Corso su immigrazione
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Corso su immigrazione
L’immigrazione in Italia: risorsa o minaccia? accesso libero, equo e universale ai saperi L’immigrazione in Italia 1) LA FOTOGRAFIA DEL FENOMENO 2) IMMIGRAZIONE ED ECONOMIA 3) IMMIGRAZIONE E CRIMINALITÀ La fotografia del fenomeno Quanti sono gli immigrati in Italia? Attualmente gli immigrati regolari sono 3.891.295 che equivale al 6,5%della popolazione nazionale Ci sono anche circa 650.000 immigrati irregolari pari all‟1% della popolazione Sono tanti o pochi? (1) Sono tanti rispetto a quanto eravamo abituati Fino alla fine degli anni ‟80 c‟erano più italiani che andavano all‟estero che stranieri che venivano in Italia Ma negli ultimi 20 anni la popolazione straniera è aumentata molto: Sono tanti pochi? (2) o accesso libero, equo e universale ai saperi Sono pochi se paragoniamo l‟esperienza italiana a quella degli altri grandi paesi occidentali e alla media europea (EU15): accesso libero, equo e universale ai saperi Da dove vengono? Quasi un terzo degli stranieri (28%) proviene dagli stati dell‟Unione Europea (colorati in blu ed azzurro) e quindi possono entrare liberamente in Italia. I paesi da cui riceviamo più immigrati sono Romania, Albania, e Marocco. Invece gli stranieri che vengono dall‟Africa Sub-Sahariana sono solo una parte minoritaria AFRICA accesso libero, equo e universale ai saperi Come entrano i clandestini in Italia? Circa il 73% dei clandestini entra in Italia con un normale visto turistico, ma poi rimane anche dopo che il visto è scaduto. Solo il 12% entra via mare con i barconi dall‟Africa. Questo significa che i respingimenti di massa della scorsa estate hanno un alto impatto politico e mediatico, ma servono a poco per contrastare l‟ingresso di clandestini. Inoltre la maggior parte degli immigrati che arrivano con i barconi provengono da paesi in guerra ed in base alle convenzioni internazionali avrebbero diritto di asilo accesso libero, equo e universale ai saperi Come sono? Istruzione Come possiamo vedere italiani ed immigrati hanno un tasso di istruzione molto simile accesso libero, equo e universale ai saperi Come sono? L‟aspetto demografico ISTAT Da queste cosiddette piramidi demografiche possiamo vedere come gli immigrati siano piùgiovani degli italianiOltre l‟80% degli stranieri ha meno di 45 anni (a fronte del 50% degli italiani)ed il 20% degli stranieri ha meno di 15 anni (13% per gli italiani)Gli immigrati hanno anche maggiori tassi di fecondità. Una donna straniera ha in media 2,12 figli mentre una donna italiana 1,26 Come saremo? Il gruppo dove la presenza straniera èpiùconsistente èquello dei bambini e dei ragazzi, dove la presenza di stranieri èraddoppiata dal 2003 ad oggi. Infatti èdi origine straniera: •1 neonato su 10 •il 7% dei minorenni •il 10% dei bambini con meno di 6 anni Gli studenti stranieri sono circa il 7% nelle scuole elementari e medie. Ci sono poi dei picchi in alcune zone del nord, a Milano per esempio il 66% dei nuovi iscritti alle medie èdi origine straniera.Secondo le proiezioni ISMU infatti nel 2050 saràdi origine straniera 1 italiano su 3 della popolazione con meno di 24 anni! Come saremo? La cosa importante da tenere a mente è che la maggior parte di questi ragazzi nasceràin Italia e sarà quindi italiano a tutti gli effetti una volta raggiunta la maggiore età. Essi saranno una parte importante degli italiani del futuro e I bambini figli di immigrati contribuiranno all‟Italia del domani. La loro integrazione è una delle sfide politiche più importanti del nostro Paese e si gioca proprio sugli immigrati di seconda generazione. La scuola avrà un ruolo importantissimo in questo obiettivo di integrazione. accesso libero, equo e universale ai saperi IMMIGRATI ED ECONOMIA: A) Il mercato del lavoro B) Lo stato sociale IMMIGRATI E MERCATO DEL LAVORO (1) Italiani Stranieri Come possiamo vedere gli stranieri hanno dei tassi di occupazione molto alti(superiori a quelli degli italiani). Questo ci fa capire che chi immigra in Italia lo fa principalmente per lavorare MA IN SOSTANZA CHE EFFETTI HA L’IMMIGRAZIONE SUL LAVORO DEGLI ITALIANI? (1) Le domande che più spesso ricorrono quando si parla di immigrati e lavoro sono: 1.Ma gli immigrati “rubano”il lavoro agli italiani? 2.Ma la presenza degli immigrati obbligano gli italiani ad accettare salari più bassi? E‟complicato ottenere evidenza certa su questi effetti, tuttavia : • Uno studio della Banca d‟Italia infatti osserva che “la crescita della presenza straniera non si è riflessa in minori opportunità occupazionali per gli italiani” no effetti negativi sull‟occupazione! accesso libero, equo e universale ai saperi • Lo studio della Banca d‟Italia dice addirittura che“l‟immigrazione ha effetti positivi per gli italiani più istruiti e per le donne dato il livello di complementarietà tra lavoratori italiani e stranieri” effetti positivi su alcune fasce! • Uno studio dell‟INPS mostra che “nelle province con maggiore incidenza di lavoratori stranieri i salari degli italiani hanno lo stesso trend delle zone con minore immigrazione” no effetti negativi sui salari! Questo che cosa significa? MA IN SOSTANZA CHE EFFETTI HA L’IMMIGRAZIONE SUL LAVORO DEGLI ITALIANI? (2) Per capire meglio prendiamo ad esempio la ditta “G&G”che ha bisogno per produrre di: 10 operai non specializzati 5 ingeneri specializzati L‟arrivo di immigrati permette alle imprese di assumere nuovi operai non specializzati; ad esempio ora la ditta “G&G”assumerà4 operai. Per mantenere la stessa proporzione di lavoratori la ditta ha bisogno ora di 2 ingegneri in piùe quindi ne assumerà di nuovi Questo è il concetto di complementarità che fa si che l‟immigrazione abbia un effetto positivo sull‟occupazione dei lavoratori più istruiti. MA IN SOSTANZA CHE EFFETTI HA L’IMMIGRAZIONE SUL LAVORO DEGLI ITALIANI? (3) La Banca d‟Italia sottolinea anche l‟effetto positivo che l‟immigrazione ha sull‟occupazione delle donne, cerchiamo di capire come funziona: Gli immigrati, soprattutto l‟immigrazione femminile, va a soddisfare una domanda di servizi alla persona che non sono offerti in maniera adeguata dallo stato come la cura agli anziani. Si prenda ad esempio Laura, una mamma laureata, con un figlio di 4 anni ed un padre ammalato bisognoso di cure. Laura ha la necessità di accudire il padre e sarebbe costretta a rimanere a casa. La possibilità di assumere una badante le permette di potere tornare a lavorare. Questo è un esempio di come l‟immigrazione fa aumentare il numero di donne che lavorano in Italia. accesso libero, equo e universale ai saperi MA IN SOSTANZA CHE EFFETTI HA L’IMMIGRAZIONE SUL LAVORO DEGLI ITALIANI? (4) Un timore diffuso èche i nuovi arrivati sostituiscano i lavoratori italiani poco qualificati oppure li obblighino a guadagnare un salario piùbasso. A riguardo, studi effettuati per altri paesi dimostrano chetra i lavoratori poco qualificati gli effetti negativi, se presenti, sono di piccola misura. Questo può valere anche per l‟Italia. Infatti: 1)In alcuni settori ed in particolari aree del Paese c‟è un effettiva domanda di manodopera poco qualificata da parte delle imprese che non è pienamente soddisfatta dall‟offerta di lavoro degli italiani. 2)I lavoratori italiani e stranieri, anche a parità di qualifica, spesso non sono considerati sostituibili dall‟impresa. I nuovi immigrati generalmente competono direttamente con i vecchi immigrati piuttosto che con gli italiani. Tuttavia la forte diffusione del mercato nero nel nostro Paese potrebbe rendere la competizione tra lavoratori italiani ed immigrati più accesa e può portare ad una riduzione dell‟occupazione degli italiani e ad una generale riduzione dei salari MA IN SOSTANZA CHE EFFETTI HA L’IMMIGRAZIONE SUL LAVORO ITALIANI? (5) DEGLI Per fare un bilancio • Gli immigrati hanno un effetto positivo in aggregato sul mercato del lavoro: hanno alti tassi d‟occupazione, e sono il maggiore bacino di manodopera per molte imprese italiane. Di fatto, gli immigrati, pur essendo il 6,5% della popolazione, generano ben il 10% del PIL italiano (ISMU, 2009). • Gli effetti sui salari e sull‟occupazione però non sono equamente distribuiti tra lavoratori, c‟èchi ci guadagna (i lavoratori più qualificati e le donne) e chi ci perde, anche se poco (i lavoratori poco qualificati). • Portare gli immigrati fuori dalla zona d‟ombra del lavoro nero è un bene sia per gli italiani perché renderebbe la competizione tra diversi lavoratori più corretta, che per gli immigrati stessi che godrebbero di maggiori diritti e sicurezza sul lavoro. accesso libero, equo e universale ai saperi IMMIGRATI E STATO SOCIALE IMMIGRATI E STATO SOCIALE (1): Ma è vero che gli immigrati sono un costo? Come vediamo gli immigrati sono, dal punto di vista fiscale, una risorsa per lo Stato. Il 4% del totale che lo Stato incassa dalle tasse arriva da lavoratori stranieri,mentre solo il 2,5% di quello che lo Stato spende in sanità, scuola, pensioni, sussidi, etc. va agli immigrati. Quindi gli immigrati danno allo Stato Italiano più di quanto ricevono. IMMIGRATI E STATO SOCIALE (2): Facciamo un po' i conti..... TASSE: • pagano 4,5 miliardi di imposta personale sul reddito • pagano 10 miliardi di contributi • pagano il 5% dell‟IRAP ISTRUZIONE: assorbono quasi 4 miliardi il 5% della spesa totale. SANITÀ: assorbono circa 3 miliardi il 3% della spesa totale. In media sono più giovani e si ammalano di meno. SOSTEGNO AL REDDITO: assorbono circa 1 miliardo il 7% della spesa totale. Usufruiscono di più di sostegni perché più poveri. accesso libero, equo e universale ai saperi IMMIGRATI E STATO SOCIALE (3): Pagano le nostre pensioni? Una cosa che si sente dire spesso è che abbiamo bisogno dell‟immigrazione perché noi stiamo diventando vecchi e non abbiamo chi “paga”le nostre pensioni. E‟vero? Per adesso assolutamente si! L‟Italia è, dopo il Giappone, il paese con la popolazione più vecchia al mondo. Questo vuole dire: più anziani pensionati ed allo stesso tempo meno persone in età lavorativa che pagano i contributi. La popolazione straniera è molto più giovane di quella italiana e questo contribuisce a diminuire l‟indice di dipendenza. [L‟indice di dipendenza è il numero di anziani rispetto alla popolazione in età lavorativa. Esso da un‟idea dell‟anzianità di un paese e del conseguente peso delle spese per pensioni e sanità sul bilancio dello Stato] IMMIGRAZIONE E CRIMINALITÀ QUANTI CRIMINI COMMETTONO GLI IMMIGRATI IN ITALIA? Il 26% dei crimini in Italia sono commessi da stranieri Il 37%delle persone in carcere sono straniere CRIMINI TOTALI: SONO TANTI O POCHI? (1) Sono tanti perché la percentuale di crimini commessi da immigrati è quattro volte superiore alla loro percentuale sulla popolazione italiana accesso libero, equo e universale ai saperi CRIMINI TOTALI: SONO TANTI O POCHI? (2) Sono tanti anche se guardiamo all‟esperienza dei principali Paesi europei Infatti solo la Germania ha una percentuale di crimini commessa da stranieri simile alla nostra, ma la percentuale di immigrati della Germania è quattro volte superiore alla nostra (i dati si riferiscono al 2003). accesso libero, equo e universale ai saperi QUALI SONO GLI IMMIGRATI CHE HANNO COMESSO PIU’REATI? (2) Il maggior numero di reati tra gli stranieri è commesso da marocchini, rumeni, e albanesi. Questo perché sono i gruppi con più immigrati. QUALI SONO GLI IMMIGRATI CHE HANNO COMESSO PIU’REATI? (2) Ma se rapportiamo il numero di crimini al numero di immigrati totale, risulta che i più alti tassi di delinquenza sono tra gli algerini, cileni e in misura minore senegalesi. Mentre gli albanesi commettono in proporzione meno crimini dei cittadini dell‟Unione Europea a 15, i marocchini e rumeni leggermente di più. accesso libero, equo e universale ai saperi TASSO DICRIMINALITÀ(1) Benché i crimini commessi da immigrati siano tanti, il tasso di criminalità tra gli immigrati è diminuito sensibilmente negli ultimi anni. Questo è perche la grande maggioranza degli immigrati che sono entrati nel nostro Paese non sono delinquenti, ma persone in cerca di migliori opportunità di vita. TASSO DICRIMINALITÀ(2) Un dossier della Caritas mostra che si confrontano con attenzione i tassi di criminalità degli italiani ed immigrati non risultano così dissimili. Infatti se teniamo conto delle denunce verso i soli immigrati regolari la differenza si dimezza. Inoltre se consideriamo solo la fascia d‟età18-44, ossia quella in cui si concentrano circa l‟80% dei reati...le cose cambiano considerevolmente. accesso libero, equo e universale ai saperi MA GLI IMMIGRATI CRIMINALITÀ?(1) PORTANO Come vediamo nel 2003 si son commessi lo stesso numero di crimini del 1996 e nel 2007 il numero di reati è stato simile al 1991.L‟aumento di crimini che vediamo tra il 2006 e il 2007 è dovuto anche all‟indulto. In sostanza negli ultimi 15 anni, nonostante il forte aumento dell‟immigrazione, il numero totale dei crimini non ha avuto un aumento significativo. Ad ogni modo un rapporto della Banca d‟Italia, attraverso studi econometrici, dimostra che l‟aumento del numero di immigrati non causa un aumento del numero di crimini MA GLI IMMIGRATI PORTANO CRIMINALITÀ? (2) Chiaramente no Ma questo implica che non c’è nessun problema di criminalità legato all’immigrazione? Gli alti tassi di criminalità tra gli immigrati sono un grosso problema di integrazione Ma il punto è: ai cittadini italiani interessa che diminuiscano i reati in generale o i reati commessi da immigrati? Se quello conta è diminuire la criminalità in generale, allora un atteggiamento restrittivo o repressivo sull‟arrivo di nuovi stranieri non è la risposta giusta. Quello che conta è un‟azione incisiva sulle radici che favoriscono la criminalità in Italia. accesso libero, equo e universale ai saperi IMMIGRATI, CRIMINALITÁ E MEDIA (1) Nella nostra opinione pubblica, l‟associazione tra immigrazione e criminalità è ben radicata: Questo sondaggio ISPO, che risale al 2003, mostra come il 57,4% degli italiani vede l‟immigrazione come fonte di delinquenza. Solo il 25,8% ritiene che questo non sia vero. Probabilmente oggigiorno ancora più persone risponderebbero di essere d‟accordo con questa affermazione IMMIGRATI, CRIMINALITÁ E MEDIA (2) Ma l‟opinione che abbiamo su questo fenomeno è dettata in buona parte da episodi eclatanti e non da una conoscenza della situazione nel suo complesso. In questo contesto il ruolo dei media e dei telegiornali è cruciale: Nel grafico in alto la linea rossa rappresenta il numero di notizie di criminalità date dai principali TG italiani La linea azzurra rappresenta invece il numero di reati effettivi La linea gialla rappresenta invece la percezione di criminalità dei cittadini accesso libero, equo e universale ai saperi Come vediamo l‟aumento del bombardamento mediatico sulla criminalità, fa passare la percezione del crimine dal 33% al 53% senza che vi sia un riscontro effettivo dell‟aumento di reati IMMIGRATI, CRIMINALITÁ E MEDIA (3) Per avere una visione corretta della relazione tra immigrazione e criminalità è fondamentale guardare al fenomeno nel suo complesso ed in profondità tra le pieghe dei dati. La percezione che deriva da alcuni episodi, per quanto reali ed efferati, che hanno una alta risonanza mediatica danno solo una visione parziale della situazione CONCLUSIONE: L’IMMIGRAZIONE È UNA RISORSA Con questa presentazione speriamo di aver mostrato che l‟immigrazione è una risorsa importante per l‟Italia Chiaramente questo non significa che non ci siano problemi legati all‟immigrazione o che la cosa migliore da fare sia aprire le frontiere a tutti gli immigrati indiscriminatamente Quello che vogliamo rimarcare è l‟importanza di avere una politica dell‟immigrazione volta a favorire l‟ingresso e l‟integrazione degli stranieri in modo da esaltare gli effetti benefici dell‟immigrazione e minimizzarne i costi L‟immigrazione rappresenta dunque una risorsa, che però va gestita, programmata e regolata adeguatamente. Per questo la gestione dell‟immigrazione deve essere affrontata in maniera lungimirante, priva di ideologismi e tenendo conto dei dati oggettivi Per motivi di spazio non abbiamo affrontato la relazione tra immigrazione e cultura, per questo vi salutiamo con una bella metafora di Massimo Montanari ne “Il cibo come Cultura” Spesso ci si oppone all‟immigrazione “In difesa delle nostre radici”. Ma le radici degli alberi, sotto terra, in realtà si biforcano fino a perdersi molto lontano dalla pianta, hanno percorsi quasi imprevedibili e portano a tanti punti differenti anche molto remoti. Pensiamo ad esempio alla pasta con il pomodoro, classico piatto nazionale che afferma un‟idea di “italianità”in tutto il mondo. Le radici di questo piatto in realtà sono tutt‟altro che italiane. L‟invenzione della pasta se la contendono arabi e cinesi e noi l‟abbiamo soltanto fatta nostra venendo a contatto con queste civiltà; il pomodoro non è una pianta originaria dell‟Italia, e neanche dell‟Europa, ma è stato portato dalle Americhe. accesso libero, equo e universale ai saperi Frontiere, migranti e rifugiati. Studi cartografici È impossibile parlare delle migrazioni di esseri umani senza evocare i confini che altri esseri umani erigono. La relazione tra i due fenomeni è infatti molto stretta, dal momento che il confine è l‟ostacolo più pericoloso in cui si imbatte il migrante, clandestino o meno, nel corso del suo viaggio. Il confine si inscrive in modo contrastante nel paesaggio: o si impone come una barriera spessa, o finge di sparire. Dà l‟illusione di un mondo perfettamente organizzato in regioni e paesi. I confini allo stesso tempo aggruppano gli uomini e li separano. Si muovono nel tempo e nello spazio quando la storia sconvolge la geografia del mondo. Le carte qui esposte sono schizzi fatti a matita, il cui aspetto incerto testimonia la natura del confine stesso: ambivalente e paradossale. Lo schizzo prefigura la mappa, permette di esprimere più liberamente e più soggettivamente il carattere instabile o arbitrario di queste linee di spartizione, insieme alla diversità del loro statuto. In questo modo la cartografia incontra l‟arte e il cartografo si cimenta in un esercizio che gli permette di essere più diretto e incisivo. Le carte rispondono prima di tutto alla domanda “dove?” e permettono in seguito di capire “cosa”, cioè in quale modo le comunità umane producono il loro territorio. Dietro ogni mappa, c‟è un‟intenzione. La mappa nasce da un‟idea, è una costruzione mentale prima che cartacea. Lo schizzo mostra l‟umore e le esitazioni del cartografo, il quale annota in disordine le idee che costituiranno la trama della storia da raccontare. Il disegno è così concepito e organizzato come un gioco di costruzione: ogni pezzo si trova in contatto con tutti gli altri. Cambiare il posto di uno di questi pezzi significa tornare a ricomporre il paesaggio. Lo schizzo è un “opera di transizione” malleabile, è il luogo di sperimentazioni grafiche, un rivelatore più autentico e più fedele al pensiero del cartografo rispetto al computer, che invece lo tradisce: cristallizza in modo freddo e artificiale situazioni spesso mutevoli. È anche più dinamico: movimenti, forme e colori si esprimono in modo più vivace. È possibile rinforzare i tratti, giocare sui contrasti, insistere sul carattere aleatorio della geografia del mondo. Tutto questo suscita un‟emozione sia artistica sia politica. Philippe Rekacewicz, geografo cartografo Le Monde Diplomatique accesso libero, equo e universale ai saperi Un mondo in movimento. Principali migrazioni economiche Un mondo in movimento. Principali migrazioni economiche Mi piacciono le frontiere, Senza fuoco, senza fiamme, senza fumo e senza apparecchiature: Io mi accontenterei di fior di vilucchi Attorno alle dogane e alle loro piantagioni. Jean Cayrol, Citato da Michel Foucher in Fronts et frontières, Fayard, Parigi, 1991. accesso libero, equo e universale ai saperi In esilio nel proprio paese. 25 o 200 milioni di dislocati interni? In esilio nel proprio paese. 25 o 200 milioni di dislocati interni? Costrette ad abbandonare la propria casa, le persone dislocate vivono la stessa condizione dei rifugiati, senza però poter ambire a questo status poiché non hanno varcato alcun confine internazionale. Queste popolazioni, spesso abbandonate a se stesse, sono difficilmente raggiungibili dagli aiuti internazionali. Alcuni Stati, appellandosi alla loro sovranità e denunciando il rischio di “ingerenza nei loro affari interni”, rifiutano ogni intervento umanitario. Va precisato che questi Stati sono spesso responsabili dell‟oppressione che ha costretto alla fuga una parte della loro popolazione… Il centro di monitoraggio per i dislocati interni (IDMC) del Consiglio norvegese per i rifugiati (NRC), che gestisce una banca dati sull‟argomento, stima 25 milioni di persone dislocate nel mondo. Questo se si considera solamente i dislocamenti legati ai conflitti, alle violenze politiche e alle violazioni dei diritti umani… Gli spostamenti di popolazione hanno anche altre cause: i grandi progetti di sviluppo (dighe, centri industriali, piantagioni) provocano il dislocamento di quindici milioni di persone ogni anno. Nel 2006, i problemi ambientali hanno colpito circa 145 milioni di persone… È difficile stilare statistiche affidabili, però, mettendo insieme tutte le cause, si può ritenere che i dislocamenti forzati riguardino oggi tra i 100 e i 200 milioni di persone. accesso libero, equo e universale ai saperi Data la situazione, un riesame della definizione del dislocamento forzato sarebbe la benvenuta. Essa permetterebbe di affrontare situazioni come quella statunitense, dove 400.000 vittime – le più povere – dell‟uragano Katrina non sono ancora potute tornare a casa. Oppure permetterebbe di valutare l‟importanza degli spostamenti legati allo sviluppo delle grandi piantagioni in tutta la regione della foresta amazzonica… Quelli che hanno varcato il confine. Il Sud, zona di accoglienza principale dei rifugiati Quelli che hanno varcato il confine. Il Sud, zona di accoglienza principale dei rifugiati Alla fine del 2006, l‟Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (UNHCR) contava dieci milioni di rifugiati nel mondo, tra cui l‟80 % in paesi in via di sviluppo. Le cifre più elevate si riscontrano spesso nei paesi più poveri: la Repubblica democratica del Congo ne accoglie tra i 200.000 e i 300.000, la Siria più di un milione, lo Yemen 100.000, la Tanzania circa 500.000, il Pakistan più di un milione, la Giordania tra i 2,3 e i 2,5 milioni… Nessuno di questi avrebbe i mezzi per assumersi da solo questa responsabilità senza l‟aiuto logistico e finanziario degli Stati del Nord, che agiscono attraverso organismi internazionali. L‟UNHCR, istituzione mandataria dell‟Assemblea generale dell‟Organizzazione delle Nazioni unite (ONU) incaricata di rispondere alle crisi umanitarie, ha saputo allestire un apparato logistico che le permette di portare aiuto a 500.000 persone in meno di quarantott‟ore. Una cosa che non si improvvisa. I suoi vantaggi? Trecento addetti alla logistica e personale sanitario “di guardia” nei cinque continenti, centinaia di migliaia di teloni, tende, coperte, zanzariere, utensili accesso libero, equo e universale ai saperi da cucina, ma anche Tir, depositi prefabbricati e gruppi elettrogeni pronti ad essere imbarcati dai magazzini di Dubai, Copenaghen, Amman, Accra o Nairobi. L‟azione umanitaria comincia con una corsa contro il tempo per salvare delle vite: nutrire, curare e offrire riparo. Una volta passata l‟emergenza, comincia un lungo e difficile percorso finalizzato alla registrazione e alla protezione dei rifugiati. Varcando il confine, hanno perso la cittadinanza del loro paese d‟origine, senza per questo trovarne una nuova nel paese che concede loro asilo. A questo punto l‟UNHCR è incaricato di assicurare la protezione fisica e giuridica a tutti coloro che ne hanno bisogno. Per questo, però, bisogna poterli identificare… La registrazione presso l‟UNHCR nei paesi d‟accoglienza è facoltativa: i rifugiati stessi decidono se ufficializzarsi, e spesso capita che giudichino tale procedura inutile, nonché pericolosa. Ovunque sul pianeta, alcune centinaia di migliaia di persone aventi il diritto di ottenere lo status internazionale di rifugiato rimangono in questo modo invisibili e sfuggono alle statistiche. Questo Nord che non accoglie. Dei richiedenti asilo così poco numerosi... Questo Nord che non accoglie. Dei richiedenti asilo così poco numerosi... Essere “rifugiati” nei paesi del Nord non è come esserlo nei campi dell‟UNHCR dei paesi poveri. I primi hanno chiesto e ottenuto l‟asilo da parte di un governo che ha accettato di concederglielo, mentre i secondi hanno semplicemente attraversato un confine internazionale per fuggire la guerra. accesso libero, equo e universale ai saperi In un nota di aprile 2003, la Commissione nazionale consultiva dei diritti umani (CNCDH) sottolinea che “l‟accezione del diritto d‟asilo della legge francese riduce la questione dell‟asilo a un problema di politica migratoria” [1]. Questa confusione tra concetti è comune nei paesi occidentali. Se l‟immigrazione è effettivamente di competenza dello Stato, l‟asilo è un diritto riconosciuto dalla Convenzione di Ginevra (1951). L‟arsenale di misure deterrenti adottate contro l‟immigrazione ha di fatto conseguenze sull‟accoglienza dei rifugiati. In Francia, secondo l‟Ufficio francese di protezione dei rifugiati e degli apolidi (OFPRA), il numero di richieste d‟asilo è diminuito del 33,6% dal 2005. Nel 2007, solo 7.354 domande sono state accettate a fronte delle 13.770 nel 2005… E considerando l‟insieme dei paesi ricchi, il numero dei richiedenti asilo è passato da 600.000 nel 2002 a circa 300.000 nel 2007. Questa diminuzione drastica si può spiegare col numero sempre più alto di controlli effettuati, ma anche con l‟approvazione di nuove misure, come l‟istituzione tramite la legge sull‟asilo (2003) di una “lista di paesi sicuri”, che contiene ad esempio la Bosnia, l‟Ucraina e l‟India, (l‟Albania e il Niger sono stati cancellati poco tempo fa a seguito di un pronunciamento del Consiglio di Stato), oppure come la “procedura prioritaria”, che permette di trattare le domande in quindici giorni senza rilasciare alcuna autorizzazione provvisoria di soggiorno (APS). Ci si può interrogare sulla pertinenza di una distinzione così netta tra migranti economici e rifugiati che fuggono le guerre e le persecuzioni. In effetti, sebbene non percorrano sempre le stesse strade, affrontano i peggiori pericoli negli stessi luoghi: le isole Canarie, Gibilterra, Lampedusa, il mar Egeo, il golfo di Aden (dove gli scafisti sono di una crudeltà inimmaginabile), il confine tra Messico e gli Stati Uniti… Queste popolazioni sono davvero così dissimili, da volerle differenziare a tutti costi? Il migrante economico forse non ha avuto altra scelta che partire: perché non può anche lui aspirare a una protezione internazionale? Provare a distinguere oggi non è più pertinente, dal momento che, sebbene le cause degli spostamenti siano varie, le conseguenze sono le stesse: tutte queste vittime meritano la stessa assistenza e gli stessi diritti. Forse vedremo presto il linguaggio dell‟Onu arricchirsi di una nuova espressione: “rifugiati economici”? accesso libero, equo e universale ai saperi L’arco delle crisi. Rifugiati: la vertigine delle cifre Da qualche parte, in un campo di rifugiati in Giordania: "Mio marito era ufficiale nell‟esercito precedente, racconta Amina. Dopo l‟invasione, delle milizie hanno cominciato a minacciarci. Quindi siamo andati a Falluja, ma il nostro passato ci ha perseguitato. È uscita una lista con i nomi di tutti quelli che erano stati nell‟esercito. Abbiamo lasciato tutto e siamo venuti in Giordania all‟inizio del 2005. A quell‟epoca era ancora facile entrare in Giordania. Mio marito non poteva lavorare, quindi è tornato in Iraq per provare a guadagnare un po‟ di soldi. È rimasto 15 giorni. Non so cosa sia successo, ma mi ha chiamato per dirmi che voleva tornare in Giordania. A un posto di controllo, tra Abu Ghraib e Ramadi, c‟erano uomini che sembravano appartenere alle forze governative, ma più tardi abbiamo saputo che era l‟Esercito del Mahdi [milizia di obbedienza sciita]. Gli hanno chiesto i suoi documenti, e poi lo hanno portato via. Sono quattordici mesi che non ho sue notizie. Vivo sola con i miei cinque figli. Non ho nessuna fonte di reddito” [2]. Da nessun‟altra parte del mondo la circolazione delle persone che fuggono le guerre è così intensa. Quelli che si incrociano sulle strade dell‟esilio – sfollati e rifugiati – si contano a milioni: il conflitto afghano, tra i 2 e i 5 milioni a seconda delle stime, il conflitto iracheno, tra i 4 e i 5 milioni, i conflitti in Sudan tra i 5 e i 5,5 milioni, il conflitto israelo-palestinese tra i 4,5 e i 5 milioni… È necessario continuare? Questi numeri stordiscono. accesso libero, equo e universale ai saperi La Giordania accoglie sul suo territorio due milioni di rifugiati palestinesi presenti da due generazioni, e tra 500.000 e 800.000 Iracheni arrivati dall‟inizio del conflitto del 2003. Ossia complessivamente 2,5 milioni di persone per un paese di 5,7 milioni di abitanti… Uno dei paesi più poveri di risorse idriche del pianeta. Vivere all’ombra La Palestina squartata, rinchiusa, accerchiata del muro. Vivere all’ombra del muro. La Palestina squartata, rinchiusa, accerchiata Siamo all‟inizio del nuovo millennio, molto prima dell‟edificazione di ciò che è chiamato il “muro dell‟apartheid” dal lato palestinese, e la “recinzione di sicurezza” dal lato israeliano. Durante le discussioni sullo status di Gerusalemme, uno dei negoziatori palestinesi ci confida il suo sconforto di fronte al complesso e incomprensibile imbroglio territoriale che gli Israeliani proponevano loro: “se firmiamo un accordo su queste basi, bisognerà in futuro dotare ogni Palestinese di scarpe con piccole luci rosse. Esse si accenderanno quando entreranno per sbaglio nella zona C (sotto il controllo israeliano) e si spegneranno quando torneranno in zona A o B (sotto il controllo palestinese o misto)”. Ora però c‟è il muro. Un immenso muro di cemento, da otto a dieci metri d‟altezza, che serpeggia ai margini della città, penetra nel cuore della città, attraversa la strada, frattura lo spazio urbano e lo spazio sociale palestinese. “Non è un confine!” ripeteva Ariel Sharon a chi lo ascoltava quando è cominciata la costruzione. Che paradosso, però! La Linea Verde, il confine legittimo riconosciuto a livello accesso libero, equo e universale ai saperi internazionale, viene rifiutata sia sul terreno che sulle mappe israeliane. È invisibile. Al contrario, il muro è molto ben visibile… Esso è stato dichiarato illegale dalla Corte internazionale di giustizia ed è pressoché invalicabile. Pur essendo illegittimo, i suoi terminal ed i suoi checkpoint sono così simili a posti di dogana da poterli facilmente scambiare... E di fatto esso costituisce il vero confine, un confine fisicamente e massicciamente radicato all‟interno del territorio occupato. Una cittadina di Betlemme ne parla: “Dalla mia finestra avevo una vista magica, la dolcezza del paesaggio, i colori… il verde scuro dei miei ulivi, l‟ocra chiara della sabbia e della roccia, la secchezza dell‟atmosfera. Era caldo. Fuori dalla mia finestra avevo tutto l‟universo, il mio universo, migliaia di anni di storia! La polvere e l‟erba rasa. Dalla mia finestra potevo ammirare un paesaggio stupendo, abbracciare Gerusalemme! Il tempo passa, il muro si alza e ci rende ciechi. Stiamo diventando ciechi. Finiamo per dimenticare cosa c‟è dietro, quelli che vivono dietro. Loro invece non ci dimenticano: ci occupano. Questo muro è… come dire, imponente. È anche… senza fine, senza speranza. Chiude il paesaggio, e chiude anche le nostre vite. Questo muro è enorme e la sua ombra ancora di più. Essa copre le nostre strade, le nostre case e i nostri giardini. Copre anche, e soprattutto, la nostra speranza. Questo muro è incomprensibile, inspiegabile. Cioè, “loro” lo spiegano… Il loro popolo è traumatizzato dagli attentati-suicidi. E quindi lo hanno costruito, dicono, per assicurare la propria sicurezza, e, secondo le statistiche, gli attacchi si sono fermati. Dalla comparsa del muro, però, la mia anima vive nell‟ombra. Come l‟anima di milioni di persone. Da quando è lì, i nostri negozi chiudono uno ad uno, le nostre stazioni di servizio scompaiono. Il muro frammenta i nostri spazi di vita, ci separa dai nostri luoghi di preghiera, dalle nostre scuole, dai nostri ospedali. Il muro fa a pezzi le nostre vite. Ci divide dai nostri amici e, ancor peggio, dalla nostra famiglia…”. accesso libero, equo e universale ai saperi Cittadini di nessun luogo Cittadini di nessun luogo “Un tempo, l‟uomo aveva solo un corpo e un‟anima. Oggi gli serve anche un passaporto altrimenti non viene trattato come un uomo”. Stefan Zweig (apolide dal 1938 alla sua morte, nel 1942) Mentre ascolto Philippe Leclerc, dell‟Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (UNHCR) raccontare storie di apolidi, questi esseri umani senza nazionalità, e quindi “senza patria”, come posso non pensare ai miei nonni? Arrivati in Francia nel 1928, provenienti dall‟Ungheria, dalla Cecoslovacchia e dall‟Ucraina, furono dichiarati apolidi dal momento del loro ingresso in territorio francese. Alla vigilia della seconda guerra mondiale, la loro richiesta di naturalizzazione era quasi riuscita. L‟arrivo delle truppe tedesche e l‟Occupazione cambiò il corso degli eventi: alla fine dovettero aspettare il 1948 per ottenerla. A parte il periodo di guerra, durante quei vent‟anni, malgrado tutto, avevano dei documenti, erano registrati, potevano lavorare e beneficiavano all‟incirca degli stessi diritti dei cittadini francesi. Sessant‟anni dopo, la situazione mondiale non sembra essere così “favorevole”. La grande maggioranza degli apolidi è condannata a vivere nell‟ombra, emarginata dalla società e molto spesso privata dei diritti più elementari. La popolazione apolide è invisibile per definizione: come sottolinea Stefan Zweig, “l‟essere umano non può nulla davanti alla macchina amministrativa”. Solo i documenti provano l‟esistenza dell‟individuo, non la realtà della sua carne. In questa situazione paradossale, la accesso libero, equo e universale ai saperi contraddizione a volte si può spingere fino a questa domanda: quali carte presentare per avere un certificato di apolide? Gli apolidi sono così condannati a navigare in acque torbide, nei vuoti lasciati da leggi mal concepite, dagli sconvolgimenti geopolitici frequenti e da diverse discriminazioni... Fenomeno poco conosciuto dal grande pubblico, se non ignorato, l‟apolidia nasce da quattro grandi processi: dalla privazione ufficiale di nazionalità (come fu il caso, ad esempio, delle persone fuggite dalla Germania nazista), dalla sua perdita, che spesso avviene in seguito al non compimento delle pratiche, dal rifiuto di registrarsi (soprattutto per ragioni politiche, come avviene, in particolare, per le minoranze e le popolazioni autoctone) e da errori di registrazione. Ed è proprio su quest‟ultimo punto che le organizzazioni internazionali concentrano i loro sforzi, considerando che uno dei mezzi più efficaci per lottare contro l‟apolidia è di promuovere un sistema efficace di registrazioni delle nascite. In Europa, la caduta dell‟URSS nel 1991 ha trasformato centinaia di migliaia di cittadini sovietici in apolidi. In Lettonia, 400.000 Russi si vedono ancora rifiutare la nazionalità. Alcune note verbali del governo lettone indirizzate all‟UNHCR alla fine degli anni ‟90 testimoniano il dibattito che circonda la questione: con esse, il governo rifiutava all‟UNHCR il diritto di definire “apolidi” quelli che lui chiamava “non-cittadini”. Recentemente, alcuni paesi dell‟Asia e del Golfo hanno realizzato importanti progressi politici e legislativi. È il Nepal, in particolare, che resterà a lungo impresso nella storia dell‟apolidia: nel novembre 2006, questo piccolo paese ha votato una legge sulla cittadinanza che ha permesso a 2,6 milioni di persone su 3,4 milioni di ottenere la nazionalità nepalese. Questa regolarizzazione di massa indica una certa presa di coscienza da parte degli Stati che finalmente comprendono i vantaggi del riconoscere e registrare queste popolazioni, che, se isolate e fuori controllo, potrebbero rappresentare una minaccia per la sicurezza interna. L‟UNHCR stima il numero di persone apolidi nel mondo di circa 5,8 milioni, ma ammette che potrebbe arrivare fino a 15 milioni... accesso libero, equo e universale ai saperi La nazione Rromani. Il popolo europeo La nazione Rromani. Il popolo europeo La scelta di un colore solo, la tinta ocra, simboleggia l‟unità di un popolo sparso in una moltitudine di paesi: la nazione Rromani, che raggruppa in particolare i Rrom (con due “r”), i “Manouches” (Sinti) e i “Gitani” (Kalé). Essa si definisce come una nazione “senza un territorio compatto e senza la pretesa di avere un tale territorio” (quinto congresso dell‟Unione internazionale Rromani, Praga, luglio 2000). Le sue rivendicazioni non riguardano lo spazio, ma il diritto e la giustizia. Una proposta di statuto-quadro, elaborata dal RANELPI (Rete di attivisti rrom sulle questioni politiche e giuridiche) per l‟Unione Europea, definisce il popolo rrom come “un elemento costitutivo dell‟Europa, alla quale ha apportato un contributo umano, materiale, artistico, economico, militare e morale troppo spesso trascurato”. Questo popolo desidera “iscriversi in una dinamica progressista, orientata verso l‟integrazione sociale, l‟uguaglianza dei diritti, il rifiuto dell‟esclusione e il rispetto reciproco di tutte le identità rappresentate in Europa”. Ecco un documento che Nicolas Sarkozy sicuramente non si è preoccupato di leggere, e nemmeno certi politici che riprendono in coro i suoi discorsi apertamente razzisti e “rromofobi”. Come, ad esempio, Dominique Leclerc, senatore UMP (Unione per un movimento popolare) di Indre-et-Loire. La scena si svolge al Senato il 31 luglio 2002, nel corso dei dibattiti sulla accesso libero, equo e universale ai saperi cosiddetta legge Sarkozy: “Abbiamo parlato dei nomadi! Sono la piaga di domani. […] Costituiranno problemi enormi […]. Sono gente asociale, aprivativa [sic], che non ha alcuna radice e per cui le parole che noi usiamo non hanno significato. […] Noi, i sindaci, che facciamo ronde, che vediamo ogni notte tre, quattro o cinque camioncini di zingari che vengono a scopare - non ho altre parole - bambine di dodici o tredici anni fin sotto casa dei loro genitori, e questo non interessa a nessuno!”