Le emozioni melodrammatiche della televisione

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Le emozioni melodrammatiche della televisione
Le emozioni melodrammatiche della televisione
Manuele Bellini
Quando in televisione la vita diventa spettacolo, quando la realtà va in scena,
ogni particolare insignificante, sotto la lente di ingrandimento della telecamera, assume un rilievo talvolta abnorme. La deformazione estetica della realtà filmata è
l’esito con cui la tv si confronta e spesso anche la premessa da cui nascono certi
programmi. La curiosità estrema su vicende di cronaca, l’attenzione polemica concentrata su eventi politici, la celebrazione pomposa di ricorrenze storiche, l’enfasi
emotiva su racconti di vita, l’esaltazione fuori misura del divismo dei volti noti,
non sono soltanto la derivazione spontanea del comunicare per immagini, ma costituiscono anche il meccanismo propulsore della narrazione televisiva. In questo
la struttura della storia raccontata in tv sembra rifarsi a forme classiche del melodramma, che può essere considerato, oltre che un elemento dell’arte, anche uno dei
più adeguati paradigmi impiegati per decifrare alcuni dei movimenti emotivi messi
in scena dalla tv e da essa indotti nel pubblico.
È improprio parlare di tv melodrammatica, come a identificarla in toto con un
genere, nel quale pure si declina. Non sembra nemmeno esaustivo parlare di melodrammatico come se fosse un tema, un oggetto del discorrere televisivo da elevarsi
a proprium della tv. Il melodrammatico va qui inteso come una categoria estetica,
che, lungi dal ridursi a un genere, benché in esso si incarni in prima istanza, funge
da principio metodico che orienta nella ricerca di un filo rosso comune allo specifico della tv1 . Per questo si può parlare, tenendone distinti i rispettivi ambiti, della
tv, da un lato, come di un luogo elettivo del fare spettacolo, e del melodrammatico,
dall’altro, come di uno strumento euristico che può contribuire a interpretarne le
1
Sul melodrammatico come categoria estetica, cfr. P. Brooks, L’immaginazione melodrammatica, tr. it. di D. Fink, Pratiche, Parma 1985 (cfr. anche la parziale riedizione a cura di F. Orabona, L’immaginazione melodrammatica secondo Peter Brooks, Cuem, Milano 2004); G. Scaramuzza, Derive
del melodrammatico, Cuem, Milano 2005; M. Mazzocut-Mis (a cura di), Lo spazio melodrammatico:
le teorie e i testi, Cuem, Milano 2005.
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manifestazioni più specifiche, avendo con lo spettacolo una storica parentela e una
genesi comune.
Ora, al di là di produzioni non destinate principalmente al mezzo televisivo,
come la maggior parte del cinema, il quid della tv è il programma, ossia un’unità di trasmissione, per lo più a carattere seriale, creata soprattutto sulla base di
un format, di cui sono esempi la fiction, il telegiornale, lo spot pubblicitario, il
trailer cinematografico, la diretta di un evento sportivo, di cronaca o di spettacolo2 . Una varietà di prodotti, accomunati da qualità e strutture che la categoria del
melodrammatico è in grado di leggere in maniera unitaria, pur salvaguardandone
l’imprescindibile diversità. Il melodrammatico permea tutta la neo-televisione, ne
anima ogni espressione, travalicando anche le intenzioni meno indirizzate a creare
enfasi o clamore.
Se ora si fa riferimento allo specifico della tv, ossia al programma, si può notare che gli stilemi del melodramma rivestono le differenti unità di trasmissione
nel modo più canonico, per poter garantire la massima audience. Se si eccettuano
certe trasmissioni di nicchia, destinate a un target dichiaratamente ristretto e ben
delineato (per livello culturale, per ambito di interessi o per età anagrafica – esemplare è l’intero palinsesto di MTV, per lo più dedicato alla trasmissione di videoclip
musicali), l’obiettivo della tv è, infatti, quello di catturare l’attenzione del pubblico
più vasto possibile, pur nell’ambito di una precisa collocazione nel palinsesto di
rete.
La destinazione popolare della tv si avvicina al melodramma nella sua primitiva finalità pedagogica. Lo ha ricordato in numerose occasioni Enzo Biagi, quando
ha difeso il valore educativo del servizio pubblico offerto dalla Rai che, soprattutto alle sue origini nell’immediato secondo dopoguerra, avrebbe portato a termine
l’impresa garibaldina, unificando la lingua degli italiani3 . Un intento perseguito
in seguito anche grazie alla produzione di sceneggiati, molti dei quali firmati da
Anton Giulio Majano, come Piccole donne (1955) o David Copperfield (1965),
I promessi sposi di Sandro Bolchi (1967), Le avventure di Pinocchio di Luigi Comencini (1972), tutti trasmessi dal Programma Nazionale, che promuovevano i
valori morali della pietas familiare, della sincerità con il prossimo, dell’amicizia,
del rispetto della legge, della devozione religiosa, tutto un universo assiologico la
cui fermezza garantiva il mantenimento dello status quo sociale e politico, faticosamente conquistato negli anni della ricostruzione4 . Una finalità simile al proposito del melodramma che, nato sul finire del Settecento come genere teatrale che
semplicemente metteva un dramma in musica, era presto divenuto, come sostiene
2
Cfr. G. Feyles, La Televisione secondo Aristotele, Editori Riuniti, Roma 2003, p. 13.
