AeR01-2014 - Centro Paolo VI Onlus
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AeR - Abilitazione e Riabilitazione Anno XXIII - N. 1 - 2014 ISSN 1827-5842 AeRCopertina01-2014_2011 12/06/14 13.14 Pagina 1 Anno XXIII N. 1 2014 Pubblicazione del Centro Paolo VI di Casalnoceto (AL) Finito di stampare nel mese di giugno 2014 da Guardamagna Editori in Varzi (PV) Registrazione del Tribunale di Tortona N. 3/93 del 15.6.93 - Spedizione in abbonamento postale, gruppo IV - Pubbl. inf. 50% - Autorizzazione della Direzione Provinciale PT di Alessandria A e R - Abilitazione e Riabilitazione PUBBLICAZIONE SEMESTRALE Centro Paolo VI Onlus - Organizzazione non lucrativa di utilità sociale Comitato scientifico Alessandro Antonietti Michela Balconi Giuseppe Cetta Ettore Cima Maurizio De Negri Paola Di Blasio Aldo Galeazzi Marisa Giorgetti Paola Iannello Pierluigi Postacchini Daniela Traficante Giuseppe Vico Comitato di redazione Gianluigi De Agostini Cesare De Paoli Roberta Fanzio Maurizio Pilone Segretaria di redazione Giuliana Lucente Direttore responsabile Matteo Colombo Co-coordinatore scientifico Cesare Albasi Coordinatore scientifico Pier Luigi Baldi AeR 01-2014.indd 1 12/06/14 13.11 NOTE DELLA REDAZIONE - La rivista comprende tre sezioni: a) studi e ricerche; b) esperienze di lavoro; c) contributi vari. - Gli articoli vanno indirizzati alla segreteria di redazione, presso il “Centro Paolo VI”, via Gavino Lugano n. 40, 15052 Casalnoceto (AL). Tel. 0131.808140 - Fax 0131.808102 email: [email protected]. - Il testo di ciascun contributo, da inviare sia su supporto informatico che cartaceo, dovrà essere accompagnato dal nome e cognome dell’autore (o degli autori), con qualifica professionale, ente di appartenenza, recapito postale e telefonico. - Per ogni saggio della sezione “studi e ricerche” si richiedono un breve riassunto, tre parolechiave e i riferimenti bibliografici. - L’accettazione dei lavori è subordinata al parere positivo di “referees”, esterni al comitato di redazione. - Per la stesura della bibliografia ci si atterrà ai seguenti esempi: a) LIBRO: Viaro, M., Leonardi, P. (1990), Conversazione e terapia. Milano: Raffaello Cortina. b) ARTICOLO DI RIVISTA: Hècaen, H. (1960), Les apraxies. Introduction. Revue Neurologique, 102 (6), 540-550. c) CAPITOLO DI UN LIBRO: Carli, R. (1982), Per una teoria dell’analisi istituzionale. In R. Carli, L. Ambrosiano (a cura di), Esperienze di psicosociologia (59-139). Milano: F. Angeli. d) ATTI DI CONVEGNI: Orsenigo, A. (1987), Professionalità degli educatori di comunità. ecc. In C. Kaneklin, C. D’Ambrosio (a cura di), Atti del Convegno Interventi di comunità (127-156). Milano: Università Cattolica del S. Cuore. - La rivista è distribuita gratuitamente. - A e R - Abilitazione e Riabilitazione è consultabile anche on-line, all’indirizzo internet www.centropaolovi.it, sulla cui home page si dovrà cliccare Formazione e ricerca scientifica e, successivamente, A e R - Abilitazione e Riabilitazione. AeR 01-2014.indd 2 12/06/14 13.11 A e R - Abilitazione e Riabilitazione Anno XXIII - N. 1 - 2014 INDICE STUDI E RICERCHE SILVIA ROCCO Riflessioni sul fallimento adottivo in adolescenza: cause e rischi.............. pag.7 ROBERTA FANZIO, SARA LOVOTTI La dispersione scolastica, grave danno per le prospettive di sviluppo culturale ed economico del nostro Paese................................. pag.25 SARA LOVOTTI, VALENTINA FURGERI Il counseling logopedico nella disfagia infantile........................................ pag.37 ESPERIENZE DI LAVORO GIUSY CAPPELLO, MARISA DEVECCHI, GAETANO GALUFFO, MARIA TERESA GIACOBONE L’insegnante di sostegno, tra impegno e difficoltà nell’educazione dei bambini con sviluppo atipico..................................... pag.53 ORIETTA MELONE “Là dove c’era l’erba ora c’è una città...” Spunti di riflessione sulla lettura de I ragazzi della via Pál....................... pag.63 CONTRIBUTI VARI ROBERTA FANZIO “Nel Dolce mondo delle fiabe. Un laboratorio di cucina con le storie di Walt Disney”.............................. pag.75 La scomparsa del prof. Vittorio Moro................................................................... pag.77 AeR 01-2014.indd 3 12/06/14 13.11 AeR 01-2014.indd 4 12/06/14 13.11 STUDI E RICERCHE AeR 01-2014.indd 5 12/06/14 13.11 AeR 01-2014.indd 6 12/06/14 13.11 7 RIFLESSIONI SUL FALLIMENTO ADOTTIVO IN ADOLESCENZA: CAUSE E RISCHI SILVIA ROCCO* Riassunto. L’obiettivo del presente lavoro è quello di approfondire il tema del fallimento adottivo in una fase significativa dello sviluppo come l’adolescenza, all’interno di una cornice concettuale che fa riferimento della “teoria dell’attaccamento” (Bowlby, 1969, 1973, 1980). L’attenzione sarà rivolta ad analizzare le principali cause di rischio di manifestazioni psicopatologiche nel bambino/adolescente adottato, a seguito della rottura o dell’alterazione dei legami d’attaccamento mettendo in relazione adozione, transizione adolescenziale e costruzione dell’identità. Parole-chiave: evento traumatico, adozione, adolescenza. 1. Introduzione Per fallimento adottivo si intende, a livello giuridico, sia l’interruzione della relazione adottiva prima che venga definitivamente sancita dal “Tribunale dei Minori” nella fase di affido pre-adottivo, sia l’allontanamento del minore dalla famiglia adottiva dopo che è stato dichiarato figlio legittimo ed è ormai parte del nucleo familiare. L’interruzione può essere, quindi, conseguente alla rinuncia o all’impossibilità dei genitori a continuare ad educare e sostenere il figlio in fase pre-adottiva o all’emissione di un decreto del Tribunale dei Minori, a seguito della constatazione dell’inadeguatezza dei genitori a prestare cure adeguate al figlio, a livello fisico, psicologico ed emotivo. L’approfondimento del tema legato alle adozioni fallite nasce dalla valutazione di alcuni dati significativi, anche se circoscritti alla realtà del “Centro di Riabilitazione Paolo VI” di Casalnoceto (AL). All’interno di quattro comunità terapeutiche, con un totale che di 40 pazienti circa, in regime residenziale, si è constatata una non irrilevante percentuale di ragazzi adottati che sono stati allontanati dalla famiglia. Gli anni a cui si riferiscono i dati vanno dall’1/01/2008 * Dottore in Psicologia. Psicomotricista, “Centro Paolo VI” di Casalnoceto AeR 01-2014.indd 7 12/06/14 13.11 8 A e R - Abilitazione e Riabilitazione al 31/12/2012, in cui si passa dal 20% di presenze di ragazzi adottati nel 2008, al 22,5% nel 2009 e 2010 per tornare al 20% negli anni 2011 e 2012. Questi dati, anche se riferiti ad un piccolo campione, forniscono la dimensione di come il fenomeno delle interruzioni del rapporto adottivo non sia trascurabile e meriti un accurato interesse. Un altro dato significativo è l’età in cui è avvenuto l’allontanamento dalla famiglia, che varia dai 12 ai 15 anni, a testimoniare che l’adolescenza rappresenta il momento più critico nelle relazioni tra genitori e figli in generale, e tra genitori e figli adottivi in particolare. La maggior parte dei ragazzi è stata adottata ad un’età in cui le esperienze di deprivazione o di abbandono vissute prima dell’adozione sono riuscite, da quanto si legge nella loro storia personale, a lasciare una traccia significativa nello sviluppo della loro personalità, al punto da farne emergere con il tempo i tratti più disturbati. Il dato positivo è che il 50% dei ragazzi inseriti nelle comunità a seguito della crisi nel legame con i genitori adottivi sono rientrati in famiglia dopo un periodo, durato mediamente un paio d’anni, in cui sono stati attuati interventi terapeutici individuali e di gruppo per i ragazzi e interventi di gruppo per i genitori, connotando un fallimento non definitivo ma transitorio dell’adozione. Le maggiori ricerche internazionali rilevano che il numero dei fallimenti adottivi oscilla tra il 10 e il 20% nei casi definiti di “adozioni difficili” come quelle in cui il bambino ha problemi di salute, è portatore di handicap, ha vissuto gravi violenze e deprivazioni nella sua famiglia d’origine, o è stato adottato ad un’età superiore ai 6 anni o è collocato in una famiglia con altri figli biologici o ad essere adottati sono più fratelli. La percentuale scende all’ 1-3% nel caso di adozioni “normali” (Chistolini, 2008), mentre le adozioni riuscite si collocano intorno al 70-90%. Nonostante i dati delle ricerche sulle adozioni riuscite siano confortanti, tuttavia ogni fallimento pone un interrogativo sul futuro e sulle conseguenze psicologiche del minore che viene allontanato dalla famiglia e merita un’adeguata considerazione. L’esperienza adottiva può, infatti, costituire da un lato, qualora non si vada incontro a un fallimento, la base per lo sviluppo dei nuovi legami di attaccamento ma, dall’altro, può diventare lo scenario in cui si inserisce un nuovo dramma. La possibilità di un nuovo abbandono è, infatti, sempre presente nella vita dell’adottato. Le ricerche nel settore dimostrano che la crisi dell’esperienza adottiva si concentra negli anni della crescita adolescenziale, sia per il difficile percorso di costruzione dell’identità da parte del minore adottato sia per le difficoltà che incontra nel definire il proprio ruolo all’interno della famiglia adottiva specie nelle adozioni tardive. Nelle famiglie adottive la crisi che porta all’espulsione può avvenire anche dopo diversi anni. L’età media che si rileva AeR 01-2014.indd 8 12/06/14 13.11 Riflessioni sul fallimento adottivo in adolescenza: cause e rischi 9 è prossima ai 13 anni. Mettendo in relazione l’età media dell’allontanamento con l’età media all’ingresso in Italia (circa 8 anni), si ha una durata media dell’esperienza adottiva che fallisce, di circa 5 anni e mezzo. Il momento dell’allontanamento avviene nel periodo adolescenziale anche nei casi in cui il figlio è stato adottato nella fascia di età tra 0 e 2 anni. 2. Prevenzione e interventi sul fallimento adottivo Chistolini (2008) enfatizza “la valenza riparativa dell’adozione” che risponde al bisogno fondamentale del bambino di instaurare adeguati legami d’attaccamento (Bowlby, 1969) e al bisogno di “nutrimento affettivo” necessario alla sua crescita. Su tale ipotesi si fonda l’idea che le esperienze interattive positive, successive alla prima infanzia, possano favorire la rielaborazione di esperienze negative precoci, ma l’interesse in questo settore della psicologia clinica è anche rivolto alla valutazione delle conseguenze del trauma sullo sviluppo di eventuali manifestazioni psicopatologiche irreversibili. Il problema principale che si pone è quindi, sia quello della prevenzione del fallimento con una valutazione tempestiva della crisi adottiva, sia del recupero di una progettualità sul minore da parte dei genitori quando questo è già in atto. Parallelamente, anche il minore deve essere inserito in un progetto terapeutico di sostegno che mira al suo ricongiungimento con i genitori adottivi, qualora sia avvenuto un allontanamento dalla famiglia, con inserimento in comunità terapeutica. L’insieme di queste problematiche rende inevitabilmente il processo adottivo un passaggio delicato e a rischio. Tuttavia, avere un quadro completo di tutte le variabili che entrano in gioco nel percorso adottivo consente agli operatori che lavorano in tale ambito di intervenire sulle aree maggiormente esposte a criticità. Un fattore di protezione rispetto alle difficoltà a cui può andare incontro la nuova famiglia è quello “dell’importanza del ruolo svolto dalla consapevolezza, nella coppia adottiva, delle motivazioni, dei limiti e delle capacità presenti al proprio interno”. Tale fattore dovrebbe essere inserito come obiettivo nella progettazione di interventi di sostegno alla genitorialità, per ripristinare il “processo di filiazione-affiliazione” (Uguzzoni, Siboni, 2001) che si è inevitabilmente interrotto o deviato o congelato a seguito della crisi adottiva. Nella maggior parte delle teorie che si occupano dello studio degli esiti del trauma precoce, la nozione centrale è rappresentata dal disturbo dell’attaccamento. Bowlby (1989) ritiene che abuso, maltrattamento, trascuratezza nell’infanzia alterino la costruzione del legame d’attaccamento ai genitori o ai caregiver AeR 01-2014.indd 9 12/06/14 13.11 10 A e R - Abilitazione e Riabilitazione specialmente se questi sono direttamente coinvolti nel maltrattamento del bambino. La paura, la rabbia e l’insicurezza che ne risultano possono legarsi in modo condizionato a stimoli relazionali (Briere, Hodges, 2012). Questo comporta un’alterazione della traiettoria evolutiva che causerà problemi di individuazione, identità, definizione di sé, ridurrà la capacità di regolazione degli stati emozionali, porterà a sviluppare rappresentazioni negative si sé, degli altri e delle interazioni con gli altri. Come osserva Attili (2010), “la costruzione di nuove relazioni e in particolare delle relazioni con i genitori adottivi non può non essere influenzata dai modelli dell’attaccamento pregressi, formatisi all’interno di relazioni precedenti, drammaticamente carenti e distorte”. Queste relazioni possono avere diversi esiti. In particolare, Attili (ibidem) pone l’attenzione su come i meccanismi che operano all’interno dei differenti stili di allevamento possano essere considerati fattori di rischio o di protezione rispetto al disadattamento sociale ed affettivo. L’attaccamento sicuro è stato individuato come fattore protettivo rispetto allo sviluppo di psicopatologia. Mentre è stata rilevata da diversi autori la correlazione tra attaccamento insicuro/ambivalente, insicuro/evitante e disorganizzato e il rischio di sviluppare disturbi psicoaffettivi e comportamentali. Tuttavia non tutti gli individui che nell’infanzia hanno sviluppato modalità di attaccamento insicuro o disorganizzato sviluppano una psicopatologia. I bambini con attaccamento ambivalente/invischiato sono a rischio per lo sviluppo di patologie, che si esprimono con un notevole stato d’ansia e di angoscia da separazione, fobie, disturbi psicosomatici che possano richiamare l’attenzione dell’adulto, disturbi della condotta con comportamenti tirannici e disturbi da deficit dell’attenzione che si esprimono con scarsa perseveranza (Attili 2001). Gli adolescenti con attaccamento di tipo ambivalente/invischiato, se ricoverati per problemi psichiatrici posso manifestare disordini affettivi con alti livelli di stress, personalità istrioniche o borderline (Attili, 2001; Rosenstein, Horowitz, 1996). Altri studi hanno riscontrato disordini alimentari relativi ad anoressia purgativa in pazienti adolescenti con attaccamento ambivalente; anoressia purgativa e bulimia sono state riscontrate anche in giovani adulti con attaccamento di tipo invischiato/preoccupato (Candelori, Ciocca, 1998). Nei soggetti con attaccamento insicuro-evitante/distaccato sarebbero prevalenti disturbi emotivi, disturbi psicosomatici, disturbi della condotta, disturbi da deficit da attenzione e iperattività, disturbi alimentari (Attili, 2001). La carenza e il malfunzionamento delle cure nella relazione di attaccamento porta questi bambini ad adottare strategie di sopravvivenza, in cui l’esperienza sensomotoria prevale sul funzionamento simbolico. Quest’ultimo, infatti, si AeR 01-2014.indd 10 12/06/14 13.11 Riflessioni sul fallimento adottivo in adolescenza: cause e rischi 11 sviluppa grazie ad un’interazione stabile tra il bambino e la figura di accudimento, a partire dall’età neonatale. “La quantità e l’intensità di stimoli che il bambino adottato riceve nei primi tempi della sua vita nella nuova famiglia, possono provocare in lui un sovraccarico di eccitamento, facendo perdurare la risposta sensomotoria” (Galli, Viero, 2001). È ipotizzabile che proprio il prevalere della risposta sensomotoria e la carenza di funzionamento simbolico siano alla base dei deficit di attenzione con iperattività, dei comportamenti oppositivo-provocatori, dei disturbi di apprendimento che molti bambini adottati manifestano a scuola. Secondo Fonagy e Target (2001) l’attaccamento invischiato/preoccupato in età adulta che evolve da quello ambivalente dell’età infantile, può essere associato a “psicopatologie di tipo introiettivo” quali depressione, disturbi psicosomatici, disturbi ossessivi, disturbi d’ansia. Gli stessi autori affermano che vi sarebbe una correlazione significativa tra la manifestazione di un disturbo borderline di personalità e la tipologia di attaccamento disorganizzato/non risolto. Le caratteristiche di questo tipo di attaccamento descritte da Main (1991) si esprimono in comportamenti oscillanti tra fuga attiva e avvicinamento al caregiver mediante meccanismi che diversi autori definiscono di cut-off (fuga bloccata) utilizzando un termine che compare nelle descrizioni etologiche sul comportamento degli animali in situazioni di pericolo (Attili, 2007). Tali comportamenti avrebbero, secondo Attili (op. cit.), un loro equivalente mentale. Attili (ibidem) ipotizza che “i circuiti neuronali selezionati per promuovere la difesa a livello comportamentale siano utilizzati, in seguito, nella filogenesi per garantire la difesa della mente dall’impatto di stimoli dolorosi”. A sostegno di questa ipotesi vi sarebbero i contributi di numerosi autori, che interpreterebbero i fenomeni di dissociazione con esiti in termini di disturbo borderline di personalità, gli stati di trance e l’insensibilità emozionale (segnalati come disturbi mentali, a cui sono inclini bambini e adulti con attaccamento disorganizzato), come “strategie mentali di cut-off ”. Queste strategie avrebbero “funzioni analoghe a quelle comportamentali: impedire che le informazioni relative al non poter fuggire da situazioni di minaccia provochino sovraccarichi sensoriali insopportabili ed escludere le informazioni che manterrebbero attivato il sistema di attaccamento” (Attili, 2007). Questo tipo di funzionamento mentale sarebbe la causa di un deficit di teoria della mente presente nei soggetti con attaccamento disorganizzato e nei disturbi borderline di personalità. AeR 01-2014.indd 11 12/06/14 13.11 12 A e R - Abilitazione e Riabilitazione 3. Ipotesi teoriche sugli effetti del trauma precoce e sul rischio di manifestazioni psicopatologiche nel bambino/adolescente adottato Numerosi studi sono stati orientati a documentare gli effetti di danno cerebrale più o meno irreversibile, sul funzionamento neuroendocrino e immunologico a seguito di esposizioni prolungate e continue a stili allevanti estremi che si pongano come fonte di stress