da letto, abiti da uomo e da donna, maglie, calze ed altri
indumenti di uso giornaliero. Questo anche perché non si disponeva delle gualchiere e di tintorie in
luogo: i tessuti ottenuti dai telai casalinghi si dovevano inviare alle gualchiere di Spinoso, di San
Chirico Raparo, di Senise, di Alianello e di Missanello.
Il sogno americano spinse milioni di contadini a lasciare le terre per guadagni più facili; le donne
che restavano nei paesi, continuarono a coltivare il cotone solo per uso familiare, in questo spinte
anche dalla precarietà dei sistemi dei trasporti e delle comunicazioni.
Il 28 novembre 1944, il fiume Sinni straripò in seguito ad un'alluvione. Nella sua corsa
precipitosa, durante la notte, uccise un'intera famiglia; la filanda situata in contrada Patella fu
trascinata via insieme all'annesso mulino; numerosi massi, i resti delle costruzioni travolte, e ciottoli
rimasero nelle "bammacare" (terreni che solitamente erano coltivati a cotone e da questo traevano il
nome); questo li rese inutilizzabili.
Così la produzione della "bambagia" diminuì notevolmente anche a causa dell'arrivo dei
prodotti finiti americani dall'immediato dopoguerra in poi. Il minor costo dei prodotti importati fu
causa di abbandono della coltivazione e della lavorazione del cotone in quasi tutta l'Italia.
Con la nascita dei Centri di cultura popolare si tentò di formare gli abitanti del sud ad
affrontare e risolvere qualsiasi problema socio economico, amministrando e distribuendo alle
famiglie i beni che giungevano al Centro stesso. Tramite essi si tentò di distogliere la loro attenzione
dall'attività agricola, favorendo le attività artigianali - industriali.
Il cotone
Le prime fibre impiegate dagli uomini fin dai tempi più remoti della loro esistenza sono stati
quelle naturali (sia vegetali sia animali), le quali, opportunamente intrecciate, davano fili e corde per
fabbricare lacci e reti per la caccia e la pesca. Attraverso i secoli, con l'uso della filatura e della
tessitura con telai rudimentali, si ottennero i primi tessuti sfruttando la lana e soprattutto il cotone
che in India è impiegato in tal senso dal V secolo a.C.
Il cotone è una fibra vegetale che si ottiene dal tegumento (peli) di alcune piante arbustive con
foglie lobate, appartenenti alla famiglia delle malvacee. Il frutto è una capsula ovoidale contenente
una peluria bianca che circonda i semi e fornisce la nota materia tessile. Giunte a maturazione le
capsule contenenti il cotone si aprono ed il fiocco è strappato insieme ai semi, che vengono in seguito
rimossi per essere avviati ai diversi usi.
La maturazione della pianta avviene dal basso verso l'alto. Le fibre di cotone hanno una
lunghezza diversificata che varia da pochi millimetri (1-6), (prendono il nome di "linters", restano
attaccate ai semi e vengono utilizzate, considerando il contenuto di cellulosa, per fabbricare la
viscosa), fino a raggiungere i 6 centimetri (fibre pregiate).
Dalla spremitura dei semi si ottiene l'olio di cotone. La fibra è unicellulare ed è costituita
prevalentemente da cellulosa.
Le sue caratteristiche sono fissate attraverso la misura della lunghezza del bioccolo, del grado
di maturazione, della finezza, della resistenza e del colore (dal bianco al giallastro). I peli sono
morbidi e sottili, ma tenaci ovvero difficili a rompersi; questo favorisce la lavorazione e lo stiraggio
ad alte temperature. Prende facilmente la colorazione, sensibile agli acidi e resistente ai comuni
solventi, non produce allergie: ecco perché si usa prevalentemente per il vestiario; in effetti,
rappresenta la fibra tessile più importante e più diffusa del mondo.
La coltivazione avviene in una larga fascia della terra dove si trovano climi caldi, tropicali o sub
tropicali, considerevole insolazione, umidità abbondante ma non eccessiva, terreni molto fertili o
generosamente fertilizzati: molto adatte sono le zone aride irrigue, cioè con ampia disponibilità di
acqua. La raccolta può essere svolta a mano o a macchina e avviene in diversi periodi dell'anno,
secondo la posizione geografica. In seguito alla raccolta, si fa essiccare; si passa poi alla fase della
sgranatura durante la quale la fibra è separata dai semi; per migliorarne l'aspetto può essere
sottoposto a mercerizzazione: trattamento a base di soda che ne aumenta la brillantezza. Il cotone,
compresso ed imballato, è poi trasformato in svariati prodotti. Condotta da tempi memorabili
secondo metodi tradizionali, la coltivazione ha avuto negli ultimi decenni notevoli sviluppi
tecnologici, per quanto riguarda sia il miglioramento genetico sia le tecniche di coltivazione.
I manufatti di cotone restarono un prodotto di lusso fino al XIX secolo periodo in cui la
produzione aumentò sia per l'alta quantità prodotta nelle colonie inglesi dell'America settentrionale,
nelle cui piantagioni si ricorse al lavoro di schiavi africani, sia per l'utilizzo di macchine inglesi per
filare e tessere che ne consentirono l'uso su larga scala a prezzi più bassi di quelli della lana. Allo
sviluppo dell'industria cotoniera corrispose un incremento considerevole della produzione mondiale,
che continuò ad aumentare fino ai primi anni '70, nonostante la più dinamica espansione delle fibre
artificiali e sintetiche: in questo modo il cotone è stato prodotto in tutti i continenti, anche perché
accanto all'industria cotoniera tessile basata sulla lavorazione della fibra, si è sviluppata
un'industria di trasformazione del seme di cotone per l'ottenimento di prodotti da impiegare in
diversi campi, quale quello alimentare e mangimistico.
In Italia la produzione di cotone raggiunse il suo massimo negli anni '60. Dagli anni '70 in poi la
produzione è quasi cessata sotto la spinta all'importazione, dati i bassi prezzi praticati dai Paesi in via
di sviluppo, dai grandi produttori di cotone, e dalla crescita del settore delle fibre sintetiche, molto
richieste al giorno d'oggi in seguito ai cambiamenti demografici e socio-culturali che portano a
richiedere indumenti che necessitano di cure minori per essere utilizzati e conservati.
Coltivazione e manifattura del cotone nel Basso Sinni
Le poche notizie economiche rinvenibili dai documenti riguardanti le vicende del passato,
mettono in rilievo la laboriosità e l'ingegno degli abitanti dei paesi del Basso Sinni, costretti dalla
natura del loro territorio ad operare in un clima avverso e molto spesso imprevedibile. Il territorio
lucano, essendo percorso da quattro fiumi, è stato sempre sfruttato per le attività agricole; infatti, si
può affermare che per tanti secoli la terra è stata considerata la ricchezza degli abitanti: da essa
derivava la loro sopravvivenza. Le famiglie del tempo, in effetti, vivevano quasi in un regime
d'autarchia: traevano le materie prime necessarie alloro sostentamento dalla coltivazione diretta e dai
pochi frutti offerti spontaneamente dalla natura.
La difficoltà a percorrere le strade lucane isolava anche dagli abitanti dei paesi limitrofi. Le
particolari condizioni atmosferiche presenti nell'area considerata, permettevano di coltivare anche
piante che richiedevano cure straordinarie: le tempeste di grandine e di vento erano rare, le piogge
scarse in autunno e primavera, abbondavano in inverno, i venti temperati favorivano la fruttificazione
delle piante.
La presenza di luoghi paludosi, tuttavia, favoriva il diffondersi d'epidemie quali la malaria,
provocando l'arresto del naturale incremento demografico; inoltre, gli adulti, dediti alla pastorizia,
erano decimati dalla pleurite provocata dal fatto che essi sudavano nel condurre le bestie sui colli e
poi, una volta raggiunte le alture, venivano a contatto con le correnti fredde.
I terreni posti lungo il corso del fiume Sinni sono sempre stati adatti a questa coltivazione sin
da tempi antichi e lontani; questo si può apprendere indirettamente dal francescano padre Barrio,
vissuto nel '500 ed autore di una descrizione in lingua latina del territorio della Calabria. Molte
località sulla sponda destra del fiume Sinni, vicino a Colobraro, compaiono nella sua descrizione, tra
cui Fabalium (l'odierna Valsinni), della quale si dice che produceva in larga quantità il Gossypium
herbaceum (cotone), e questo avveniva certamente nella zona fluviale. Un altro francescano del '600,
Luca Mannelli, nella sua "Lucania Sconosciuta" descrive lungamente il territorio del basso Sinni e,
oltre a dire che Tursi, Colobraro e Sant'Arcangelo, furono ingranditi dalla rovina di Anglona, tratta
spesso delle fonti dell'economia locale; cita ad esempio la coltivazione degli agrumi praticata sulle
sponde del fiume Sinni dove "si veggono molti giardini pieni di aranci e limoni, molto stimati nei
paesi circonvicini, i quali non hanno somiglianti alberi per i rigori del freddo... Il maggior utile però
perviene dalla bambagia, che gli abitanti seminano e raccolgono a dismisura, tessendone poi i panni
per la gente bassa, si che si può dire che questa industria sia quasi tutto il suo vivere".
Gli abitanti dei paesi bagnati del fiume Sinni traevano la loro ricchezza dai terreni posti lungo il suo corso:
primeggiavano gli alberi da frutta, le viti, i fichi, gli aranci e il cotone. Gli uliveti, i cereali e il frumento erano
prevalente¬mente coltivati nei terreni non irrigui.
La coltivazione del cotone, chiamato dagli abitanti locali "bambagia" (tale termine indica appunto la
morbidezza della materia prima che, opportunamente lavorata, produce un soffice tessuto) ha avuto un posto
importante nell'economia lucana fin da quando fu introdotto nell'Italia meridionale dai bizantini o dagli arabi (è
aperta un dibattito al riguardo poiché nei regolamenti arabi della Sicilia si parla solo di canapa e di linò e mai di
cotone). In questi terreni il cotone trovò una condizione ideale: quando il fiume Sinni e il suo affluente Sarmento
straripavano, a causa delle piene e dei bassi argini che li contenevano, arricchivano notevolmente il terreno con un
humus ricco. Questo arbusto preferisce i luoghi soleggiati poiché l'ombra, ostacolando la vegetazione, fa perire
l'intera pianta così come i ristagni d'acqua. Nei comuni considerati erano prevalentemente le donne ad occuparsi
della manifattura del cotone, poiché non era destinata al commercio ma solo all'uso domestico. Il fuso semplice per
anni fu il solo attrezzo usato per filare il cotone. Il filato era distinto in tre qualità: migliore, mediocre e grossolano.
Il migliore, "cotonino", era destinato alla tessitura di tele per biancheria da letto e per i vestiti; il mediocre,
"piedivolto", a coperte e tovaglie; il grossolano a stoppini per i lumi. La tela di cotone era imbiancata con la usciva di
cenere, di sterco bovino e calce, poi era lavata in acqua corrente nei lavatoi pubblici o sulla riva del fiume. Non
essendoci delle tintorie nei paesi considerati (Lauria era il centro dotato più vicino), si usavano sostanze coloranti
ottenute da radici di piante che resistevano alla liscivia necessaria per lavare a fondo il tessuto. A differenza della
lana che veniva bollita in batuffoli per sgrassarla e purgarla dall'olio, il cotone, non si poteva sottoporre ad alte
temperature in fiocchi; per questo si lavava in filato o in tessuto. La colorazione eseguita in casa, si avvaleva di
coloranti estratti da piante locali per lo più a crescita spontanea, che potevano essere all'uopo coltivate: la corteccia
della robbia colorava di rosso; il nero, colore più diffuso e resistente, si otteneva con una soluzione in acqua di sali
contenuti nel solfato di ferro, con il tannino estratto dalla corteccia dell'amo o del melograno, dai talli del rovo, o
dalle noci di galla. Il colore giallo si otteneva dai fiori delle ginestre; il verde dalle foglie del frassino e dell'edera. Il
procedimento era molto semplice: in una caldaia si facevano bollire acqua e corteccia; dopo la bollitura si toglieva la
corteccia e si aggiungeva il solfato di ferro volgarmente detto "f-ruin", costituito dai residui della lavorazione del
ferro, e il tessuto. Spesso si ricorreva all'aggiunta di crusca o d'albume mordenti del colore per facilitare la
colorazione dei tessuti. Era difficile che la colorazione resistesse al tempo e allora si ritingeva la stoffa per rendere il
colore più resistente.
Era facile trovare dei difetti di filatura, poiché le donne filavano di sera alla luce del camino a più riprese,
ottenendo un filo ineguale, e spesso capitava di filare anche la parte erbacea insieme al cotone.
Sulla reale produzione del cotone non si possono fornire dei dati attendibili poiché le statistiche non sono
veritiere: si cercava di far apparire la produzione inferiore a quella effettiva per pagare meno tasse. La produzione
del cotone era comunque alta nel basso Sinni; basta raffrontare i dati della Statistica murattiana ai dati forniti da
Giuseppe Del Re nel suo studio Della Provincia di Basilicata. Gli abitanti di 19 comuni lucani erano dediti alla
suddetta coltivazione invogliati dalla remuneratività. La produzione annua oscillava fra i 10 e i 16.000 quintali, al
netto dei noccioli; su ogni ettaro di terreno coltivato la media era compresa fra i 6 e i 16,5 quintali.
Dagli "Annali di statistica" riportati nelle Notizie sulle condizioni industriali della provincia di Potenza
(Basilicata) si evince che nel 1891 c'erano 2.935 telai, di cui 1.301 nel circondai-io di Lagonegro; la tessitura
casalinga era presente in 93 comuni lucani su 124. Le dichiarazioni dei medici condotti di 25 comuni, che nel 1879
risposero al questionario di Agostino Bertani, rivelano che si usavano prevalentemente "panni casalinghi". A fine
ottocento si iniziarono a comprare tessuti di cotone non resistenti come quelli prodotti in casa, ma ad un prezzo
modesto più accessibile alla popolazione. Nonostante nei comuni lucani non fosse sviluppata la viabilità, aumentava
la richiesta dei tessuti di cotone a basso prezzo come era già successo più di un secolo prima nelle nazioni europee già
avviate all'industrializzazione.
Dalle condizioni attuali della pubblica economia in Basilicata del 1904 si apprende che in diversi comuni era
quasi scomparso l'uso dei vestiti di lana, poiché il pannilano casalingo quasi non si tesseva più. Questa inchiesta fu
promossa dalla Società cooperativa "Le industrie femminili italiane".
Il questionario era stato inviato alle prefetture mediante l'intercessione del Ministero di Agricoltura. Dalle
risposte ricevute da 100 comuni sui 124 interpellati, emerge che l'industria tessile casalinga era scomparsa in molti
comuni: in 70 comuni su 100 non si aveva più la lavorazione e quindi il consumo di tele domestiche; negli altri 30
comuni le donne continuavano a tessere per il solo uso domestico, mentre prima i manufatti casalinghi avevano
trovato sbocco anche sul mercato. Diminuì la coltura delle piante tessili (nel decennio 1864¬73 nel circondano di
Matera da 2.000 a 1.700 ettari erano destinati alla coltura del cotone, negli anni ottanta, si abbandonò tale coltura,
perché era più conveniente acquistare a buon mercato il cotone commerciale filato).
Alcuni comuni risposero denunciando la decadenza dell'industria domestica, nascondendo un consumo
marginale dei tessuti casalinghi.
La risposta è da attribuire alle strategie economiche delle famiglie agricole. Le famiglie lucane hanno sempre
cercato di limitare le uscite monetarie dal proprio bilancio, riducendo gli acquisti di beni che potevano produrre in
casa. La filatura e la tessitura continuarono a essere presenti in ambito familiare, al fine di tenere occupati i membri
della famiglia stessa che non erano adatti al lavoro agricolo. Per le famiglie, l'autosufficienza rappresentò un
obiettivo da perseguire con ogni mezzo: con tale lavorazione, inoltre, si potevano avere delle entrate monetarie
soprattutto negli anni di cattivo raccolto.
La coltivazione delle fibre vegetali era dettata dall'importanza commerciale dei manufatti: in molti centri si
coltivava il lino e la ginestra anch'essi filati con il fuso a mano, o i gelsi per la bachicoltura.
La ristrettezza di terre irrigue spiega il ricorso al lino rustico, che era impiegato in un particolare tessuto in cui
il lino si usava per l'ordito e il cotone per la trama, chiamato comunemente trama o bacotto. Il lino era raccolto
quando non era ancora maturo, per ottenere una fibra morbida veniva legato in covoni e si lasciava macerare; poi i
covoni o mannelli erano lasciati in acque correnti per un po' di tempo. Quando questo avveniva in prossimità dei
centri urbani, rendeva l'aria insalubre, provocando gravi malattie polmonari quali la bissinosi e la pneumopatia da
fibre tessili vegetali. Il rischio di ammalarsi era limitato alla lavorazione preliminare delle fibre grezze.
Dalla ginestra si otteneva una fibra lunga, uniforme e tenace, molto più morbida e resistente del lino. Le tele
ottenute dall'unione di cotone e ginestra erano destinati ai vestiti dei "gualani" (guardiani delle greggi).
Dagli Atti della Società Economica di Basilicata del 1863 si apprende che il cotone prodotto in Lucania ed
esposto a Londra nel 1862 era il migliore; all'Esposizione di Vienna del 1873 per l'Italia vennero esposte le tele
lavorate in Basilicata e in Calabria; la manifattura toscana non riusciva ad eguagliare quella del sud.
L'importanza dei manufatti lucani dimostra che si coltivavano prevalentemente piante tessili, essendo la
cerealicoltura destinata solo all'uso alimentare; anche perché era più facile far giungere sul mercato un prodotto non
deteriorabile. La filatura e la tessitura erano praticate da tutte le donne del nucleo familiare senza distinzione di età:
questo mette in risalto l'importanza della pluriattività rurale, legata all'ottenimento ed alla trasformazione delle
materie prime locali, che consentiva ai ceti popolari di ottenere quote di reddito addizionale rispetto alla prevalente
attività agricola. Per la coltivazione dei cereali, inoltre, c'era bisogno anche di forza lavoro animale: bisogna
ricordare che molte famiglie non disponevano dei buoi per arare. Altro dato importante è che il cotone era seminato
in primavera e raccolto in autunno, cosa che rendeva possibile adattare la sua manifattura ai cicli agrari,
rappresentando un'utile coltura da
introdurre nei cicli di rotazione. Ecco che il lungo inverno era dedito tutto alla preparazione dei manufatti e
ancor più a quella dei filati da cui si ottenevano i manufatti. Il terreno si seminava prima in cotone, poi in grano o in
legumi, e successivamente in biada, ottenendo così una successione che non lo impoveriva, ma anzi lo fertilizzava.
Dalle statistiche si evince che negli stessi terreni il massimo vantaggio si poteva ottenere dal cotone, dai vigneti,
dagli oliveti e per ultimo dal frumento.
La specie di cotone coltivata nei terreni lucani era la Gossypium herbaceum (varietà asiatica) di qualità poco
pregiata ma resistente, mentre quella americana Gossypium hirsutum era molto apprezzata.
Tutti i maschi del nucleo familiare si improvvisavano falegnami per costruire l'attrezzatura necessaria alla
manifattura; in questo modo dimostravano la loro capacità ed abilità creativa: ogni attrezzo veniva abbellito con
intarsi diversi. Tra gli attrezzi necessari all'ottenimento di manufatti in cotone ricordiamo il mangano, che era una
sgranatrice formata da due rulli inseriti in un montante. I rulli avevano delle scanalature a mò di vite ad una
estremità che consentivano il collegamento ad una manovella che, girando in senso inverso, faceva scorrere il
bioccolo di cotone eliminandone i semi, che cadevano dal lato opposto a quello della bambagia. La struttura era
tutta di legno e senza utilizzo di colle o chiodi, si reggeva tramite incastri a caviglia. Il mangano, munito di una base
tipo panca, si utilizzava rimanendo comodamente seduti: si azionava la manovella con la mano destra mentre con la
sinistra si guidava il cotone attraverso i rulli di scorrimento. Bisogna ricordare che per essere lavorato il cotone deve
essere caldo: quindi se non veniva battuto subito dopo la sgranatura, bisognava riscaldarlo nuovamente.
Dopo la sgranatura, la stoppa era battuta con l'archetto di legno e corda in budello o di ferro, al fine di
raffinare, schiacciare e rendere più resistente la fibra; successivamente si filava con il fuso a mano, aiutandosi con la
conocchia. La torcitura del filo era legata alla trama del tessuto che si voleva ottenere.
Alla macina, aspo a croce, si avvolgeva il filato; il matassaro era un bastone con due paioli a mezza canna (m
1,05 unità di misura del cotone) di distanza che con duecento giri avvolgeva 100 canne. Il filato era sbiancato con
buina (sterco vaccino diluito in acqua), o in liscivia di cenere, si risciacquava ripetutamente per eliminare i residui
erbacei. L'operazione di sbiancatura spesso era fatta anche dopo la tessitura.