Cfr., per esempio, E. Biagi, “Televisione senza veli”, L’Espresso, 28 maggio 2005.
4 Programma Nazionale è il nome del canale con cui trasmetteva la tv di stato dal 3 gennaio 1954
fino al 14 aprile 1975. L’aggettivo “nazionale” non solo aveva valore onomastico, ma denotava anche
la funzione pedagogica della tv, che era quella di unificare il Paese, scisso in una miriade di dialetti
differenti persino da provincia a provincia. Sui programmi citati, cfr. P. Taggi, Il manuale della
televisione. Le idee, le tecniche, i programmi, Editori Riuniti, Roma 2003 e A. Grasso, Storia della
televisione italiana, Garzanti, Milano 2000.
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Nodier, una religione in grado di educare il popolo al senso del dovere nell’epoca post-rivoluzionaria, colmando il vuoto lasciato dalla crisi dei valori cristiani,
accelerata dalla cultura illuministica5 .
Una finalità perseguita tramite la messa in scena di un conflitto tra parti chiaramente delineate, prive di sfumature psicologiche, di sottigliezze dialettiche e di
velleità intellettualistiche: analogamente, nel talk show il dibattito si gioca per
lo più sulla sottolineatura di posizioni manichee, sulla polarizzazione della lotta
(anche nella collocazione fisica dei contendenti, che spesso si fronteggiano ai lati
opposti del teleschermo, come in Porta a porta di Bruno Vespa), nell’esasperazione dei toni, nell’accentuazione dei drammi personali o familiari, nell’enfasi sulle
tragedie (spesso trasformate, grazie alla costante attenzione dei media, in reality
show, come nel caso del delitto di Cogne, che si presta alla metamorfosi non solo per l’efferatezza ma anche per i protagonisti del fatto, una madre accusata di
infanticidio). Persino nel confronto politico, anche indiretto, come nel caso delle
dichiarazioni rilasciate alle telecamere all’uscita del Parlamento, vi è melodrammatizzazione, facilitata da forzature ideologiche, dalla spettacolarizzazione dei fatti,
da esagerazioni propagandistiche, dallo scontro dichiarato e insistito delle parti in
causa, dall’assenza apparente di mediazioni o di sfumature, dalla demonizzazione
dell’avversario, dall’uso non ponderato di un linguaggio catastrofico6 .
Il conflitto è coessenziale al melodramma così come al fare televisione. Non
esiste talk show o reality che non preveda una contesa pronta a essere animata da
un abile conduttore, grazie anche alla disposizione degli ospiti, che, studiata sulla base delle loro opinioni, dei loro caratteri o delle professionalità in nome delle
quali sono invitati, somigliano ai tableaux melodrammatici, in cui i personaggi
riassumono i momenti di maggiore intensità emotiva con pose stentoree e gesti enfatici. Il Maurizio Costanzo Show, in onda dal 1982 dapprima dal Teatro Sistina
e in seguito dal Teatro Parioli di Roma, può ritenersi in tal senso paradigmatico
di un modo di fare televisione che coniuga la conversazione da salotto alla messa in scena teatrale, il rigore dei tempi brevi e dei ritmi incalzanti del mezzo al
canovaccio della commedia dell’arte. E lo spettatore viene invitato a partecipare
alle discussioni futili o impegnate del salotto e alle emozioni provate dagli ospiti
durante i loro racconti di vita anche grazie all’abolizione della quarta parete, con il
palcoscenico che invade la platea e si prolunga idealmente nelle case del pubblico
televisivo, come nell’ultima edizione del programma7 .
Ma proprio qui si può rintracciare una differenza tra il mélo classico e la neotelevisione. Se il conflitto, nel melodramma, è una lotta tra antagonisti ben delineati nei loro caratteri, è uno scontro aperto tra il Bene e il Male, in tv spesso è
5 Cfr. Ch. Nodier, “‘Introduzione’ al Théâtre choisi de Pixérécourt”, in M. Mazzocut-Mis (a cura di), Lo spazio melodrammatico, cit., pp. 25-28.
6 Cfr. G. Scaramuzza, “Brutto come melodrammatico”, in Il brutto nel dramma moderno, Cuem,
Milano 2001, p. 141 n.