cronico. Diverse ricerche hanno documentato la presenza in molti bambini abusati di danni neurologici anche in assenza di lesioni alla testa. Altri studi hanno osservato uno sviluppo più selettivo delle capacità cognitive non verbali, nei soggetti traumatizzati a dimostrazione del fatto che chi viene allevato da caregiver non responsivi, abusanti, trascuranti “impara che per sopravvivere sono più importanti le informazioni non verbali rispetto alle parole” (Bureau et al., 2012). Tutte le ricerche concordano sul fatto “che rimanere in un persistente e subcronico stato di paura incide sullo sviluppo delle aree cerebrali primariamente deputate all’elaborazione delle informazioni”. Bessel van der Kolk e D’Andrea (2012) sostengono che nonostante l’età infantile sia un periodo caratterizzato da resilienza, tuttavia la traumatizzazione precoce è associata a vulnerabilità in età adulta che riguarda la morbilità psichiatrica e i disturbi comportamentali, ma anche disturbi gastrointestinali, malattie metaboliche, malattie autoimmuni, cardiovascolari e da stress cronico. Inoltre Ford (2012) afferma che “l’esposizione a situazioni traumatiche può avere un impatto profondo e duraturo quando avviene in età critiche o durante le transizioni evolutive e se comporta interruzione delle relazioni d’attaccamento”. Negli studi epidemiologici risulta significativo come l’esposizione a violenza interpersonale o ad abusi nell’infanzia sia associata ad alto rischio (50- 75%) di sviluppare un disturbo post traumatico da stress (DTSD) in età adulta oltre a problemi di ansia, depressione, suicidarietà, dipendenza da sostanze, disturbi di personalità, comportamento antisociale o violento, malattia mentale grave, e disturbi sessuali. I recenti studi nel campo della traumatologia dello sviluppo, che sintetizzano le conoscenze che provengono dalla psicopatologia evolutiva, dalle neuroscienze evolutive e dalle ricerche su stress e trauma, sono orientati a chiarire le “complesse interazioni fra costituzione genetica dell’individuo, ambiente psicosociale individuale e periodi critici (finestre) di vulnerabilità/resilienza alle esperienze di maltrattamento” (De Bellis, 2012). Il cervello in via di sviluppo sarebbe quindi influenzabile dall’esposizione a diverse forme di avversità. Sono state individuate alcune regioni cerebrali come il corpo calloso, l’amigdala, l’ippocampo, la corteccia prefrontale, potenzialmente AeR 01-2014.indd 12 12/06/14 13.11 Riflessioni sul fallimento adottivo in adolescenza: cause e rischi 13 vulnerabili all’esposizione precoce a livelli eccessivi di ormoni dello stress. La teoria di Teicher et al. (2012) è che lo stress precoce e intenso attivi la corteccia prefrontale alterandone lo sviluppo. Questo porterebbe ad una “maturazione precoce della corteccia prefrontale, causando segni di maturazione precoce (bambino genitorializzato) o arresto dello sviluppo di questa regione, ostacolandone la capacità di raggiungere la piena età adulta”. Studi recenti hanno invece esaminato la correlazione tra le variabili genetiche e lo stress postnatale, per capire il motivo per cui in alcuni bambini sono più evidenti i problemi di condotta associati a trascuratezza, mentre altri sono più resilienti. In particolare la ricerca ha esaminato le interazioni gene-ambiente rispetto al comportamento antisociale (De Bellis, 2012). Altri autori (Skelton, Weiss, Bradley, 2012) sostengono anch’essi l’esistenza di diversi fattori che giustificano la variabilità che l’esposizione a traumi precoci nell’infanzia avrebbe sullo sviluppo di psicopatologia o resilienza rispetto ad esiti psicopatologici. Secondo Skelton et al. (2012), il rapporto fra corredo genetico, struttura/ funzione cerebrale e comportamento varierebbe nel corso dei vari stadi evolutivi. Lo stress precoce e l’abuso sono i fattori maggiormente esaminati negli studi riguardanti l’interazione gene/ambiente rispetto allo sviluppo di disturbi psichiatrici e al ruolo che svolge lo stress precoce nell’aumentare tale rischio. Altri studi hanno individuato l’esistenza di una propensione genetica per i disturbi dell’umore, in particolare per la depressione, che aumenterebbero il rischio di depressione a seguito di eventi di vita negativi e/o traumatici. 4. Studi sulla gestione dello stress Un contributo interessante alla valutazione dell’incidenza dello stress traumatico sullo sviluppo di alterazioni comportamentali e neurobiologiche e sull’incidenza di queste alterazioni nello sviluppo di psicopatologia è rappresentato dagli studi sulla resilienza allo stress. La resilienza viene definita da diversi autori come “costrutto psicologico multidimensionale e complesso” (Ozbay et al., 2012) Sarebbe quindi il prodotto di più fattori interagenti come quelli genetici, evolutivi, sociali, psicologici e neurobiologici. Gli studi sulla resilienza sono stati condotti al fine di individuare quali fattori protettivi entrino in gioco nel moderare l’impatto del trauma infantile, che varia da individuo a individuo, rispetto al rischio di sviluppare una psicopatologia da trauma. La resilienza allo stress è già individuabile nelle risposte comportamentali adattive che un organismo mette in atto nel momento in cui percepisce una minaccia o un pericolo AeR 01-2014.indd 13 12/06/14 13.11 14 A e R - Abilitazione e Riabilitazione costante nell’ambiente in cui vive. Ozbay et al. (2012) sostengono che la ripetuta esposizione a “situazioni di stress senza scampo” può portare ad un particolare tipo di adattamento detto “impotenza appresa”. Questo tipo di adattamento sarebbe l’espressione di un senso di inutilità a reagire in opposizione alla possibilità di controllare la situazione che è invece una caratteristica fondamentale della resilienza allo stress. Altri studi hanno posto in relazione la resilienza allo stress con la teoria dell’elaborazione dell’informazione. In seguito all’esposizione a stress traumatico si verificherebbe un processo definito “condizionamento alla paura”, un meccanismo fondamentale nello sviluppo di processi psicopatologici. Il condizionamento avviene se ad uno stimolo neutro viene associato uno stimolo che induce paura; in questo caso lo stimolo neutro diventerà uno stimolo condizionato capace di indurre una risposta di paura. Se allo stimolo condizionato non viene più associato lo stimolo che induce paura si verificherà un meccanismo definito “estinzione della paura”. La resilienza viene vista alla luce di questi meccanismi, come “una tendenza a resistere al condizionamento alla paura e/o una tendenza a estinguere la paura in modo rapido ed efficiente dopo l’esposizione a un evento traumatico”. Un ulteriore meccanismo di resilienza nell’ambito dell’elaborazione dell’informazione sarebbe da ricercare nella “flessibilità cognitiva” o “capacità di rivalutazione” che consiste nell’abilità di reinterpretare un evento negativo o aversivo in modo da poter trovare in esso un significato che spieghi la ragione del suo accadere. Questo processo di resilienza consentirebbe di migliorare l’adattamento, ad esempio dopo la perdita di un familiare. Un altro fattore che avrebbe uno stretto legame con le capacità di resilienza allo stress è individuato da Ozbay et al. (2012) nel supporto sociale. Gli studi clinici sullo stress traumatico hanno evidenziato gli effetti positivi del supporto sociale sulla salute mentale, che favorirebbe sia la modificazione di meccanismi neuroendocrini che la modificazione di comportamenti disadattivi. L’aver vissuto esperienze traumatiche rimane un indubbio fattore di rischio per lo sviluppo di psicopatologia ma gli studi sulla resilienza testimoniano il fatto che anche coloro che sono reduci da esperienze di questo tipo possono raggiungere un equilibrio, un funzionamento e un adattamento adeguati. L’adozione si configura in questo senso come un’occasione di recupero e di ripristino, al di là dei fattori di rischio che possono caratterizzarla, di un funzionamento nel bambino più vicino alla salute mentale che alla patologia. AeR 01-2014.indd 14 12/06/14 13.11 Riflessioni sul fallimento adottivo in adolescenza: cause e rischi 15 5. Problematiche legate alla costruzione dell’identità nell’adolescente adottato Fava Vizziello e Simonelli (2004) ritengono che la situazione adottiva costituisca di per sé uno specifico fattore di protezione, in quanto rappresenta una condizione in grado di favorire la strutturazione di legami di attaccamento significativi. II legame di attaccamento sicuro che si svilupperebbe in un contesto di relazioni stabili e significative con i genitori adottivi avrebbe quindi una funzione riparativa e protettiva rispetto all’evoluzione di psicopatologia. Molti altri studi concordano nell’individuare un nesso tra l’età al momento dell’adozione e lo sviluppo di difficoltà relazionali e comportamenti sintomatici in adolescenza. Dalle ricerche emerge che i bambini adottati da piccoli, entro i due anni di vita presentano durante l’adolescenza un livello più alto di filiazione rispetto a quelli adottati in età successive. Dagli studi fatti, anche per i genitori risulterebbe più facile costruire il senso di genitorialità con bambini adottati precocemente e comunque ad un’età inferiore ai cinque anni (Rosnati, 1998). La costruzione di un legame adottivo sufficientemente buono durante la prima infanzia, non subirebbe, secondo la stessa autrice (ibidem) modificazioni sostanziali durante l’adolescenza; tuttavia la fase cruciale nell’evoluzione del legame adottivo è indicata da molti autori come quella preadolescenziale e adolescenziale in cui la costruzione dell’identità è un compito di sviluppo pregnante che occupa gran parte delle energie del ragazzo e in cui si svela lo scenario relazionale familiare formatosi nella fasi precedenti (Brodzinsky, Palacios, 2005). Appare evidente che tale processo è molto impegnativo per l’adolescente, che deve tenere insieme le parti della sua storia e lo diventa ancora di più per un adolescente che prima dell’adozione ha già sperimentando l’abbandono e il distacco dalla famiglia naturale. Il passato tanto più traumatico genera inevitabilmente una spaccatura con il presente lasciando spesso una ferita aperta che condiziona lo sviluppo dell’identità e delle relazioni parentali. La discontinuità tra presente e passato può causare difficoltà al ragazzo ad integrare una rappresentazione unitaria di sé in un pensiero coerente. L’adolescenza come fase di transizione all’età adulta comporta secondo Tarroni (2009) una fase evolutiva in cui il ragazzo inizia a riflettere su di sé cercando di compiere una sintesi delle proprie identità presenti e passate che gli consentiranno di proiettarsi nel futuro e nella dimensione dell’autonomia. È da questo processo e da ciò che lo ha preceduto che si muove la sfida dell’organizzazione di un sé integro. AeR 01-2014.indd 15 12/06/14 13.11 16 A e R - Abilitazione e Riabilitazione Fava Vizziello e Simonelli (2004) vedono questo processo particolarmente problematico negli adolescenti adottati tardivamente (dai 6 anni in poi), poiché con le loro storie di abbandoni precoci e/o di istituzionalizzazioni hanno subito la disorganizzazione e la perdita dei Sé fase-specifici, non avendo potuto sperimentare la continuità di un legame d’attaccamento sensibile, responsivo ed affettivamente ricco. Il legame con i genitori adottivi, quando vissuto dai medesimi con il giusto impegno ad accogliere il figlio sia fisicamente che mentalmente, può favorire un processo di recupero di parti di sé appartenenti alla storia passata attraverso la narrazione di una storia spesso drammatica ma che, se raccontata, può acquisire una dimensione simbolica e quindi un significato condivisibile con altri. Di parere opposto è invece, Camiolo (1987), il quale sostiene che i concetti di rassicurazione affettiva, senso di appartenenza, vissuto di accettazione, sono lontani dalla realtà del minore abbandonato ed anche quando, con l’adozione, si costituiscono delle condizioni compensative, non si è sempre in grado di rimarginare le lacerazioni che si sono prodotte durante un percorso distorto e inadeguato. Fava Vizziello e Simonelli (2004) sostengono che, nell’adolescente adottato, il sé che si è formato nella relazione con la madre biologica è connotato come un sé rifiutato, non amato, insufficiente, deludente. Attraverso il riconoscimento di sé come persona che ha un valore perché è stata desiderata, voluta, attesa, cercata, il figlio adottivo può costruisce una base sicura da cui spingersi verso l’esplorazione di parti di sé rimaste ancorare a ricordi o spesso solo sensazioni traumatiche. Nella continuità affettiva del presente si può andare a ricucire lo strappo relazionale del passato e ricollocarlo in una giusta dimensione. Tuttavia il passaggio dalla preadolescenza all’adolescenza, porta spesso con sé un malessere e un disagio che, come sostiene Vitolo (2003), possono diventare insostenibili, incontenibili. Le ansie legate alla crescita che molto spesso fanno parte della storia del bambino/adolescente, adottato tardivamente, possono causare forti difficoltà in alcuni momenti del suo sviluppo che per essere superate hanno bisogno di rassicurazioni e di contenimento emotivo da parte dei genitori. L’ansia non contenuta si trasforma in angoscia e questo processo causa difficoltà relazionali all’interno della la famiglia, con l’attivazione spesso di meccanismi di negazione ed evitamento del problema. Il bambino/adolescente adottato tardivamente si trova come sostengono Rangone et al. (2010), a svolgere il difficilissimo compito di “dover sviluppare un attaccamento ai nuovi genitori e contestualmente doverlo disattivare per far posto all’esplorazione adolescenziale”. Chi arriva all’adolescenza avendo vissuto esperienze traumatiche nell’infanzia, anche quando la relazione con i genitori AeR 01-2014.indd 16 12/06/14 13.11 Riflessioni sul fallimento adottivo in adolescenza: cause e rischi 17 adottivi ha consentito al ragazzo di riorganizzare i suoi modelli operativi interni rispetto a quelli che possedeva prima dell’adozione, è altamente probabile che di fronte allo stress che la fase adolescenziale comporta, si riattivino i vecchi modelli operativi interni disfunzionali. Questo passaggio influirà enormemente anche sulla rappresentazione dei diversi sé fase-specifici: sé corporeo, sé psichico, sé sessuato, sé sociale, che saranno interpretati alla luce dei vecchi modelli e quindi con un atteggiamento svalutativo. Anche Chistolini (2010) individua dei fattori di rischio che possono disturbare lo sviluppo dell’identità nell’adolescente adottato come: • presenza di esperienze sfavorevoli infantili (E.S.I.) particolarmente gravi; • storia personale non accettata/elaborata; • adozione tardiva; • scarso senso di appartenenza alla famiglia adottiva. Correlati a questi fattori che dipendono dalla condizione personale dell’adolescente adottato che lo portano inevitabilmente a confrontarsi con i pari, si aggiungono i cambiamenti tipici della fase adolescenziale rappresentati: dall’integrazione dei cambiamenti corporei in una nuova immagine di sé, dalla differenziazione dai genitori e dalla definizione del proprio valore personale. Le conseguenze dirette di questi fattori, che possono insorgere e amplificarsi durante l’adolescenza, sono, secondo Chistolini (2010) molto varie e possono spaziare dal ritiro depressivo alle condotte devianti, dall’abuso di sostanze ai disturbi alimentari fino, nei casi più gravi, alla manifestazione di sintomi psicotici. Il difficile lavoro dell’adolescente, di integrazione dei vari aspetti di sé in un’immagine unitaria e strettamente legata alla percezione della propria integrità psichica e del proprio valore come persona, che diventa, come affermano alcuni autori (Rangone et al., 2010) “una sorta di indicatore del successo relazionale futuro”. Quindi, il compito dell’adolescente non è solo quello di integrare le sue caratteristiche fisiche, emotive, cognitive ma anche quello di capire quanto esse siano apprezzate al di fuori del contesto familiare, nel caso in cui la famiglia funzioni da contenitore e da sostegno positivo al travaglio esistenziale dell’adolescente. Sviluppare un senso di appartenenza può facilitare nell’adolescente adottato lo sviluppo dell’identità. Nello sviluppo normale, prima di differenziarsi dai genitori nel corso dell’adolescenza, i ragazzi interiorizzano gli stili comportamentali, cognitivi ed emotivi presenti nel loro ambiente di vita, ma il prerequisito fondamentale perché ciò si verifichi è rappresentato dalla percezione di una similarità o dalla condivisione di una comune appartenenza. In questo passaggio, l’adolescente adottato parte svantaggiato in quanto potrebbe non aver sviluppato AeR 01-2014.indd 17 12/06/14 13.11 18 A e R - Abilitazione e Riabilitazione un senso di appartenenza soprattutto per chi non è stato adottato dalla nascita o per chi presenta, per ragioni etniche, differenze somatiche e culturali con i genitori adottivi. Questi fattori possono rendere più complicato il processo di assimilazione e/o interiorizzazione delle caratteristiche dei modelli di riferimento (Rangone et al., 2010). Il problema del riconoscimento dell’appartenenza per gli adolescenti adottati viene complicato dal fatto di possedere una duplice appartenenza etnica che spesso, proprio per la presenza di differenze somatiche, non può essere nascosta. Tuttavia, per il ragazzo adottato, può risultare scomodo mantenere questa doppia appartenenza perché a volte ci sono forze esterne che premono perché si abbandoni la vecchia appartenenza a favore di quella nuova. I ragazzi fanno fatica, inoltre, a valorizzare la propria appartenenza, perché è associata al tema dell’abbandono, da cui spesso vogliono prendere le distanze. Secondo Vadilonga (2010), il senso di perdita sperimentato precocemente si può estendere a fasi successive della vita e includere non solo il senso di perdita dei genitori biologici ma anche di perdita di parti di sé. La ricerca e la comprensione del sé sono tra gli scopi primari dello sviluppo psicologico ed hanno un carattere di universalità; si presuppone però che gli adottati incontrino difficoltà, nel contesto della ricerca del sé, legate al riacutizzarsi del dolore della perdita. Il bisogno di sapere attorno alle proprie origini diventa impellente proprio nell’adolescenza e risponde ad un bisogno universale di conoscenza delle origini, che accomuna anche i non adottati. Il bisogno di sapere di essere stati voluti e desiderati dai genitori sembra un bisogno fondamentale nella fase dell’adolescenza, ma nel caso dell’adolescente adottato la risposta è già insita nella sua storia. Il problema per i genitori adottivi è quello di riuscire a confrontarsi con i genitori biologici, per comprendere le motivazioni profonde che li hanno portati a maltrattare, abusare, abbandonare il loro bambino. Vadilonga (2010) ritiene in proposito che se il genitore adottivo riesce ad identificarsi con la sofferenza dei genitori biologici e a sentirli come persone simili a sé, ma con una storia differente dalla sua, potrà aiutare il bambino/adolescente a riscrivere le ragioni dell’abbandono riferendole all’inadeguatezza propria dei genitori e della loro capacità di accudimento e non alla sua non amabilità. I pensieri riferiti alle ragioni dell’abbandono possono amplificarsi nella mente dell’adolescente e condurlo ad una rappresentazione di sé con connotazioni altamente negative e per un bisogno di coerenza interna si troverebbe a dover confermare queste rappresentazioni negative di sé mettendo in atto comportamenti disadattivi. I genitori adottivi si trovano, allora, a dover svolgere il difficile compito di rispecchiare il dolore e la sofferenza del figlio per l’abbandono subito. Le paure dei genitori adottivi sono AeR 01-2014.indd 18 12/06/14 13.11 Riflessioni sul fallimento adottivo in adolescenza: cause e rischi 19 spesso legate alla difficoltà di accettare di non essere gli unici genitori per il figlio e che egli, nelle fantasie sulle sue origini, possa comunque avere pensieri o desideri legati ai genitori biologici. A volte però questi ricordi sono frammentati, vaghi o talmente dolorosi da essere stati esclusi dalla coscienza. La disponibilità dei genitori a capire l’importanza che riveste per i figli adolescenti chiarire la storia delle proprie origini si sviluppa, come riportato dagli studi di Greco e Rosnati (2008) tra due estremi che vanno dal favorire e stimolare nel figlio il recupero del passato con valorizzazione della diversità, al cercare di lasciare fuori dalla famiglia tutto ciò che riguarda le diverse origini del figlio, facendo iniziare la storia del figlio adottivo dal suo arrivo nel nuovo nucleo. Nel caso in cui siano presenti evidenti differenze etniche, questo atteggiamento, anche se può non essere intenzionale e funzionale nelle prime fasi dell’inserimento del figlio adottivo, potrebbe, se protratto nel tempo, portare l’adottato, a non riconoscere e accettare la propria origine e gli individui fisicamente simili a lui, creando una confusione relativa all’identità etnica, difficile da risolvere. 