. Si può leggere nel resoconto ufficiale, a conclusione di questo elegante panegirico: “Sostegno ed applausi dalle file dell‟RPR, [Raggruppamento per la repubblica], dei Repubblicani ed Indipendenti, dell‟Unione centrista, ed anche su certi banchi del RDSE [Raggruppamento democratico e sociale europeo]”. Dal 2002, lo Stato francese tenta di criminalizzare i Rrom di Francia per poterli espellere più facilmente. Mentre per i cittadini europei “riconosciuti” i confini scompaiono, per i Rrom, così spesso discriminati e a cui i diritti più elementari sono costantemente negati, essi rimangono un autentico incubo… Sulla mappa quei confini sono i brutti sfregi rossi e neri. Il paese che non esisteva. Un desiderio di nazione Il paese che non esisteva. Un desiderio di nazione Esiste una linea nella sabbia che separa il Sahara occidentale dal Marocco? Ma sì! “C‟è effettivamente una linea che i Sahrawi non possono attraversare a meno che non accettino di diventare Marocchini…” Kamel Fadel, rappresentante del Fronte Polisario [3] in Australia. Ma accesso libero, equo e universale ai saperi no! “Neanche la migliore cartografia del mondo può negare con un semplice tratto la lotta legittima del popolo marocchino per il completamento della sua unità territoriale…” Un professore dell‟università di Casablanca. Ma sì! “Ho risolto la questione del Sahara occidentale che ci avvelenava da venticinque anni…” Mohamed VI, re del Marocco, in un esercizio di autosuggestione abbastanza ben riuscito, durante un‟intervista con i giornalisti de Le Figaro, settembre 2001. Le fortezze del mondo ricco. Un mondo vietato Le fortezze del mondo ricco. Un mondo vietato È strana questa paura paranoica dell‟invasione, questa volontà di “proteggersi” a tutti i costi dalle decine di milioni di esseri umani in miseria che, ogni anno, prendono la strada dell‟esilio verso le regioni ricche, che essi immaginano come terre di speranza. I ricchi, però, hanno deciso che questa parte di umanità è indesiderabile. Rinforzano le frontiere, erigono barriere invalicabili e costruiscono muri sempre più alti. In fondo si tratta di una vera e propria strategia di guerra, messa in atto per contenere l‟invasore minaccioso. Per effetto a catena, altri grandi paesi come il Brasile, la Cina o la Russia mettono in atto allo stesso modo una “fortificazione interna”, per tentare di limitare le migrazioni economiche dalle regioni povere verso le zone di forte crescita. Questi ostacoli fisici sono uno degli strumenti più efficaci per criminalizzare l‟immigrazione e giustificare l‟uso di espressioni come “immigrato illegale” o “clandestino” per chi trasgredisce la legge. Questi nuovi ostacoli, giuridici o fisici, permettono di creare in maniera artificiale accesso libero, equo e universale ai saperi nuove categorie di delinquenti: diventa così un crimine migrare per ragioni economiche, per raggiungere la propria famiglia o per richiedere asilo. Migliaia di morti alle porte dell’Europa. Un continente dalle molteplici frontiere Migliaia di morti alle porte dell’Europa. Un continente dalle molteplici frontiere Abbiamo composto questa carta per la prima volta nel 2003, grazie al meticoloso lavoro di Olivier Clochard, del laboratorio di Migrinter (Migrazioni internazionali, spazi e società, di Poitiers). Nella prima versione sfortunatamente le cifre erano notevolmente sottostimate. Aggiorniamo questo documento abbastanza di frequente e, sfortunatamente, ogni volta dobbiamo aggiungere punti neri, ogni volta dobbiamo cambiare le cifre in rosso. E mettere al loro posto cifre sempre più elevate. Il 1° gennaio 1993, Gerry Johnson, un cittadino della Liberia - paese in quel momento devastato da una sanguinosa guerra civile -, viene ritrovato morto, soffocato in un vagone-merci a Feldkirch, in Austria. Il 16 febbraio 2007, i guardacoste constatano la morte di ventiquattro persone, tra cui una donna, tutte originarie della Somalia - paese attualmente dilaniato e smembrato da una guerra sanguinosa - in seguito al naufragio della loro piccola imbarcazione, vicino all‟isola greca di Samo. Tra queste due date e questi due luoghi, circa altri 9.000 migranti - come minimo - hanno perso la vita tentando di raggiungere l‟Europa, terra di libertà e dei diritti dell‟uomo. accesso libero, equo e universale ai saperi Questa cifra spaventosa è fornita dall‟organizzazione non governativa United, che si basa sui rapporti giornalistici e sulle segnalazioni delle organizzazioni locali. Solo i decessi conosciuti figurano sulla carta, che rappresenta quindi solo una minima parte di un‟ecatombe ignorata. Questa carneficina è il risultato delle scelte dell‟Europa, che ha posizionato un po‟ dappertutto le sue “reti di protezione”. L‟ha fatto coscienziosamente, a partire da lontano, molto lontano dal suo proprio territorio: da Nouakchott a Tripoli, passando da Niamey e Agadir, l‟Europa si dota di una “pre-frontiera”. Già nel cuore del deserto, controlli polizieschi, espulsioni, raggruppamenti informali e primi campi. Il pericolo si ripropone presto per coloro che oltrepassano le maglie di questa prima barriera e arrivano alla vera “frontiera”, in assoluto la più mortale. Tutti quelli che sono riusciti a passare questa linea rossa, sopravvivendole, saranno attesi ai punti neri, nei cosiddetti campi di accoglienza, cioè alla “post-frontiera”. Ma non si muore solo arrivando. Si muore anche ripartendo, come Marcus Omofuma, cittadino nigeriano, che il 1° maggio 1999 è stato molto semplicemente assassinato (col viso quasi del tutto bendato) in un aereo della Balkan Air, da tre sadici poliziotti austriaci incaricati di scortarlo nel suo viaggio di ritorno, dopo che la sua domanda di asilo era stata rifiutata. Quando la storia scompiglia la geografia. Ridistribuzione dei confini europei Quando la storia scompiglia la geografia. Ridistribuzione dei confini europei I paesi dell‟Europa occidentale completano la loro “unità territoriale” raggruppandosi e compattandosi all‟interno dello spazio Schengen. In questo modo, essi danno l‟illusione di accesso libero, equo e universale ai saperi aprirsi agli altri e di facilitare la circolazione degli esseri umani. In verità, con questa zona di libera circolazione si rinchiudono su loro stessi, si ritraggono. Con un movimento pressoché simultaneo, gli ex-paesi comunisti dell‟Europa dell‟est viaggiano in senso contrario. Si frammentano in parti piccole o grandi, si separano come si divorzia consensualmente, e, di comune accordo, erigono nuovi confini. Quando la geografia scompiglia la storia. Dal Comecon allo spazio Schengen Quando la geografia scompiglia la storia. Dal Comecon allo spazio Schengen Ecco! Finalmente l‟Est è passato all‟Ovest... Le vecchie democrazie popolari, insieme a tre exrepubbliche sovietiche, sono state assorbite nello spazio Schengen, che si costruisce senza i suoi “estremi”. Ai margini dell‟Europa “schengenizzata”, gli esclusi sono innanzitutto i più ricchi, Svizzera e Liechtenstein in testa, seguite da Andorra, dal Vaticano, dal Regno Unito e dall‟Irlanda. Poi, i più poveri: la piccola enclave russa di Kaliningrad, l‟ex-Jugoslavia (eccetto la Slovenia), l‟Ucraina, la Moldavia... e la Georgia! Ebbene, i Georgiani sono ottimisti. Da loro, non un solo edificio pubblico ostenta una bandiera georgiana senza affiancarla a quella dell‟Unione europea. E, l‟anno scorso, sul parlamento erano i colori della bandiera europea a dominare... Non si potrebbe esprimere più chiaramente le proprie aspirazioni. Quando anche la Bulgaria e la Romania entreranno in Schengen, resteranno solo queste poche isole in Europa, più o meno grandi e isolate. accesso libero, equo e universale ai saperi Nel settembre 2007, l‟Unione europea (UE) firmava un accordo di liberalizzazione parziale del regime dei visti per alcuni paesi balcanici, tra cui la Macedonia. C‟è, però, un‟importante eccezione: la Grecia che, anche se membro dell‟UE, applica gli accordi Schengen... eccetto che per i cittadini macedoni, dai quali esige uno specifico visto greco. In modo del tutto illegale. È vero che esiste qualche dissapore tra questi due paesi, ma questo è davvero un colpo basso... La grande ruota La grande ruota Scambi euro-africani: l‟Africa salva l‟Europa, che impoverisce l‟Africa, che nutre l‟Europa, che schiavizza l‟Africa, che paga l‟Europa, che continua a saccheggiare l‟Africa... In Mali, all‟inizio del 2006, una radio ha messo in scena un falso processo alla Banca mondiale e al Fondo monetario internazionale (FMI). Questo episodio in seguito è stato ripreso da un adattamento cinematografico esilarante, “Bamako” di Abderrahmane Sissako. Le autorità finanziarie internazionali ridicolizzate. Tutto questo potrebbe in effetti essere divertente, se le conseguenze delle loro successive politiche non fossero state assolutamente reali e così disastrose per il continente africano. Gli aggiustamenti strutturali imposti dalle istituzioni di Washington per “risanare” le economie hanno distrutto l‟Africa. All‟inizio del XXI secolo, la Banca mondiale ha riconosciuto di essersi sbagliata e ha pubblicato un comunicato stampa di circa dieci righe che annunciava l‟abbandono di questi piani, sottolineandone “gli effetti negativi”, riconoscendo che “la situazione dello sviluppo umano in Africa si è degradata” e scusandosi “dei disagi provocati alle popolazioni dei paesi che ne erano accesso libero, equo e universale ai saperi state vittime”. A Washington ci si scusa per dei “disagi” che hanno ucciso centinaia di migliaia di persone, derubato le popolazioni, distrutto le economie e annientato branche intere del settore pubblico. Si è così passati al “Quadro strategico di lotta alla povertà” (CSLP), una nuova impostura inventata e promossa dalle stesse autorità, a spese della stessa popolazione e che conduce alle stesse impasse. L‟America fa generosamente dono all‟Africa delle geniali politiche della Banca mondiale e dell‟FMI. In cambio, l‟Africa dà petrolio e minerali. Da parte sua, l‟Europa offre orgogliosamente le politiche di aiuto allo sviluppo della Commissione europea, che non valgono molto di più. Cosa che il sociologo svizzero Jean Ziegler sosteneva in Libération (ottobre 2007): “L‟Europa favorisce la fame in Africa”, scriveva. Cosa a cui Peter Mandelson e Louis Michel, commissari europei, risposero che “solo gli accordi di partenariato economico (APE ) permettono la crescita e lo sviluppo del benessere in Africa”. Dietro questa bella espressione che coniuga le parole lusinghiere di “partenariato” e “accordi” si nasconde un temibile strumento di dominazione, che permette alle potenze occidentali di esercitare un certo controllo sull‟economia africana, e alle multinazionali di attingervi tutto ciò che c‟è di valore. In cambio, l‟Africa dà petrolio e minerali. Anche la Cina rinforza i suoi rapporti con l‟Africa. Essa ha di recente dato prova del suo senso dell‟umorismo, accordando alla Repubblica democratica del Congo un prestito di 5 miliardi di dollari per lo sviluppo delle infrastrutture di trasporto e di produzione mineraria, togliendo così il terreno da sotto i piedi all‟FMI... Il quale ha qualche difficoltà a rimettersi da questo scherzo, ora che i suoi progetti nella regione sono compromessi. In cambio, l‟Africa dà petrolio e minerali. È dunque solo questo tutto ciò che l‟Africa ha da offrire? Se ne sa poco, ma l‟Africa offre anche cultura, musica e teatro. Diplomati, professori ed esperti. Studenti, lavoratori qualificati e intellettuali. Scrittori. Molti altri esseri umani che l‟Europa rinvia in aereo talvolta legati come salami, se non in una bara. Le parole di conclusione sono affidate a Eva Joly, ex-giudice istruttore franco-norvegese, che, in un capitolo del suo ultimo libro (La force qui nous manque, [La forza che ci manca], Les Arènes, Parigi, 2007) intitolato molto a proposito “Giustizia per l‟Africa”, esclama: “Chi contesterà i contratti conclusi da Areva per l‟uranio in Niger o da Sadiola per le miniere d‟oro in Mali, da Elf-Total in Nigeria o in Gabon per il petrolio? Paesi tra i più poveri del globo che toccano solo una parte derisoria delle ricchezze prelevate dai loro suoli? La Repubblica [francese] ha contratto un debito che dovrà onorare. La nostra prosperità è nutrita dalla ricchezze che noi rubiamo. A qualcuno di questi migranti clandestini che rischiano la vita per raggiungere l‟Europa, si potrebbe offrire una rendita invece dell‟avviso di espulsione. Io sogno [per la Francia] un risveglio collettivo...” accesso libero, equo e universale ai saperi Quando Vienna ha appuntamento con l’Africa. Popolazione africana in Austria per paese di provenienza Quando Vienna ha appuntamento con l’Africa. Popolazione africana in Austria per paese di provenienza Circa 21.000 Africani vivono oggi in Austria. Nel 1991, se ne contavano 8.500. Un po‟ più della metà vive a Vienna e nelle zone limitrofe. A questo numero bisogna aggiungere circa 19.000 persone originarie dell‟Africa che sono state naturalizzate, per un totale di circa 40.000 persone. Tendiamo a dimenticarlo: l‟Africa non è una, ma è multipla. E la comunità africana che vive in Austria non è una, ma multipla. Essa raccoglie una popolazione molto varia che proviene da tutti i paesi dell‟Africa, e che costituisce un‟innegabile ricchezza umana e culturale. La maggioranza viene dalla Nigeria, dall‟Egitto, dal Gana, dalla Tunisia, dal Marocco, dall‟Algeria, dal Sud Africa e dal Camerun. Non tutti sono rifugiati, esiliati o bisognosi, non tutti sono fuggiti dalle guerre, dalla povertà o dai disastri ambientali... E non sono neanche tutti drogati, spacciatori, ladri o ricettatori. Tra di loro ci sono anche insegnanti e diplomati. Lavoratori, scienziati, studenti o membri delle organizzazioni internazionali. In Austria sono tutti, spesso e senza distinzioni, vittime di discriminazioni, talvolta estremamente brutali. Questo razzismo ordinario, essenzialmente fondato sulla criminalizzazione generale della popolazione africana, è radicato nel pensiero popolare. Esso è nutrito e diffuso da media compiacenti. accesso libero, equo e universale ai saperi Marcus. Sotto la minaccia di violenze etnico-religiose Marcus. Sotto la minaccia di violenze etnico-religiose Marcus ha solo sette anni quando è oggetto per la prima volta di discriminazioni brutali. Siamo a Yola, capitale dello Stato di Adamawa, nel nord-est della Nigeria. Sua madre è morta da molto tempo e il suo padre biologico è sconosciuto. Marcus vive dal patrigno, che lo caccia da casa... Il suo crimine? Essere cristiano. Il suo patrigno è musulmano. E il bambino non ha nessun posto dove andare. La storia di Marcus si iscrive in un contesto di violenze etnico-religiose che, da una ventina di anni, ha provocato la morte di una decina di migliaia di persone nell‟intera Nigeria, dove circa il 50% della popolazione è musulmana e il 40% cristiana. A Yola (ma anche in altre città, come Numan, nello stesso Stato), le violenze religiose sono regolari. Marcus, cacciato dalla sua casa, dorme ormai nel garage in cui lavora. Per un certo periodo viene accolto da una giovane donna di venticinque anni che ha incontrato in chiesa; ma è costretto a tornare a dormire nel garage quando il suo patrigno comincia a minacciarla seriamente. Nei cinque anni che seguono vive in questo modo, dormendo tra le macchine in riparazione e lavandosi nel fiume. All‟epoca ha 13 anni e migra verso il mercato, nella speranza di trovare dei piccoli lavori, ma è vittima di gang che non gli permettono di restare. Allora ritorna alla chiesa, dove i preti tentano di convincerlo a tornare dal suo patrigno; quest‟ultimo sarebbe pronto ad accettarlo, a condizione però che diventi musulmano. Marcus si accesso libero, equo e universale ai saperi rassegna e alla fine accetta il compromesso, ma qualche giorno più tardi ritratta. È di nuovo cacciato da casa. Questa volta, la situazione e molto più grave: poiché Marcus è ormai adolescente, il patrigno non accetta l‟affronto. Il ragazzo vive metà del suo tempo per strada e l‟altra metà nella chiesa. Un giorno, un gruppo di uomini, amici del suo patrigno, lo avvicinano. Sono venuti a ucciderlo. Marcus ha giusto il tempo di vederli sfoderare le lame dei coltelli e di fuggire via il più velocemente possibile. Deve la vita alla sua velocità. I preti della chiesa dove si è rifugiato organizzano subito una fantastica catena di solidarietà per portarlo fuori dalla città e metterlo al sicuro. Viene nascosto nel bagagliaio di una macchina che parte nel mezzo della notte in direzione di Port Harcourt, da dove è immediatamente trasferito in un cargo con destinazione Europa. Il viaggio, interminabile, durerà sei settimane, durante le quali Marcus non uscirà mai dalla stanza in fondo alla stiva dove è recluso. I ricordi di Marcus circa il suo arrivo sono molto incerti. Si ricorda di un grande porto – Rotterdam o Amburgo -, della pioggia e di migliaia di container. Deve passare il più possibile inosservato. È tutto quello che si ricorda. Viene affidato a un uomo, che rimane in silenzio durante il tragitto, con cui prende il treno per Vienna, via Monaco. Alla stazione, un altro intermediario lo prende in carico e lo accompagna fino al campo di Traiskirchen, dove la polizia gli dice che è in Austria. “Il freddo percuoteva violentemente il mio corpo, racconta Marcus, e questo campo non è di sicuro il luogo più allegro del mondo, ma al mio arrivo, dopo il viaggio estenuante, faceva caldo, c‟era il necessario per dormire e mangiare, e, soprattutto, mi era permesso restare senza essere minacciato di niente...”. accesso libero, equo e universale ai saperi Daniel. L’Austria per caso Daniel. L’Austria per caso La storia di Daniel comincia nel piccolo villaggio di Boya, nel sud del Camerun. Nato nel 1981, compie studi scientifici all‟università e poi torna al villaggio, dove non gli si offre alcuna prospettiva. Nel 2004, dopo un primo tentativo fallito, decide di compiere il grande passo e di lanciarsi nell‟avventura europea. Destinazione Bochum, in Germania, dove vive una sua amica. Prima tappa: Yaoundé, per ottenere il sesamo magico, un visto Schengen. Il visto gli viene rifiutato in diversi consolati (di Germania, Spagna e Italia) prima di ottenerlo finalmente in quello francese. Daniel, però, è rimasto diversi giorni nella zona della “strada delle Ambasciate”, luogo conosciuto dai poliziotti corrotti che vi impongono un racket ai danni dei candidati all‟esilio, condannati a dormire per strada in attesa dell‟ipotetico documento che apre le porte dell‟Europa. Daniel non vi scappa ma, fortunatamente, conserva una parte del suo denaro nascosto nelle scarpe. Di ritorno a Boya, deve raggiungere un porto nigeriano. È impossibile passare per la frontiera terrestre: il viaggio avverrà dunque via mare. Due ore di motoscafo lo portano fino a Malabo, in Guinea Equatoriale; da lì, un‟altra barca lo porta in Nigeria, dove incontra il suo “scafista”. Chiuso nel fondo della stiva di un cargo, impiega una settimana per raggiungere Accra, nel Gana, e si imbarca sul volo regolare di Air France per Parigi. accesso libero, equo e universale ai saperi A Parigi, il suo destino precipita. Per una serie di casi infelici, non raggiungerà mai la città tedesca di Bochum. L‟impiegato dello sportello della gare du Nord gli vende un biglietto per la Germania, ma via Svizzera anziché via Belgio. Daniel cambia stazione, prende il treno ed è respinto alla frontiera svizzera, dove il suo visto non è valido. Torna a Parigi dove, per la seconda volta, gli viene venduto un biglietto... per l‟Italia, mentre credeva di partire per Bochum. Arrivato nella stazione di Milano, non capisce nulla, non sa dov‟è... Vaga due giorni per la stazione, vende i suoi vestiti per potersi comprare un biglietto del treno e poi del bus per Innsbruck, che finalmente raggiunge dopo aver compiuto a piedi l‟ultima decina di chilometri. Passerà ancora una settimana in stazione e dormirà, con un freddo glaciale, in uno stadio di calcio, prima che un passante gli consigli di recarsi al posto di polizia. Passa allora ventiquattro ore in prigione, poi viene trasferito per due mesi a Salisburgo in un centro per richiedenti asilo, dove resterà tre mesi in condizioni sociali e sanitarie che definisce “atroci”. In seguito viene trasferito per due mesi al centro di Traiskirche, vicino a Vienna, e ritorna in Bassa Austria dove, vivendo in una pensione lontana dal centro della città, aspetta ancora che la sua domanda di asilo venga accettata. Alla fine, il viaggio di Daniel è durato due anni. Djewe. Solo andata Djewe. Solo andata La storia di Djewe è spettacolare, ma non tanto per la complessità dell‟itinerario compiuto: il suo è stato abbastanza semplice, un volo diretto Africa-Europa... No, la storia di Djewe è incredibile piuttosto per la catena di avvenimenti che hanno impedito il suo ritorno in Camerun. accesso libero, equo e universale ai saperi Nel 1995, Djewe viene invitato in Austria per partecipare a un congresso. Deve presentarvi la situazione del giornalismo in Camerun, caratterizzata soprattutto dalla difficoltà di esercitare questa attività in modo indipendente in un paese dove la repressione è feroce. Munito del suo visto Schengen, si imbarca sul volo regolare di Air France diretto a Parigi, Charles de Gaulle, dove lo aspetta la corrispondenza per Vienna. Allo sbarco dall‟aereo, però, viene fermato e maltrattato dai doganieri per alcune ore, perde la corrispondenza, per poi essere alla fine dirottato su un altro aereo. Il congresso dura una settimana, durante la quale tutto ha luogo normalmente... Quando tutto si è concluso, Djewe si reca all‟aeroporto in largo anticipo per imbarcarsi con calma. Improvvisamente, si sente chiamare dagli altoparlanti del terminal e si presenta all‟ufficio informazioni, dove la hostess gli dà un pezzo di carta con un messaggio e un numero di telefono da richiamare con urgenza. Sono gli organizzatori del congresso che lo supplicano di non salire sull‟aereo. Delle informazioni provenienti dal Camerun lasciano pensare che sarà catturato dalla polizia all‟arrivo a Douala e rinchiuso in prigione. Più tardi saprà che nello stesso momento sua madre veniva arrestata e imprigionata. È tutta una catena di avvenimenti, come in un in brutto sogno: l‟aereo decollerà dopo tre minuti, ci sono ancora da passare i controlli di sicurezza e c‟è da raggiungere il gate di imbarco. Djewe ha esattamente tre minuti per decidere del proprio destino. Le opzioni? Rinunciare a rivedere la propria famiglia e gli amici per anni, perdere il lavoro, ma avere la certezza di continuare a vivere, oppure tornare nel proprio paese e rischiare di farsi uccidere nelle sinistre prigioni di Paul Biya. In quel momento Djewe decide di “mancare” il proprio aereo e si reca in centro città per presentarsi all‟ufficio dei richiedenti asilo. Comincia un anno da incubo. Deve instancabilmente provare che la sua vita è in pericolo in Camerun ad agenti dell‟amministrazione austriaca, che continuano a non credergli e che non smettono di provare a intrappolarlo con domande contraddittorie. Eppure è aiutato da colleghi austriaci che testimoniano per lui. La sua prima domanda di asilo è respinta. Fa appello e ottiene infine, qualche mese più tardi, una risposta positiva. Da allora Djewe, perfettamente integrato, vive e lavora a Vienna, munito di un titolo di soggiorno illimitato... accesso libero, equo e universale ai saperi Gabriel. Un’epopea nell’Africa occidentale Gabriel. Un’epopea nell’Africa occidentale Gabriel, originario della Guinea Bissau, porta a termine i suoi studi di medicina all‟università di Lomé (Togo). È membro attivo dell‟Unione delle forze di cambiamento (UFC), partito che si oppone al generale Eyadema, che all‟epoca governa il paese con il pugno di ferro. Durante una notte di repressione, però, Gabriel è minacciato e deve fuggire in macchina verso il Benin. Poi, continua la sua fuga in taxi collettivo verso il Burkina Faso via Niamey (Niger). Resta sei mesi in Burkina Faso, dove lavora nei mercati di Ouagadougou e di Koudougou. Successivamente, riparte per Bamako, in Mali, dove per un anno vive di nuovo di piccoli lavori. Infine raggiunge Conakry, in Guinea, dove fonda una clinica privata. Ci resterà circa quattro anni, e sarà tra l‟altro ingaggiato come medico volontario per lavorare nei campi di rifugiati di Cancan e Nzérékoré. Siamo allora nel mezzo della guerra in Sierra Leone e in Liberia: centinaia di migliaia di persone fuggono verso la Guinea per scappare ai combattimenti e al terrore. Vittima di racket, Gabriel deve lasciare Conakry. Raggiunge Bissau, dove lavorerà per un anno per conto di missionari brasiliani. Diviene responsabile dell‟organizzazione dei giovani del Partito della rinnovazione sociale (PRS) del presidente Kumba Yala, rovesciato poi nel settembre 2003. Gabriel è allora arrestato e trasferito in una prigione militare. Un giorno, i prigionieri sono portati nella boscaglia, e, per una coincidenza straordinaria, arrivano proprio vicino a Obiam, il villaggio di cui Gabriel è originario. Conosce la regione come le sue tasche. accesso libero, equo e universale ai saperi Dopo essere riuscito a scappare ai suoi carcerieri, raggiunge la capitale, distante quaranta chilometri, a nuoto e a piedi. Viene nascosto presso i missionari brasiliani e spedito la notte stessa su un piccolo peschereccio verso la Casamance. Da Ziguinchor raggiunge Dakar in un taxi collettivo. Prosegue il suo viaggio e si ferma quattro mesi nelle isole di Capo Verde. Di ritorno in Senegal, si nasconde di nuovo da altri missionari per un mese, il tempo di far fare un visto Schengen. Perché l‟Austria? “Mi sono ricordato dei miei corsi di storia, della prima guerra mondiale e dell‟impero austro- ungarico”, spiega... Si imbarca su un volo regolare di Alitalia per Roma con una corrispondenza per Vienna, tutto questo dopo essersi preoccupato di effettuare una prenotazione a suo nome per tutt‟altro tragitto, al fine di confondere le tracce... Sbarca quindi regolarmente in Austria e incontra per caso a Vienna quello che chiamerà “il suo piccolo angelo”, una persona che si prenderà cura di lui, gli darà alloggio e lo aiuterà a compiere tutte le pratiche per la domanda di asilo. Gabriel subirà più volte la brutalità della polizia viennese. Alla fine, la sua epopea sarà durata dieci anni. accesso libero, equo e universale ai saperi Pregiudizi e stereotipi Il termine stereotipo ( dal greco stereòs = rigido e tòpos =impronta), utilizzato in ambiente tipografico per indicare la riproduzione di immagini a stampa per mezzo di forme fisse, venne introdotto per la prima volta nelle scienze sociali da Walter Lippmann nell‟ambito di uno studio sui processi di formazione dell‟opinione pubblica (1922). Secondo Lippmann il rapporto conoscitivo con la realtà esterna non è diretto ma mediato dalle immagini mentali che di quella realtà ciascuno si forma. Tali immagini (gli stereotipi appunto) altro non sono se non delle semplificazioni grossolane e piuttosto rigide che il nostro intelletto costruisce quali “scorciatoie” per comprendere l‟infinita complessità del mondo esterno. Questo processo di semplificazione e il suo esito non dipendono da un‟arbitraria decisione individuale ma da modalità stabilite culturalmente dal gruppo. Proprio per questo loro carattere di costruzione mediata socialmente, gli stereotipi rivestono una funzione in qualche modo difensiva dell‟identità del gruppo che li ha prodotti poiché concorrono al mantenimento del sistema (sociale) che li ha generati. Per capire più a fondo il modo di funzionamento degli stereotipi è necessario inoltre tener conto di alcune importanti variabili rispetto alle quali essi possono venire distinti: Gli stereotipi possono essere caratterizzati da diversi livelli di condivisione sociale ossia, ad esempio nel caso dello stereotipo etnico, l‟immagine che un gruppo si fa di un altro può essere più o meno diffusa fra i suoi componenti; Gli stereotipi possono essere caratterizzati da diversi livelli di generalizzazione: ad esempio, sempre nel caso dello stereotipo etnico, data una certa immagine di un gruppo, si può essere convinti che pressoché tutti gli individui appartenenti a quel gruppo possiedano le caratteristiche che lo contraddistinguono, oppure che sussistano talmente tante eccezioni che è necessario stabilire volta per volta quanto l‟individuo che si ha di fronte corrisponda allo stereotipo stesso; Infine gli stereotipi possono essere più o meno rigidi, ossia più o meno mutabili. Etimologicamente il termine pre-giudizio si riferisce ad un giudizio precedente all‟esperienza, emesso cioè in assenza di dati sufficienti e quindi potenzialmente errato. Nell‟ambito delle scienze sociali il concetto di pregiudizio si arricchisce di due ulteriori specificazioni: da una parte esso viene sempre più spesso utilizzato in riferimento a gruppi sociali generalmente minoritari, dall‟altro viene identificato con un giudizio sfavorevole nei confronti del gruppo -o individuo- oggetto del pregiudizio stesso. Secondo questa definizione il pregiudizio sarebbe allora una predisposizione a percepire, giudicare e agire in maniera sfavorevole nei confronti di gruppi diversi dal proprio. Caratteristica saliente del pregiudizio - sia nell‟accezione più ampia di giudizio precedente accesso libero, equo e universale ai saperi all‟esperienza che in quella sociologica di atteggiamento sfavorevole nei confronti di altri gruppi- è il suo essere d‟orientamento per l‟agire concreto. Termine introdotto nel 1906 dal sociologo e antropologo americano W.G. Sumner (18401910), designa una concezione per la quale il proprio gruppo è considerato il centro di ogni cosa e tutti gli altri sono classificati e valutati in rapporto a esso. L‟etnocentrismo comporta una prospettiva secondo cui tutte le società vengono collocate lungo una scala evolutiva in cui le società occidentali, civilizzate, sviluppate e modernizzate occupano il gradino più alto, mentre le società "primitive", tradizionali e sottosviluppate occupano il gradino più basso e non hanno ancora subito le necessarie trasformazioni che, attraverso uguali processi evolutivi, le innalzino sino a noi. Questa attitudine all‟autopreferenza di gruppo è universalmente osservabile in tutte le società e può esemplificarsi in atteggiamenti diversi: nella tendenza a valutare ogni cosa secondo i valori e le norme proprie al gruppo d‟appartenenza del soggetto, come se questo fosse l‟unico; nella tendenza propria ai membri di ogni gruppo umano a credersi migliori dei membri degli altri gruppi; nella tendenza a manifestare atteggiamenti favorevoli nei confronti del gruppo di appartenenza, combinati ad atteggiamenti sfavorevoli nei confronti di quanti non vi appartengano, spesso accompagnati da pregiudizi e stereotipi negativi. Il razzismo come teoria organica e come movimento organizzato è un fenomeno recente e affonda le sue radici nel nascente nazionalismo europeo della seconda metà del XIX sec. Precursore del moderno razzismo fu il francese J. A. Gobineau (Saggio sull'ineguaglianza delle razze umane, 18531855), cui si dovettero la prima interpretazione razziale della storia e la tesi della necessaria supremazia della razza bianca pura, o razza ariana, identificata con i "Germani" in senso stretto (biondi dolicocefali del Nord della Francia, del Belgio e delle Isole Britanniche). Il razzismo a base biologica, così come propinato da J. Gobineau è oggi totalmente in disuso, almeno dal punto di vista della teoria. Lo stesso concetto di razza, fondato su presunte differenze biologiche è senza alcun senso. Come sostengono L. ed F. Cavalli Sforza (Chi siamo. La storia della diversità umana, Mondadori, Milano, 1995) “i gruppi che formano la popolazione umana non sono nettamente separati, ma costituiscono un continuum. Le differenze nei geni all‟interno di gruppi accomunati da alcune caratteristiche fisiche visibili sono pressoché identiche a quelle tra i vari gruppi e inoltre le differenze tra accesso libero, equo e universale ai saperi singoli individui sono più importanti di quelle che si vedono fra gruppi razziali.(...)”. Il razzismo “riconosce”ed anzi "esaspera" le differenze: lo scopo del riconoscimento e della "valorizzazione delle differenze" è il dominio, il permanere di una relazione di dominio quale quella tra accusatore e vittima. Apice del razzismo è la produzione di un discorso capace di persuadere il diverso a cui si riferisce di essere realmente "inferiore". Tuttavia, se è vero che il razzismo (soprattutto a base genetica) non trova oggi difensori è anche vero che forme di razzismo operano pressoché ovunque nel mondo, esprimendosi in particolare nel vissuto quotidiano. Il razzismo oggi è la posizione di chi ritiene necessario difendere e/o preservare le differenze culturali dai processi di massificazione ed omogeneizzazione tipici delle società occidentali e per questo, anche “per il bene” delle culture altre, pensa che le società non debbano in nessun modo essere multiculturali o interculturali e che quindi le differenze e le alterità vanno difese ma, proprio per questo... ognuno a casa propria. In sede educativa e sociale il rischio di questo velato razzismo è che tende a concretizzarsi in una specie di apartheid dove le culture altre sono sì riconosciute ma "recintate" e conservate in appositi contenitori sociali senza possibilità significative di interagire sia tra loro che con le culture autoctone in vista della costruzione di una società intesa come "casa comune" ove ad ognuno competono uguali diritti ed uguali doveri. accesso libero, equo e universale ai saperi LE DIMENSIONI DEL FENOMENO A causa di migrazioni interne allo stesso paese o internazionali, sono quasi un miliardo le persone che oggi nel mondo si trovano a vivere in una regione diversa da quella di nascita. Un miliardo significa un migrante ogni sei persone sulla terra. Le migrazioni internazionali, quelle che comportano la condizione dell'essere e del rimanere stranieri ("non nazionali") in uno Stato di cui non si ha la cittadinanza, riguardano una cifra meno impressionante, ma in ogni caso notevole: più di 100 milioni di persone. Di queste (130 milioni alla fine del '98), l'Unione Europea ne registrava dentro i suoi confini 19.000.000 (il 14%) e l'Italia 1.250.000 (lo 0,9%). Tra gli stranieri residenti nei vari Paesi dell'Unione Europea si fa spesso distinzione tra "comunitari" (cittadini di uno o l'altro degli Stati che aderiscono all'UE) e noncomunitari" (cittadini di Paesi che non aderiscono all'UE). In Italia viene spesso usato il termine extracomunitari per definire gli immigrati. Extracomunitari: "è una parola che abbiamo inventato noi, in italiano (in altre lingue non si trova quasi mai: piuttosto extraeuropei); e forse perché goffa, impronunziabile, troppo lunga e burocratica, è entrata nell'uso. ...Questo temine accomuna, con un duplice meccanismo: ci fa sentire, "noi", parte della Comunità Europea; e segnala che gli altri sono, a loro volta accomunati dall'extra: esterni". (da: L. Balbo e L. Manconi, I razzismi reali, op, cit. p.59) Le migrazioni non hanno una direzione obbligata "Sui circa 105 milioni di migranti sparsi nel mondo, più della metà vivono nei paesi poveri, anche se sono quelli ricchi a lamentarsi di più. Immigrati al 31/12/1985 Austria 308.800 Belgio 860.600 Danimarca 117.000 Finlandia 17.000 Francia 3.594.000 Germania 4.512.700 Grecia 111.100 Irlanda 91.300 Italia 318.700 Lussemburg 101.600 o Paesi Bassi 552.500. Portogallo 79.600 Regno 1.785.000 Unito Spagna 293.200 Svezia 390.800 Immigrati al 31/12/1998 739.837 864.616 256.276 85.060 3.970.786 7.365.833 161.148 111.100 1.250.214 152.900 662.372 177.774 2.120.600 719.647 532.000 accesso libero, equo e universale ai saperi In particolare l'Italia, rispetto a poco più di un milione di stranieri, conta ancora cinque milioni di italiani sparsi nel mondo. L'emigrazione italiana, definita da qualche studioso "madre di tutte le migrazioni moderne", serve a ricordare che l'Italia ha fatto e resta parte di questo contesto internazionale con 30 milioni di espatri nel corso di un secolo, quasi mezzo milione di pensioni in pagamento all'estero e ben 60 milioni di oriundi. Lo stesso avviene per i 26 milioni tra rifugiati e altre categorie assistite dall'Alto Commissariato delle Nazioni Unite all'inizio del 1996. L'Europa occidentale, nel corso degli anni 90 ha visto aumentare di dieci volte le persone da assistere (attualmente quasi otto milioni), tuttavia accoglie solo il 29% dei rifugiati, un compito tutto sommato più agevole rispetto a quanto si fa in altre parti del mondo. Basti pensare che i paesi dell'ex area sovietica sono alle prese con più di 3.600.000 persone tra rifugiati, sfollati e trasferimenti involontari. In Italia, i richiedenti asilo sono stati nel 1995 appena 1.732, in prevalenza dall'Africa e dall'Europa dell'Est, mentre i titolari di permesso di soggiorno, concessi nel corso di questi anni per motivi umanitari, sono risultati 56.000". (Da: Caritas di Roma, Dossier statistico sull'immigrazione 1996). U.E. 13.133.900 19.170.163 1.1 - L'immigrazione in Italia: dati e sensazioni L'Italia da paese d'emigrazione (si calcola che non meno di 9 milioni di italiani non hanno più fatto ritorno in patria durante gli ultimi 100 anni) è diventata, a partire dagli anni '70, un paese di immigrazione, che accoglie soprattutto stranieri provenienti dal Sud del mondo. Nella danza dei numeri sono state indicate le cifre più disparate, spesso basate su un eccessivo allarmismo. Gli unici dati ufficiali cui fare riferimento sono quelli forniti annualmente dal Ministero degli Interni e che indicano il numero degli stranieri presenti in Italia, ad una certa data e con regolare permesso di soggiorno. Ebbene, gli stranieri presenti in Italia con regolare permesso di soggiorno, al 31 dicembre 1999, sono 1.251994. Se da questa cifra sottraiamo gli europei, gli americani e gli svizzeri., ricaviamo che gli immigrati in senso stretto, cioè coloro che provengono da Paesi del Sud del mondo, in cerca di lavoro e di condizioni di vita migliori, sono 1.032.262. Questi ultimi non costituiscono pertanto numericamente quell' "esercito" di cui la maggioranza degli organi di stampa parla. Anche aumentando del 10 - 20 % il numero per includervi gli irregolari, la percentuale di immigrati provenienti dal Sud del mondo sul totale della popolazione italiana (circa 57 milioni di abitanti) non arriva a superare il 2%. Le contenute dimensioni del fenomeno contrastano con l'innegabile preoccupazione con la quale governo ed opinione pubblica guardano all'immigrazione, preoccupazione che deriva non tanto dall'imponenza del fenomeno, quanto dalle deficienze croniche delle strutture pubbliche e dalle ormai storiche contraddizioni del nostro sistema economico che il flusso immigratorio porta allo scoperto. Per quanto riguarda gli Stati dell'Est, è da rilevare che, dopo una prima impennata del flusso migratorio in direzione Est - Ovest, causata dalla libertà di espatrio riconosciuta ai cittadini dell'Est solo a partire dagli anni 90, i flussi migratori si sono poi assestati e non é stata registrata quell'invasione che il crollo del muro di Berlino aveva fatto temere. accesso libero, equo e universale ai saperi MIGRAZIONI: UNA REALTA’ DI SEMPRE La storia dell‟uomo è caratterizzata da una costante mobilità di singoli, di gruppi, talvolta di interi popoli, da una regione all‟altra della terra, alla ricerca di migliori condizioni di vita. Se quella economica fu la causa prima dei movimenti migratori, accanto ad essa altre ragioni diedero impulso al fenomeno: guerre, conflitti sociali, intolleranza religiosa. Dalla diaspora del popolo ebraico, conseguente alla conquista romana della Palestina, fino al dramma recente dei popoli curdo, vietnamita, tamil, eritreo: la storia del genere umano è segnata da questi dolorosi spostamenti collettivi. Risalendo alla preistoria, nell'era quaternaria, con la fine delle glaciazioni si assiste all'interno del nostro Continente ad un aumento delle genti provenienti da Asia e Africa. Nel II° millennio a. C. i due fenomeni migratori più importanti sono legati a due gruppi etnico- linguistici: i semiti e gli indoeuropei. I primi, provenienti forse dalla penisola arabica, penetrarono in Mesopotamia imponendosi alle popolazioni sumeriche. Da allora in poi l'elemento semita prevarrà nel Vicino Oriente dando origine anche alle lingue della zona. accesso libero, equo e universale ai saperi 49.808 Sicilia 15.315 Calabria Puglia Basilicata 3.110 35.565 68.159 Campania 2.039 Molise 18.933 Abruzzo 35.777 Marche Lazio Umbria 26.068 114.972 Toscana 38.784 Liguria 113.048 43.432 Friuli V.G. Emilia Romagna Fonte: Caritas di Roma Veneto Trentino A.A. Lombardia Valle d'Aosta Piemonte 2.494 31.799 83.811 139.522 245.666 308.408 stranieri con permesso di soggiorno al 31/12/2000 “Migrare é una caratteristica di molte specie animali, uomo compreso. Gli individui umani da tempo immemorabile si sono mossi in gruppi di luogo in luogo alla ricerca di alimenti o per evitare pericoli. Leggende e resti archeologici diversi dimostrano le tracce di antichi movimenti. La diffusione stessa dell'umanità primitiva dalla culla africana all'Eurasia é un fenomeno migratorio che col passare delle generazioni ha plasmato le diverse popolazioni adattandole alle differenti condizioni ambientali. I fenomeni migratori hanno trasformato le terre e i continenti e la composizione biologica, etnica e linguistica dei loro abitanti. Anche se negli ultimi 400 anni le grandi ondate migratorie sono state principalmente operate dalla sottospecie caucasica, altre popolazioni vi hanno contribuito e per il passato esistono documenti che attestano migrazioni di interi popoli. Da un punto di vista psicologico é interessante una distinzione tra gli individui migranti e i cosiddetti sedenti, distinguere cioè quelli più inclini, a parità di condizioni, a rimanere nell'area in cui sono nati e cresciuti rispetto a quelli più interessati a muoversi in altri territori. Le basi biologiche di questo spirito migratorio sono presenti in tutte le specie animali e sono legate, a livello individuale, allo spirito di ricerca del partner o a migliori mezzi di sussistenza, e a livello collettivo, alla ricerca di migliori fonti alimentari e di condizioni climatiche più idonee. Nell'uomo i movimenti migratori sono il risultato anche di pressioni;motivate da differenze economiche fra popolazioni e sono l'espressione di un trend verso una equalizzazione di tale diversità. Le tendenze migratorie di una popolazione possono essere stimolate quando le risorse disponibili sul territorio sono state ridotte a causa di disastri climatici e di altre calamità. Altro importante fattore é l'eccessiva crescita della popolazione. Il fenomeno migratorio si é verificato in tutti i tempi, fin da quando le prime forme umane si originarono in Africa tre o più milioni di anni fa, anche se non come processo continuo. Le motivazioni sono la causa di molti cambiamenti, anche recenti, nelle caratteristiche fisiche delle popolazioni umane. Vi sono comunque quattro tipi di movimenti nello spazio delle popolazioni: - i movimenti migratori tribali e la conquista di nuovi territori: questo processo in epoche attuali ha la sua continuità nelle occupazioni militari e nella colonizzazione; - il trasferimento forzato di popolazioni, inclusa l'acquisizione di prigionieri, il trasferimento di schiavi e l'espulsione di minoranze per ragioni politiche o religiose; - il movimento di persone per contratti di lavoro o per accordi prefissati; - il libero movimento di individui. Il termine di migrazione viene generalmente riferito al libero movimento di individui, ma gli altri tipi di movimento stati forze altrettanto importanti nel determinare la distribuzione attuale delle popolazioni umane sul Globo." (Da Brunetto Chiarelli, Migrazioni. Antropologia e storia di una rivoluzione in atto. Firenze, Vallecchi, 1992, p. 5-6) accesso libero, equo e universale ai saperi Gli Indoeuropei provenienti dalle steppe danubiane si sovrapposero e si mescolarono alle popolazioni indigene dell‟Europa centrale e meridionale, dando origine a grandi civiltà come quella greca. Anche il Medioevo vide imponenti on-date migratorie che, dal Nord Europa e da diverse regioni asiatiche, si spinsero verso le terre più fertili del Continente e che per alcuni secoli provocarono conflitti anche cruenti con le popolazioni locali. Più tardi gli Arabi si spinsero fino alla penisola iberica, occupandola per alcuni secoli quasi completamente. Dalla seconda metà del secolo XIV i Turchi entrarono in Europa riuscendo ad arrivare fino a Vienna. 