7 Si veda la disposizione degli ospiti al Maurizio Costanzo Show: cfr. M. Costanzo, “Lezioni di
televisione”, in Chi mi credo di essere, a cura di G. Dotto, Mondadori, Milano 2004, in particolare
pp. 193-195 e, sulla quarta parete, p. 221.
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una guerra tra universi morali che palesano entrambi una loro intrinseca coerenza
e legittimità, per cui l’orientamento dello spettatore non è sempre necessariamente
scontato. È conflitto, che tuttavia a volte pare assumere i connotati dell’antica tragedia greca. Nell’Antigone di Sofocle, per esempio, la protagonista, che dà il titolo
all’opera, e Creonte, re di Tebe, rappresentano entrambi due mondi assiologici di
alta spiritualità ma di fatto inconciliabili: da una parte, i valori familiari, quali l’amore di Antigone per il fratello Polinice, la pietas familiare, il generale rispetto per
i defunti, e, dall’altra, i valori politici, come una ragion di stato non grettamente
intesa ma comprendente il senso di lealtà verso la patria e la propria terra. Il tragico segna proprio l’impossibilità di un superamento dialettico del conflitto, di una
sintesi degli opposti che tuttavia salvaguardi gli individui. Decidendo per la sepoltura del fratello, Antigone, in nome dei propri principi, oppone a Creonte un duro
divieto che le costerà la vita. Ma lo stesso Creonte, nel suo rifiuto, non si appella a
un valore meramente politico, bensì al mancato senso di onestà verso i concittadini
da parte di Polinice, esiliato da Tebe, alleatosi con gli avversari e morto combattendo contro il fratello Eteocle, difensore e martire, quest’ultimo, della città, pertanto
degno, lui solo, di sepoltura. Due universi in lotta, che non possono disporsi su una
scala gerarchica, in quanto entrambi universi morali, la cui collisione raggiunge
livelli di pathos altissimi.
Allo stesso modo, il tentativo di risolvere le contraddizioni nei talk show non
sempre giunge a buon fine. Eppure qui non si tratta di una lotta insanabile. E, soprattutto, non è in gioco un’abilità mancata del conduttore. Gli ospiti, infatti, non
sono certo scelti a caso: le tavole rotonde di Buona domenica di Costanzo hanno
come protagonisti i fuoriusciti del Grande Fratello che, dopo essersi sparlati spesso
alle spalle nella casa del reality, soprattutto attraverso il “confessionale” (dove ha
accesso il pubblico ma non gli altri coinquilini), sono istigati a giochi al massacro
stavolta de visu. Capita spesso che la mediazione proposta dal conduttore altro non
sia che un’astuzia che, da un lato, voglia dare l’impressione di sedare il contrasto,
mentre, dall’altro, intenda infiammare gli animi fino a farli scontrare in un acceso
litigio. La contesa emoziona lo spettatore, perché sembra richiedere al pubblico
una ragione del suo esplodere e persino un consenso per una delle parti in causa,
che spesso si delineano solo nel corso del dibattimento. E qui il melodrammatico
si distingue dal tragico, che nella televisione non ha diritto di ospitalità: il conflitto
non è mai un dilemma etico che lacera l’interiorità del personaggio, non ne scruta
le sfumature psicologiche né tanto meno solleva dubbi esistenziali, ma è la trasposizione tutta esteriore di un manicheismo morale esasperato fin quasi alla parodia.
E il melodrammatico serpeggia proprio nell’accentuarsi della discordia, nel definirsi delle polarità in questione, anche nel colorirsi delle espressioni linguistiche e
nell’enfatizzarsi della mimica facciale o della gestualità corporea.
Anche nell’intreccio, il melodrammatico sembra adatto a parlare della tv. La trama del melodramma è semplice: si va da un iniziale stato di innocenza, seguito
dalla sua caduta per violazione da parte del traître, il malvagio, fino al riconoscimento del Bene, solitamente contestuale all’espulsione del Male, causa di tutte le
peripezie, e si perviene al riscatto finale con la restaurazione dell’antico stato di
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innocenza. La tv dei sentimenti, soprattutto la tv del dolore, presenta numerose
affinità con il classico intreccio melodrammatico. Se si considera un reality come
C’è posta per te, condotto da Maria De Filippi, alcuni segmenti narrativi del mélo sono riprodotti con fedeltà, dall’esposizione del tipo di rapporto esistente tra il
mittente e il destinatario della lettera di invito al programma fino alle cause della
sua compromissione, dal riconoscimento reciproco degli ospiti fino alla scelta dell’incontro, seguita all’estinzione delle ragioni del dissidio, o alla sua rinuncia, pur
non frequente.