6. Conclusioni Favarolo (2007) definisce i fallimenti e gli insuccessi adottivi “come esperienze a forte tasso di sofferenza” sia per il minore che per i familiari. L’allontanamento dalla famiglia e l’inserimento in strutture di accoglienza è un fatto traumatico a qualsiasi età, per qualsiasi individuo, che va a sommarsi al trauma precedente. In questa situazione la probabilità di subire ritardi nello sviluppo cognitivo ed emotivo e il disagio che ne consegue aumentano considerevolmente. Il fallimento adottivo implica che gli investimenti affettivi si trasformino in dolore e sofferenza invece che in riparazione, di cui il bambino/adolescente ha necessità per risanare le difficili esperienze percorse prima. I disagi dei protagonisti di queste adozioni difficili si manifestano in una gamma di comportamenti che comprendono: comportamenti aggressivi e distruttivi verso le figure genitoriali o altre figure che rappresentano l’autorità o verso i coetanei; atti di autolesionismo; comportamenti antisociali o devianti; disturbi di carattere psicopatologico; ricoveri psichiatrici. Un nuovo evento traumatico come può esserlo l’interruzione di un rapporto adottivo rischia di riaprire, in modo assolutamente incontrollabile, la ferita dell’abbandono. Il rischio per il minore di sviluppare una psicopatologia in seguito ad un nuovo abbandono da parte della famiglia adottiva, è molto alto. In una ricerca condotta da Viero (2003) , si riscontra che negli adolescenti riabbandonati ricorrono con frequenza sintomi AeR 01-2014.indd 19 12/06/14 13.11 20 A e R - Abilitazione e Riabilitazione di natura fobica (ad esempio: paura del buio, paura di rimanere da soli, paura dei ladri). Più gravi appaiono, invece, i quadri ormai strutturati di depressione. La condizione di questi adolescenti si caratterizza come patologia del ritiro, espressione che Viero (ibidem) mutua da Jeammet (1992), indicando con questo termine una espressività psicopatologica fatta di attiva-passività. Tale situazione comporta l’abbandono di attività precedentemente investite e la restrizione dei contatti sociali. Il doloroso bagaglio di esperienze, che i minori restituiti portano con sé, richiede particolari attenzioni e competenze da parte di quanti si prendono cura di loro dopo l’allontanamento dalla famiglia. La presenza di figure professionali specializzate consente un tempestivo intervento per contenere i danni del doppio trauma. Bibliografia Attili, G. (2001), Ansia da separazione e misura dell’attaccamento normale e patologico. Milano: Unicopli. Attili, G. (2007), Attaccamento e costruzione evoluzionistica della mente. Milano: Raffaello Cortina Editore. Attili, G. (2010), Relazioni familiari, adozione e sviluppo psicologico del bambino: il ruolo dell’attaccamento. In F. Vadilonga (a cura di), Curare l’adozione. Modelli di sostegno e presa in carico della crisi adottiva (3-22). Milano: Raffaello Cortina Editore. Bessel van der Kolk, A., D’Andrea, W. (2012), Verso una diagnosi di disturbo traumatico dello sviluppo per il trauma interpersonale infantile. In R. A. Lanius, E. Vermetten, C. Pain (a cura di), L’impatto del trauma infantile sulla salute e sulla malattia. L’epidemia nascosta (98-117). Roma: Giovanni Fioriti Editore. AeR 01-2014.indd 20 12/06/14 13.11 Riflessioni sul fallimento adottivo in adolescenza: cause e rischi 21 Bowlby, J. (1969), Attaccamento e perdita, vol. 1: L’attaccamento alla madre. Trad. it. (1972), Torino: Boringhieri. Bowlby, J. (1973), Attaccamento e perdita, vol. 2: La separazione dalla madre. Trad. it. (1975), Torino: Boringhieri. Bowlby, J. (1980), Attaccamento e perdita, vol. 3: La perdita della madre. Trad. it. (1983), Torino: Boringhieri. Bowlby, J. (1989) Una base sicura. Applicazioni cliniche della Teoria dell’Attaccamento. Trad.it., Milano: Raffello Cortina Editore. Brodzinsky, D.M., Palacios, J. (2011) (a cura di), Lavorare nell’adozione. Dalle ricerche alla prassi operativa. Trad. it., Milano: Franco Angeli. Briere, J., Hodges, M. (2012), Valutare negli adulti gli effetti del trauma precoce e dei traumi in fasi successive della vita. In R. A. Lanius, E. Vermetten, C. Pain (a cura di), L’impatto del trauma infantile sulla salute e sulla malattia. L’epidemia nascosta (353-365). Roma: Giovanni Fioriti Editore. Bureau, J. F., Martin, J., Lyons-Ruth, K. (2012), La disregolazione dell’attaccamento come trauma nascosto durante l’infanzia: stress precoce, buffering materno e morbilità psichiatrica nei giovani adulti. In R. A. Lanius, E. Vermetten, C. Pain (a cura di), L’impatto del trauma infantile sulla salute e sulla malattia. L’epidemia nascosta (83-97). Roma: Giovanni Fioriti Editore. Camiolo, M. (2008), Relazione adulto-bambino e complessità dell’esperienza dell’abbandono. In Commissione per le Adozioni Internazionali, Istituto degli Innocenti, Il Post adozione fra progettazione e azione (162-169). Firenze. Candelori, C., Ciocca, A. (1998), Attachment and eating disorder. In P. Bria, A. Ciocca, S. De Risio (a cura di), Psychotherapeutic Issues on Eating Disorder (39-153). Roma: Società Editrice Universo. Chistolini, M. 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In Progetto editoriale: Servizio politiche familiari, infanzia e adolescenza, Regione Emilia-Romagna, Quaderno n. 14. http://www.regione. emilia-romagna.it/infanzia Fonagy, P., Target, M. (2001), Attaccamento e funzione riflessiva. Trad.it., Milano: Raffaello Cortina Editore. Ford, J. D. (2012), Sequele complesse nell’adulto dell’esposizione precoce a trauma psicologico. In R. A. Lanius, E., Vermetten, C., Pain (a cura di), L’impatto del trauma infantile sulla salute e sulla malattia. L’epidemia nascosta (118130). Roma: Giovanni Fioriti Editore. Galli, J. (2007), Com’è cambiata l’adozione internazionale nell’ultimo decennio. In “Quaderni”, Provincia di Bologna, Servizio politiche sociali e per la salute, Adozione: percorsi tra approfondimenti ed esperienze. IV Quaderno. http:// www.provincia.bologna.it/sanitasociale Galli, J., Viero, F. (2001) (a cura di), Fallimenti adottivi. Prevenzione e riparazione, Roma: Armando. Greco, O., Rosnati, R. (2008), Quale identità etnica? 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AeR 01-2014.indd 23 12/06/14 13.11 AeR 01-2014.indd 24 12/06/14 13.11 25 LA DISPERSIONE SCOLASTICA, GRAVE DANNO PER LE PROSPETTIVE DI SVILUPPO CULTURALE ED ECONOMICO DEL NOSTRO PAESE ROBERTA FANZIO* SARA LOVOTTI▪ Riassunto. L’articolo si propone di approfondire il tema della dispersione scolastica, fenomeno in netta crescita negli ultimi anni, approfondendo in particolare la teoria di Bernstein; si valuta soprattutto il problema dell’abbandono scolastico nei casi di ragazzi con disturbi dell’apprendimento. Parole-chiave: dispersione scolastica, disturbi dell’apprendimento. 1. Premessa Il termine “dispersione scolastica” è andato lentamente a sostituire, dalla metà degli anni ottanta del secolo scorso, quello di “mortalità scolastica” (Gattullo 1989), utilizzato comunque sempre per indicare aspetti di insuccesso formativo e di inefficienza del sistema di istruzione che condizionano la capacità dello studente di portare a termine il proprio percorso scolastico, portandolo sovente verso aree sociali ‘marginali’. La dispersione rappresenta da sempre un fattore di rischio ed è senza dubbio, ad oggi, uno dei temi al centro del dibattito sulla scuola dell’obbligo, soprattutto allorché i ragazzi non sono in condizione di individuare un percorso di studi idoneo all’ingresso nel mondo del lavoro. La dispersione è un fenomeno complesso, oltre che per la pluralità di cause che lo determinano, anche per il modo in cui si manifesta. Con il termine “dispersione” oggi intendiamo parlare di cause che prolungano o interrompono il normale percorso scolastico, quali, ad esempio, mancati ingressi, evasione dell’obbligo, frequenze irregolari, ripetente, abbandoni definitivi. La dispersione riguarda diversi fattori e quindi diversi profili di studenti. Molti studiosi, in riferimento alla selezione scolastica, propongono due categorie (interne ed esterne) per classificare le origini di più fattori, che, sommandosi tra loro porterebbero alla dispersione e poi all’abbandono scolastico. * Pedagogista, “Centro Paolo VI” di Casalnoceto ▪ Logopedista, laureata in Scienze e Tecniche Psicologiche, “Centro Paolo VI” di Casalnoceto AeR 01-2014.indd 25 12/06/14 13.11 26 A e R - Abilitazione e Riabilitazione In generale si accetta che l’abbandono sia un fenomeno multifattoriale, il risultato di eventi personali, della scuola, familiari e socio-culturali. Analizzando il sistema scolastico (fattori organizzativi e strutturali), si nota che talvolta il passaggio tra scuola secondaria di primo grado e scuola secondaria di secondo grado è particolarmente difficile e comporta il rischio di caduta e l’inizio di insuccessi che lentamente portano alla dispersione. Le relazioni tra insegnanti e studenti ci fanno inevitabilmente riflettere sulle aspettative che gli insegnanti ripongono nel successo o nel fallimento dei loro studenti, come ben ritroviamo nell’effetto Pigmalione (circolo vizioso per cui il bambino tenderà a divenire nel tempo proprio come l’insegnante lo aveva immaginato), nonché sulla mancanza, sempre in riferimento al passaggio di livello scolastico, di relazioni costruttive tra studenti e insegnanti. Ci sono inoltre fattori familiari e sociali che sicuramente concorrono alla dispersione: è stato dimostrato che famiglie a basso reddito, mancanza di una solidità familiare in adolescenza, un basso livello di istruzione dei genitori e relativa mancanza di investimento nell’istruzione, poco sostegno emotivoaffettivo sono fattori importanti ai fini dell’abbandono scolastico. Oggi, più che mai, i dati sulla dispersione scolastica sono pessimi. Il Ministero dell’Istruzione pone attenzione a tale situazione negativa, stanziando fondi per finanziare attività postscolastiche, lezioni e sostegno scolastico laddove, già dalla scuola primaria, è maggiore il fenomeno della dispersione; tuttavia sembra che il vero fattore critico si annidi nella crisi di credibilità del nostro sistema formativo: in effetti, in base ai dati, in Italia il tasso di abbandono scolastico è del 17,6%, altissimo se riferito ai 28 paesi dell’UE che hanno l’obiettivo della riduzione al 10% entro il 2020. 2. Abbandono e dispersione “Abbandono scolastico” e drop-out sono termini simili, utilizzati per indicare l’uscita dello studente dal sistema scolastico. Tuttavia, mentre per drop-out ci si riferisce al rischio di dispersione scolastica, per “abbandono” si intende la rottura definitiva del patto formativo tra il ragazzo e l’istituzione formativa, che si verifica in risposta ad una condizione esistenziale e psicologica di disadattamento e di insuccesso (L. Sempio, 1999). C’è poi l’interruzione degli studi da parte di bambini e ragazzi nella cosiddetta “età dell’obbligo”; questo fenomeno viene chiamato “evasione scolastica”, proprio perché si evadono gli obblighi relativi all’istruzione dei minori da parte delle famiglie; si registra una maggiore diffusione del fenomeno nel Sud dell’Italia. Il Ministero dell’Istruzione da anni cerca di combattere dispersione e abbandono AeR 01-2014.indd 26 12/06/14 13.11 La dispersione scolastica, grave danno per le prospettive di sviluppo... 27 anche attraverso l’ “Anagrafe Nazionale degli Studenti”, che costituisce un efficace strumento di contrasto alla dispersione fino al compimento dei 14 anni, età, questa, a partire dalla quale è possibile intraprendere il percorso dell’istruzione e formazione professionale regionale, in luogo della prosecuzione degli studi nel sistema nazionale. La banca-dati dell’ “Anagrafe Nazionale degli Studenti” consente di contrastare efficacemente gli abbandoni precoci in quanto le istituzioni scolastiche, sia statali che paritarie, sono tenute ad aggiornare in tempo reale sia la frequenza che l’abbandono di ogni singolo alunno. È opportuno ricordare che la presenza di alunni stranieri nella scuola italiana è un fenomeno in crescita (dai dati forniti dal servizio statistico del Ministero dell’Istruzione, nello scorso anno scolastico gli alunni con cittadinanza non italiana erano il 9,5% nella scuola secondaria di I grado e il 6,6% nella scuola secondaria di II grado). È facile intuire che il fenomeno della dispersione colpisce maggiormente i cittadini stranieri rispetto a quelli italiani. Analoga è la situazione nella scuola secondaria di II grado, in cui gli alunni stranieri “a rischio di abbandono” sono pari al 2,42% degli iscritti contro l’1,16% degli alunni italiani. Un altro intervento della succitata “Anagrafe”, realizzato per l’approfondimento del fenomeno della dispersione, è stato quello di raccogliere le informazioni anche sulle interruzioni di frequenza nel passaggio da un anno di corso a quello successivo: è stato richiesto alle scuole di comunicare al sistema SIDI (Sistema Informativo Dell’Istruzione) la motivazione della mancata presenza a scuola degli alunni frequentanti l’anno scolastico precedente. L’elaborazione dei nuovi dati raccolti permetterà di quantificare anche quest’altra importante quota di dispersione scolastica, finora non rilevata, relativa in particolare all’abbandono alla fine della scuola secondaria di I grado. Nel decreto del Ministero dell’Istruzione del 2013 contro il fenomeno della dispersione scolastica, nell’articolo 7 vengono introdotte alcune misure dirette ad affrontare il fenomeno, con particolare attenzione alle aree del Paese che risultano a maggiore rischio di evasione dell’obbligo. Si tratta di uno degli obiettivi che il ministro ha posto come fulcro del suo programma. L’articolo 7 prevede l’avvio, già dall’anno scolastico 2013-2014, di un programma sperimentale di didattica integrativa che contempla anche il prolungamento dell’orario scolastico per gruppi di studenti, con particolare riferimento alla scuola primaria. L’obiettivo è il rafforzamento delle competenze di base e dei metodi didattici, sviluppando soluzioni nuove e dirette agli studenti a maggior rischio di abbandono, tra cui l’apertura delle scuole alle famiglie e alla comunità. È inoltre previsto che, per realizzare tale programma, le istituzioni scolastiche possano avvalersi di associazioni e fondazioni private senza scopo di lucro, appositamente AeR 01-2014.indd 27 12/06/14 13.11 28 A e R - Abilitazione e Riabilitazione abilitate dal Ministero, tra le cui finalità statutarie rientrino l’aiuto allo studio, l’aggregazione giovanile e il recupero da situazioni di disagio. Nell’anno scolastico 2011/2012 gli studenti “a rischio di abbandono” sono risultati 3.409 nelle scuole secondarie inferiori (0,2 per cento degli alunni iscritti a settembre) e 31.397 nelle scuole superiori (1,2 per cento degli iscritti). Lo rivelano i dati sulla dispersione scolastica del MIUR (Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca), aggiornati a giugno 2013. Il rischio di abbandono è più diffuso nel Mezzogiorno. Per quanto riguarda le scuole secondarie inferiori, Sicilia, Sardegna e Campania sono le regioni che presentano una maggiore concentrazione del fenomeno (rispettivamente con lo 0,47, 0,41 e 0,36 per cento degli iscritti), seguite dalla Puglia (0,29 per cento) e dalla Calabria (0,19 per cento). In base a quanto sappiamo dal MIUR, «nella scuola secondaria di secondo grado elevate percentuali di alunni “a rischio di abbandono” sono presenti nelle regioni meridionali, prime fra tutte la Sardegna (con il 2,64 per cento degli iscritti a inizio anno), seguita dalla Sicilia (con l’1,6 per cento) e dalla Campania (con l’1,36 per cento)». Il report del MIUR precisa che non sono da sottovalutare le situazioni di dispersione scolastica presenti nelle aree del territorio nazionale più sviluppate. Nelle scuole superiori della Liguria, della Toscana e delle Marche, il tasso di studenti a rischio di abbandono è pari, rispettivamente, all’1,8, 1,5 e 1,4 %. I dati evidenziano anche differenze di genere: la dispersione scolastica interessa di più i maschi delle femmine. Il divario tra i due generi è particolarmente evidente nelle aree più disagiate del nostro Paese. Un altro dato che emerge dal documento riguarda gli studenti stranieri, che risultano più colpiti dal fenomeno rispetto ai coetanei italiani. Nelle scuole secondarie inferiori la quota di alunni stranieri a rischio di abbandono, in percentuale sugli iscritti a settembre, è pari allo 0,49 per cento, contro lo 0,17 per cento relativo agli alunni con cittadinanza italiana. Nelle scuole secondarie superiori si riscontra una situazione analoga: gli studenti stranieri a rischio di abbandono sono pari al 2,42 per cento degli iscritti, contro l’1,16 per cento dei coetanei italiani. E’ necessario quindi agire già dalle scuole elementari, per fornire ai giovani alunni strategie e strumenti atti a formare una coscienza scolastica, in modo da garantire un corretto proseguimento degli studi. I passaggi di ordine di scolarità dovrebbero essere impostati su un’approfondita conoscenza dell’organizzazione didattica, con un più fluido passaggio di informazioni. 