L'incannatore, era un sottile girello in ferro con volano apicale, nel quale si infilava una sezione di canna, e
serviva a preparare le bobine. Era fissato in una base di legno fermata dalle ginocchia. Ruotato in senso antiorario
con la mano destra, si avvolgeva nella sezione di canna parte del filato avvolto alla macina ottenendo la bobina. La
tensione e lo svolgimento del filo si regolava con la mano sinistra.
L'orditura è l'operazione con cui si ottiene l'ordito. L'ordito è l'insieme dei fili
che costituiscono la parte longitudinale del tessuto; i fili vengono disposti orizzontalmente, vicini e paralleli
sul telaio nella lunghezza voluta. Sull'ordito viene poi inserita la trama. Il filo della trama è sempre lo stesso che
corre avanti e indietro da un lato all'altro inserendosi tra i fili dell'ordito. Quando si esauriva il filo di trama
contenuto in una bobina si cercava di nasconderne il capo vicino alla cimosa. Inserendo una nuova bobina il capo
del filato in essa contenuto non veniva collegato tramite nodi a quello precedente. L'ordito veniva effettuato su
una macchina detta orditoio, simile ad una scala a pioli con sottili asticelle di legno estraibili dove si infilavano le
bobine fino ad un massimo di 50. I capi del filato contenute nelle bobine erano fermati insieme tramite un
particolare nodo e fissati all'asticella posta più al livello più alto dell'orditoio; i filati venivano srotolati con la
mano sinistra e fatti passare a tutte le altre aste presenti, fino ad ottenere l'ordito necessario alla lunghezza della
tela da realizzare. In pratica i fili erano svolti, selezionati e intrecciati a seconda del disegno del tessuto che si
voleva realizzare. In tal modo si otteneva l'ordito che si avvolgeva al subbio, che è un elemento cilindrico, sollevati
al soffitto. I fili erano inseriti nel pettine, che a sua volta veniva inserito nella cassa del telaio, legati ai pedali e ai
licci del telaio in modo diverso secondo il disegno che si voleva realizzare. La cassa era una sbarra di legno sulla
quale c'era un'impugnatura che serviva ad avvicinare i fili della trama ad ogni passaggio della navetta tra i fili
dell'ordito. I licci erano costituiti da una intelaiatura che portava delle bacchette forate, in ognuna delle quali
passava un filo dell'ordito: essi erano comandati in modo da ottenere un innalzamento o abbassamento dei fili
dell'ordito ogni volta che bisognava far passare il filo della trama tramite la navetta. Per alcuni tipi di tessuto
bisognava usare due navette, questo anche quando si alternava il filo colorato a quello bianco.
La navetta era un attrezzo simile ad una barchetta che portava al suo interno una bobina in cui c'era il filo
della trama. Essa lo intrecciava mediante opportuni meccanismi con l'ordito cioè passando e ripassando tra due fili
d'ordito. Il pettine aveva il compito di accostare ogni filo di trama inserita agli altri già sistemati, determinando la
fittezza del tessuto. I pettini spesso si rompevano e davano una tessitura ineguale e di cattiva fattura.
La tessitura della tela avveniva tramite l'invio della navetta dopo l'alterna disposizione, a mezzo dei pedali,
dei fili dell'ordito. Se i fili di cotone si rompevano bisognava riannodarli, creando un ordito ineguale e di qualità
scadente. Le tele meno pregiate erano tinte per mascherare i difetti di manifattura, come nodi e sfilacciamenti, e
utilizzate per gli abiti da lavoro. Non tutte le tessitrici erano in grado di realizzare particolari disegni, ma solo le
più esperte. L'apprendistato per le future tessitrici era molto lungo, soprattutto perché difficile era preparare
l'ordito. Imparare a tessere era difficile, non tanto per la lavorazione, ma proprio per la laboriosità richiesta dalle
fasi di preparazione. Il prezzo delle tele variava in base alla qualità del filato e del disegno della
tessitura, molte stoffe erano rese più pregiate grazie all'uso di filo ritorto su se stesso più volte, oppure
intrecciando fili tra loro, tessendoli insieme, per dare una maggiore morbidezza al tessuto. La tela ottenuta si
misurava in canne pari circa a 2,10 metri.
Dalla Statistica murattiana si nota che in molti grossi centri lucani erano presenti delle tintorie. La più
costosa aveva sede a Potenza e usava coloranti importati mentre tutte le altre ricorrevano al metodo tradizionale
usando coloranti vegetali. Le tintorie restavano aperte solo pochi mesi all'anno. Conoscere il loro numero è
importante ai fini di poter valutare la produzione destinata al commercio.
Ci furono dei tentativi volti a trasformare la produzione locale in produzione industriale, ma era difficile
diffondere i manufatti e si accettava di lavorare solo su commissione. E difficile precisare se ciò avvenisse per
questioni economiche o nascesse dalla necessità di impiegare manodopera che in alcuni periodi dell'anno era
inutilizzata e restava comunque legata ad una tradizione locale che non voleva industrializzare e quindi
standardizzare la produzione tessile.
La manifattura tessile è sempre stata considerata un'attività alternativa. Non è facile tradurre in numeri la
produzione, anche perché la maggior parte veniva realizzata a domicilio. Da un censimento si apprende che a
Valsinni, tra la fine del '700 e gli inizi dell'800, circa 300 donne erano impegnate a produrre tessuti destinati
all'esportazione diretta a varie città e paesi del Regno di Napoli. Considerando che per ogni tessitrice si richiedeva il
lavoro di 506 filatrici e che la popolazione non doveva superare 11.000 abitanti, si può dedurre che tutti erano dediti
alla manifattura del cotone. Oltre al salario alle tessitrici era corrisposto anche il vitto; non sono rari i casi in cui
un'istitutrice fosse stipendiata dal comune al fine di avviare le ragazze alla tessitura.
Rotondella ha sempre smerciato il prodotto finito; a Tursi, caso molto singolare, erano i soli uomini ad essere
impiegati nella manifattura del cotone, mentre le donne filavano soltanto.
Molti filatoi cessarono la propria attività in seguito all'apertura di 4 filande idrauliche nei comuni di
Lagonegro, San Costantino e Castelluccio (2); a causa della concorrenza industriale e dell'attività domestica, dopo il
1890, l'attività artigianale fuori dal lagonegrese era quasi inesistente.
L'unico caso di applicazione di energia termica nel campo tessile valutato intorno alle 50.000 lire resta quello
di Tricarico, dove nel 1873 Michele Larocca un giovane di Colobraro, prende in affitto un frantoio e vi costruisce
anche un mulino a vapore con due coppie di macine; in seguito vi istalla un filatoio ed un telaio meccanici, azionati
dalla stessa motrice termica.
Nel 1900 un opificio meccanico ad energia idraulica, con annessa gualchiera, fu istallato da Nicola Mele in
contrada Patella a Valsinni. La filanda era annessa ad un mulino, forse nell'intento di ridurre i costi di
ammortamento dei generatori di energia. Tale stabilimento fu valutato, nel 1901, 28.000 lire e restò in funzione fino
al 1936. I telai erano azionati solo qualche mese ogni anno, poiché c'era poca richiesta locale. Le gualchiere erano
macchine per battere i panni lavorati fino a far perdere loro la iniziale ruvidezza.
Il 13 aprile 1925 il consesso municipale di Valsinni delibera l'istituzione "del servizio della pubblica
illuminazione a forza elettrica, con appalto alle ditte Bassani Giuseppe e Bitonte Giovanni, Fabiano e Generoso". Il
padre dei fratelli Bitonte era proprietario di un mulino e dalla fine del 1890 di una filanda che restò in funzione fino
al 1950 circa. Anche questa filanda era alimentata dallo stesso meccanismo a cascata utilizzato per azionare il
mulino.
Gli abitanti. di Valsinni erano soliti utilizzare un attrezzo, volgarmente chiamato "vattavammece" per
schiacciare la fibra, e della gualchiera, per compattare i loro tessuti presenti nelle filande. Queste procedure
permettevano di ridurre i tempi di lavorazione e, inoltre, rendevano i tessuti più uniformi.
Alla lavorazione del cotone era collegata l'economia valsinnese come si può facilmente desumere dal grafico
sottostante, in cui si riportano i dati afferenti alle professioni delle mamme dei bambini nati nel comune di Valsinni
negli anni considerati.
Anno
Nascite
.
Filatrice Contadina Gentildonna
1892
69
19
41
9
1896
77
25
44
8
1900
44
27
15
2
1907
44
27
15
2
1919
44
27
12
5
Vita quotidiana della donna in un paese del Basso Sinni: Valsinni
La famiglia, la casa, i beni, la terra costituiscono la cellula di base di una società rurale le cui strutture
presentano importanti elementi comuni che riappaiono in epoche e in luoghi diversi. La famiglia è una totalità
indivisa da cui si dipende. La casa è il centro su cui ruotano tutti i componenti del nucleo familiare. La famiglia
costituisce il modello insostituibile dell'esistenza degli individui; si è definiti dal rapporto familiare: nonno, padre,
figlio, sposa, madre, nonna. E' la famiglia allargata che soddisfa i bisogni attraverso le capacità dei suoi membri.
Raramente si esce dai confini del paese sia a causa della scarsa viabilità e sia per la paura di incontrare i briganti
che assalivano mercanti, soldati e famiglie. Affrontare un viaggio di pochi chilometri diventava un'avventura.
Tutto doveva essere prodotto, non si acquistava niente, anche per la scarsa circolazione della moneta e dei
mercanti.
Si vive in spazi ristretti, si dorme tutti nella stessa stanza, i letti poggiano su strutture di legno, o di metallo,
detti "trasteli" per sfruttarne lo spazio sottostante, dove trovavano ricovero gli animali domestici. In quasi tutte le
famiglie c'è il maiale, ricchezza per tutto un anno che vive in casa. Le culle dei neonati sono appese al soffitto e
pendono sul letto dei genitori, trovano posto in alto anche i "canniz", canne intrecciate che fungono da dispensa. I
mobili sono rari e tutte le provviste sono conservate dentro casse di legno. Il posto d'onore nelle famiglie più agiate
è riservato al telaio, strumento di primaria occupazione di molte ragazze gracili che non potevano lavorare nei
campi.
I pasti si consumano insieme a tutti i componenti del nucleo familiare; i bisogni, il lavoro, la remunerazione,
tutta la vita si vive in comune. Non esistono storie personali, ma storie di famiglia. Per presentarsi si usa il
soprannome della famiglia o semplicemente si dice di essere figlio di Tizio.
Nascere femmina all'inizio del '900 in Lucania era quasi una disgrazia: il corredo era un pensiero assillante fin
dai primi vagiti. La piccola doveva accudire i numerosi fratelli, ricevendo spesso botte e maltrattamenti quando un
fratellino si feriva. Nelle famiglie povere e numerose i bambini cominciavano a lavorare sin dall'età di sette O Otto
anni, erano mandati "cdavt", cioè erano affidati alle famiglie più agiate che corrispondevano una ricompensa in
natura per il lavoro svolto dal piccolo.
Da sempre il bambino era considerato procacciatore di ricchezza, mentre il lavoro svolto dalle bambine era
solo quello familiare. Compagni di vita delle bambine erano il fuso e il "frizue", tipico ferro utilizzato per fare la
pasta di casa: questi erano gli unici attrezzi domestici che erano consegnati alla sposa al momento del matrimonio.
La vita era scandita da ritmi naturali: balia dei fratelli di giorno, cuoca all'imbrunire, filatrice accanto alla
madre la sera.
Dopo la raccolta delle derrate alimentari tutta la famiglia era chiamata la sera, alla luce del camino, a
svolgere un secondo lavoro: le pannocchie di granturco dovevano essere sgranate per poi essiccarne i semi per
macinarli e ricavarne la farina gialla per la polenta; i peperoni dovevano essere infilati ad un lungo filo di spago per
l'esposizione al sole, il cotone doveva essere battuto col manganello per dividerlo dai nocciuoli e questi ultimi
dovevano essere raccolti e conservati gelosamente fino al futuro utilizzo per conservarci la salsiccia. La voce dei
nonni rallegrava le serate della famiglia con racconti di vita quotidiana o con favole tramandate da generazione in
generazione.
Le giornate lavorative iniziavano all'alba e finivano a notte inoltrata. D'estate si lavorava alla luce delle stelle
si ballava sui covoni del grano per ottenerne i semi.
Negli ultimi giorni di agosto si iniziava la raccolta del cotone e durava fino ai primi freddi di novembre; le
capsule non ancora mature si raccoglievano e si facevano maturare secondo alcuni espedienti. La donna seminava il
cotone da aprile a maggio e si occupava anche della cura e della raccolta. Tutto il territorio irriguo era coperto dalle
piante di cotone; solo piccoli appezzamenti erano dedicati agli ortaggi. Scarsa era la coltivazione del pomodoro,
anche perché la pasta si cucinava solo in occasioni speciali e molte volte era condita da olio e peperoncino. Al
contrario i peperoni erano molto diffusi, poiché un piatto tipico della zona sono da sempre i peperoni rossi essiccati
e fritti in olio bollente. Solo in occasione delle festività religiose o di grandi eventi legati al mondo agrario come la
mietitura, si preparava la pasta di casa e si uccideva un animale domestico.
In una famiglia così organizzata non si conosceva il termine disoccupazione: tutti avevano i propri compiti da
svolgere, si viveva tutti insieme aiutandosi l'un l'altro. Il termine emigrazione compare in queste famiglie dopo
l'Unità d'Italia.
Testimonianza sulla lavorazione del cotone
La signora Rosaria mi ha gentilmente concesso un po' del suo tempo per consentire alla nostra e alle future
generazioni di conoscere quello che per lei è stata vita quotidiana e per noi sarà possibilità di non perdere i contatti
con il nostro recente passato.
Mi ha accolto nella sua casa, e seduta accanto alla finestra, mi è apparsa subito contenta di chiacchierare con
me; è stato emozionante osservarla mentre parlava, chiusa nella sua saggezza, che affonda le radici nel tempo, con le
spalle coperte da uno scialle probabilmente confezionato da quelle stesse mani che ora, invecchiate e indurite dal
tempo e dal lavoro, con difficoltà continuano ad eseguire infinite coperte di lana.
Parlandomi, il suo sguardo mi sfiorava quasi timoroso per andare oltre, per perdersi oltre la linea
dell'orizzonte, illuminandosi nel ricordo della sua gioventù. Prima che io potessi rivolgerle delle domande,
spontaneamente, si è soffermata a lungo a parlarmi delle condizioni di vita che appartengono ai tempi passati, di
una donna nei paesini del Sud: la donna dipendeva dall'uomo che poteva essere il marito, il padre o i fratelli; il suo
bisogno di contatto umano, affetto e di amicizia poteva essere soddisfatto solo durante i lavori dei campi quando,
mentre si lavorava o al ritorno a casa, si parlava, si cantava e ci si confidava qualche segreto.
La fatica di lavare i panni che erano battuti al fiume, si trasformava in un'occasione unica per fare vita sociale.
Al di là di queste rare occasioni, la donna restava una moglie che, oltre al duro lavoro della campagna, aveva tutto il
peso della casa e dei figli e spesso i maltrattamenti del marito. A volte, inoltre, conduceva i lavori della casa e dei
campi e allevava da sola i figli con enormi sacrifici: questo quando il marito era morto, oppure era malato o più
semplicemente era emigrato dimenticandosi della famiglia.
Questo la spingeva a sposarsi più volte, anche in età avanzata, perché avere un uomo accanto era sempre
considerato un segno di rispetto. Le ragazze, infatti, dovevano vivere vicino alla madre fino al matrimonio, erano
severamente sorvegliate e non andavano sole nemmeno dalla campagna al paese, altrimenti erano criticate. Se
disgraziatamente si ammalavano ed erano visitate dal medico, rischiavano di non sposarsi perché ritenute fragili;
quindi molto spesso se le ragazze stavano male, la madre diceva che erano impegnate nelle faccende domestiche.
La sua famiglia, quindi, poteva essere costituita da figli avuti da più mariti:
questo non importava; l'interessante era accudire la famiglia con dignità ed onore. Il viso di Rosaria si è
illuminato al ricordo di lei bambina al ritorno dai campi: il padre andava avanti sull'asino ai cui fianchi erano appesi
le ceste con i frutti del campo; la madre seguiva dietro a piedi, sempre vestita di nero, con un fagotto o una fascina in
testa e un fratellino in braccio; lei la seguiva tenendosi aggrappata alla sua lunga gonna.
Non ha nascosto la sua indole burlona, nel raccontare episodi successi agli abitanti del paese ridendo di gusto.
Analfabeta, mi ha confidato di aver frequentato solo per qualche giorno la prima elementare; ma ha preteso che i
figli imparassero a scrivere e leggere e oggi è orgogliosa di ritirare la pensione copiando, da un foglio che custodisce
gelosamente, la sua firma.
Riempire la giara d'acqua alla fontana del paese e accudire i fratelli più piccoli sono uno dei suoi primi ricordi.
Sbadatamente ha rotto una brocca di creta comunemente chiamata star e ha ricevuto come castigo saltare la cena e
dal giorno dopo ha affiancato la madre nella cura dell'orto.
Ho dovuto più volte riportare l'argomento sulla coltivazione del cotone, altrimenti rischiavo di scrivere un
diario di vita, non solo di Rosaria ma di tutti i paesani. Ho sentito storie inimmaginabili, sono stati ricordati fatti
che mai avevo udito, ho appreso la vera condizione di vita delle donne non solo del mio paese, ma di tutte le donne
del sud chiuse in se stesse, nelle loro tradizioni ed anche in falsi pregiudizi.
L'intervista
Cosa le ricorda la parola cotone?
Il cotone, nel nostro dialetto è chiamato "vammece" e una volta era largamente coltivato per usi artigianali
domestici. Il luogo dove abitualmente si coltivava, si può dire da tutte le famiglie contadine, veniva comunemente
chiamato "a vammachere", nome che ancora viene utilizzato da noi anziani per indicare questi terreni che si
trovavano tutti disposti lungo il corso del fiume Sinni che lo faceva crescere bene con le sue acque e rendeva possibile
avere una produzione discreta.
Questo comportava la presenza, in molte famiglie, di un telaio rustico per preparare gli indumenti necessari
alla famiglia; oggi dei telai non si ha neppur la più pallida idea e la "vammece" non si coltiva più nelle nostre zone.
Questo anche perché il fiume con le sue ricorrenti piene si è portato via più di metà terreno in cui una volta fioriva
questa coltivazione; inoltre, per costruire la strada chiamata Sinnica hanno espropriato molte "vammachere".
In quale periodo dell'anno e come si seminava il cotone?
Aprile è il mese ideale per la semina del cotone. Si ponevano lungo i solchi piccoli gruppi di
semi (duo o tre per parte) che poi erano ricoperti attentamente con il terreno sul quale era stato
sparso del letame.
La pianta del cotone aveva bisogno di cure particolari?
Se erano germogliati tutti i semi, bisognava distanziare le pianticelle. Si toglievano le erbacce che rallentavano la loro
crescita, sempre prestando attenzione a non danneggiarle. Si zappavano all'incirca ogni 20 giorni, prima di innaffiarle.
Le piante potevano essere distrutte dai bruchi che si cibavano delle foglie del cotone. Questo comportava l'ispezione
delle singole foglie, anche perché non si potevano utilizzare dei veleni come si fa oggi: i primi DDT sono arrivati con gli
Alleati dopo la guerra. Ricordo che quando ero piccola raccoglievo questi bruchi e li portavo ai tacchini che mi
facevano una grande festa.
Come e quando si raccoglieva il cotone?
Alla fine dell'estate le piante ormai alte si avviavano a ricoprirsi di tante palle (simili agli alberi di Natale) che ad un
certo punto si aprivano: bisognava essere svelti a recarsi nei campi per strappare da queste palle, che erano spinose e a
volte tagliavano le mani alle persone inesperte, il cotone insieme ai semi. Se uno tagliava queste palle vedeva che erano
formate all'interno da tanti scomparti, in cui c'erano i semi di cotone circondati da una fibra biancastra e lanuginosa.
Insieme al cotone potevano esserci degli alberi da frutta o altri arbusti?
Gli appezzamenti di terreno erano piccoli, spesso c'erano gli alberi da frutta. Ogni terreno veniva diviso in tanti parti
assegnate a coltivazioni diverse: al cotone, ai peperoni, ai pomodori e altre verdure per le esigenze della famiglia.
Questo avveniva anche perché le varie colture necessitavano di diverso tempo di annaffiatura e di cure distinte. Dopo
la raccolta del cotone nel terreno venivano seminate le fave, i ceci, la cicerchia e i piselli.
Ogni famiglia produceva il proprio cotone o comprava il filato?
I "favalesi" non sono mai stati ricchi, ognuno cercava di produrre il più possibile all'interno della famiglia; volendo
comprare qualcosa, era difficile trovare sia il prodotto confezionato sia i filati. Le fiere erano le uniche occasioni di
scambio, si attraversava il bosco per giungere a Nocara, dove si svolgeva una fiera abbastanza fornita di animali e qui
potevamo comprare l'ordito in matassoni, chiamato ritorto; a Rotondella e a Colobraro compravamo l’ordito colorato,
a Tursi si poteva comprare il cotone grezzo.
Cos'era l'ordito?