2.1 Si parte per l'America La scoperta-conquista delle Americhe attivò un flusso continuo di immigrati dall'Europa, che crebbe di intensità a partire dal primo Ottocento. Si calcola che dal 1820 al 1914 circa 40 milioni di europei siano sbarcati negli Stati Uniti. Lo sviluppo industriale aveva portato al rapido declino della società rurale che per secoli era stata alla base del sistema sociale europeo. La diminuzione del tasso di mortalità e una tendenza al sovrappopolamento, la nuova offerta di lavoro nelle città industriali e la frantumazione del sistema socio-economico del villaggio rurale spinsero i contadini ad abban-donare la terra per avventurarsi nelle grandi città americane. I paesi maggiormente coinvolti furono l'Irlanda, la Polonia, la Germania, e i Paesi del sud dell'Europa. Talvolta furono delle crisi locali ad incrementare l'emigrazione: in Irlanda una carestia dovuta ad un fungo nocivo alle patate (unico cibo per 1/3 della popolazione) causò la morte di circa un milione di persone e ne spinse all'emigrazione circa un altro milione e mezzo. Sempre in Irlanda le pesanti tasse e le violente persecuzioni contro i cattolici e i presbiteriani da parte del governo inglese indussero circa il 72% degli Irlandesi, nel periodo dal 1851 al 1901, ad emigrare. Negli ultimi anni dell'ottocento anche l'Italia fu intensamente coinvolta in questo flusso tanto che circa 7 milioni di italiani lasciarono le regioni agricole del sud e del nord-est della Penisola per tentare la fortuna oltre oceano. Sebbene sia difficile ricostruire l'esatta composizione professionale dell'emigrazione italiana non esistono in merito statistiche ufficiali complete - si può ritenere che essa attinse soprattutto ai serbatoi delle campagne e a quella dei lavoratori manuali con scarsa qualificazione (muratori, manovali, operai in genere). Di conseguenza gli italiani o si diressero verso le grandi campagne del Sudamerica, Argentina e Brasile, dove cercarono un clima e un ambiente simile a quello lasciato, o contribuirono alla creazione di imponenti fenomeni di proletarizzazione nei quartieri più poveri delle grandi città statunitensi (New York, Chicago). Anche il Veneto contribuì massicciamente a questi fenomeni emigratori: dal Veneto provenne infatti circa un terzo dell'emigrazione italiana di quegli anni. Nel solo periodo Quando l’emigrazione 1876/1901, secondo le era impedita! statistiche ufficiali dell'epoca, lasciarono “Per molto tempo in Europa ci si è preoccupati più delle conseguenze dell‟emigrazione che di quelle dell‟immigrazione. La discussione in tal senso risale al diciottesimo definitivamente la secolo……….. regione più di 400.000 All‟epoca l‟emigrazione era considerata un salasso e si cercava di limitarla e persino di persone, mentre vietarla. In molti stati si condannavano a punizioni corporali e alla pena capitale non solo chi cercava di emigrare clandestinamente, ma soprattutto chi faceva opera di proselitismo 1.500.000 emigrarono o aiutava a espatriare…..Già Luigi XIV faceva sorvegliare strettamente le frontiere per tempo-raneamente: se impedire ai suoi sudditi di abbandonare il paese, e in Inghilterra il divieto di espatrio per ne andò così circa il lavoratori specializzati fu in vigore fino alla metà del diciannovesimo secolo” 15% della popo-lazione (da: H. M. Enzensberger, La grande migrazione, Torino, Einaudi, 1993, pag.23) regionale. L'emigrazione riguardò in particolare le zone di pianura: emigrarono soprattutto i piccoli proprietari e quelli che pur essendo contadini non possedevano una proprietà; spesso se ne andavano anche famiglie intere che vendevano tutto per pagarsi il viaggio e garantirsi un minimo di sostentamento all'arrivo. La destinazione preferita dai contadini veneti fu l'Argentina e il sud del Brasile, paesi che necessitavano di manodopera da destinare alla coltivazione della terra. accesso libero, equo e universale ai saperi Immigrazione negli Stati Uniti dal 1820 al 1978 Tot. Immigrati Paese % sul tot. Germania 6.978.000 14.3 Italia 5.294.000 10.9 G. Bretagna 4.898.000 10.0 Irlanda 4.723.000 9.7 Austria 4.315.000 8.9 Canada 4.105.000 8.4 Russia 3.374.000 6.9 Scandinavia 2.525.000 5.2 2.3 E negli ultimi quarant'anni?. "Negli anni '50 e '60, almeno in Europa, le migrazioni internazionali assolvono una funzione precisa: quella di fornire ai paesi che ne abbisognavano la manodopera necessaria alla ricostruzione post-bellica e al successivo lungo periodo di espansione" (Melotti) Nello sviluppo dell'economia industriale europea si è assistito a migrazioni di popolazioni da uno spazio periferico verso uno spazio centrale dell'economia capitalista, con la prospettiva di un lavoro manuale dipendente. In termini di popolazione le migrazioni non sono altro che la manifestazione di uno sviluppo ineguale. Concretamente in questa prima fase i flussi provenienti dai Paesi dell'Europa meridionale e del bacino del Mediterraneo sono spesso sollecitati da precise politiche di reclutamento dei paesi dell'Europa centrosettentrionale. Se guardiamo alla storia recente il 1973 segna il confine temporale tra due periodi di flussi migratori ben diversi. Dal secondo dopoguerra al 1973 le migrazioni rispondono ad una reale domanda di lavoro da parte dei paesi dell'Europa centrosettentrionale. Se guardiamo alla storia recente il 1973 segna il confine temporale tra due periodi di flussi migratori ben diversi. Dal secondo dopoguerra al 1973 le migrazioni rispondono ad una reale domanda di lavoro da parte dei paesi dell‟Europa centrosettentrionale, meta dei lavoratori provenienti dai paesi mediterranei (Italia, Grecia, Spagna, Portogallo e Turchia). Nella seconda metà degli anni '60, tuttavia, mentre calava drasticamente quest'ultimo flusso migratorio, si faceva più consistente quello proveniente dalle ex-colonie degli stati europei. Dopo il 1973 la recessione economica induce all'assunzione di politiche immigratorie più restrittive, che frenano parzialmente l'arrivo di extraeuropei, mentre vengono incoraggiati i rimpatri. Dalla seconda metà degli anni '70, gradualmente, i paesi della sponda nord del Mediterraneo si trasformano da esportatori ad importatori di manodopera dagli altri continenti. Dalla fine degli anni '80, in seguito ai processi di democratizzazione che hanno coinvolto i paesi dell'Europa dell'Est, è stata riconosciuta o è in via di riconoscimento la libertà di espatrio. Ciò ha reso possibile un importante flusso migratorio Est-Ovest. Questo rapido excursus non pretende di esaurire la storia delle migrazioni, ma piuttosto di stimolarne l'approfondimento, per meglio comprendere come e perché i movimenti migratori abbiano costituito un forte elemento di sviluppo delle società umane. Non vi è dubbio, infatti, che la mobilità costituisca uno dei metodi più ricorrenti nella storia dell'uomo per permettere il riequilibro delle risorse sul territorio. accesso libero, equo e universale ai saperi Fortezza Europa? "Tutti i paesi del mondo mantengono le porte aperte ai migranti provenienti da altre parti del mondo, purché abbiano specializzazioni molto richieste, capitali sostanziosi da investire o stretti legami familiari nel paese stesso. Ma per chi non possiede tali caratteristiche, le possibilità di ammissione sono alquanto limitate. Come dichiara con crudezza un analista, nei paesi industrializzati "il fabbisogno di immigrati é finito e non tornerà più". Non é difficile spiegarne il perché. Durante il boom economico dei trent'anni successivi alla seconda guerra mondiale, i paesi industrializzati del Nordamerica, dell'Europa occidentale e dell'Oceania avevano bisogno di forze di lavoro e reclutavano attivamente immigrati provenienti da regioni quali il Nord Africa, l'Europa meridionale, il subcontinente indiano e i Caraibi. All'inizio accettavano anche un gran numero di stranieri nel quadro di programmi di reinsediamento dei rifugiati; molti di essi originari dell'Europa orientale, passata sotto il controllo comunista. Questa fase, però, ha avuto bruscamente termine alla metà degli anni '70, quando il fabbisogno di immigrati poco qualificati é scomparso, soprattutto nell'Europa occidentale, sotto l'effetto combinato di diverse tendenze, tra cui: - la fine del boom del dopoguerra e il successivo rallentamento della crescita economica; - il declino delle industrie tradizionali, che occupavano molta manodopera, e l'introduzione di nuove tecnologie, che necessitavano di molto capitale ma di un minor numero di lavoratori manuali; - l'aumento della disoccupazione e il fatto che i datori di lavoro potevano soddisfare le restanti necessità di manodopera non specializzata impiegando donne e personale non dichiarato e clandestino; - l'incapacità dei governi di far rimpatriare i lavoratori immigrati assunti con contratti a tempo determinato, sommata all'arrivo di nuovi immigranti nel quadro del ricongiungimento familiare. Queste e altre considerazioni hanno fatto si che, durante gli anni '70 e '80, la maggior parte dei paesi industrializzati abbiano cessato di reclutare migranti non specializzati e abbiano introdotto leggi sull'immigrazione sempre più restrittive, fornendo a volte ai lavoratori stranieri incentivi al rimpatrio. Ma proprio nello stesso tempo, andavano aumentando le pressioni all'emigrazione nei paesi più sfavoriti: ristagno economico, crescita demografica, aumento della disoccupazione, violenza sociale e instabilità politica, senza dimenticare l'espansione delle comunicazioni e dei trasporti di massa. Come indica l'Istituto di Ricerca delle Nazioni Unite per lo Sviluppo Sociale, "si sta preparando un potente cocktail, composto da un'accresciuta spinta all'emigrazione e da ostacoli sempre più severi all'immigrazione. Il numero dei potenziali migranti é in continua crescita, ma nessun paese e disposto ad accoglierli". (Da ACNUR, I rifugiati nel mondo. La ricerca delle soluzioni , 1995, pg.191-192). accesso libero, equo e universale ai saperi PREMESSE STORICHE DEGLI ATTUALI FLUSSI MIGRATORI Se vogliamo com-prendere le ragioni più recenti che stanno alla base degli attuali flussi migratori dobbiamo partire dalla cause di carattere storico e politico: per i paesi del Terzo Mondo analizziamo gli effetti del colonialismo e del neocolonialismo, per gli Stati dell‟Est la difficoltà di passare dall‟economia collettivista a quella di mercato 3.1 Il Colonialismo Uno dei fenomeni storici di maggiore peso nella storia mondiale è stato nell'ultimo quarto del secolo XIX la spartizione del mondo in possedimenti coloniali e zone di influenza delle grandi potenze europee. Il colonialismo moderno è strettamente legato allo sviluppo capitalistico: la spinta fondamentale derivò infatti dalla necessità di materie prime e sbocchi di mercato per i prodotti finiti. Il dominio politico apparve come la migliore garanzia per gli investimenti economici delle grandi potenze europee in Asia e in Africa. In particolare durante il XIX secolo, il consolidamento del modello di produzione capitalistico basato sulla proprietà privata dei mezzi di produzione e sul libero scambio fa sì che il mondo venga considerato un unico grande mercato, dominato da potenti imprenditori capitalisti. Esiste in questo modo la possibilità di realizzare ingenti guadagni a condizione che le materie prime e i costi di produzione siano bassi e che le aree di investimento e di vendita siano sempre più ampie. Il sistema coloniale ha imposto un modello di divisione internazionale del lavoro in base al quale ai Paesi dominati era riservato il ruolo di fornitori di materie prime del suolo e del sottosuolo, a costi molto bas-si, anche grazie al lavoro della manodopera indigena o appositamente deportata (schiavitù); ai Paesi colonialisti, tecnologicamente più avanzati, spettava il compito di produrre i manufatti, beni a più alto valore aggiunto e dunque più remunerativi. Ma accanto agli interessi economici e politici, altri fattori sociali ed ideologici determinarono la spinta colonizzatrice: la sovrappopolazione europea dovuta ad un forte incremento demografico negli anni che vanno dal 1870 al 1914, la volontà di affermare il proprio prestigio e potenza, l'ideologia imperialistica che sosteneva la necessità per le nazioni "superiori" di farsi carico del progresso dei paesi "inferiori" incapaci di sfruttare le loro risorse economiche. Gli effetti della colonizzazione sono stati molteplici; con grande lucidità lo storico francese Yacono ha scritto: " ... la più grande rivoluzione di tutti i tempi è stata forse quella che, per mezzo della colonizzazione, ha gettato l'europeo e i suoi capitali come fermenti in mezzo a popolazioni assopite, determinando uno sconvolgimento demografico, economico e sociale assolutamente imprevedibile e preparando l'entrata sulla scena mondiale di quello che doveva essere il Terzo Mondo." (Cit. In R. Villari, Storia Contemporanea, Bari, Laterza, 1990). accesso libero, equo e universale ai saperi 3.2 Il neocolonialismo Nel secondo dopoguerra si assiste alla crisi definitiva del sistema coloniale. I movimenti nazionalisti ed indipendentisti che si svilupparono nelle colonie durante i primi decenni del 900 portarono all'avvio di un processo di decolonizzazione, soprattutto nei Paesi africani ed asiatici che, culminato durante gli anni '60, non si è ancora concluso. Due avvenimenti possono assumersi come emblematici di questa fase: l'indipendenza riconosciuta all'India dalla Gran Bretagna nel 1947 e la Conferenza di Ginevra nel 1954 in cui la Francia rinunciò alle sue pretese sugli Stati Indocinesi. All'indipendenza politica, tuttavia, non ha fatto seguito quella economica. Una volta raggiunta l'indipendenza, questi Stati si sono trovati a scegliere tra due modelli di "Le multinazionali sono imprese produttive o finanziarie che controllano altre società di nazionalità estera. Le prime multinazionali (petrolifere, minerarie, sviluppo industriale: quello alimentari) si costituirono intorno al 1880, ma la massima espansione si è capitalistico occidentale e avuta nel decennio tra il 1970 e il 1980. Le multinazionali si sono formate per quello socialista sovietico. agire liberamente all'interno di altre nazioni. Le società che esse controllano, infatti, hanno la veste legale del paese in cui operano e quindi godono di tutti i Scegliendo l'uno o l'altro, vantaggi accordati alle società locali e magari negati alle società straniere. oppure cercando di seguire una Con questo stratagemma le multinazionali vogliono raggiungere due obiettivi terza via che conciliasse la fondamentali: 1) conquistare nuovi mercati in barba alle barriere commerciali poste dagli Stati; 2) dislocare la produzione dove i costi (lavoro, materie pianificazione sovietica con lo prime, tasse, energia) sono più bassi. Secondo le statistiche delle Nazioni sviluppo delle borghesie Unite le multinazionali sono 35.000 e controllano 147.200 società. Il 90% nazionali e dell'iniziativa delle società multinazionali ha sede nei paesi del Nord, ma le società controllate sono localizzate per il 50% nei paesi del Sud". privata, la maggior parte degli da Centro Nuovo Modello di Sviluppo - Nord/Sud, predatori, predati, Stati ex-coloniali ha dovuto opportunisti, pag.75 richiedere assistenza tecnica e finanziaria alle Nazioni più ricche. Lo sfruttamento da parte dei Paesi industrializzati ha potuto continuare, subordinando le Nazioni del Sud del Mondo ad un nuovo "colonialismo" di carattere economico. Fenomeno tipico del neocolonialismo sono le multinazionali, società di capitali di enormi dimensioni, che dominano il mercato interno ed internazionale in regime di oligopolio. accesso libero, equo e universale ai saperi Le multinazionali Dopo la seconda guerra mondiale si è verificato un boom degli investimenti privati all'estero e la conseguente internazionalizzazione del commercio. Le protagoniste di questo nuovo fenomeno sono state le aziende transnazionali dette anche multinazionali. Si tratta di imprese di grandi dimensioni che dispongono di filiali disseminate nei vari paesi del mondo, che controllano da un quarto a un terzo di tutta la produzione del pianeta e che sono soprattutto molto attive nel campo della ricerca e dell'innovazione tecnologica. La loro caratteristica è quella di produrre in più paesi e poter inoltre diversificare le proprie attività investendo in vari settori, in modo da coprire una vasta gamma della produzione mondiale. Ad esempio la ITT (International Telephone and Telegraph) che aveva iniziato la propria attività nel campo delle telecomunicazioni, si è estesa successivamente nei settori dei prodotti di bellezza, degli hotel, delle assicurazioni, dei surgelati, dei tessili, delle cartiere ecc. La potenza delle multinazionali sta proprio nella loro fortissima dinamicità, nella capacità di ripartire i rischi su base mondiale o plurisettoriale, prevedendo e correggendo gli effetti negativi delle fluttuazioni del mercato internazionale. Questi colossi finanziari ( il loro bilancio supera spesso quello di interi Stati, come ad esempio la General Motors che ha un bilancio superiore a quello dell'Austria o della Danimarca) localizzano le diverse fasi del ciclo produttivo (ricerca, progettazione, costruzione dei componenti, assemblaggio, commercializzazione) in quei Paesi che offrono costi di gestione più bassi e quindi profitti più alti. Nel 1988 nella graduatoria delle 500 maggiori multinazionali 176 erano statunitensi. La crescita delle società transnazionale è tale che ormai si calcola che controllino, a livello mondiale, 1/3 della produzione industriale, 2/3 del commercio, l' 80% dei brevetti e 1/3 degli operai. Anche se non tutte le grandi società multinazionali possono essere considerate come la radice di ogni male, in quanto la loro condotta varia da impresa a impresa, da paese a paese, gli Stati industrializzati hanno promulgato leggi anti-trust (anti monopolio) per difendersi dalla loro invadenza. Nel "Rapporto Brandt" si legge: "Le multinazionali sono state oggetto di dure critiche anche per le attività commerciali e politiche non etiche... esse sono state e sono in grado di procedere ad operazioni di carattere globale sfuggendo a controlli effettivi da parte degli Stati nazionali o di Organizzazioni internazionali; si sono dimostrate capaci di trarre vantaggi da disordini economici verificatisi in alcune Nazioni...". ( cfr. W. Beretta Podini, Fame e squilibri internazionali, Firenze, Bulgarini, 1992). accesso libero, equo e universale ai saperi 3.3 Il crollo del muro di Berlino "Dopo la caduta del muro di Berlino nel 1989 e la dissoluzione dell'Unione Sovietica nel 1991 si temevano massicci spostamenti di persone verso l'Europa occidentale. Questi non si sono verificati e al contrario vi sono stati spostamenti di stupefacente ampiezza all'interno della CSI - Confederazione degli Stati Indipendenti - che raggruppa 12 delle 15 entità autonome costituitesi dopo l'URSS. Il fenomeno é stato esaminato a Ginevra a fine maggio 1996 in una conferenza internazionale promossa dall'ACNUR (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati), dall'OIM e dall'OCSE - Ufficio per i Diritti Umani della Conferenza sulla sicurezza e la Cooperazione in Europa. Dal 1989 ad oggi, o all'interno dello stato di appartenenza o da uno Stato all'altro, si sono spostate 9 milioni di persone (uno ogni nove), escludendo tra l'altro i migranti volontari per motivi economici e i militari rimpatriati." (Da Caritas di Roma, Immigrazione. Dossier statistico 1996. Anterem ed. 1996). Lo scenario migratorio del 2000 Quale scenario migratori si delineerà in Europa Occidentale, area caratterizzata da una bassa crescita demografica, e in particolare in Italia? Cercare di prevederlo è indispensabile perché il sistema delle quote deve tenere conto delle esigenze del mercato occupazionale e, ovviando alla necessità della difficile ricerca tra domanda e offerta per ogni lavoro rimasto scoperto. Qui di seguente ci soffermiamo sullo scenario che ipotizza il demografo Antonio Golini. L‟Italia è un paese vicino ai paesi che si affacciano sul Mediterraneo e a quelli dell‟Est europeo. Si tratta di paesi ad alto sviluppo demografico, dove sono invece insoddisfacenti le situazioni economiche e spesso anche quelle politiche. Questi differenziali strutturali, tra i più alti mai registrati, lasciano intendere che i flussi migratori continueranno. Nell‟Europa dell‟Est, poiché è prevista una forte diminuzione della popolazione in età lavorativa, non è escluso che, ipotizzando un livello elevato di investimenti stranieri e un miglioramento delle condizioni economiche, possano diminuire i flussi verso l‟Unione Europea e addirittura insorgere la necessità di immigrazione di manodopera. Nel Nord Africa e nel Medio Oriente diminuirà l‟aumento percentuale (1,8 – 1,9%) della popolazione in età lavorativa e comunque, così come hanno conosciuto la crescita di 52 milioni di giovani nell‟ultimo ventennio del secolo XX, conosceranno un aumento di oltre 50 milioni di unità nei prossimi 20 anni. Invece nell‟Africa subsahariana, caratterizzata da un sistema produttivo imperniato sul settore primario (dal 4% all‟80%), la crescita continuerà ad essere eccezionale (tassi del 2,93,5%) per cui la popolazione in giovane età lavorativa, che è aumentata di 70 milioni di unità nell‟ultimo ventennio, aumenterà di altri 128 milioni di unità nel prossimo ventennio. accesso libero, equo e universale ai saperi L‟accentuazione dei flussi di immigrazione non è eliminabile perché i paesi del Sud del mondo non sono in grado di creare i posti di lavoro necessari per frenare l‟esodo e di attenuare la capacità di attrazione dei mercati occidentali. La tendenza all‟esodo diventerà più accentuata sia per effetto dell‟aumento del grado di istruzione, che influisce sulle aspettative professionali, sia per effetto della crescente urbanizzazione del Sud del Mondo (ad esempio Addis Abeba, ora inferiore a Roma, perché ha una popolazione di meno di 2,5 milioni di abitanti, nel 2015 supererà i 6 milioni e mezzo). In Italia per 5-10 anni non cambierà molto il panorama dei paesi di origine dei flussi, mentre nel secondo decennio del secolo l‟Africa Subsahariana, superata la soglia di sviluppo minimo, peserà molto di più. accesso libero, equo e universale ai saperi LA CAUSA PRINCIPALE: LO SQUILIBRIO Nell‟analisi delle cause degli attuali flussi migratori, è importante considerare gli stretti collegamenti esistenti tra lo sviluppo sociale ed economico delle diverse aree del mondo: occorre, detto in altro modo, riconoscere l‟interdipendenza come una delle leggi fondamentali di molti avvenimenti contemporanei. Pertanto non cercheremo i motivi dell‟immigrazione solamente nella situazione socio-economica del Paese di partenza o in quello di arrivo, ma proveremo a capire quale effettivo rapporto si è creato tra il Nord e il Sud del mondo. E‟ così che nell‟analisi delle cause che spingono all‟emigrazione, i cosiddetti fattori di espulsione, approfon-diremo i “grandi squilibri” che caratterizzano l‟at-tuale situazione mondiale. Sono squilibri di carattere demografico, politico ed economico che trovano la propria origine in cause storiche già analizzate (colonialismo e neocolonialismo) e in comportamenti politico-economici ancora in atto: sono disuguaglianze che causano in maniera diretta l‟emigrazione dai Paesi del Sud verso gli Stati “ricchi” del Nord Ma che cos'è lo sviluppo? Il Rapporto sullo sviluppo umano che l'UNDP presenta annualmente ha introdotto come nuova misurazione del progresso, l‟ ISU, ovvero l‟ Indice di sviluppo umano. Solitamente la crescita di uno stato e di un popolo viene misurata in base al reddito procapite e al Prodotto Nazionale Lordo. I rapporti dell'UNDP utilizzano un indice che combina gli indicatori del potere d'acquisto, dell'istruzione e di salute e longevità (ISU). In base a questo indice la prima nazione nella classifica dell' ISU è il Giappone, mentre la prima nella classifica del PNL è la Svizzera. L'Italia è al diciottesimo posto per il PNL, ma al ventiduesimo nell' ISU. Tra i paesi del Sud, lo Sri Lanka, Cile, Costa Rica, Giamaica, Tanzania e Tailandia sono nazioni che si situano in posizioni decisamente migliori nella classifica dello sviluppo umano che in quella del reddito, dimostrando di aver orientato di più le loro risorse economiche verso alcuni aspetti del progresso umano. L' ISU ha comunque dei limiti, riconosciuti dallo stesso UNDP, poiché esclude altri indici, quali la libertà economica, sociale e politica, la protezione contro la violenza, l'insicurezza e la discriminazione. 4.1 Il problema del debito Solitamente i Paesi poveri del Sud del mondo sono chiamati "Paesi in via di sviluppo", indicando così quella che dovrebbe essere la loro situazione: incamminati sulla strada che conduce allo sviluppo. Tralasciando ora le difficili e lunghe discussioni sul concetto di sviluppo, l'analisi del problema del debito ci mostrerà che sarebbe più corretto chiamare i Paesi poveri del Sud del mondo come "Paesi in via di dipendenza": questa infatti risulta essere la situazione provocata dal debito assunto dai Paesi poveri nei confronti di Stati, istituzioni internazionali (Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale) e banche del Nord. Quantitativamente il debito ha raggiunto cifre elevate che secondo stime del 1997 superano i 2300 miliardi di dollari USA. In realtà non è la quantità del debito a creare disuguaglianze tra Nord e Sud (già nel 1986 gli Stati Uniti avevano un debito pubblico, ovvero soldi presi a prestito dai propri cittadini di 2000 miliardi di dollari), ma il circolo vizioso che l'indebitamento ha creato nei Paesi poveri. Cerchiamo di capire come e perché. accesso libero, equo e universale ai saperi Grosso modo negli anni '70 l'alto prezzo del petrolio fece affluire nelle banche degli Stati industrializzati ingenti quantità di petrodollari (dollari ricavati dalla produzione e vendita del petrolio). L'eccesso di denaro a disposizione rispetto all domanda fece crollare il suo prezzo, addirittura sotto il livello dell'inflazione del dollaro. A questo punto si rese necessario trovare una collocazione di investimento e la finanza (banche europee e americane) insieme alle industrie del Nord trovarono estremamente vantaggioso il prestito ai Paesi in via di sviluppo. Questi ebbero prestiti a tassi vantaggiosi; le banche investivano il denaro che sarebbe poi rientrato tramite gli interessi; alle industrie aprivano nuove possibilità di mercato, perché l'aumento di investimenti implica un aumento della domanda. Ma come vennero utilizzati quei soldi? Portarono realmente sviluppo? "Nel migliore di casi i capitali presi a prestito sono andati effettivamente a finanziare progetti che, almeno nelle intenzioni, erano di sviluppo economico. Tuttavia il più delle volte è dimostrabile che tali progetti sono stati dettati dagli interessi dei Paesi che concedevano i prestiti. E questo almeno in due sensi: a) nel senso che avevano lo scopo di stimolare l'acquisto di beni prodotti nel paese creditore. b) nel senso che avevano lo scopo di stimolare la produzione di beni (per lo più materie prime agricole e minerarie e prodotti energetici) che al paese creditore interessava importare a basso prezzo o interessava commercializzare." (Da: A. Sciortino, Il debito..., op. cit. p. 31). Così avvenne che le Filippine acquistarono vecchie centrali nucleari americane, senza mai utilizzarle, oppure il Brasile deforestò regioni dell'Amazzonia per lo sfruttamento di miniere. Accadde inoltre che in alcuni stati i soldi non furono investiti ma entrarono direttamente nei conti privati dei vari dittatori (Marcos nelle Filippine, Somoza in Nicaragua, lo Scià in Iran, ecc.). Infine i crediti servirono a molti governi per l'acquisto di armi, facendo la fortuna delle industrie belliche del Nord e meno dei popoli coinvolti nelle frequenti guerre. Risulta quindi che in genere i crediti sono stati utilizzati male instaurando quel circolo vizioso dal quale molte nazioni del Sud sono impossibilitate ad uscire. Infatti anche nella più semplice legge economica se un prestito per l'investimento non produce frutto, al debitore non entra ricchezza e resta al contrario il debito da pagare sommato agli interessi sul debito. Per il pagamento del debito, i Paesi creditori hanno imposto politiche di aggiustamento strutturale come la riduzione della spesa pubblica (tagli alla sanità, trasporti, previdenza sociale, tutto ciò che non è produttivo), oppure hanno favorito la svendita al capitale straniero delle imprese statali. In altri casi, i paesi debitori hanno chiesto dilazioni per il pagamento, facendo crescere gli interessi, oppure hanno contratto altri debiti per il pagamento dei primi. Il servizio al debito (interessi passivi e quote di ammortamento dei prestiti ricevuti) è cresciuto fino al punto di superare in alcuni casi, il valore delle esportazioni dei paesi indebitati. L'attivo commerciale dei Paesi in via di sviluppo nel 1987 era di circa 600 miliardi di dollari, a fronte di un Nonostante l’Africa sub-sahariana abbia pagato, tra il 1980 e il 1996, l‟equivalente di due volte il debito che ammontava a circa 1.050 miliardi di suo debito estero effettivo, al termine del 1996 si dollari. è trovata 3 volte più indebitata rispetto a 16 anni E' paradossale, ma perfettamente prima, e ciò a causa degli enormi interessi che moltiplicano di anno in anno l‟entità del debito. compren-sibile che il flusso di denaro che del mondo, sotto dal Sud fluisce al Nord forma di servizio al debito, supera quello mosso in direzione opposta come prestiti e aiuti allo sviluppo; infatti già nel 1985 ad un flusso di 40,8 miliardi di dollari verso i paesi indebitati corrispondeva un flusso inverso come servizio al debito pari a 114,4 miliardi. In quell' anno il Sud ha finanziato il Nord per 73,6 miliardi di dollari. 4.2 Come lo squilibrio provoca altri squilibri a) Lo scambio ineguale accesso libero, equo e universale ai saperi In base alla divisione internazionale del lavoro, i Paesi del Terzo Mondo, il cui apparato industriale non è in grado di competere con quello delle Nazioni sviluppate, partecipano al mercato mondiale esportando principalmente materie prime. I prezzi di queste sono molto bassi poiché subiscono il controllo delle grandi società multinazionali ed inoltre il loro valore viene stabilito nelle borse occidentali (Londra, Chicago, New York, Amsterdam, ecc.). Ma mentre il prezzo delle materie prime è sostanzialmente diminuito nel tempo, quello dei prodotti industriali è aumentato. Ecco perché i Paesi del Terzo Mondo sono costretti ad esportare quantitativi sempre maggiori delle loro risorse per ottenere la stessa quantità di manufatti industriali. Così ad esempio se nel 1965 la Costa D'Avorio doveva produrre 5 t. di cotone per potere acquistare un trattore, nel 1985 doveva produrne 7 volte tanto. I termini di scambio (rapporto tra il livello dei prezzi dei prodotti a tecnologia avanzata esportati dai paesi sviluppati e quello dei prodotti esportati di paesi sottosviluppati) dal 1953 al 1975 per i Paesi del Terzo Mondo sono peggiorati mediamente del 23%. Dobbiamo inoltre tener presente che per molti Stati poveri l'economia è basata sulla produzione ed esportazione di uno o due prodotti; ciò li espone al rischio di abbassamenti consistenti e rapidi delle quotazioni di tali risorse e alle crisi economico-finanziarie che ne conseguono. Se a ciò aggiungiamo la svalutazione delle monete nazionali rispetto al dollaro, unità monetaria negli scambi internazionali, il quadro risulta ancor più negativo. Questi meccanismi hanno l'effetto di ridurre, fino ad annullarli, gli introiti delle esportazioni, nonché di impedire l'accumulazione del capitale necessario ad avviare programmi di sviluppo e di spingere i paesi così impoveriti a ricorrere a prestiti stranieri. b) Il narcotraffico "Il commercio della droga è l'unica multinazionale di successo in America Latina". Così ha detto Alan Garcia ex-presidente del Perù, e quello che può sembrare assurdità risponde invece a chiare leggi economiche. In America Latina sono principalmente 3 i paesi produttori di cocaina, Bolivia, Perù e Colombia. Analizzando i dati relativi al debito si può osservare come tra il 1982 e il 1988 il debito in Bolivia sia aumentato del 47% , in Colombia del 55% e in Perù del 64%. Contemporaneamente solo in Bolivia la produzione di cocaina è passata dalle 9 mila tonnellate del 1972-1974 alle 100-150 mila tonnellate degli inizi anni ottanta. L'aumento di domanda di droga nei Paesi occidentali (in primis gli Stati Uniti), l'insanabilità del debito e l'impossibilità di reggere l'economia su altre esportazioni - la Colombia nel solo 1989, anno in cui su permesso degli Stati Uniti si dimezzò il prezzo del caffè, perse dai 300 ai 400 milioni di dollari - hanno spinto questi paesi a reggersi sui soldi del narcotraffico. Non sono infatti solamente i famosi signori della droga a fare fortuna, e tutta un'intera economia che si regge su questo mercato: in Bolivia infatti si calcola che un lavoro ogni 3 o 4 è assicurato da attività connesse alla droga. Il problema ecologico. La situazione ambientale nei Paesi del Sud del mondo sembra essere divenuta negli ultimi anni più grave di quella dei Paesi del Nord. Il problema che si presenta con maggiore evidenza è la diminuzione del suolo adatto allo sfruttamento agricolo. Le cause di questo fenomeno sono molte: l'avanzata dei deserti causata dai cambiamenti climatici e dalle attività umane, la progressiva salinizzazione dovuta l' intensa vaporizzazione che avviene in un suolo tropicale sottoposto ad irrigazione; l'erosione causata da un cattivo sfruttamento del territorio; l'urbanizzazione che avviene in modo incontrollato; l'allevamento intensivo di accesso libero, equo e universale ai saperi animali destinati ai consumatori del Nord; l'uso del territorio per la coltivazione di un unico prodotto. Inoltre la distruzione delle foreste (specialmente in America Latina) per dare spazio ai pascoli per il commercio di legni pregiati o per lo sfruttamento delle ricchezze del sottosuolo; le discariche ad alto rischio di materiale fortemente inquinante proveniente dalle industrie dei Paesi del Nord, l'uso di pesticidi tossici che negli Stati industrializzati sono proibiti da tempo. Il problema non è da sottovalutare anche per quanto riguarda le migrazioni, tanto che nei più recenti studi si è iniziato ad individuare una nuova "categoria" di emigranti: i profughi ambientali o ecologici. (Da: G. Pallottino Rossi Doria, Nord-Sud..., op. cit. p. 3 ALTRE CAUSE DI RILIEVO 5.1 Il fascino dell'Occidente Il livello di istruzione e di cultura delle popolazioni che vivono nel Terzo Mondo è cresciuto negli ultimi decenni, senza che si sia verificato un corrispondente aumento delle opportunità occupazionali. Ciò ha sollecitato molti giovani diplomati e laureati a cercare lavoro qualificato nei Paesi industrializzati, senza peraltro avere una garanzia di ottenerlo. Questo è certamente un fattore di ordine economico che esercita una notevole attrattiva su chi è intenzionato a lasciare il proprio Paese. Ma in questo contesto vogliamo porre l'attenzione su altri elementi, oggi più attuali o totalmente nuovi rispetto a emigrazioni storiche precedenti. "Il fascino dell' Occidente" unito al desiderio di riunirsi con familiari o amici che già risiedono in Nazioni del Nord del Mondo, si rivelano elementi di forte richiamo per molti migranti. Molto spesso chi parte è attratto dai modelli di vita e di consumo delle società occidentali, proposti attraverso i mass-media, il contatto con turisti e missionari, le attività di promozione della propria immagine che i Paesi sviluppati svolgono tramite le ambasciate e i propri centri culturali nei Paesi del Sud del mondo. Così prende corpo negli Stati poveri un'immagine stereotipata dei Paesi industrializzati: opulenti, modelli di democrazia, aperti all'incontro con culture diverse, disposti ad accogliere chi è in cerca di lavoro ( la stessa immagine che avevano dell'America i nostri emigranti all'inizio del novecento). "Nessuno emigra senza una promessa. In passato, i media della speranza erano le saghe e le dicerie. La terra promessa, l'Arabia felix, la mitica Atlantide, l'El Dorado, il Nuovo Mondo: queste erano le magiche narrazioni che spingevano molta gente a partire. Oggi, invece, sono le immagini ad alta frequenza, che la rete mondiale dei media porta fin qui nel più sperduto villaggio del povero mondo. Il loro contenuto di realtà è ancora minore di quello delle leggende degli inizi dell'età moderna; ma il loro effetto è incomparabilmente più forte. In particolare la pubblicità, che nei Paesi ricchi dove è prodotta viene intesa senza problemi come un semplice sistema di segni senza referenti reali, nel Secondo e Terzo Mondo passa per una descrizione attendibile di un possibile modo di vita. Essa condiziona in parte l'orizzonte delle aspettative legate alla migrazione". (Enzesberger, La grande migrazione, op.cit.p.14). Questo tipo di analisi è stata applicata di recente per spiegare l'arrivo in massa degli Albanesi nell'Agosto del 1991. La stampa e i mass-media italiani hanno letto questo fenomeno come una fuga dalla povertà verso i beni visti alla TV e diventati per loro simbolo di riscatto e di benessere. Molto spesso però tali aspettative non trovano conferma una volta approdati nel Paese prescelto, sicché la permanenza diventa un'esperienza di sofferenza. La speranza di poter comunque migliorare col tempo la propria condizione economica induce gli immigrati ad accettare situazioni di vita e di lavoro assai precarie. accesso libero, equo e universale ai saperi Le donne: la maggioranza che non partecipa Le donne sono la maggioranza della popolazione mondiale, eppure dispongono solo di una quota minima delle opportunità globali. Alfabetizzazione: le donne hanno molte meno possibilità degli uomini di imparare a leggere e scrivere. Nell'Asia meridionale, ad esempio, il tasso di alfabetizzazione femminile è circa la metà di quello maschile. Le donne costituiscono i due terzi di tutti gli analfabeti del mondo. La mancanza di un'istruzione adeguata esclude le donne da attività qualificate. Occupazione: nei Paesi in via di sviluppo le donne hanno minori opportunità di lavoro: il tasso medio di partecipazione alle forze di lavoro è solo il 50% di quello degli uomini. Anche quando riescono a trovare lavoro, comunque, le donne ricevono salari nettamente inferiori. Le donne più povere nei Paesi del Terzo Mondo hanno spesso un lavoro pesante, che le impegna fisicamente per lunghe ore al giorno e che va dalla preparazione del cibo, al trasporto dell'acqua e della legna su lunghe distanze, alla cura dei bambini e degli anziani e alla coltivazione dei campi. Salute: solitamente le donne vivono in media più a lungo degli uomini. Ma in alcuni Stati dell'Asia e dell'Africa del Nord, la discriminazione nei loro confronti - sotto forma di assistenza sanitaria - è talmente grave che hanno una speranza di vita inferiore a quella maschile. Uno dei rischi maggiori per la salute delle donne dei Paesi in via di sviluppo è il parto: il tasso di mortalità materna è 15 volte più elevato dei Paesi industrializzati. D'altra parte il riconoscimento della donna all'interno della comunità è spesso legato alla sua capacità di procreare figli. Vita politica: in numerosi Stati le donne non hanno ancora il diritto di votare. La loro rappresentanza nei poteri legislativo ed esecutivo e dovunque inferiore alla loro consistenza numerica. Percentuale del lavoro femminile dell'Africa subsahariana Produzione agricola Cura degli animali Riserve agricole Trasformazioni degli alimenti Approvvigionamento dell'acqua e del combustibile Commercializzazione degli alimenti 70% 50% 50% 99% 90% 80% 60% (Da: W. Beretta Podini, Fame e squilibri internazionali, 1992, Bulgarini, Firenze; e AA.VV., Rapporto sullo Sviluppo Umano n.4. Decentrare per partecipare, Torino, Rosemberg & Sellier, 1993) accesso libero, equo e universale ai saperi 5.2 La fuga dal terrore La guerra fredda seguita alla seconda guerra mondiale tra USA e URSS ha scatenato nel Terzo Mondo una serie senza fine di conflitti. Le due potenze hanno combattuto indirettamente tra loro per controllare o accaparrarsi le regioni con ricche risorse minerarie o situate in posizione strategica. Il controllo avveniva attraverso forti ingerenze politiche, mantenendo al potere il regime che più poteva assicurare i loro interessi, sostenendolo finanziariamente e militarmente. La recente perdita di ruolo del blocco socialista ha scatenato il proliferare di scontri interetnici e il protagonismo politico di alcune fazioni; ne sono un chiaro esempio la guerra dell'exYugoslavia e le tensioni tra le Repubbliche della ex-Unione Sovietica. In Asia e in Africa dove la maggioranza dei Paesi è retta da regimi totalitari o militari, le rivendicazioni di democrazia e di uguaglianza sociale sono osteggiate dalle ristrette oligarchie economiche e militari che governano con l'intento di arricchire le proprie famiglie e i propri sostenitori. In Africa in particolare non bisogna dimenticare che molte delle guerre in corso dipendono dall'arbitraria divisione in Stati seguita alla decolonizzazione secondo i confini delle colonie europee, senza tenere in alcun conto la componente etnica e le diverse credenze religiose della popolazione. Questa situazione di conflitto continuo ha come conseguenza esodi di massa in Paesi confinanti alla ricerca di rifugio e asilo politico. Oggi sono circa 11,5 milioni le persone che vivono fuori dalla loro patria con lo status formale e riconosciuto di rifugiato politico e rappresentano meno della metà di coloro che hanno dovuto abbandonare la propria terra in conseguenza di persecuzioni politiche o conflitti interetnici. I paesi più poveri sono quelli che generano il maggior numero di rifugiati e, allo stesso tempo, ne accolgono il maggior numero. 