Ora, le premesse che portano gli ospiti a tentare una riconciliazione durante
la trasmissione vengono ricostruite in studio attraverso il racconto asciutto della
conduttrice. Così, il programma può concentrarsi interamente sul momento-chiave
della storia, che è anche lo snodo centrale del melodramma, ossia il riconoscimento, nel quale si gioca la possibile riconciliazione. Esso viene «sapientemente
strutturato in diversi momenti. L’inizio è la consegna del messaggio, nel quale il
destinatario ha un primo grado di riconoscimento generico: infatti riconosce il programma (ci sono i postini, le telecamere. . . ), ma non sa chi sia il mittente. Il secondo stadio è duplice: il mittente vede il destinatario e viceversa, ma solo attraverso il
video. Il video separa, scherma, e non permette ancora un vero ricongiungimento.
In questa fase il destinatario passa dall’ignoranza alla conoscenza, perché sa chi
l’ha inviato in studio e perché. È il momento più importante e la regia lo sottolinea con accurati primi piani. Le espressioni colte al volo testimoniano sorpresa,
rabbia, delusione, gioia, attesa, tutti sentimenti che nascono dal ‘rivedere’. Infine
si toglie, o non si toglie, la parete-busta che separa gli ospiti e c’è, o non c’è, l’abbraccio finale. È questo il compimento del riconoscimento, perché il destinatario
rivela al mittente (conoscenza) la sua decisione»8 . Pare qui riuscita l’applicazione
del principio aristotelico, secondo cui «il riconoscimento migliore di tutti è quello che scaturisce dalla stessa azione, perché la sorpresa sopravviene per mezzo di
fatti verosimili, come nell’Edipo di Sofocle e nell’Ifigenia, giacché in quest’ultimo
caso era verosimile che volesse mandare una lettera»9 . E il riconoscimento, che
è una particolare forma di rovesciamento della situazione iniziale, è verosimile se
rispetta requisiti di funzionalità delle parti in relazione al tutto, di coerenza interna
(ossia assenza di casualità), di somiglianza dei caratteri e di credibilità del fatto.
Il riconoscimento è anche il momento culminante del melodramma. Basta pensare alla Traviata, dove alla fine Violetta pretende da Alfredo di essere amata per
quello che è, una cortigiana che ha fatto un sacrificio d’amore, e si comprende
come lo snodo narrativo che orienta il decorso degli eventi verso un chiarimento
finale sia dato proprio dal riconoscimento, dal mostrare senza pudore il proprio
essere, dall’esibire tutta la propria natura sentimentale ed emotiva senza censure
preventive o inibizioni residue.
In C’è posta per te, il momento del riconoscimento viene ripreso con prolungati primissimi piani, che inquadrano il solo volto amplificandone le espressioni ed
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9
G. Feyles, op. cit., p. 122.
Arist., Poët., 1454 a 15 (si cita da Aristotele, Poetica, tr. it. di D. Pesce, Rusconi, Milano 1995).
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esasperando le emozioni che ne trasudano. L’insistenza della ripresa, accentuata da
piani fissi interminabili, sospende l’azione, aliena lo spazio e arresta il tempo, assorbendo lo spettatore nella dimensione di un mondo popolato solo dall’emozione.
E il programma si inserisce nel filone del cosiddetto emotainment, l’intrattenimento
creato appunto con le emozioni, la cui intensità viene spinta fino al parossismo.
Addirittura qui la tv sembra essere di troppo: da un lato, infatti, è il mezzo per
il riconoscimento delle parti, dall’altro è l’ostacolo al loro pieno ricongiungimento.
E infatti la conduttrice, anziché proseguire, congeda gli ospiti subito dopo il loro
incontro10 . Quello che hanno da dirsi appartiene alla loro vita privata, che da qui
ha inizio.
Ma proprio l’interruzione improvvisa dell’emozione provata al suo culmine
dallo spettatore esige la sua reiterazione. Il brusco risveglio alla realtà comporta il
rischio di alienarsi la simpatia del pubblico, che riesce ad affezionarsi al programma solo grazie al vivo ricordo di un’emozione appena provata e all’irrinunciabile
urgenza di sperimentarla ancora. Così, a questo punto, il melodrammatico sconfina
nel kitsch. L’emozione richiede di essere sollecitata nuovamente perché si estingue con la stessa rapidità e facilità con cui nasce. Non è un caso che i reality si
prolunghino invadendo la seconda serata e moltiplicando, nel corso della diretta
settimanale, il medesimo snodo, sia esso il meccanismo di eliminazione del Grande Fratello oppure il riconoscimento in C’è posta per te. E non è un caso nemmeno
che oltre la diretta con il conduttore, i reality entrino a far parte della vita quotidiana del pubblico mediante la loro messa in onda 24 ore su 24. Il coinvolgimento
sensoriale dello spettatore, il rapimento delle sue emozioni devono essere continui,
altrimenti scemano senza lasciare tracce e lo spettatore si distrae e si perde. Solo
attraverso il luccichio permanente dell’effimero può essere trattenuto e coinvolto.