L'ordito è l'insieme dei fili destinati a formare la larghezza o lunghezza di un tessuto, tesi verticalmente sul
telaio fra i quali passavano i fili della trama per ottenere il tessuto. Per la laboriosità richiesta alla sua preparazione,
molte tessitrici preferivano comprano già preparato, anche perché in questo modo si poteva scegliere il colore
dell'ordito; i colori più diffusi erano il rosso, il giallo, l'azzurro e il rosa. La preparazione dell'ordito richiedeva molto
tempo. Per comodità si preferiva svolgere tale operazione all'aperto, addossando l'orditoio ad una parete. Questo
richiamava la curiosità e l'attenzione di tutti i passanti; così si creavano dei gruppetti di persone che ne
approfittavano per chiacchierare e per divulgare le novità del paese. I più piccoli prestavano attenzione alle bobine
che, in seguito allo srotolarsi del filo in esse contenuto, si sfilavano dalle asticelle dell'orditoio trotterellando sulle
pietre del selciato. Da qui il modo di dire "stà ordendo" per indicare la perdita di tempo di una persona che ama
fermarsi a parlare con tutti quelli che incontra.
Era faticoso coltivare il cotone? E raccoglierlo?
Si arava il terreno con i buoi e poi si zappava in profondità per frantumare e sminuzzare le zolle e i residui delle
coltivazioni precedenti. Aveva bisogno di frequenti annaffiature, quindi i terreni posti lungo il Sinni sono stati da
sempre sfruttati per questa coltivazione: da essa deriva il termine "vammachere" con cui vengono ancora oggi
indicate perché d'estate erano una lunga distesa di cotone bianco. Quei terreni rendevano di più se venivano coltivati
a cotone che non a grano, che si seminava nelle terre non irrigue.
Era raccolto da tutti i membri della famiglia e dai parenti o vicini con cui ci si aiutava a vicenda scambiandosi
i favori. La raccolta si trasformava in una festa perché si cantava e si raccontavano aneddoti e indovinelli, così il
lavoro sembrava meno faticoso.
I semi del cotone si compravano?
I semi venivano conservati di anno in anno. I semi destinati alla semina venivano staccati dalla fibra prima del
suo contatto con il calore. I semi che cadevano durante la sgranatura venivano dati alle mucche, poiché non
potevano più germogliare.
Si viveva in campagna o si raggiungevano i campi ogni mattina?
Le masserie erano poche rispetto alla popolazione. Qualcuno aveva delle casupole in campagne dove si concava
la notte, quando i lavori dei campi lo richiedevano. La maggior parte del popolo usciva di casa prima dell'alba per
recarsi in campagna: si vedevano delle processioni di uomini con le zappe sulle spalle, di donne con il fagotto del cibo
in precario equilibrio sulla testa e di bambini ancora assonnati. A seconda del periodo dell'anno c'erano anche gli
animali che servivano per arare, altrimenti solo asini o muli che poi al ritorno, erano caricati di legna, acqua o del
raccolto, che era trasportato nelle ceste dette "spurtòn".
I terreni erano in affitto?
Quasi tutti avevano il proprio campo, qualcuno era costretto a prenderlo in affitto dividendo a metà il
raccolto.
Si mangiava qualcosa di particolare in quel periodo dell'anno?
Mangiavamo nei campi una minestra di peperoni, melanzane, pomodori e cipolle molto sostanziosa, che era
trasportata dalle case all'interno del pane svuotato dalla mollica; il salame spesso veniva consumato nei giorni di
coltivazione.
Vi aiutavate o ogni famiglia lavorava da sola il proprio campo?
Quando il raccolto era particolarmente abbondante ci si aiutava tra familiari, tra amici e vicini di
"vammachere". Spesso ci si scambiavano dei favori nel senso che chi non aveva mezzi per lavorare i campi, aiutava
nella raccolta per ottenere l'aratura del suo terreno. La moneta era scarsa, la prima volta che ho visto 1.000 lire è
stato dopo la guerra, al matrimonio di mia sorella; i pochi centesimi che ogni famiglia riusciva a mettere da parte
erano gelosamente custoditi, per usarli in caso di malattia. Per questo motivo il lavoratore a giornata era
ricompensato in natura o con lo scambio del lavoro.
Dopo la raccolta cosa si faceva della bambagia?
Il cotone era trasportato dai campi a casa nelle ceste appese ai lati dell'asino o sui traini, lo si essiccava un
poco al sole per eliminare l'umidità e si conservava nelle casse di legno in attesa di essere lavorato.
Ogni donna della famiglia aveva il proprio compito nella lavorazione: le bambine lo prelevavano con il paniere
dalle casse: anch'io ho fatto questo lavoro come tutti gli altri. Ricordo che una volta ero andata con mia sorella a
prendere i fiocchi del cotone e nell'aprire la cassa dei topi mi saltarono addosso. Infatti non era raro che i topi
nidificassero al caldo del cotone.
Prima di poterlo lavorare, bisognava infornarlo nel forno tiepido, dopo aver cotto il pane, oppure riscaldarlo
vicino al camino prestando molta attenzione alle scintille. Le più grandicelle raccoglievano i fiocchi che cadevano dal
mangano per batterlo con l'archetto. Il mangano spesso era usato nei giorni di pioggia da qualche uomo di casa che,
seduto vicino al camino, azionava la manovella. Le donne più anziane filavano quasi ininterrottamente attorniate
dai bambini che osservavano divertiti il trottolare del fuso. Il filato ottenuto era avvolto alla macina e da lì le
ragazze più grandi e le mamme prendevano il filato per inserirlo nell'incannatore per preparare le bobine, che in
parte erano inserite nella spoletta e in parte si usavano per l'orditura.
Oltre al telaio si usavano altri attrezzi?
Lungo era il percorso per giungere alla tela. Dapprima si "tagliava" il cotone con il mangano (termine che
indicava la separazione del fiocco dal seme con il mangano); poi si batteva con l'archetto aiutandosi con la
"mozzarella" (un piccolo attrezzo di legno simile ad un campanella con il manico) solo dopo la filatura si
preparavano le bobine usando un arnese di ferro formato da un'asta che ad un'estremità aveva un cerchio che
consentiva di ruotarlo in senso antiorario; l'altra estremità, che era lavorata come una vite senza fine, era utilizzata
per inserire il capo del filo in una sezione di canna.
La canna era riempita di filo posizionando l'insieme filo, canna, attrezzo, in un foro praticato in una base di
legno che era fermata dalle ginocchia. Si ruotava in senso antiorario l'attrezzo con la mano destra, mentre con la
sinistra si regolava lo svolgimento del filo dalla macina. Il mangano, l'archetto, il fuso, la macina l'incannatore e il
telaio erano presenti in tutte le famiglie, mentre la rastrelliera che si usava per ottenere l'ordito era posseduta solo da
qualche famiglia che ricavava l'ordito per le altre oppure metteva a disposizione degli altri questo attrezzo.
Una volta ottenuto l'ordito, si passava a preparare il telaio per la tessitura. Non era facile preparare l'ordito,
per questo a volte si comprava. Si tesseva seduti ad una panca annessa alla struttura del telaio. Man mano che si
tesseva, il tessuto veniva avvolto ad un subbio posto all'altezza della panca. Quando l'ordito era stato tutto srotolato
e non si poteva tessere più, i fili dell'ordito si tagliavano. I fili di ordito rimanenti avevano la lunghezza pari alla
distanza fra il subbio appeso al soffitto e il pettine. Questi erano usati per cucire e per ricavarne dei lacci utilizzati
per chiudere i sacchi di farina.
Cos'è un tessuto?
Ogni tessuto è composto da un intreccio di due diverse serie di fili: l'ordito e la trama. Se l'intreccio si ripete
regolarmente si hanno i tessuti lisci tipo la tela. Se l'intreccio non è uniforme ma i fili, di vari colori, vengono
intrecciati in maniera non regolare si ottengono dei disegni particolari; in questo caso si hanno i tessuti operati più
difficili da realizzare.
Com'erano gli attrezzi, si potevano comprare?
Niente si comprava: tutti gli attrezzi erano di legno e venivano fatti in casa. Più bravi e più fantasia avevano i
maschi a lavorare il legno, più carini risultavano il mangano, la conocchia e la macina.
Si pagavano delle tasse per la coltivazione del cotone?
Il cotone era ricavato dal lavoro diretto dei campi e quindi era esente da tasse. Tutte le famiglie durante il
periodo del brigantaggio e delle, guerre nascondevano sia i generi alimentari sia i tessuti.
Ricordo che anche mio padre nascose le casse con il nostro corredo scavando delle buche sotto il pavimento
della stalla. Ai miei tempi ai bambini non dicevano mai niente al di là delle favole, i fatti della famiglia si potevano
conoscere solo da adulti. Per questo motivo, quando si nascondeva qualcosa, non si rivelava al resto della famiglia il
posto scelto come nascondiglio. Ecco che i tesori che a volte vengono ritrovati nei boschi non sono solo stati nascosti
dai briganti, ma anche da genitori che, dopo aver occultato i propri beni, morivano senza rivelare il nascondiglio ai
figli.
C'erano delle maestre tessitrici o ognuno inventava secondo la propria fantasia?
L'arte della tessitura si tramandava di madre in figlia; se non si sapeva in famiglia come ottenere una tela con
un motivo particolare, si ricorreva ai consigli del vicinato.
Non tutte sapevano comunque preparare il telaio per la tessitura, cosa complicata in quanto i fili dell'ordito
dovevano essere posizionati in un modo ben preciso, e i pedali dovevano essere saputi usare nei diversi modi al fine
di ottenere i diversi tessuti tipo: "piedivolto", questo termine deriva dalla lavorazione: infatti bisognava schiacciare
i pedali in modo alterno per fare innalzare o abbassare i fili dell'ordito tramite i licci; il "piedivolto a spighe" era
utilizzato per il sacco che conteneva la lana o le foglie di granturco necessari a riempire i materassi; il "piedivolto a
dritto" e il "piedivolto a chiazzane" (presentava una lavorazione tipo roselline intrecciate) usato per i pantaloni da
uomo dopo aver tinto la trama, e gli "scacchi" ottenuta con quattro licci; "p-pre grosso o minuto"; la "tela; la
"cinquepareti" era l'unico tessuto ottenuto con cinque licci, il numero massimo utilizzabile al telaio, ed era la
lavorazione più complicata. Le tessitrici più esperte e laboriose riuscivano a tessere qualunque tipo di tessuto
contemporaneamente alla fodere sottostante alternando le navette attraverso i licci.
Quindi si dovevano seguire degli schemi ben precisi, non sì poteva usare la fantasia: c'era il rischio di sprecare
il filato senza ottenere niente.
Il cotone si usava per tutti i tessuti in bianco?
Per le lenzuola, le coperte, le tovaglie e la biancheria intima si usava il cotone non tinto. La tela che aveva
qualche difetto si tingeva con le erbe e si usava per i vestiti. La biancheria intima del corredo era abbellita con delle
striature di filato rosso che si era ottenuto tingendo il filo con la melagrana. A volte, per ottenere un ordito verdino,
si bollivano e si filavano le foglie dell'agave: questo avveniva per ottenere dei tessuti diversi da quelli che le altre
famiglie confezionavano. Anche le ginestre si bollivano e filavano per ricavare tessuti di qualità scadente e di brutto
colore, con cui si ottenevano i sacchi. Le donne vestivano quasi tutta la loro vita di nero per rispetto ai defunti della
famiglia. Ricordo che "u fuse' (lunga gonna a pieghe di colore scuro) nero di mia nonna aveva delle striature
bianche causate dal continuo strofinio del fuso contro di esso. Per impedire questo inconveniente, solitamente, le
donne usavano poggiare una pelle sulla coscia per strofinarvi il fuso.
Nel nostro paese non c'era una tintoria e quindi ogni famiglia doveva industriarsi per tingere i tessuti,
soprattutto quelli destinati ai vestiti;
si usavano coloranti molto alla buona e un procedimento grossolano. I tessuti ottenuti si mettevano a bollire
con le cortecce di quercia, con le bucce di noci, per ottenere dei vestiti scuri dal grigio al nero; si usavano le
melagrane o le radici della robbia, che è una pianta spontanea per ottenere abiti colorati di rosso.
Si vendeva la bambagia, il filato o la tela?
Difficilmente chi produceva la bambagia la vendeva anche se, in caso di necessità, si vendeva tutto. In ogni
caso si preferiva vendere o barattare il filato e soprattutto la tela perché si otteneva un maggior guadagno. Le tele
destinate alla vendita si realizzavano su commissione.
I tessuti erano tutti uguali?
I tessuti non erano tutti uguali. Il filato molte volte non era uniforme perché non si filava continuamente e a
volte il fuso passava di mano in mano. I tessuti differivano tra di loro in relazione al disegno: più era difficile da
realizzare, più era complesso, particolareggiato e più era pregiato. Le tele, una volta ottenute, erano sottoposte a
ripetuti trattamenti di liscivia e acqua bollente saponata che le rendevano simile al lino per colore e morbidezza.
Quando si dovevano confezionare tele destinate al corredo si preferiva lavare il filato per ricavare un tessuto
morbidissimo.
Alcune erano così brave da ottenere un filato sottilissimo da usare con la macchina da cucire, utilizzando dei
fusi di dimensioni ridotte rispetto a quelli usuali. Ricordo che quando iniziavamo a tessere una nuova tela, si
otteneva un tessuto chiamato "nunnend" (utilizzando solo due licci) usato per confezionare strofinacci, per due
motivi: il primo era che per ricavano serviva poco filo, il secondo era la possibilità di osservare e controllare il
disegno del tessuto pregiato che si avviava dopo aver lavorato per mezza canna.
I telai erano presenti in tutte le famiglie?
In quasi tutte le case c'era il telaio; ci recavamo nelle filande presenti nel paese non per tesservi ma per battere
il cotone o per "parare" le tele destinate alle coperte (si compattava il tessuto battendolo).
La giovane sposa portava dalla casa del padre tra gli attrezzi domestici solo il fuso, in quanto la casa dove
andava a vivere solitamente era quella della suocera e quindi aveva già tutto il necessario per tessere. I telai erano
diversi per dimensioni e quindi anche le stoffe avevano larghezze diverse.
C'erano le filande?
Alcuni mesi all'anno si poteva lavorare a giornata presso la filanda di contrada Patella. C'era bisogno
soprattutto di filare tanto, per permettere alle più esperte di tessere velocemente. C'è stato un periodo in cui la
filanda restò aperta tutto l'anno; in essa era possibile cardare il cotone tramite un attrezzo volgarmente chiamato
"vattavammece": in questo modo si riduceva il tempo da dedicare alla battitura con l'archetto.
Si portavano i sacchi pieni di cotone grezzo, si pesavano e si pagava in ragione dei chilogrammi grezzi. La
continua richiesta di cardare il cotone da parte non solo dei paesani, ma anche dei forestieri, rese necessario
impiegare a tempo pieno minimo un operaio.
Per attivare questo attrezzo era sfruttata la corrente del fiume Sinni. In seguito all'alluvione del 1944, la
filanda e il mulino furono trasferiti in contrada Orga; non potendo sfruttare la forza motrice del fiume gli ingranaggi
erano attivati dal fuoco. Tale soluzione ebbe vita breve.
Si lavorava insieme nel periodo della filatura? E della tessitura?
Si filava soprattutto di sera alla luce del camino e quindi solo le donne della stessa famiglia filavano insieme. Il
telaio poteva essere usato da una donna per volta; le ragazze solitamente assistevano curiose l'operato delle più
esperte, per apprendere il mestiere.
Si potevano ottenere i diversi tipi di tessuto muovendo i pedali in modo alterno e aggiungendo più licci, fino
al numero massimo di cinque.
Il filato serviva solo per ricavare i tessuti destinati alla dote delle ragazze? Solitamente si cercava di tessere
una buona tela che doveva durare tutta la vita. Una volta sposate le donne non pensavano più a fare qualcosa per
la loro casa, pensavano solo ai vestiti della famiglia e soprattutto a dotare le figlie.
La famiglia dotava la figlia in base alla propria condizione e, se inferiore a quella dello sposo, cercava di
adeguarsi dotando la figlia con capi più raffina¬ti. In base alla condizione familiare c'erano i corredi di sei pezzi, di
otto, di dodici fino ad un massimo di quindici, numero massimo assicurato dalla famiglia, in quanto le ragazze
esperte nella tessitura ampliavano il loro corredo potendo giungere a realizzare ventiquattro pezzi. Tutte le figlie
dovevano avere la stessa dote per evitare gelosie.
Le donne della mia età e quelle più anziane di me, quindi, filando e tessendo, si procuravano da ragazze il
corredo da sposa; c'erano persone che lavoravano per conto altrui, e naturalmente si facevano pagare per i capi di
biancheria quali lenzuola, tovaglie, copriletto ed altro che ricavavano dal loro telaio rustico e che servivano per il
corredo delle figlie dei più agiati. Oggi la tradizione del corredo è quasi tutto scomparso e così filatrici e tessitrici
sono da tempo scomparse.
La dote come veniva consegnata alla sposa?
Nel corso della settimana precedente al matrimonio, il corredo della sposa veniva perfezionato in vista della
sua esposizione. Nella casa d'origine della sposa veniva esposto ogni capo donato dai genitori alla figlia; tutto
doveva essere valorizzato al meglio: ecco che le ragazze più fantasiose venivano invitate ad aiutare ad esporre il
tutto, dalla biancheria agli utensili da cucina.
Dopo l'esposizione alla cui visione venivano invitati tutti i famigliari e gli amici degli sposi, il tutto si
raccoglieva su ceste e "spase" (ceste piane in vimini) abbellite con nastri e fiori per essere portato in processione alla
futura casa degli sposi per conservarlo in attesa di utilizzano.
Le donne erano anche sarte?
Tutte le donne si adattavano a cucire e rattoppare gli abiti per tutta la famiglia. Solo in occasione dei
matrimoni si chiamava la sarta, che restava nella casa della futura sposa tutto il tempo necessario a confezionane il
corredo e gli abiti dei familiari. Le sarte erano accolte con grande rispetto nella casa della famiglia della sposa: esse,
oltre al compenso per il lavoro svolto, mangiavano e dormivano nella casa della sposa, quando questa era lontana
dalla propria, per tutto il tempo necessario all'allestimento del corredo.
Le donne si recavano dalle sarte del paese per qualche consiglio e per far controllare il proprio operato.
La coltivazione e la lavorazione del cotone provocava malattie?
Quando si lavorava la bambagia che era rimasta per lungo tempo nelle casse, c'era il rischio di allergie che
andavano dal ricoprirsi di vesciche a crisi d'asma, starnuti e bruciori lungo il corpo. Il tessuto di cotone, lavato dalle
impurità, è stato sempre usato da tutti perché non da problemi come la lana che punge, si lava facilmente e, se
indossato per molti giorni, non fa sentire cattivi odori.
Tursi scomparsa raccontata ai ragazzi
Rocco CAMPESE
Alcuni aspetti dell'economia tursitana: produzioni, opifici e mestieri
Produzione e commercio di lana e bambagia
Il commercio della lana grezza, per la presenza di allevamenti, era fiorente anche se di questa produzione non
vi è traccia scritta, se non le note riportate nella Statistica Murattiana che ci rimandano al 1811 e che riguardano
direttamente Tursi:
'Pastorizia. Si esercita in luoghi d'onde si sono raccolti de' cereali, ed in prati incolti; è stata finora promiscua,
ed in terreni coperti. La pastorizia è di sussidio all'agricoltura perchè dà gli animali colla quale si esegue, e
somministra del letame.
( .... ) Le lane sono buone, ma nel genere di quelle così dette carfagne, si potrebbero migliorarsi coll'introdursi
delle nuove razze. L'annuo prodotto è di poco più che cantaja 20, che quasi intieramente estraesi al prezzo di £. 126
al cantajo. Il latte è di mediocre qualità, con quello delle vacche fabbricansi de' caciocavalli, con quello delle capre, e
pecore del cacio, e ricotte per quanto sono solo sufficienti al consumo. ( .... ) Vi sono da 3.000 tra pecore, e capre, da
300 animali vaccini, e da 500 porci. Vi sono addetti alla custodia delle pecore e capre da 60 individui. Una pecora dà
di prodotto £. 5,50 de' quali toltone per le spese annue, rimane di profitto £. 1,50".
Le pecore, in gran numero, sono state allevate fino alla seconda metà del secolo scorso subendo poi una
drastica riduzione. Da dati resi ufficiali nel 1930 (Consorzio di Bonifica di Bradano e Metaponto), si registra nell'agro
tursitano una sensibile variazione avvenuta nel periodo post-unitario. Infatti, per il periodo 1876-1881 i dati
evidenziano una situazione certamente non positiva: sono presenti 648 ovini, 512 caprini e 98 suini. Nel 1908, invece,
si registra una sostanziale, e per certi versi eccezionale crescita: 14.461 ovini, 6.471 caprini, 546 suini. Nel 1918 gli
ovini scendono a 12.220 capi, i caprini a 4.915 ed i suini a 497, questi ultimi destinati esclusivamente al consumo
domestico.