3. La teoria di Bernstein e la dispersione scolastica Basil Bernstein, sociolinguista inglese, ha studiato i rapporti tra linguaggio e condizioni sociali, collegandoli poi ai problemi dei ragazzi all’interno del contesto scolastico. I suoi studi, secondo quanto scrive Baldi (1974) si sono concentrati sulle diverse modalità di utilizzo del linguaggio verbale a livello AeR 01-2014.indd 28 12/06/14 13.11 La dispersione scolastica, grave danno per le prospettive di sviluppo... 29 pragmatico, quindi non sulla competenza linguistica specifica, ma su come il parlante seleziona le strutture verbali e sulle modalità di trasmissione dei significati in base al contesto comunicativo in cui si viene a trovare. Nei suoi studi ha teorizzato l’esistenza di due codici linguistici, legati all’appartenenza a differenti classi sociali: CODICE RISTRETTO CODICE ELABORATO • frasi brevi e semplici, spesso incomplete • maggioranza di proposizioni coordinate • tipico degli scambi familiari e amicali • crea senso di appartenenza • adattato all’interlocutore • usa molti riempitivi • completo • significati esplicitati • tipico di un sistema a “ruoli chiusi” • molti dettagli • legato a educazione autoritaria • tipico di un sistema a “ruoli aperti” • non favorisce la differenziazione • sviluppa l’individualità • scarsa attenzione per rapporti complessi • molti significati impliciti • legato a classi sociali basse • elaborazione emozionale con il linguaggio • legato a classi sociali medio-alte C’è, secondo l’autore, uno stretto legame tra l’utilizzo di un determinato codice linguistico e i problemi scolastici: gli alunni che sono in grado di utilizzare un codice elaborato sono in grado di selezionare il modo migliore di esprimersi in base al contesto, quindi nel caso di rapporti con i pari sceglieranno un codice ristretto, mentre con gli insegnanti un codice elaborato; chi invece utilizza solo un codice ristretto, presenta significative difficoltà di comunicazione, che influenzeranno negativamente anche l’organizzazione dei processi di pensiero, l’assetto emozionale, oltre allo sviluppo sociale e morale (in questo si tenderà a focalizzarsi sulle conseguenze del comportamento, senza analizzarne cause e intenzioni sottintese). Inoltre Bernstein ha collegato l’organizzazione scolastica e i diversi curricola: • curricolo a collezione: basato su discipline incomunicabili, legato ad un’organizzazione individualista (docenti che lavorano in modo non coordinato); AeR 01-2014.indd 29 12/06/14 13.11 30 A e R - Abilitazione e Riabilitazione • curricolo integrato: basato sull’interdisciplinarità, fonda il sapere sui processi cognitivi; l’organizzazione scolastica è cooperativa, con una solida collaborazione tra insegnanti Da questa analisi delle teorie di Bernstein appare chiara l’influenza del contesto familiare e scolastico sulle possibilità di successo a scuola. Inoltre, secondo Bernstein, se la scuola si limita a impostare la propria struttura su competenze meccaniche, non costruendo le conoscenze dei ragazzi in modo trasversale, non li porterà ad acquisire strategie basate sull’esperienza, ma sarà limitata a prestazioni basate su competenze specifiche. Le cause della dispersione scolastica, come già accennato in precedenza, sono molteplici. Spesso la dispersione è legata a disagio scolastico, cioè ad un malessere non episodico del ragazzo nel contesto scolastico. Il disagio non ha solo ripercussioni sullo studente, ma indirettamente anche su insegnanti, famiglia e ambiente sociale. Come si coglie anche dagli studi di Bernstein, la dispersione scolastica è legata ad una condizione di disuguaglianza che si viene a creare a scuola tra studenti di diverse classi sociali, i quali utilizzano diversi codici linguistici. Il disagio è presente non soltanto in ragazzi delle classi sociali basse, ma sempre di più oggigiorno, in ragazzi appartenenti a minoranze etniche, e non solo. Il disagio spesso si evidenzia con una tendenza alla solitudine, alla passività, ma a volte anche con aggressività. Molto spesso il disagio che porta poi alla dispersione aumenta col tempo nell’affrontare ripetute difficoltà, che infine spingono all’abbandono del percorso scolastico; pertanto in casi di dispersione è necessario analizzare tutto il percorso dell’alunno. Le difficoltà che si riscontrano sono di varia natura; alcuni esempi importanti sono i seguenti: • bullismo • cattivi rapporti con insegnanti • difficoltà “esterne” (malattie, lutti, trasferimenti) In generale possiamo affermare che l’abbandono scolastico è un chiaro segnale di disagio, a volte legato anche a trasformazioni adolescenziali, ma a volte anche a situazioni patologiche o familiari complesse. Il percorso scolastico è l’ambiente fondamentale per la creazione di una chiara identità adulta; un fallimento può comportare sentimenti di autosvalutazione e di depressione nel ragazzo. Pertanto i continui fallimenti che generano disagio durante il percorso scolastico si possono considerare come veri e propri traumi ripetuti. Per semplicità, possiamo organizzare le molteplici cause di abbandono scolastico in 4 macro-aree: AeR 01-2014.indd 30 12/06/14 13.11 La dispersione scolastica, grave danno per le prospettive di sviluppo... 31 • Individuali: sono molte le condizioni che portano a difficoltà di organizzazione e frequenza scolastica. Rimanere indietro e non riuscire ad affrontare in modo autonomo le difficoltà che si presentano porta ad una scarsa autostima; tutto ciò genera disagio e ansia, con atteggiamenti di disinteresse che determinano uno scarso impegno e una bassa frequenza, senza considerare eventuali comportamenti aggressivi. I fattori psicologici e socio-economici sembrano quelli prevalenti. La presenza di inadeguati processi cognitivi e uno stile di apprendimento poco funzionale rendono difficoltoso e meno motivante il percorso scolastico. • Scolastiche: la tendenza a unificare le modalità di apprendimento a scuola, senza individualizzare lo stile in base alle caratteristiche personologiche dei ragazzi porta a diminuire la motivazione e la frequenza scolastica. Anche il rapporto con gli insegnanti è un fattore determinante: ad esempio il fatto di sentirsi considerato “adulto” aumenta l’autostima e quindi la voglia di partecipazione dell’alunno. Altra ragione determinante è un’errata scelta dell’indirizzo scolastico, a causa di scarse attività di orientamento che non sono presenti o non sono in grado di individuare i punti di forza del soggetto e di fornirgli opportuni consigli sul proprio futuro. Il percorso scolastico precedente è poi fondamentale perché, se le competenze di base non sono adeguate, verranno riscontrati grossi ostacoli. Ulteriore fattore è il clima in classe: la mancata integrazione porta a una scarsa motivazione e partecipazione. Spesso nel nostro sistema scolastico il problema è legato ad un’insufficiente formazione degli insegnanti, a metodi di insegnamento non flessibili, il tutto quindi legato a scarse risorse finanziarie per supportare l’aggiornamento professionale. • Familiari: uno scarso livello di istruzione dei familiari determina una bassa aspettativa educativa, ancor più se sono presenti storie familiari di abbandono scolastico. I problemi familiari che si presentano a causa di separazioni, malattie, lutti e disoccupazione sono uno dei fattori determinanti che aumentano il disagio del ragazzo. Anche le modalità educative sono importanti: se iperprotettive, causano carenza di impegno, se autoritarie potrebbero portare ad opposizione ed aggressività, se permissive potrebbero dare luogo a poco interesse o ad intolleranza delle frustrazioni. • Sociali: le scarse prospettive lavorative e una difficoltà di integrazione sociale in una realtà che dà più importanza al divertimento che all’educazione determina svalutazione e scarso interesse all’educazione scolastica. AeR 01-2014.indd 31 12/06/14 13.11 32 A e R - Abilitazione e Riabilitazione 4. Linguaggio, apprendimento e rendimento scolastico E’ ormai risaputo come lo sviluppo del linguaggio sia legato alle influenze dell’ambiente socioculturale, in particolare ai modelli linguistici parentali, che sono alla base dell’apprendimento della lingua-madre. Le abilità linguistiche possono anche essere messe direttamente in relazione alla classe sociale e al rendimento scolastico. Come già detto, Bernstein aveva collegato l’appartenenza a diverse classi sociali allo sviluppo linguisticocomunicativo e quindi al rendimento scolastico. Uno psicologo statunitense, Martin Deutsch, ha sottolineato l’esistenza di un rapporto bidirezionale tra abilità cognitiva, abilità linguistica, rendimento scolastico e immagine di sé, evidenziando come uno scarso rendimento possa riflettersi sull’immagine che il bambino ha di sé e sulla conseguente autostima e motivazione allo studio. Il livello di sviluppo linguistico dei bambini che accedono alla scuola primaria è assolutamente eterogeneo e spesso, per le classi sociali più in difficoltà, non sufficiente a sostenere e colmare il divario con le competenze verbali dei bambini culturalmente avvantaggiati, questi ultimi in linea con le abilità richieste dall’istituzione scolastica. Proprio per questo è necessario sottolineare quanto l’appartenenza ad una classe sociale più bassa, con un conseguente minore sviluppo di competenze linguistiche possa inficiare il successo scolastico dei ragazzi, con una importante ripercussione sull’intera società. Alla luce di quanto detto fino ad ora, la chiara relazione intercorrente tra linguaggio e rendimento suppone un necessario intervento preventivo per supportare lo sviluppo linguistico prima dell’ingresso a scuola e per scongiurare un eventuale insuccesso. Pertanto l’intervento preventivo sembra essere una buona soluzione per ridurre il fenomeno dell’abbandono scolastico. 5. Disturbi di apprendimento e abbandono scolastico Nel caso in cui uno studente presenti oggettivi disturbi di apprendimento, il disagio è conseguenza assai spesso inevitabile; frequentemente si osservano rifiuto e/o aggressività. Queste difficoltà oggettive, che si sommano alle normali tensioni e ostacoli che presenta il percorso scolastico, possono scoraggiare il ragazzo sino all’abbandono. In questo caso, le difficoltà dello studente si ripercuotono sull’intero sistema di vita del ragazzo, il quale, se non aiutato e supportato, sentirà chiaramente la differenza dei risultati con i pari e talvolta verrà etichettato come AeR 01-2014.indd 32 12/06/14 13.11 La dispersione scolastica, grave danno per le prospettive di sviluppo... 33 “lento” o “svogliato”, sentendosi sempre inferiore alle aspettative di tutti, ma soprattutto proprie. Tutto ciò genera ovviamente frustrazione, scarsa autostima e senso di inadeguatezza e, conseguentemente, un disagio vero e proprio. Lo screening precoce dei disturbi dell’apprendimento, specifici e non, sono un fattore determinante per limitare il disagio e diminuire quindi il rischio di dispersione scolastica.In particolare i “Disturbi Specifici dell’Apprendimento” (DSA) sono definiti da apposite linee-guida. La presenza di difficoltà specifiche dell’apprendimento di lettura, scrittura e calcolo genera conseguenze negative già all’inizio della scuola primaria. La diagnosi precoce e la messa in atto di tutti gli interventi possibili per supportare il ragazzo possono ridurre, spesso non eliminare, il disagio incontrato nel corso degli studi successivi. La diagnosi di dislessia e disortografia può essere fatta alla fine del secondo anno della scuola primaria, quella di discalculia alla fine del terzo anno, anche se possono essere evidenziate difficoltà predittive anche in precedenza, per poter attivare interventi supportivi mirati. In particolare, la presa in carico logopedica permette di aumentare le competenze nelle aree compromesse e, per i ragazzi più grandi, la psicopedagogia può fornire strategie e metodi di studio necessari ad ottimizzare il proprio futuro sia scolastico che lavorativo. L’intervento integrato tra professionisti specializzati, insieme alla collaborazione con famiglia e scuola, può garantire al ragazzo maggiori opportunità di successo scolastico e quindi evitare ripetute esperienze negative. Il primo passo per permettere tutto questo è l’informazione fornita alle famiglie e la formazione degli insegnanti. Il secondo passo, secondo noi, è la presenza di una équipe professionale che si occupi dello studente con un buon livello di professionalità e che possa lavorare in rete con i contesti frequentati dal ragazzo, realizzando quindi il migliore intervento integrato realisticamente possibile. Il lavoro che facciamo ambulatorialmente all’interno del “Centro Paolo VI” di Casalnoceto è basato su una stretta collaborazione tra l’équipe di professionisti (generalmente formata da medico, psicologo, psicopedagogista e logopedista) e la famiglia, e su continui scambi con gli insegnanti. Questa modalità di lavoro permette di fornire all’allievo gli strumenti compensativi e dispensativi (riconosciuti a livello nazionale dalla legge 8 ottobre 2010, n.170, in caso di diagnosi di DSA), utili ad affrontare al meglio gli studi, permettendogli di sperimentare successi, di riuscire a stare al passo con i compagni e di strutturare un interesse spontaneo e motivato allo studio e alla propria formazione. Secondo tale legge, questi strumenti devono essere applicati in tutte le fasi del percorso, compresi i momenti di valutazione finale. Gli strumenti compensativi sono strumenti didattici e tecnologici “che sostituiscono o facilitano la prestazione richiesta nell’abilità che presenta il disturbo” (sintetizzatore vocale, registratore, programmi di video-scrittura AeR 01-2014.indd 33 12/06/14 13.11 34 A e R - Abilitazione e Riabilitazione con correttore ortografico, calcolatrice, tavola pitagorica). Le misure dispensative sono misure ed accorgimenti che consentono all’alunno di non svolgere alcune prestazioni. La nostra esperienza ci porta a dire che la presa di coscienza da parte del ragazzo delle proprie specifiche difficoltà e il fatto di sentirle riconosciute e quindi di sentirsi supportato nel superarle sono fattori principali che portano alla riduzione dell’abbandono. AeR 01-2014.indd 34 12/06/14 13.11 La dispersione scolastica, grave danno per le prospettive di sviluppo... 35 Bibliografia Baldi, P.L. (1974), Condizionamenti socio-culturali e fattori intellettivi dell’attività linguistica. In O. Andreani (a cura di), Classe sociale, intelligenza e personalità. Bologna: Il Mulino. Bernstein, B. (1969), Classi sociali e sviluppo linguistico: una teoria dell’apprendimento sociale. In E. Cerquetti (a cura di) Sociologia dell’Educazione. Milano: Franco Angeli. Besozzi, E. (2006), Elementi di sociologia dell’educazione. Roma: Carocci. Deutsch, M. (1967), The disadvantaged child. New York: Basic Books Gattullo, M. (1968), Didattica e docimologia. Roma: Armando. Gattullo, M. (1990), La selezione scolastica in Italia dalle elementari alle medie superiori. Scuola e Città, XLI. Liverta Sempio, O., Confalonieri, E., Scaratti, G. (a cura di) (1999), L’abbandono scolastico. Aspetti culturali, cognitivi, affettivi. Milano: Raffaello Cortina Editore. Maggiolini, A. (1994), Mal di scuola. Ragioni affettive dell’insuccesso scolastico. Milano: Unicopli. Morgagni, E. (1998), Adolescenti e dispersione scolastica, Roma. Carocci. Rosenthal, R., Jacobsen, L. (1991), Pigmalione in classe. L’immagine che chi insegna si fa di chi apprende sotto la sua guida. Trad.it. Milano: Franco Angeli. AeR 01-2014.indd 35 12/06/14 13.11 AeR 01-2014.indd 36 12/06/14 13.11 37 IL COUNSELING LOGOPEDICO NELLA DISFAGIA INFANTILE SARA LOVOTTI* VALENTINA FURGERI▪ Riassunto. La deglutizione è un meccanismo fisiologico che permette la propulsione del cibo dalla bocca allo stomaco suddiviso in fasi che, a causa di diverse patologie, possono essere in diverso grado compromesse. Per disfagia si intende qualsiasi disagio o difficoltà durante la deglutizione. Le competenze del logopedista comprendono la valutazione e il trattamento dei pazienti disfagici con particolare attenzione al couseling per tutti coloro che assistono il paziente. Nel caso della disfagia infantile il ruolo del logopedista è fondamentale per fornire le indicazioni necessarie per rendere l’alimentazione più sicura, puntando sempre alla migliore qualità di vita possibile. Parole-chiave: deglutizione, disfagia infantile, counseling logopedico 1. Cos’è la deglutizione La deglutizione è definita come “il meccanismo che consente la propulsione del cibo dal cavo orale allo stomaco’’ (Schindler, 2011); è una sequenza motoria complessa che prevede la contrazione coordinata di una serie di muscoli della bocca, della lingua, della faringe, della laringe e dell’esofago. Il processo di deglutizione fisiologica può essere suddiviso in fasi: - Fase Anticipatoria è quella nella quale il ricordo, la visione, il profumo o il sapore di alimenti o sostanze ingeribili determinano una modificazione secretoria e del tono muscolare, prima di deglutire; - Fase 0 è detta la Fase di Preparazione Extraorale delle sostanze: tutto quello che avviene prima che il cibo venga introdotto nel cavo orale: nel dettaglio, quello che riguarda la cottura del cibo, il suo condimento, insaporimento e le dimensioni dei bolo che si preparano; * Laureata in Scienze e