LA GRANDE FAMIGLIA DI ARCHÉ

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LA GRANDE FAMIGLIA DI ARCHÉ
CREDERE VIA 21 dicembre 2014
la storia
LA GRANDE
FAMIGLIA
DI ARCHÉ
DALLA BERGAMASCA
A MILANO
Arché è stata la prima Fondazione
creata per dare aiuto e sostegno
ai bambini e ai ragazzi sieropositivi
quando ancora essere ammalati
di Aids era visto come uno stigma
da esorcizzare
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Padre Giuseppe Bettoni
(foto a sinistra),
56 anni, originario
della Bergamasca,
è un religioso
sacramentino.
Sopra: alcuni degli
operatori di Arché
che lavorano nella
Casa di accoglienza
di Milano
n gruppo di donne si raccoglie in
una stanza. La casa è silenziosa, i
bambini sono a letto. Una di loro è
musulmana, è scappata dal marito
che la picchiava; un’altra è induista, anche lei è
fuggita dalla violenza; un’altra ancora è cattolica e ha perso il lavoro; e un’altra, infine, non
crede in niente, sta cercando di tenere il proprio
bambino mentre gli altri sono stati dati in adozione. Tra queste donne c’è padre Giuseppe e
ora pregheranno tutti insieme: «Dio ha messo
il suo seme in ognuno di noi», dice. «Io cerco di
aiutarle a riscoprirlo, a coltivarlo, nel rispetto di
ogni tradizione religiosa. Ed è impressionante
scoprire ogni volta quante convergenze ci sono».
È uno scorcio di vita quotidiana nella Casa
U
Nata per iniziativa di
padre Giuseppe Bettoni,
la Fondazione si prende
cura di mamme e bambini
in condizioni di disagio.
Insieme a loro, «inventa
ogni giorno la speranza»
Testo di Stefania Culurgioni
Foto di Fabrizio Annibali
di accoglienza di Milano della Fondazione Arché
onlus che, dal 1997, accoglie mamme e bambini
in condizione di disagio: in fuga dalle botte, rimaste senza casa, vittime della tossicodipendenza e dell’alcool. In questa palazzina nella zona di
Porta Venezia, le mamme provano a riprendere in mano la loro vita. Aiutate dagli educatori,
cercano un lavoro e una casa, imparano a fare le
mamme, costruiscono un nuovo domani e tornano libere. Fino a oggi ne sono passate 142 con
162 bambini: molte ce l’hanno fatta, altre no.
Il perno intorno a cui ruotano è Giuseppe Bettoni, 56 anni, padre sacramentino e fondatore di Arché. I bambini gli saltano in braccio come a un papà, le mamme lo considerano
un punto di riferimento, spirituale e materiale:
in quella sua fede semplice e pragmatica c’è il
sollievo agli affanni della vita, alla disperazione, all’insicurezza del domani. «Sono nato in
un paesino sul lago d’Iseo», racconta, «secondo di cinque fratelli, da due genitori operai che
avevano una fede schietta e laboriosa, una fede
del fare. Erano gli anni Sessanta: ovunque
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LA GRANDE FAMIGLIA DI ARCHÉ
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«MI INTERROGAVO SUL MIO RUOLO DI PRETE: CHE COSA AVREBBE FATTO GESÙ?
LUI SAREBBE STATO CON I PECCATORI. E ALLORA HO CAPITO COSA DOVEVO FARE»
NON SOLO IN ITALIA
Oltre alla sede di Milano, Arché lavora
anche a Roma e a San Benedetto
del Tronto. Inoltre, la Fondazione
è presente anche a Kisii (Kenya)
e Chikuni (Zambia): in Africa, dove
l’Aids è una malattia che ancora miete
migliaia di vittime, le iniziative
di Arché sono volte a informare
e sensibilizzare la popolazione,
soprattutto le ragazze più giovani.
nella Bergamasca c’erano foto di Giovanni XXIII, e io ne ero affascinato. Era il simbolo
di una Chiesa concreta, aperta, come la Chiesa
di Francesco oggi. Era il Papa della gente, colui
che comprendeva le fatiche delle famiglie. Anche io volevo aiutare gli altri, e quando conobbi
il prete del mio oratorio, che giocava con i bambini e portava allegria, cominciai a sognare di
diventare come lui!».