5.3 Chi sono i rifugiati Il termine rifugiato si applica secondo la Convenzione di Ginevra (art.1) a tutti coloro che "avendo ragione di temere di essere perseguitati per la propria razza, la propria religione, la propria nazionalità, la propria appartenenza ad un gruppo sociale, o per le proprie opinioni politiche, si trovano fuori dal Paese di origine e non possono o non vogliono, per paura, chiedere protezione al proprio Paese; o a chi, non avendo nessuna nazionalità e trovandosi fuori del Paese di abituale residenza, in seguito a gravi avvenimenti, non può o non vuole, sempre per paura, ritornarci". In base a questa definizione l'onere di provare la fondatezza dei timori è a totale carico del richiedente asilo, sono esclusi tutti i rifugiati in seguito a guerre e carestie. La Convenzione fu firmata nel 1951 nel periodo del dopoguerra e concepita soprattutto a beneficio dei rifugiati dell'Europa socialista. Inoltre la Convenzione presentava un limite temporale, doveva infatti essere adottata per "eventi occorsi anteriormente al 1 gennaio 1951", a questo si pose rimedio nel 1967 con il Protocollo di New York che ha prescritto che lo status di rifugiato si applichi a tutti coloro che rientrano nella definizione senza limiti di tempo. Ma ben presto la Convenzione si è dimostrata inadeguata quando si dovette far fronte all'affluenza in massa di persone che scappavano a causa di una situazione di conflitto generalizzato come già nel 1956 con la crisi ungherese quando 200 mila persone richiesero asilo in Europa. In Africa le guerre continue e il conseguente spostamento di intere popolazioni indussero l'Organizzazione per l'Unità dell'Africa (OUA) a redigere e adottare nel 1969 ad Addis Abeba una convenzione che amplia la definizione di rifugiato: tale termine si applica a tutti coloro "che in seguito ad una aggressione, un'invasione, una dominazione straniera o ad avvenimenti che turbano gravemente l'ordine pubblico in una parte o in tutto il Paese d'origine o di cui hanno la nazionalità, sono obbligati ad abbandonare la propria residenza abituale per cercare scampo in un altro luogo". L'80% dei Paesi africani ha ratificato la convenzione e oggi nei campi profughi di questo continente si trova quasi la metà dei 17 milioni di profughi del mondo. accesso libero, equo e universale ai saperi L'Italia ha ratificato la Convenzione di Ginevra nel 1954 con la cosiddetta "clausola della riserva geografica", limitandola cioè ai soli cittadini dell'Est europeo. Questa clausola è stata abolita solo nel 1990 con l‟approvazione dell‟art.1 della legge n.39/90, conosciuta come legge Martelli. Bisogna ricordare che la nostra Costituzione nell'art. 10 terzo comma riconosce il diritto di asilo in maniera ancora più ampia che la Convenzione di Ginevra: "lo straniero al quale sia impedito nel suo Paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d'asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilite dalla legge". Come si può notare questo dettato della Costituzione non solo riconosce il diritto d'asilo a chi è perseguitato nel proprio Paese, ma anche a chi vive in un Paese dove non sono riconosciute le libertà garantite dalla Costituzione Italiana. A tutt‟oggi non è ancora stata approvata una legge che dia esecuzione a questo importantissimo principio, benché siano stati presentati numerosi progetti. La legge 40/98 (vedi scheda n.8) ha però introdotto alcune novità: innanzitutto sono ora vietati in ogni caso l‟espulsione o il respingimento dello straniero verso uno Stato in cui egli possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, sesso, lingua, cittadinanza, religione, opinioni politiche , condizioni sociali o personali. Viene in secondo luogo prevista la possibilità di disporre di misure di protezione temporanea da adottarsi per esigenze umanitarie in occasione di conflitti o altri eventi particolarmente gravi in Paesi non appartenenti all‟Unione Europea. accesso libero, equo e universale ai saperi EFFETTI DELLE MIGRAZIONI Sono state fatte molte ipotesi su quali siano gli effetti prodotti dalle migrazioni. Si tratta in ogni caso di domande cui è difficile dare una risposta univoca, in quanto la realtà è molto complessa. Una distinzione sommaria può certamente essere fatta fra gli effetti provocati dall‟emigrazione sui Paesi d‟origine e gli effetti dell‟immigrazione nei Paesi d‟arrivo. Alcuni studiosi tentano di distinguere gli effetti positivi da quelli negativi, ma si tratta spesso di valutazioni soggettive. Per questo motivo preferiamo limitarci a fornire una panoramica di alcune delle principali conseguenze delle migrazioni, a prescindere dal fatto che possano essere considerate come positive o negative. 6.1 Le conseguenze nei paesi di partenza L'emigrazione ha sempre costituito una valvola di sfogo per la forza lavoro in esubero rispetto alle possibilità occupazionali, particolarmente nei Paesi caratterizzati da una rapida crescita demografica naturale. La partenza dei lavoratori sottoccupati e non qualificati ha un'incidenza sull'occupazione, la produzione, i salari: in un primo tempo il mercato del lavoro e la spesa sociale vengono alleviati, e il reddito delle famiglie rimaste aumenta in seguito all'invio di parte dei guadagni degli emigranti. La somma complessiva delle rimesse può incidere positivamente sulla bilancia dei pagamenti dello Stato costituendo una entrata di capitale di notevoli dimensioni. Si pensi che, ad esempio, nel piccolo El Salvador le rimesse degli emigrati costituiscono il 5% delle entrate dello Stato. Le rimesse degli immigrati, sommate a livello mondiale, hanno superato nel 1999 i 100.000 miliardi di lire. Nei paesi in cui le rimesse vengono utilizzate per attuare investimenti l‟emigrazione può costituire un aiuto allo sviluppo. Se invece vengono utilizzate solo per consumi personali possono a lungo termine favorire l‟inflazione. Se ad emigrare sono persone la cui crescita e grado di qualificazione è costata allo Stato in termini educativi, sociali e sanitari, si verifica paradossalmente che il frutto di questi investimenti sia goduto dai Paesi di arrivo. Ciò è stato particolarmente evidente nel caso dell'ex RDT, dove l'esodo di tecnici e laureati verso il più allettante mercato del lavoro occidentale ha creato nell'arco di pochi mesi vuoti consistenti nel settore industriale e in quello dei servizi assistenziali, specialmente negli ospedali. D'altra parte secondo alcune ipotesi l'immigrazione ha potuto apparire come un sostituto ad un possibile sviluppo in loco, nel senso che si può assistere al rientro di persone che hanno arricchito la propria professionalità all'estero e per le quali lo Stato non ha impiegato denaro. Se nelle migrazioni temporanee a partire sono i giovani, prevalente maschi, la popolazione subirà, per un periodo più o meno lungo di tempo, uno squilibrio sia per quanto riguarda le classi di età che per sesso: la popolazione sarà costituita prevalentemente da anziani, bambini e donne. Inoltre possono emergere carenze di manodopera , difficili da sanare in quanto è maggiore l'attrazione dei salari dei Paesi industrializzati. Se a migrare sono prevalentemente donne (come avviene ad esempio per molti Paesi latino americani, le Isole di Capo Verde e le Filippine) a risentirne saranno importanti settori economici come l'agricoltura. accesso libero, equo e universale ai saperi Paese India Messico Egitto Portogallo Volume rimesse (miliardi di lire) 16.306 9.207 5.813 5.518 Spagna Grecia Marocco Bangladesh 5.087 4.857 3.469 2.760 Nigeria Giordania El Salvador Rep. Dominic. 2.715 2.662 2.308 2.304 Graduatoria delle rimesse ricevute nel 1998 6.2 Le conseguenze nei paesi d'arrivo L'arrivo di lavoratori stranieri può a breve termine abbassare il costo del lavoro e avere quindi un effetto positivo sulla produttività generale e permettere alle imprese marginali di sussistere. Infatti il costo della manodopera costituita dagli immigrati è tendenzialmente più basso di quello della manodopera locale sia perché questi lavoratori accettano salari inferiori, sia perché, nel caso di assunzione illegale, consentono al datore di lavoro di evadere le contribuzioni fiscali e previdenziali. Gli immigrati accettano spinti dalla necessità condizioni di lavoro più dure, come orari più lunghi, turni notturni e festivi, mansioni nocive e pericolose, lavori temporanei. Inoltre sono difficilmente sindacalizzabili e il loro licenziamento può avvenire più facilmente, specialmente se si tratta di lavoro nero. Tutto questo può avere effetti negativi per quanto riguarda l'azione sindacale tesa a salvaguardare salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. Il basso costo della manodopera straniera e, più in generale, la compressione della dinamica salariale disincentivano molte imprese dall'effettuare investimenti in tecnologie atte a razionalizzare il ciclo produttivo. La disponibilità degli immigrati a compiere operazioni nocive alla salute o rischiose permette a certi imprenditori di mantenere antiquati e spesso illegali sistemi di sicurezza contro le malattie professionali. Se il rallentamento dell'innovazione tecnologica può essere considerato nel breve periodo un risparmio di costi, esso può trasformarsi in un ritardo che nel lungo periodo toglie competitività alle produzioni in cui è richiesto alto livello di precisione, affidabilità e standardizzazione. La presenza di immigrati in condizione di disoccupazione o di lavoro nero comporta dei costi per l'erogazione di servizi socio-assistenziali: abitazione, educazione scolastica, assistenza sanitaria, senza che vi sia un corrispettivo in termini di contributi versati. Inoltre secondo il contesto di inserimento, la difficoltà nel trovare lavoro facilita in zone disagiate e periferiche forme di emarginazione, oppure di reclutamento nelle organizzazioni criminali. Le migrazioni producono poi effetti sociali di rilievo a motivo dell'inserimento degli immigrati in un contesto culturale differente da quello d'origine. Il contatto tra i locali e i nuovi arrivati provoca una certa positiva compenetrazione nello scambio culturale per quanto riguarda i costumi, i comportamenti , i valori, le istituzioni. Ma dall'incontro possono anche scaturire accesso libero, equo e universale ai saperi ostacoli di varia natura quali la diffusione di atteggiamenti razzistici o il nascere di separatismi e ghetti. (su questo tema si vedano le schede n. 9 – 10 AA = .Allora dove sei andato? A zonzo, per strada. Chiunque è libero di andarci, ma loro, gli altri, sono liberi di guardarti. E quegli sguardi scoprono chi sei a un chilometro di distanza. La tua faccia.salta subito agli occhi. Non puoi sottrarti. … AA = Torniamo alla tua passeggiata. Sei passato davanti al cinema e hai detto: qui sarebbe bello entrare! XX = A me piace il cinema. AA = E’ chiaro al cinema nessuno ti guarda. Tutti guardano lo schermo. E anche tu.Il cinema però ha un maledetto difetto: dvi pagare! XX = Io non vado mai al cinema. AA == Ti rimane sempre una speranza! La stazione. XX = Centrale AA = Ah certo, centrale,…Perché lì ci sono agevolazioni a non finire. Primo, Ingresso gratuito. Secondo, lì non sei uno straniero. Lì non ci sono stranieri, dato che una stazione è fatta apposta per gli stranieri; in una stazione gli stranieri hanno l’aria di essere del posto più della gente del posto. In una stazione il tuo aspetto non dà nell’occhio Dialogo teatrale tratto da: s. Mrozek, Emigranti, Torino, Einaudi, 1987 accesso libero, equo e universale ai saperi Le migrazioni femminili Sebbene le donne siano spesso considerate "emigranti passive" che si spostano unicamente per seguire o raggiungere i membri della famiglia, alcune ricerche hanno dimostrato come in realtà prevalgono motivazioni di tipo economico rispetto a quelle di tipo personale o sociale. In alcune aree come l'America Latina, le Filippine, il Pacifico meridionale, l'emigrazione di ragazze giovani fa parte della strategia di sopravvivenza delle famiglie. Le rimesse delle figlie indicano che l'emigrazione femminile è altrettanto importante di quella maschile nell'aiutare le famiglie delle aree rurali. Le donne sembrano infatti inviare denaro con maggiore regolarità, nonostante i salari inferiori, di quanto non facciano gli uomini. Le donne provenienti dai Paesi in via di sviluppo tendono ad avere, nel momento in cui si spostano, un basso livello di istruzione. Questo fattore limita fortemente le possibilità occupazionali per cui l'impiego retribuito è caratterizzato per la maggior parte dal salario più basso, dal lavoro meno sicuro e più umile. Il basso livello di istruzione influisce anche sulla capacità di interazione con la comunità di accoglienza: i rapporti e le relazioni sociali delle donne, anche per difficoltà linguistiche, tendono ad essere limitati al gruppo etnico di appartenenza che impedisce la mobilità verso modelli più alti. Le donne immigrate sono più facilmente vittime di soprusi e violazioni dei diritti umani, in particolare lo sfruttamento e l'abuso sessuale. Altrettanto importante è l'assenza di servizi sanitari di assistenza alla maternità: tra le emigranti e le rifugiate la gravidanza crea più problemi di quelli che attraversano le donne che vivono nelle comunità di appartenenza. Gli effetti delle migrazioni femminili devono essere analizzati sia nel contesto dello sviluppo economico che in quello dei mutamenti sociali. Nonostante la loro posizione di svantaggio, le emigranti sono diventate significativi soggetti economici a livello nazionale ed internazionale. Ad esempio nello Sri Lanka, verso la metà degli anni '80, le rimesse estere effettuate principalmente dalle donne residenti negli Stati del Golfo rappresentavano la seconda fonte di valuta estera subito dopo le entrate derivate dalla produzione e dal commercio del tè. Le migrazioni hanno anche un impatto sui tassi di fertilità: le informazioni disponibili indicano che le donne hanno meno figli al momento dell'emigrazione e continuano ad avere una bassa fertilità rispetto alle donne non emigranti delle aree rurali. E' stato affermato che l'emigrazione favorisce l'emancipazione, tuttavia le migrazioni possono non allargare le opportunità delle donne così come si potrebbe pensare: infatti, a causa dei sistemi sociali, dei forti legami di parentela e delle limitate opportunità di lavori, l'emancipazione della donna è solo lievemente maggiore che nei paesi d'origine. Nonostante si abbiano chiare prove della partecipazione alla forza lavoro, le politiche sull'immigrazione tendono ancora a considerare che gli "emigranti" siano uomini e che le donne siano "a loro carico". Il diritto delle donne al lavoro può essere severamente ristretto; l'accesso ai servizi sociali può essere limitato; il diritto alla naturalizzazione può essere indiretto e vincolato allo status di moglie. Le donne sole hanno grande difficoltà ad assicurarsi l'ingresso legale nei paesi industrializzati. Soltanto di recente gli studiosi e i politici hanno iniziato ad occuparsi sistematicamente" dell'invisibilità delle donne immigrate". accesso libero, equo e universale ai saperi (Da: UNFPA, Lo stato della popolazione mondiale 1993 op. cit.) CONDIZIONI DI VITA DEGLI IMMIGRATI La permanenza degli immigrati nei Paesi di accoglienza è spesso caratterizzata almeno in una prima fase da una condizione di disagio generale la cui gravità dipende dall‟efficienza dei servizi che il Paese d‟arrivo è in grado di offrire. L’Italia si è dimostrata impreparata ad accogliere quel flusso di immigrati che cercano condizioni di vita dignitose, soprattutto là dove queste sono tuttora negate anche a una parte di popolazione italiana. Inoltre gli immigrati non devono essere considerati come semplice fattore economico ma vanno riconosciuti come soggetti sociali e politici. Ne consegue una richiesta di ampliamento della sfera dei diritti (abitazione, istruzione, sanità, assistenza, previdenza, ecc.) spesso vissuta dalla comunità di accoglienza come un costo. L‟aumento della presenza di migranti appartenenti a culture molto diverse da quelle locali e il fenomeno delle migrazioni clandestine acuiscono le difficoltà di integrazione. 7.1 Il mondo del lavoro Gli immigrati provenienti dal Terzo Mondo sono occupati prevalentemente in mansioni con basso livello di qualificazione, spesso nocive alla salute e, nella maggioranza dei casi, poco retribuite. Il lavoro nero è una condizione assai ricorrente tra gli immigrati e ciò contribuisce ad aumentare la loro precarietà, in quanto privi di tutela giuridica e sociale. Nemmeno la regolarizzazione prevista dalle leggi 943/86 e 39/90 ha fatto emergere del tutto il lavoro nero (vd. scheda 8). Per quanto riguarda la formazione professionale non esiste ancora una efficace politica rivolta agli immigrati. Le iniziative finora realizzate da soggetti pubblici e privati hanno dovuto misurarsi con i ritardi normativi e il disinteresse o l'incapacità di molti enti locali. Persino precise indicazioni legislative contenute nella legge 39/90 riguardanti la regolarizzazione del lavoro autonomo e la possibilità di accesso alle professioni infermieristiche sono state per molti aspetti disattese. Non mancano le discriminazioni, anche formali, che impediscono o rendono difficile l'inserimento lavorativo. La più importante è l'impossibilità di accedere al pubblico impiego, diritto esclusivo dei cittadini italiani. Un'altra barriera è costituita dalla non equivalenza dei titoli di studio. Ciò comporta che, per un numero consistente di immigrati, l'arrivo in Italia rappresenta una regressione nella qualificazione. Si aggiunga l'ostacolo della lingua, il cui livello di conoscenza pregiudica talvolta l'assunzione o l'attribuzione di mansioni corrispondenti alla qualifica dell'immigrato. Questo ostacolo è particolarmente penalizzante in un Paese come l'Italia in cui le lingue straniere sono poco conosciute. Per gli immigrati che vivono in comunità chiuse, con relative opportunità di socializzazione, la sola frequenza dei corsi di lingua italiana (ove questi siano attivati) non è sufficiente a far acquisire dimestichezza linguistica. 7.2 La casa accesso libero, equo e universale ai saperi La richiesta abitativa avanzata dagli immigrati aggrava ulteriormente il problema della casa che ancora hanno migliaia di famiglie di italiani. Essendo gli immigrati nell'impossibilità di spendere grosse somme di denaro e spesso senza la sicurezza di un lavoro continuativo, essi trovano difficilmente alloggi dignitosi in cui vivere, specialmente in città dove le carenze abitative sono maggiori. Essi devono allora adattarsi ad una situazione di promiscuità: alloggiare in piccoli appartamenti, accalcati, dove si dorme a rotazione. Spesso pagano canoni altissimi e senza ricevere quietanze di pagamento, cosicché il proprietario, che a volte è anche il datore di lavoro, può farli sloggiare quando vuole, in quanto abusivi. Specialmente nelle medie e grandi città le amministrazioni locali hanno cercato di far fronte all'emergenza destinando agli immigrati grandi edifici pubblici dismessi, in cui si vive a decine o a centinaia, senza la minima privacy, con scarsi servizi igienici e di mensa. Si creano così dei ghetti in cui degrado umano ed emarginazione sociale aumentano con l'aumentare della diffidenza, se non di una vera e propria avversione, da parte della popolazione residente, che non tollera simili concentrazioni di stranieri, tanto diversi per cultura e modi di vita. Molti immigrati non hanno alloggio. Allora si appoggiano a connazionali per un'ospitalità temporanea, oppure dormono nelle sale d'attesa delle stazioni, in cantine, stalle. Considerando il problema abitativo in Italia, è indubbio che tale emergenza sarà superabile se il governo e le amministrazioni locali favoriranno il recupero del consistente patrimonio edilizio inutilizzato, bloccando le speculazioni che tengono sfitti migliaia di appartamenti, realizzando interventi di edilizia rispondenti alle esigenze di sfrattati, baraccati, senza casa, locali o immigrati. La legge 40/98 ha introdotto alcune novità, disponendo, innanzitutto, che vengono istituiti dagli Enti Locali “centri di accoglienza” per stranieri, regolarmente soggiornanti, che siano temporaneamente impossibilitati a provvedere autonomamente alle proprie esigenze abitative. Contemporaneamente viene riconosciuto ai medesimi il diritto di accedere, a condizioni di parità con i cittadini italiani agli alloggi di edilizia residenziale pubblica e al credito agevolato in materia edilizia, recupero, acquisto e locazione della prima casa di abitazione. 7.3 Diritti politici In Italia, solo chi gode della cittadinanza può partecipare alla vita politica. Gli stranieri possono iscriversi a partiti e sindacati, esprimere opinioni politiche, attivarsi nelle campagne elettorali, ma non possono votare né candidarsi nelle liste elettorali. Sotto questo profilo l'Italia si discosta dai Paesi del Centro-Nord Europa, che hanno accordato agli stranieri residenti il diritto di voto in alcune elezioni locali e regionali. 7.4 La scuola I modelli e le strutture educative mostrano difficoltà nel far fronte alla richiesta di istruzione, rappresentata dagli immigrati: mantenimento della identità culturale, tutela della lingua e della cultura d'origine, riconoscimento dei diplomi professionali acquisiti nei Paesi d'origine, fruizione di corsi di lingua e cultura italiana, fruizione di insegnamenti integrativi nella lingua e sulla cultura d'origine. L'intervento più diffuso a livello nazionale, destinato agli immigrati, è rappresentato dai corsi di alfabetizzazione condotti da insegnanti statali nell'ambito delle iniziative di educazione degli adulti. Nelle scuole dell'obbligo il numero dei minori stranieri presenti nell'anno scolastico 1998/99 è stato di 76.612. Circa l'80% di questi frequenta le scuole statali e sono per la maggior parte concentrati in sole sei Regioni (Lombardia, Emilia Romagna, Piemonte, Toscana e Veneto). Nella scuola elementare generalmente non vengono attivati progetti di comunicazione interculturale e insegnamenti sulla cultura di origine. Bambini che si trovano quasi improvvisamente a dover studiare in una lingua estranea, in un contesto che stravolge i loro valori tradizionali e il loro comportamento abituale, danno talvolta segnali di disadattamento. accesso libero, equo e universale ai saperi Alla scuola superiore possono iscriversi solo gli immigrati residenti, se il titolo di studio posseduto equivale a quello che consente in Italia l'accesso alla scuola superiore. Devono inoltre superare un esame di ammissione. Mancano interventi di orientamento, corsi preparatori di lingua italiana, servizi informativi specifici. Per l'iscrizione all'Università sono richiesti il permesso di soggiorno per motivi di studio, la conoscenza della lingua italiana e/o l'iscrizione preventiva ai corsi di italiano per stranieri, la possibilità di disporre di una borsa di studio o di somma mensile equivalente per tutta la durata degli studi e il superamento di un esame di ammissione. L'Autorità Ministeriale stabilisce di anno in anno il numero di studenti stranieri che possono essere ammessi nelle facoltà italiane. Gli studenti stranieri possono accedere alle mense universitarie ma non possono godere dell'alloggio gratuito. 7.5 La salute La legge 40/98 ha esteso l‟accesso alle prestazioni erogate dal Servizio Sanitario nazionale alla maggior parte degli stranieri regolarmente presenti sul territorio. Gli stranieri con permesso di soggiorno per lavoro o per motivi familiari hanno l‟obbligo di iscriversi al Servizio Sanitario Nazionale in condizioni di parità con i cittadini italiani. L‟iscrizione è gratuita. Agli stranieri con permesso per motivi di studio è lasciata invece la scelta fra un‟assicurazione privata e l‟iscrizione volontaria (e quindi a pagamento) al SSN. Gli stranieri semplicemente "presenti" sul territorio nazionale non hanno diritto all'assistenza medica generica, specialistica e farmaceutica. Sono però in ogni caso loro garantite le cure ospedaliere urgenti conseguenti a malattie, infortuni, maternità. (vedi scheda 8) E' un luogo comune, privo di fondamento, quello secondo cui gli immigrati "ci portano le malattie". Nella larga maggioranza dei casi, invece, essi si ammalano qui, vivendo in case sovraffollate, senza adeguati servizi igienici, senza acqua corrente oppure svolgendo lavori pericolosi e nocivi alla salute. La malattia é generalmente avvertita dagli immigrati come un dramma, dato che l'unica risorsa su cui contare per sopravvivere é possedere un organismo sano e robusto per lavorare. Ciò li spinge in determinate situazioni a trascurare la salute, a sottovalutare i sintomi della malattia o addirittura a negare di essere ammalati, per non perdere il posto di lavoro. Particolarmente pregiudicata é la situazione di chi lavora senza contratto e degli immigrati clandestini, i quali non possono usufruire dell'assistenza previdenziale, in caso di infortunio o di malattia, né maturare la pensione. accesso libero, equo e universale ai saperi Alunni con cittadinanza 1998/99 Area MATERNA cont V.A % di origine UE 685 21.77 Non 5.279 16.22 UE Africa 7.563 29.52 non italiana per ordine di scuola e continente di appartenenza. A.S. ELEMENT V.A. % MEDIA V.A. % SUPERIORE V.A. % TOTALE V.A. % 1354 43.04 16.605 51.03 591 7.071 18.79 21.73 516 3.586 16.40 11.02 3.146 100.0 32.541 100.0 10.454 40.81 5.530 21.59 2.069 8.08 25.616 100.0 Americ 1.620 a Asia 2.961 16.73 4.204 43.43 2.342 24.19 1.515 15.65 9.681 20.85 6.369 44.84 3.674 25.87 1.200 8.45 14.204 100.0 Oceani 8 a Apolidi 44 10.39 25 32.47 22 28.57 22 28.57 77 100.0 17.12 183 71.21 28 10.89 2 0.78 257 100.0 8.910 10.42 85.522 100.0 TOTAL 18.160 21.23 E 39.194 45.83 19.258 22.52 accesso libero, equo e universale ai saperi 100.0 LEGISLAZIONESULL’IMMIGRAZIONE Fino ad una quindicina di anni fa l‟Italia, che per quasi un secolo era stata terra da cui partire e non meta di flussi migratori, non aveva alcuna legge in materia di stranieri e di immigrazione. L‟unica legge cui fare riferimento era il Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza del 1931, seguito da una infinita serie di circolari, emanate dai differenti ministeri competenti, e spesso in contraddizione l‟una con l‟altra. Tre dovevano essere le coordinate lungo cui muoversi per arrivare ad una legislazione organica: 1. progressiva eliminazione delle discriminazioni nei confronti degli stranieri presenti sul territorio 2. adeguamento della politica nazionale sull‟immigrazione a quella degli altri paesi dell‟Europa occidentale. 3. Leggi di sanatoria che accompagnano le nuove leggi di indirizzo e programmazione per “regolarizzare” le situazioni di illegalità precedentemente createsi. Le leggi emanate nel corso di questi anni (in particolare la n.943/86 e la n.39/90, meglio nota come legge Martelli) hanno di volta in volta affrontato singoli aspetti della condizione dello straniero, ma solo nel 1998 siamo arrivati ad una legge organica che, abrogata quasi tutta la legislazione precedente, intende disciplinare in modo completo la condizione giuridica dello straniero. La legge n.40 del 6 marzo 1998 (inserita successivamente nel Testo Unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell‟immigrazione) fissa gli indirizzi, gli obiettivi e le regole su tutti gli aspetti che concernono la vita degli stranieri nel nostro paese, ma demanda al Governo e alle amministrazioni la loro attuazione. Nonostante lo sforzo di dare una disciplina unitaria ed organica all‟intera materia, è continuata quindi la prassi di regolare in concreto le situazioni attraverso circolari ministeriali ripetute e spesso L‟Italia aderisce agli accordi di Shengen. Gli accordi puntano a realizzare uno spazio comune di libera circolazione tra i cittadini degli Stati aderenti, cancellando le frontiere interne e rafforzando contraddittorie. i controlli alle frontiere esterne. Gli accordi prevedono anche la cooperazione tra polizie e autorità giudiziarie in materia penale e di estradizione e la creazione di un sistema di scambio di informazioni denominato SIS (Sistema Informativo Schengen). Fanno attualmente parte dell‟area Shengen: Germania, Francia, Olanda, Belgio, Lussemburgo, Italia, Spagna, Portogallo, Grecia, Austria e Finlandia. Tutti i paesi che aderiscono all‟accordo hanno eliminato i controlli alle frontiere comuni e hanno creato un unico sistema di visti e ingressi. I punti salienti della disciplina: Ingresso: l‟ingresso nello Stato italiano è subordinato al possesso di un passaporto valido e di un visto rilasciato dall‟ambasciata o dal consolato italiano del paese di residenza. La legge stabilisce quali sono le condizioni e i documenti necessari per i differenti tipi di visto (turismo, affari, lavoro, studio, cure mediche, ecc.). Il visto viene negato a chi è già stato espulso dall'Italia o da uno dei paesi dell'area Schengen e a chi è considerato come pericoloso per l'ordine pubblico e la sicurezza dell'Italia e degli altri paesi dell'Unione Europea in base ad accordi o intese internazionale. Ogni anno il Governo italiano stabilisce, con il decreto per "La programmazione dei Flussi", le quote massime di cittadini extracomunitari che possono entrare in Italia per motivi di lavoro . Il tetto viene definito in base a differenti criteri che fanno principalmente riferimento alle offerte di lavoro e alla accertata indisponibilità di manodopera sul mercato del lavoro nazionale. Accordi bilaterali tra l‟Italia ed i singoli Paesi di emigrazione possono portare a stabilire quote riservate a questi ultimi. Respingimento: Gli stranieri che si presentano alla frontiera senza i requisiti per l'ingresso in Italia (visto, passaporto, ma anche mezzi necessari per il sostentamento in Italia) sono respinti dalla polizia accesso libero, equo e universale ai saperi Anche se privi dei documenti e dei requisiti normalmente richiesti per l'ingresso in Italia, non possono essere respinti gli stranieri che richiedono asilo politico, hanno lo status di rifugiato, o beneficiano di misure di protezione temporanea per motivi umanitari. Lotta all’immigrazione clandestina: Le persone che favoriscono l'ingresso illegale di stranieri in Italia sono punite con il carcere da 3 a 12 anni e una multa fino a 30 milioni di lire per ogni per-sona fatta en-trare clande-stinamente in Italia. Il Soggiorno La carta di soggiorno Lo straniero che sia entrato regolarmente nel territorio italiano ha La carta di soggiorno è una delle novità introdotte dalla legge bisogno di un documento che lo n. 40/98. Il cittadino straniero che soggiorna in Italia da almeno cinque anni ed ha un permesso di soggiorno che autorizzi a trattenervisi. Il permesso di consente più rinnovi può chiedere il rilascio della carta di soggiorno deve essere richiesto, entro soggiorno. Questo documento, che sostituisce il permesso di otto giorni lavorativi dall‟ingresso in soggiorno ed ha durata di dieci anni, gli consentirà di entrare e uscire in Italia senza bisogno del visto, svolgere qualsiasi tipo Italia, al questore del luogo di di attività lecita che non sia riservata a cittadini italiani, destinazione. La durata del permesso ed accedere ai servizi e alle prestazioni della pubblica il motivo per cui viene rilasciato amministrazione e partecipare alla vita pubblica del luogo in cui vive. dipendono da quelli contenuti nel visto. La carta di soggiorno può essere revocata solo nel caso di In ogni caso la durata non potrà essere condanna per reati penali di particolari gravità. superiore a tre mesi per visite, affari e turismo, a sei mesi o nove mesi per lavoro stagionale, a un anno per studio o formazione, a due anni per lavoro autonomo, lavoro subordinato a tempo indeterminato e per ricongiungimenti familiari Rinnovo Il rinnovo va richiesto alla questura della provincia di residenza almeno 30 giorni prima della scadenza del permesso di soggiorno. Il questore verifica se ci sono ancora i requisiti che ne avevano determinato il rilascio oppure se ci sono le condizioni per la conversione. Il rinnovo o la proroga non sono consentiti per motivi di turismo e in caso di lunghe e continuative assenze dall'Italia (da un minimo di oltre 6 mesi a più della metà della durata di un permesso di soggiorno biennale). Rifiuto e revoca Il permesso di soggiorno viene negato se mancano i requisiti richiesti per l'ingresso e la permanenza. Il permesso può anche essere revocato se vengono a mancare alcuni dei requisiti necessari. La decisione deve essere comunicata allo straniero o direttamente o con notifica del provvedimento scritto e motivato. In caso di rifiuto o di revoca, si può fare ricorso al T.A.R. (Tribunale Amministrativo regionale) entro 60 giorni dalla comunicazione. Obblighi Il cittadino straniero deve mostrare il proprio permesso di soggiorno ogni volta che gli viene richiesto dagli ufficiali e agenti di pubblica sicurezza. Se si rifiuta, è punito con l'arresto fino a 6 mesi e una multa fino a ottocentomila lire. Le forze dell'ordine, se lo ritengono necessario, possono chiedere ulteriori informazioni e documenti sul lavoro, l'alloggio, il reddito di cui si dispone in Italia per mantenere i familiari a carico. In caso di cambio del domicilio, lo straniero deve avvisare il questore entro 15 giorni. accesso libero, equo e universale ai saperi Espulsione Il provvedimento di espulsione viene emanato dal prefetto nei confronti dello straniero che è entrato in Italia senza passare dai controlli di frontiera, soggiorna senza il permesso di soggiorno, oppure è in possesso di un permesso di soggiorno revocato, annullato oppure scaduto da oltre 60 giorni e non ha presentato la domanda per il rinnovo. Il cittadino straniero, per rilasciare l'Italia, ha 15 giorni di tempo a partire dalla data di "intimazione" dell'espulsione. L'espulsione è eseguita con l'accompagnamento alla frontiera da parte delle forze di polizia, se lo straniero: è considerato pericoloso o si è trattenuto in Italia oltre il termine fissato con l'intimazione del provvedimento oppure è stato espulso con provvedimento del Ministro dell'Interno. Divieto di espulsione Non può essere espulso o respinto lo straniero che rischia di essere vittima di persecuzioni o di essere rinviato verso uno Stato che non lo protegge da questo rischio. Sono inoltre esclusi dall'espulsione gli stranieri minori di 18 anni, gli stranieri in possesso dalla carta di soggiorno (salvo casi di particolare gravità), gli stranieri che convivono con parenti italiani entro il quarto grado o con il coniuge italiano e le donne in stato di gravidanza o nei sei mesi successivi alla nascita del figlio. I Diritti Ad ogni straniero presente sul territorio dello Stato (anche se privo di documenti) sono riconosciuti i diritti fondamentali della persona umana. Lo straniero regolarmente soggiornante gode inoltre dei medesimi diritti in materia civile attribuiti al cittadino italiano. Diritto alla salute La legge 40/98 ha reso obbligatoria (e gratuita, in quanto fiscalizzata) l‟iscrizione al Servizio Sanitario Nazionale di tutti gli stranieri che abbiano un permesso di soggiorno per motivi di lavoro, per motivi familiari, per richiesta asilo, per attesa adozione e per acquisto di cittadinanza. Gli stranieri con altri tipi di permesso (ad esempio per motivi di studio) sono comunque tenuti ad assicurasi, anche mediante l‟iscrizione volontaria al SSN. Lo straniero iscritto al SSN ha parità di trattamento e piena uguaglianza di diritti e doveri rispetto ai cittadini italiani. Le cure ambulatoriali e ospedaliere urgenti o essenziali, anche continuative, sono comunque assicurate a tutti gli stranieri, anche se non sono in regola con il permesso di soggiorno. In particolare sono garantite le prestazioni per la tutela della gravidanza e della maternità, allo stesso modo delle alle cittadine italiane, la tutela della salute del minore, le vaccinazione e gli interventi di profilassi internazionale, la profilassi, la diagnosi e la cura delle malattie infettive. Tutte queste prestazioni non sono a carico del cittadino straniero. L'accesso al Servizio Sanitario da parte di uno straniero non in regola con il permesso di soggiorno non comporta la segnalazione alla questura. La segnalazione può avvenire soltanto nei casi in cui il medico riscontra degli elementi che fanno ipotizzare un reato: in questo caso i medici sono tenuti a redigere un rapporto scritto (referto), come ugualmente avviene per i cittadini italiani. Diritto allo studio Minori Tutti i minori stranieri che non abbiano superato l'età di 15 anni, sia regolari che irregolari, hanno diritto all'istruzione (scuola dell'obbligo), ad accedere ai servizi educativi e a partecipare alla vita della comunità scolastica. Istruzione scolastica per gli adulti accesso libero, equo e universale ai saperi Anche agli stranieri adulti regolarmente presenti in Italia, viene garantita l'istruzione scolastica, potendo frequentare i seguenti corsi: corsi di alfabetizzazione nelle scuole elementari e medie per conseguire il titolo di studio della scuola dell'obbligo corsi di integrazione degli studi fatti nel Paese di provenienza per ottenere il titolo della scuola dell'obbligo o il diploma di scuola secondaria superiore corsi di lingua italiana corsi di formazione professionali. Università Ogni anno il Ministero degli Affari Esteri, in base alla disponibilità dei posti, stabilisce il numero dei visti di ingresso per studio e formazione nelle Università italiane.