Tecniche Psicologiche. Logopedista, “Centro Paolo VI” di Casalnoceto ▪ Logopedista, “Centro Paolo VI” di Casalnoceto AeR 01-2014.indd 37 12/06/14 13.11 38 A e R - Abilitazione e Riabilitazione - Fase 1 Preparazione Orale delle sostanze da deglutire: consente di trasformare il cibo in bolo pronto da deglutire e comprende diversi passaggi, quali l’introduzione degli alimenti nella cavità orale, esplorazione e preparazione del bolo, che viene rivestito di saliva (insalivazione e perisalivazione), e successiva creazione di una pressione positiva endorale per facilitare il convogliamento del bolo (fino a +200 mmHg). La durata di questa fase è variabile poiché dipende dalla consistenza del cibo ed avviene sotto il controllo della volontà; - Fase 2 o Stadio Orale: prevede che il bolo sia convogliato verso l’istmo delle fauci e abbia luogo l’elicitazione del riflesso di deglutizione faringea. E’ un atto volontario della durata media di circa un secondo; - Fase 3 o Stadio Faringeo: è la fase cruciale, che vede entrare in azione diversi meccanismi di durata inferiore al secondo. Innanzitutto vi è la spinta linguale, la suzione per pressione negativa creata dall’ipofaringe e la contrazione faringea. In questa fase il bolo passa dal quadrivio faringeo, dove si incrociano vie aeree e digestive; implica una coordinazione di meccanismi diversi che consentono il transito del bolo, evitando che i cibi passino nella cavità nasale e/o entrino nella laringe e apparato bronco-polmonare; - Fase 4 o Stadio Esofageo: dove il bolo transita in esofago e scende verso lo sfintere esofageo inferiore (SEI), grazie all’attività peristaltica, arrivando nello stomaco. La durata di questo stadio varia dagli 8 ai 20 secondi; - Fase 5 o Stadio Gastrico – duodenale: vede l’ingresso del bolo nello stomaco, la deglutizione è terminata ed inizia la digestione. Tab.1 – Fasi deglutitorie e relativi tempi FASI DEGLUTITORIE VELOCITÀ O TEMPO DI TRANSIZIONE FASE ORALE Circa 1 sec. FASE FARINGEA Circa 1 sec. FASE ESOFAGEA Circa 8-20 secondi AeR 01-2014.indd 38 12/06/14 13.11 Il counseling logopedico nella disfagia infantile 39 2. Disfagia Con il termine “disfagia” ci si riferisce a ‘’qualsiasi disagio nel deglutire (aspetto soggettivo) o a qualsiasi disfunzione deglutitoria obiettivamente rilevabile direttamente oppure indirettamente per le sue conseguenze’’ (O. Schindler, A. Schindler, 2001). La disfagia non è una malattia ma un sintomo, causato da un’alterazione anatomo-funzionale di una qualunque delle strutture coinvolte nel processo di deglutizione. Le cause più significative, classificate secondo il criterio eziologico, sono: • Neurologiche: lesioni del sistema extrapiramidale (Parkinson, Parkinsonismi, discinesie), lesioni I motoneurone (sindrome pseudobulbare), lesione I e II motoneurone del SNC (paralisi bulbare progressiva, ictus cerebrovascolare ecc…), lesioni del I e II motoneurone e dei nervi cranici (tumori, traumi cranici e traumi cervicali), lesioni della placca neuromuscolare (miastenia gravis), lesioni del muscolo (miositi, distrofie muscolari ecc…); • Disfagie da cause iatrogene: forme postchirurgiche del distretto capo-collo, soprattutto oncologiche, e anche da alcuni farmaci; • Disfagie da cause metaboliche: ad esempio, tireotossicosi; • Disfagie da cause psichiatriche/psicogene: in queste forme dobbiamo escludere l’organicità e a questo punto si può pensare all’aspetto psicogeno; a queste forme bisogna indirizzare molta attenzione; • Disfagie da malattie infettive: alcune malattie infettive come la sifilide e alcune forme di AIDS possono portare disfagia. Le manifestazioni più caratteristiche del paziente disfagico sono rappresentate da due fenomeni che sono la penetrazione e l’aspirazione. La penetrazione consiste nell’entrata del cibo nel vestibolo laringeo fino a livello glottico compreso. Se il paziente ha una buona sensibilità e un riflesso tussigeno valido, si metterà a tossire. A seconda del momento in cui avviene si distingue in: - predeglutitoria, quando la perdita del controllo del bolo avviene prima di iniziare la deglutizione per cui i meccanismi di protezione non sono ancora attivi; - intradeglutitoria, ovvero nel momento in cui il paziente sta per deglutire per via di una incoordinazione dei meccanismi deglutitori ed il bolo penetra tutto o in parte nel vestibolo; - postdeglutitoria, in seguito alla deglutizione, il cibo entra nel vestibolo in quanto una parte del bolo è rimasta nella zona perilaringea (pliche, seni AeR 01-2014.indd 39 12/06/14 13.11 40 A e R - Abilitazione e Riabilitazione piriformi ecc…) e si riversa successivamente nel vestibolo. Una volta entrato, se il paziente ha una forza fisica adeguata e buona sensibilità si metterà a tossire espellendo quanto penetrato; altrimenti se il paziente non presenta sensibilità buona oppure questa è valida, ma il paziente è defedato e presenta tosse debole, il bolo supererà le corde vocali ed entrando in trachea giungerà fino ai bronchi e al parenchima polmonare. L’aspirazione è definita come l’entrata del cibo nelle vie aeree ed anch’essa è suddivisibile a seconda del momento in cui si verifica: - predeglutitoria, quando un alterato controllo del bolo nella fase orale porta ad un’anticipazione del transito di questo in orofaringe, dovuto solitamente ad un’insufficienza dello sfintere labiale, un ridotto controllo della funzionalità linguale o ad una ritardata/assente elicitazione del riflesso faringeo, ma anche per insufficiente detersione del cavo orale; - intradeglutitoria, spesso conseguenza di una debole/assente peristalsi faringea oppure in casi di ridotta/scomparsa elevazione laringea associata a spasticità del SES (provocando un’ insufficiente chiusura dell’adito faringeo), o ancora ad un ritardo di innesco del riflesso; - postdeglutitoria, nei casi in cui il paziente ha deglutito con innesco valido, ma ha un residuo in faringe, il quale si sposta e viaggia verso l’adito laringeo, entra nel vestibolo e alla successiva inspirazione il residuo è risucchiato nelle vie aeree. La causa può attribuirsi a una ridotta peristalsi faringea o ad un ridotto innalzamento laringeo o ancora ad una disfunzione crico-faringea. 3. Segnali d’allarme Comprendono i segnali che devono mettere in allarme per una possibile presenza di disfagia. Possono essere di due tipi: A. Segni che possono far sospettare di essere davanti ad un paziente disfagico; B. Segni che possono far sospettare che il paziente aspiri. Per quanto riguarda il punto A, i segnali sono i seguenti: un paziente che presenta dolore o fastidio durante la deglutizione. E’ possibile riscontrare anche il dolore riflesso (in seguito alla deglutizione si percepisce dolore all’orecchio, come in alcune forme di neoplasia); sensazione di corpo estraneo in gola; allungamento dei tempi del pasto; AeR 01-2014.indd 40 12/06/14 13.11 41 Il counseling logopedico nella disfagia infantile presenza di febbre: ciò può essere un segno di passaggio di cibo nelle vie aeree. Può essere anche una febbricola (37,3 – 37, 4 – 38) e anche a giorni alterni; cambiamento delle abitudini alimentari, a volte inconsapevoli, per bilanciare il disturbo; riduzione del peso corporeo senza causa apparente; a volte questa perdita è anche consistente; presenza di tosse non episodica, tosse non ricollegabile ad episodi di un certo tipo. Per quanto riguarda il punto B, i segnali che fanno sospettare che un paziente aspiri sono i seguenti: comparsa costante di colpi di tosse involontari che si verificano subito o entro 2-3 minuti dalla deglutizione del bolo; comparsa di voce velata o raucedine in seguito alla deglutizione; fuoriuscita di cibo o di liquidi dal naso per insufficienza velofaringea; presenza di febbre, soprattutto non elevata, senza causa apparente; aumento della salivazione; presenza di catarro e questo dato è paragonabile alla febbre. Si può eseguire anche l’esame dell’espettorato per la ricerca di residui alimentari o di glucosio che è presente nel cibo; elevata frequenza diversamente; di episodi bronco-polmonari non giustificabili mancato innalzamento della laringe per varie cause che espongono il paziente ad eventi di aspirazione; deficit sensitivo-motorio di lingua e guance; residui alimentari nel cavo orale. 4. Disfagia infantile La disfagia spesso è parte di un insieme di sintomi che caratterizzano disordini complessi dal punto di vista neurologico. Non sempre si tratta di una condizione persistente e talvolta la condizione non è veramente stabilizzata e si assisterà alla progressione della gravità. AeR 01-2014.indd 41 12/06/14 13.11 42 A e R - Abilitazione e Riabilitazione Le cause, come abbiamo già detto precedentemente, sono molteplici; in ogni caso comunque essa rappresenta un sintomo che ha un forte impatto sulle attività quotidiane del bambino e della famiglia e richiede molto tempo e molta attenzione al momento dei pasti, spesso rendendo il pasto un momento carico di ansia e preoccupazioni. Per tutti questi motivi appare chiaro come la presa in carico tempestiva sia uno dei fattori che possono limitare le conseguenze e favorire una migliore qualità di vita per tutta la famiglia. Le strutture che fanno parte del processo deglutitorio sono molteplici: bocca, faringe, laringe, esofago e stomaco. E’ semplice capire come le strutture dell’adulto siano molto diverse da quelle del bambino e ciò si riflette anche sulla funzionalità. Nel neonato, la cavità orale è ridotta, è quasi completamente riempita dalla lingua; inoltre la mandibola è piccola e retratta. La fisiologia può variare a causa di differenti problemi: • prematurità: solitamente questi bambini sono facilmente affaticabili al pasto, presentano riflessi orali depressi e una scarsa motilità della lingua e delle labbra e, più in generale, una disorganizzazione della sequenza di suzione-deglutizione-respiro; • alterazioni anatomiche congenite: alterazioni che possono riguardare ogni struttura e fanno parte di sindromi genetiche (Pierre-Ruben, labiopalatoschisi, ecc.); • deficit acquisiti: dopo diversi traumi possono rimanere alterazioni delle strutture deputate alla deglutizione (intubazione, infiammazioni); • problemi neurologici: traumi cranici, ipossia cerebrale, microcefalia, meningite; • patologie neuromuscolari: distrofia muscolare, poliomielite, miastenia gravis; • disordini gastrointestinali: per esempio, il disturbo da reflusso gastroesofageo (GERD), esofagite, infiammazioni dell’intestino; • altro (disordini metabolici, neuropatie sensoriali, ritardo mentale). In generale possiamo raggruppare i bambini affetti da disfagia infantile in tre gruppi principali, in base al disturbo prevalente: AeR 01-2014.indd 42 12/06/14 13.11 43 Il counseling logopedico nella disfagia infantile Tab. 2 - Caratteristiche principali dei bambini affetti da disfagia infantile Disturbo neurologico • deficit sensitivi • riflessi anomali • difficoltà prassiche • problemi cognitivi • disturbi comunicazione • epilessia Disturbo metabolico Disturbo genetico • ipotono • sviluppo anatomico • disturbi del movimento alterato • problemi respiratori • difficoltà sviluppo • epilessia abilità motorie orali e • disturbi gastrointestinali globali • dieta • disturbi coordinazione motoria I segni e i sintomi classici del disturbo in questi bambini possono essere riassunti nella tabella seguente: Tab. 3 - Principali segni e sintomi di disfagia SEGNI E SINTOMI DI DISFAGIA Scialorrea eccessiva Problemi nel deglutire e masticare Rifiuto del cibo Difficoltà respiratoria durante il pasto Soffocamento, tosse Ricorrenti infezioni polmonari Aumento della sensibilità orale Una delle condizioni che ci si trova spesso a trattare per disturbi deglutitori è la “paralisi cerebrale infantile” (PCI). Le linee-guida (SIMFER SINPIA) la definiscono come “ turba persistente, ma non immutabile, dello sviluppo della postura e del movimento dovuta ad alterazioni della funzione cerebrale, per cause pre-, peri- o post- natali, prima che se ne completi la crescita e lo sviluppo”. Dalla definizione risulta chiaro come non si tratti di una malattia con possibilità di guarigione, ma di una condizione permanente che, con il crescere del bambino, anche senza tendenza peggiorativa, necessita di molta attenzione e di una continua assistenza: servono compensi ed ausili che devono essere modificati nel tempo e si devono seguire la crescita del bambino e le necessità della famiglia per puntare ad una migliore qualità di vita. AeR 01-2014.indd 43 12/06/14 13.11 44 A e R - Abilitazione e Riabilitazione Questi bambini, dal punto di vista logopedico, presentano quasi sempre difficoltà di comunicazione e linguaggio e difficoltà nell’alimentazione di diverso tipo: difficoltà di masticazione, scarsa efficacia della deglutizione, ipersensibilità buccale, ridotto riflesso di tosse e deglutizione, scarsa motilità e controllo di bocca e lingua, alterata sensibilità del distretto bucco-linguo-facciale, eccessiva scialorrea e problemi nel mantenere una postura corretta. Tutte queste difficoltà determinano la necessità di una valutazione specifica, che prenda in considerazione lo sviluppo del bambino, le difficoltà e i punti di forza di bambino e suoi familiari. 5. Presa in carico logopedica La presa in carico di un bambino con rischio disfagia parte dalla valutazione logopedica della deglutizione: il logopedista è il professionista sanitario che, in collaborazione con l’équipe medica, valuta e crea un progetto di intervento individualizzato, per garantire la migliore qualità di vita possibile per il paziente. E’ necessario sottolineare come l’obiettivo della presa in carico sia la migliore qualità di vita possibile, che talvolta, purtroppo, non prevede l’alimentazione per bocca: un bambino che impiega ore a consumare il pasto, si affatica eccessivamente, rifiuta il cibo e ha episodi di rischio di aspirazione non dovrebbe essere alimentato per bocca perché, oltre al rischio di soffocamento e di infezioni respiratorie, il momento del pasto diventa difficile e ricco di ansia sia per il bambino che per i familiari. La valutazione inizia con una raccolta completa dello sviluppo del bambino e dell’anamnesi, per poi passare ad una valutazione generale e specifica dei distretti anatomici interessati nella deglutizione. La fase dell’osservazione del pasto è cruciale: il logopedista è presente mentre il caregiver alimenta il bambino per un intero pasto, come fa quotidianamente; il professionista analizza quindi la postura, la consistenza del cibo, l’utilizzo di eventuali ausili (biberon, cannucce, cucchiaio di silicone, bicchiere col beccuccio), cibi preferiti, situazione generale del bambino, situazione generale del caregiver, ambiente circostante, durata del pasto e segni e sintomi di disfagia. Le prove di deglutizione sono invece effettuate dal logopedista, che in prima persona somministra piccole quantità di cibo di diverse consistenze e valuta più approfonditamente l’efficacia deglutitoria del bambino. Nel caso in cui la valutazione segnali rischi di aspirazione, il professionista è tenuto a comunicare al medico dell’équipe la necessità di una valutazione strumentale specifica. AeR 01-2014.indd 44 12/06/14 13.11 Il counseling logopedico nella disfagia infantile 45 VALUTAZIONE LOGOPEDICA DELLA DISFAGIA INFANTILE 1. ANAMNESI • storia clinica • sviluppo prenatale, perinatale e postnatale • storia familiare • ospedalizzazioni precedenti • disturbi respiratori • sviluppo abilità motorie e sensoriali orali • storia dei problemi alimentari • esami strumentali 2. VALUTAZIONE FISICA GENERALE • misure antropometriche • stato nutrizionale • postura e tono • stato di allerta • abilità comunicative • respirazione • sensibilità 3. VALUTAZIONE STRUTTURE OROFACCIALI • riflessi orali • suzione non nutritiva • qualità voce • sensibilità zona orale e peri-orale • secrezioni orali • funzionalità nervi cranici 4. OSSERVAZIONE DEL PASTO • relazione caregivers-bambino • consistenze • postura bambino e caregivers • ausili di somministrazione • ausili posturali • reazioni avverse • saturimetria • auscultazione deglutizioni AeR 01-2014.indd 45 12/06/14 13.11 46 A e R - Abilitazione e Riabilitazione PROVE DI DEGLUTIZIONE • liquidi • semiliquidi • semisolidi • solidi La disfagia è una condizione che ha diverse conseguenze possibili, se non riconosciuta e trattata con attenzione: • malnutrizione • disidratazione • aspirazione di cibo/liquidi nelle vie aeree • infezioni polmonari (polmoniti ab ingestis) • rischio soffocamento • alterazione della qualità di vita La presa in carico logopedica prevede l’attivazione di un percorso terapeuticoriabilitativo che comprende interventi diretti sul bambino e altri, indiretti, su ambiente e caregiver, percorso che è creato “su misura” per ogni singolo paziente, anche in base alle richieste della famiglia. Riassumendo, i punti principali del trattamento logopedico sono: 1. desensibilizzazione: spesso i bambini con disfagia presentano riflessi arcaici a livello di bocca, lingua e faccia. Con esercizi specifici di desensibilizzazione termica e tattile quotidiani si lavora per ridurre l’attivazione di questi riflessi. Essendo un lavoro che necessità di costanza e frequenza, è necessario insegnare alla famiglia quali sono gli esercizi necessari per il bambino, le motivazioni e le modalità corrette; 2. prassie bucco-linguo-facciale: in questi bambini è necessario stimolare la motricità passiva ed attiva di tutti i distretti (bocca, lingua, faccia), partendo da movimenti semplici ed aumentando gradatamente la difficoltà e la durata. Gli stessi genitori proporranno quotidianamente gli esercizi al bambino (aprire e chiudere la bocca, massaggio delle guance e delle labbra, movimenti linguali e altri movimenti specifici). Se il bambino è collaborante, si proporranno gli stessi esercizi anche in forma attiva; 3. posture e ausili: in collaborazione con i fisioterapisti che seguono il bambino e i familiari, si cerca di posizionare il bambino in modo che durante i pasti la postura sia facilitante la deglutizione, limitante i riflessi arcaici e non faticosa né per il bambino né per la persona che lo alimenta; 4. svezzamento alimentare: se viene valutata la possibilità di iniziare l’alimentazione per bocca, verranno messi in atto interventi specifici con aumento progressivo della difficoltà; 5. counseling logopedico: parte centrale del lavoro con pazienti disfagici AeR 01-2014.indd 46 12/06/14 13.11 Il counseling logopedico nella disfagia infantile 47 è il counseling ai genitori e a chiunque si prende cura del bambino (per esempio, educatori ed operatori sociosanitari). Le decisioni riabilitative vengono discusse, spiegate e vengono fornite tutte le informazioni e indicazioni necessarie per gestire in modo consapevole i problemi del bambino. 