L’effimero è ciò che connota in prima istanza il kitsch e lo distingue dal melodramma. «Una caratteristica propria del kitsch e meno presente nel melodrammatico è l’essere un’espressione leggera e fugace del desiderio di evasione. Nel melodrammatico, l’emozione può perdurare fino allo spasimo, rivolgendosi o meglio
rivoltandosi nel disgustoso, sebbene il momento edulcorante arrivi presto a salvare
lo spettatore. Il kitsch è un’espressione compiacente, protettiva e inebriante del
presente»11 . È il banale, il superfluo, il transitorio, che tuttavia genera un piacere,
benché altrettanto fugace e superficiale. È il godimento del presente che distrae dal
problematico. È l’emozione che consente allo spettatore televisivo di identificarsi
con il personaggio che la esprime, compensando l’assenza di emozioni proprie.
L’esempio più calzante di fruizione kitsch di una produzione televisiva è certamente la soap opera, un breve sceneggiato che, entrando nelle nostre case quotidianamente e alla stessa ora, agevola il meccanismo di identificazione: la cadenza regolare della trasmissione, la consuetudine dell’appuntamento, che è come
l’appuntamento con una persona cara, è rassicurante ed eccitante al tempo stesso.
Si freme per l’attesa e si sa che in quel frangente si proveranno emozioni intense,
10
11
Cfr. G. Feyles, op. cit., p. 123.
M. Mazzocut-Mis, Il gonzo sublime. Dal patetico al kitsch, Mimesis, Milano 2005, pp. 179-180.
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gioia, dolore, ansia o rabbia, e si avrà anche l’illusione di condizionare l’andamento degli eventi o di orientare le opinioni degli attori, come se si partecipasse a un
salotto tra amici. Ma la consapevolezza dello spettatore di non essere il protagonista non viene mai meno: spenta la tv, anche le emozioni svaniscono. La facilità e
la rapidità con cui vengono risvegliate dal torpore di un’esistenza quotidiana magari priva di interessi e di passioni hanno un contraltare nel loro altrettanto veloce
estinguersi. Nessun fantasma emotivo deve perseguitare lo spettatore12 . Egli deve
piuttosto essere catturato da un calibrato rapporto tra la sua aspettativa e lo stupore che l’intreccio può causargli, ma tali moti dell’animo devono essere circoscritti
alla durata della soap che, come dice il nome, è pari a quella di un bucato, un quarto d’ora circa. Il kitsch delle telenovelas è allora l’effimero che dispensa emozioni
temporanee, molto più prossime al piacevole kantiano che non a un piacere estetico
vero e proprio, ma per questo non meno degne di essere coltivate.
Il kitsch, sotto il profilo strettamente teoretico, è l’oggetto osceno, ipervisibile, trasparente13 , proprio come illustrano i reality show, dove i sogni, diventando
realtà, svaniscono in quanto tali e lasciano desertico il terreno da loro occupato.
L’immaginario cessa di esistere perché prende forma nel reale, arricchendolo di
una dimensione ulteriore e facendolo sembrare più autentico. Il simulacro, il virtuale, è appunto l’iperreale, il falso, che, per la sua assoluta trasparenza, assume le
sembianze del vero, occultandolo. Ha ragione Baudrillard quando afferma che è
come se la televisione avesse commesso un delitto perfetto, uccidendo la realtà e
sostituendola con un suo simulacro, con una sua riproduzione talmente perfetta da
sembrare più vera del vero14 . Nel Grande Fratello tutto è visibile, niente si nasconde all’occhio delle telecamere. Ma proprio questa trasparenza portata all’eccesso
si converte nel suo contrario, ossia nell’opacità. L’emozione estrema rischia di essere sospesa per eccesso di rialzo e per costanza di intensità; rischia, insomma, di
anestetizzare il pubblico che la prova.
Se si pensa all’attacco terroristico alle Torri Gemelle di New York, si può constatare che l’evento, da tragico qual è in sé, catalizza, nei suoi infiniti passaggi
televisivi, l’attenzione di milioni di spettatori solo per aver assunto una forma
melodrammatica, che sconfina facilmente nel kitsch: la messa in onda reiterata
delle immagini dello schianto degli aerei, l’enfasi tragica accentuata dal ralenti, i
commenti giornalistici dai toni patetici e i sottofondi musicali adatti al genere cinematografico catastrofista, allestiscono uno spettacolo macabro, in cui, tuttavia,
l’emozione del pubblico viene liberata al massimo grado.
Il kitsch è però ambiguo: l’oggetto osceno mostra tutto se stesso in trasparenza
e l’atteggiamento del pubblico non può più essere quello di un semplice spettatore
che guarda, ma di un voyeur che partecipa, lasciandosi coinvolgere attraverso una
12 Cfr. R. Giudetti, “Fiction seriale: fra ragione e sentimento”, in M. Mazzocut-Mis (a cura di),
Lo spazio melodrammatico, cit., pp. 151-165.