(vedi anche scheda n. 7) Possono iscriversi ai corsi universitari anche gli stranieri che abbiano una carta di soggiorno o un permesso per lavoro subordinato o autonomo, motivo familiare, asilo politico o umanitario, motivo religioso. Diritto alla difesa Ad ogni cittadino straniero sono garantiti gli stessi diritti alla difesa dei cittadini italiani. I cittadini stranieri, indagati o imputati, che non hanno un reddito sufficiente per pagarsi un avvocato, né in Italia né all'estero, hanno diritto al gratuito patrocinio: possono quindi scegliersi un difensore che sarà pagato dallo Stato. Diritto all’unità familiare. I cittadini stranieri che possiedono una carta di soggiorno o un permesso della durata di almeno 1 anno possono chiedere il ricongiungimento familiare con il coniuge legalmente convivente, con i figli minori a carico (anche affidati o adottati o nati fuori del matrimonio), con i genitori a carico, e con i parenti entro il terzo grado a carico, inabili al lavoro. La durata del permesso di soggiorno per motivi Principali riferimenti normativi familiari è la stessa L. 6 marzo 1998, n. 40 – Norme sulla condizione giuridica dello straniero del permesso di D.L. 25 luglio 1998, n.286 – Testo Unico delle disposizioni concernenti la disciplina soggiorno del dell‟immigrazione e norme sulla condizione giuridica dello straniero (coordina la legge 40/98 familiare con le preesistenti norme dell‟ordinamento) DPR 31 agosto 1999 n. 394 – regolamento di attuazione del Testo Unico n. 286/98 ricongiunto in Italia DPR 9 aprile 2001 – Programmazione dei flussi di ingresso dei lavoratori extracomunitari nel ed è rinnovabile alla territorio dello Stato. Il decreto viene rinnovato ogni anno. data della sua scadenza. accesso libero, equo e universale ai saperi VERSO QUALE MODELLO SOCIALE E‟ evidente ormai che il fenomeno immigratorio deve essere considerato dagli Europei come irreversibile. Occorre dunque porci di fronte alle questioni sollevate da una società sempre più variegata dal punto di vista etnico-culturale, al fine di garantirci una convivenza pacifica. Superate le prime fasi del ciclo migratorio, in cui risultava prioritario mettere a punto politiche che regolassero l‟ingresso e l‟accesso ai servizi sociali e l‟immissione nel mercato del lavoro, gli Stati dell‟Europa occidentale hanno dovuto approntare (e i paesi di recente immigrazione come l‟Italia stanno approntando) politiche di stabilizzazione di lungo periodo, in modo da rendere compatibile l‟unità della Nazione con le differenze culturali e sociali, legate alla presenza di immigrati, anche di seconda e di terza generazione. 9.1 Modelli sociali a confronto La complessità delle situazioni createsi con le migrazioni in vari momenti storici e in situazioni diverse ha dato origine a modelli di società molto differenti tra loro che rispecchiano gli orientamenti politici e sociali dominanti in quella determinata epoca. - E' il progetto sociale di integrazione alla base della politica nordamericana nei confronti dei migranti europei tra l'800 e l'inizio del '900. L'obiettivo era la creazione dell' "uomo americano", un individuo nuovo non più immigrato italiano, tedesco o irlandese. Il termine fusione indica la volontà di sciogliere le peculiarità culturali originarie di ogni immigrato per arrivare ad una società etnicamente e culturalmente omogenea. Tale modello è stato definito "melting pot" ossia crogiolo di razze. Questo progetto non si è mai realizzato, anzi al contrario un gruppo sociale, costituito dai WASP (White Anglo-Saxons and Protestans - bianchi, anglosassoni e protestanti), è divenuto dominante nella società americana Assimilazione - Si realizza togliendo valore alle culture diverse da quella dominante. L'integrazione è possibile nella misura in cui gli immigrati acquistano la cultura e i modi di vita della popolazione locale. La Francia, come sarà più diffusamente spiegato in seguito, ha adottato questo modello, ma si trova oggi a fronteggiare le rivendicazioni degli immigrati, in particolare di quelli di cultura islamica. Fusione Segregazione razziale - Si ha in condizioni di oppressione, formale e sistematica, da parte di un'etnia che detiene il potere politico, economico e culturale di uno Stato. Si basa sul presupposto che l'etnia dominante legittimi il proprio potere sulla convinzione dell'inferiorità "razziale" delle altre etnie. accesso libero, equo e universale ai saperi Questo modello ha caratterizzato la Repubblica del Sudafrica, fondata sul dominio di una minoranza bianca (i discendenti degli antichi coloni olandesi) e sul regime di "apartheid" nei confronti della maggioranza nera. La caduta di tale regime non ha impedito il persistere di gravi tensioni sociali provocate da questo modello 9.2 Esperienze europee a) il progetto francese: l'assimilazionismo etnocentrico "La società francese ha cercato di integrare l'immigrazione nell'unico modo concepibile in un Paese che si rappresenta come una grande nazione omogenea e si identifica profondamente con un forte Stato centralizzato che non riconosce al proprio interno né nazionalità minoritarie, né gruppi etnici locali e che contrasta con vigore ogni pretesa di mediazioni particolaristiche fra lo Stato e cittadini (ai quali d'altra parte assicura i diritti formali solennemente sanciti dalla Dichiarazione del 1789)". In concreto, il progetto francese impone che gli immigrati abbandonino completamente la propria identità etnico-culturale per divenire dei buoni cittadini francesi. L'assimilazione deve essere totale per quanto riguarda la lingua, la cultura e se possibile la mentalità. Tale politica, d'altra parte, era stata applicata anche nella gestione delle colonie nelle quali gli africani e gli asiatici potevano aspirare alla naturalizzazione francese nella misura in cui riuscivano ad assorbire la mentalità e la lingua francese. La stessa educazione, impartita nelle scuole delle colonie, aveva come obiettivo quello di far dimenticare la cultura locale: i libri di storia, per esempio, iniziavano con la frase "i nostri antenati Galli". Questa politica si scontra oggi con le rivendicazioni culturali e religiose degli stranieri che tendono a formare comunità etniche in contrasto con l'ideale assimilazionista. Ma "il vecchio modello fa però ancora sentire tutta la sua influenza sul piano amministrativo, dove continua a prevalere una politica di netto rifiuto per gli interventi speciali per gli stranieri ...e la preferenza per il ricorso a interventi "universalistici" di diritto comune, per tutti coloro (francesi o immigrati) che presentino determinati problemi (abitativi, sanitari, educativi, ecc.)". b) il progetto britannico: il pluralismo ineguale L'etnocentrismo inglese si manifesta in modo diverso rispetto a quello francese, è fondato infatti "sulla convinzione che gli immigrati anche dei Paesi tradizionalmente più vicini per storia e cultura mai potrebbero diventare, anche volendolo, dei "buoni britannici" (o, per meglio dire, dei buoni inglesi, dei buoni scozzesi, dei buoni gallesi). Li si accetta pertanto per quello che sono, dandone per scontata l'irrecuperabile diversità e ci si preoccupa quindi di metterli nella condizione di nuocere il meno possibile, limitandone le interferenze...Queste popolazioni trapiantate, perché di ciò in effetti si tratta, hanno potuto formare nel Regno Unito le loro comunità. Tali comunità etniche hanno così potuto diventare da tempo un importante punto di riferimento per le autorità amministrative...A queste comunità peraltro sono stati riconosciuti tanto dei diritti quanto dei privilegi." Una categoria a parte è costituita dagli immigrati del Commonwealth che, per la maggior parte, godono del diritto di voto attivo e passivo, sia alle elezioni politiche che amministrative. c) il progetto tedesco: l'istituzionalizzazione della precarietà Nonostante la Repubblica Federale Tedesca sia il Paese d'Europa con il più alto numero assoluto di immigrati (oltre 7 milioni), essa non si considera paese d'immigrazione. Infatti "in Germania gli immigrati sono stati considerati soltanto come lavoratori ospiti (gastarbeiter)...Gli immigrati restano fonda-mentalmente degli stranieri (auslaender) di cui si può anche apprezzare l'apporto economico, ma di cui non si caldeggia in alcun modo l'insediamento definitivo. Con loro si può accesso libero, equo e universale ai saperi anche convivere per un lungo periodo, se è necessario, senza che ciò implichi, peraltro, delle confusioni di stato. ...Anziché favorire la nazionalizzazione degli immigrati, infatti, ci si attende che essi siano sempre pronti a lasciare il paese, non soltanto per libera scelta o in seguito ad una crisi economica o una crisi politica, ma anche solo in ossequio ad un eventuale mutamento degli orientamenti governativi. Pertanto si mira non già alla loro assimilazione, ma al contrario, alla tutela della loro lingua e della loro cultura, in vista appunto del rientro. ...Tutta la normativa è orientata a favorire la temporaneità della presenza degli immigrati sul suolo tedesco e prevenirne il radicamento. A tal fine vengono privilegiati nettamente, ancora oggi, gli interventi di prima accoglienza, legati ad una effettiva presenza per motivi di lavoro, come, ad esempio, l'istituzione di dormitori;...la politica dei dormitori ottiene l'effetto di disincentivare i ricongiungimenti familiari, ammessi per rispetto dei diritti umani, ma poco graditi e quindi non facilitati. Allo stesso modo, tanto le iniziative di carattere culturale e sociale per i lavoratori quanto i programmi scolastici per i loro figli tendono a favorire il mantenimento dei legami con il Paese di origine, in vista del pur improbabile ritorno." (da: U. Melotti, L'immigrazione una sfida per l'Europa, Edizioni associate, 1992). 9.3 Il progetto interculturale Accanto ai modelli prima presentati e realizzatisi in determinati paesi, presentiamo un progetto alternativo di gestione delle differenze in una situazione multi-etnica: il progetto interculturale. Occorre distinguere nell'uso dei termini " multi o pluri-culturale" da "inter-culturale". I prefissi "multi" o "pluri" indicano una situazione di fatto, ovvero la compresenza di più culture; il prefisso "inter" al contrario prevede un rapporto e una compenetrazione tra le culture. Quello interculturale è un progetto, politico e individuale, che partendo da un dato di fatto - l'esistenza nel medesimo luogo di più gruppi e culture - cerca di favorire l'incontro e lo scambio. Quella interculturale non è quindi una politica basata sul pluralismo esteso in cui tutte le culture sono riconosciute, ma ognuno vive una vita propria isolata dalle altre; né è quella basata sull' assimilazionismo che, in nome di principi egualitaristi, porta all'assorbimento di tutte le differenze. Primo obiettivo di un progetto interculturale è quello di riconoscere che la propria cultura è una possibilità tra le altre, che non esiste tra esse un ordine gerarchico e che una cultura non può essere giudicata a partire da un'altra. Successivamente il progetto interculturale conduce gli individui a riflettere sulla propria cultura e li educa a prenderne le distanze per avviare un dialogo con altri individui portatori di culture diverse. L'interculturalità, come progetto politico, prevede scelte che permettano la creazione di spazi per un confronto tra i gruppi, promuove la conoscenza reciproca dei cittadini e degli stranieri a tutti i livelli della vita economica, sociale e culturale. Per tutti questi motivi la scuola è uno dei ambiti privilegiati e prioritari per educare alla differenza e al confronto. Non si può negare però che il modello costituito dalla società interculturale proprio per la sua connotazione ideale a volte si manifesta di non facile realizzazione. Il razzismo, la xenofobia e l'etnocentrismo sono alcuni degli ostacoli principali. Razzismo: "...nella sua accezione corrente la parola designa due ambiti molto diversi della realtà: si tratta, da un lato, di un comportamento, fatto perlopiù di odio e di disprezzo nei confronti di persone dotate di caratteristiche fisiche ben definite e differenti dalla nostra; dall'altro, di un'ideologia, di una dottrina riguardante le razze umane."(T. Todorov, Noi e gli altri, cit.) Etnocentrismo: è un atteggiamento psicologico che si evidenzia nel momento in cui si percepisce un altro gruppo, quindi un'altra cultura. In quel momento l'individuo tende ad elevare in modo indebito i valori caratteristici della propria società come valori universali. Questo atteggiamento può diventare "nazionalismo” come difesa assoluta e cieca della propria nazione. accesso libero, equo e universale ai saperi Xenofobia: è la paura dello straniero che si esprime in forme di discriminazione e violenza. La xenofobia proclama l'incompatibilità di mentalità e comportamenti tra differenti etnie; ritiene la coesistenza impraticabile e denuncia l'impossibilità di integrazione dei gruppi di immigrati. E' l'etnocentrismo al massimo grado e ritiene la presenza di stranieri pericolosa per l'identità della cultura perché inquinerebbe i suoi valori fondanti. La xenofobia arriva ad imputare i mali della società alla presenza dello straniero. GLI ORIENTAMENTI DEL CONSIGLIO D'EUROPA PER UN'EDUCAZIONE INTERCULTURALE * la revisione dei programmi di storia e di geografia per una lettura meno etnocentrica, approfondendo gli apporti delle migrazioni al nascere di diverse civiltà e culture. * l'introduzione di alcune scienze umane come l'antropologia culturale, la sociologia delle lingue e delle culture. * la conoscenza dei Diritti Umani e l'individuazione delle fonti dell'intolleranza e della xenofobia. accesso libero, equo e universale ai saperi PROSPETTIVE E POLITICHE DELLE MIGRAZIONI La rapida crescita della popolazione mondiale ha rappresentato una costante degli ultimi anni e lo sarà anche per i prossimi trenta. Attualmente la popolazione mondiale supera i 5 miliardi e mezzo; nel 2000 la popolazione sarà probabilmente di 6,25 miliardi e nel 2025 la quota sarà di 8,5 miliardi. Si stima comunque che globalmente i tassi di crescita più rapidi si registrano nei Paesi più poveri. L'aumento maggiore si registrerà in Africa dove dai 640 milioni di persone del 1990 si passerà ai 1500 milioni nel 2025. Il continente più affollato sarà l'Asia con quasi 5 miliardi di abitanti. La crescita demografica di per sé non è la causa principale delle migrazioni. Paesi che hanno oggi un maggior numero di emigranti, come il Messico, la Turchia e il Marocco, presentano tassi di crescita della popolazione relativamente moderati. E' piuttosto il perdurare della situazione di squilibrio (economico, sociale, ecologico, politico) tra i Paesi industrializzati e quelli in via di sviluppo, sommato alla crescita demografica, a favorire le migrazioni. Le tendenze migratorie raddoppieranno nell'arco dei prossimi due o tre decenni e si potranno determinare ingenti flussi migratori dai Paesi poveri verso quelli più ricchi. Tuttavia il peso maggiore delle migrazioni sarà sostenuto dai Paesi del Sud del Mondo. Infatti nel prossimo futuro la principale emigrazione sarà dalle aree rurali alle megalopoli degli Stati poveri. Entro il 2000, le 125 città dei Paesi in via di sviluppo che contano più di 1 milione di abitanti diventeranno oltre 300 e tra le 20 maggiori città del mondo solo 4 apparteranno ai Paesi industrializzati. Mentre la crescita urbana procederà a ritmi senza precedenti, le città avranno sempre minori capacità di fornire opportunità economiche e anche i più modesti livelli di servizi essenziali ai nuovi immigrati. Questo provocherà l'aumento delle bidonvilles nelle periferie delle grandi città che costituiscono già uno dei problemi di più difficile soluzione. Tra le cause di future emigrazioni non bisogna dimenticare quelle ecologiche, come la desertificazione progressiva di ampie zone, la salinizzazione, il disboscamento. E' stato previsto per esempio che nel futuro il surriscaldamento della terra renderà alcune isole, aree costiere e delta di fiumi inabitabili a causa dell'innalzamento del livello del mare: si è calcolato che solo questo fatto trasformerà il 16% della popolazione egiziana ed il 10% della popolazione del Bangladesh in rifugiati per cause ambientali. Si può prevedere anche un aumento dei rifugiati politici, che come si è già visto sono accolti per la maggior parte in campi profughi dei Paesi in via di sviluppo. Anche nel prossimo futuro la situazione non cambierà aggravando così la già critica condizione di questi Stati. Dalla fine degli anni '80 è iniziata la trasformazione politica ed economica dei Paesi dell'Europa orientale. Troppo a lungo isolati e retti da un sistema autarchico, essi stanno attraversando una crisi economica. Nel breve e medio periodo, la transizione dal sistema socialista pianificato a quello capitalistico di mercato è destinata a causare un peggioramento delle condizioni di vita, con un aumento vertiginoso del fabbisogno finanziario (stimato in 6800 mld di $ USA) e un incremento della disoccupazione senza precedenti. Dal rapido scenario tracciato, le ipotesi più realistiche relative ai flussi migratori futuri sono le seguenti: - nonostante la limitata capacità di assorbimento di nuova forza lavoro, è del tutto probabile che il flusso migratorio dal Terzo Mondo verso i Paesi dell'Europa occidentale continuerà, anche solo per coprire posti di lavoro indesiderati dai lavoratori locali; - il permanere di un'economia sommersa, soprattutto negli Stati europei mediterranei, incoraggerà l'immigrazione anche clandestina. (dati da: UNFPA (a cura di), Lo stato della popolazione mondiale 1993, op.cit.) 10.2 Le prospettive in Italia accesso libero, equo e universale ai saperi Lo squilibrio rimane una chiave di lettura irrinunciabile anche quando dal contesto mondiale si passa a quello mediterraneo. Secondo le previsioni ONU, la popolazione dei Paesi che si affacciano sul Mediterraneo crescerà tra il 1985 e il 2020 di circa 178 milioni di abitanti, di cui 14,5 milioni nella sponda nord e i rimanenti 163,5 nelle sponde sud e est. Di questi ultimi ben 131 milioni saranno in età lavorativa (15-65 anni), contro appena 4 dei 14,5 della sponda nord. Rispetto alla situazione demografica dell'Italia il calo della fecondità dalla fine degli anni sessanta ad oggi e il contemporaneo innalzamento della durata media della vita a 76 anni fanno presupporre un decremento della popolazione italiana in età lavorativa nei prossimi anni. La situazione sarà quindi caratterizzata da un calo della forza lavoro e già ora l'Italia é uno tra i primi Paesi al mondo in cui il numero delle persone con meno di venti anni é inferiore a quello delle persone con più di sessanta. Il differenziale di crescita demografico tra il Sud del Mediterraneo e il Nord, in particolare l'Italia, costituirà un fattore di spinta all'emigrazione, ma risulta ugualmente molto difficile immaginare come evolveranno la situazione socioeconomica in Italia e le emigrazioni. Questa situazione di "incertezza" sul futuro è causata da alcuni fattori: - oggi solo il 25-30% dei migranti nel mondo si spostano tra il Sud e il Nord, ma non sappiamo in che direzione si modificheranno i flussi, dal momento che i nuovi Paesi entreranno nella cerchia dei Paesi ricchi (soprattutto nel sud-est asiatico) ed altri tra i Paesi in via di sviluppo diventeranno ancora più poveri; - non esistono orientamenti "maturi" nelle politiche migratorie dei Paesi di destinazione, in particolare l'Italia non ha ancora compiuto scelte definitive in tema di immigrazione e integrazione; - non sono ancora sicuri gli orientamenti della Comunità Europea e dell'Italia in tema di economia e politica internazionale; - da ultimo l'incertezza nelle migrazioni è data dal sempre vivo rischio di possibili guerre e stravolgimenti politico-economici anche nelle vicinanze dell'Europa (ne è un esempio il caso dei Balcani). Riveste notevole importanza anche un fattore di tipo socioculturale: ci riferiamo al livello di accettazione sociale degli immigrati da parte della popolazione locale. Vi è timore, più o meno fondato, che un supposto forte potenziale di crescita demografica degli immigrati possa provocare da un lato la perdita dell'identità etnico-culturale, dall'altro l'aumento della concorrenza tra le classi sociali più umili e gli immigrati sul piano del mercato del lavoro e dell'accesso ai servizi socioassistenziali. Bisogna ammettere, a questo proposito, che gli organi di informazione e molti movimenti culturali e politici, senza un'oggettiva base d'analisi del fenomeno immigratorio, fomentano tra la popolazione nazionale la sindrome della "fortezza assediata" ed alimentano atteggiamenti xenofobi e razzisti. Il problema dell'immigrazione non va affrontato in modo emotivo e preconcetto. Proprio per la sua complessità, esso richiede un'attenta analisi di tutte le componenti che intervengono nella determinazione del fenomeno, nonché la messa a punto di azioni comuni a tutti i Paesi dell'Europa occidentale o, almeno, comunitaria, in accordo con le regioni povere che alimentano i flussi. (dati da: Censis (a cura di ), I nuovi scenari dell'immigrazione, Roma, 1993) 10.3 Politiche migratorie dirette Obiettivi concreti di tali politiche dovrebbero essere: 1) favorire un flusso immigratorio compatibile con le capacità che ciascun Paese saprà sviluppare per organizzare l'insediamento temporaneo o permanente degli immigrati; 2) impedire, per quanto possibile, le migrazioni clandestine. accesso libero, equo e universale ai saperi La realizzazione di tali obiettivi richiede uno sforzo ulteriore nella programmazione economica e sociale per poter passare velocemente dalla fase di prima accoglienza a quella di un inserimento nella società a condizioni di parità con i cittadini del Paese di immigrazione. Onde evitare i fenomeni di emarginazione è auspicabile il superamento dei circuiti di lavoro nero e, sul piano culturale, un consistente impegno da parte delle istituzioni pubbliche e delle associazioni, mirante ad accrescere la conoscenza delle lingue straniere e delle culture diverse da quella nazionale 10.4 Politiche migratorie indirette E' necessario superare la fase dei provvedimenti che inseguono l'immigrazione già verificatasi ed agire invece sulle cause che determinano il fenomeno. E' ormai provato che l'unico disincentivo a migrare è la drastica riduzione del differenziale di reddito pro capite tra Paesi ricchi e Paesi poveri. Sembra ragionevole ritenere che il rimedio per l'immigrazione sia un'efficace cooperazione tra Nord e Sud del mondo, mirante a riequilibrare le condizioni di vita delle popolazioni. E' doverosa, però, una revisione critica delle politiche di cooperazione allo sviluppo condotte finora dai Paesi a sviluppo avanzato, incentrata sui prestiti e sulla spinta dei Paesi sottosviluppati a produrre quei beni che possono commercializzare sul mercato internazionale . Sia ben chiaro che l'accesso ai capitali e agli scambi commerciali non sono di per sé sufficienti a favorire la crescita dei Paesi poveri. Attualmente sembra però necessario abolire tutte quelle misure protezionistiche che i Paesi industrializzati hanno eretto a difesa delle proprie economie: sarebbero proprio queste barriere ad impedire l'accesso dei Paesi poveri al libero mercato e di partecipare al sistema economico mondiale con le stesse possibilità degli altri Paesi. In secondo luogo i programmi di cooperazione impostati dagli Stati ricchi, non possono prescindere né sostituirsi alle politiche nazionali di sviluppo; in particolare devono escludere l'indebitamento o, peggio, l'abbattimento dello stato sociale. Si impone dunque una nuova fase della cooperazione internazionale imposta su criteri di equità negli scambi e di solidarietà verso chi è in condizioni di svantaggio. L L O N G Leee O ON NG G eee llleee cccoooooopppeeerrraaazzziiiooonnneee Con cooperazione internazionale e altre definizioni simili, si raggruppano tutti gli interventi volti a favorire lo sviluppo dei Paesi meno sviluppati. Sebbene si sia giunti ad elaborare un concetto di sviluppo umano profondamente diverso da quello economico, la cooperazione continua ad essere valutata per lo più in termini monetari. Ciò crea una serie di equivoci: mentre viene inteso comunemente che la cooperazione sia un aiuto doveroso dei ricchi verso i poveri, in realtà in essa vengono compresi tutti gli interventi pubblici e privati che dagli Stati o da un loro insieme siano volti a creare ricchezza in un altro. Delle circa 120 organizzazioni non governative (ONG) riconosciute idonee dal Ministero degli Affari Esteri per realizzare programmi di cooperazione internazionale, una sessantina utilizzano personale volontario e cooperanti. In base alla legge 49/1987, i volontari devono prestare servizio per almeno due anni nei paesi in via di sviluppo, hanno diritto al mantenimento del posto di lavoro (se dipendenti pubblici) e ricevono una sorta di stipendio per il loro mantenimento. I cooperanti sono impiegati in missioni di durata variabile: da pochi mesi a due anni. Le professionalità richieste sono le più varie e dipendono dal tipo di progetto, dal contesto socioeconomico e dal Paese in cui si opera. Molti volontari partono con il coniuge, che può essere anch‟esso volontario o a “carico” e, chi li ha, con i figli. Il volontariato internazionale assolve l‟obbligo di leva. La maggior parte delle ONG è riunita in tre federazioni: il COCIS, ad ispirazione laica, con sede in via Correnti 17, 20123 Milano, tel. 02/89401705-1602, fax 02/58102285; la FOCSIV, ad ispirazione cattolica, con sede in via del Conservatorio 1, 00186 Roma, tel. 06/6877796867, fax 06/6872373; ed il CIPSI, che riunisce alcune organizzazioni che fanno progetti senza impiego di volontari, che ha sede in via Baldelli 41, Roma, tel.06/5414894, fax 06/59600533. accesso libero, equo e universale ai saperi Il Progetto Migratorio Introduzione L‟enorme squilibrio esistente tra il Nord ed il Sud del mondo in termini di distribuzione di ricchezza è alla base delle massicce migrazioni di cui assistiamo attualmente. Milioni di persone di fronte all‟immutabilità delle condizioni di vita al limite della sopravvivenza tipica dei P.V.S. prima o poi abbandonano il proprio Paese alla ricerca di soluzioni altrove. Ignorando i fattori di attrazione e di scelta perché occupano un posto marginale nella determinazione delle partenze e nel contempo considerando quelli di espulsione come la causa principale del mutamento del luogo di vita, si può sostenere che le emigrazioni sono prevalentemente forzate e, a seconda delle situazioni (vedi più avanti) possono essere programmati o meno. Gli immigrati partono con molte illusioni e si aspettano di concretizzare i loro progetti con minore fatica, molto spesso si aspirano a svolgere lavori di loro piacimento (area di formazione) e, invece si trovano a dovere adempiere mansioni più pesanti ed umilianti rifiutate molto spesso dagli autoctoni. In modo analogo, le condizioni abitative scarseggiano e alla fine versano nelle situazioni al limite della sopravvivenza. Lo sforzo della mia riflessione, è quello di fornire una chiave di lettura in grado di classificare i progetti migratori degli immigrati. A tale riguardo, ho proposto il concetto della Triade socioeconomica nel cambiamento di luogo di vita. Con questa terminologia intendo spiegare in che modo e che tipi di cambiamenti si hanno in immigrazione. Lo spostamento delle persone si verifica in due modalità: trasferimento in un altro paese per un periodo considerevole o definitivo e dislocamento per brevi periodi pur continuando a mantenere la residenza nel proprio paese. In entrambi casi e a seconda del progetto migratorio, da un lato, si può avere solo il miglioramento della condizione economica, dall‟altro, una conquista di uno status sociale elevato accompagnato naturalmente da un maggiore potere d‟acquisto. La prima trattazione riguarda lo strumento legislativo in materia di immigrazione ed è volta ad evidenziare come il governo italiano seppure abbisogna annualmente di manodopera immigrata per molti dei segmenti produttivi della sua economia abbia prodotto una legge che non solo non tiene minimamente conto dell‟importante contributo apportato dagli immigrati, ma addirittura si orienti nella direzione che viola i loro diritti, ad esempio, l‟ottenimento del permesso di soggiorno è vincolato dal contratto di lavoro. Nel secondo punto, evidenzierò il tema della preparazione del viaggio perciò che riguarda sia le difficoltà economiche sia quelle burocratiche. Seguirà il paragrafo relativo al problema del cambiamento sotto vari punti di vista nella società di immigrazione: la riuscita del non autoctone dipende in buona parte dalla sua capacità di adattamento. Con l‟aiuto dei dati relativi alle fonti dal Ministero dell‟Interno, presenterò una breve analisi circa la dimensione del fenomeno migratorio nelle sue varie caratteristiche: numero, provenienze, genere e trend. A questo punto, l‟esposizione continuerà con l‟analisi delle teorie che spiegano i processi migratori a cominciare dai contributi classici fino a comprendere quelli più recenti; questi ultimi evidenziano come in genere ad emigrare non sono solo persone povere, ma soggetti che provengono dai luoghi dove si inizia ad intravedere i miglioramenti socio-economici. La riflessione a seguire, si concentrerà sull‟argomento di emigrazione programmata alla quale si assocerà il tema delle tipologie progettuali e dei cambiamenti ad esse legate. Un altro fattore importante di questa mia esposizione, è dato dal tema del confronto quale aspetto catalizzatore delle partenze. L‟analisi prenderà in considerazione una ricerca che ha lo scopo di dimostrare come i dati in essa contenuti mettono con chiarezza che le condizioni di vita degli immigrati considerati rientrino pienamente nella prima tipologia del cambiamento di luogo di vita (miglioramento del potere d’acquisto accesso libero, equo e universale ai saperi contrassegnato dall’immutabilità dello status sociale). Un tema che non poteva mancare in questa riflessione riguarda la situazione lavorativa degli immigrati; come ho affermato sopra, nella stragrande maggioranza dei casi, gli immigrati si riducono a svolgere lavori pesanti ed in condizioni poco sane. L‟argomento del lavoro immigrato per una considerevole parte, concerne l‟inserimento nel sommerso a causa anche delle difficoltà legate alla regolarizzazione dello status giuridico. Infine, cercherò di evidenziare/richiamare alcune difficoltà insite nel fenomeno migratorio e che meritano di essere costantemente sostenute con particolare riguardo nella prima fase dell‟ingresso. Lo strumento legislativo Legge sull’Immigrazione (Ddl Senato 11/07/02) Un primo intervento legislativo del governo italiano in materia di lavoro per gli immigrati non appartenenti all‟U.E. risale alla legge n.943, art. 6 comma 1, 30 dicembre 1986. In seguito, con l‟art. 9 comma 3 della legge 28 febbraio 1990, n. 39, si giunge ad attribuire al lavoratore immigrato la possibilità di iscrizione nelle liste di collocamento predisposte per i lavoratori italiani a livello circoscrizionale, anche nelle more del rilascio del libretto di lavoro (Centro Studi e Formazione Sociale, 1995). L‟11 Luglio 2002 sono state apportate delle modifiche al T.U. sull‟immigrazione del 1998, introducendo misure più rigide rispetto alle disposizioni finora in vigore. Tra le novità più eclatanti troviamo che gli immigrati non potranno più cercare lavoro una volta in Italia ma dovranno essere in possesso di un regolare contratto lavorativo già al momento del loro ingresso e che diventa obbligatorio il rilascio delle impronte digitali al momento della richiesta del permesso di soggiorno. Segnalerò in particolare le modifiche introdotte dalla legge sul tema del lavoro, tralasciando quelle sulla questione sicurezza e ordine pubblico ritenute meno importanti ai fini di questa riflessione. Articolo 3 Il Decreto Quote del Presidente del Consiglio per determinare le quote di immigrati che ogni anno potranno entrare in Italia diventerà facoltativo. Articolo 5 Lo straniero che richiede il permesso di soggiorno è sottoposto a rilievi fotodattiloscopici. 3-bis. Il permesso di soggiorno per motivi di lavoro è rilasciato solo in seguito alla stipula del contratto di soggiorno per lavoro subordinato di cui all‟articolo 5-bis. La durata del relativo permesso di soggiorno per lavoro è quella prevista dal contratto di soggiorno e comunque non può superare: in relazione ad uno o più contratti di lavoro stagionale, la durata complessiva di nove mesi; in relazione ad un contratto di lavoro subordinato a tempo determinato, la durata di un anno; in relazione ad un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, la durata di due anni. accesso libero, equo e universale ai saperi Articolo 6 Il datore di lavoro avrà l‟obbligo di fornire garanzie sulla disponibilità di un alloggio per il lavoratore immigrato e l‟impegno delle spese di viaggio per il rientro del lavoratore nel paese di provenienza. Articolo 9 Passerà da cinque a sei anni il periodo di permanenza necessario per ottenere la carta di soggiorno a tempo indeterminato. Articolo 12 Gli immigrati trovati privi di regolare permesso di soggiorno saranno espulsi per via amministrativa e, se privi di documenti, saranno condotti in centri di permanenza per un periodo di 60 giorni, necessari allo svolgimento delle pratiche per l‟identificazione. In mancanza d‟identificazione, sarà intimato l‟abbandono del territorio italiano entro tre giorni (anziché quindici come in passato). Sarà considerato reato il ritorno in Italia a seguito dell‟espulsione. Articolo 17 Nella prefettura di ogni provincia sarà istituito uno sportello unico atto all‟assunzione dei lavoratori immigrati, al quale dovrà rivolgersi il datore di lavoro con l‟idonea documentazione. Lo sportello unico trasmette la documentazione agli uffici consolari, i quali dopo i dovuti accertamenti provvedono a rilasciare il visto di ingresso. Entro 8 giorni dall‟ingresso in Italia l‟immigrato deve rivolgersi al suddetto ufficio per la firma del contratto di soggiorno dove resterà conservato. È compito dello sportello unico trasmettere in copia il contratto di soggiorno agli uffici consolari competenti e al centro per l‟impiego territoriale. La perdita del posto di lavoro, anche per recesso volontario, non costituisce motivo di revoca del permesso di soggiorno al lavoratore extracomunitario e ai suoi familiari legalmente residenti. L‟immigrato può essere iscritto nelle liste di collocamento per il periodo di validità residua del permesso di soggiorno. Articolo 22 Il ricongiungimento familiare ( del coniuge, del figlio minore o di figli maggiorenni) sarà possibile al cittadino immigrato in possesso di regolare permesso di soggiorno purché ne possa garantire il sostentamento. Sarà inoltre possibile il ricongiungimento dei genitori che avranno compiuto il sessantacinquesimo anno d‟età ed ai quali nessun altro figlio possa provvedere. Articolo 29 Ogni famiglia potrà regolarizzare una sola colf; nessun limite invece è imposto per le badanti di portatori di handicap, anziani e persone malate. La denuncia per la regolarizzazione deve essere presentata all‟ufficio territoriale della prefettura entro due mesi dall‟entrata in vigore della legge. Inoltre, è stata eliminata la figura dello sponsor (elemento caratterizzante della legge TurcoNapolitano). accesso libero, equo e universale ai saperi Pur avendo tralasciato la parte sulla sicurezza e le relative sanzioni, ciò che colpisce maggiormente è la direzione presa nel rivedere il T.U. attraverso il nuovo disegno di legge, un orientamento decisamente indirizzato più a problemi di ordine pubblico con misure coatte, e quindi di lotta alla clandestinità, piuttosto che attento ad importanti azioni o politiche di inserimento al lavoro e all‟integrazione degli immigrati. Interventi questi che faciliterebbero la convivenza tra immigrati e cittadini italiani. L‟importante beneficio di cui trae l‟Italia dalla forza lavoro immigrata non può ridursi nell‟assoluto controllo sociale rappresentato dalla nuova legge: concessione del permesso di soggiorno vincolato da un contratto di lavoro. Secondo le stime riportate dall‟INPS per l‟anno 1999, il gettito contributivo dei lavoratori immigrati equivale 1.325 milioni di euro (Caritas, 1999). Quand‟anche si è cercato di muoversi in maniera più consona, questo disegno di legge sembra inattuabile e poco realistico. Soffermandomi su alcuni punti innovativi del disegno di legge poc‟anzi descritti, sorgono alcune constatazioni e quesiti come sul rinnovo dei permessi. Proprio a tal proposito finora si è assistito a lunghe code di immigrati davanti alle Questure con ritardi nelle consegne per l‟aggravio di lavoro che si ritrovano. Cosa succederà nei prossimi anni, semmai si riuscirà ad attuare le nuove norme? E soprattutto riusciranno a rispettare i tempi richiesti per il rinnovo o il rilascio dei vari documenti? Per quanto riguarda la questione sugli alloggi da parte dei datori di lavoro si potrebbe dire che si tratta di una proposta molto interessante se non fosse di difficile attuazione. La difficoltà di reperire un‟abitazione per immigrati è talmente diffusa che neanche il datore di lavoro sarà in grado di assicurare tale sistemazione. Questo problema è conosciuto da sempre e in questo modo si cerca solo di lanciare la patata bollente ai datori di lavoro che per evitare di scottarsi, molto probabilmente opteranno per una soluzione illegale, cioè seguiteranno a prendere manodopera in nero. Una soluzione più razionale e concreta sarebbe stata quella di proporre incentivi atti a facilitare la coordinazione tra imprese edili, enti locali e associazioni al fine di creare abitazioni per immigrati cercando, ovviamente, di evitare situazioni ghettizzanti. Il provvedimento, praticamente, delega al datore di lavoro ogni responsabilità e crea una situazione di ricattabilità ai danni dell‟immigrato, perché dipenderà dalla persona che fornisce il lavoro anche la sistemazione alloggiativa, così l‟immigrato perdendo il lavoro perde anche la casa. In relazione al ricongiungimento familiare c‟è da chiedersi come potranno essere svolti i dovuti accertamenti per constatare l‟effettiva inadeguatezza del sostentamento da parte di uno dei figli. Se anche un figlio lavora nel paese d‟origine, come si può impedire al padre di raggiungere l‟altro figlio immigrato, considerata la misera paga che caratterizza i PVS e che sicuramente non può garantire il sostentamento di un‟altra persona? Allora, quali sono i criteri adottati per stabilire l‟eventuale ricongiungimento? L‟eliminazione dello sponsor penalizza soprattutto, ma non solo, l‟area del lavoro domestico e di assistenza, un settore in cui c‟è una fortissima richiesta di lavoratori immigrati. Sarà molto difficile trovare un vecchietto che si fidi di una lista di prenotazione delle colf e badanti o faccia entrare in casa una persona sconosciuta da tutti e che arriva da lontano. In modo particolare, in questo ambito la stipula di un contratto di lavoro è preceduta d un rapporto di conoscenza e di fiducia. Rispetto a queste indicazioni c‟è il rischio che si inneschino assunzioni in nero o che questo settore rimanga carente di personale. Molto spesso ci si dimentica che si ha a che fare con esseri umani che provano dei sentimenti, delle emozioni e affetti, sia gli immigrati sia gli italiani, e che ambo le parti necessitano di politiche mirate alla costruzione di rapporti di conoscenza e di fiducia reciproca, piuttosto che di stipule di