La maestra delle elementari, colpita da un
tema in cui svelava il desiderio di diventare prete,
fece conoscere a Giuseppe un padre sacramentino. Giuseppe entrò in seminario, fece il noviziato
e poi andò a Fermo a studiare Teologia: «Il mio
professore di Diritto canonico era don Vinicio Albanesi (presidente della Comunità di Capodarco, ndr), fu lui che mi aprì nuovi orizzonti sulla
povertà e sulle ingiustizie nel mondo».
Giuseppe fu ordinato sacerdote nel 1983,
e nel 1984, a 25 anni, venne mandato a Milano,
nella chiesa di Sant’Angela Merici di via Cagliero. Erano gli anni dell’eroina. Nei bagni dell’oratorio restavano le siringhe, una generazione si
ammalava di Aids. «Eravamo in balìa di rapine
e vandalismi, chiamavamo la Polizia per sentirci più sicuri, ma io mi sentivo inquieto», racconta. «M’interrogavo sul mio ruolo di prete: o
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COME UNA FAMIGLIA
In Casa Arché (nelle
foto) mamme e bambini
sperimentano che
cosa vuol dire vivere
in una vera famiglia.
Quella che non hanno
mai avuto. In queste
immagini: alcuni
momenti di vita della
casa. Non mancano
i momenti di svago,
senza però dimenticare
lo studio e i lavori
domestici fatti a turno.
Oggi, grazie
soprattutto
ai farmaci, è
Signore?”, mi sono chiesto. Lui sarebbe stato possibile evitare
dalla parte dei peccatori. È lì che ho capito che la trasmissione
cosa dovevo fare».
dell’Hiv dalla
Il giovane religioso chiamò allora a raccol- mamma al figlio.
ta un gruppo di parrocchiani e insieme comin- Ma le sfide
ciarono a occuparsi dei “tossici”. Poi, un giorno,
per Arché sono
una richiesta inaspettata: un’assistente sociale
ancora tante
facevo il prete per mantenere lo status quo, per
rassicurare i parrocchiani e farli stare tranquilli, o imparavo dal Vangelo. “Che cosa farebbe il
disse che c’era un bambino di tre anni malato
terminale di Aids. Stava morendo in ospedale
da solo. C’era qualcuno che poteva seguirlo? Fu
allora che il gruppo, ormai diventato associazione Arché, cominciò a dedicarsi ai bambini
sieropositivi e alle mamme. Nonostante molti
parrocchiani gli dicessero che l’Aids era il castigo giusto di chi aveva peccato, padre Giuseppe
iniziò ad andare negli ospedali per stare accanto a quei bambini. «Per cinque anni non ho fatto
altro che assisterli e poi fare i funerali», ricorda.
«Dal 1996, i farmaci hanno cominciato a migliorare le condizioni dei malati e l’emergenza Aids
è finita. Ed è allora che abbiamo aperto la Casa
di accoglienza».
Oggi, Fondazione Arché si prende cura di
donne, e dei loro figli, che vivono una situazione di difficoltà, a Roma, Milano, San Benedetto
del Tronto e in Africa. A Milano in particolare,
nella Casa di accoglienza di Porta Venezia, sono
passate negli anni centinaia tra mamme e bambini. «Ci sono due cose che mi hanno acceso il
motore nel cuore», spiega padre Giuseppe. «La
prima fu un’omelia in un Giovedì santo del cardinal Martini. Martini disse che per noi preti
lavare i piedi significava mettersi al servizio
di chi non riesce a stare dietro a questa società
convulsa. A fortificare la mia vocazione c’è ogni
giorno anche quello che Gesù dice nel Vangelo
di Matteo: i pubblicani e le prostitute vi passeranno avanti nel Regno di Dio. Gesù cerca di scalfi-
re quella crosta esterna per riscoprire il
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L’ESPERIENZA
A ROMA ATTIVO
UNO “SPAZIO”
NEONATO-FAMIGLIA
NON SOLTANTO
OPERATORI
Tutte le iniziative
di Arché vengono
svolte con il grande
contributo anche
dei volontari.