Diversa fortuna ha avuto invece il cotone (bambagia). La sua produzione ha almeno tre secoli di vita
documentata ed è durata anch'essa sino agli anni Sessanta circa. Agli inizi del 1800 la superficie investita a cotone
superava gli 800 tomoli e ciò dimostra l'importanza di questa coltura nell'economia locale se si considera che 1.100
tomoli dell'agro tursitano venivano utilizzati per la coltura del grano e di altri cereali. Spesso, questa coltivazione
veniva realizzata con il sistema delle "partite": da una parte proprietari che concedevano in uso il terreno e dall'altra
famiglie che disponevano di minimi capitali e soprattutto della manodopera. A raccolta avvenuta, il prodotto veniva
suddiviso in base agli accordi precedentemente contratti.
I "compratori" giungevano da diverse località delle regioni meridionali e la vendita avveniva in quella che oggi
è Piazza Maria SS. d'Anglona oppure nello spazio antistante la Chiesa Cattedrale.
"U vamniacèr" era il soprannome che caratterizzava il compratore di cotone ed uno di questi stabilì la propria
residenza proprio a Tursi. Diversi, già dalla seconda metà del 1600 si erano insediati a Rotondella, Valsinni e
Montalbano.
Nella seconda metà dell'Ottocento, le varie qualità di cotone prodotto nell'agro tursitano da Egidio Lauria
(che ricoprì l'incarico di sindaco negli anni dell'Unità d'Italia, di Vice-Pretore e di Consigliere Provinciale) riscossero
successo alle Esposizioni di Torino e di Parigi.
A Torino, il Lauria ottenne la medaglia di bronzo mentre a Parigi gli venne conferito il Diploma di membro
dell'Accademia di Agricoltura, Industria e Commercio.
Grano e mulini
D'estate, centinaia di persone provenienti dalla vicina Puglia e dai comuni situati nella Basilicata interna,
giungevano in paese (che cresceva così anche come numero di abitanti) per la mietitura. I mietitori giungevano,
spesso, solo con l'attrezzo (la falce ed i cannelli salvadita) ed una giacca. I gradini esterni delle chiese e qualche antro
delle abitazioni rappresentavano i luoghi di pernottamento di questi "stagionali" che per risparmiare e portare a
casa qualche soldo dormivano all'addiaccio, favoriti anche dalla calura estiva. Quando le cose andavano male spesso
ci si contentava anche solo del vitto.
A Tursi, intorno alla mietitura, è nato anche il detto ironico: "a paranz' d' dòn F'rrand', dud' 'c'
m't'tur' e trid'c lii'and". "La paranza-squadra di mietitori di don Ferrante, dodici mietitori e tredici
leganti". (I leganti erano coloro che dovevano legare in fasci più grossi quelli piccoli fatti dai mietitori
e di regola dovevano essere meno numerosi dei mietitori stessi. Solo nelle proprietà di Don Ferrante
avveniva il contrario).
A fine mietitura avveniva la pestatura, effettuata sull'aia con animali da soma e/o con magli, e
con conseguente ventilazione per pulire il grano. Successivamente, seguiva sempre la "spigolatura",
cioè la ricerca delle spighe rimaste per terra, nei campi. Anche per la "spigolatura", il più delle volte,
occorreva chiedere il permesso ai padroni i quali, spesso, riservavano tali spighe agli animali.
Essendo, quindi, presente ed abbondante nell'agro tursitano e colobrarese la produzione
cerealicola, interessante è stata economicamente la presenza stessa dei mulini.
Gli anziani ricordano ancora il Mulino del Monte, presso l'attuale Diga di Gannano che
funzionava ad acqua, come tutti i vecchi mulini e del quale si diceva che troppo spesso aveva dei
guasti tanto che ne venne fuori un proverbio: "ass'mmigghi's' alu muuìn' du Mont" (somigli al Mulino
del Monte, proprio perché non funzionava in continuazione creando, quindi, innumerevoli disagi).
Altro mulino del quale sopravvivono alcuni vani, quello del Campo, anche questo alimentato ad
acqua. In antichi documenti viene citato anche il Mulino della Finata, situato al confine con il
territorio tursitano, ma ricadente in agro dì Colobraro, mentre non si menziona un mulino ad acqua
sito in località Pescogrosso, zona poco distante dal centro abitato, alimentato anch'esso ad acqua, e di
cui sono visibili ancora oggi alcuni resti.
Quest'ultimo, dovrebbe essere ancora più vecchio (è solo un'ipotesi non supportata da
documenti), sia perché è svanito qualsiasi il ricordo circa la sua attività e sia perché, diminuendo la
portata d'acqua del torrente dall'omonimo nome, sarebbe stato necessario costruirne altri in
prossimità dei fiumi che garantivano un continuo e costante flusso idrico rispetto al torrente.
Successivamente alla presenza degli opifici citati, furono attivati i mulini alimentati con energia
elettrica: quello dei Di Giura (poi Di Giura-Vinciguerra), in Via Eraclea, da pochi anni chiuso; quello
dei Giampietro, che usava ancora la macina di pietra come elemento caratteristico, sito in Via Dante
Alighieri; poi quello dei Bilotta, in Via Roma, ed infine un altro, costruito ma non completato dai
Giampietro (in Via Toselli) che non entrò, quindi, mai in funzione. Quello del Campo ha funzionato
fino al periodo della seconda Guerra Mondiale e, molti vecchi tursitani raccontano, ancora oggi, dei
diversi sotterfugi inventati -onde evitare di essere scoperti dalle forze dell'ordine mentre
trasportavano a spalla sacchi di grano (o di altri cereali) al mulino e poi farina, da qui al paese.
Forni e panifici
In passato, ogni famiglia provvedeva a panificare. Alla preparazione del pane, quasi sempre, si
aggiungeva quella relativa a focacce di vario genere oltre ai diversi tipi di prodotti, di quelli che oggi
chiamiamo "da forno". Le ragazze apprendevano, sin da piccole, i vari segreti per ottenere un buon
pane che iniziava dal lievito. Il lievito girava, infatti, di casa in casa e, a ricordare questa usanza,
tipica del "buon vicinato", c'è il detto popolare: "cè nu mòn'ch' tunn' tunn', ve 'mbr'nann' tutt' u umunn'
è v'nut' ala chèsa mméi' è 'mbr'nèt' a mamma méi".
(C'è un monaco tondo tondo (lievito) va lievitando tutto il mondo (la farina impastata) è venuto
a casa mia ha lievitato anche (la farina) di mia madre).
Le famiglie numerose, spesso, erano costrette a panificare quasi ogni settimana. I forni privati
erano numerosissimi e coloro che non lo possedevano chiedevano spesso ai "padroni" di infornare dopo
di loro. Accanto ai forni privati vi erano quelli pubblici, a pagamento, anch'essi molto frequentati.
Si ha ricordo del forno di San Michele, nelle vicinanze di Piazza Plebiscito e di un altro situato
nella parte più bassa del paese. In genere, i forni erano gestiti dalle donne per cui si è avuto in passato
la presenza di molte 'firnèr" (fornaie). Alcune di queste vendevano anche il pane da loro prodotto e
venivano definite "a pan'ttér" (panettiera).
Nella seconda metà del secolo scorso, alcune leggi hanno vietato l'uso del forno privato per motivi igienici.
Quelli ad uso pubblico hanno subito numerosi cambiamenti per adeguarsi sia alle normative e sia perché più
funzionali ed economicamente redditivi (forni ad alimentazione elettrica o con combustibile).
Tra questi panifici ricordiamo quelli di Di Giura e Vinciguerra (oggi chiusi), di Mirri, dei fratelli Cafaro, di
Mormando, di Santamaria e di Suriano.
Di persone che oltre a panificare si occupavano anche di produrre biscotti e paste secche, non certo quelle
della moderna industria dolciaria, troviamo notizie anche in qualche poesia del maestro Vincenzo Cristiano. Nel
forno, poi, oltre al pane, alle focacce, ai calzoni venivano infornate le cotogne, i fichi, i fichi imbottiti con mandorle,
le mandorle. Vuoi che venisse utilizzato un forno pubblico o privato, le vie di Tursi (così come di ogni altro nostro
piccolo paese), si riempivano di odori indimenticabili che spesso spingevano adulti e ragazzi ad avvicinarsi nella
speranza di un invito a gustare......
I frantoi
Anche i frantoi erano numerosi, segno della presenza di molti uliveti. La raccolta delle olive avveniva spesso
con il contratto (per lo più verbale), della mezzadria. Chi andava a raccogliere le olive doveva dividere a metà con il
proprietario del terreno. Spesso, veniva loro richiesta anche una giornata di lavoro gratuito nei campi prima di poter
procedere alla raccolta del frutto.
I più importanti produttori di olio (il dato è riferimento agli anni '20-'40) erano i Latrecchina, Antonio De
Santis, Eugenio Camerino, D. Capitolo.
Le mole dei primi frantoi giravano mossi dalla forza di asini e muli. Per la pressa ci si serviva di lunghe
pertiche di legno che, azionate da operai, avvitavano il piatto superiore della pressa stessa.
Il periodo della molitura delle olive era particolare; si verificava un movimento insolito animato da veri e
propri gruppi, moltissime le donne, che procedevano alla raccolta effettuata completamente a mano. Non esistevano
tutti gli strumenti moderni: reti, mani di plastica, scuotitori e mezzi meccanici per il trasporto. Il trasporto avveniva
a spalla oppure utilizzando asini e muli.
Durante la notte, quando tutti dormivano, dover restare al frantoio in attesa del proprio turno per molire, il
percepire l'odore dell'olio penetrante e piacevole, osservare tutte quelle persone indaffarate, rappresentava qualcosa
di irripetibile. Spesso, a casa, mentre si dormiva, si sentiva bussare e ci si alzava perché era giunto "u trapp'tèr" a
consegnare l'olio contenuto nei barili (successivamente in contenitori metallici sino a quelli in plastica degli anni
Sessanta).
Nelle serate di novembre-dicembre, periodo della raccolta e molitura, anche le pietanze che accompagnavano i
momenti trascorsi nei campi e quelli successivi nei frantoi, racchiudevano sapori difficili a descrivere. Per i lavoranti
venivano preparati peperoni fritti con le patate, baccalà con peperoni, salsiccia tenuta per mesi sott'olio, maccheroni
con la carne quando si aveva tempo a sufficienza e si voleva cucinare qualcosa di "buono" (questo piatto era
riservato al momento conclusivo della raccolta). Venivano utilizzati sottaceti ed altri prodotti tipici dell'area che non
a caso, ancora oggi, rappresentano un "elemento forte" nei menù dei ristoranti.
Quando si toglieva l'olio dai tini, il maestro dei lavoranti si sedeva davanti ed iniziava, con una specie di piatto
metallico (più piatto di quelli da cucina), ad asportava delicatamente l'olio dalla superficie riempendo "a uc' du
trappit", una "luce" di argilla dalla capacità di tre litri d'olio che spettava al padrone del frantoio.
Il giorno, poi, era bello vedere alcune donne che giravano per il paese con un fiaschetto d'olio sotto il braccio
ed un sacchetto in testa. Erano quelle che andavano per le case a prendere le olive di coloro che ne possedevano in
modestissime quantità e consegnavano loro un corrispettivo in olio, secondo una pratica convenzionale.
L'intero ciclo (dalla raccolta alla molitura), rappresentava un piacevole ed importante momento di incontro
per adulti e fanciulli. Ci si ritrovava in compagnia lavorando e cantando.
Diversi i frantoi oleari: ne esistevano due in Rabatana (di cui uno nella parte bassa dell'attuale Via Conte di
Torino, l'altro in Via Duca degli Abruzzi), dei Cristiano, presso la fontana, successivamente chiuso da un muro di
sostegno, realizzato a salvaguardia delle abitazioni situate nella parte alta del Rione.
Giù nel paese si ricordano quello dei Virgallita, nel rione San Michele, in Via Carlo Alberto, quello dei Pieno
(poi dei Latronico), in Via Garibaldi, quello dei Guida in Via Oliva, quello dei Latrecchina, in Corso Vittorio
Emanuele, quello dei Labriola, in Corso Vittorio Emanuele, quello dei Petrilli, in Viale Sant'Anna, poi dei
D'Alessandro, in Via Donnaperna, quello dei Romano, in Via Dante Alighieri, quello degli Scialoia a Panevino ed
altri.
I terracottai (I ruuagnèr')
Tursi, ha un territorio vario per l'aspetto morfologico (collinare ed in piccola parte di bassa montagna,
pianeggiante a ridosso di fiumi e torrenti e nella piana di Campofreddo - Panevino), presentando terreni fertili ed
adatti alla coltivazione alternati ad ampie estensioni rocciose, altre arenose, altre ancora argillose, altre ancora un
misto di arenaria e argilla (timba), adatte ad essere scavate per ricavarne grotte in cui conservare prodotti vari o
tenervi al riparo gli animali da soma.
Dall'argilla i tursitani avevano imparato a trame manufatti tipici, tramandati sin dall'antichità: vasi, fiaschi,
brocche (star'cèll'), colombaie (fiaschi bassi con 4 o più aperture ai lati usati per farvi bere i colombi), tegole,
mattoni, cilindri cavi di circa mezzo metro di lunghezza per realizzare grondaie e scoli di acqua piovana, ecc.
Fiaschi, vasi, contenitori vari, necessari alla vita quotidiana, erano di gran lunga i più usati, mentre i mattoni
venivano utilizzati nei tempi andati per piedritti degli usci, per le piattabande di porte e finestre o per camini ed
altro. Erano soprattutto usati per realizzare gli archi, a due o tre file, con la solita chiave al centro. Infatti, gli archi
in pietra, i più vecchi, son pochissimi e li troviamo solo in Rabatana.
Per lavorare l'argilla si usavano attrezzi particolari: il piatto rotante in legno, azionato col piede per lavorare
oggetti come vasi, fiaschi, brocche, ecc.; per i mattoni, invece, venivano utilizzate le tipiche forme in legno. Per il
completamento dell'opera del vasaio, dopo l'asciugatura dei manufatti che avveniva all'aperto sfruttando il calore
del sole, occorreva la cottura, che avveniva nelle fornaci.
A Tursi, testimonianze sull'esistenza di fornaci ne troviamo molte. Una era situata a pochi metri dal Convento
di San Francesco d'Assisi, ancora oggi visibile; altre poco dopo il vecchio Bacino Idrico del paese, oltre la Rabatana,
lungo la strada per Caprarico, tanto che la zona prese il nome "i furnèc", le fornaci. Altre due erano situate presso
Pontemasone, una sulla strada che si muove in direzione di Montalbano Ionico l'altra su quella che conduce ad
Anglona. Un'altra fornace è venuta fuori durante le operazioni di sbancamento effettuate sul lato destro dell'attuale
e centrale Via Roma, segno che una frana, in passato, l'aveva sepolta.
Le fornaci, utilizzate anche perla cottura delle pietre calcaree, abbisognavano non solo della bravura,
dell'esperienza e di un'attenzione particolare da parte del personale impegnato, ma soprattutto necessitavano di una
grande quantità di legna. Un vecchio muratore, infatti, mi raccontava che spesso venivano disboscate vaste
superfici, soprattutto in occasione di una forte richiesta di produzione di calce.
L'argilla locale possedeva buone qualità e, sino agli anni '40-'50, a Tursi, ha operato un terracottaio in gamba
(Leonardo Continanza), il quale venne invitato ad esporre i suoi prodotti in Toscana. Era desideroso di tramandare
la sua arte a molti giovani e per raggiungere questo obiettivo avrebbe voluto aprire una vera e propria scuola che,
però, non vide mai la luce in quanto nessuno offrì l'impegno necessario affinché l'iniziativa potesse materializzarsi.
In un'altra fornace, esistente poco dopo l'Acqua Salsa di proprietà di Francesco Padula, che aveva continuato
l'arte paterna, venivano prodotti mattoni.
Una produzione realizzata con attrezzature moderne, avveniva in località "Frascarossa", presso l'attuale bivio
SP 154 Tursi - Moltalbano, Marone, Contrada Monte. In questa "mattoniera" si producevano oltre i tipici mattoni in
argilla, anche manufatti con granelli di pietre cementate con sabbia e cemento. In località Filici, invece, era stata
installata una grande "mattoniera" per la la produzioni di manufatti per l'edilizia che ha funzionato sino a qualche
decennio fa. Sia la mattoniera di Frascarossa che quella di Filici rifornivano l'intera area del Basso Sinni.
I falegnami
Un'attività fiorente è stata quella svolta sino a pochi decenni fa dai falegnami. Nei loro laboratori, con i pochi
attrezzi necessari, quali pialle, seghe e qualche tornio di legno, oltre le morse e la colla, i martelli ed i chiodi,
riuscivano a realizzare ogni oggetto occorrente alle famiglie. Il più delle volte, soprattutto nella prima metà del
Novecento, essi andavano nel bosco del Comune a tagliare qualche idoneo albero e da esso ricavavano le tavole o gli
angolari necessari alla bisogna.
Gli oggetti maggiormente richiesti dalle famiglie erano bauli e casse per la conservazione di indumenti e prodotti
agricoli. Costruivano anche "appendirame" per cucina, tavoli, sgabelli e simili, senza contare i mobili come armadi,
cassettiere e similari. Le porte, poi, (quelle più vecchie col caratteristico buco per l'accesso libero del gatto), e le
finestre erano un altro prodotto di rilievo del falegname e, purtroppo, anche le bare per i defunti. Non mancava la
costruzione dei "varlacchiun" e opere di carpenteria. I falegnami spesso lavoravano anche le travi per gli edifici in
costruzione, quando queste non venivano importate da fuori paese, da Francavilla sul Sinni, dal Bosco Pantano di
Policoro o dai paesi dell'Alta Valdagri. Sino agli inizi del '900, per il trasporto di tronchi di abeti da Francavilla, si
sfruttavano le acque del Sinni.
Un attrezzo non di uso comune, usato solo da alcune donne, era il telaio e pochi falegnami erano bravi a realizzarlo.
Altri si specializzavano nella costruzione di barili, botti, tini ed manufatti destinati ad un uso specifico.
Tra gli artigiani tursitani ricordiamo Antonio Martire, Salvatore Veneziano, Titolo, Giuseppe Fusco, Biagio Gallo
(parente di Antonio Basile) e Pasquale Cassavia Vincenzo Oliveto, Antonio Cassavia, Alfonso Gallo, Panio, Antonio
Gulfo, Umberto Mirri, Vincenzo Tarantino ed altri. Molti di questi erano veri maestri nella lavorazione del legno.
Veneziano scolpì su legno la testa di Cristo coronato di spine mentre Pasquale Cassavia realizzò due seggi episcopali
nel 1951.
I muratori
Si può dire che questo mestiere sia uno dei più antichi e che, probabilmente, ha sempre richiesto maggiore
esperienza rispetto ad altri.
I muratori, infatti, non erano abili solo a costruire i muri, ma la loro esperienza li spingeva a realizzare costruzioni
con l'assenza sia del "tecnico" che del "progetto", considerando che nei tempi addietro le case erano spesso formate
da una o due stanze al massimo. Essi erano anche in grado di realizzare forni (calcolando la curvatura della volta),
archi e volte (spesso di notevoli dimensioni) e, soprattutto, le così dette "lamie", cioè costruzioni a volta con la
copertura a doppio spiovente.
A Tursi si usava molto edificare con il sistema delle volte che serviva ad alleggerire le costruzioni e per sostenere
scale e loggiati. Alcune di esse superano in altezza i dieci metri.
I muratori, per la costruzione dei muri erano soliti lasciarvi dei buchi nei quali infilare i sostegni in legno su
cui poggiare le tavole fungenti da piano di lavoro. Essi usavano le pietre dei torrenti Rabatana e Pescogrosso,
trasportate da asini e muli, lavorandole con i martelli e intercalando, quando si poteva, pezzi di mattoni.
La costruzione di una casa comportava una serie di operazioni preliminari ad iniziare dalla preparazione della
calce, per cui venivano cercate le pietre calcaree da cuocere nelle fornaci. Spesso, nelle facciate in muratura di
cantine o grotte venivano realizzati buchi per i colombi (i cuumbèr').
I muratori selciavano anche le strade, costruivano muri di sostegno, ponti e quant'altro connesso alla loro
attività. Tursi vanta costruzioni di notevole rilievo sia dal punto di vista architettonico (Chiese, Conventi e palazzi
gentilizi) che per dimensioni e fruibilità. Esse evidenziano la qualità del lavoro svolto dalle maestranze locali ed il
gusto dei proprietari anche quando, a volte, vennero utilizzate maestranze più esperte che giungevano dai centri del
Lagonegrese e del Salernitano. Alcuni palazzi situati in Rabatana, rappresentano tipici esempi di come all'estetica si
univa l'utilità, sfruttando le acque piovane, creando volute con legno e canne ricoperte da calce e costruendo divisori
leggeri con "incannucciate" rivestite.
I fabbri ferrai
Un proverbio tursitano recita: "tutt' i cos' su f'ssarìi' for' ca fòrg' e massarìi" (tutte le cose contano poco, sono
quisquiglie, tranne che i laboratori dei fabbri e le masserie).