contratti lavorativi che limitano la legalità e facilitano l‟insorgenza di pregiudizi e di diffidenze, nonché confusione tra il delinquente e il lavoratore precario, magari proprio vittima del "caporalato". accesso libero, equo e universale ai saperi La preparazione del viaggio Quando una persona si accinge ad emigrare, si imbatte principalmente in tre questioni: accantonare/interrompere ciò che stava portando avanti dopo aver soppesato i vantaggi e gli svantaggi della scelta; disporre di cospicue risorse economiche per affrontare le spese del viaggio ( e questo è un paradosso per l‟emigrante!); procurarsi i canali legali giusti che favoriscano la riuscita nell‟impresa. Se il primo fattore è di importanza secondaria, gli ultimi due sono indispensabili. Parlando più strettamente dell‟aspetto economico, si può affermare che la frequente inflazione, la bassa paga dei dipendenti e il basso costo dei prodotti agricoli dei P.V.S., fanno sì che l‟acquisto del biglietto di aereo/nave si trasformi in un autentico sacrificio economico. In genere il costo del viaggio è il risultato di tanti anni di risparmio, in alcuni casi vengono coinvolti anche i parenti dell‟immigrato. La preparazione e la realizzazione del viaggio è raramente una pratica unicamente individuale, ma si concretizza grazie al supporto e all‟aiuto di familiari, amici ed istituzioni presenti sul territorio (Mauri et al., 1993). Gli eccessivi costi del biglietto e delle pratiche burocratiche portano a volte a quintuplicare la spesa complessiva del viaggio. Pur di raggiungere la loro destinazione e nell‟illusione di trovare subito un lavoro, gli immigrati arrivano a pagare cifre da capogiro oppure quando non dispongono della somma necessaria contraggono debiti per sostenere le spese del viaggio. Tali costi variano a seconda dell‟area di provenienza, per alcuni immigrati, ad esempio i cinesi, il debito da pagare per il viaggio varia tra 5.000 a 15.000 euro; 750 per gli albanesi; circa 2.750 euro per gli immigrati africani. Mariet, una donna originaria di Manila (Filippine) ha riferito di avere pagato 1.000 euro per ottenere un passaporto falso e un visto per entrare in Italia (Macioti et al., 1991). Si tratta di cifre da capogiro nei P.V.S. L‟elevatissimo costo del viaggio supportato in genere da debiti contratti fanno sì che per alcuni immigrati a fronte della minaccia del fallimento o dell‟insuccesso cadano nella trappola della malavita organizzata. L’immigrazione come cambiamento Il lungo percorso di cambiamento può avere inizio da diverse zone del Paese, come la campagna, la città o la capitale. Comunque sia, la capitale è il punto con il maggiore numero di persone che emigrano. Può accadere che un contadino decida personalmente di lasciare il proprio villaggio oppure venga invitato da un parente o amico a trasferirsi in città con l‟obiettivo di procurarsi un‟occupazione moderna e più redditizia (Lanternari in Macioti, 1998). La sosta nella capitale spesso è inevitabile perché generalmente tutte le pratiche necessarie per l‟espatrio vengono svolte lì e quindi anche persone provenienti dai villaggi devono passarvi. Quando la persona arriva in Europa, l‟impatto con le abitudini occidentali è più problematico per colui che proviene dalle zone rurali rispetto a chi è nato e ha vissuto in città dal momento che i centri urbani sono maggiormente influenzati dalla cultura europea (attraverso gli scambi politici, commerciali e l‟influenza della TV) di quanto non lo siano i villaggi. La decisione di emigrare, pur rimanendo una grossa opportunità di miglioramento, per buona parte degli immigrati si trasforma in un autentico sacrificio in termini non solo di investimento, ma soprattutto di adattamento. Infatti, alcune persone poco dotate di risorse cognitive (e non solo) sono più soggette a rimanere vittime dello stress derivante dall‟esperienza migratoria con conseguenze di vario genere. Tuttavia, Il cambiamento è un evento insito nelle potenzialità del cervello umano, il non saperlo gestire, affrontarlo, provoca una disorganizzazione nella dinamica dei processi vitali dell‟individuo (Tognetti Bordogna et al., 1992). Il bisogno e la speranza di poter condurre una vita più dignitosa e nel contempo di contribuire allo sviluppo del proprio Paese ricompensa dal prezzo pagato in termini di sacrifici. In ogni nazione accesso libero, equo e universale ai saperi servono quegli individui che sono in continua mobilità, che fanno circolare le idee, i soldi, le merci fra contesti differenti - tali soggetti sono i protagonisti del cambiamento, sono i soggetti trainanti al mutamento. Il fenomeno del rinnovamento è inevitabile e contiene in sé elementi positivi, creativi e di grande sviluppo che deve potersi verificare in modo sano (ibidem). Il rapido sviluppo di alcuni Paesi, in testa gli Stati Uniti d‟America, è stato favorito anche dalla coabitazione di diverse nazionalità, seppure caratterizzata da forti conflitti sociali e/o etnici. Il processo migratorio svolge un ruolo di "funzione specchio", cioè l‟immigrazione, più di ogni altro fenomeno, è capace di rivelare la natura della società detta "di accoglienza" (Dal Lago, 1999) e perciò favorire il cambiamento al suo interno. Dal punto di vista psicologico, l‟emigrazione comporta un enorme prezzo in fatto di affetti: la separazione dai propri cari e/o vicini, costituisce un momento carico di emozioni e di ansia; inoltre, l‟allontanamento porta a vissuti di speranze, ma al tempo stesso dubbi circa il proprio futuro, come la riuscita nel perseguire il proprio obiettivo, la salute, la vita stessa, ecc.). Il successo economico può essere totale, ma permangono le perdite affettive/sentimentali (Thomas, 1921). Si pensa ad esempio ad un immigrato sposato con moglie e figli, spesso l‟unico stipendiato in famiglia, che a causa delle condizioni economiche disagiate decide di emigrare, lasciando moglie e figli in Patria. È altrettanto vero che si verifica la situazione opposta, e cioè, che ad emigrare sia la moglie cedendo la cura della prole al marito. In entrambi i casi, quando il periodo di soggiorno all‟estero si prolunga per molto tempo e il partner non riesce a ricongiungersi con la famiglia oppure non si trova nelle condizioni di continuare ad inviare i soldi per il mantenimento dei propri cari si può arrivare alla separazione. Quindi, sebbene l‟emigrazione rimane per alcune persone l‟unica soluzione per migliorare le proprie condizioni di vita, nel caso di immigrati sposati, l‟espatrio di uno dei coniugi può portare alla disgregazione del nucleo familiare e nella peggiore delle ipotesi anche alla separazione/divorzio con pesanti conseguenze sul piano psicologico particolarmente per i piccoli. Le persone che lasciano il proprio luogo di origine, sono portatrici di ricche esperienze personali, in parte acquisite nell‟ambiente familiare in parte da quello sociale: il modo di condurre la vita, i rapporti interpersonali, i ritmi di lavoro, l‟alimentazione, il modo di manifestare i propri affetti ed emozioni, nonché l‟adattamento ad un certo tipo di clima. Tali abitudini sono soggette al mutamento quando ci si sposta sia all‟interno del proprio Paese, sia soprattutto verso un altro, perché "costretti" a rivedere, modificare ed adattare i comportamenti consueti. Come sottolineato sopra, qualsiasi cambiamento, sia esso positivo o negativo, comporta sofferenza in termini di adattamento. L‟immigrato avverte senza dubbio tale malessere dal momento che cambia nazione, casa, ambiente (l‟impatto col traffico e l‟inquinamento atmosferico delle città europee), cambia amici, ed è obbligato ad imparare una nuova lingua, perché quest‟ultima è uno degli strumenti fondamentale per l‟inserimento socio-lavorativo. In termini economici però, sicuramente l‟immigrato passa da una situazione in cui disponeva di pochi soldi, a quella in cui i suoi guadagni sono maggiori e di conseguenza, aumenta la possibilità di entrare in possesso di più beni di consumo. Il nuovo contesto genera delle crisi e nel corso di tale crisi, l‟immigrato tende a riorganizzare positivamente la propria vita, ad adottare nuove abitudini e nuovi principi per fare fronte alla nuova sistemazione (Thomas, 1921). Per alcuni immigrati, l'emigrazione mette in crisi l‟autonomia soprattutto quando si trovano in una situazione di estremo bisogno. Tale crisi si manifesta ancora di più quando si tratta di soggetti che avevano già un impiego nel proprio Paese con un ruolo specifico sia in senso sociale sia all'interno della cerchia parentale. L‟immigrato passa da una situazione in cui poteva decidere personalmente circa la propria vita a quella in cui sono gli altri a decidere per lui. Si immagini la situazione di un immigrato ospite presso un centro di accoglienza dove anche la sua giornata può essere completamente decisa dai responsabili e/o dagli operatori della struttura. accesso libero, equo e universale ai saperi Un altro livello di cambiamento di importanza vitale è legato alla difficoltà di adattamento ai ritmi del lavoro diversi dai propri e può costituire la causa della perdita del posto occupato. I cambiamenti più significativi in fatto di lavoro riguardano la massima osservanza della puntualità, velocità nell‟adempimento delle mansioni, ristretti tempi di pausa, ecc.. Ad esempio, il tempo che viene concesso agli operai di una fabbrica per mangiare è, molto spesso, di circa 20-30 minuti. Nonostante questi ritmi frenetici, gli immigrati all‟inizio sono attratti dal guadagno e, in genere reagiscono bene. Superato l‟entusiasmo iniziale, alcuni di essi si adattano, altri invece non riuscendo ad abituarsi, rispondono con i classici disturbi da stress. Le migrazioni sono fonte di continuo stress e di pericoli per la salute a causa degli inevitabili cambiamenti in rapporto all‟organizzazione del proprio tempo e del proprio contesto con un conseguente totale sradicamento dalle proprie radici culturali (Longo et al., 1994). Lo scopo principale di un cambiamento, nonostante le svariate difficoltà affettive, adattive e di ordine burocratico, è certamente quello di cercare un lavoro, ma è sovente la situazione in cui bisogna scendere a compromessi accettando la condizione di passare da una categoria professionale qualificata ad una più bassa. E importante ricordare che ci sono immigrati che nel loro Paese appartenevano ad un livello sociale alto, con l‟immigrazione, tale status viene ad essere completamente annullato. A tale proposito, Thomas (1921), riferendosi al contesto statunitense, affermava che il cambiamento più serio riguarda la perdita della posizione sociale e della conseguente riduzione del senso della propria personalità quando l‟immigrato entra in contatto con la nuova realtà. Così, gli immigrati che avevano uno status elevato nel loro Paese si trovano "costretti" per motivi di sopravvivenza a svolgere lavori umili: ad esempio chi faceva l‟insegnante nel Paese d‟origine può finire per adempiere mansioni da operaio comune. Questo tipo di mutamento viene definito migrazione verticale regressiva, intendendo con ciò, la situazione in cui non vi sia conservazione del proprio status (Amiel, 1985 in Tognetti Bordogna et al., 1992). I cambiamenti di status in negativo più frequenti riguardano anche la temporanea disoccupazione del padre e di conseguenza il ridimensionamento del suo ruolo all‟interno della famiglia (Losi et al., 2000). Tuttavia, questo stato di cose si verifica prevalentemente nella fase iniziale dell‟immigrazione, poiché superato il momento critico, è possibile vedere che l‟immigrato riesca a conquistare una condizione lavorativa migliore. Dal punto di vista religioso, l‟Italia non è ancora in grado di fornire spazi dove gli immigrati di confessione religiosa diversa da quella locale possono raccogliersi per i loro momenti di preghiera. In particolare, per gli immigrati di religione islamica, l‟assenza di moschee in alcune città li porta a dovere spostarsi lontano dal luogo di abitazione oppure devono fare i conti con le difficoltà legate agli orari di lavoro italiano e alle giornate di festività differenti. Inoltre, gli immigrati dei P.V.S. che rimangono fedeli alla loro religione non sono in condizioni di espletare le cerimonie e devono perciò delegare tale pratica ai parenti rimasti nel paese; per coloro che sono invece di religione cattolica, il cambiamento può riguardare l‟atmosfera festosa, accompagnata da suoni e ritmi di tamburi, che si vive durante la messa e di canti e di danze soprattutto durante il momento dell‟offertorio. Le migrazioni non sono un fenomeno legato ad un semplice cambiamento di luogo, ma implicano una moltitudine di trasformazioni e adattamenti molto complessi e difficili che vanno dalle elementari abitudini quotidiane, quali, il vestirsi, il magiare, l‟utilizzo del tempo libero, ai cambiamenti più importanti come gli affetti dei propri cari ed amici, delle credenze e delle certezze fino all‟obbligo di adattarsi e di accettare ciò che viene offerto, anche se a caro prezzo. accesso libero, equo e universale ai saperi Una breve analisi del fenomeno migratorio in Italia L‟ingresso di immigrati in Italia ha iniziato ad assumere dimensioni sempre più crescenti a partire dal 1990 con conseguenti problemi di alloggio e di regolarizzazione dello status giuridico. Uno sguardo del fenomeno per area geografica (tabella 1) dimostra che sono soprattutto i Paesi dell‟Est europeo a costituire la presenza più significativa con un valore che sfiora i trenta punti percentuali. La seconda area per importanza immigratoria è quella africana che registra il 27.8%, cui segue il continente asiatico che però si arresta al 20.0%. Gli immigrati dell‟U.E. e quelli dell‟America superano separatamente di poco il 10.0%. Alla base di questa differenza numerica sembrano prevalere due spiegazioni: a) il minore numero dei cittadini dei paesi P.S. è dovuto allo sviluppo e benessere tipico di dette nazioni; b) il continuo aumento degli immigrati dei P.V.S. è determinato dai conflitti armati degli ultimi anni, verificatisi soprattutto nei Paesi dell‟Est europeo nonché dagli accordi economici stipulati con i medesimi stati. Ad esempio, l‟Italia è tra i primi paesi europei ad essere interessata nell‟importazione di materie prime dal Maghreb. Procedendo nell‟analisi del fenomeno relativamente al motivo della richiesta del permesso di soggiorno (Tabella 1), emerge in modo chiaro che il 60.5% degli immigrati è arrivato in Italia per motivi di lavoro. Questo dato conferma l‟ipotesi secondo cui le partenze sono determinate dal differenziale di reddito e dalle cattive condizioni di vita. Il valore relativo al ricongiungimento familiare (26.4%) sembra indicare una tendenza verso l‟immigrazione stanziale. Un‟importante presenza è rappresentata invece dagli immigrati che giungono in Italia per motivi non collegati al lavoro (religiosi, residenza elettiva e studio) che costituiscono complessivamente il 9.8%. Gli ingressi dovuti per motivi di asilo politico si attestano ad un livello bassissimo, cioè lo 0.8%, nonostante l‟elevato numero di richieste che vengono inoltrate annualmente. Infine, è interessante osservare che dal punto di vista di genere, non vi è molta differenza tra le presenze maschili e femminili (tabella 1) e questo denota un importante cambiamento rispetto al passato. Gli ingressi continuano ad aumentare tanto che si è avuto un incremento di 136.159 unità rispetto all‟anno precedente corrispondente cioè al 10.9%. Questi incrementi hanno decisamente modificato in positivo l‟incidenza percentuale sulla popolazione italiana che è pari a 3.9% su 57.844.017. Tab. 1 Prospetto dell’immigrazione in Italia al 31/12/2000 Provenienza continentale V.A % U.E. 151.799 10.9 Altri paesi europei 404.768 29.2 Africa 385.630 27.8 Asia 277.644 20.0 America 164.942 11.9 Oceania/Apolidi 3.370 0.3 Totale 1.388.153 100.0 Lavoro 839.982 60.5 Famiglia (inclusi adozioni ed affidamenti) 366.132 26.4 Motivi di soggiorno accesso libero, equo e universale ai saperi Inserimento non lavorativo (religiose, residenza 136.098 elettiva, studio) 9.8 Presenza non di inserimento (giudiziari, salute e 14.161 turismo) 1.0 Asilo politico e richiesta asilo 10.435 0.8 Altri motivi 21.345 1.5 Maschi 754.424 54.2 Femmine 583.729 45.8 Caratteristiche incidenza popolazione immigrata Fonte: elaborazione Caritas/Dossier Statistico Immigrazione su dati del Ministero dell‟Interno Gli ingressi migratori degli anni ‟90 si caratterizzano soprattutto per l‟ampia varietà delle provenienze nazionali degli immigrati (tabella 2), ma al di là di questo divario, il fenomeno rimane rappresentato dai paesi vicini all‟Italia: da un lato l‟Albania e la Romania, dall‟altro, il Marocco. Infatti, i valori percentuali in fatto di nuovi arrivi risultano più elevati tra questi paesi rispetto al resto delle nazionalità presenti. Uno sguardo partendo dall‟alto basato sui valori percentuali dei nuovi ingressi permette di distinguere a grandi linee dei raggruppamenti secondo quanto segue: il primo gruppo di paesi presenta un valore superiore al 7.0% e si colloca tra e Albania e Romania, il secondo registra una percentuale compresa tra 2.1-4.1 ed interessa gli U.S.A. fino a comprendere la Francia, il terzo gruppo che è quello più consistente va dalla Gran Bretagna al Pakistan e ha un valore che oscilla tra l‟1-1.9% ed infine, il quarto gruppo rappresentato dal Giappone alla Svizzera si arresta al di sotto dell‟1.0%. Soffermandosi sulla colonna relativa "incidenza nuovi ingressi sul soggiorno" emerge con chiarezza che sebbene si siano verificati espressivi incrementi, sono poche le nazionalità che superano il 15%. Valori significativi riguardano Romania (18%), India (15.%), Ucraina (42%), Russia (17.9%), Iraq-Curdi (90.9%), Colombia (18.0%), Cuba (22.9), Giappone (21.5%), Turchia-Curdi (20.2%), Bulgaria (16.9%) e Nigeria (51.1%). Escluso il Giappone, tutti gli altri gruppi nazionali presentano pesanti crisi economiche aggravati anche dai conflitti armati. Le informazioni concernenti la presenza dei maschi e delle femmine, evidenziano che su 40 gruppi nazionali (tabella 2), nel 50% delle nazionalità, la maggioranza è rappresentata dalle donne e nel rimanente 50% prevalgono i maschi. Tab. 2 Nuovi ingressi validi a fine anno: primi gruppi nazionali - 2000 Nazionalità Nuovi ingressi % Soggiorno 31/12/1999ISTAT Albania 16.990 10.9 133.018 Marocco 13.739 8.8 Romania 11.412 7.1 %M %F 12.7 53.0 47.0 155.864 8.8 61.7 38.3 61.212 18.6 53.8 46.2 accesso libero, equo e universale ai saperi al Incidenza nuovi ingressi sul soggiorno U.S.A. 6.484 4.1 47.855 13.5 38.6 61.4 Cina 5.360 3.4 56.660 9.5 57.9 42.1 Filippine 5.222 3.3 67.386 7.7 35.7 64.3 Germania 4.504 2.9 35.332 12.7 39.9 60.1 India 4.351 2.8 27.568 15.8 68.6 31.4 Polonia 4.127 2.6 29.478 14.0 30.5 69.5 Tunisia 3.769 2.4 46.773 8.1 71.7 28.3 Sri-Lanka 3.446 2.2 31.991 10.8 55.4 44.6 Francia 3.352 2.1 25.337 13.2 41.1 58.9 Gran Bretagna 2.956 1.9 23.298 12.7 43.7 56.3 Spagna 2.769 1.7 17.750 15.6 32.3 67.7 Ucraina 2.751 1.7 6.527 42.1 28.7 71.3 Brasile 2.707 1.7 18.888 14.3 33.5 66.5 Perù 2.676 1.7 29.074 9.2 39.9 60.1 Macedonia 2.593 1.6 19.884 13.0 61.8 38.2 Jugoslavia 2.590 1.6 41.234 6.3 55.3 44.7 Russia 2.400 1.5 13.399 17.9 33.5 66.5 Bangladesh 2.187 1.4 18.980 11.5 84.9 15.1 Iraq (Curdi) 2.107 1.3 2.318 90.9 87.6 12.4 Croazia 1.994 1.2 16.508 12.1 60.2 39.8 Egitto 1.879 1.2 34.042 5.5 84.4 15.6 Colombia 1.700 1.0 9.460 18.0 32.7 67.3 Cuba 1.658 1.0 7.228 22.9 18.3 81.3 Pakistan 1.638 1.0 17.237 9.5 88.0 12.0 Giappone 1.447 0.9 6.741 21.5 40.4 59.6 Rep. 1.434 Domenicana 0.9 10.765 13.1 29.9 70.1 Equador 1.422 0.9 10.513 13.5 33.5 66.5 Grecia 1.309 0.8 9.569 13.7 51.3 48.7 Moldavia 1.305 0.8 1.146 11.4 31.6 68.4 Turchia 1.258 0.8 6.277 20.2 74.4 25.6 accesso libero, equo e universale ai saperi (Curdi) Bulgaria 1.247 0.8 7.378 16.9 46.2 53.8 Bosnia Erzegovina 1.219 0.7 11.485 10.6 57.7 42.3 Nigeria 1.025 0.6 20.056 51.1 37.6 62.4 Austria 941 0.6 7.997 11.8 39.6 60.4 Ghana 935 0.6 19.972 4.7 Argentina 900 0.5 6.126 14.7 Svizzera 860 0.5 15.769 5.5 44.8 55.2 Totale 155.264 100.0 1.340.655 11.6 53.6 46.4 Fonte: elaborazione Caritas/Dossier Statistico Immigrazione su dati del Ministero dell‟Interno, 2000 I dati contenuti nella tabella 3 riassumono l‟andamento del fenomeno nell‟intervallo di tempo compreso tra il 1990 ed 1999. Se dal 1991 gli ingressi sembravano assumere un andamento crescente, già a partire del 1992 si è registrato una diminuzione di oltre 18.000 unità, per poi segnare un recupero sebbene limitato nell‟anno 1993. Infatti, per tre anni consecutivi si è osservata una consistente flessione, diminuzione questa compensata dagli incrementi dei tre anni successivi che vanno dal 1997 al 1999. Tab. 3 Andamento dei permessi concessi nel periodo di tempo tra 1990-1999 V.A, Indice 1990 82.775 100 1991 135.812 164 1992 116.984 141 1993 150.750 182 1994 138.305 167 1995 137.297 166 1996 112.566 136 1997 155.241 188 1998 176.999 214 1999 200.471 242 Fonte: elaborazione Caritas/Dossier Statistico Immigrazione su dati del Ministero dell‟Interno, 2000 Da questa breve analisi, si può dedurre che sebbene le migrazioni siano determinate dalle disagiate condizioni di vita, esistono fattori che influenzano il loro decorso e pertanto creano la diversità accesso libero, equo e universale ai saperi numerica tra i vari gruppi nazionali nel Paese d‟immigrazione. Tra questi fattori si segnala: la vicinanza e gli accordi tra gli stati. L‟Italia per la sua vicinanza all‟area maghrebina ha sempre attratto un maggiore numero di cittadini di detta zona. Una situazione analoga, ma di manifestazione recente interessa i paesi dell‟Est Europeo seppure condizionata come già sottolineato sopra da eventi bellici. Un segnale positivo è rappresentato invece da un orientamento delle donne ad intraprendere il percorso di emancipazione sociale alla stessa stregua dei maschi, anche se tale tendenza sembra riguardi soprattutto i Paesi dell‟Est, il Sud America e le provenienze dai P.S.V. La differenza emersa tra le donne sembra essere imputabile alla diversità del livello di istruzione che a sua volta accresce il desiderio di emancipazione nell‟emigrazione: come è risaputo, le donne dell‟Est e quelle del Sud America in generale presentano un livello medio alto di scolarizzazione. Le teorie delle migrazioni La molteplicità dei fattori che concorre a determinare i movimenti migratori impone un‟analisi che tenga in considerazione le dinamiche macro e micro strutturali che generano le partenze. È sulla base di tali meccanismi che gli studiosi del settore hanno orientato il loro sforzo nel tentativo di fornire la spiegazione del fenomeno. È ormai ampiamente riconosciuto che le motivazioni che stanno alla base dell‟emigrazione sono dovuti a tre grandi categorie di fattori: la prima categoria riguarda i fattori di espulsione (push factors) che comprendono a) inadeguato sviluppo umano – povertà ossia un‟iniqua distribuzione delle ricchezze nel mondo: i Paesi Sviluppati rappresentano il 23% della popolazione mondiale che detiene l‟80% delle ricchezze, contro il 20% dei Paesi in Via di Sviluppo dove vive il 77% della popolazione mondiale; b) esplosione demografica e urbanizzazione: rispettivamente l‟elevato numero di nascite nei P.V.S. che dispongono di scarso cibo e il fatto che il reddito pro capite della popolazione cittadina è dal 50% al 100% più alto rispetto a quello delle aree rurali; c) guerre, repressioni: profughi e rifugiati; d) catastrofi ambientali: profughi ambientali; e) aspettative culturali: la diffusione dei modelli di vita dei P.S. La seconda categoria è rappresentata dai fattori di attrazione nei paesi di approdo (pull factors) costituiti da: a) aspettative culturali (benessere, libertà) – possibilità economiche (possibilità di guadagnare di più rispetto al Paese d‟origine); b) richiesta di manodopera – ricongiungimento familiare - è più probabile essere attratti verso un Paese dove si trova già un parente. La terza e ultima categoria riguarda i fattori di scelta (choice factors): a) legislativo-amministrativo: la persona che si accinge ad emigrare effettua la scelta a seconda del grado di restrittività o di flessibilità delle leggi in materia di immigrazione (aspetto normativo), a seconda del grado di rigidità nell‟applicazione delle leggi da parte delle forze dell‟ordine (aspetto esecutivo) e in considerazione della severità della pena (aspetto punitivo); b) affettivo: riguarda la comunità di riferimento, ad esempio, se i connazionali già immigrati sono ben organizzati e disponibili a fornire l‟appoggio ai nuovi arrivati; c) ambiente sociale, cioè se i cittadini locali sono più o meno accoglienti nei loro confronti; d) clima, se si tratta di un clima rigido o mite. Negli ultimi anni c‟è stata una rilettura dei fenomeni migratori ed è emerso che ad emigrare non siano solo i disperati dalla fame in cerca di migliori condizioni di vita e che le partenze avvengono in modo organizzato (Ambrosini, 1999). Gli immigrati provengono dalle zone dove incomincia ad emergere la possibilità di una vita promettente e gli arrivi sono programmati attraverso i legami e le reti di persone (Ibidem). È sulla base di questa rete di legami che alcuni immigrati scelgono determinati Paesi piuttosto che altri. accesso libero, equo e universale ai saperi I contributi degli studiosi rispetto a questi fattori possono essere sintetizzati in tre teorie. Le Teorie macro economiche, l‟emigrazione è programmata sia a livello formale che informale: a) formale, a favorire le migrazioni sono gli accordi tra i governi per movimenti di lavoratori, leggi sull‟immigrazione, decisione di quote di ingressi annuali, accoglienza di rifugiati, disposizioni relative all‟accesso alla cittadinanza, diritti e politiche per gli immigrati; b) informale, gli spostamenti sono dovuti ad elevate differenze di reddito tra i Paesi di provenienza degli immigrati rispetto a quelli di accoglienza, permeabilità di fatto di alcune frontiere, domanda non esplicita di lavoro immigrato, influenza della comunicazione di massa (Light et al., 1993 in Ambrosini; 1999); Le Teorie dei network migratori per cui l‟arrivo degli immigrati è mediato a livello formale dalle norme di ricongiungimento familiare, dalla formazione di minoranze organizzate e dotate di istituzioni riconosciute e dai servizi formali per gli immigrati mentre in via informale, l‟emigrazione è facilitata attraverso la formazione di reti di mutuo aiuto, le reti di sostegno autoctone, le specializzazioni etniche, le catene migratorie e le istituzioni facilitatrici (Pollini et al., 1998); Infine, le Teorie micro economiche mettono in evidenziano il ruolo attivo del migrante e dei familiari nell‟attuazione del cambiamento, l‟immigrato è visto come un soggetto razionale che decide di emigrare dopo avere valutato attentamente i costi ed i benefici, egli sceglie deliberatamente dove gli conviene investire le proprie risorse (Borjas, 1990). A questo livello, per via formale, vi è l‟attivazione di procedure legali per l‟emigrazione, l‟utilizzo di rimesse inviate mediante canali istituzionali; la procedura informale invece prevede: decisioni (individuali e familiari) di emigrazione, l‟invio di rimesse attraverso canali informali e l‟attivazione di meccanismi di richiamo. Vi è poi la Teoria della diversificazione dei rischi/investimenti: le famiglie, promovendo la migrazione all‟estero di alcuni dei loro componenti, attuerebbero scelte razionali di auto-tutela rispetto all‟instabilità e all‟imprevedibilità dell‟economia contemporanea, in modo che i redditi percepiti all‟estero possano eventualmente aiutare a superare le difficoltà economiche che potrebbero accadere in Patria (Massey, 1988 in Ambrosini, 1999). Rifacendosi alle macro Teorie, in particolare modo agli aspetti relativi agli accordi tra gli Stati e alle decisioni di quote di ingresso si deduce che l‟immigrazione è anche un problema dei Paesi ospitanti, nel senso che a seconda del periodo socio-economico l‟arrivo di nuovi cittadini può essere favorito o meno così come la loro integrazione nel tessuto sociale. Secondo Ambrosini (1999), ogni Paese costruisce un proprio modello di immigrazione, di conseguenza, è possibile individuare a livello internazionale diversi modelli migratori: modello dell‟immigrazione temporanea (Germania), gli immigrati venivano chiamati per soddisfare le esigenze economiche, è un modello strumentale; modello assimilativo (Francia), da un lato c‟è una politica di spinta a favorire una rapida assimilazione anche culturale degli immigrati considerati sprovvisti di radici, dall‟altro, il sistema ostacola e scoraggia la formazione di comunità minoritarie; modello società multiculturale (U.S.A., Olanda, Svezia, Inghilterra), la filosofia che sta alla base di questo modello è l‟atteggiamento di vicinanza o meno agli immigrati e alle loro culture; in concreto, si cerca di sostenere e valorizzare la formazione delle comunità e delle associazioni delle minoranze; modello implicito (Italia), l‟immigrazione non è stata esplicitamente costruita, non vi è un modello di regolamentazione e di promozione più organizzata di immigrati, si finisce per regolarizzare chi è entrato illegalmente nel territorio. accesso libero, equo e universale ai saperi Da quanto presentato finora, si evince che il fenomeno migratorio non può essere circoscritto alla mera percezione di gruppi di persone in movimenti, ma va inserito in un contesto più ampio e complesso, sia da un punto di sociale, economico, politico sia prettamente individuale. L’emigrazione programmata forzata Il trasferimento di persone verso una località al di fuori del luogo abituale di vita avviene in seguito ad una scelta maturata nel tempo, decisione accompagnata da un‟attenta valutazione sul perché, dove, come e quando partire nonché dalla preparazione sia in termini del costo del viaggio sia delle pratiche burocratiche come esposto sopra. Allo stato attuale in cui si accentua sempre di più la disuguaglianza di ricchezza tra il Nord ed il Sud del mondo e nella misura in cui in quest‟ultima parte del Pianeta si imperversano i conflitti armati, si può affermare (eccezione fatta per pochi casi) che tutte le migrazioni sono forzate, solo che alcune sono programmate, mentre altre non lo sono, come vedremo più avanti. L‟imperioso bisogno di cambiare il luogo di vita è dovuto ad una reazione di rifiuto di continuare a vivere in un ambiente che offre poche opportunità di miglioramento: un contesto lavorativo e retributivo poco stimolante, noioso e mortificante, un ambiente che non appaga il soggetto per gli sforzi compiuti. Nei P.V.S. dove la maggiore parte del lavoro viene svolto ancora manualmente, una persona lavora molte ore al giorno (dieci o più) con molto dispendio di energia fisica per produrre ricchezza per poi ottenere un guadagno insignificante che non corrisponde affatto allo sforzo impiegato. Come è ampiamente risaputo, la paga mensile di un operaio nei P.V.S. non arriva a superare i 20 dollari mensili. Con tale mensilità un individuo non riuscirà mai a condurre una vita decente. Sono contesti dove la maggioranza della popolazione che produce ricchezza rimane sottomessa alla minoranza benestante che mantiene la padronanza sui beni utilizzando a volte metodi che violano i più elementari Diritti Umani. Quindi, non sarebbe azzardato affermare che le cause di questi problemi sono da attribuire alle istituzioni, in primis il Governo, il quale mancando di politiche occupazionali, causa forti disagi alle popolazioni e permette che taluni cittadini sfruttino, infliggano sofferenze agli altri. Queste condizioni di vita vengono aggravate sistematicamente dalle politiche di riaggiustamento strutturale imposte dagli istituti finanziari internazionali determinando pesanti conseguenze da tutti i punti di vista alle popolazioni interessate. Ribadendo quanto appena esposto, si può dire che le partenze sono in ogni caso "forzate" e perciò, possono essere riassunte in due grosse categorie: emigrazione programmata forzata e emigrazione non programmata forzata. La prima scaturisce da un forte disagio socio-economico ed è quella prevalente, mentre la seconda, è dovuto a guerre, catastrofi naturali, persecuzioni politiche, ecc.; infatti in questo caso, la persona non ha la possibilità di progettare i tempi e le modalità dello spostamento, vi è solo l‟urgenza di fuggire per garantirsi la sopravvivenza, mentre il tempo per la ristrutturazione/riorganizzazione della propria vita viene posticipata ad una fase successiva. Dopo questa piccola premessa, qui di seguito, verrà presa in considerazione solo il tipo di emigrazione. Come appare chiaramente dalla terminologia adottata, nell‟ambito di una emigrazione forzata programmata, la persona è costretta a trovare soluzioni ai propri bisogni fuori dal luogo abituale di vita attraverso la messa in atto di un ben definito progetto. Da questo punto di vista e metaforicamente parlando, l‟emigrato si comporta allo stesso modo di un progettista del settore sociale. Infatti, così come l‟operatore che lavora nell‟area sociale può stilare un progetto per cercare di risolvere il disagio di una categoria debole (ad esempio, devianza minorile, tossicodipendenza, ecc.) con degli obiettivi e dei risultati ben precisi, in modo analogo, l‟immigrato parte con un progetto per superare la critica condizione economica. Nella maggiore parte dei migranti, il progetto migratorio viene preparato nei minimi dettagli con degli obiettivi ben precisi, via via accesso libero, equo e universale ai saperi riaggiustato/calibrato secondo le opportunità o gli ostacoli che l‟interessato trova in loco. Per il raggiungimento degli obiettivi prefissati, l‟emigrato mette in moto oltre alle proprie risorse personali, anche quelle sociali ed istituzionali. In relazione alle risorse personali, si fa riferimento a tutto ciò che riguarda il livello di scolarità, le competenze professionali acquisite nel paese d‟origine, la conoscenza delle lingue (soprattutto quella del paese di destinazione), la capacità di adattamento nelle sue varie forme; mentre per risorse sociali si intende l‟insieme di sostegni cercati o offerti dagli amici e parenti (reperimento dell‟abitazione e del lavoro) ed infine, le risorse istituzionali sono quelle legate a tutte le politiche promosse per favorire l‟inserimento sociolavorativo degli immigrati. Per cui la riuscita del progetto migratorio dipende dalla combinazione di questi fattori. Anche se l‟emigrazione forzata programmata presuppone la formulazione di un progetto, tra gli immigrati vi sono individui che arrivano seppure con progetti definiti, fanno fatica almeno nella fase iniziale a mettere in atto quelle azioni necessarie a portare ai risultati attesi e ciò sembra dipendere dalla giovane età. Per tale ragione, i comportamenti di alcuni giovani immigrati vengono interpretati sbrigativamente come un‟avventura. Secondo Colombo (1998), una persona che emigra all‟avventura, con o senza amici, avrà aspirazioni diverse da chi ha/sente la responsabilità famigliare. È la mancanza di responsabilità a contraddistinguere l‟atteggiamento del giovane da altre persone immigrate che hanno un ruolo socio-familiare ben definito. L‟idea dei cosiddetti immigrati all‟avventura senza un progetto migratorio è fuori luogo in quanto lo spostamento di per sé presuppone raggiungere una meta, un luogo con tutti benefici ad esso collegato. È per questo motivo che occorre concepire l‟espatrio in due fasi: una prima fase in cui si realizza l‟investimento di denaro finalizzato al trasferimento; una successiva in cui il migrante può impegnarsi subito o ritardare il miglioramento della propria condizione socio-economica. A tale proposito si distinguono due tipi di modalità comportamentali: a) la giovane età e l‟assenza di responsabilità contribuiscono in alcuni casi a fare in modo che non si abbiano le idee chiare circa il proprio futuro e perciò a non mantenere l‟intraprendenza necessaria a raggiungere gli obiettivi inizialmente prefissati, posticipando così l‟impegno al risparmio a vantaggio di brevi soggiorni nei vari paesi per confrontarsi con i coetanei e fare esperienze; b) la presenza tra gli immigrati di persone che continuano ad adottare lo stile di vita a cui erano abituate. Infatti, ci sono individui (pochi, ma presenti in tutte le parti del mondo) orientati a vivere alla giornata e perciò si impegnano poco a produrre un reddito che possa garantire loro un futuro. Forse lo sbaglio che commettiamo tutti è quello di pensare che ogni azione umana è finalizzata all‟accumulo di risorse in ogni momento. Tuttavia, occorre ammettere che quest‟ultima modalità comportamentale genera una situazione di precarietà che può costituire, a lungo andare, un elevato rischio per un immigrato soprattutto nelle situazioni in cui manca l‟appoggio importante della famiglia e/o dell‟istituzione. Se il ruolo della famiglia viene a ridimensionarsi o ad azzerarsi nel paese di destinazione per la lontananza, alla partenza, essa svolge una funzione decisiva per la definizione del progetto, per la preparazione ed attuazione del viaggio. In relazione alle formulazioni teoriche esposte prima, gli elementi di novità sono rappresentati soprattutto dalla messa in evidenza non solo del ruolo delle reti sociali e dell‟atteggiamento razionale degli individui, ma anche e soprattutto delle famiglie nella scelta dei luoghi dove investire la forza lavoro di un membro famigliare. Se è la famiglia a promuovere l‟emigrazione di un proprio membro come una forma di autotutela, tale promozione viene fatta su una valutazione mirata (programmata), nel senso che si valuta attentamente quale parente conviene fare partire. La decisione di investire su un famigliare non avviene in modo casuale, ma è preceduta dal confronto fra i vari membri, in genere vengono scelti i più giovani. Tale confronto è orientato a scegliere il membro più promettente, in buona salute, colui che presenta il minore rischio di fallimento, colui che ha sempre dato prova di riuscita: ad esempio successo scolastico, precedenti azioni positive del giovane di fronte alle difficoltà familiari. È in ragione di accesso libero, equo e universale ai saperi ciò che si può affermare che la promozione all‟emigrazione di un parente passa per un processo di negoziazione tra i componenti parentali. In sintesi, la decisone delle famiglie passa da un lato, attraverso sia il confronto dei luoghi dove conviene "inviare" il membro, sia paragonando le potenzialità dei candidati parentali, dall‟altro, investendo risorse e cercando collegamenti nei paesi di riferimento. Prima di concludere questa riflessione, preme anche sottolineare che l‟emigrazione programmata forzata non avviene solo in presenza di disagiate condizioni economiche oggettive, ma anche in previsione del peggioramento del tenore di vita. In relazione a ciò, si fa presente come i cittadini di Hong Kong dell‟allora colonia inglese, prevedendo le conseguenze negative alla fine del tutorato britannico (1997), avevano iniziato uno spostamento di massa, addirittura due anni prima, verso i paesi che secondo loro potevano permettere di mantenere quello standard di vita a cui erano abituati. È opportuno, non trascurare il fatto che l‟attuale scenario delle migrazioni ha anche come protagonisti individui che provengono dai paesi dove si iniziano ad intravedere gli spiragli di miglioramenti in termini di reddito, vale a dire, partono coloro che dispongono di maggiori risorse economiche per sostenere le spese del viaggio (Reyneri, 1996). Si può concludere, affermando che sebbene le partenze sembrino essere decisioni isolate, in realtà, esse si inseriscono in un quadro di dinamiche strutturali ben più complesse: condizioni di povertà dovute ai sistemi politici dei singoli paesi a cui si aggiunge la continua pressione degli organismi finanziari occidentali. Inoltre, le emigrazione sebbene siano determinate da fattori di esodo, non avvengono in modo casuale ed improvviso, ma sono il risultato di un lungo lavoro di programmazione. Tipologie progettuali nell’emigrato: la triade socio-economica nel cambiamento di luogo Qualsiasi tipo di emigrazione, può essere sia interna che esterna: nel primo caso, il trasferimento avviene nello stesso Paese, per cui, essa pone irrilevanti problemi di tipo affettivo, burocratico, culturale e linguistico; nel secondo caso, lo spostamento ha come meta l‟insediamento fuori dal proprio Paese. In