5. Counseling logopedico nella disfagia infantile Il counseling è la parte più importante della presa in carico perché chi si prende cura del bambino quotidianamente, indipendentemente dalle sedute logopedica e dai periodi di ricovero, deve essere in grado di gestire al meglio l’alimentazione del bambino riducendo al minimo rischi e problemi. Il couseling può essere diviso in fasi: 1. conoscere la disfagia; 2. indicazioni specifiche. Nella prima parte è necessario dare tutte le informazioni riguardanti i disturbi della deglutizione del bambino in modo semplice e chiaro, spiegandone cause, conseguenze e possibili soluzioni. I caregivers, per poter aiutare il bambino, devono avere ben chiaro quali sono le difficoltà e i rischi nell’alimentarlo. Per fare questo, si possono utilizzare diversi materiali e supporti, a seconda delle necessità; per esempio, disegni, schemi, video, foto ecc., in modo da essere certi che le informazioni fornite siano state comprese correttamente. Importantissimo insegnare ai genitori a riconoscere segni e sintomi di disfagia, per controllare anche l’evoluzione del bambino e soprattutto capire se le difficoltà siano aumentate e sia necessario chiedere una nuova consulenza logopedica. La parte delle indicazioni specifiche sarà costruita insieme, dopo la valutazione logopedia, nel momento in cui sono stati decisi insieme a medici e fisioterapisti gli accorgimenti migliori per il bambino e soprattutto più semplici e funzionali nella quotidianità. Ecco un esempio di indicazioni scritte, fornite per la gestione di un bambino con disfagia infantile: INDICAZIONI LOGOPEDICHE PER L’ALIMENTAZIONE DI ___________ Ambiente • luogo tranquillo e poco distraente • non parlare con ___________ mentre sta mangiando • spegnere la televisione e ridurre gli stimoli • non farlo ridere o distrarre mentre mangia AeR 01-2014.indd 47 12/06/14 13.11 48 A e R - Abilitazione e Riabilitazione Postura • posizione seduta sulla carrozzina predisposta • capo leggermente flesso in avanti • braccia appoggiate al tavolino Alimenti • preparare alimenti di consistenza semisolida omogenei • preferire temperature fredde/calde piuttosto che a temperatura-ambiente • tenere in considerazioni le preferenze di ____________ nella scelta dei cibi • mantenere separati i gusti, non mescolare primo e secondo piatto, se possibile • assaggiare sempre, prima di proporre un alimento • addensare i liquidi Ausili • utilizzare il cucchiaino in silicone piccolo Indicazioni per la gestione della disfagia • proporre un bolo per volta, attendendo la completa deglutizione • non imboccare nuovamente, se il cavo orale presenta ancora residui • in caso di tosse interrompere l’alimentazione, flettere il capo in avanti e NON dare liquidi • dopo la tosse far effettuare alcune deglutizioni a vuoto • se respiro e voce sono gorgoglianti, far effettuare deglutizioni a vuoto • seguire i tempi del bambino, non alimentare troppo velocemente • se affaticato o sonnolente, sospendere l’alimentazione • somministrare farmaci in polvere (se possibile) insieme a acquagel in piccoli cucchiai e attendere la deglutizione Dopo il pasto • controllare il cavo orale e rimuovere eventuali residui • effettuare un’accurata igiene orale • mantenere il bambino in posizione seduta per 30-60 minuti Monitorare ed annotare • quantità di cibo ingerita durante ogni pasto • monitorare l’ossigenazione • monitorare la temperatura corporea AeR 01-2014.indd 48 12/06/14 13.11 Il counseling logopedico nella disfagia infantile 49 Al “Centro Paolo VI” sono presenti bambini con disfagia; il servizio di logopedia tiene costantemente sotto controllo l’evoluzione delle modalità della loro alimentazione, per fornire agli operatori che si occupano quotidianamente dei bambini le indicazioni necessarie per alimentarli in sicurezza. Vengono quindi effettuate valutazioni individuali degli utenti, per poi fornire agli operatori le informazioni necessarie per conoscere il più possibile la deglutizione del bambino ed in particolare le sue difficoltà nell’alimentazione. Insieme ai fisioterapisti e all’intera équipe che ha in carico il bambino si discute sulle indicazioni che facilitano l’alimentazione e la rendono la più sicura possibile. Le stesse indicazioni vengono poi fornite alla famiglia, per permetterle di mettere in atto anche nel contesto domestico quanto è stato deciso in équipe. Bibliografia Accornero, A., Rossetto, T. (2011), Logopedia e disfagia. Roma: Carocci Editore Arvedson, J., Rogers, B., Buck, G. et al. (1994), Silent aspiration prominent in children with dysphagia. International Journal of Pediatric Otorhinolaryngology, 28,173-181. Cerchiari, A. (2002), La valutazione delle abilità di alimentazione nella disfagia infantile. Roma: Editore Tosinvest. Cerchiari, A. (2007), La rieducazione della disfagia nei bambini affetti da PCI. Acta Foniatrica Latina. Torino: C. G. Edizioni Medico Scientifiche. Dal Brun, C., Morello, M. (2009), Disfagia Infantile, Counselling informativo e consigli pratici. Torino: Omega Edizioni. Loeb, C., Favale, E. (2008), Neurologia. Città di Castello (PG): Società Editrice Universo. Logemann, J. A. (1983), Evaluation and treatment of swallowing disorders. San Diego: College Hill Press. Logemann, J. A. (1995), Dysphagia: evaluation and treatment. Folia Phoniatr. Logop., 47, 140. AeR 01-2014.indd 49 12/06/14 13.11 50 A e R - Abilitazione e Riabilitazione Riverberi, C., Lombardi, F. (2007), Tracheotomia e disfagia nel grave cerebroleso: Scegliere valutare e riabilitare. Pisa: Edizioni Del Cerro. Schindler O. et al. (1990), Manuale operativo di fisiopatologia della deglutizione. Torino: Omega edizioni. Schindler, O., Ruoppolo, G., Schindler, A. (2011), Deglutologia. Torino: Omega edizioni Travalca Pupillo, B., Sukkar, S., Spadola Bisetti, M. (2001), Disfagia.eat: Quando la deglutizione diventa difficile. Torino: Omega edizioni. Unnia, L. (1995), Il trattamento logopedico del paziente disfagico adulto. Torino: Omega edizioni. Sito internet American Speech-Language Hearing Association (ASHA), (2004). Revisione medica delle linee guida per interventi sulla disfagia. Trad. it. a cura di A. Cattaneo, S. Raimondo, A. Schindler (2005). www.gisd.it. AeR 01-2014.indd 50 12/06/14 13.11 ESPERIENZE DI LAVORO AeR 01-2014.indd 51 12/06/14 13.11 AeR 01-2014.indd 52 12/06/14 13.11 53 L’INSEGNANTE DI SOSTEGNO, TRA IMPEGNO E DIFFICOLTÀ NELL’EDUCAZIONE DEI BAMBINI CON SVILUPPO ATIPICO GIUSY CAPPELLO* MARISA DEVECCHI* GAETANO GALUFFO* MARIA TERESA GIACOBONE* “Questi bambini nascono due volte. Devono imparare a muoversi in un mondo che la prima nascita ha reso difficile. La seconda dipende da voi, da quello che saprete dare. Sono nati due volte e il percorso è più tormentato.” Giuseppe Pontiggia: “Nati due volte” Siamo un gruppo di insegnanti di sostegno, che si misura quotidianamente con i tanti problemi e le scarse gratificazioni che la nostra professione comporta: problemi costituiti innanzi tutto dal vedere bambini più o meno consapevolmente sofferenti, che, a prezzo di grandi difficoltà, riescono in qualche caso a raggiungere minimi obiettivi di apprendimento; scarse gratificazioni che, discendendo direttamente da tali problemi, sono soprattutto legate a una mancanza di riconoscimento dei nostri sforzi sia a livello sociale che economico. Sulla base di uno sguardo retrospettivo alla normativa che regola l’inserimento scolastico degli alunni disabili e l’operatività dei loro insegnanti, si nota con chiarezza la grande distanza che intercorre tra quanto è stabilito dalla legge e ciò che effettivamente si verifica nel lavoro di ogni giorno. Pensiamo quindi che innanzi tutto sia opportuno dare un breve sguardo alla normativa vigente: * Insegnante della “Scuola Primaria Paolo VI” di Casalnoceto AeR 01-2014.indd 53 12/06/14 13.11 54 A e R - Abilitazione e Riabilitazione 1. La normativa Negli anni sessanta del secolo scorso, con una serie di disposizioni di legge venivano istituite le classi o sezioni “speciali” per gli alunni affetti da disturbi della sfera intellettiva, del comportamento, da menomazioni fisiche o sensoriali (cfr., in particolare, la Legge 31 dicembre 1962, n. 1859). Negli anni settanta, questo indirizzo venne sostanzialmente ribaltato con la legge 118/71 che prevedeva l’istruzione dell’obbligo nelle classi normali della scuola pubblica per i mutilati ed invalidi civili. La C.M. 227/1975 estese agli “handicappati psichici” quanto previsto dall’art. 28 di tale legge, aprendo la scuola comune al graduale inserimento di questi alunni. Finalmente, con la Legge 517/1977, furono esplicitamente abolite le classi differenziali e si consentirono forme di integrazione a favore degli alunni portatori di handicap nella scuola elementare e nella scuola media, mediante la presenza di un docente di sostegno assegnato alla classe che accoglieva l’alunno disabile. La successiva Legge 270/82 estese alla scuola materna statale l’istituzione dei posti di sostegno. La sentenza della Corte Costituzionale n. 215 del 3 giugno 1987 ha costituito una sorta di “pietra miliare” agli effetti della legislazione in tema di integrazione degli allievi in situazione di handicap; sino alla sua pronunzia, infatti, il diritto all’integrazione era sancito soltanto per la scuola dell’obbligo e rimaneva esclusa la scuola secondaria superiore. In seguito alla succitata sentenza veniva emanata la C.M. 262/88 che assicurava la frequenza delle scuole medie superiori ai soggetti portatori di handicap e istituzionalizzava la presenza dei relativi insegnanti di sostegno specializzati. Il vero punto di svolta nella normativa per l’handicap, non solo in campo scolastico, è stata la legge-quadro 104/92 per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate. 2. La Legge 104/92 L’articolo 12 della L.104 sancì il diritto all’integrazione in ogni ordine e grado di scuola, sottolineando che il diritto all’educazione non può essere impedito da difficoltà di apprendimento né da altre difficoltà. Previde inoltre, ai fini di garantire una reale integrazione, la necessità do redigere una serie di documenti, quali la diagnosi funzionale e il profilo dinamico-funzionale. L’art. 13 a nostro avviso il più importante dell’intera L.104/92 per la parte riguardante l’integrazione scolastica, ribadì che l’integrazione si realizzasse nelle classi “comuni” e che in tutte le scuole di ogni ordine e grado fossero garantite le AeR 01-2014.indd 54 12/06/14 13.11 L’insegnante di sostegno, tra impegno e difficoltà nell’educazione... 55 attività di sostegno mediante l’assegnazione di docenti specializzati. Nella scuola secondaria superiore le attività di sostegno furono strutturate secondo aree disciplinari. Infine si conferì ai docenti specializzati la contitolarità delle sezioni e classi in cui questi svolgevano la loro opera, prevedendone la partecipazione a tutte le attività scolastiche degli organi collegiali, secondo la loro competenza. L’art. 14 della stessa legge stabilì l’obbligo, da parte del Ministero della PI, di provvedere alla formazione e all’aggiornamento del personale docente in tema di integrazione. E’ da sottolineare il fatto che l’art.14 non si riferiva solo al personale docente di sostegno, ma a tutto il personale docente. L’art. 16, infine, trattava una materia di particolare delicatezza, questione tuttora aperta in tema di integrazione dei disabili: la valutazione del loro rendimento e delle prove d’esame che doveva essere rapportata al PEI (Piano educativo individualizzato) approvato dai competenti organi collegiali. 3. L’insegnante di sostegno La figura dell’“insegnante di sostegno” è nata giuridicamente con il D.P.R. 970/1975, come docente “specialista”, distinto dagli altri insegnanti curricolari ed è stata ulteriormente definita dalla Legge 517/77 che ratificò il diritto alla piena integrazione degli studenti con handicap nella scuola pubblica. Prendendo ampi spunti da quanto scrive Savoini (2013), condividiamo pienamente il fatto che l’insegnante specializzato, previsto dalla L. 517/77, è prima di tutto un insegnante. L’insegnante di sostegno, come tutti gli insegnanti, prima “è”, poi “fa”; quindi necessita di una formazione personale sulle dimensioni emotive, esistenziali e culturali più direttamente coinvolte nell’incontro con la disabilità e la sofferenza psicologica. L’insegnante “di sostegno” condivide con tutti gli altri colleghi i compiti professionali e le responsabilità sull’intera classe Nella scuola secondaria, l’insegnante di sostegno, pur non possedendo una preparazione specifica su tutte le materie, può lavorare, in caso di necessità, anche al di fuori della propria area disciplinare, in quanto è un “mediatore di contenuti” e deve quindi possedere strategie metodologico-didattiche specifiche, non necessariamente contenuti specifici (anche se, come si sa, è sempre meglio prepararsi con uno studio assiduo e approfondito). L’insegnante “di sostegno”, in realtà, è un insegnante “per” il sostegno o, meglio, per attivare le varie forme di sostegno che la comunità scolastica deve offrire. Deve essere in grado di tessere reti di relazioni significative a livello professionale con i colleghi curricolari, con gli educatori, con il personale assistenziale, con i familiari, con gli operatori AeR 01-2014.indd 55 12/06/14 13.11 56 A e R - Abilitazione e Riabilitazione sociali e sanitari, con le figure importanti del territorio, con i rappresentanti degli Enti Locali, di varie amministrazioni, di cooperative sociali, ecc. Deve quindi possedere capacità di ascolto, di riconoscimento della dignità professionale dell’altro, di mediazione, di sostegno, di decisione e di problem solving, di soluzione di conflitti, di comunicazione e di assertività costruttiva (così recita la legge). Deve essere uno specialista di tavoli di concertazione e di decisione comune, grazie ai quali aiuta tutti a comunicare realmente, a rispettare i ruoli, a scambiarseli, a decidere insieme, a fondere saperi e prospettive, meditando soluzioni nuove, diverse dalla semplice somma delle parti. Deve essere un diplomatico, che conosce sia i vari linguaggi utilizzati dalle differenti professioni sia le rispettive culture. Deve essere un conoscitore delle dinamiche di gruppo, capace di attivare rituali istituenti alleanze professionali nuove. Deve essere un mediatore che non si stanca di connettere, avvicinare, limare, fondere, trovare un filo di raccordo, di progetto comune, di decisione condivisa, di patto operativo. Sulla base delle succitate affermazioni, in gran parte tratte da Savoini (ibidem), ci si domanda a cosa si deve attribuire maggiore importanza un insegnante di sostegno. Troviamo una risposta, a nostro avviso esauriente, in Imbimbo e Fruci (2003), che così scrivono: “Secondo noi (e proprio l’handicap dei nostri ragazzi lo rende evidente) deve essere capace di misurarsi con la “diversità” in qualsiasi forma essa appaia. Deve “comprendere” nel senso originale della parola e cioè “prendere con” “portare insieme”. Egli deve essere capace di ragionare (e non), di parlare (e non), di vedere (e non), di comunicare (e non)… E sapere che nel non vedere c’è un altro modo di vedere, del non parlare un altro modo di parlare, nel non comunicare un altro modo di comunicare…” L’insegnante di sostegno è specializzato perché conosce, perché sa e perché condivide. E’ preparato perché ha studiato e ha studiato perché ha scelto di fare questo mestiere. Questo mestiere non può essere un “ripiego”, una sorta di stratagemma per entrare nel mondo del lavoro dalla finestra invece che dalla porta”. Le autrici così proseguono: “L’insegnante di sostegno è colui o colei che sa cosa un ragazzo H sa fare, cosa potrebbe fare, cosa non dice di saper fare e al fare si può sostituire la parola dire, vedere, essere e altre ancora. E poi, scusate l’azzardo idealistico, sa anche individuare cosa un ragazzo H può insegnare o far scoprire agli altri. Aiuta tutti a sentirsi parte di ognuno. In ognuno di noi c’è un pezzetto autistico, Down, non vedente…e scoprirlo non è poi così male”. Ianes sostiene che <<L’insegnante “di sostegno” è prima di tutto un insegnante: va ribadita e mai dimenticata questa affermazione banale, ma che non dobbiamo mai dare per scontata. Troppo spesso si vede ancora oggi l’insegnante “di sostegno” relegato in ruoli assistenziali, pietisticamente materni, o strumento AeR 01-2014.indd 56 12/06/14 13.11 L’insegnante di sostegno, tra impegno e difficoltà nell’educazione... 