Questo la dice lunga sull'importanza dei fabbri ferrai. Essi erano dei veri artisti del ferro. Realizzavano chiodi
particolari, ferri per animali da soma, vomeri, zappe di varia foggia, inferriate, sostegni di metallo, ruote per traini o
per altri oggetti, battenti per le porte, attrezzi per il camino, camastre, cancelli, ringhiere, lettere per le iniziali delle
persone che solevano apporre proprio sulle ringhiere, unitamente all'anno di costruzione oppure sulle porte delle
cantine, pale, "firzuli" e crescenti ed ogni altro attrezzo utile all'uomo. I fabbri ferrai provvedevano anche alla
tosatura degli animali da soma che essendo un supporto indispensabile alla vita del paese rendeva i fabbri necessari
"come i chirurghi". Essi in genere lavoravano "au stagghi", cioè assicuravano un certo numero di prestazioni
soprattutto ai contadini e poi venivano pagati ad agosto alla raccolta del grano.
Tessitrici, ricamatrici, filatrici
Attività che pure avevano la loro importanza, ma forse meno appariscenti rispetto ad altre, erano quelle delle
tessitrici e delle ricamatrici così come pure quelle dei cestai e dei carbonai.
Le prime, ordivano il filo ottenendone stoffe per vario uso, di ottima fattura e resistenza, per tovaglie, lenzuoli,
asciugamani, ecc. In base all'uso della pedaliera si ottenevano disegni vari sulla stoffa ottenuta, e una esperta
tessitrice, che riusciva a predisporre la sequenza dei pedali del telaio per ottenere determinati risultati era la signora
Giulia Lapolla che abitò in Rabatana sino al giorno del suo matrimonio, per poi trovare definitiva dimora nel centro
storico di Tursi.
Era un'occupazione tipicamente femminile, durata sino a quando il cotone non è stato importato già filato. Vi
provvedevano col fuso, filatrici di mestiere ed un gran numero di donne per le quali quell'attività, aldilà dell'aspetto
economico, rappresentava anche un momento di incontro. Non dimentichiamo, infatti, che non esistevano momenti di
distrazione. Il rumore del fuso che roteava sul pavimento, quel suo muoversi intorno ad un centro invisibile forniva
una compagnia, quando si era soli; compagnia che poteva paragonarsi solo al ticchettio dell'orologio quando si restava
ad osservare lo scoppiettio del fuoco, nei lunghi inverni senza eccessive possibilità di spostamento.
Tra le tessitrici vissute sino alla metà (ed anche oltre) del secolo scorso, si ricordano Maria Domenica Digno,
Assunta Gulfo, Carmela Campese e l'elenco potrebbe continuare.
Tessuti rimasti famosi sono quelli che venivano realizzati dalle Suore che facevano capo alla Chiesa delle Nobili
Donzelle in San Domenico, situata nel luogo denominato "Pizzo delle Monachelle", che ancora agli inizi del 1900
tessevano e, si tramanda, che tessessero un palmo di stoffa al giorno (circa 25 cm).
A questo punto il maestro avvolge il foglio su cui sta leggendo e lo butta dietro le sue spalle, come quando si
porta a termine un'azione. Il giovane gli chiese se con quel gesto volesse significare che il lavoro del telaio non fosse
rilevante.
Ma il buon vecchio, sorridendo, disse: "Le ragazze non ancora sposate o fidanzate, quando terminava il filo che
era nel cannolo della saetta, spesso, uscivano nelle strade e, voltando le spalle, vi buttavano il cannolo. Serviva per
conoscere chi dovevano sposare o di quale condizione economica sarebbe stato il loro compagno di vita, scoprendolo
con l'osservare chi fosse passato di lì per primo". Detto questo, riprese a parlare delle attività.
L'arte del ricamo era un'attività tipicamente femminile. Il tempo "libero", comunemente inteso, non esisteva.
Ogni momento della giornata era destinato ad una qualche occupazione. Si ricamava al sole mentre si colloquiava, o in
casa o negli atrii di diversi palazzi del centro storico.
Importante era, tra i "ferri del mestiere", il telaietto, fosse quello rotondo per tendere la stoffa e farvi i ricami
o quello a losanga sopra i cui bordi erano disposti moltissimi chiodini per farvi passare intorno il filo e poter
preparare l'orditura per realizzare "i centri" da depositare sui tavoli.
Vi erano ricamatrici davvero preparate, che univano professionalità e creatività, producendo su
"commissione" i corredi per le "ragazze da marito". Il corredo ha rappresentato il manufatto al quale le ricamatrici
dedicavano la maggiore parte del tempo. Un ruolo importante nell'insegnamento delle tecniche del ricamo è stato
svolto dalle Suore Figlie dell'Oratorio, giunte a Tursi negli Anni Trenta. Esse non solo ricamavano ma svolgevano
una vera azione di "formazione" tra le ragazze tursitane.
Gli asciugamani, le coperte e le lenzuola erano e sono ancora oggi, i manufatti più richiesti da ricamare e molti
fanno realizzare all'uncinetto anche coperte ed altri elementi da corredo alle stesse ricamatrici. Infatti il ricamo con
l'uncinetto era un'abbinata tipica. L'uso dei ferri per fare maglie ancora è praticato, ma una volta serviva anche e
soprattutto per realizzare calze vuoi di cotone che di lana.
Carbonai, cestai, bastai
Attività con meno "addetti" era quella finalizzata alla produzione di carbone e carbonella per fuoco, per ferro
da stiro e fornacette.
Alcuni erano del posto ma spesso giungevano da altri paesi. La presenza di boschi e di macchia mediterranea
forniva le garanzie di esercizio dell'attività.
Numerosi, invece i cestai. I cesti servivano per usi diversi: panieri per porvi uva, fichi, frutta in genere, "sporte
e sportelle" per trasportarvi soprattutto cibarie e pasta per il forno, panni ed altro, "spase" che erano manufatti
completamente piatti, realizzati, come gli altri con vimini oppure con vimini e strisce di canne. In genere i cestai
erano anche impagliatori di sedie che riparavano o sostituivano completamente il supporto non ligneo quando esso si
logorava.
Anche l'arte di fare il "basto" agli animali da soma era in voga in quanto tutto il "terziario" del trasporto era
affidato ad essi per cui non si poteva fare a meno della bardatura degli animali. Alla lavorazione del tipico basto in
legno "a ponte" con annesse funi, veniva affiancata quella delle selle che solo i benestanti erano in grado di far
realizzare per i loro cavalli e che rappresentavano un segno distintivo del loro status sociale.
Alcune persone prendevano il "soprannome" dal mestiere che facevano "u mmastèr" (bastaio) "u
'mbagghiasègg" (impagliatore di sedie).
Il "capellaro", il calderaio, l'ombrellaio e l'arrotino
(U cap'llèr', u cav'darèr')
Mestieri "ambulanti", a metà tra l'artigianato ed il commercio, erano quelli dell'arrotino (u mmuuafòrb'c'),
dell'aggiustatore di ombrelli (u'mbr'llèr', o, cunzambrèll'), del cambiacapelli (u cap'llèr') e dello stagnino.
L'arrotino, in genere, girava (e continua a girare) da un paese all'altro, con il suo mezzo di trasporto (prima
l'asino o il mulo, poi la bicicletta, quindi il furgone o l'auto) e la mola per affilare coltelli e forbici. Le mole, pur
essendo presenti in ogni casa, non sempre garantivano una lavorazione ben rifinita. Si preferiva, di conseguenza,
affidarsi ai professionisti del settore.
L'aggiustatore di ombrelli ha poco da essere descritto se non il fatto che, spesso, univa anche l'arte di
aggiustare i piatti. Infatti, nel secolo scorso, c'era l'usanza di non gettare via i piatti rotti. Se ne conservavano le
diverse parti per quando passava l'aggiustapiatti o ombrellaio. Costui, con un trapano a legno funzionante per
arrotolamento e srotolamento di una funicella, e con la punta metallica, facendo combaciare le parti li teneva uniti
inserendo dei filo di ferro in buchi frontali realizzati con il trapano e poi vi passava una specie di argilla per evitare
che il liquido del piatto fuoriuscisse dai fori.
Il cambiacapelli era un ambulante che in cambio di pettini, saponi, forcine per capelli ed altre chincaglierie
minute chiedeva i capelli delle donne. Esse quando si pettinavano, conservavano i capelli rimasti impigliati nel
pettine, li arrotolavano e li cambiavano con questo ambulante. In relazione alla quantità dei capelli ed alla loro
lunghezza si otteneva in cambio il prodotto richiesto.
Lo stagnino , invece, provvedeva a ricoprire di stagno tegami e pentole soprattutto se di rame, e a riparare
vari attrezzi, compresi quelli utilizzati in cucina.
Sarti, calzolai e barbieri
I sarti, in genere, lavoravano presso proprie sartorie mentre le sarte, invece, lavoravano spesso in casa delle
committenti poiché molti indumenti e manufatti di stoffa erano tipicamente femminili o non erano trasportabili.
Esse lavoravano a "giornata", mangiavano presso la casa del committente.
Quando "a mastr" era in casa tutta la vita quotidiana saltava i suoi ritmi e si viveva un po' più in movimento,
dialogando e "commentando" le vicende del paese e le storie del vicinato.
Ogni sarta o sarto aveva i suoi apprendisti (di'sci'pl), che iniziavano nelle anguste botteghe il loro
praticantato. Anche questo mestiere ha vissuto una profonda crisi. Molti sarti tursitani si sono affermati in altre
città, ad iniziare da Genova, mentre altri, trasferendosi altrove hanno cambiato professione. A resistere ai
cambiamenti sono state solo le sarte. Alcune di esse proseguono nell'attività anche se le richieste sono abbastanza
ridotte.
Nella maggior parte dei casi il sarto svolgeva anche la professione di barbiere, arte riservata esclusivamente ai
maschi in quanto le donne usavano acconciarsi i capelli da sole o tra di loro.
Anche i calzolai hanno avuto una lunga e "gloriosa" tradizione al pari di altri mestieri. Le scarpe erano
indispensabili e quindi anche la loro opera. Essi costruivano le scarpe "su misura" al richiedente, più spesso le
rattoppavano, e forgiavano i modelli secondo la consuetudine del momento.
Per i maschi, appartenenti ai ceti popolari, una caratteristica era "le tacce" sotto le scarpe, cioè chiodi dal
gambo corto e dalla testa rotonda o quadrata a seconda se erano più leggere o più pesanti. Gli scarponi da
campagna a volte veniva "corazzati" sotto con "le poste", chiodi con il gambo un po' più lungo e la testa a tronco di
piramide abbastanza spessa.
I calzolai, oltre ad avere una propria sede fissa, di regola un ridottissimo spazio, venivano chiamati a lavorare
a "giornata" presso le abitazioni, quando si trattava di "calzare" l'intera famiglia o gran parte di essa. Pure per i
calzolai il restare a pranzo presso la famiglia per cui lavoravano era una consuetudine.
Mulattieri e trainiéri
Il trasporto nei primi del Novecento avveniva esclusivamente con gli animali da soma, con carri, traini e
carrette. Esisteva un servizio per il trasporto delle persone o della posta, ma era utilizzato esclusivamente dai
benestanti. Negli anni Venti sia Tursi che "la frazione Rabatana" erano collegate allo scalo ferroviario dell'attuale
Policoro con servizio automobilistico.
Oramai scomparsi sono i mestieri di mulattiere, (conduttore di muli) che accompagnavano le persone da un
paese all'altro o trasportavano merci per conto terzi (famosa è la rapina fatta ad un gioielliere, colpito a morte dai
banditi, mentre si recava ai paesi vicini mediante cavalcatura con conducente presi a nolo), e di trainiere (conduttore
di traini), completamente soppiantati dai mezzi meccanici di trasporto.
Il fuochista (Ufuchist')
Un'altra attività durata per lungo tempo nel nostro paese è stata quel del pirotecnico. La famiglia Ferrara,
l'unica che esercitava questo mestiere, era esperta ed era chiamata ad offrire le proprie prestazioni in molti paesi
viciniori. L'attività fu dismessa quando una disgrazia provocò alcuni lutti in famiglia.
I negozianti
L'attività economica in paese, oltre quella degli artigiani già considerata, era ridottissima. Alcuni negozi
vendevano pasta, accessori per la vita di casa o chincaglieria varia, e soprattutto tessuti. Tra i negozi che operavano
negli anni '20, contraddistinti alla voce "Tessuti" di una "Guida Pubblicitaria della Basilicata del 1929”, troviamo
Giuseppe Latronico, V. Morisco, M. Tridente, E. Pipino, G. Tauro, M. Morisco e la Società Cooperativa.
La maggior parte di queste attività erano ubicate presso l'attuale Piazza Plebiscito, tanto che quando si
comprava la pasta al negozio, si diceva: "ho mangiato pasta della piazza".
Diverse le rivendite di sali e tabacchi, dove in tempo di malaria si vendeva il chinino, con le tabelle "Qui si
vende chinino dello Stato" che sono rimaste a far bella mostra e a documentare un tempo lontano, di paura e di
speranza.
Tursi , la Rabatana. Progetto di ricerca a cura del Prof. Cosimo Damiano
Fonseca.Fondazione Sassi Matera
Dall’ampia e preziosa attività di ricerca promossa dalla Fondazione Sassi di Matera e
curata dal Prof. C.D.Fonseca si riportano i saggi di
ANTONELLA PELLETTIERI. LA PRESENZA ARABA NEL MEZZOGIORNO
D'ITALIA
e di
GEMMA TERESA COLESANTI
ASPETTI DELLA VITA ECONOMICA DEL TERRITORIO DI TURSI
ATTRAVERSO ALCUNI DOCUMENTI INEDITI (1473-1488)
Si riportano inoltre 2 documenti storici importantissimi che consentono uno spaccato
sull’economia locale di Tursi alla fine del 500
Doc. n. 3
Inventano delle "robbe" di una "potega" di Tursi
[1590]
Doc. n. 5
Interno di una casa-grotta di Tursi
1594, ottobre 21
"...ET PER SARRACENOS CASALI S. JACOPI"
GLI INSEDIAMENTI ISLAMICI IN BASILICATA
ANTONELLA PELLETTIERI
• LA PRESENZA ARABA NEL MEZZOGIORNO D'ITALIA
Se le fonti risultano particolarmente ricche per chi si accinge a studiare la dominazione araba in Sicilia, scarsa e
avara è, al contrario, la documentazione storica inerente alla presenza musulmana nell'Italia peninsulare.
A ciò si aggiunga la copiosa letteratura pro-dotta sulla Sicilia dagli studiosi che, interpo-lando la
documentazione in lingua araba a quella in lingua latina e greca, hanno potuto fornire un quadro preciso e molto
chiaro sul-le vicende dell'isola fra l'827, data del pri-mo sbarco a Mazara, e l'XI secolo, quando fu completamente
conquistata dagli islamici e, in seguito, con l'arrivo dei Normanni, quando la cultura e la filosofia araba
continuarono ad es-sere un punto di riferimento importante per "gli uomini del Nord", e in ultimo, con la caccia-ta
definitiva degli arabi dall'isola, operata dall'imperatore svevo Federico Il.
Ben diversa risulta essere la situazione per il resto del Mezzogiorno d'Italia: la povertà delle fonti si accompagna
ad una letteratura precisa e di alto valore scientifico ma manca ancora un quadro analitico che consenta una
ricostruzione degli insediamenti islamici nel Mezzogiorno d'Italia tra il IX e l'XI secolo'.
Certo già nell'812 è attestata una scorreria saracena ad Ischia e Ponza e lo stanziamento di famiglie araboberbere e di mercanti nei centri demici siti nei pressi del monte Vesuvio. E ben documentata risulta l'amicizia con il
console di Napoli Andrea che sin dall'835 aveva stipulato accordi con i musulmani di Palermo.
Il Chronicon Salernitanum tramanda che: "I Napoletani riforniscono gli infedeli di armi, cibo e di ogni altro
genere di sussidio, e li gui-dano lungo i litorali dell'intero nostro regno, e con loro organizzano di nascosto la
depre-dazione di tutto il territorio della Chiesa, tan-to che Napoli somiglia ormai a Palermo o al-l'Africa. E quando
le nostre milizie si getta- no all'inseguimento dei Saraceni, essi si salva-no rifugiandosi a Napoli: non è infatti
neces-sario che ritornino a Palermo, vista la dispo-nibilità del rifugio partenopeo. Qui confmnua-no
tranquillamente a vivere nella latitanza, fin-ché di nuovo non riprendono all'improvviso a saccheggiare. E a nulla
sono servite le ammo-nizioni a non fare comunella con i Saraceni, e anzi hanno finito per peggiorare la situazione,
poiché lo stesso vescovo, che aveva esortato i cittadini a evitare di mescolarsi con quei mali-gni, è stato cacciato
dalla città, mentre veniva-no messi ai ceppi i maggiorenti che ne appro-vavano il monito".
Il console Andrea aveva scelto l'alleanza con i Musulmani per opporsi alle continue, aggres-sioni dei principi
longobardi di Benevento, Si-cone e il figlio Sicario, che vedevano la città di Napoli come un naturale sbocco sul
mare dal quale avrebbero potuto trarre vantaggi econo-mici, trasformando la loro economia da pretta-mente
agricola a commerciale.
Da questo momento in poi le incursioni sa-racene sui territori dell'Italia peninsulare non si fermarono più: va,
però, subito specificato che un vero e proprio dominio arabo, il dar al-islam e cioè la zona di riconoscimento, non ci
fu mai se si escludono la colonia musulmana sul Garigliano e gli insediamenti di Bari (847 circa - 871) e Taranto
(850-880).
La presenza araba in queste zone si carat-terizzò principalmente nelle razzie e nel mercenariato: furono occupati
o fondati ex novo molti centri demici che, secondo la posizione geografica, diventavano colonie commerciali se erano
situati sul mare e luoghi di fortifica-zione, capisaldi che servivano come quartier generale per le loro razzie, se erano
ubicati nell'interno.
Nell'838 si impadronirono di Brindisi, tra l'839 e 1'840 la guerra tra Radeichi e Siconolfo aveva portato
quest'ultimo ad allearsi con Apolaffar, capo dei saraceni di Taranto e di quelli calabresi, nell'846 il comandante
Massar arrivava a Montecassino dopo aver devasta-to la Puglia, il Sannio ed il Mouse, nell'846 furono prese le coste
del Lazio e raggiunsero Roma saccheggiando la basilica di San Pietro. Solo allora ci fu una piccola reazione da
par-te dei Latini che riconobbero in Lotario, schie-rato al fianco del Pontefice Sergio 11, colui che avrebbe potuto
fermare queste incursioni così devastatrici ed apportatrici di lutti. In realtà fu-rono giustiziati il capo Massar che
aveva deva-stato il monastero di Santa Maria in Cingla, il castello di San Vito vicino Isernia e le cittadelle di Telese,
Equino ed Aree, mentre nell'848 era stato già arrestato e giustiziato Apolaffar.
Radelchi e Siconolfo si impegnarono a non assoldare più mercenari saraceni raggiungendo un accordo, la nota
divisio Ducatus, che portò purtroppo ulteriori divisioni e altra confusione dalla quale gli Arabi trassero ulteriori
van-taggi per continuare a razziare e depredare il Mezzogiorno d'Italia.
Proprio in questo periodo le colonie sara-cene di Bari e Taranto ebbero il momento di maggiore potenza.
Khalfun, insediatosi a Bari, l'aveva governata per cinque anni e durante il suo regno aveva raso al suolo l'antica
Capua nell'848, respinto gli attacchi dei beneventani e dei salernitani, sconfitto le truppe di Lotario, ponendo così le
basi per un emirato di grande splendore.
Il secondo emiro Mufarraj ibn Sailam, du-rante il suo emirato, durato dall'853 all'856, aveva conquistato ben 24
cittadine e regnato in pace e tranquillità al contrario del terzo emi-ro di Bari, Sawdan al Magari che viene
ricor-dato per le molte nefandezze che commise tra 1'857 e l'871.
Distrusse Conza e Liburia nell'858, nell'861 Ascoli Satriano e San Vincenzo al Volturno, nell'862 Venafro e
Montecassino. Inoltre pro-prio sotto il suo regno venne emesso il diploma califfale con il quale Bari veniva
ufficialmente riconosciuta come un emirato che controllava una gran parte della Puglia.
Taranto fu presa nell'846 e divenne un caposaldo navale dell'Islam nello Ionio e nel-l’Adriatico.
Per meglio intendere cosa succedesse in questo momento nelle due città pugliesi ci vie- ne in aiuto l'Itinerarium
in loca sancta di Ber- Ber-nardus monachus francus che in compagnia del confratello Teudemundo e di uno spagno-lo
si recavano in Terrasanta dopo aver visita-to Roma e la basilica di San Michele sul Gar-gano. Arrivando a Bari,
città difesa da due lar-ghissimi muraglioni a sud, mentre a nord si er-geva alta sul mare, Sawdan consegnò ai tre
pellegrini una specie di salvacondotto che per-mise loro di lasciare Bari su imbarcazioni sa-racene e di raggiungere
Taranto sullo Ionio. Su queste imbarcazioni venivano trasportati molti schiavi provenienti dal Mezzogiorno
italiano asserviti ormai ai Saraceni. Insomma, Taranto risultava un porto di smistamento per la tratta degli schiavi
che da qui venivano poi condotti in Africa e in Siria.