quest‟ultima condizione, si avrà una situazione diametralmente opposta. Il presupposto fondamentale del processo migratorio è il mutamento di luogo di vita, inteso come nuovo spazio in cui gli individui, nello stesso momento in cui si slegano da altri rapporti, incontrano altre persone e tessono pazientemente le relazioni e l‟insieme dei vissuti che ne derivano. Pertanto, ritengo corretto adoperare il termine cambiamento di luogo piuttosto che di nazione, in quanto quest‟ultimo denota soltanto l‟emigrazione esterna, mentre l‟adozione del primo termine vale per entrambe le migrazioni. La riflessione a seguire verterà particolarmente sull‟emigrazione di tipo esterno. In questa sede, seppure l‟analisi è finalizzata ad esaminare le progettualità degli immigrati non appartenenti all‟U.E. soggiornanti in Italia, in realtà, la riflessione circa le varie forme di progetti interessano tutti i migranti a prescindere dal paese di provenienza e dallo strato sociale, ovvero, la migrazione va dall‟operaio generico, al funzionario fino all‟imprenditore e/o intellettuale. Nell‟ambito della prospettiva di emigrazione programmata forzata come si è visto prima, è possibile avanzare l‟ipotesi secondo cui esistono differenze tra i progetti migratori a seconda delle motivazioni. In virtù di tali differenze, propongo di riassumere i vari progetti migratori con la seguente terminologia: La triade socio-economica del cambiamento di luogo. Il cambiamento del luogo di vita può portare a seconda del tipo di progetto alla modificazione della posizione socioeconomica: a) acquisizione di un maggiore potere d‟acquisto e/o conquista di uno status sociale elevato. Passerò ora ad esaminare le varie forme progettuali. accesso libero, equo e universale ai saperi 1. La prima tipologia è caratterizzata dal miglioramento del potere economico senza il mutamento dello status sociale. Nell‟ambito di questa peculiarità, il soggiorno dell‟immigrato può avere la durata varia: bassa (fino a due anni), media (3-5 anni), prolungata (dai 6 anni in su) e definitiva. Questo livello di cambiamento riguarda il desiderio di abbandonare uno specifico spazio fisico con le opportunità ad esso connesse (relazioni parentali ed amicali, lavoro, abitazione, ecc.) per trasferirsi in un altro, ritenuto promettente, senza per forza desiderare di modificare il proprio status/posizione sociale. Così, se una persona apparteneva alla classe degli operai generici nel proprio Paese e ad un certo punto della sua vita decide di andare all‟estero per lavorare come operaio generico, se si farà una classificazione dal punto di vista sociologico in questo nuovo luogo, avremo un immigrato con un buon potere di acquisto, che può permettersi l‟affitto di un‟abitazione decente o nella migliore delle ipotesi l‟acquisto di un appartamento, avere una modesta macchina, integrarsi socialmente, ecc.. La situazione diametralmente opposta, può verificarsi in una frangia di immigrati che, seppure intenzionati a migliorare il potere d‟acquisto, a causa delle varie difficoltà, finiscono per vivere nella precarietà, senza un lavoro stabile e spesso in condizione di senza dimora, riescono a malapena a mangiare, in genere sono privi di documenti e permangono in tali condizioni per molto tempo; per essi, non solo non vi è stato il miglioramento del potere d‟acquisto, ma si è osservato il peggioramento dello status sociale di partenza – vi è stato un passaggio dalla condizione di operaio con lavoro continuativo nel paese d‟origine ad una di lavoro saltuario o condizione di disoccupazione. Quando anche riescono a regolarizzare la loro posizione giuridica, continuano ad essere esposti al rischio di perderla. Per un immigrato che riesce ad acquisire un buon potere d‟acquisto nel paese d‟immigrazione senza un corrispettivo miglioramento della posizione sociale di partenza, si ha un mantenimento di status e la modificazione del potere di entrare in possesso di beni di consumo. Il cambiamento di luogo può comportare un maggiore guadagno soprattutto per gli immigrati dei P.V.S., sebbene ciò avvenga anche per i migranti dei P.S. che emigrano verso i paesi meno industrializzati. Infatti, da un punto di vista dell‟aumento del potere d‟acquisto, gli immigrati del Sud del mondo presentano una retribuzione certamente dieci/quindici volte superiore rispetto al paese d‟origine, ma nel contempo debole in quello di immigrazione. Il guadagno invece degli emigrati occidentali soggiornanti nei P.V.S. è superiore sia alla media della nazione d‟appartenenza sia soprattutto a quella del paese ospitante (per la gran parte di questi paesi, la paga 50-70 volte). A tale proposito, vale la pena di ricordare che la migrazione degli occidentali (esclusa quella a carattere diplomatico, volontariato ed ecclesiastico) si manifesta prevalentemente in due modalità: a) nell‟ambito dei progetti di cooperazione che procurano agli interessati compensi invidiabili, b) la delocalizzazione da parte di medi/grandi gruppi industriali delle attività produttive nei paesi dove il costo del lavoro è particolarmente basso, azzerando così il rischio di fallimento e nel contempo rafforzando il potere concorrenziale. Secondo Brecher (2001), di fronte ad un‟inarrestabile concorrenza internazionale, le grandi imprese hanno iniziato a sperimentare strategie volte ad aumentare i profitti attraverso il taglio dei salari e di altri costi, tali strategie comprendevano lo spostamento delle attività verso luoghi con costi più bassi. Se l‟emigrazione dei cittadini del P.V.S. rappresenta una spinta all‟emancipazione sociale (Basso et al., 2000), quella delocalizzante dei gruppi industriali dei P.S. esprime il dominio, la perpetuazione della distribuzione disuguale della ricchezza sia all‟interno del proprio contesto di appartenenza sia tra le popolazioni del mondo. Per quanto riguarda, i migranti appartenenti alla classe media ed alta (persone con qualifiche professionali e/o livello culturale elevati), va detto che se da un lato, la motivazione è certamente legata all‟aumento del potere d‟acquisto, dall‟altro, la spinta migratoria è fortemente dovuta al desiderio di realizzare le proprie aspirazioni culturali e/o professionali: ad esempio, un funzionario o un ricercatore di qualsiasi paese europeo che si trasferisce negli U.S.A. rispettivamente, uno a causa delle ottimali condizioni lavorative (sistemi burocratici informatizzati, maggiori incentivi) e accesso libero, equo e universale ai saperi l‟altro per le opportunità di accedere alle risorse e tecnologia presenti in questo paese per fare ricerca. Quest‟ultimo tipo di emigrazione è conosciuta con il nome della fuga dei cervelli che interessa la gran parte dei paesi del mondo: dai meno sviluppati a quelli più sviluppati. Quindi, ciò che contraddistingue ad esempio, l‟operaio non appartenente all‟U.E. che viene in Italia per lavorare dal ricercatore italiano che va negli Stati Uniti d‟America è che nel primo caso, l‟emigrazione è prevalentemente determinata dal bisogno esistenziale, di sopravvivenza, nel secondo, il trasferimento è motivato soprattutto da una necessità "psicologica" di potere esprimere al massimo le proprie potenzialità intellettive. In entrambi le situazioni, non cambia lo status di partenza; ciò che invece muta è il ruolo che ognuno dei due protagonisti può assumere all‟interno del proprio ambito di lavoro. Nel caso dell‟operaio, il cambiamento potrebbe riguardare la promozione alla dirigenza di qualche settore della fabbrica, mentre per il ricercatore la novità potrebbe essere quella di diventare capo di uno staff di ricercatori dopo avere dimostrato le sue competenze attraverso le produzioni scientifiche. Quello che è emerso da questa analisi, è che l‟emigrazione può verificarsi in assenza di una sostanziale modificazione dello status sociale di partenza, ma in un caso, si ha il miglioramento o peggioramento del potere d’acquisto, nell‟altro, si ottiene il rafforzamento e l’espansione del potere economico. Nell‟ambito di un progetto migratorio la cui motivazione è tendenzialmente orientata all‟ottenimento di un maggiore potere d‟acquisto, si può arrivare all‟acquisizione anche di una posizione sociale migliore, come si vedrà nella tipologia a seguire. 2. La seconda tipologia di progetto si distingue sia per la conquista di uno status sociale elevato sia per il raggiungimento di un potere d’acquisto maggiore nel nuovo contesto di vita. In analogia con la prima tipologia, il soggiorno che caratterizza questo può essere variegato: medio-basso (6-7 anni), prolungato (oltre 8 anni) e definitivo. In questa categoria di immigrati, il cambiamento riguarderebbe in un caso, la situazione di una persona che prima di partire aveva programmato di arrivare nel nuovo paese non solo per lavorare, ma per intraprendere lo studio e ottenere un diploma professionale o universitario che le permetterebbe successivamente di occupare una posizione lavorativa migliore, nell‟altro caso, il progetto è volto a conquistare una posizione sociale elevata attraverso un iter lavorativo che porta alla creazione di un‟attività imprenditoriale autonoma. In entrambi i casi, il mutamento più importante concerne lo status di partenza. È da notare che le emigrazioni per motivi di lavoro e studio tendono a sovrapporsi, intersecandosi e confondendosi l‟una con l‟altra (Mauri et al., 1993). Nel primo caso, la conquista di un nuovo status passa attraverso l‟acquisizione di un livello di istruzione superiore (laurea) ottenuto da un immigrato studente che può essere borsista o che lavora per mantenersi agli studi. Occorre però, prendere atto del fatto che attualmente in Italia, accanto ad un crescente numero di immigrati che ottengono un titolo superiore, non corrisponde affatto l‟affermazione sociale e/o professionale. La maggiore parte degli immigrati che concludono gli studi universitari finisce per svolgere lavori del tutto diversi dall‟area di formazione. Un secondo percorso che porta alla conquista di un nuovo status avviene attraverso la creazione di un‟attività in proprio. In questo caso, rientrano quegli immigrati che sono arrivati con l‟obiettivo di lavorare in un primo momento come operaio per accumulare il denaro per poi crearsi un‟attività autonoma. Le varie iniziative imprenditoriali che hanno come protagonisti gli immigrati non appartenenti all‟U.E., confermano questo dato di fatto anche se rimangono ancora ad un livello molto basso. Infatti, le attività in cui gli immigrati dei P.V.S. riescono ad emergere riguardano i settori dell‟import-export (legname, prodotti alimentari, abbigliamento, tappeti), della ristorazione, dell‟acconciatura, dell'artigianato; tale affermazione stenta a decollare a causa dei rigidi criteri di garanzia previsti dalle banche creditrici. A proposito del lavoro autonomo, si è visto che in Emilia Romagna, Lombardia e Piemonte, un immigrato cinese su cinque risulta titolare di un permesso di soggiorno per l‟esercizio dell‟attività accesso libero, equo e universale ai saperi del lavoro autonomo (Campani et al., 1994 in Chan). L‟entità di tale fenomeno è in buona parte il risultato di un lungo percorso di acquisizione del potere economico e della posizione all‟interno dell‟impresa etnica. Infatti, è ampiamente dimostrato come raramente la forza lavoro cinese si spinga oltre la cerchia dei connazionali. Una situazione analoga è in atto anche a Milano dove 1.500 egiziani sono iscritti alla Camera del Commercio in qualità di lavoratori autonomi nei settori della ristorazione, dell‟edilizia, del piccolo commercio, dei negozi e delle attività di import-export (Baptiste, Zucchetti, 1994). Le due varianti di questa tipologia progettuale si distinguono per il fatto che la modificazione dello status iniziale è preceduto da un impegno formativo e da un investimento di risorse economiche. Se la conquista di uno status migliore e l‟ottenimento di un maggiore potere d‟acquisto possono avvenire con l‟emigrazione, vi sono spostamenti che pur portando ai medesimi risultati, non implicano necessariamente il trasferimento stanziale in un altro luogo. 3. La terza ed ultima tipologia progettuale riguarda il miglioramento del potere d’acquisto e/o dello status attraverso le trasferte all‟estero. Sebbene questo tipo di emigrazione sia strettamente legata alle stagioni produttive del paese di destinazione, vi si verificano spostamenti che prescindono dalle richieste di manodopera periodiche/temporanee. Gli immigrati che intraprendono detti percorsi migratori sono motivati ad incrementare il loro potere d‟acquisto e non di rado a conquistare uno status sociale elevato pur continuando a mantenere la residenza di riferimento principale nel Paese d‟origine. Da questo punto di vista, l‟emigrazione assume un significato certamente di una grossa opportunità per ottenere un cambiamento socio-economico, ma nello stesso tempo, l‟allontanamento prolungato dal Paese d‟origine costituisce un‟esperienza difficile da reggere sulla sfera psico-sociale, per cui, alla fine si può optare per la soluzione delle trasferte. Le elevate richieste di manodopera stagionale (e non solo) vanno ad innescare il "pendolarismo" lavorativo riassumibile in quattro varianti costituenti la terza tipologia progettuale. Più concretamente, si sceglie questo tipo di percorso migratorio come una necessità per: a) arrotondare/incrementare la finanza familiare, una modalità che può chiudersi in poco tempo così come può durare a lungo; b) racimolare un gruzzolo di denaro sufficiente per risollevarsi da una critica situazione finanziaria o evitare il fallimento di un‟attività già avviata - si tratta di una strategia circoscritta nel tempo; c) accumulare del denaro in un primo momento per un periodo di tempo prolungato (6-7 anni), solo successivamente si decide di aprire un‟attività in proprio nel Paese d‟origine; d) rafforzare il proprio potere economico attraverso il rifornimento della merce al mercato interno. Questa quarta variante forma di emigrazione ha come protagoniste persone che alla partenza dispongono di un elevato potere d‟acquisto nel Paese d‟origine (e non solo), per cui, lo spostamento ha come scopo il rafforzamento dell‟oggettiva superiorità economica. Come si è visto sopra, tale trasferimento è di brevissima durata (1-2 settimane al massimo), per cui, l‟immigrato è impegnato in contatti di lavoro ad alto livello. Così, potremmo avere i/le migranti dei P.V.S. che arrivano in Italia per motivi d‟affari e viceversa quelli italiani che si dirigono in detti paesi o verso quelli a pari o a più elevato sviluppo economico (Francia, Giappone, U.S.A., ecc.). A questo proposito, si calcola che ogni giorno un esercito di 4 milioni di businessmen si sposta da un posto all‟altro del pianeta in cerca di nuovi mercati ed opportunità (L‟Annuario del Turismo, 2000). Per quanto concerne la situazione nazionale e relativamente ai permessi di soggiorno concessi nel 2000, risulta che 2.063 (1.621 maschi e 442 femmine) immigrati erano giunti in Italia per motivi di affari accesso libero, equo e universale ai saperi (Caritas, 2001). Lo spostamento interessa i migranti impegnati nel commercio (import-export o attività affini) che pur risiedendo stabilmente nel Paese d‟origine, sono portati a frequenti viaggi all‟estero per poi rientrare con cospicui guadagni in Patria. È per questa ragione che si può sostenere che mentre nelle migrazioni a permanenza stanziale, il ricavato inviato nel paese d‟origine è dilazionato nel tempo, per quella caratterizzata dal "pendolarismo", il guadagno produce effetti immediati e positivi nel Paese, nel senso che il commerciante attraverso la sua merce rifornisce, arricchisce e fa sopravvivere il mercato interno. Quindi, tutte le quattro varianti della terza tipologia conducono ai vari livelli di cambiamenti fino a qui evidenziati, ma ad eccezione dell‟ultima, le prime tre sono decisamente influenzate dalla vicinanza del paese di riferimento. I dati emersi da una ricerca (esposti ampiamente più avanti) svolta tra gli immigrati maghrebini reclusi e liberi permettono di rifarsi alla prima tipologia del progetto migratorio. Detti dati si riferiscono ad un confronto di immigrati maghrebini reclusi v/s non reclusi (100 soggetti per gruppo) e sembrano rifarsi alla prima tipologia dei progetti migratori: a) cambiamento di luogo con aumento del potere di acquisto e mantenimento dello status sociale; b) mutamento di luogo caratterizzato sia da un basso potere di acquisto che da un peggioramento della posizione sociale. Dalle analisi relative all‟alloggio è stato osservato che il 24% dei reclusi aveva preso la casa in affitto, il 30% dormiva in case abbandonate e l‟8% versava in condizioni di senza fissa dimora contro il 51%, il 4% ed il 3% rispettivamente del campione di confronto. La situazione lavorativa registra ancora un vantaggio a favore del gruppo dei non reclusi: il 62% lavorava come operaio e solo il 14% era disoccupato contro rispettivamente il 16% ed il 60% dei ristretti. Alla domanda relativa all‟assistenza sanitaria, il 78% dei detenuti ha dichiarato di non averla mai avuta contro il 29% dei non reclusi. Da questi esigui risultati appare che i reclusi possono essere classificati sulla base del cambiamento di luogo con basso o nullo potere d‟acquisto (disoccupati) e peggioramento dello status sociale, mentre i non reclusi rientrano nel cambiamento di luogo con maggiore potere d‟acquisto in relazione al paese d‟origine e mantenimento della posizione sociale. Altre informazioni riguardano i risultati attinenti alla richiesta del permesso di soggiorno: è emerso che solo l‟8% dei reclusi aveva provveduto all‟inoltro della domanda del permesso di soggiorno entro gli otto giorni previsti dalla legge italiana contro il 30% dei non reclusi. La regolarizzazione del proprio status giuridico è una condizione essenziale per trovare un "lavoro stabile" e vivere in condizioni decenti. Sebbene una parte di immigrati al loro arrivo non possieda nessuna qualifica professionale, per coloro che emigrano in possesso di una professione, spesso l‟essere immigrato concorre a mantenere/peggiorare lo status sociale di partenza, un esempio, è l‟impossibilità di accedere ai concorsi pubblici per la mancanza della cittadinanza dello Stato ospitante. In queste situazioni quindi, anche l‟immigrato professionalmente competente rischia di fare lavori diversi (spesso pesanti e umili) rispetto all‟area di formazione. Infatti, in relazione alla ricerca appena citata, risulta che nel gruppo di non ristretti, il 12% dei soggetti, pur possedendo la laurea, svolge mansioni del tutto diversi da quelli dell‟area di formazione: operai generici, lavapiatti, braccianti agricoli, ecc., per cui, in questo caso, vi è stato un abbassamento della condizione di partenza. Prima di concludere questa riflessione, mi preme riprendere l‟argomento legato alla migrazione degli studenti. Per essi, l‟acquisizione del potere d‟acquisto viene posticipato, privilegiando in un primo momento l‟aspetto formativo che porterà alla conquista di uno status elevato. Sono individui che partono con un progetto migratorio preparato sotto vari punti di vista (economico, giuridico, assistenza sanitaria, ecc.). Chi decide di emigrare per motivi di studio è altamente spinto ad ottenere la formazione in un‟area specifica. Da un punto di vista del coinvolgimento nella decisione di partire, le motivazioni possono essere di due tipi: nel primo caso, la motivazione è intrinseca, per cui è l‟interessato che decide di attuare il cambiamento di luogo e di status. La motivazione al accesso libero, equo e universale ai saperi cambiamento può scaturire in seguito all‟identificazione con un modello che appartiene alla cerchia familiare (genitori, fratelli, zii/e, ecc., professionalmente affermati) oppure essa può derivare dal contesto sociale (i vicini, i personaggi importanti della politica, cultura, economia, ecc). Nel secondo, il cambiamento è dovuto a motivazione estrinseca: sono i familiari o le istituzioni statali e/o private ad incentivare i giovani ad intraprendere determinati percorsi formativi orientati alla promozione delle loro potenzialità. In entrambi i casi, i familiari o lo Stato provvedono ad assicurare l‟appoggio economico (assegni familiari o borse di studio) per favorire il raggiungimento dell‟obiettivo prefissato. Ma durante il percorso migratorio può accadere che il sostegno economico erogato venga a mancare per vari motivi (fallimento dei familiari, perdita della borsa per non avere sostenuto gli esami necessari), e allora lo studente si trova a dovere lavorare per mantenersi agli studi. Nella peggiore delle ipotesi, può arrivare ad abbandonare il progetto iniziale e proseguire solo con l„impegno lavorativo. Poiché la maggiore parte delle persone emigra per motivi socio-economici, si può affermare, che il livello più alto di successo tra gli immigrati, al di là delle singole aspettative è dato da un cambiamento di luogo accompagnato da un maggiore potere d‟acquisto, un elevato status e l‟autorealizzazione, anche professionale, mentre il fallimento è legato sicuramente ad un cambiamento seguito da un basso potere di acquisto, instabilità lavorativa ed abitativa. Il confronto come fattore centrale nella determinazione della spinta migratoria e nella modificazione della posizione sociale Pur tenendo in considerazione i vari contributi teorici che spiegano le spinte migratorie, la riflessione che segue verterà sul tema del confronto come uno degli elementi che può concorrere a spiegare le differenze tra gli individui nel decidere se partire o meno, ma anche in relazione alla scelta di mantenere o di modificare lo status sociale di partenza. La formulazione, la realizzazione e la riuscita del progetto degli immigrati, si inseriscono in un quadro più ampio delle dinamiche di affermazione sociale di ogni individuo a prescindere dal paese e dalla condizione sociale. Infatti, anche persone che rimangono nel proprio paese formulano un proprio progetto di vita la cui concretizzazione può seguire un andamento più o meno simile a quello di un immigrato. Il massiccio impiego di mezzi di comunicazione in gran parte dei paesi del mondo fa sì che le differenze nell‟accesso alle informazioni tra i giovani dei diversi paesi si assottiglino e le nuove generazioni confrontino sempre più la propria situazione con quella di chi vive altrove (Sayad, 1991 in Colombo, 1998). Se da un lato, il confronto innesca una forte motivazione ad emigrare che neppure il racconto delle cattive condizioni di vita in Occidente, da parte di chi già ci vive, convincono l‟aspirante emigrato a ridimensionare il mito del Paese di riferimento (Minardi et al., 1991), dall‟altro, ci sono situazioni (sebbene poche) in cui il confronto porta alla percezione dell‟inadeguatezza ad intraprendere la decisone di partire e quindi alla rinuncia. È in considerazione di ciò che l‟abbandono del Paese d‟origine non sempre avviene in modo brusco, ma è preceduto ad esempio da una emigrazione intracontinentale. La partenza verso un Paese confinante precedente a quella diretta verso l‟Occidente ha principalmente due finalità: a) guadagnare i soldi necessari per intraprendere il viaggio più lungo, b) sperimentare/valutare le proprie capacità di affrontare migrazioni extra-continentali. Infatti, per alcuni immigrati il progetto migratorio non procede oltre il continente. A parità del luogo di vita, delle difficoltà, delle risorse, dei bisogni, è l‟entità del confronto a determinare la differenziazione nei comportamenti dei migranti. In linea di massima, il progetto accesso libero, equo e universale ai saperi migratorio passa attraverso vari livelli di confronto tra loro intrecciati: comparazione di luoghi in termini di opportunità, processi di raffronti interpersonale ed intrapersonale. Per motivi di semplicità espositiva, si distinguono a questo proposito due livelli di comparazione. Ad un primo livello, il confronto scaturisce dalle informazioni acquisite per via informale e formale, nel senso che l‟aspirante emigrato paragona il proprio luogo di vita rispetto ad altri contesti attraverso le informazioni ottenute da amici, parenti o direttamente dalla TV. Gli indicatori di tali confronti non sono solo di carattere economico (reddito, tenore di vita, ecc.), ma anche psicologico (un senso di svantaggio, di deprivazione vissuti in relazione ai luoghi di riferimento). Le possibili azioni che ne derivano spingono verso la ricerca di ulteriori informazioni circa il paese di riferimento, l‟accumulo dei soldi necessari per le spese del viaggio, l‟impegno nel disbrigo delle pratiche occorrenti per l‟espatrio, ecc. Il secondo livello di raffronto subentra una volta giunto nel paese di destinazione. Nonostante la scelta del luogo dove andare a vivere possa essere influenzata da amici/conoscenti che già risiedono nel paese d‟accoglienza, è possibile che tale decisione venga preceduta dal confronto in termini di guadagno, di flessibilità nelle procedure di regolarizzazione della posizione giuridica nelle varie questure, di facilitazione delle agenzie di collocamento lavorativo, ecc.. È in virtù di ciò che un immigrato può scegliere di andare a vivere a Milano piuttosto che a Genova. In termini di opportunità materiali, il confronto non si esaurisce con il raffronto dei luoghi fatto prima della partenza e in seguito in loco, ma si manifesta anche nei riguardi degli individui assunti come modello a cui aspirare per la posizione sociale all‟interno dei vari gruppi: a) connazionali soggiornanti nel paese ospitante, b) altri immigrati, c) cittadini autoctoni d) connazionali rimasti a casa. In relazione a quest‟ultimo punto, infatti, secondo Barbagli (1998), il gruppo di riferimento degli emigrati italiani della prima generazione non era costituito dagli svizzeri che incontravano in fabbrica o nei negozi, ma dagli amici e dai conoscenti che avevano lasciato in Italia; era con questi che si paragonavano, ricavando dal confronto soddisfazione e rassicurazione. Proprio in relazione a quest‟ultima situazione, alcuni immigrati trovano difficile tornare nel Paese d‟origine quando falliscono nel loro intento. Questo tipo di raffronto può essere definito interpersonale; mentre quando l‟individuo si misura con sé stesso facendo una valutazione e rivisitando il proprio progetto sulla base dei risultati conseguiti, si ha il confronto intrapersonale. Ad esempio, l‟immigrato paragonerà il reddito percepito e le rimesse inviate quest‟anno rispetto a quelli dell‟anno precedente constatando o meno il raggiungimento dell‟obiettivo prefissato. In virtù di queste dinamiche e, in modo particolare di quelle legate al confronto interpersonale, le tipologie dei progetti migratori esaminati sopra (mantenimento dello status accompagnato da un maggiore potere d‟acquisto, conquista di una posizione sociale migliore associata ad un maggiore guadagno) possono essere ascritti in due tipi di comportamenti psico-sociali: confronto sociale orientato in senso orizzontale e confronto sociale orientato in senso verticale. Nel primo caso, il confronto è caratterizzato dal paragonarsi con gli altri individui senza alcuna aspirazione a superare i confini della categoria sociale di appartenenza. Un operaio cercherà di trovare altro/altri individuo/i di riferimento all‟interno della classe di appartenenza con cui confrontarsi in termini di standard di vita/potere d‟acquisto. In tal senso, lo sforzo delle persone è orientato a non peggiorare la propria posizione. Viceversa, nel confronto orientato in senso verticale, gli individui prendono come modello di riferimento soggetti al di fuori della propria classe sociale perché motivati a conquistare una posizione, uno status sociale superiore. Quindi, il successo del progetto migratorio dipende anche dal numero e dal tipo dei confronti messi in atto dall‟interessato. Più i raffronti saranno orientati verso diversi modelli socialmente riconosciuti, più sarà probabile che la persona sia continuamente stimolata a perseguire il proprio obiettivo; le opportunità di conquistarsi uno status diverso da quello precedente aumentano se un immigrato prende come modello individui che occupano una posizione sociale elevata rispetto alla propria indipendentemente dal fatto che siano italiani o meno. Inoltre, un fertile terreno di confronto e di sana competizione, dunque di successo accesso libero, equo e universale ai saperi tra gli immigrati, può derivare dagli incontri che avvengono nell‟ambito dell‟associazionismo indipendentemente dalle varie forme di solidarietà che vi si sviluppano. Si può sinteticamente concludere, affermando che il confronto è il fattore determinante la spinta ad emigrare, a conquistare una posizione sociale superiore o quanto meno preservare quella di partenza. Un’analisi delle condizioni di vita tra maghrebini: un confronto tra reclusi a e non reclusi a Padova In questo paragrafo, viene presentata una ricerca svolta nel 1999 che ha coinvolto 200 immigrati maghrebini (tutti maschi): 100 reclusi nelle carceri di Padova e 100 non reclusi soggiornanti nella medesima città. L‟età media dei gruppi è pari a 27 e 31 anni rispettivamente dei ristretti e liberi. Lo scopo di questa analisi è quello di evidenziare le critiche condizioni di vita in cui versa una parte di immigrati, con particolare attenzione ai fattori di rischio per la salute fisica, fattori questi connessi alla mancanza di un‟abitazione, di un lavoro, alla difficoltà di accedere ai servizi socio-sanitari (Geraci et al., 1995), nonché alla mancanza di aiuto da parte delle istituzioni. Iniziando con il motivo dell‟arrivo in Italia, emerge che in entrambi i gruppi, si registrano percentuali elevate di soggetti che erano arrivati con la motivazione di lavorare: l‟82% ed il 91% rispettivamente di reclusi e non detenuti. Solo il 10% dei ristretti era arrivato con la motivazione di trovare degli amici che già risiedevano in Italia, mentre il 5% di non reclusi era venuto per poter continuare gli studi. Questi dati confermano il fatto che gli immigrati abbandonano il paese d‟origine soprattutto per motivi economici. Studi precedenti (Mauri et al., 1993), avevano riscontrato risultati analoghi: su un campione di 170 immigrati, il 57.1% era giunto in Italia per motivi di lavoro, il 10.6% per motivo di studio, il 7.6% ed il 2.4% rispettivamente per motivazioni politiche e di ricongiungimento familiare. Rispetto al titolo di studio; i reclusi presentano valori percentuali elevati in relazione al diploma delle elementari (25%), il 28% per il diploma della scuola media inferiore ed infine il 23% della scuola media superiore contro il 12%, il 13% ed il 41% rispettivamente dei non reclusi. Un dato importante emerso da questo confronto riguarda il numero di soggetti analfabeti: il 13% ed il 4% rispettivamente del campione dei reclusi e non incarcerati. Complessivamente, il campione dei non reclusi sembra presentare un migliore profilo del titolo di studio. Infatti, il 12% di essi possiede la laurea. La condizione alloggiativa nel Paese ospitante (periodo antecedente la condanna per i reclusi), sembra evidenziare differenze nei due gruppi, nel campione dei detenuti non si osserva un rilevante miglioramento: il numero di coloro che avevano preso in affitto una casa, è passato dal 18% della città di ingresso al 24% della città in cui è avvenuto l‟arresto, mentre nel campione dei non reclusi, si è registrato un incremento che è passato dal 28% al 51% rispettivamente nella prima e nell‟ultima città. Inoltre, sembra che con il passare del tempo il campione dei non reclusi tenda a non abitare presso gli amici, mentre quello dei detenuti non presenta rilevanti variazioni rispetto alla città di ingresso. Da notare però, che il campione dei non reclusi registra il 21% di soggetti che abitava presso la casa di accoglienza (ultima città). Un indicatore di differenza a vantaggio dei non incarcerati concerne il fatto che pochi soggetti abitavano in case abbandonate: dal 12% nella città di ingresso al 4% nell‟ultima contro il 23% ed il 30% rispettivamente nella città di ingresso e nell‟ultima (reclusi). In quest‟ultimo, si osserva che il 14% dei soggetti viveva nella condizione di senza fissa dimora. Dal confronto emerge che i campioni sono significativamente diversi: c ²=48.33, gl=4, P<0.01, Zc=2.80. I soggetti reclusi tendono ad abitare in misura minore nei centri accesso libero, equo e universale ai saperi d‟accoglienza rispetto ai non reclusi; viceversa, si registrano più soggetti reclusi che dormivano in casa abbandonata; inoltre, i non reclusi tendono ad avere più possibilità di prendere in affitto una casa anche se il vantaggio non è tale da differenziare i soggetti. Rispetto all‟attività lavorativa, emerge che pochi soggetti lavoravano (in modo non regolare) nel settore dell‟agricoltura in entrambi i campioni nei tre momenti di soggiorno dei soggetti (città: di arrivo, dove l‟immigrato ha vissuto più a lungo ed il luogo in cui è avvenuta l‟intervista). La mansione di operaio (riferito al periodo antecedente la reclusione per gli incarcerati) è quella che ha assorbito il maggiore numero di manodopera di immigrati in entrambi i campioni. Mentre il gruppo dei detenuti registra valori al di sotto di venti punti percentuali, eccezione fatta per i valori relativi alla città di ingresso (modalità irregolare), il campione dei non ristretti presenta un andamento crescente arrivando a raggiungere il 44% (lavoro regolare) ed il 18% (irregolare) nell‟ultima città. Escludendo il 44% dei soggetti del campione dei non reclusi che lavorava in modo regolare nell‟ultima città contro il 4% dei detenuti si registrano più soggetti che svolgevano le mansioni in modo non regolare nei due campioni. In generale, sembra che la situazione lavorativa sia migliore nel campione dei soggetti non reclusi. Il numero dei disoccupati è passato dal 40% (città ingresso) al 60% (ultima città) nei soggetti reclusi contro il 25% ed il 14% rispettivamente nella prima e nell‟ultima città dei non detenuti. Il confronto inerente all‟attività lavorativa è significativo: c ²=54.72, gl=1, P<0.01, Zc=2.31; si rilevano più soggetti reclusi disoccupati e sono pochi coloro che svolgevano un lavoro come operaio, mentre il campione di confronto registra più soggetti che lavoravano e pochi disoccupati Relativamente allo stipendio (percepito prima della carcerazione per il campione dei ristretti), si osserva che il 7% dei reclusi contro il 13% del gruppo di confronto percepiva una somma compresa tra i 250-500 euro. Inoltre, si evidenzia che il 12% ed il 22% rispettivamente del campione dei detenuti e non reclusi guadagnava una cifra tra i 500-750 euro. Da notare che per quanto riguarda il campione degli incarcerati, non si registrano altri valori di rilievo, mentre nel campione dei non reclusi rivela che il 38% di soggetti guadagnava una somma tra gli 800-1000 euro; è stato rilevato anche che il 10% dei soggetti percepiva uno stipendio compreso tra 1.025-1.500 euro. Dato l‟elevato numero di disoccupati (69%) del campione dei reclusi, non è stato preso in considerazione il t-test per la verifica della significatività. Le informazioni attinenti l‟accesso ai servizi (prima della detenzione) evidenziano che il campione dei reclusi presenta un‟elevata percentuale (78%) di immigrati che hanno dichiarato che non avevano mai avuto l‟assistenza sanitaria contro il 29 dei non reclusi; il 7% ed il 59% ha riferito di averla avuta in alcuni periodi (assunzioni regolari) rispettivamente dei detenuti e non. Infine, il 13% dei reclusi ed il 12% dei non detenuti hanno sempre avuto l‟assistenza sanitaria. In modo analogo a quanto è stato visto per altre analisi, il campione dei detenuti appare presentare minore opportunità in termini di cure sanitarie. Il confronto fra i gruppi è ampiamente significativo: c ²=63.96, gl=3, p<0.01, Zc=2.71. La differenza è a vantaggio dei non reclusi, i quali evidenziano più soggetti che hanno dichiarato di avere avuto accesso ai servizi sanitari in alcuni periodi. I risultati riportati qui di seguito riguardano le richieste formulate e gli aiuti ricevuti dalle istituzioni. Tali domande concernono i soldi, il cibo ed i vestiti, l‟appoggio per trovare un lavoro ed una abitazione. Gli immigrati fuggono dalle condizioni disperate dei loro paesi e nutrono molte aspettative nei confronti del Paese di immigrazione, ma una volta giunti a destinazione devono fare i conti con i problemi di vario genere in loco. Per quanto riguarda le richieste di denaro (prima della detenzione per i ristretti), si può notare che la domanda di aiuti in denaro è indirizzata soprattutto all‟amico connazionale, sebbene nel campione dei non reclusi interessi anche la figura dei familiari (fratelli/sorelle o zii che già risiedevano da tempo in Italia). In particolare, il campione dei reclusi accesso libero, equo e universale ai saperi registra più richieste rivolte all‟amico connazionale passando dal 45% (prima città) al 21% (ultima città) contro il 20% ed il 14% rispettivamente nella città di ingresso e nell‟ultima (non detenuti). Non si evidenziano rilevanti richieste nei confronti delle istituzioni. Con il passare del tempo, si registra la diminuzione delle richieste nei due gruppi. Va rilevato che il campione dei reclusi sembra avere ricevuto meno aiuti rispetto alle richieste formulate. La differenza è significativa sia in relazione alle richieste che agli aiuti ricevuti. Infatti, per quanto riguarda le richieste i valori sono i seguenti: c ²= 5.11, gl=1, P<0.05, Zc=1.59: I reclusi presentano più richieste verso l‟amico connazionale e poche nei confronti della famiglia; la situazione opposta si osserva nel gruppo di confronto. In modo analogo, i reclusi registrano più soggetti che avevano ricevuto aiuto dall‟amico connazionale rispetto alla famiglia e viceversa in relazione al campione dei non detenuti. Discussione I risultati relativi al titolo di studio tra i maghrebini reclusi e non reclusi appaiono evidenziare che questi ultimi presentano un livello di alfabetizzazione sensibilmente più elevato. Questi dati sembrano concordare con gli studi di Semedo Moreira (1991 in Esteves, 1999), secondo cui, la popolazione detenuta è in buona parte caratterizzata da individui appartenenti alle classi socioeconomiche basse (basso livello scolastico, instabilità familiare e lavorativa, ecc.). Un altro indice di vantaggio a favore dei non reclusi riguarda i risparmi disponibili all‟arrivo. Il fatto di arrivare con pochi risparmi può anche essere legato al fatto di avere un amico/conoscente/parente già nel Paese d‟accoglienza disponibile a fornire l‟iniziale sistemazione. Quando l‟immigrato arriva, ad attenderlo sono quasi sempre gli amici, che in generale si prendono cura di lui, lo ospitano e lo informano sulle abitudini finché non riesce a provvedere per il suo mantenimento (Thomas, 1921). La capacità di produrre un reddito ha un‟influenza positiva sulla condizione generale dell‟immigrato, in primis per la possibilità di poter affittare una casa. Come si è visto prima, dal confronto è emerso che i reclusi presentavano peggiori condizioni abitative e lavorative. Poiché la maggiore parte del gruppo dei reclusi era sprovvista di documenti, tra i fattori da connettere a tale differenza vi è la continua migrazione interna usata come strategia per sfuggire ai provvedimenti delle forze dell‟ordine. Il confronto relativo alla situazione lavorativa sembra suggerire che i non detenuti hanno avuto più opportunità di trovare un lavoro rispetto ai reclusi (nella fase precedente all‟arresto). La spiegazione da addebitare a questa diversità sembra essere legata alla mancanza di regolarizzazione della propria posizione giuridica. La situazione concernente l‟accesso all‟assistenza sanitaria sembra che vi sia un netto vantaggio a favore dei non detenuti. Poiché la possibilità di accedere ai servizi sanitari è collegata alla produzione di un reddito, appare ovvio che i reclusi avendo registrato un‟elevata percentuale di disoccupati, hanno avuto minori opportunità di potervi accedere. Da notare che in quest‟ultimo campione tra coloro che lavoravano, pochi svolgevano l‟attività in modo regolare. Per quanto riguarda le richieste formulate e gli aiuti ricevuti dalle istituzioni, si può affermare che in generale gli immigrati in caso di bisogno fanno riferimento più agli amici che alle istituzioni. Si riesce a trovare lavoro grazie a voci raccolte nell‟ambiente migratorio, non sempre