57 di espulsione dell’alunno disabile dalle normali attività scolastiche, con qualche complicità dei docenti curricolari che lo vedono come un insegnante delegato all’alunno disabile e cioè di “serie B”. L’insegnante “di sostegno” è invece un insegnante di “serie A”, come tutti gli altri, e condivide con tutti gli altri colleghi i compiti professionali e le responsabilità sull’intera classe. Non “ha” un suo alunno disabile, tutto per sé, in possesso esclusivo. L’insegnante “di sostegno”, in realtà, è un insegnante “per” il sostegno, o meglio per attivare le varie forme di sostegni che la comunità scolastica deve offrire>>. Citiamo ancora Canevaro (2002), secondo cui l’insegnante di sostegno è “Un insegnante competente che permetta al contesto scolastico di essere competente, e non limiti e chiuda, quindi, la competenza alla sua presenza ma la colleghi all’investimento strutturale dell’ambiente scolastico”. Secondo Ianes e Cramerotti (2003) <<Nella realtà scolastica odierna l’insegnante di sostegno si trova a doversi confrontare ormai sempre più anche con la presenza di alunni con Bisogni Educativi Speciali…ossia alunni che pur non essendo in possesso di una diagnosi medica o psicologica presentano comunque delle difficoltà tali da richiedere un intervento individualizzato…Gli alunni con Bisogni Educativi Speciali hanno bisogno infatti di interventi tagliati accuratamente a misura della loro situazione di difficoltà e dei fattori che la originano e/o mantengono…In alcuni casi questa individualizzazione prenderà la forma di un Piano educativo individualizzato Progetto di vita, in altri sarà, ad esempio, una “semplice” e informale serie di delicatezze e attenzioni psicologiche rispetto a una situazione familiare difficile, in altri ancora potrà essere uno specifico intervento psicoeducativo nel caso di comportamenti problema… I due autori (ibidem) sostengono che “tutti gli alunni con qualunque tipo di Bisogno Educativo Speciale abbiano diritto a risposte adeguate alla loro situazione, perché non è giusto “far parti uguali fra diseguali”, come ebbe a dire Don Milani…I “bisogni educativi speciali” sono molti e diversi: una scuola davvero inclusiva dovrebbe essere in grado di leggerli tutti…e su questa base generare la dotazione di risorse adeguate a dare le risposte necessarie. C’è però bisogno di una cornice forte che orienti questa lettura, una cornice concettuale che sia la stessa per cogliere le varie dimensioni dei bisogni “forti” e di quelli “deboli” che rischiano di non essere visibili. L’I.C.F. (International Classification of Functioning Disability and Health) edito dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (2002) è il modello concettuale utile a questa lettura… Secondo l’O.M.S., infatti, la situazione di una persona va letta in modo globale, da diverse prospettive in modo interconnesso…Crediamo che questo modello sia utile per un’iniziale lettura dei Bisogni Educativi Speciali in un’ottica di salute globale, per una prima comprensione qualitativa degli “ambiti” di difficoltà di AeR 01-2014.indd 57 12/06/14 13.11 58 A e R - Abilitazione e Riabilitazione un alunno e una prima definizione dei corrispondenti “ambiti” di risorse…Con il modello ICF si viene a creare una sorta di griglia che ci aiuta a leggere le diverse situazioni di difficoltà degli alunni: alcune di esse saranno caratterizzate da problemi biologici, fisici e di capacità, altre da fattori contestuali ambientali; altre, principalmente da difficoltà di partecipazione sociale…Utilizzando una griglia costruita sulla base del modello concettuale dell’ ICF, una scuola attenta all’individualizzazione riesce a tracciare una prima matta generale dei bisogni, di quelle situazioni che richiedono interventi individualizzati…La scuola, sulla base dell’ICF, avrà maggiore consapevolezza del “paniere” dei suoi Bisogni Educativi Speciali, ma come potrà definire il suo reale fabbisogno di risorse aggiuntive necessarie per le varie individualizzazioni?...“risorse aggiuntive” non significa automaticamente “ore di sostegno” o “ore di copertura con personale educativo, ausiliario o di varia provenienza”…Le varie modalità di individualizzazione richiedono una ricca pluralità di risorse, naturalmente docenti in più o personale specifico, ma anche formazione mirata, documentazione e scambio con altre scuole…riorganizzazione dei tempi e degli spazi, modifiche e adattamento nei materiali didattici>>. Sulla base di queste premesse, l’insegnante di sostegno, tutt’altro che insegnante di serie B, dovrebbe in taluni casi farsi carico di trasmettere talune sue competenze ai colleghi curricolari, in un’ottica che veda la scuola come “comunità educante”, capace di mettere a disposizioni degli allievi conoscenze integrate e in grado di interagire costruttivamente con le équipe territoriali. 4. Crisi della scuola e crisi degli insegnanti Le ricerche italiane mettono in luce una chiara situazione di crisi dell’insegnante, dovuta a una pluralità di fattori, tra cui: difficoltà di collaborazione con i colleghi curricolari, diminuzione significativa, e graduale nel tempo, di efficaci corsi di formazione in servizio, nonché di aggiornamento, crisi di identità attribuibile in buona parte in un mancato riconoscimento sociale del proprio ruolo, appiattimento retributivo, demotivante e non commisurato con le effettive energie spese nella quotidianità dell’opera educativa; quanto all’aggiornamento, è opportuno rilevare che la ricerca scientifica sulle tematiche di cui si occupa l’insegnante di sostegno è in continua evoluzione, per cui il mancato aggiornamento costituisce un danno, non solo per il docente, ma anche per i suoi alunni. “In una società “senza insegnanti”, dove nessuno vuole più imparare, è difficile esercitare il mestiere di istruire”, scrive con sarcasmo Diamanti (2008). Cerini (2010) scrive: AeR 01-2014.indd 58 12/06/14 13.11 L’insegnante di sostegno, tra impegno e difficoltà nell’educazione... 59 <<La cosiddetta “società civile”, non più capace di “dire i no”, chiede alla scuola di rafforzare la sua funzione regolativa-normativa, attraverso i richiami ricorrenti a temi quali la responsabilità, i comportamenti, il profilo educativo, il progetto di vita, la persona>>. L’insegnante, nel progettare un ambiente educativo di apprendimento, dovrebbe <<operare una connessione tra saperi didattici ed organizzativi riscoprendo la centralità della motivazione, delle emozioni, del dare un “senso” all’esperienza della scuola (oggi il 38% dei ragazzi vive male la scuola). Significa costruire uno scenario scolastico positivo, di fiducia, di recupero delle comunicazione, di sostegno all’impegno e alla fatica…Puntare sulla “qualità” della relazione non significa solo prendersi cura dell’altro… cura è ascolto, accompagnamento, attenzione, tenerezza, empatia, disponibilità, ecc. >>. A nostro avviso, “cura” va vista anche nel significato di dedicare energie e di stimolare capacità critiche e creative e di sviluppare competenze relazionali, utilizzando il contributo di tutti. “Al centro della professione docente c’è una responsabilità pubblica, che si esplica nell’etica del lavoro ben fatto, nell’impegno educativo verso i ragazzi, nella formazione di persone e cittadini consapevoli ed attivi” Cerini (ibidem). 5. Burn out Il difficile ruolo dell’insegnate, e dell’insegnante di sostegno in particolare, è spesso fonte di frustrazioni, che, quando si protraggono nel tempo e sono scarsamente gestibili da parte della persona interessata, inducono una condizione di forte stress che può caratterizzarsi come “sindrome da burn out”. Di questa sindrome si parla ormai da una ventina d’anni, per indicare una complessa risposta emotivo-affettiva con sintomi ansioso-depressivi, che talora hanno anche una ricaduta negativa a livello somatico. Secondo Lodolo D’Oria et al. (2003), la sindrome colpisce in prevalenza le persone che esercitano professioni di aiuto: medici, infermieri, insegnanti, educatori, assistenti sociali, psicologi, poliziotti, vigili del fuoco, membri delle varie aree del volontariato; si tratta di professioni che sono in costante contatto con il disagio, con malattie gravi e incurabili, con l’angoscia, con la sofferenza morale e materiale. Per quanto riguarda la scuola italiana, tra le cause di stress lavorativo, secondo quanto riportano alcuni studi, troviamo rapporti difficili con studenti e genitori, classi numerose, situazione di precariato, conflittualità tra colleghi, necessità insoddisfatta di aggiornamento. Devono poi essere considerati, fra l’altro, la trasformazione della società in senso sempre più multiculturale e multietnico con la conseguente crescita del AeR 01-2014.indd 59 12/06/14 13.11 60 A e R - Abilitazione e Riabilitazione numero di studenti extracomunitari, il numero spesso troppo elevato di alunni disabili per docente di sostegno, la scarsa considerazione sociale della figura dell’insegnante. Dati questi presupposti, la formazione dei docenti è in molti casi diminuita negli anni, se si escludono i rari corsi di aggiornamento professionale e talune situazioni positive proprie di ambienti protetti come, ad esempio, quella della scuola primaria “Paolo VI” di Casalnoceto. Se una volta era possibile ritirarsi precocemente dal servizio, oggi l’unica via di fuga dalla “sindrome da burn out” risiede in una non augurabile inabilità per motivi di salute. Su questo punto potrebbero essere eccepite alcune questioni, tra cui quella secondo cui l’esorbitante numero di domande di accertamento di inabilità al lavoro presentate dalla categoria degli insegnanti rispetto agli altri dipendenti pubblici, sia dovuto al fatto che questa prassi rappresenta la “soluzione burocratica” a una situazione altrimenti senza sbocchi. Come scrivono Lodolo D’Oria et al. (2003), considerate le numerose ricerche, condotte sulla materia sia in Italia che all’estero, emerge prepotente il contrasto tra la serietà del problema e la totale assenza di una reale volontà che miri, se non alla soluzione, a un suo ridimensionamento. Si ha l’impressione che sia preferibile ignorare il fenomeno del burn out degli insegnanti, in quanto verità scomoda e destabilizzante. Un siffatto comportamento, oltre a non portare da nessuna parte e a lasciare in condizioni di disagio le persone interessate, si riflette inevitabilmente sulla qualità dell’insegnamento e sulle possibilità di crescita educativa degli alunni, in particolare degli alunni disabili. 6. Conclusioni Desideriamo ricordare che bambini e adolescenti con sviluppo tipico, oltre ad apprendere con facilità i contenuti che vengono loro impartiti, sono anche fonte di gratificazione per i loro insegnanti, che sentono di contribuire attivamente alla sviluppo delle conoscenze e, più in generale, della personalità degli alunni che sono loro affidati. In una realtà ben diversa si trova invece ad operare l’insegnante di sostegno, il quale non solo si scontra quotidianamente con le gravi difficoltà di apprendimento e di crescita psicologica dei propri alunni, ma vede molto spesso i suoi sforzi vanificati da dimenticanze, regressioni, peggioramenti comportamentali di cui frequentemente non comprende le ragioni. Gli è quindi indispensabile non solo l’aiuto delle équipe specialistiche, ma anche dei colleghi “curricolari” e di tutti coloro, famiglie comprese, che hanno cura dell’allievo, meno fortunato dei suoi coetanei, che gli è stato affidato. Tra gli aiuti necessari, AeR 01-2014.indd 60 12/06/14 13.11 L’insegnante di sostegno, tra impegno e difficoltà nell’educazione... 61 un posto di primo piano riveste la “formazione in servizio”, che consente di stare al passo con gli sviluppi della ricerca e fornisce quindi spunti di intervento che possono migliorare significativamente la qualità sia del rapporto educativo che della didattica. Come risposta ai bisogni di aiuto ora menzionati, l’insegnante di sostegno, salvo rare eccezioni, è sempre più solo con le sue difficoltà; si trova quindi in un non invidiabile stato di frustrazione sia sul piano professionale che economico che del riconoscimento sociale. È molto triste, in una situazione che nell’immediato si vede senza sbocchi, vivere il proprio lavoro con delusione e profonda amarezza. AeR 01-2014.indd 61 12/06/14 13.11 62 A e R - Abilitazione e Riabilitazione Bibliografia American Psychiatric Association (2013), DSM-5 Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali. Ed.it. a cura di Massimo Biondi. Milano: Raffaello Cortina, 2014. Caldin, R. (2004), Abitare la complessità: insegnanti e processi inclusivi. L’integrazione scolastica e sociale, 3, 2. Canevaro, A. (2002), Insegnanti specializzati per il sostegno. L’integrazione scolastica e sociale, 1, 2. Canevaro, A., Ianes, D. (2002), Buone prassi di integrazione scolastica. Trento: Erickson. Cavalli, A. (a cura di) (2000), Gli insegnanti nella scuola che cambia. Bologna: Il Mulino. Celi, F., Fontana, D. (2003), Fare ricerca sperimentale a scuola. Trento: Erickson. Diamanti, I. (28.6.2008), Maledetti professori. Quotidiano “La Repubblica”. Ianes, D., Cramerotti, S. (a cura di) (2003), Gli alunni con Bisogni Educati Speciali: dal Piano educativo individualizzato al Progetto di vita. L’integrazione scolastica e sociale, 2/4, 395-409. Imbimbo, L., Fruci, M. (2003), L’insegnante di sostegno e il bambino con AS: il punto di vista dei genitori. Intervento tenuto al Convegno Erickson di Rimini. Pontiggia, G. (2000), Nati due volte. Milano: Mondadori. Siti internet Cerini, G. (2010), La “questione insegnante”: identità, formazione, sviluppo professionale dei docenti. www.edscuola.it. Ianes, D., La formazione dell’insegnante di sostegno. www. pon.agenziascuola.it. Lodolo D’Oria, V., Pecori Giraldi, F., Vitello, A. et al. 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In questo contesto, è il racconto il canale che suscita interesse e motivazione e che nel tempo ha assunto una funzione di mediatore, creando le condizioni necessarie ad esprimere il proprio mondo interiore: attraverso la scoperta delle esperienze e delle emozioni dei protagonisti, ciascuno dei partecipanti ha la possibilità di riconoscere e di rielaborare in modo positivo i propri vissuti. Da tempo pensavo di portare all’attenzione del mio piccolo gruppo di lavoro un’opera letteraria che sviluppasse il tema dell’aggregazione, dello stare insieme, e la scelta è caduta sul romanzo per ragazzi di Ferenc Molnár, “I ragazzi della via Pál”, pubblicato per la prima volta a puntate su una rivista, nel 1906 e destinato agli adulti come denuncia della mancanza di spazi di gioco per i più giovani. Gli obiettivi che mi sono prefissata di sviluppare, a partire dalla lettura di questo romanzo sono stati i seguenti: • Realizzare significative esperienze per i giovani diversamente abili, che possano vedere il gruppo come protagonista principale, senza perdere di vista le singole individualità. • Favorire percorsi di integrazione dei soggetti e creare contesti di confronto che permettano una condivisione dei propri e degli altrui vissuti, così da cogliere le rispettive uguaglianze e diversità. • Fornire competenze per valorizzare e conoscere il gruppo come contesto educativo. • Permettere al singolo di farsi sentire accettato e stimato dal gruppo, in quanto quest’ultimo svolge importanti funzioni di supporto. • Accrescere la sicurezza e l’autostima dei singoli, in quanto accettati dagli altri. AeR 01-2014.indd 63 12/06/14 13.11 64 A e R - Abilitazione e Riabilitazione • Vivere il laboratorio come “luogo sicuro”, dove confrontare idee e valori di ciascuno. •F ornire la possibilità di imparare a rapportarsi con i pari, in modo da contrastare stati di isolamento. 2. La trama del romanzo “I ragazzi della via Pál” è ambientato a Budapest, nella primavera del 1889 e descrive la “guerra” in atto tra due bande di ragazzini della scuola media: una, il cui “quartier generale” si trova esattamente nella via Pál, l’altra, conosciuta col nome di “Camicie Rosse”. Sotto la guida di Boka si schierano Geréb, il piccolo Nemecsek e altri ragazzi che si riuniscono in via Pál, un terreno libero, delimitato da case popolari, nei pressi del quale si trova anche un deposito di legname (la “Cittadella”), alla cui guardia c’è un grosso cane. Boka, saggio ed equilibrato più degli altri, ha il grado di generale e quindi di comandante in capo di “quelli della via Pál”, mentre tutti gli altri hanno un grado variabile fra quello di sottotenente e quello di capitano, ad eccezione del più piccolo e gracile del gruppo, Nemecsek, l’unico a rimanere sempre e solo un semplice soldato. Le “Camicie rosse” sono invece guidate dal valoroso e forte Feri Ats, un fiero avversario di Boka. Durante un’incursione temeraria, un distaccamento di Camicie Rosse riesce ad impadronirsi e a portar via la bandiera della “fortezza” - cucita dalla sorella di Csele - che i ragazzi della via Pál hanno posto su una catasta di legname. Boka, con Nemecsek e un altro ragazzo, organizza una spedizione al campo avversario, che si trova nel giardino botanico per andare a riprendersela. L’avventura è piena di colpi di scena ed imprevisti, fra cui la caduta di Nemecsek in uno dei laghetti; lo stesso Nemecsek, poi, si getta nella vasca dei pesci rossi per nascondersi dalle Camicie rosse e si prende un bel raffreddore. Nei giorni successivi la salute di Nemecsek peggiora - ha sempre più frequenti attacchi di tosse - ma ciò non gl’impedisce di recarsi nuovamente, e questa volta da solo e di nascosto, all’orto botanico, proprio durante una delle riunioni delle Camicie Rosse. Scoperto, viene scaraventato nel laghetto per punizione e poi lasciato andare: non viene infatti picchiato, in quanto lo si ritiene troppo debole ed incapace di difendersi. Ciò fa peggiorare ulteriormente lo stato di salute di Nemecsek che, sul punto di svenire fra le braccia di Boka, viene infine riportato a casa. Gravemente malato, viene messo a letto con la febbre altissima. Una nuova battaglia sta per scoppiare; Boka predispone la trincea di difesa, con le bombe di sabbia e le lance accatastate in cima alla legnaia ed illustra i piani ai compagni. Inizialmente le truppe di Boka sono in vantaggio, ma la situazione poco dopo sembra precipitare a favore delle le Camicie Rosse, che stanno per liberare tutti i compagni fatti prigionieri. È allora che Nemecsek, scappato di casa nonostante la febbre alta, si getta su Ats, AeR 01-2014.indd 64 12/06/14 13.11 “Là dove c’era l’erba ora c’è una città...” 65 riuscendo a stenderlo a terra e facendo pertanto vincere la battaglia a Boka e ai suoi. L’atto di eroismo costa però caro a Nemecsek, che muore di polmonite nel suo letto, dopo un commovente ultimo incontro con Boka. Questi, sconvolto dalla tragedia, si reca di corsa al campo e scopre che il proprietario del terreno incolto di lì a poco fará costruire un palazzo. Il giovane fissa pensosamente lo sguardo davanti a sé e, per la prima volta, la sua anima di ragazzo scopre la dura realtà della vita, la fragilità di ciò per cui ha lottato fino a quel momento con i suoi compagni. 