Nelle foto, sopra:
Paolo e Ingrid,
due operatori
della Fondazione
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buono in ognuno di noi: è quello che cerco
di fare ogni giorno con le mamme».
Molte di loro arrivano ad Arché disperate,
confuse, malmenate, arrabbiate, provate dalla vita e spesso vittime di abusi. Non sanno da
dove ripartire, sentono che la vita le ha punite
per qualcosa che hanno sbagliato.
Mounira, per esempio, è scappata da un
marito violento. Ha 36 anni e tre bambini, è
venuta in Italia con lui dall’Algeria, ma da anni viene picchiata e minacciata. «Mi sono sposata con un matrimonio combinato. Lui è mio
cugino», racconta, «e mi ha picchiata da subito. Speravo che venendo in Italia potessimo cominciare una nuova vita, invece è stato peggio. I
miei bambini hanno iniziato ad avere problemi
a scuola, ed è allora che mi sono decisa: sono
scappata e sono venuta qui». Federica invece
ha 34 anni e un figlio di 8. Ha perso il lavoro, è
stata sfrattata, è andata da sua madre ma lì sono cominciati i ricatti, una sottile e prolungata
violenza psicologica da parte di una madre alcolista, e quindi i disagi del bambino.
È quando la speranza si offusca che padre
«Un giorno, arrivò
una richiesta da parte
dell’ospedale: c’era
un bambino di tre anni
che stava morendo
di Aids, in corsia
Giuseppe le invita a raccogliersi. In quella
stanza della Casa di accoglienza pregano insieme, anche se sono musulmane, induiste,
protestanti, ortodosse oppure atee. «Parlo loro del discorso della Montagna di Gesù: anche
voi potete essere contente, guardare la vita anche se è piena di problemi senza opprimervi
né farvi prendere dall’ansia», spiega il religioso. «E poi ricordo loro la figura di Maria, che
ha saputo stare in piedi sotto la croce, perché
sapeva che Dio era lì e non può abbandonarci».
Ed è incredibile vedere come alla fine, qualunque sia la religione, qualunque sia la tradizione, tutte quante preghino insieme il Padre Nostro.
In Italia, oltre alla sede di
Milano, Arché è attiva anche a
San Benedetto del Tronto e a
Roma. Dove i volontari e gli operatori della Fondazione aiutano
minori e famiglie, sia italiani che
stranieri, con problemi di disagio psichico, sociale o Hiv, attraverso interventi di assistenza negli ospedali, nelle scuole
o direttamente nelle famiglie.
Nell’Ospedale San CamilloForlanini di Roma, ad esempio,
nell’Unità operativa di Neonatologia, Arché ha individuato, in
collaborazione con i medici, uno
spazio specifico riservato all’accoglienza e all’ascolto di famiglie con neonati a rischio per diverse patologie e fragilità sociali.
In questo luogo, le mamme si sentono libere di chiedere
tutte le informazioni necessarie
NON SOLO HIV
Volontari e ragazzi della sede
romana di Arché alle prese
con un’attività sulla fiducia
per riuscire a farcela anche da
sole, soprattutto dopo la dimissione dall’ospedale. A loro,
viene offerto un sostegno psicologico, ma anche una mano
concreta, per indirizzarle ai servizi territoriali, secondo le singole necessità della famiglia.
Oltre a questi servizi di base,
Arché mette poi a disposizione
la propria competenza in ambito Hiv/Aids per un supporto
alle mamme sieropositive che
possono essere aiutate anche
con la presenza di un volontario Arché a domicilio in progetti di breve-medio termine.
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