13 Cfr. E. Brivio, “L’estetica del Kitsch”, in M. Mazzocut-Mis (a cura di), Dal Brutto al Kitsch.
Percorso antologico-critico, Cuem, Milano 2003, pp. 175-208.
14 Cfr. J. Baudrillard, Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà?, tr. it. di G. Piana,
R. Cortina, Milano 1996, p. 31.
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percezione che non è più solo visiva, ma anche corporea. La distanza estetica dello
sguardo viene sostituita dalla cecità voyeuristica del tatto. La quarta parete dello
schermo viene abbattuta e con il corpo si viene risucchiati nello spettacolo, proprio
come Cronenberg ha mostrato con efficacia in Videodrome (Id., USA, 1982). Così,
la capacità critica si assopisce, ipnotizzata da una trasparenza che, coinvolgendo i
cinque sensi, e in particolare stimolando il tatto, non concede prospettive possibili,
non ammette punti di vista esterni. La distanza si annulla e la conoscenza, che
si esercita nella circolazione di senso tra un soggetto e un oggetto, non può aver
luogo. Il virtuale, di cui in tv il reality show incarna una tra le più significative
concretizzazioni, è «un trompe-l’œil tridimensionale e plurisensoriale»15 , che impone la sospensione della visione critica a favore di una partecipazione unicamente
emotiva. O si entra nello schermo con tutto il corpo, e solo con quello, oppure si
viene esclusi dal gioco.
Proprio per questa ragione il terrore in tv non viene mostrato: esso richiederebbe un intervento critico, finalizzato a risalire a ritroso fino alla sua genesi e,
più largamente, susciterebbe una riflessione sul senso tragico dell’esistenza, sulla
consapevolezza della caducità della vita, sulla malinconica teleologia dell’effimero. Piuttosto è l’atto che porta alla luce il senso del terrore a essere esibito. È,
infatti, l’atto terroristico a essere filmato, mostrato, sezionato, condito ovunque.
Ma senza che vi sia una discussione sul senso della contingenza del gesto, sul perché di tanto orrore. La morte viene trattata solo esorcizzandola, ossia tentando di
spiegarla: se ne indagano le cause, si cerca di far luce sui colpevoli, al limite si
individuano i capri espiatori, procedendo in un regresso all’infinito che impedisce
una meditazione sulla morte in sé16 . La tv non si propone primariamente intenti
educativi ma per lo più finalità evasive e spesso diventa pure una cattiva maestra,
come sentenzia Popper17 . Essa alimenta l’emozione banale, la lacrima facile, la
gioia senza riserve, la pietà istintiva. Il terrore viene censurato o, semmai, convertito in quella forma di sublime, che dall’abate Du Bos prende il nome di “sublime
patetico”. Una paura controllata, un’angoscia che si sfoga senza un reale pericolo
per chi ne è preda, una sorta di piacere negativo, che si prova, per esempio, quando,
stando a una splendida immagine di Lucrezio cara a Du Bos, si vede un vascello
lottare nella tempesta contro le onde e il vento, mentre si è al sicuro sulla riva18 .
L’ansia per i malcapitati è stemperata dalla rasserenante presa d’atto della propria
posizione protetta dalla furia del mare. Il timore c’è ma non per se stessi e questa
certezza genera un particolare piacere, il sublime, appunto, che tanta eco avrà nel
secolo dei Lumi.
15 A. Balzola, “Principi etici delle arti multimediali”, in A. Balzola, A.M. Monteverdi, Le arti
multimediali digitali. Storia, tecniche, linguaggi, etiche ed estetiche delle arti del nuovo millennio,
Garzanti, Milano 2004, p. 434.
16 Cfr. G. Feyles, op. cit., pp. 182-188.
17 Cfr. K.R. Popper, J. Condry, Cattiva maestra televisione, tr. it. di M. Astrologo e C. Di Giorgio,
Reset, Milano 1994.
18 Cfr. J.-B. Du Bos, Riflessioni critiche sulla poesia e sulla pittura (1719), tr. it. di P. Vincenzi e
M. Bellini, a cura di M. Mazzocut-Mis e P. Vincenzi, Aesthetica, Palermo 2005, p. 40.
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La visione dell’impatto degli aerei e del successivo crollo delle Torri sembra
provocare, in maniera analoga, proprio un sentimento sublime: lo ha detto chiaramente solo il musicista Stockhausen, definendo l’attacco alle Torri «la più grande
opera d’arte che in assoluto esiste nel cosmo»19 . La passione è il motore dell’arte e
l’emozione il suo scopo. Per Baudrillard, la fine delle Torri «nello spazio materiale
le fa passare in uno spazio immaginario definitivo. Grazie al terrorismo, sono divenute il più bell’edificio del mondo – cosa che certo non erano ai tempi della loro
esistenza. Qualunque cosa pensiamo della loro qualità estetica, le Twin Towers erano una performance assoluta, e anche la loro distruzione è in sé una performance
assoluta»20 . La continua messa in onda dell’attacco nei più svariati contesti sigilla
l’intento di emozionare, di stupire, di indignare, di far disperare, di angosciare, di
terrorizzare.