3. I personaggi János (Giovanni) Boka Capo della banda dei ragazzi della via Pál, il più saggio fra i suoi componenti, non ha timore di chiedere scusa agli altri quando capisce d’aver commesso un errore. Sa prendere decisioni, organizzare piani di battaglia, è prudente ed equilibrato. Si esprime molto spesso in prima persona e si sforza di dare il buon esempio. Gli altri riconoscono in lui non solo la guida di cui hanno bisogno, ma una certezza; comunica serenità e sicurezza. Dezső (Desiderio) Geréb Alternativamente tenente e soldato semplice, poi sottotenente delle Camicie Rosse. È il traditore del ragazzi della via Pál: ambizioso, irrequieto e spericolato, è in costante competizione con Boka per il ruolo di capo e non sopporta il suo temperamento pacato e giudizioso. Battuto da Boka durante le elezioni e accecato dalla gelosia, sentendosi migliore, si schiera con le Camicie Rosse. Sará Nemecsek a ridestare la sua coscienza e a provocarne infine il pentimento. Durante la battaglia finale si comporterà nobilmente, recuperando l’amicizia delle truppe di Boka, nonché la sua dignità ed il ruolo che aveva perduto. Csónakos Dopo Boka, Csónakos è la figura più importante fra i membri del gruppo. È un ragazzo di campagna, molto abile nell’arrampicarsi sugli alberi e nell’emettere fischi potenti. Impulsivo e allegro, è uno dei pochi non ambiziosi e non gelosi dell’amicizia fra Boka e Nemecsek. È lui che riesce a sconfiggere e poi a far prigioniero uno dei fortissimi fratelli Pásztor. AeR 01-2014.indd 65 12/06/14 13.11 66 A e R - Abilitazione e Riabilitazione Ernő (Ernesto) Nemecsek Soldato semplice, infine promosso capitano per meriti di guerra; segretario della “Società dello Stucco”. Biondo, delicato, minuto di costituzione, è un ragazzo di famiglia povera; incompreso e perseguitato, gode però della fiducia e dell’amicizia del grande Boka. Lungo il corso della narrazione non si perde occasione per esaltarne il valore, la sincerità, la nobiltà d’animo e la propensione al sacrificio nonostante la malattia, doti che lo pongono in risalto e gli procurano anche le gelosie dei compagni. Ferenc (Francesco) Weisz Tenente ed ex presidente della “Società dello Stucco”. Viene scelto da Boka per comandare il “Battaglione A” nella guerra contro le Camicie Rosse. È lui che, per un malinteso, darà del “codardo” a Nemecsek. Il pentimento di Weisz è particolarmente amaro ed evidenziato nella scena in cui si reca a presentare le proprie scuse a Ernő, in punto di morte; questi però non farà in tempo a leggerle. Pál (Paolo) Kolnay Tenente, aiutante di campo, cassiere ed ex presidente della “Società dello Stucco”. Kolnay è il primo ad accusare Nemecsek di tradimento della Società, di cui viene subito dopo eletto presidente, ma non è molto ligio ai suoi doveri. Non va mai d’accordo con Barabás, e i due, a volte, vengono alle mani. Si riconcilieranno al termine del racconto. Barabás Tenente e guardasigilli della “Società dello Stucco”. È scanzonato, impulsivo, a volte impertinente e portato a parlare a sproposito. Barabás è molto utile nella battaglia decisiva, perché è un eccellente tiratore. È uno dei primi a rendersi conto di aver sbagliato nei confronti di Nemecsek. Litiga continuamente con Kolnay. Csele Tenente, aiutante di campo, membro della “Società dello Stucco”. Ha tratti fisici molto delicati ed è l’elegantone del gruppo, sempre impeccabile ed in perfetto ordine. Come membro della “Società dello Stucco” non accusa duramente Nemecsek. Ferenc Leszik Sottotenente e redattore dei processi verbali della “Società dello Stucco”. È un tipo silenzioso, poco in evidenza nel testo. Comanda il “Battaglione B” durante la battaglia finale contro le Camicie Rosse. AeR 01-2014.indd 66 12/06/14 13.11 “Là dove c’era l’erba ora c’è una città...” 67 Richter Componente dei ragazzi della via Pál; membro della Società dello Stucco. È una figura poco in evidenza, salvo essere posto al comando del “Battaglione C” durante la battaglia finale contro le Camicie rosse. Camicie Rosse Feri (Franco) Áts (o Cecco Áts) Il capo, il rivale di Boka. È un ragazzo prestante, forte, audace e molto fiero; non è esclusa dal suo carattere una notevole dignità, che gli fa apprezzare il coraggio di Nemecsek (anche se ciò non gli impedisce di punirlo facendolo gettare nel laghetto). Le Camicie Rosse prendono nome dall’abitudine di Áts, imitata dai compagni, di indossare una camicia rossa. Viene spodestato dal più anziano dei fratelli Pásztor, dopo la sconfitta nella grande battaglia per il possesso del campo della via Pál. I fratelli Pásztor Membri influenti. Sono una coppia di fratelli molto temuti, che lo scrittore lascia presumere assai prestanti; i Pásztor sono in grado di correre velocissimi, ma sono due figure cupe: camminano torvi, col mento sul petto e le mani in tasca. Hanno razziato le biglie di Nemecsek e di altri ragazzi della via Pál, contravvenendo agli ordini di Feri Áts di non maltrattare i più deboli. Sentiranno anch’essi un pesante rimorso per la malattia di Nemecsek, che li perdonerà. Janò È la guardia notturna slovacca della segheria a vapore; di giorno dorme. Ha un cane nero di nome Ettore che è l’unico soldato semplice insieme a Nemecsek. È affezionato ai ragazzi e divertito dalle loro sempre vivaci imprese di gioco. Ogni pagina del romanzo vede il gruppo come protagonista: i ragazzi con i loro giochi militareschi si muovono ed agiscono sempre uniti, pur ciascuno sulla base della propria identità e delle proprie caratteristiche personologiche. L’appartenenza ad una squadra rende i protagonisti più sicuri e permette loro di affrontare con coraggio situazioni difficili e pericolose, come, ad esempio, il confronto con le “Camicie Rosse”, i temuti rivali. I giovani “eroi” della via Pál giocano alla guerra, costruendosi regole, leggi autonome ed un vero e proprio codice etico; riescono così a stemperare la violenza e la drammaticità tipiche del AeR 01-2014.indd 67 12/06/14 13.11 68 A e R - Abilitazione e Riabilitazione mondo adulto. Ogni giorno giocano in territori considerati di loro proprietà e si riuniscono in assemblea per decidere l’avventura da affrontare. Il furto da parte delle Camicie Rosse della bandiera di una delle fortezze scatena definitivamente lo scontro nel quale i ragazzi della via Pál dimostrano tutto il loro coraggio e la loro determinazione. 4. I temi affrontati in laboratorio 4.1. Appartenenza al gruppo Capitani, tenenti, sottotenenti, quando si incontravano, si salutavano portando negligentemente la mano ad un’immaginaria visiera. Solo il povero Nemecsek, unico soldato semplice, doveva mettersi ogni volta sull’attenti e salutare i superiori che incontrava ad ogni batter di ciglia e che non mancavano ogni volta di fargli qualche osservazione: “Su dritto! Tacchi uniti! Ecc.” E Nemecsek obbediva a tutti: era uno dei pochi ragazzi che trovano piacere nell’ubbidienza. Egli si sentiva fiero di appartenere ad una squadra -anche se da semplice soldato - come quella della via Pál. 4.2. Amicizia - Tutti ai posti di combattimento! - Intimò Boka. - Pronti per le esercitazioni! In un attimo ognuno raggiunse il posto assegnato. - Rimanete in attesa di ordini! - Proseguì. In mezzo al campo restarono solo lui ed il suo piccolo aiutante che fu scosso da violenti colpi di tosse. - Erno - gli disse Boka dolcemente - rimettiti la sciarpa. Nemecsek guardò il suo grande amico con viva riconoscenza e gli obbedì come a un fratello maggiore, si avvolse la sciarpa attorno al collo tanto che non gli si videro altro che gli occhi e le orecchie. In un altro episodio, Pasztor, delle Camicie Rosse, si recò al campo dei ragazzi della via Pál e disse: - Il nostro capitano mi ha incaricato di chiedere notizie di Nemecsek. Ci hanno detto che è ammalato. Se è vero, noi vorremmo recarci a fargli visita. Lo stimiamo molto. La sua condotta coraggiosa dell’altro giorno ci ha molto impressionati. Portiamo molto rispetto per simili avversari. Dovreste favorirci il suo indirizzo. - Abita al numero 3 di via Rakos. È davvero molto ammalato. Vi fu un nuovo saluto militare, poi Szebenics sollevò la bandiera bianca, il maggiore dei Pasztor ordinò il “dietrofront” e l’ “avanti march” e la delegazione si ritirò. AeR 01-2014.indd 68 12/06/14 13.11 “Là dove c’era l’erba ora c’è una città...” 69 Gli ambasciatori si diressero con passo rapido verso la via Rakos. Davanti al numero 3 interrogarono una bambina che giocava presso il portone: - Abita qui un certo Nemecsek? - Sì, - rispose la piccola, e li condusse a una porta a pian terreno, sulla quale una piccola targa di ottone portava la scritta: “ANDREA NEMECSEK, Sarto”. I ragazzi entrarono e, dopo aver salutato, dissero il motivo della loro visita. La madre di Nemecsek, una povera donna magra e bionda, somigliante in tutto e per tutto al figlio, o meglio, alla quale il figlio assomigliava come una goccia d’acqua, li introdusse nella cameretta attigua dove giaceva pallido e magro il piccolo soldato della via Pál. Szebenic sollevò ancora il suo drappo bianco; ma fu ancora Pasztor che parlò per primo: - Feri Ats ti saluta tanto - gli disse il maggiore dei Pasztor - e ti manda i suoi migliori auguri di pronta guarigione. 4.3. Spazio di gioco Non dimentichiamo che quella de “I ragazzi della via Pál” è la storia della lotta per la conquista di uno spazio libero per i giochi, cui la speculazione edilizia mette fine. Pochi lo sanno, ma il libro era destinato agli adulti, perché l’autore voleva denunciare la mancanza di spazi verdi destinati al gioco dei ragazzi. Un problema peraltro di stringente attualità. Ecco di seguito un paio di passi più significativi al riguardo. “Se tu, caro lettore, sei un ragazzo di campagna, sei fortunato! Ti basta fare un passo per trovarti in spazi senza confini, sotto l’immensa volta del cielo. Abituato a guardare orizzonti lontani, non puoi capire cosa vuol dire stare rinchiuso tra i muri grigi di una città. Non puoi nemmeno comprendere cosa significhi, per un ragazzo della capitale, un piccolo prato abbandonato. Per lui è il luogo dove si gioca, è la fuga dalla realtà, è il regno della libertà”. “Oggi sul terreno della via Pál si innalza, triste e severo, un tozzo fabbricato di quattro piani, e chi vi abita ignora completamente che cosa ha rappresentato per una squadra di poveri scolari di Budapest il quadrato di terra su cui sorge la casa. Ma allora il posto era vuoto. La palizzata che chiudeva frontalmente il riquadro, dava sulla vecchia via Pál, ed era delimitata, ai due estremi, da due case. Dietro la palizzata, dalla parte opposta, il terreno era occupato da una segheria, e su buona parte di esso si ergevano alte cataste di tronchi, vicinissime una all’altra, AeR 01-2014.indd 69 12/06/14 13.11 70 A e R - Abilitazione e Riabilitazione tanto da permettere il passaggio solo ad una persona per volta e, per di più, non molto voluminosa…Si poteva trovare un migliore campo da gioco? I ragazzi non potevano neanche concepire che ce ne fosse uno più bello; per loro questo era l’ideale. Il suolo liscio sostituiva meravigliosamente le praterie americane quando giocavano ai pellirosse. Quanto alle cataste di legno, con un po’ di buona volontà, con un briciolo d’immaginazione, potevano diventare ogni cosa: città, foreste, montagne rocciose, case, fortezze... a seconda delle circostanze. Dicevamo fortezze. Ecco, su qualcuna delle cataste più grandi essi avevano rimosso dei tronchi, e avevano aggiunti degli altri, ed ora sembravano vere fortezze, in cima ad ognuna delle quali sventolava una bandierina rossa e verde”. Il concetto di gruppo, nella quotidianità della vita in struttura, risulta non essere di facile comprensione. Infatti ogni soggetto tende ad atteggiamenti e comportamenti individualistici e dimostra scarsi rapporti interpersonali con i pari. Il contesto del laboratorio favorisce invece un lavoro che vede il piccolo gruppo interagire progressivamente. A questo proposito, al termine delle considerazioni sopracitate sul romanzo “I Ragazzi della via Pál” i quattro soggetti diversamente abili presi in esame hanno spontaneamente dato un contributo a ciò che avevano udito della vicenda, così da formulare il riassunto che segue. 5. Il riassunto del romanzo, fatto in laboratorio <<A Budapest, una città molto lontana da Casalnoceto, un gruppo di amici e compagni di scuola si trovano, dopo i compiti, in un campo a giocare. I ragazzi sono: Giovanni, Ernesto, Desiderio, Paolo, Franco. Giocano a formare una banda. Giovanni è il capo della “banda” e insieme sono i “ragazzi della via Pál”. Nel loro quartiere e in una via che si chiamava Pál, c’è un terreno pieno di mucchi di legna, sentieri e in mezzo una segheria per tagliare i tronchi. I ragazzi fanno finta di far parte di un esercito e tutti hanno dei gradi: generale, capitano, tenente e solo il più piccolo, Ernesto, è un soldato e ubbidisce a tutti, anche se qualche volta si lamenta e vuole anche lui essere promosso di grado. Ernesto è piccolo, biondo e magro. Un giorno il piccolo Ernesto vede il capo di una banda nemica, Ferruccio, che è nel campo della sua banda e ruba la loro bandiera. Tutti i ragazzi hanno paura di Ferruccio, che è il capo della banda dei giardini botanici: è un ragazzo robusto, con spalle larghe, capelli castani. Il furto della bandiera è stata una cosa grave per i ragazzi della via Pál e il generale Giovanni decide di recarsi fino al quartier generale della banda nemica, per appendere un cartello come AeR 01-2014.indd 70 12/06/14 13.11 “Là dove c’era l’erba ora c’è una città...” 71 segno della visita dei ragazzi della via Pál. Così una sera, con il piccolo Ernesto, va nel campo nemico, ma qui vede uno dei suoi compagni, Paolo, che aveva fatto il traditore e sta dicendo delle cose alla banda nemica per invadere il rifugio di via Pál. Ernesto dopo qualche giorno torna da solo al giardino botanico per rubare la bandiera nemica, ma purtroppo viene scoperto e gettato in acqua, mentre tutti, anche il suo compagno traditore Paolo, lo prendono in giro. Nei giorni seguenti Ernesto e Giovanni progettano un piano di difesa del loro campo, e Paolo viene cacciato in quanto traditore. Purtroppo Ernesto, dopo che lo hanno buttato in acqua, si ammala gravemente e non potrebbe partecipare alla battaglia; anche se ha la febbre molto alta, si reca comunque sul luogo del combattimento, dove viene picchiato da Ferruccio, il capo della banda nemica. Questo fatto infonde rabbia e tanta forza nei suoi compagni, che riescono a mettere in fuga i nemici. Il piccolo Ernesto, per l’impresa eroica, viene nominato capitano, ma purtroppo, poco tempo dopo essere tornato a casa, muore. Il giorno seguente tutti i ragazzi si recano a casa sua vestiti a lutto, anche il nemico Ferruccio che era stato molto cattivo con Ernesto ed era stato lui a farlo ammalare gettandolo nell’acqua>>. 6. Conclusioni Ritengo, dopo molte esperienze maturate in laboratorio, che la lettura e il successivo commento di romanzi per ragazzi sia un metodo educativo e di crescita personale veramente efficace, in quanto favorisce una costruttiva riflessione sul proprio agire e su quello altrui. Per questo motivo, utilizzare la narrazione come una delle attività principali all’interno del percorso di laboratorio è stata una scelta che posso considerare senza dubbio appropriata. Inoltre la possibilità di avere uno spazio-laboratorio richiama alla mente una sorta di “campo” della via Pál, dove l’interazione quotidiana fra i soggetti ha contribuito a rendere più omogeneo il gruppo e a fornirgli una maggiore identità, sulla base di una forma di “socializzazione orizzontale”, dove la figura dell’educatore perde la sua centralità e funge da stimolo affinché il gruppo abbia la possibilità di sperimentarsi con una certa autonomia. Nella mia esperienza professionale, il racconto è quindi diventato nel tempo uno strumento che, oltre a mantenere la sua importanza di fondo, ha acquisito la capacità di favorire lo sviluppo di tematiche educative altrimenti difficilmente proponibili. AeR 01-2014.indd 71 12/06/14 13.11 72 A e R - Abilitazione e Riabilitazione Riferimento bibliografico Ferenc Molnár (1906), I ragazzi della via Pál. Trad.it. (1980), Firenze: Giunti Editore. AeR 01-2014.indd 72 12/06/14 13.11 CONTRIBUTI VARI AeR 01-2014.indd 73 12/06/14 13.11 AeR 01-2014.indd 74 12/06/14 13.11 75 “NEL DOLCE MONDO DELLE FIABE. UN LABORATORIO DI CUCINA CON LE STORIE DI WALT DISNEY” DI ELISABETTA FOLLO RECENSIONE A CURA DI ROBERTA FANZIO Elisabetta Follo, educatrice professionale del “Centro Paolo VI”, documenta una sua iniziativa didattica, condotta con i ragazzi da lei seguiti. Si parte dalla passione dei ragazzi per i cartoni animati di Walt Disney, visti e rivisti dai ragazzi stessi, e dalle non comuni doti culinarie dell’autrice, che ha deciso di soffermarsi con loro sulle numerose scene nelle quali i protagonisti sono intenti a gustare una pietanza o a preparare un manicaretto e di provare quindi a realizzare insieme ai suoi “allievi” dei dolci, ispirati ai vari personaggi disneyani, utilizzando alcune ricette del famoso cuoco californiano Ira L. Meyer; oltre alle ricette tratte dal testo di Meyer, la Follo ha dato prova della sua invidiabile creatività in cucina, creandone altre. È stata un’attività didattica complessa, che ha unito all’aspetto ludico importanti finalità educative, in primis quella di saper stare insieme, condividere spazi e materiali e acquisire delle autonomie sul piano funzionale in un contesto stimolante e gratificante; ha anche permesso di potenziare lo spirito collaborativo, la fiducia in se stessi, la partecipazione al gruppo. Questa iniziativa, a mio avviso, ha permesso di mettere in evidenza un nuovo modo di “educare”, educare a vedere, a pensare, a sentire, a creare, cercando di stimolare tutte le capacità dei singoli, sviluppando conoscenze integrate. Nel sottolineare la funzione educativa del libro, che può essere inteso come un bene educativo-formativo, desidero rilevare che esso si propone all’attenzione di tutti, non solo di coloro che hanno specifici interessi per la cucina; è un’“opera” al servizio del pubblico e della collettività. I ragazzi hanno messo in campo “il fare, divertendosi”, acquisendo nuove conoscenze, interiorizzando apprendimenti utili al raggiungimento di abilità funzionali al conseguimento di una maggiore autonomia. Le attività sono state graduate, per costruire un percorso educativo individualizzato con ciascuno dei ragazzi, in base alle abilità e potenzialità di ognuno. Importante è stata l’attenzione a non trascurare mai l’aspetto del piacere e del divertimento. Si tratta di un libro molto divertente e stimolante, che ci insegna anche alcuni “trucchi” a cui si può ricorrere in cucina e ci allieta con le foto sorridenti dei cuochi. Il libro è in vendita presso il “Centro Paolo VI” e la libreria “Paoline” di Tortona (AL). AeR 01-2014.indd 75 12/06/14 13.11 AeR 01-2014.indd 76 12/06/14 13.11 77 LA SCOMPARSA DEL PROF. VITTORIO MORO La Direzione del “Centro Paolo VI” e la redazione di “Abilitazione e Riabilitazione” annunciano con profondo dolore la perdita prematura del prof. Vittorio Moro, per anni direttore responsabile di questa pubblicazione, e formulano le più sentite condoglianze ai familiari. AeR 01-2014.indd 77 12/06/14 13.11 Impaginazione: Mauro Rancan - Studio Dalì AeR 01-2014.indd 78 12/06/14 13.11 AeR - Abilitazione e Riabilitazione Anno XXIII - N. 1 - 2014 ISSN 1827-5842 AeRCopertina01-2014_2011 12/06/14 13.14 Pagina 1 Anno XXIII N. 1 2014 Pubblicazione del Centro Paolo VI di Casalnoceto (AL) Finito di stampare nel mese di giugno 2014 da Guardamagna Editori in Varzi (PV) Registrazione del Tribunale di Tortona N. 3/93 del 15.6.93 - Spedizione in abbonamento postale, gruppo IV - Pubbl. inf. 50% - Autorizzazione della Direzione Provinciale PT di Alessandria