Ma l'intera Terra d'Otranto era ormai terra di conquista per i Saraceni: oltre Taranto e Brindisi, Otranto fu
assediata nel 926, nel 950 e nel 977 e in particolare nel 925 fu assediata da una terribile spedizione che veniva
diretta-mente dalla Sicilia. Lecce fu assediata più di una volta nel corso del X secolo.
Prima della spedizione dei Franchi che mise fine al dominio arabo sulle regioni del sud peninsulare molti erano i
capisaldi sara-ceni: Bari, Taranto, Amantea, Santa Severina, Tropea, Cosenza e molti luoghi del Materano, Gaeta,
Napoli e la colonia sul Garigliano.
Ma con la caduta di Bari una grande offen-siva fu perpetrata dagli Arabi a Salerno e in Terra di Lavoro riuscendo
a liberare Sawdan nell'875. Ma Bari fu definitivamente sconfit-ta nell'876, Taranto nell'880. Tropea, Santa Severina
e Amantea furono prese tra l'885 e l'886. Solo la costituzione di una lega fra papa Giovanni X. Pandolfo e Landolfo
di Capua e Benevento, Alberico di Spoleto, Docibile di Gaeta, Gregorio di Napoli e il patrizio imperiale Nicolò
Pacingli portò a stanare de-finitivamente dal Garigliano gli Arabi che in quell'ultimo periodo più che mai avevano
por-tato distruzioni in tutta la Sabina, presso i Colli Prenestini, sconquassando i territori della chie-sa e umiliando
con molestie e razzie l'abbazia di Montecassino, San Vincenzo al Volturno e San Clemente a Casauria in Abruzzo.
Malgrado le gravi sconfitte subite bande di Saraceni continuavano a vessare questi territo-ri. Ad esempio Bari subì
un nuovo assedio nel 997 e ancora nel 1002, quando il kafir Safi, un rinnegato cristiano annidato fra i monti della
Lucania, per l'intero mese di maggio impose un blocco totale al capoluogo pugliese.
Nel 952 si registra una rinnovata aggressi-vità verso i territori del continente da parte de-gli Arabi siciliani: a Reggio
Calabria, assalita già nel 918, fu costruita una moschea.
La lega creatasi per liberare il Garigliano servì anche a far togliere un nuovo assedio a Taranto nel 977, dopo che una
serie di incur-sioni portarono rovine e distruzioni a Cassano, Gravina, Gerace, Cosenza e Matera.
L'arrivo dei Normanni e la nascita di un for-te potere politico a cui fare riferimento rappre-sentarono la fine
definitiva del dominio arabo in tutto il meridione. Amato di Montecassino racconta che una schiera di pellegrini
pro-venienti dalla Terrasanta, che rientravano in Normandia, avevano strenuamente difeso Salerno da un'incursione
saracena. Solo dal 1061 in poi i Normanni incominciarono ad allontanare gli Arabi dalla Sicilia occupando
progressivamente nuovi territori, ma riuscendo a stabilire anche una convivenza pacifica, tol-lerando le consuetudini
arabe fino al punto che fra le due culture ci fu una vera convivenza e contaminazione.
• LE FONTI AGIOGRAFICHE PER LO STUDIO
Sulla presenza saracena nella regione luca-na le fonti, come si è visto, tacciono quasi del tutto. Eppure se
consideriamo le numerosissime incursioni e i siti conquistati in Puglia, Calabria e Campania dagli Arabi risulta quasi
spontaneo sospettare che anche la Basilicata fu sede di de-vastazioni e di razzie da parte di questo popolo e che, con
molta probabilità, nacquero anche qui piccole colonie musulmane.
Si è pensato, pertanto, di fare riferimento alle agiografie di alcuni Santi che nel IX secolo vissero, in parte, nella
regione lucana.
La prima parte della vita di S. Laviero, redatta nel 1162, risulta una fonte attendibile ed in essa viene descritta
una prima distru-zione della città di Grumentum ad opera dei Saraceni, che avvenne sotto il Pontificato di Giovanni
VIII e cioè tra gli anni 872 ed 882. A causa dell'assedio sia i cittadini sia il vescovo si trasferirono nei centri viciniori
abbandonan-do la città. Subito dopo la distruzione questo centro sembra venne ricostruito ma nuovamen-te
distrutto dai Saraceni, probabilmente negli ultimi anni dell'800. A questo punto gli abitanti si trasferirono in
maniera definitiva ad castrum Saponae, l'odierna Grumento Nova, centro fondato sotto il pontificato di Agapito Il.
Anzi nel 1790 sembra che fosse ancora possibile leg-gere una lapide posta dietro la sagrestia della chiesa collegiata di
questo nuovo insediamento che attribuiva la nascita del centro all'anno 954. Nel manoscritto si dice che gli abitanti
di Grumentum si spostarono a Saponara sotto il pontificato di Leone VIII, tra il 963 ed il 965, pochi anni dopo la
nascita del nuovo centro.
Sappiamo come tra il IX e il X secolo anche la Basilicata si popolò di monaci ed eremiti pro-venienti dalla
Calabria, alcuni dei quali, fuggiti dalla Sicilia per eludere le incursioni arabe, si annidarono all'interno della regione,
in zone impervie ma abitualmente prossime a fiumi, torrenti o sorgenti d'acqua. Le fasce costiere divenivano, infatti,
sempre più insicure.
Nella vita di San Vitale di Sicilia si narra come il Santo allontanatosi dal monastero di S. Filippo di Argirò, posto
alle falde dell'Etna, presso Acireale, si recò a Roma. Dopo aver a lungo vagato, passò nella parte centrale della
Lucania meridionale nelle valli del Sinni e del-l'Agri. E così dopo aver abitato in una spelonca mentre si trovava
nella regione sita tra i monti di Torre ed Armento, dove ebbe vari incontri con S. Luca d'Armento, fondatore
dell'insigne cenobio di Carbone, il Santo ricostruì una chie-sa diruta già dedicata ai SS. Adriano e Natalia. Ma,
invasa la regione, i Saraceni giunsero sino alle soglie del monastero dove furono messi in fuga dal Santo.
Di lì si spostò nella regione di Torre' e poi in quella di Rapolla dove morì nel 990.
Sul centro abitato di Torre, scomparsa nella seconda metà del XIV secolo, c'è testimonian-za anche nella vita di
S. Vitale ove si legge che questo paese fu più volte invaso dai saraceni: tutto ciò ha portato a credere che la città fu
completamente rasa al suolo dalle popolazioni arabe intorno al 1031. Ma la notizia risulta non più credibile, poiché
abbiamo testimonianze documentarie successive che spostano al XIV secolo la data della sua scomparsa.
Anche S. Luca riportò vittorie sopra i Sa-raceni che non arrivarono mai a conquistare e depredare il monastero di
Carbone. Non a caso nella chiesa parrocchiale di Armento si può vi-sionare un trittico datato alla fine del
Quat-trocento, nel quale vengono rappresentati sul fondo la Madonna con il bambino coronata ed adorata da angeli
musicanti tra i SS. Luca e Vi-tale, nella cimasa la lotta tra S. Luca ed i suoi monaci contro i Saraceni e nella predella
gli Apostoli con Cristo al centro.
La presenza di questo affresco sembra strettamente correlata a quello che le fonti tra-mandano: i Saraceni
accampati presso il mo-nastero saccheggiarono e profanarono anche un sacello dedicato alla Vergine facendo molti
prigionieri fra la popolazione.
Augusta Acconcia Longo a proposito del-la reazione di S. Luca di fronte alle scorre-rie offre un quadro molto
preciso e particola-re: "In questa occasione Luca è il protagonista di un'impresa davvero insolita per un monaco.
Non si limita infatti a piangere sulle sventure delle vittime e a deprecare la malvagità dei ne-mici, o a cercare di
intervenire presso gli inva-sori con la forza della preghiera e della persua-sione, ma, per divina ispirazione, anzi,
come narra il suo biografo, incoraggiato espressa-mente dalla voce di Dio, decide di prendere l'iniziativa e di
scacciare personalmente gli in-vasori... - è narrata una battaglia vera e pro-pria: molti dei Saraceni sono uccisi di
spada, altri sono fatti prigionieri, altri costretti alla fuga dopo essere stati spogliati dalle armi... In genere, nelle varie
razzie saracene narra-te nelle Vite di santi dell'epoca, la prassi abi-tuale è quella di rifugiarsi in un luogo fortifi-cato,
o, nei casi più disperati, di abbandonare la regione minacciata e migrare in altri luoghi.
Invece Luca, che pure altre volte dinanzi ai sa-raceni ha abbandonato il campo, qui decide di combattere per
difendere i beni del monastero. E' un atteggiamento molto concreto, che esu-la dagli schemi abituali della narrazione
mo-nastica, dove in genere si tende ad accreditare, da parte del santo, disprezzo ed allontanamen-to dai beni del
mondo".
L'episodio è databile fra il 976 e il 982, in concomitanza con le spedizioni di Ottone II.
Da questo quadro emerge che il sud della Basilicata fra la fine del IX secolo e per tutto il X fu continuamente
vessato da scorrerie sa-racene che procurarono disagi alle popolazioni con continui saccheggi e depredazioni.
3. LE FONTI TOPONOMASTICHE PER LO STUDIO DEGLI INSEDIAMENTI ISLAMICI IN BASILICATA
Quando le fonti scritte risultano avare, né lo scavo archeologico è facilmente attingibile, unica possibilità per
recuperare le migrazioni di un popolo o la costruzione e l'abbandono di un centro abitato o di una fortificazione è la
toponomastica.
In questo caso specifico, le fonti scritte re-stituiscono toponimi che fanno intendere quan-to importante sia stata
la presenza saracena in Basilicata; in altri casi, questi nomi si sono conservati nel corso dei secoli ed ancora oggi
servono ad identificare alcuni luoghi ed alcu-ne contrade.
Il primo riferimento è a due documenti ine-renti ai due monasteri dei SS. Elia e Anastasio di Carbone e di S.
Maria di Banzi.
Nel primo documento, una donazione del 1112 che il monastero aveva ricevuto da Alberada, contessa di
Colobraro e Policoro, si cita nella descrizione dei confini una strada che descendit a parte castelli saraceni usque ad
viam et ipsa via ascendit adserram ubi sunt arbores fagi et inde sic descendit per viam et venit adsemitam que vadit a
sancto Pantaleone contra castellum saracenum.
Il riferimento è al paese ancora oggi esi-stente denominato Castelsaraceno, ubicato non lontano da Carbone ed
Armento, in una zona in cui gli arabi furono presenti e che nel nome conserva con molta probabilità il ricordo del
suo primo nucleo di abitatori.
Nel 1112, dunque, Castelsaraceno veniva già identificato con questo nome: con molta probabilità questo termine
designava la fon-dazione di questo borgo da parte delle popola-zioni arabe che nei secoli precedenti avevano
saccheggiato e depredato proprio questa zona della Basilicata.
La toponomastica diventa così una fonte importantissima perché il ricordo di alcuni avvenimenti particolari si fissa
nella memoria degli abitanti di quel luogo, divenendo in molti casi l'unico elemento che tradisce l'episodio avvenuto.
Tanto è dimostrabile proprio attraverso la lettura del secondo documento che descriven-do i confini della settima
tenuta tra la terra di Oppido e Montepeloso, dice incipit a via Pontis Saraceni, et salit recte per semitam Anticam ad
ripam de apipus, et per ipsam semitam descen-dit ad viam Vada Carrari, et salit per ipsam viam usque ad serrones de
Pavone et ad stra-tam, et per ipsam stratam vadit in occidentem ad terram Petri devoti, et recte descendii per fontanam de
Fabbrica et ad serrones, et per terras serronum descendit ad ipsam usque ad lumen Bradanum, et cum ipso lumen descendit
adfluvium Anadigitum, et salit cum ipso adpre-dictam viam Pontis Saraceni, et per ipsam viam vadit adprenominatam
semitam anticam.
Sul fiume Bradano, dunque, fra Irsina e Oppido, c'era un ponte definito del Saraceno, che testimonia la presenza
della popolazione araba anche in questa zona.
Questa notizia può essere avvalorata da un'altra fonte che attesta la distruzione della chiesa parrocchiale di
Montepeloso nel 998, durante l'assedio che i Saraceni effettuarono contro tutta la Città.
Il termine rabatana rimane la testimonianza più importante dal punto di vista toponomastico per quanto riguarda
la Basilicata. Questo termi-ne viene dall'arabo Ribat: in alcuni frammenti di testi arabi e in particolare nel documento
noto come "Note ai viaggi D'Ebn-Haucal e D'Ebn-Giobar" questa parola indica ospizio, stanze pubbliche dei devoti, che
nell'islamismo sono combattenti o frati, secondo che la nazione sia viva o morta. Nelle città di frontiera, compre-sevi le
marittime, i ribat sono bolge ove traea bruttissima vita la canaglia sì ben descritta da Ebn-Haucal; data a un ozio infame
negli inter-valli delle scorrerie sopra il paese nemico. In Palermo queste frotte doveano essere conside-revoli al tempo di EbnHaucal, nel quale fervea tanto fra Sicilia e Calabria la guerra sacra, che in tutti i paesi e in tutti i tempi gitta infinita
schiuma di ribaldi.
La rabatana o ravata o rabata con il passare del tempo indicò luoghi fortificati in cui bande di conquistatori e
razziatori arabi si rintana-vano rientrando da devastazioni nei territori limitrofi.
Nel 1790 il Martucci, nel suo Codice Diplomatico della Chiesa Vescovile di Anglona, riferendosi a Tursi, dichiara
che questa novella popolazione non esistè nel mondo fino al X secolo dell'Era comune; in cui si annidarono in quel luogo i
Saracini, e per loro sicurezza vi fabbricarono in prima una Torre; la quale si mantenne in questo stato anche nel secolo XL
e dal nome dei fondatori fu chiamata Torre di Turcico.
Oltre a questa tarda testimonianza, su Tursi non esiste un solo documento che ci possa aiu-tare a dimostrare una
fondazione da parte degli Arabi del piccolo centro lucano.
Il castello di Tursi, abbattuto nel secolo scorso per problemi statici, con molta proba-bilità fu fondato
originariamente dai Saraceni che rimasero in quel luogo fino a prima del 968, quando il vescovo di Otranto fu
elevato al rango di metropolita con la possibilità di eleggere vescovi greci nelle città di Acerenza, Tursi, Gravina,
Matera e Tricarico, cioè nello stesso periodo in cui Tursi assunse l'egemo-nia istituzionale del Tema bizantino della
Lucania.
Da qui è facile dedurre che comunque rima-se nella memoria comune individuare la zona del Castello con il
termine Rabatana insieme al piccolo borgo che sorgeva immediatamente nelle sue vicinanze. Se oggi ci recassimo a
vi-sitare questo quartiere noteremmo come, sopra il monticello su cui sorgeva questa Torre, non sia rimasto nulla.
Inoltre, questa motta sul versante nord si affaccia su un burrone molto alto, scosceso ed inattaccabile, e su di esso
si aprono una serie di aperture che conducono all'interno di alcu-ne grotte utilizzate come colombaia che, invece,
dall'altro versante, sono raggiungibili solo da un'unica entrata.
Il termine saraceno si ritrova, inoltre, per de-signare un monte posto nei pressi di Calvello. Su questo sito sono
presenti alcuni resti in ele-vazione di una muratura che, considerate le misure, farebbero verosimilmente sospettare
l'esistenza di una torre forse costruita proprio dagli Arabi, vista la persistenza del nome per definire questa località
su cui le fonti tacciono totalmente.
Si può in definitiva supporre che gli Arabi, tra la fine del IX secolo e gli inizi del X, crea-rono sia a Tursi, sia sul
monte Saraceno, sia a Castelsaraceno, dei presidi fortificati nei quali si stanziarono per un breve periodo di tempo e
dai quali si dipartivano le scorrerie verso i territori limitrofi.
Ma agli inizi dell'XI secolo queste incursio-ni non si erano certo fermate.
Ne abbiamo testimonianza in un documen-to attestante la presenza araba in Basilicata: trattasi di un
famosissimo molibdobullo datato 1001/1002 e molto noto-a tutta la letteratura sull'argomento.
In esso si parla di un certo Luca, detto infe-dele - molto probabilmente un greco converti-tosi all'islam - che
aveva occupato il castrum di Pietrapertosa e, in seguito, anche Tricarico, con l'aiuto di una banda di seguaci.
Purtroppo il documento non offre notizie né su quanto tempo durò questa occupazione, né sul modo in cui il
catepano Gregorio Tarcaniota riuscì a liberare i due paesi dall'assedio.
Solo dopo aver scacciato gli infedeli e alla presenza del tassiarca Costantino Kontou e degli abitanti di Tolve si
poterono ristabilire i confini fra i territori di Acerenza e Tricarico.
E proprio a Tricarico rimangono nella to-ponomastica i termini di saracena e rabata, indicanti due quartieri ben
distinti con precise caratteristiche urbane, raffigurati in un'incisio-ne prospettica del 1618 con le mura di cinta, i
giardini terrazzati, le torri di guardia alle porte di accesso.
Questo elemento induce a credere che l'assedio di Luca non durò poco se testimonianze così evidenti permangono
nell'abitato di Tricarico.
Particolarmente interessante risulta la pre-senza di una contrada denominata Campi Sa-raceni nel territorio della
città di Potenza. Il to-ponimo, oggi non più esistente, viene riportato su alcuni documenti di natura privata di età
me-dioevale. La notizia si ricava per la prima volta in una pergamena del febbraio del 1283, nella quale il toponimo è
riferito ad alcune terre che vengono donate alla chiesa di San Michele di Potenza da Roberto de Vetro in occasione
del suo testamento. La contrada viene citata nuo-vamente in un altro documento del 12 febbraio 1287 nel quale il
diacono di San Michele, An-gelo Scarano, vende un vineale unum desertum posto proprio in questa contrada.
Ancora c'è notizia dei Campi Saraceni in una chartula venditionis del 19 maggio 1298.
Ma le due fonti più interessanti per riuscire ad identificare in quale zona del territorio della città di Potenza si
trovasse questa contrada, sono le pergamene datate 17 gennaio 1270 e 21 febbraio 1380. Da esse si percepisce come
questa contrada si trovasse nella vallata che esiste fra quello che viene definito il mon-te Cocuzzo e il monte su cui
sorge la città di Potenza. Il monte Cocuzzo era una posizione strategica dalla quale di solito venivano sferrati gli
assedi alla città come quello del 1398 di Carlo di Durazzo, che con il suo esercito aspet-tava la resa di Potenza
controllandola da questa postazione che gli consentiva una buona visibi-lità di tutte le porte di accesso alla città.
Ma la presenza di un toponimo non è suffi-ciente a dimostrare come possibile e veritiera una lunga e leggendaria
tradizione esistente nella città di Potenza, che attribuisce al vescovo Gerardo da Piacenza di aver salvato la città da
un assedio saraceno proveniente dal fiume Basento solo con l'imposizione delle mani: il vescovo Gerardo divenne
patrono della città alcuni anni dopo la sua morte in seguito alla ca-nonizzazione firmata nel 1124 da papa Callisto II
e l'arcivescovo di Acerenza Pietro.
Altresì si ritiene necessario precisare che questa tradizione affonda le sue radici sicura-mente già nel XVI secolo
se un noto documen-to del 24 giugno 1578, descrivendo l'entrata in città del Conte Alfonso de Guevara, ci tra-manda
che alcuni cittadini vestiti con abiti alla turchesca e moresca si recavano verso Vaglio dove erano fatti tre Castielli, l'uno
discosto dall'altro, a ' quali se gli diede batteria dentro lo Taglio sopra una barca presi e brugiati, cosa molto vistosa e
degna. Così seguendo per ordi-ne se ne vennero vicino alla città epropriamen-te al Monte ... Andavano innanzi con rami
in mano verde, la compagnia moresca seguendo appresso la Fanteria.
Una tale processione ancora oggi viene orga-nizzata in occasione della festa patronale della città di Potenza ma
va evidenziato che gli asse-diatori della città erano denominati Turchi con riferimento più probabile al grande
assedio che questa popolazione sferrò ad Otranto nel 1481.
Questi pochi elementi non sono sufficienti di certo a dimostrare la presenza musulmana nella città ai tempi del
vescovo Gerardo che resse la diocesi dal 1111 al 1119, anche se il toponimo - che si trova in documenti antecedenti
all'as-sedio di Otranto del 1481, come riportato sopra - potrebbe dimostrare una probabile presenza saracena anche
in questa porzione territoriale della Basilicata durante il periodo delle grandi incursioni altomedievali.
• LA BASILICATA DEL GEOGRAFO ARABO EDIUSI
Con la fondazione del regno, Ruggero II avviò una grande riforma culturale: alla sua corte accorsero molti
intellettuali provenienti da tutto il mondo e fra questi molti musulma-ni. Su tutti spiccava la figura di Ibn Idris,
noto come Edrisi, esperto geografo e compilatore di uno scritto conosciuto come "Il libro del re Ruggero", databile
intorno al 1140.