Ma proprio a causa di questo flusso ininterrotto di immagini ad alta tensione
emotiva si verifica un corto circuito nella capacità di stupirsi. La tv non attua
la catarsi aristotelica, perché non eccita le passioni al fine di purificarle, ma le
stimola al punto da annientarle. I filmati del crollo delle Torri Gemelle, riproposti
in maniera ossessiva, smettono di emozionare. Un’emozione intensa e continua
finisce per fungere da anestetico: lo spettatore perviene gradualmente a una sorta di
atarassia, di indifferenza alle passioni, indotta proprio dall’eccesso di stimolazioni
multisensoriali21 . La pietà e il terrore, passioni suscitate dalla tragedia classica,
che si traducono nella commiserazione per i defunti innocenti e nel timore per il
possibile ripetersi dell’evento, passioni melodrammatiche provocate dalla tragedia
moderna ripresa dalla tv, si affievoliscono via via, lasciando dietro di sé un deserto
emotivo, un grigiore sentimentale, popolato solo dall’indifferenza.
L’immagine trasparente assorbe tutto l’immaginario per renderlo completamente visibile e privarlo di quella capacità suggestiva che è la fonte delle emozioni.
L’eccesso di allusione porta al decesso dell’illusione. L’immaginario trasposto nel
reale diviene virtuale, poiché assume la parvenza di una verità più autentica, più
presente, più vicina al punto da essere invisibile. Nel Grande Fratello, la molteplicità dei punti vista, ottenuta tramite l’installazione di numerose telecamere,
consente una visione potenzialmente perfetta e trasparente di tutto ciò che avviene
nella casa. Ma proprio questa trasparenza limita a un certo punto la visione stessa.
Lo spettatore è talmente coinvolto da non riuscire a vedere alcunché con la chiarezza e la distinzione necessarie, che stanno a fondamento della distanza critica e
della conoscenza. Nell’immagine trasparente non c’è più niente da vedere perché
19 «Ciò che è accaduto è la più grande opera di tutti i tempi. Che degli spiriti compiano una cosa
del genere, che delle persone provino per dieci anni come pazzi in modo totalmente fanatico per
un concerto e poi muoiano: questa è la più grande opera d’arte che in assoluto esiste nel cosmo».
E ancora: «Gente così concentrata su una recita e poi 5.000 persone che vengono cacciate nella
resurrezione in un momento; al confronto noi compositori non siamo niente» (K. Stockhausen a una
radio di Amburgo, citato in Il Corriere della Sera, 19 settembre 2001, p. 18).
20 J. Baudrillard, Power inferno. Requiem per le Twin Towers. Ipotesi sul terrorismo. La violenza
del globale, tr. it. di A. Serra, R. Cortina, Milano 2003, p. 15.
21 Cfr. G. Feyles, op. cit., p. 166.
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tutto è mostrato22 .
La realtà non supera la fantasia: semplicemente la annienta realizzandola prima
che possa costituirsi in un universo a sé. Il pubblico non è più in grado di provare
un piacere estetico, ma una mera stimolazione di sensi ormai incapaci di percepire un immaginario troppo visibile, completamente trasparente, proprio come le
facciate di vetro delle Torri infinitamente riprese dalle telecamere. Tutto troppo
vero per cullare ancora qualche illusione. «Ora, l’immagine non può più immaginare il reale, poiché coincide con esso. Non può sognarlo, poiché ne costituisce
la realtà virtuale. È come se le cose avessero inghiottito il loro specchio e fossero
divenute trasparenti a se stesse, in piena luce, in tempo reale, in una trascrizione
inesorabile»23 .