Infatti fu proprio re Ruggero, come si leg-ge nell'introduzione di questo trattato, a vo-lere quest'opera ". . .nella
quale seguendo per filo e per segno le immagini efigure geografi-che, si aggiungesse un ragguaglio delle con-dizioni di
ciascun paese e contado, descriven-do la natura animata-e la inanimata, la postura, la configurazione, i mari, i monti, i
fiumi, le terre infruttifere, i colti, i prodotti agrarii, le varie maniere di edfizi ed altri particolari, gli esercizi degli uomini,
le industrie, i commerci d'importazione e d'esportazione, le cose me-ravigliose riferite di ciascun paese ovvero
at-tribuitegli; ed oltre ciò, in quale dè sette climi si giaccia ed ogni qualità degli abitatori: sem-bianze, indole, religione,
ornamenti, vestire, linguaggio”.
Ebbene sulla Basilicata il geografo ha la-sciato indicazioni molto precise sia per quanto riguarda i più grandi
fiumi e il loro percorso attraverso i paesi, sia per quanto attiene alle città allora esistenti. Anzi su alcune di esse fa
una descrizione più precisa: Melfi viene definita la continentale, Missanello, castello difendevole, Matera, città bella,
estesa e molto popolata, Venosa, città ben nota fra quelle dei longobardi, Irsina, città bella il suo territorio è ricco di viti e
d'alberi e molto produttivo, Potenza, città illustre per possanza, molto estesa e popolata, con territorio abbondante di viti e
d'alberi e di campi coltivati.
Il territorio lucano viene descritto in ogni particolare specialmente per quanto attiene alla parte sud-est che, con
molta probabilità, era quella più conosciuta dagli studiosi arabi dal momento che fu proprio questa porzione
territoriale della Basilicata ad essere insediata dai saraceni.
Molto frammentarie o addirittura inesisten-ti sono le indicazioni relative al versante nord-ovest della regione, in
quanto non vengono segnalate località importanti perché sedi diocesane, come Satriano e Lavello, o sedi di
importanti monasteri, come Pisticci e Montescaglioso.
Infatti i paesi menzionati sono Melfi, Veno-sa, Chiaromonte, Senise, Tricarico, Acerenza, Montemurro, Armento,
Craco, Sant'Arcangelo, Roccanova Colobraro, Senise, Missanello, Gai-licchio, San Martino d'Agri, Viaggiano,
Marsi-co Vetere, Saponara, Sarconi, Tursi, Anglona, Carbone, Calvera, Castronuovo di Sant'Andrea, Batefarano
(centro scomparso), Matera, Irsina, Altogianni (centro scomparso), Grottole, Sti-gliano, Potenza, Castrocucco e
Maratea.
Invece molto precisa e dettagliata è la de-scrizione dell'arabo quando parla dei fiumi che già allora erano
ovviamente considerati la grande ricchezza della regione lucana. Non a caso Edrisi ci fornisce anche alcune notizie
re-lative ai traffici che si svolgevano sui Bradano, dal quale si ricavava pece e catrame che veni-vano esportati in
altri paesi.
Inoltre, sempre sui Bradano, viaggiavano i tronchi dei pini trasportati dalla corrente fino al mare. Non c'è
nessuna menzione della naviga-bilità di questi fiumi.
Ecco la descrizione:
Cominciamo dunque a parlare del fiume di Senise fiume Serapotamo diciamo che il fiume di Senise esce dai monti
Carbone, scorre tra Caldera e Castronuovo di Sant'Andrea, passa davanti a Senise, né vagnari lontano che si uni-sce
col fiume Sinno. Corre quindi dinanzi a.
poi di fronte a ... e di là volge al mare. E in quanto al fiume Sinno esso scaturisce dal Monte Sirino, va fino a che
si congiunge col fiume di Senise ed uniti proseguono verso
poi verso ... e quindi al mare. Il monte Sirino sta di fronte a Viaggiano e tra Chiaromonte e Viaggiano e tra il
detto monte e Chiaromonte corrono dodici miglia, e tra il monte Viaggiano quindici miglia.
Il fiume Agri esce pure dal monte Sirino, dal versante di ponente corre verso Sarconi, passa vicino a San Martino
d'Agri arriva al castello di Aliano e quindi, scorrendo a poca distanza da Angiona, va al castello di Policoro e poi al
mare.
Il fiume di Potenza chiamato Basento, scatu-risce da un monte vicino Potenza, passa a fianco di una città che
addimandasi Tricarico toccando il territorio scende quindi ad una città per nome Grottole passandole a levante poi
corre a levan-te di quella chiamata Miglionico lasciandola alla distanza di circa quattro miglia e mezzo. Scende
poscia alla chiesa di San Teodoro, poi innanzi al luogo che chiamasi ... lasciandola a mancino, e quindi il mare.
Il fiume Bradano è un fiume che scorre solo senza mescolare le sue acque col fiume Basen-to. Esso dapprima esce
diviso in due piccoli rami, tra le due città chiamate l'una ... , l'altra Potenza. Questi rami si dirigono verso Rocca S.
Giuliano dove si riuniscono e prendono il nome di fiume Bradano, il quale con questo nome si volge tra luoghi colti,
fino al mare. Sulle rive di questo fiume cresce in abbondanza il pino, che viene tagliato e trasportato al mare dalla
corren-te. Se ne cava pure pece e catrame, di cui si fan-no carichi per i vani paesi.
Il fiume Agri non passa già tra Sant'Arcan-gelo e Tursi ma sebbene di fronte ad entram-bi, alla distanza di un
miglio e mezzo da Tursi ma molto più vicino a Sant'Arcangelo. Tra Tur-si poi e Montemurro corrono dodici miglia,
ed il fiume Agri tocca nel suo corso questa terra. La sorgente del fiume Agri è nel monte Marsi-co, monte Pietra
Maura, lontano da queste cit-tà dodici miglia. Da Marsico arriva a Tursi e a Sant'Arcangelo.
Il fiume Rivello esce da un colle, va verso Castrocuccaro e Maratea e di la scende al mare. Tra Scalea ed il fiume
corrono sei miglia e tra il fiume e Maratea un miglio solo. Se gli Arabi, in quel periodo, erano ormai lontani con le
loro scorrerie dai paesi lucani, molti saraceni continuavano a viaggiare nel territorio lucano, ma attraverso le "vie
della cultura". Il trattato di Edrisi ancora ai giorni nostri desta stupore per la precisione delle notizie tramandataci.
5. LA PRESENZA ISLAMICA NELLA BASILICATA SVEVA
Nel 1223 Federico II prese la decisione di trasferire i saraceni che abitavano nel regno presso
Lucera in Puglia in maniera coatta. Malgrado ciò, ben presto i saraceni divennero molto devoti
all'imperatore, al punto che fu-rono scelti dallo svevo a formare un corpo di soldati fedele che mai
tradì Federico II.
Nel 1239, con un editto, l'imperatore ap-pellò i saraceni utili contro i nemici dello stato e
addirittura degni dell'abito imperiale. È chiaro che in questa maniera lo svevo tentava di
salvaguardare l'esercito e la sua guardia personale che gli sembrava sempre più fedele ed importante
per la sua sicurezza. Né l'atti-vità legislativa si fermò qui: in un altro editto egli consentiva ai
mercanti saraceni di Lucera di vendere in tutti i territori del Regno ed eso-nerava la colonia lucerina
da ogni gravame sui commerci.
Né vanno dimenticati personaggi come Michele Scoto e Giovanni Moro che diven-nero personaggi
importantissimi nella corte imperiale, ottendendo alti riconoscimenti da parte dell'imperatore.
Inoltre, in un altro editto del 1240 Federico comandò che quatenus ma-gistris sarracenis, tarsiatoribus,
carpentariis, magistrifacendi arma, custodibus camelorum, custodibus unche et tabaccorum, custodi
vive-ri et ceteri magistri qui tam de ferro quam de arcubus et aliis operibus laborant ad opus no-strum in
Melfia, Canusio et Lucera.
Mauro Ferracuti nel 1992 ha pubblicato un interessantissimo lavoro inerente alla presenza
saracena all'interno dell'area campana. Lo studioso ha tentato di dimostrare come altre cittadine
oltre Lucera fossero insediate da Saraceni provenienti dal centro lucerino e che a Sora, Flagella e
Strani ci fossero colonie di islamici facenti parte delle truppe imperiali e che vivevano stabilmente in
questi paesi.
Tutto questo non è in contrasto con l'editto federiciano del 1239 nel quale lo svevo, pur impartendo
l'ordine che i saraceni di Lucera non si trasferissero altrove, si appella ad una sua precedente
disposizione nella quale conce-deva ai saraceni di formare piccole comunità di mercanti staccate da
Lucera, che non godevano di particolari privilegi e dovevano pagare le tasse alla stessa stregua dei
cristiani.
Particolarmente interessante risulta, pertan-to, la presenza di un casale di S. Giacomo in
Basilicata, abitato dai Saraceni.
La notizia tratta dallo Statutum de repara-cione castrorum di Federico TI recita che Do-mus
Girifalci reparari potest per homines Sas-si Caviosi de Matere et per Sarracenos casali s. Iacopi.
Il casale, ora scomparso, molto verosimil-mente era situato nei pressi di Matera e rappre-sentava
un altro piccolo insediamento nel qua-le Federico II fece convergere, come a Lucera, la popolazione
araba del Regno per poterla meglio controllare. I Saraceni che abitavano a San Giacomo erano
considerati, comunque, abitanti del Regno a tutti gli effetti, se Federico imponeva loro di riparare la
domus di Girifalco alla stessa maniera di tutti gli altri abitanti del suo Regno. Sulla presenza degli
Arabi presso la città di Matera c'è notizia sin dal 994 e, come si è tentato di dimostrare nelle pagine
prece-denti, questa zona della Basilicata subì più di tutte le altre la presenza islamica.
Potrebbe essere questo il motivo per il quale Federico II scelse oltre a Lucera anche il casale di S.
Giacomo per far sorgere un'altra comuni-tà saracena. È, inoltre, importante sottolineare che se a
Lucera esisteva una presenza saracena, ma anche una cristiana - nello Statutum de reparacione
castrorum quando si elencano le popolazioni che dovevano manutenere la struttura fortificata si dice
cstra Lucerie, vetus et novum, possunt reparari per Christianos et sarracenos Lucerie - il casale di S.
Giacomo era insediato solo da popolazione araba. Purtroppo, su questo casale non è stato re-perito
nessun altro documento, né sulla presen-za islamica in Basilicata esiste altra documen-tazione finora
conosciuta, che consenta di sa-pere cosa successe a queste località con la fine del regno svevo.
ASPETTI DELLA VITA ECONOMICA DEL TERRITORIO DI TURSI
ATTRAVERSO ALCUNI DOCUMENTI INEDITI (1473-1488)
GEMMA TERESA COLESANTI
L'infelice situazione documentaria di Tursi per i secoli del basso medioevo ed in partico-lare la
mancanza di fonti notarili medievali che rappresentano - come ha sottolineato il Leone nel saggio
dedicato a Tortorella, un piccolo centro agricolo della Campania - il tipo di fonte più idoneo a dare
una rappresentazione sincro-nica e minuta della realtà, aveva in un primo momento paralizzato la
ricerca ma il ritrova-mento di alcuni documenti della seconda metà del XV secolo, conservati presso
l'Archivio di Stato di Napoli nel fondo della Regia Camera della Sommaria, ha consentito la stesura
di questa breve nota 'di storia lucana.
La descrizione del territorio di Tursi data dall'Antonini nel'700 è quella di fertilissime ed amene
campagne, tutte coverte di rosmarini, timo, e di serpillo, onde di mele è odorissimo, ed i formaggi di ottima
qualità. Le semine vi fanno abbondantissime; ma soprattutto di bam-bagia, oltre degli olivi che similmente
vi sono in abbondanza, confermata anche dai dati desumibili dalle platee settecentesche relative
rispettivamente ai beni della famiglia Donna-perna e a quelli della collegiata di Tursi, non sembra
invece corrispondere in nulla a quella realtà territoriale che appare dai documenti in esame della
seconda metà del XV secolo, eccet-to che per la tipologia delle colture agricole.
Le nostre fonti si riferiscono al periodo suc-cessivo alla ripresa economica e demografica della storia
del Regno, avvenuta durante la dominazione aragonese, e che secondo quanto riferito dal Giura
Longo a proposito della Ba-silicata, va considerata in termini di debole ri-presa, nonostante nella
regione si verificassero due fenomeni di un certo rilievo resi possibili dal persistere dei rapporti tra la
campagna lu-cana e la costa adriatica: l'immigrazione di po-polazioni della sponda orientale
dell'Adriatico e la ripresa degli scambi commerciali tra alcuni centri della regione ed i porti pugliesi.
La debole ripresa sembra però finire intorno agli anni Settanta del '400, quando il Regno è turbato
dalle rivolte dei baroni nei confronti della Corona e dagli attachi ottomani sulle coste pugliesi.
Il primo documento, del 12 agosto 1473, è una dichiarazione del decano della cattedra-le di
Anglona, Lesucio, clausarius di Tursi, il quale afferma che essendo andato a riscuotere le entrate che
spettano al vescovo di S. Arcan-gelo, non ha potuto ritirare nulla per la pover-tà assoluta in cui si
trovava la diocesi di que-sta provincia. La notizia primaria che si ricava è la forte carenza idrica in
questi territori: [... ] e per la inopia che have parita la dicta terra de l'acqua che mai ne have proppio
tanto in lo anno passato quanto in quisto presente anno per modo che nullo pacto inde have possuto trahere
cosa alcuna. Dalla lettura della prima parte del documento appare che Tursi vivesse una situazione
migliore, poiché il canonico af-ferma che partendo da quest'ultima per San-t'Arcangelo ha portato
con sé i viveri, certo di non trovare nulla da mangiare e da bere in quei territori afflitti ormai da
tempo da una lunga siccità, interrotta solo da alcuni temporali esti-vi di grandine, causa della
distruzione di ogni coltivazione: Et più dice che anco inte chioppe uno semel et fò tanto grande la
tempestate et grandani che iertao omnia cosa per terra dafi a li arbori et similiter andando ipso testimo-nio
ad Aliano et ad Alianello have veduto dicti territori in simili penuri che estato Sancto Ar-changelo[ ... 1
ed ancora: ipso testimonio dice che tutta la provincia àfame, che infe in terra de Otranto have patito et pate
grande sicitate et penuria de acqua, de grani, vini et ogli et de omnia altra cosa per usu et substentamenti de
li corpi humani.
Il testo, scritto in volgare, è quanto mai esplicito nel fornire anche interessanti dati sul-la storia
delle mutazioni climatiche in quegli anni, infatti:
Eodem die, notarius Nardus de Oto de Tursio dixit che ipso testimonio sape che in la provincia di Basilicata chioè in
Tur-so, la Rocha Imperiale et multe altre terre de li convicini stanno in grandessima necessità et inopia de grano e de
omnia altro vettuvaglio et in lo anno da venire non c'è serrà vino quia niente che so passati nove mesi che la no c'è
stato (sano)8 de acqua. Et più dice che ipso te-stimonio havendo parlato con multe de le terre contenute in la
supplicacione dicono parire la semele penuria e che non haveno havuto mai acqua excepto questa estate, la quale
acqua fo più nociva che utile che le have tempestate et facto de gran danpno.
Il documento termina con un'altra testimo-nianza che sembra confermare l'esistenza, an-cora in questi anni, di
uno dei fenomeni carat-terizzanti la storia della Basilicata, ossia il con-tinuo impoverimento numerico dei centri
abita-ti. Vincilao de Jacopo de la Mola, de Terra Ar-mento, dixit [..] che la terra de Armento dove ipso habita et
vicina a le terre nominate in la dicta supplicacione et have andato per lo ter-reni de le dicte terre dove nce stata
tante penu-ria de acqua che appena de loro semenate ha-veno raccolto la semente che per la dicta gran-de sicitate li
seminati non poctero fare profisio-ne alcuna, et più dixit ipso testimonio che suc-cidendoja e uno mese poco più o
meno che fo una tempesta de acqua et grandani tanto gran-de chende portao parichi ( ... ) de bestie bogheni in
numero de 120 11, etforosi morti et guastate tucte le vigne che non ce remaso altro che lo fu-sto, et non solamente
le dicte terre, ma tucta la provincia have patito et patisse tale penuria et dampni, per modo che crede che li poveri
homi-ni non porrano conducere loro vita et multi cre-de chende scaserranno dalle loro parti et anda-ranno ad
habitare in lochi dove troveranno da potereno substinere loro vita con loro moglie et famiglia.
Emerge, quindi, con chiarezza come le inci-denze negative del clima - in questo caso la sic-cità - sulla vita di un
centro rurale come Tursi, regolavano il ritmo di vita quotidiana ed in de-finitiva la stessa sopravvivenza dei
cittadini in quei luoghi, il cui elemento caratterizzante ri-maneva il rapporto con la terra e la cui econo-mia era
basata essenzialmente sulla coltivazio-ne di grano, orzo, viti e olivi e sull'allevamen-to di animali.
Ad ampliare le notizie sul paesaggio agrario di Tursi e dintorni - compresa la difesa di Ca-ramola - ed anche sulla
gestione dei beni della corte nel territorio, è l'analisi di un quaderno di contabilità dell'erario9 responsabile
dell'amministrazione
di questa Università nel 1487. Probabilmente il rendiconto del funzionario di Tursi è uno dei
documenti prodotti dagli erari incaricati dell'amministrazione di quei feudi che erano stati confiscati
nel 1487 dopo la se-conda congiura dei baroni". Insieme al fasci-coletto di sole 11 carte, si conserva
anche una lettera inviata dalla Regia Camera della Som-maria al nobili viri Antonello de Margiocto,
Regio Camerario Terre Tursi amico nostro carissimo in cui si evidenzia l'oggettivo dato negativo, sia
quantitativo che qualitativo, deri-vante dai beni di proprietà della corte.
Dai conti dell'erario desumiamo, oltre ai tipi di coltivazioni presenti - grano, orzo, olio, vino e
bombace - che per quell'anno gli introi-ti furono bassissimi, il raccolto fu di pessima qualità - et nota
che lo dicto grano era pidic-chioso et guasto - e quindi il prezzo del grano fu dimezzato: ogni tomolo
della misura di Tur-si valeva 8 grani, mentre nello stesso periodo quello di Melfi e di altre località
valeva 15 grani, anche per l'orzo proveniente dal muli-no de basso si ebbe la stessa qualità mediocre e
un valore inferiore rispetto a quello corrente nelle altre zone della Basilicata. Agli introiti sui diritti
di molitura che riceve da Andrea Villori e compagni (tomoli 151) si sommano altri 323 tomoli di
grano e 388 tomoli di orzo ricevuti come resto del salario dell'anno che in parte era pagato all'erario
in natura.
L'attività molitoria sembra essere appan-naggio esclusivo della sola corte che gestiva i due molini
attivi sul territorio - situati con mol-te probabilità vicino al torrente: quello disuso e quello di basso almeno fino a quell'anno, dato che in una nota del quaderno è riportata la notizia della vendita nel
gennaio del 1488 di un mulino all'Università di Tursi per 800 duca-ti e l'arrendamento della tassa sul
macinato per 1300 ducati l'anno.
Nel quaderno sono anno-tate, inoltre, le spese onerose per la manuten-zione del mulino di suso: Die
XII octobris VI ind. ponit haveri liberato ad mastro Petro de la Guardia per quatro rotula et dui libre de
fer-ro ad ranoni de grani secte lo rotolo per fari la muscula de lo molino de suso, tarì uno et gra-ni dudici e
menzo sive: tt. 2 g. 12 '/2. Et per fa-citura de la dicta muscula liberato ad ipso ma-stro Petro tarì dui sive:
tt. 2. Die XVIII octubris ponit haveri liberato ad mastro Fondulla che fabricao uno fumo allo molino de
suso ad soy spisi, tarì uno sive: tt. I. Die XXII mensis octo-bris ponit haveri liberato ad Gui/elmo
Clara-monte/lo et ad Birnardino de Basi/i che porta-rono dui pecci de trabi allo molino de suso tarì dui
sive: tt. 2. Die Ilmensis novembrisponit ha-veri liberato adRicchardo la Rocca per facitu-ra di dui platorey
allo molino de suso tarì uno et meczo sive: tt 1 '/. Die XkYI novembrisponit haveri liberato ad mastro
Magliardo per poneri dui pecci de molino de farina tarì quattro sive: tt. 4; Die ultimo mensis novembris
ponit haveri liberato ad mastro Cola de Armento per conza-tura de fari li macci e li marte//i perfari lapetia
de lo molino tarì dui sive: tt. 2, Die XVI mensis octubrisponit haveri liberato ad mastro Johan-ni de Aloy
per factura de uno martello novo e dui altri conzati e per vinti septi petruni per la rosa de lo molino de suso
tarì tre e grani octo e meczo sive: tt. 3 g. 8 1/2.
Dalla voce relativa alle entrate dell'orto, che produssero quell'anno solo 3 tarì e 10 gra-ni, si
apprende che due orti, di cui uno piccolo, entrambi in località la Pamera erano affittati a massariimprenditori, di cui non conosciamo le condizioni contrattuali, ma che dimostrano in un caso
l'esistenza di un tipo di società - notari Johanni et suoi compagni - capace di disporre di una qualche
possibilità finanziaria che permetteva l'affitto dell'orto, la coltivazio-ne e la gestione della produzione.
Per la produzione di olio - la maggior parte proveniente dall'oliveto della corte dato in affitto ad
Angelo de Rosa e compagni - riceve ben 723 quartucci di olio. Ed ancora dalle ven-dite registrate, una
delle quali (130 quartuczo-li) effettuata per ordine di Camillo de Mauro al mercante catalano Loysi
Delcairo, a 5 grani il quartuccio, riceve una oncia e due tarì; altri settanta quartucci furono venduti a
Benedicto Scamiato per un totale di diciasette tarì e quindici grana. Un'altra quantità di olio venne
inviata ad Artuso Pappacoda e consegnata al castellano di Senise (qz. 350).
È noto che buona parte dei prodotti della Ba-silicata veniva smerciata sia per ordine regio, sia per
l'acquisto di mercanti catalani, venezia-ni e fiorentini nel porto di Policoro, ed anche nel nostro caso
non manca il riferimento: Die XXV mensis octobris ponit haveri liberato ad Cola Vecino che portao
trenta sacchi ad Polli-cori per ordinis de lo senyor vici Re grani secte e meczo sive:g. 7 ½. Item ponit haveri
libera-to ad Orlando de Pisanello che portao li sac-chi de Pollicori quibus carricao la navi, grani
cinquisive: g. 5.
A Rocca Imperiale vi erano i magazzini del-la raccolta di una parte del frumento prodotto in
Basilicata, come si evince dalla lettera della Sommaria che raccomanda al funzionario di far condurre
dicti grani a la marina a li magazeni de la Roccha Imperiale et consigneriteli a li magazenieri in
quella deputati per la Regia Corte.
Dalle decime sul mosto e dalla vendita del vino (tarì cento lo cavallo che so barili octo lo cava/lo)
percepisce un totale di 3 once 2 tarì e 10 grani. Per la la gestione della vigna della Corte Antonello
Margiocto paga a Linardo de Anduella de Co/obraro, massaro guardiano, che ha lavorato per cinque
mesi, ben 10 tomoli di frumento.
La voce che produce il maggiore gettito di denaro è quella relativa alla vendita della bambace,
coltivata soprattutto nei terreni della difesa di Caramola: in quell'anno entrano ben 224 ducati ed
altri 200 dalla vendita a Angelo de Paulino per ordine di Artuso Pappacoda.
Per la gestione della produzione, ma in par-ticolare della raccolta della bombace, l'erario si servì di
Antonio de Rimidia, il quale soggiornò per due mesi e venti giorni presso la difesa percependo un
compenso di tredici tarì e tre grana.
Non mancano le notizie relative alla gestio-ne della bagliva, ufficio giurisdizionale arren-dato a un
certo Laurencio e compagni. Dalla bagliva si ricevono per cinque mesi, in diver-se occasioni, un totale
di ventinove once, che corrispondono a quanto riscuote per lo stesso periodo Giovanni Caracciolo
dalla bagliva di Atella.
Tra le altre entrate annotate vi sono qua-ranta ducati che vengono versati all'erario da Cola
Antonio de Laudis, di Napoli, capitano di Tursi.
Altre poste annotate nell'exitus pecunie si riferiscono al salario annuo che l'erario perce-piva (3 once
all'anno), alle spese di affitto di locali sostenute dallo stesso per la conservazio-ne del grano, dell'orzo e
dell'olio della corte, poiché il cellaro era in corso di ristrutturazio-ne: Item ponit haveri liberato ad
Speranza per dui forni che scavao allo ci//aro de la Corte che cascaio una ruyna ad ranonem de grani dieci
lo fumo ad soy spisi tarì uno sive: tt. 1, eodem die ponit haveri liberato ad Johanni de Mastro Aloy per
factura de una clavatura allo cillaro de la Corte grani dieci. g. 10.
Infine, molti pagamenti sono effettuati per viaggi di funzionari o semplici corrieri che
comunicavano con altri funzionari della corte attivi in tutta la Basilicata (San Mauro, Ranza-na,
Salandra, Rocca Imperiale, Policoro, Colobraro) per riorganizzare la gestione di quei territori
confiscati ai baroni ribelli. Tutti i beni della corte gestiti dall'erario di Tursi corrispon-dono ai beni di
proprietà del conte Sanseverino - un oliveto, un giardino con vigne, due mulini - sequestrati dopo la
congiura e descritti con dovizia di particolari nell'ultimo documento rintracciato. Si tratta di alcune
dichiarazioni raccolte a Tursi nel 1488 dagli ufficiali incari-cati probabilmente della requisizione dei
beni dei Sanseverino.
Inquisitiofacta in Turso die XYI aprilis.
Petruczo de notari Jacobo, magister baiulorum, in anno sexti indiccione, in terra Tursii, iuratus et
interrogatus de om-nibus bonisfructibus reditibus etproventi-bus quos hic comes Sancti Severini in
Tur-so etpertinenciis eius, dixit que habuit oli-vetum unum situm in contrada Sancte So-fie, iuxtam
rerum Sancte Sofie et iuxta via publica, iuxtam vineam Antonini de Me!-sisa, via vicinali in
medio[...] de quo so-let percipiri anno quo producit fructum in quinque et in sex annis quarczullos de
oleo quinquaginta et centum, deuocentum, tercentum et quinquecentum ad plus. Item dixit que
habuitjardenum unum cum ali-quibus pedibus a (ragiorum) et cum vinea noviter plantata de quibus
ignorat redit-tus. Item dixit que habuit molendinia duo influmaria Signi, iuxtam rerum Tomasii de
Mario et iuxta rerum Vitalis Guaroni et iu-xta res Curie de quibus soletpercipire an-nuarum de grano
tumulos settugentos pa-rum plus vel minus.
Item dixit que habuit baiulacionis de qua ipse cum sociis emerunt in dicto anno sexte pro unciis vigintiocto de aliis
omnibus dixit ignoravit.
Vito de Jordano, baiulis in dicto anno sexte ind., iuratus et interrogatus de omni- bus bonisfructibus redditus
etproventibus quos habuit comes Sancti Severini in Tur-so et pertinenciis civis dixit per omnia ut Petrucius de Notari
Jacobo subscripto.
Idem Hugo, idem Antonellus Malan-dreni testis.
Notarius Andreas Clyasalis, magister actorum, in annis elapsis sexti et septime ind. et presenti octavi ind. iuratus et
in-terrogatus de proventibus factis per ma-gistrum Jacobis Filingerium, capitaneum Tursii in dictis annis dixit que
magister Jacobus de Polla predictus, in annis pre-dictis, fecit multos proventus qui sunt de Universitate Tursii et ipsa
universitas de dictis proventibus dat provisionis capita-neo et non comes et ipse notarius Andreas ignorat quantitatem
proventum.
Ego notarius Andreas predictis.
Deotiguardi Tarallo, magister baiulo-rum in anno septime ind., iuratus et intero-gatus de omnibus bonisfructibus
reditibus et proventibus quos habuit comes Sancti Severini in Tursio etpertinenciis eius dixit que habuit molendina duo,
vinea una cum jardino et olivetum unum, et dixit que de molendinis percipit annuarium de grano tumulos septicentum,
de vinea et oliveto dixit ignorare. Item dixit que habuit baiu-lacione de qua ipse cum sociis per unci solvere in dicto anno
uncias vigintiocto de aliis omnibus dixit ignorare.
Andrea de Ogiano, baiulius in anno septime i., iuratus et interrogatus de om-nibus bonisfructibus reditibus et
proventi-bus quos habuit comes Sancti Severini in Turso etpertinenciis eius dixit per omnia ut Deotiguardi superior et
addidit que comes recipit annuarum pro decima aliquorum vinearum noviterfattarum de vino salmas quatuorpartes plus
vel minus.
Biasi de Giorgio de Sancto Arcangelo, conservator in annis sexti et septime ind. rerum curie in Tursio, iuratus et
interro-gatus de omnibus bonisfructibus reditibus et proventibus quos habuit comes Sancti Severini in Tursio et pertinenciis
civis, dixit que habuit vineam unam noviterfacta de qua ipse conservator recepit in anno et lapso septime ind. de vino salmas
treginta partes plus vel minus, que vinea laboratum ad repensas. Item dixit que habuit olivetum unum de qua percepit in anno
sexte ind. de oleo quartzulos quatraginta. Item dixit que habuit molendina duo de quibus percipit annuarium de grano tumulos
sexcentum octuaginta. Item dixit que habuit de vino in anno octave ind. de vinea curia de vino saimas centum
vigintaquinquepars plus vel minus.
I documenti utilizzati, come si può osserva-re, non fanno alcun riferimento ad un'altra fon-te di
reddito primaria per queste popolazioni, ossia agli animali bovini e caprini sicuramen-te presenti in
altre fonti perdute. L'unico ele-mento rintracciato a tale proposito è la vendita di bovini effettuata a
Senise durante la fiera di maggio nell'anno 1488.
Secondo lo studio del Grohmann a questa fiera parteciparono ventinove operatori econo-mici di
Tursi; dallo spoglio effettuato sul re-gistro relativo alla fiera tutte le contrattazio-ni tursitane si
riferiscono alla vendita di bovini ed il loro prezzo si aggirava, a seconda dell'età dell'animale, dai
quattro ai dieci ducati, gli acquirenti erano per lo più campani come Sil-vestro di Mercogliano,
Salvatore di Avellino, Giuglielmo di Atripalda o Pietro di Sarno.
Queste poche, ma significative ed esplicite informazioni, relative alla seconda metà del XV secolo,
tratteggiano una situazione eco- nomica di crisi che dura almeno un trentennio ed è imputabile a vari
fattori: climatici, bellici, imposizioni fiscali gravose nonché all'assenza di un ceto imprenditoriale
locale. In riferimen-to a quest'ultimo fattore, un dato interessante emerge con chiarezza dalle
osservazioni invia-te all'erario dalla Sommaria: nel 1487 a Tursi non si riesce ad appaltare la bagliva a
persone capace di assolvere l'impegno. Secondo il sistema vigente nel Regno, questi appalti
pre-supponevano la presenza di uomini di affari disposti ad accollarsi il rischio di una mancata o
insufficiente riscossione.
Infine, l'analoga situazione di sostanziale crisi di questa parte del Regno è testimoniata in un
ultimo documento dove manifestamen-te, 1'8 settembre 1491, la Sommaria ordina al Commissario di
Basilicata di esigere da alcune terre della provincia, a motivo della loro pover-tà un contributo di soli
due tarì per le fortifica-zioni, tra queste terre elencate vi è Tursi:
Commissari, perche la Maestà del signor Re ha provisto et ordinato che da le mnfrascrip-te terre de
quessa vostra decreta provincia de Basilicata, actesa la loro povertà d'acqua avante non se e habia per vui
da exigere se non ad rasone de dui tarì per ciascuno foco per causa del pagamento imposto per le fabriche
del principato [...].
Doc. n. 3
Inventano delle "robbe" di una "potega" di Tursi
[1590]
Orazio Coperto di Tursi fa eseguire l'inventario delle "robbe" contenute nella sua potega sita nella contrada Lo mezo
tumulo e possedute in comune con Giseppo Coperto.
Archivio di Stato di Potenza, Fondo: Atti notarili, I versamento, Distretto di Lagonegro, voi. 51, Notaio Colelia
Bonello tursitano, 1590, cc. 206-209.
Robbe inventariate de la potegha di me Horatio Coperto de Tursi I sita nella contrada de Lo mezo tumulo, et quelle
poste, et apprezzate, et in communati I male et bene à Giseppo Coperto de Tursi, quale robbe retrovate I in detta
potegha sono del modo infrascritto, videlicet: In primis cordi, seu zuche grosse mazzi quaranta dui; dudici mazzi de
meza zuca; de micci mazzi quattordeci; de carta risme tre; de filo canni sei; de stametto palmi decisetti et mezo; una
canna, et mezo de panno de Gefune; quattrodici canne, et mezo palmo di panno verdo; cinque migliara di zoccoli, et
guzzaroli senza testa; [. . .] dudici libri de cera biancha lavo-rata; ottocento lazzi de spagi; otto canni, et setti palmi
di scarlatino; sei carmi, et cinqui palmi de fioretto camplese; quattro canne di lanetta; [...] sette strincituri di villuto;
deci capistri di notte; tre capistri simplici; cento, et deci mazzi di cortelli; undici pale di ferro; [ ... ] otto unza, et
mezo di mainzo; dui grossi di campanelli duppij; setti libri, et dui unza de rama incartata; trenta canna, et mezo di
zigarella verda; vinti canni, et sei palmi di zigarella gialla; trenta cinqui canni, et sei palmi di zigareila paonazza;
quaranta setti carini, et mezo di zigarella bardiglia; canni trentadui di zigarella nigra; [ ... ] quattro cateni di Santa
Cruce; sei dozani de vesperale; sei libri,et mezo de Partenoster d'osso de Spagna; [ ... ] una cascetta d'occhiale; tridici
cortelli torchische; tridici cortelli napolitani con la manicha d'osso; cm-qui par&di cortelli di bocciero; [ ... ] cinqui
berretti di preti piccoli; setti berretti di rascia di Firenza fina; undici berretti di preiti de rascia Fabiana; tre pezzi di
pizzilli fini; [ ... ] seicenti spingoli grossi; quattrocento spingoli piccoli; sidici pettini d'aguscio; cinqui serti di coralli;
setti casciette d'occhiale; trenta pettini di caravana; cinqui casciottole de marzapanelli; cinque specchi piccoli; [ ... ]
settanta ferri di suglia napolitani; sei mazzi di ferri di suglia milanesi; trenta una unza, et quarte tre de seta; tredici
unza, et quarta di seta torta nigra; novi unza di seta di più colori torta; vinti unza, et mezo di seta carmosina;
dcci sette teste de morti; dui cento cantari grossi; cento cantari piccoli; trecento settanta quaterni; tre migliara, et
mezo di chiovi di ferro; trenta otto mazzi de spaco marcianese; [ ... ] una libra, et meza di seta nigra floscia; dui
libre, et una onza de seta floscia di varie colore; sessanta ciuffi de seta, et oro; deci d'otto para di scarpuni grossi di
bac[..]; dui rotola, et mezo di vitriolo; cinqui teli de panno d'ogni sorte; cento, et cinquindici libri de cera biancha,
et onza Otto lavorata; quat-tro migliara d'aquare; otto onza, et mezo de verderama; novi rotola de scotano; trenta
anelli cipriani; meza libra de cordi di citera; cinco spinoli; tre para de corteili fini de schala; dui rotola, et mezo de
pepe; [ ... ] tre rotola, [ ... ] onza de incenzo; cinqui onza, et mezo de attono filato; otto onza de zafarana; dcci
barretti lupini; sette libri, et tre onze de cera citrina; setti ferri di serra piccoli; dcci para de forgici de barbere; tre
para de guante de donna de seta; quattro chiavature de cascia; duicento capi de corda da battere; dcci scaranusci de
garavana; trenta stringhe de camuscia; quattro pelli de crapio in camuscia; quattro pelle de camuscia; ischa de foco;
tre spicchiali innargentati; cinqui spicchiali; doi para de bisaccia de lana; setti palle de giocare; peme falze; setti
cento buttuni de filo; setticento cinquanta buttuni de seta; cinquecento tacci de scarpari; quattro rotola de chiribo
arso; dcci rotola de polvera; dcci burzi de seta camuscia; undici burri grande doppie; vintinovi burri più piccole;
trenta burri piccoli cintati duppi; sei calamari con le stacci; dcci setti calamari simpij; dui para de fiaschi de
pulvira. / E più se ponino ditti sessanta uno, et mezo per tanta cera, et altre cose de trovarsi pagati a Gio. [ ... ]
Fortunato de Gefune. /Undici rotola, et vinti dui unza, et mezo di sapone; tredici rotola di sulfato; sissanta sei lazzi
de bommaci di vani colori; sidici lazzi capiscioli; dui libri, et quattro onza di galla de livante; tre vestite de figlioli;
sidici medaglie de vitro indorati; sei calamari à viti; dui fiaschi piparuli; sessanta rotola de grano griso; un di carini,
et sette palmi de tela grossa de la Cava; sei canni, et mezo de tela sottile de la Cava; dudici carte bergamine; tre
canni, et dui palmi di cannavazzo; dui carini, et tre palmi di lanetta; dui palmi mezo un terzo di villuto russo de la
Cava; uno palmo, et mezo di velluto napoletano verdo; cinqui palmi, et mezo di villuto floscio russo; quindici
Crucifissi piccoli, et uno grosso; undici aquaruli simpij; dui de seta aquaruli; dui casci una con la chiavatura; dui
casci dove stando li ferri, et sapone; uno bancone guarnito, et dui tiraturi; sei pezzi di pisi [ ... ]; tre para de bilanzi
uno piccolo, uno grande, et uno mezano de rama con bilanzero di ferro, dui d'ottoni li bilanzi, et uno de rama: una
statela piccola; uno scarpello uno mar-tello, et uno cippone di tagliare plumbo; una ancoduna, et uno martello
appitalare; quattro pedistalli, et quattro taboli; una scaletta per la potega; dui barrettari piccoli; uno barrettaro
grande; dui bancali cusuti; uno bancale piccolo di 7 palmi lungo; un altro bancale.
Doc. n. 5
Interno di una casa-grotta di Tursi
1594, ottobre 21
Inventano dei beni esistenti all'interno di una grotta di Tursi abitata daApolissa, vedova di Giovanni de Gloria e
sita nella contrada de Lo petto di Santo Sebastiano.
Archivio di Stato di Potenza, Fondo: Atti notarili, Iversamento, Distretto di Lagonegro, voi. 51, Notaio Coieiio
Boneilo tursitanus, 1594, cc. 91-91r.
Die 21 mensis ottubris 1594, rogante Tursii. Ad precis nobis fattis presente / honeste mulie-ris Appolisa, vidua
quondam Joannis de Gloria iure romano viventis ut dixit / civitatis Tur-sii personaiiter accessimus ad quandam
eius griptam, positam mtus predittam / civitatem in contrata ubi dicitur lo petto di Santo Sebastiano, iuxta bona
heredum / Angeli Marzucchi, iuxta viam vicinalem, et alios confines et dum ibidem / essemus preditta Appolisa
asseruit mensibus elapsis predittus quondam Joannes suus / maritus sicut Domino placuit ab hac vita discessit et
post eius / obitum remansent multa bona mobilia et stabilia tam de bonis / ipsius quondam Jaonnis, quam de bonis
ipsiusAppolise et desideravit et deliberavit I omnia preditta bona una simel inventariare per sua cautela! ad finem
possit et valeat de dittis bonis per suis iuribus [ ... ]. In preditta grutta [ ... ] con l'infrascritti robbi dentro: I Uno
letto for-nito d'ogni cosa mezo usato. / Una cascia granda d'apito vecchia cum quattro digalatri de bomaci. I
Un'altra casciottola piccola piena di grano da circa tomola duj.
I Un'altra cascia usata col'infrascritti robbj seu panni, videlicet: / dui facci di matarazzi novi di
mainzo, dui capilletti di mainzo / novi, una cultra resata, quattro tuaglie de pastaroni, / quattro
tizzaruli novi, sei tuagiie de faccia, quattro / bianchi, et dui de seta; dui coscim bianchi, dui camisi
de! donna, una di tela sottiia di lino, et l'altra de bomaci, tre groghere, / una di seta et l'altra bianca,
quattro scuffij, una gonnella di panno verdo I cum villuto nova, uno paro di manichi di villuto russo,
et uno dobletto novo. / Un'altra cascia granda meza usata piena di fichi.! Un'altra cascia piccola cum
l'infrascritti robbi, videiicet: dui cannaruli,'dui serti / di coralli, uno coscino [minato], uno rotolo de
maiuto, dui rotola di stanno, / cinqui cambisi de homo seu figlioli usati, quattro cammisi de donna
usati, I tre cannavazzi de pasta, dui tuaglie de tabola usati, doi tuaglie I bianche piccole usate,
cinque plazzi seu chirabacci usati. ! In dui casci vecchi d'apito cum uno poco de norzo. ! Diii tinelli
una nova, l'altra usata cum uno poco di bomace da uno ! digalatri, tre scorzi di lessìa, uno stoppello
di [ ... ], / uno barriiaro cum dui barrili, una caldara, et uno tigamo, [ ... ] / una cocchiara de
maccaruni, dui archi de battere, I uno rotola de lana filata, uno ancinaro cmii quattro pignati / et
dui amoli, una mat-tara, 40 setoli, una tafarca de [ ... ], I tre panari, tre taboli d'apito, uno telaro,
uno manganello de / petra de lissia, dui pidali uno di tenere aqua, l'altro [oglio], / dui ferri de
incandolari, uno mortalo de lingno, cmqui tomola / di fasuli, dualtri tomola de grano, una camastra,
tre zappi, I una accetta, una falci, uno putaturo.