Forse questo è il destino del reality show, uno spettacolo talmente autoreferenziale da collassare nel proprio autocompiacimento, che altro non è se non la
derivazione di un cortocircuito della comunicazione, sancito da una correlata inerzia nella sperimentazione. Ma, come sostiene Costanzo, «fare televisione è un fatto
liturgico, è come dire messa. È vero che nei limiti del possibile si devono ogni tanto
sparpagliare le carte all’interno del programma, ma non nell’impalcatura»24 . Tenere presente che la tv non può scatenare passioni o suscitare emozioni a intensità
costante, a costo di addormentarle per sempre anestetizzando il pubblico, quindi
a lungo andare perdendolo, vuol dire rendersi conto che fare televisione esige anche e soprattutto di partorire programmi che prevedano, oltre a una cornice e a una
struttura generali, la possibilità di interventi artigianali nei singoli segmenti, suggeriti via via dagli indici di gradimento espressi dal pubblico. E il risveglio emotivo
richiesto si ottiene grazie all’introduzione periodica di novità, che tuttavia devono
sempre fare i conti con la fissità dello schema, della scaletta. Proprio come nel
melodramma, che, a differenza del kitsch, non si dissolve nell’estemporaneo, ma
si ripete nel tempo. E la sua permanenza è garantita dall’equilibrio raggiunto tra
il vecchio e il nuovo, tra la forma usuale e il contenuto inedito. Il nuovo non deve
mai essere rivoluzionario, non può deragliare certezze, ma ha il compito delicato
di rinverdire la meraviglia dello spettatore, trasmettendo un inatteso brio leggero,
che rinfreschi periodicamente la ricezione di unità televisive pur collaudate, alle
cui strutture il pubblico è abituato e nelle quali trova pertanto rassicurazione.
La trasparenza è dunque intrisa di ambiguità: da un lato, con la tv-verità, si
propone di mostrare la realtà senza filtri apparenti, che pure esistono ma vengono
accuratamente celati25 . La ripresa di un’eruzione vulcanica o di un’impresa impossibile subiscono interventi di vario genere, dal commento del conduttore, quasi
22
Cfr. J. Baudrillard, La sparizione dell’arte, tr. it. di E. Grazioli, Politi, Milano 1998, pp. 26, 38.
Id., Il delitto perfetto, cit., p. 8.
24 M. Costanzo, citato in A. Grasso (a cura di), Enciclopedia della Televisione, Garzanti,
Milano 20022 , p. 163.
25 La tv-verità è basata sull’assunto ideologico di una pretesa trasparenza al reale; tuttavia, essa
non si limita a fotografare il mondo, ma contribuisce a modificarlo, orientandone il corso. Un caso
noto fu la trasmissione Un giorno in pretura, accusata, nei primi anni Novanta, di condizionare
l’andamento dei processi di Tangentopoli (cfr. G. Feyles, op. cit., p. 28).
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sempre necessario, al suo inserimento all’interno di sequenze che allineano filmati
di eventi eccezionali e via dicendo. È una trasparenza, questa, che sembra imparentarsi con la trasparenza filmica teorizzata da Bazin, che designa una particolare
estetica, secondo cui il film ha come funzione principale quella di mostrare gli
eventi e non di far vedere se stesso in quanto film. Il suo scopo sarebbe quello di
darci l’illusione di assistere a eventi reali, come nella vita quotidiana, ma è un’illusione che cela un inganno, poiché nella realtà i fatti avvengono in uno spazio e
in un tempo privi di soluzioni di continuità, mentre il film presenta una successione di frammenti o piani, la cui durata e il cui ordine costituiscono il montaggio
vero e proprio. Se proviamo a percepire queste fratture vedendo con attenzione
la pellicola, ci rendiamo conto, secondo Bazin, che le tolleriamo solo perché ci
danno «l’impressione di una realtà continua e omogenea»26 . Ma si tratta solo di
un’impressione, frutto di un’illusione consensuale.
Un’illusione che, nella trasparenza, ha il sapore di un tradimento, come bene
mette in scena The Truman show (di Peter Weir, USA, 1998), che racconta di un
giovane la cui esistenza, fin dalla nascita, è spiata a sua insaputa dalle telecamere.
Tutti recitano intorno a lui, dai genitori fino all’intera popolazione della cittadina
in cui vive, interamente artefatta come la scenografia di un film. E il titolo è un
manifesto e una denuncia: Truman significa true man, uomo vero. E il film solleva
una questione radicale, che mette in gioco il rapporto tra verità e finzione: «Sono
veri gli ospiti della televisione? È vero chi va davanti alle telecamere interpretando
se stesso? Oppure è vero solo quando le telecamere lo riprendono a sua insaputa,
come nella candid camera?»27 . La trasparenza oscena oltrepassa il limite tra imitazione e simulazione e, nel suo eccesso di realtà, palesa la manipolazione che su
di essa opera, senza tuttavia concedere allo spettatore la possibilità di esercitare la
propria capacità critica né, d’altronde, di gongolarsi nell’emozione di un piacevole
inganno, poiché l’assoluto e prolungato coinvolgimento corporeo ne stordisce la
sensibilità. Ed è sintomatico il fatto che a parlare con chiarezza del potere e del
destino della televisione sia un film: la tv può parlare di sé soltanto a se stessa, in
completa autoreferenzialità, perché il pubblico è assorbito nei suoi circuiti.
26
A. Bazin, Orson Welles, Cerf, Paris 1972, p. 67.
M. Costanzo, Show. Vent’anni di storie e di personaggi, in collaborazione con F. Morandi,
Mondadori, Milano 2001, p. 323.
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