da connazionali, bensì da immigrati e non, conosciuti in Italia (Colombo, 1998). Su un campione di 170 immigrati, è stato riscontrato che il 58.3% era stato aiutato da amici e parenti e solo 5.6% ha dichiarato di avere fruito dell‟aiuto delle istituzioni (Mauri et al., 1993). Però, nella realtà padovana e forse anche in quella regionale (Veneto), i maghrebini sono in maggioranza tra le "comunità" di immigrati ospiti nei centri d‟accoglienza. Inoltre, per coloro che sono sprovvisti di documenti, il non rivolgersi alle istituzioni può essere legato al fatto che il chiedere l‟aiuto comporta il venire allo scoperto, cioè accesso libero, equo e universale ai saperi l‟essere controllati. Rivolgersi alle istituzioni per chiedere aiuto equivale a dovere ammettere di essere entrati nella disprezzata categoria dei bisognosi (ibidem). La difficoltà di trovare un alloggio aumenta quando subentrano altri fattori come la diffidenza dei proprietari di stipulare un contratto agli immigrati (Dal Mas, 1996) oppure situazioni di mancanza di case da destinare all‟affitto. Come è ampiamente risaputo, la difficoltà connessa al reperimento di un alloggio è rappresentata dalla mancanza di un reddito. Ricerche precedenti hanno rivelato come su un campione di 62 carcerati nel Carcere Penale di Padova, il 21% abitava in affitto nella prima città, il 35.5% nell‟ultima città, mentre coloro che vivevano in condizioni di senza fissa dimora erano del 21% al momento dell‟arrivo contro il 25.8% nella città in cui sono stati arrestati (Berto et al., 1997). La situazione lavorativa nei due campioni mostra come non solo la difficoltà di trovare un lavoro ostacoli gli immigrati nel loro progetto, ma qualora riescono a trovare un‟occupazione, spesso lavorano senza un contratto. Lavorare in modo irregolare è un altro fattore che va ad incidere nella già precaria situazione in cui versano gli immigrati. La ricerca citata sopra sui carcerati immigrati non appartenenti all‟U.E. reclusi a Padova, rivela che il 50% dei reclusi non lavorava al momento dell‟arresto. Se da un lato la disoccupazione può costituire un fattore di rischio alla devianza (Halzlehurst, 1987 in CNPDS, 1998) nonché alla salute fisica (Geraci, 1995); l‟ingresso nella criminalità da parte di una fetta di immigrati sembra essere dovuta allo sfruttamento lavorativo sia da parte del datore di lavoro locale che da parte di altri immigrati. Il quadro delle azioni devianti sembra indicare che non solo siano stati più comportamenti riconducibili al guadagno facile connesso con il mondo della droga, ma vi siano soggetti con atti recidivi. Tale situazione, fa ipotizzare un collegamento di detti soggetti con la rete della malavita locale. Alcuni studiosi hanno trovato che quei detenuti che all‟uscita non riuscivano a trovare un impiego legittimo, erano più propensi a procurarsi il reddito in modo illegale (Leone et al., 1999). Più che la difficoltà legata al reperimento di un lavoro dignitoso a produrre azioni recidive, è l‟assenza di strutture istituzionali (e non) atte a favorire il reinserimento socio-lavorativo. Conclusione Le precedenti emigrazioni a differenza delle attuali erano caratterizzate da individui non solo giovani e sani, ma altamente motivati ad attuare un cambiamento di luogo con miglioramento del potere d‟acquisto e/o di status. Per tali caratteristiche si è parlato di emigrazioni a effetto selettivo. Questa ricerca ha permesso di analizzare un processo di cambiamento decisamente fallimentare, riconducibile alla tipologia di cambiamento di luogo con basso potere di acquisto, nel caso specifico, c‟è stato un peggioramento rispetto al Paese di provenienza. I risultati emersi dal confronto fra i due campioni sembrano portare alle seguenti considerazioni: le condizioni di vita in cui versano gli immigrati nel Paese di accoglienza, spesso sono uguali o peggiori di quelle lasciate in patria; il fatto di scegliere un Paese ad elevato sviluppo economico (Italia) non è di per sé una condizione sufficiente che può facilitare la riuscita del progetto migratorio; accesso libero, equo e universale ai saperi il campione dei reclusi maghrebini si presenta ampiamente svantaggiato in tutti gli indicatori considerati rispetto ai non reclusi. Per questo motivo, esso va considerato esposto ad un maggiore rischio di andare incontro a vari problemi di salute fisica e mentale; in riferimento agli immigrati sprovvisti di documenti, sembra emergere che più la permanenza si protrae nel tempo, più aumentano le difficoltà di trovare un lavoro ed una casa; l‟immigrato di fronte alle difficoltà si rivolge in prevalenza all‟amico connazionale o agli amici immigrati e in misure minori alle istituzioni; le scarse possibilità di inserirsi pienamente nel mondo del lavoro e quindi di poter produrre un reddito in modo regolare è uno dei principali fattori che rende gli immigrati vulnerabili ad agire in modo illegale per sopravvivere. Come si vede, le difficoltà di una fetta di immigrati sono legate anche alla mancanza dei documenti. Secondo Palidda (1999), l‟immigrato che non riesce ad accedere alla regolarità o a mantenerla, accumula imputazioni sempre più numerose per vari reati amministrativi e penali, diventando spesso pluri-recidivo, soggetto all‟espulsione o anche alla detenzione. Con la carcerazione, l‟immigrato perde completamente le poche opportunità che era riuscito a conquistare (lavoro, casa, ecc.) e quindi, si ritrova a ricominciare daccapo dopo la detenzione. Per alcuni di essi, una volta tornati in libertà, il luogo di immediato inserimento nella vita quotidiana è quello delle classi emarginate per cui esiste il rischio che rimangono intrappolati nella spirale dell‟illegalità. Rifacendosi a Weber (1974 in Perocco, 1999), i fenomeni sociali non sono il prodotto di una sola causa, per cui la spiegazione del fallimento e della devianza anche negli immigrati può essere riconducibile ad un modello pluricausale. La situazione lavorativa degli immigrati non appartenenti all’Unione Europea Gli immigrati abbandonano il proprio paese con il desiderio non solo di migliorare le condizioni di vita, ma anche di svolgere un lavoro qualificato. La realtà dei fatti, però, dimostra che accanto alle ampie opportunità occupazionali corrisponde un inserimento nei segmenti più bassi del sistema produttivo. L‟analisi che verrà presentata è finalizzata ad evidenziare il quadro della situazione lavorativa degli immigrati sotto vari aspetti. Prima di affrontare l‟argomento in questione, desidero fare un cenno circa l‟andamento della situazione occupazionale a livello nazionale degli ultimi anni. Secondo l‟Istat nel gennaio 1999 si è evidenziato una crescita nell‟economia italiana pari a +1.0 rispetto allo stesso periodo dell‟anno precedente, il dato medio corrispondente al Centro-nord indica un andamento positivo pari allo 0.6%, mentre per il Mezzogiorno esprime un ulteriore arretramento -0.3% (Caritas di Roma, 1999). Questi graduali cambiamenti positivi registrati soprattutto a partire dal 1995 hanno contribuito alla creazione di 656.000 posti nell‟ultimo anno e un totale di 1.494.000 unità (Banca d‟Italia, 2001). In particolare, i miglioramenti più espressivi si sono osservati nelle occupazioni femminili con una crescita pari al 4.2% e del 2.8% di cittadini di età compresa fra 5564 anni. La distribuzione per aree geografiche dei nuovi posti di lavoro registra un‟incidenza del 3.7% nelle regioni del mezzogiorno per l‟anno 2000, un segnale questo importante di inversione di tendenza in una zona caratterizzata da timidi incrementi occupazionali. Nonostante il tasso positivo della crescita con nuovi posti, la disoccupazione ricopre ancora percentuali preoccupanti. È da notare che il valore medio dei non occupati a livello nazionale è del 12.4% (ibidem), tale punteggio non si discosta da quello registrato dall‟Unione Europea per l‟Italia (12.3%) (New Cronos in Enciclopedia Encarta, 2000). La distribuzione della disoccupazione per strati sociali degli italiani e non è così ripartita: donne (16.8%), giovani (37.4%), immigrati titolari del permesso per motivo di accesso libero, equo e universale ai saperi lavoro (27%). In particolare, gli immigrati non appartenenti all‟U.E. iscritti alle liste di collocamento totalizzano il 7.0%. Adesso passerò ad esaminare la situazione lavorativa degli immigrati nel sistema produttivo italiano. Il periodo in cui i P.S. erano mete dove "vendere" la propria manodopera, fare fortuna, concretizzare il sogno economico, è ormai tramontato. Lo stipendio che percepisce un immigrato gli permette a malapena di pagare le spese di cui necessita per vivere: l‟alloggio ed il vitto, la macchina, ecc. Tanto per fare un esempio, un operaio regolare guadagna tra i 750–850 euro e alla fine del mese deve pagare l‟affitto che varia tra i 350-400 euro, il vitto tra 175-200 euro se si tratta di un singolo individuo, le spese per la benzina, le bollette della luce e del gas, il costo delle telefonate intercontinentali, oltre alle spese impreviste come il ticket in caso di malattie e/o di visite sanitarie. Stando a queste spese, forse l‟immigrato riuscirà a risparmiare una cifra pari a 100 euro. Beninteso, questa è pure la condizione di guadagno e di vita dell‟operaio autoctono, con la differenza che i cittadini locali hanno più possibilità nella scelta sia di un lavoro che di una casa ed in generale subiscono meno sfruttamento rispetto agli immigrati. Su un totale di 800.680 immigrati soggiornanti per motivi di lavoro, 90mila sono lavoratori autonomi, 651mila sono dipendenti in attività e 60mila disoccupati pari al 7.0% come evidenziato sopra. Questi dati dimostrano l‟aumento dell‟incidenza del lavoro autonomo (1 su 10) (Caritas di Roma, 2002). Gli ingressi per motivo di lavoro coprono oltre il 60.0%, per una popolazione la cui fascia d‟età è compresa tra i 19-40 anni. Il quadro che emerge dalla distribuzione degli immigrati per aree geografiche e per settori produttivi (tab. 4) presenta differenze abbastanza evidenti. Rispetto all‟occupazione in agricoltura, si rileva che sono soprattutto le Isole a detenere la maggiore percentuale (62.2) di lavoratori, tale valore è 4 volte superiore a quello registrato nel Nord (15.6%). Inoltre, l‟altro valore rilevante spetta al Sud con il 51.4% di immigrati che svolgono mansioni nello stesso settore. Procedendo con l‟analisi, e relativamente al settore industriale, si verifica la situazione opposta e, cioè, il dato più elevato (44.7%) si osserva nel Nord rispetto a quello registrato nelle Isole (11.9%). In questo particolare ambito, il Centro si colloca in seconda posizione con il 36.9% della forza lavoro. Sebbene il settore dei servizi presenti un quadro che rimarca ancora occupazioni a vantaggio del Nord, le differenze sono meno sbilanciate. Infatti, il Nord si distacca di poco con il 39.7% contro il 35.9% del Centro. Il Sud e le Isole si attestano ai 25 punti percentuali per ciascuno. Dunque, la maggiore concentrazione della forza lavoro si colloca nell‟industria e nei servizi che sono quelli maggiormente presenti nel Nord della penisola. Pertanto, i dati di questi settori spiegano l‟alta concentrazione della popolazione immigrata al Nord rispetto al resto delle aree. Tab. 4 Distribuzione degli immigrati non appartenenti all’U.E. per settori produttivi e aree geografiche - 1999 Aree geografiche Agricoltura Industria Servizi Nord 15.6 44.7 39.7 Centro 27.2 36.9 35.9 Sud 51.4 23.3 25.3 Isole 62.2 11.9 25.9 accesso libero, equo e universale ai saperi Italia 22.6 40.1 37.3 Fonte: Caritas di Roma, 2000 Il lavoro immigrato ha rivitalizzato importanti settori: ad esempio la pesca a Mazara del Vallo in Sicilia, la floricoltura in Liguria, la pastorizia in Abruzzo e nel Lazio (CGIL Veneto, 2000). Questi settori dell‟economia italiana hanno passato un lungo di crisi per la mancanza di manodopera in quanto i cittadini autoctoni preferiscono svolgere attività più qualificate. Uno studio effettuato su un campione di 450 immigrati rivela che il 32.2% lavorava nell‟area dell‟artigianato, il 28.7% nell‟agricoltura, l‟11.8 nell‟edilizia ed il 4.5% faceva ambulantato (Ferro, 1994 in Prospettive Sociali e Sanitarie, 1995). In una ricerca realizzata dal Comune di Piacenza (Magistrali et al., 1999) su un campione di 75 immigrati, risulta che le mansioni svolte sono così distribuite: edilizia (57.3%), industria (17.3%), artigianato (9.3%), commercio (3.9%), sevizi qualificati (9.3%) servizi non qualificati (2.9%). In riferimento alla collocazione occupazionale e alla mobilità sociale, gli immigrati che vivono in Italia si trovano ad un livello più basso rispetto ad altri paesi mete di emigrazione. A tal proposito, Basso et al. (2000) fanno presente: negli U.S.A., il 25% degli immigrati è costituito dalla forza lavoro di medio alta qualificazione professionale con buona possibilità di mobilità ascendente; nel 1997, l‟avviamento al lavoro nel Nord nel settore dell‟industria era pari al 50%, nel 1998 è stato registrato il 77.5% di immigrati che svolgeva un lavoro come operaio generico e solo il 4.7% adempiva le mansioni da operaio qualificato o impiegatizio; si stima che il 25-30% degli immigrati (maschi e femmine) è condannato al lavoro domestico. Tuttavia, negli ultimi anni, sembra profilarsi un timido orientamento all‟inserimento di professioni intellettuali, scientifiche e di elevata specializzazione. Infatti, risulta che nel 2001, le assunzioni riguardanti tutti gli immigrati, inclusi quelli dell‟U.E., sono state pari al 10%, cioè 4.392 (Unioncamere, 2001). È da tenere in considerazione che oltre al prevalente inserimento lavorativo di basso livello, c‟è una forte presenza di immigrati nel sommerso. Secondo le stime riportate dal quotidiano Il Nuovo (2001) sarebbero 300mila i lavoratori immigrati non appartenenti all'U.E. che prestano attività produttiva in nero con un‟evasione fiscale complessiva pari a 6 milioni di euro. Il quadro della situazione lavorativa degli immigrati non appartenenti all‟U.E. per l‟anno 2000 (tab. 5) evidenzia una concentrazione di assunzioni nel settore del commercio (59.602), seguita dalla metallurgia e meccanica (49.035). Al terzo posto troviamo un altro ambito occupazionale, molto conosciuto come fonte principale per il reclutamento di manodopera immigrata, che è l‟edilizia con un numero di operai dichiarati pari a 26.494 unità. L‟area della chimica, e simili, occupa il quarto posto in fatto di presenze di immigrati regolarmente denunciati con valori che si aggirano intorno alle 17.315 unità annuali. Altri settori importanti per l‟impiego degli immigrati sono: tessile e abbigliamento da un lato, trasporti e comunicazioni dall‟altro, che coprono rispettivamente 12.221 e 12.600 posti. Anche questi dati avvalorano quelli visti prima, cioè che le regioni italiane dove gli immigrati trovano maggiormente occupazione riguardano i settori dell‟industria, commercio ed edilizia; tali aree geografiche si collocano nel Nord e sono: Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, Piemonte e Toscana. Le rimanenti aree produttive registrano valori bassi in particolare modo il settore dei servizi e dell‟agricoltura per il Sud. Questi dati contrastano con quelli osservati precedentemente in tab. 4, cifre in cui emerge in modo chiaro che le Isole e in generale il Sud che accesso libero, equo e universale ai saperi presentavano valori percentuali molto elevati per la Caritas, risultano invece sorprendentemente ridotti per l‟INPS. La spiegazione più convincente da addebitare a questa sottostima potrebbe essere la diffusa affermazione dell‟ occupazione in nero all‟interno della quale una consistente parte di immigrati per motivi vari, trova inserimento lavorativo. Tab. 5 - Lavoratori extracomunitari Numero medio di dipendenti risultanti dalle denunce mensili delle aziende – Anno 2000 Attività svolte dagli immigrati V.A. Agricoltura e attività connesse 586 Alimentari e affini 5.885 Amministrazioni statali ed enti 223 pubblici Carta ed editoria 1.991 Chimica, gomma, ecc. 17.315 Commercio 59.602 Credito e assicurazione 157 Edilizia 26.494 Estrazione minerale e trasformazione 7.212 Legno, mobili 8.655 Metallurgia e meccanica 49.035 Servizi 3.167 Tessile abbigliamento 12.221 Trasporti e comunicazioni 12.600 Varie 1.931 Totale 207.073 Fonte: INPS 2001 Le forme del lavoro irregolare degli immigrati L‟urgente bisogno di guadagnare per soddisfare le necessità primarie accompagnato dal diffuso fenomeno del lavoro irregolare presente sul territorio italiano concorrono a "spingere" gli immigrati a reperire una collocazione lavorativa nel sommerso. accesso libero, equo e universale ai saperi In Italia il reclutamento della manodopera sommersa viene fatto principalmente dal datore di lavoro (soprattutto nel Sud) che sceglie gli operai da un lato, per la forza fisica, dall‟altro, sulla base della paga che gli stessi immigrati richiedono di volere percepire; più basso è il compenso dichiarato, maggiore è la probabilità di essere assunto. In alcuni casi, sono gli interessati o i loro amici che contattano le ditte. Rispetto a quest‟ultimo punto, gli immigrati rischiano di divenire sia vittime, sia autori di attività illecite attraverso il diffuso meccanismo del "caporalato" (Calvanese, 1983). In genere, vengono reclutati con uno stipendio che varia tra i 20-25 euro per un totale di 9-10 ore giornaliere. È uno stipendio misero se si considera la fatica delle mansioni svolte. Per gli immigrati sprovvisti del permesso di soggiorno, la paga varia tra i 4-5 euro all‟ora (Il Nuovo, 2001). Riportiamo qui di seguito le varie forme di lavoro sommerso in Italia suggerite da Ambrosini (1999). Lavoro irregolare dipendente: a) Lavoro occasionale e stagionale consistente nel bracciantato con forte mobilità territoriale. b) lavoro semi-continuativo, si concentra in settori come edilizia, servizi e turismo e si osserva in periodi limitati e di forte richiesta; c) Lavoro stabile e continuativo, quest‟ultima variante si caratterizza da un lato, per l‟inserimento in azienda e nel basso terziario, artigianato e edilizia, dall‟altro, nel lavoro domestico. Questo tipo di manodopera proviene dai paesi vicini all‟Italia. Lavoro irregolare indipendente: a) auto-impiego di rifugio, è rappresentato dal commercio ambulante abusivo che è in stretto legame con il sistema economico italiano, b) inserimento promozionale, interessa soprattutto le imprese etniche a gestione familiare. Questo tipo di collocazione lavorativa è concepita come qualcosa di transitorio che può portare ad aprire un‟attività autonoma legale. Lavoro coatto: a) lavoro coatto in azienda, normalmente si tratta di lavoro dipendente il cui datore di lavoro appartiene alla stessa nazionalità (tipico dei cinesi). La coazione può dipendere dal debito contratto al momento dell‟espatrio e ha come misure di garanzia per incassare i soldi dati in prestito il "sequestro" dei documenti. Questo tipo di rapporto lavorativo si caratterizza per le condizioni incresciose a cui sono sottoposti gli individui sia per gli orari ed i ritmi di lavoro sia per la sistemazione alloggiativa a loro offerta; b) "lavoro" coatto nella prostituzione, questa è la forma estrema di coazione che si caratterizza per l‟inganno al momento dell‟espatrio, la violenza psicologica e non di rado quella fisica e le minacce nei confronti dei familiari. Anche per le persone costrette a questo tipo di lavoro viene ritirata la documentazione personale con conseguenze che si possono immaginare. Sembra quasi superfluo sottolineare che tutte queste forme di lavoro sommerso non sono formalizzate da un contratto di lavoro. Seppure le difficoltà connesse al reperimento del lavoro regolare potrebbero essere ridimensionate con l‟attuale legge che prevede che l‟immigrato debba arrivare in Italia con un contratto di lavoro, rimangono alcuni punti critici nell‟inserimento socio-lavorativo. A tal proposito, segnalo qui di seguito: accesso libero, equo e universale ai saperi lingua - senza la conoscenza della lingua si hanno maggiori difficoltà a reperire un‟occupazione; tipo di qualifica posseduta - alcuni immigrati non possiedono qualifiche richieste dal mercato occupazionale italiano; lavoro in condizioni di sfruttamento - alcuni immigrati arrivano ad abbandonare il lavoro precario ed irregolare solo dopo un lungo periodo di sfruttamento; mancanza di un punto di riferimento (parenti, amici italiani e non) – l‟assenza si almeno di una di queste figure costituisce senza dubbio un ostacolo che ritarda l‟ingresso nel mondo del lavoro. Gli squilibri economici che caratterizzano la maggiore parte dei paesi del mondo, spingeranno sempre di più le persone a cercare condizioni di vita migliori, anche se molto spesso a queste aspettative di partenza corrispondono occupazioni di basso profilo, impossibilità di ascesa sociale fino a ritrovarsi vittime dello sfruttamento che si verifica soprattutto nei vari settori del sommerso. Sono questi i nodi principali che ritardano o ostacolano l‟inserimento lavorativo dell‟immigrato. Indipendentemente dal fatto che la forza lavoro immigrata sia riconosciuta da tutti come indispensabile all‟economia italiana, le istituzioni dovrebbero agire per contrastare ogni forma di discriminazione ed inferiorizzazione in modo da eliminare le pratiche che violano i diritti fondamentali della persona. A questo impegno di promozione umana, è chiamata a rispondere anche la società civile. I bisogni degli immigrati e le possibili risposte degli attori sociali Se le difficoltà dei primi immigrati avevano destato l‟attenzione soprattutto delle strutture a bassa soglia ed in seguito quelle ad alta, con l‟aumentare degli ingressi degli ultimi anni, non si è osservato complessivamente un altrettanto potenziamento delle stesse. Inizialmente la volontà dei singoli cittadini, del volontariato fino a comprendere la Caritas hanno permesso di gestire ed alleviare il disagio connesso agli innumerevoli problemi che si presentano nella fase iniziale di immigrazione. In merito a ciò, Ambrosini (1999), afferma che l‟associazionismo caritativo espresso in termini di cibo, vestiti e di posto letto ha avuto un ruolo fondamentale nel primo decennio in cui è avvenuto il maggior numero di arrivi. Infatti, le iniziative attribuibili alle istituzioni statali sono da collocare in un periodo successivo consistente nella creazione di centri di prima e di seconda accoglienza. Lo scopo di questo paragrafo è quello di mettere in luce i momenti e le difficoltà che incontra un immigrato quando giunge in Italia e di suggerire le modalità di aggancio per favorire l‟inserimento socio-lavorativo. Il vero "handicap" che ogni immigrato porta con sé è lo svantaggio economico, dovuto al basso valore della valuta del Paese d‟origine rispetto a quella del Paese di accoglienza e di conseguenza, i risparmi con cui gli immigrati arrivano in Italia per affrontare i costi prima di avere un lavoro sono molto esigui. In una ricerca condotta dallo scrivente (1999, n.p.) che aveva coinvolto un gruppo di 100 soggetti maghrebini, è stato rilevato che il 14% di essi non possedeva soldi all‟arrivo, il 27% disponeva di una quantità di soldi che si aggirava tra i 300-500 euro, mentre solo il 10% aveva una somma superiore agli 800 euro. Come è facile intuire, queste somme sono assolutamente insufficienti a coprire le spese di vitto e alloggio nel periodo di tempo che va dall‟arrivo fino a quando l‟immigrato inizia a lavorare; è da ricordare che il tempo di latenza della disoccupazione si prolunga a causa degli ostacoli connessi alle procedure per l‟ottenimento del permesso di soggiorno. È in ragione di ciò che buona parte della sistemazione alloggiativa nella fase iniziale di immigrazione si caratterizza per collocazioni transitorie. La minore/maggiore disponibilità economica all‟arrivo associata ad eventuali sostegni che possono arrivare dagli amici e/o dai parenti portano alle classificazioni alloggiative temporanee che sono: accesso libero, equo e universale ai saperi Albergo/ostello Amici/connazionali/parenti strutture d‟accoglienza abitazioni precarie e/o senza dimora (stazioni delle ferrovie, macchine in demolizione, case abbandonate, baracche, sotto i ponti, ecc.). Ad una prima analisi, si osserva che eccetto l‟ultima situazione, le prime tre presentano sia vantaggi sia aspetti negativi. Nel caso della sistemazione in albergo, i benefici sono legati alle buone condizioni alloggiative anche se limitati nel tempo per i costi elevati e con ristrette possibilità di socializzazione perché si tratta di una sistemazione ad elevato turnover di persone che non vivono in quella città. L‟ospitalità presso amici sembra essere la condizione che presenta minore disagio sebbene l‟immigrato rischi di rimanere rinchiuso nella cerchia di sole persone straniere, di non avere una propria privacy e di vivere in abitazioni sovraffollate. Ma va riconosciuto il fatto che questo tipo di solidarietà esistente presso buona parte degli immigrati permette di evitare situazioni ancora più disagevoli. I vantaggi conseguenti l‟abitare in strutture di accoglienza sono legate all‟ottenimento di una sistemazione immediata, ma molto limitata nel tempo (da un minimo di un mese ad un massimo di sei mesi); anche per questo tipo di offerta alloggiativa, l‟immigrato ha poche opportunità di interagire con la gente del posto soprattutto quando non ha ancora trovato un lavoro. Tuttavia, sono pochi gli immigrati che accedono alle strutture di accoglienza a causa del limitato numero dei posti disponibili. L‟ultima situazione è priva di qualsiasi vantaggio come anticipato sopra in quanto le condizioni di vita si collocano al di sotto dei limiti della sopravvivenza con conseguente esclusione sociale. Rispetto a questa questione, è ipotizzabile che gli immigrati che si trovano a vivere in dette condizioni siano più sfavoriti presentando non solo ritardi nell‟inserimento socio-lavorativo, ma anche difficoltà a cambiare la "sistemazione" inizialmente pensata come transitoria, situazione aggravata ancora di più dall‟impossibilità di ottenere il permesso di soggiorno perché ad esempio, entrati in Italia in modo illegale. Come affermato altrove, il maggiore disagio connesso all‟arrivo degli immigrati rimane senza dubbio quello legato al reperimento di un lavoro e di un alloggio in un tempo accettabile. Secondo le nuove disposizioni legislative in materia di ingresso di nuovi cittadini, tale disagio dovrebbe ridimensionarsi, infatti, l‟immigrato che arriva in Italia per motivi di lavoro, deve avere già un contratto di lavoro e la garanzia di un alloggio da parte del datore di lavoro. Tuttavia, non sempre le disposizioni legislative vengono pienamente applicate, per cui, ci si può attendere che comunque, una parte di immigrati continuerà ad avere difficoltà sotto questo aspetto come avvenuto finora. Un altro aspetto di criticità riguarda il licenziamento. La perdita del posto di lavoro può dipendere da tre ordini di fattori: a) dal datore di lavoro, b) dalla libera scelta dell‟immigrato stesso motivata ad esempio dalla ricerca di un migliore guadagno, c) dal fallimento dell‟azienda. In tutte queste situazioni l‟interruzione del rapporto di lavoro comporta anche la perdita della sistemazione alloggiativa concessa dal proprietario dell‟azienda al momento dell‟assunzione e quindi, si ripresenta l‟urgente necessità di trovare un altro lavoro per avere anche un tetto dove andare a dormire. Oltre a queste esigenze basilari, in linea di massima, sono quattro i bisogni che richiedono una continua risposta a favore di una facile integrazione degli immigrati. Primo, la conoscenza della lingua italiana costituisce un importante strumento di comunicazione nel proprio posto di lavoro permette di adempiere correttamente alle mansioni assegnate; tale strumento facilita le relazioni sociali ed amicali nonché consentendo di seguire gli avvenimenti della società ospitante attraverso le informazioni che giungono dai media. Un secondo aspetto di estrema importanza è la formazione professionale. Sebbene, molti immigrati arrivino con un livello di istruzione medio-alto, non altrettanto avviene per quanto accesso libero, equo e universale ai saperi concerne la qualifica professionale. Può accadere ad esempio, che la qualifica professionale posseduta non risponda alle esigenze del mercato italiano, da qui la necessità di ottenere uno specifico training nel settore in cui si accinge a lavorare. Il terzo punto è rappresentato dalla conoscenza dei servizi presenti sul territorio. Questo aspetto ha a che vedere con tutto l‟insieme di strutture deputate sia all‟erogazione dei servizi (ospedale, ufficio interventi sociali del comune, ecc.) sia a quelle riguardanti tutte le pratiche burocratiche relative al proprio status giuridico (prefettura, questura, comune). Infine, la conoscenza delle normative legislative italiane è sicuramente un‟azione utile ad evitare che si compiano atti sbagliati; molto spesso la non acquisizione di informazioni sulle normative del nuovo contesto è alla base della messa in moto di comportamenti involontari che si scontrano con la legge del posto e non di rado compromettono la posizione dell‟interessato. Non c‟è dubbio che l‟insieme di questi fattori permetterebbe di accelerare il processo di integrazione. Il superamento di queste difficoltà passa attraverso il coinvolgimento di vari attori sociali. A tal proposito, oltre ai vari enti istituzionali (comuni, sindacati) sono chiamati in causa anche quelli privati (Volontariato, Caritas, Associazioni degli immigrati e dei gruppi nazionali), nonché il datore di lavoro fino a comprendere i singoli cittadini. In particolare, il solo fatto di avere un punto di riferimento affidabile quale può essere un amico connazionale o italiano, un parente, un mediatore linguistico-culturale può essere di grande aiuto. Il sostegno che un immigrato potrebbe ricevere da questi attori riguarda le informazioni sulle procedure burocratiche (a cominciare dal permesso di soggiorno), sulle leggi del Paese ospitante, sui servizi esistenti sul territorio, sulla ricerca della casa, su come vestirsi durante l‟inverno, ecc. Dai colloqui avuti con alcuni immigrati, è emerso ad esempio che è stata la Caritas di Padova a fornire loro il primo aiuto anche se saltuario (cibo e vestiti). Tale appoggio è durato dai due ai quattro mesi per la maggiore parte di loro, dopodiché alcuni hanno trovato un lavoro temporaneo, altri si sono spostati in altre città alla ricerca di un‟occupazione più retribuita. Come è evidente, l‟azione coordinata di questi attori non sarebbe sufficiente a garantire un inserimento adeguato dell‟immigrato se dietro a questa non si prefigurasse anche una volontà politica orientata alla promozione dei nuovi cittadini attraverso interventi mirati a permettere un incontro positivo tra i bisogni espressi dagli immigrati e le corrispondenti risposte delle istituzioni. Oggi più che mai c‟è bisogno di tutte le varie forme di associazionismo ed una più ampia collaborazione tra le reti associative ed istituzioni pubbliche (Ambrosini, 1999). Accanto ad interventi orientati a superare le difficoltà quotidiane, si dovrebbe accompagnare quello del diritto di voto, diritto che renderebbe partecipi gli immigrati alla stessa stregua di tutti i cittadini alla scelta politica e nello stesso tempo favorirebbe la loro mobilità ascendente finora inespressa. Sulla base di quanto esposto e in considerazione dell‟attivazione delle risorse volte ad agevolare l‟inserimento degli immigrati nella nuova società, si segnalano alcune linee-guida. Dopo un‟attenta analisi della domanda e dei bisogni dei nuovi cittadini, la mossa successiva per l‟aggancio degli immigrati dovrebbe riguardare tutti i luoghi frequentati da essi, come ad esempio: le sedi delle Associazioni, i posti di lavoro, gli uffici istituzionali e non, le strutture di promozione professionale e culturale. Tale contatto dovrebbe coinvolgere i vari attori a seconda della struttura interessata, i quali nel caso in cui non fossero in grado di rispondere adeguatamente alle richieste degli immigrati, di sapere almeno indirizzare i loro utenti verso le strutture competenti. Non c‟è dubbio che l‟azione di aggancio e quelle successive ad essa debbano essere precedute da una informazione a tappeto in modo da comprendere il più ampio numero possibile di immigrati. La diffusione delle conoscenze inerenti i servizi presenti sul territorio dovrebbe avvenire attraverso l‟utilizzo di depliant stampati nelle lingue veicolari (inglese, francese, arabo, cinese) da distribuire nelle medesime strutture. accesso libero, equo e universale ai saperi Una possibile modalità aggiuntiva potrebbe essere, organizzare gli incontri periodici con gli immigrati su questioni espresse direttamente da loro. Riflessioni conclusive La disastrosa situazione economica che caratterizza la maggior parte del Pianeta è alla base delle massicce emigrazioni che si osservano ogni anno. Uomini e donne di ogni età, inclusi i bambini, sono obbligati ad emigrare, molto spesso anche in condizioni rischiose per la propria vita pur di raggiungere i paesi dove si aspettano di ottenere l‟affermazione socioeconomica. In questo trasferimento endemico sembra assumere un ruolo cruciale la variabile confronto, che prende piede soprattutto a partire dalle informazioni che giungono dai mass media e dagli immigrati che rientrano nei Paesi d‟origine. Sono momenti durante i quali i loro racconti amplificano l‟orientamento dei potenziali emigranti che si misurano con individui che vivono in contesti molto lontani. La probabilità che una persona metta in atto azioni necessarie a portare a termine il cambiamento desiderato aumenta quanto più c‟è la consapevolezza dell‟esistenza di altri luoghi promettenti dove poter esprimere le proprie potenzialità ed ottenere maggiori guadagni. Tuttavia, non sempre le aspettative degli immigrati vengono attese. Seppure l‟immigrazione porti comunque ad un miglioramento del potere d‟acquisto, gli immigrati trovano quasi esclusivamente l‟inserimento nei segmenti lavorativi di basso livello (pesanti ed umilianti), rifiutati dai cittadini autoctoni. L‟Italia si colloca ad una posizione bassa rispetto ad altri paesi sviluppati dove la mobilità ascendente degli immigrati ha registrato progressi non indifferenti. E‟ proprio la minore disponibilità della forza lavoro interna alla base dell‟istituzione delle quote annuali di immigrati da impiegare nelle fabbriche e nel settore dei servizi. I paesi industrializzati, che sono i principali responsabili del divario economico mondiale, dettano appositamente le leggi per garantire la sopravvivenza di importanti settori produttivi senza considerare minimamente i diritti della persona, dei lavoratori, siano essi immigrati o meno. In particolare, le disposizioni in materia di immigrazione appena emanate dal Parlamento italiano costituiscono la prova lampante di tale violazione dei diritti: l‟ingresso nel territorio nazionale è vincolato dal contratto di lavoro, fatto questo che rende difficile il soggiorno in Italia in mancanza di tale requisito. Accanto al fattore economico, quale principale causa del trasferimento delle persone, si prefigurano anche i motivi dovuti ai conflitti nazionali o fra Stati. Per questi motivi (economici e guerre), si può dire che le migrazioni sono forzate: nel primo caso, programmate, nel secondo, non programmate. La novità emersa nella presente riflessione è data dalla classificazione dei progetti migratori in tre grandi tipologie sotto la terminologia della Triade socio-economica del cambiamento di luogo. Secondo questa mia proposta, i vari progetti che caratterizzano gli spostamenti migratori possono portare ai seguenti cambiamenti: a) mantenimento dello status sociale inalterato, seguito da un miglioramento dalla condizione economica, b) conquista di una posizione sociale più elevata, accompagnata da un maggiore potere d‟acquisto. Tutti questi cambiamenti avvengono durante i soggiorni che possono essere definitivi, lunghi, brevi o brevissimi nel paese di destinazione. Relativamente alle difficoltà che incontrano gli immigrati, si distinguono due momenti: una prima fase che coincide con l‟arrivo che è caratterizzato dal disagio nel reperimento in termini di alloggio, una seconda, in cui l‟immigrato per svariati motivi, affatica ad integrarsi nel tessuto socio-economico. accesso libero, equo e universale ai saperi L’immigrato come risorsa economica e problema sociale. Dati e spunti di riflessione per un dibattito. Un miliardo di persone oggi nel mondo si trovano a vivere da immigrati in una regione diversa da quella di nascita propria o dei propri genitori. Un abitante della terra ogni sei. Un miliardo di persone che in base alle stime più accreditate rientrano per l’80 per cento (800 milioni) nel fenomeno delle migrazioni interne e per il 20 per cento (200 milioni) nel fenomeno delle migrazioni internazionali. Si tratta nel primo caso di immigrati in regioni che fanno parte dello Stato di cui si ha la nazionalità. Nel secondo caso di immigrati in regioni che fanno parte di uno Stato che non è il proprio e nel quale ci si trova quindi da “non national”. Provenire da una migrazione interna o da una migrazione internazionale fa una notevole differenza. Nel senso che in tutte le fasi paradigmatiche della migrazione, dalla decisione di trasferirsi altrove alla fruizione delle opportunità di integrazione nella regione di insediamento, l‟essere straniero, il sentirsi tale, il venir percepito come tale, il non poter mai godere in pienezza dei diritti di cittadinanza, comporta tutta una serie di problemi in più rispetto a quelli già pesanti del migrante interno. Basti pensare a cosa vuol dire ottenere e rinnovare il permesso di soggiorno per sé e per i propri familiari, veder riconosciuti i propri titoli di studio, riuscire a capire e a farsi capire finché non ci si è impadroniti bene della lingua, far fronte alle discriminazioni originate dal pregiudizio xenofobo nella ricerca del lavoro e di una dignitosa sistemazione abitativa, il sentirsi spesso considerati nella migliore delle ipotesi come forza lavoro necessaria ma di cui molti autoctoni vorrebbero quanto prima fare a meno. Si stima che il trasferimento dovuto a migrazione internazionale – quello che determina poi lo status di immigrato straniero indipendentemente dalla regolarità del soggiorno - riguardi oggi 90 milioni circa di persone di fatto residenti in Paesi a sviluppo avanzato (30 in Europa occidentale, 50 in Usa e Canada, 10 in Australia, Giappone e altri Paesi Ocse) e 110 milioni circa di persone di fatto residenti in Paesi ad economia arretrata, in crisi strutturale o in via di sviluppo (30 in Paesi dell‟Europa dell‟Est, 50 in Asia, 20 in Africa, 10 in America latina). Sono cifre, queste, che sollecitano alcune precisazioni sulla tipologia stessa delle migrazioni. Tipologia non sempre all‟attenzione di chi se ne dovrebbe occupare sotto il profilo del governo dei flussi e delle politiche dell‟integrazione. Da una parte gli immigrati stranieri in un paese possono essere presenti per necessità di sopravvivenza e/o per opportunità di miglioramento delle proprie condizioni di vita. E dall‟altra la loro accettazione può essere data, volentieri o malvolentieri, da ineludibili obblighi di asilo e/o da ancor più ineludibili bisogni di manodopera. Assai raramente da una generosa cultura dell‟accoglienza e ancor meno da una illuminata cultura del diritto alla libera circolazione delle persone sul pianeta e alla libera scelta del Paese in cui le persone desiderino vivere da cittadini alla pari. E‟ facilmente comprensibile, anche se la cosa appare ripugnante, come le legislazioni sull‟immigrazione straniera dei Paesi forti (quelli a sviluppo avanzato) risultino oggettivamente molto più funzionali a dare risposte in relazione agli “ineludibili bisogni di manodopera” piuttosto che agli “ineludibili obblighi di asilo”, lasciando in gran parte le risposte a questi ultimi, paradossalmente proprio in quanto estremamente onerose, ai Paesi deboli (quelli ad economia arretrata, in crisi strutturale o faticosamente in via di sviluppo). In altre parole siamo di fronte ad una governance cinica delle migrazioni internazionali che, al di là della buona o mala fede di quanti ne sono politicamente responsabili, seleziona e indirizza i flussi in maniera tale che il bilancio costi-benefici nei Paesi forti risulta alla fine con un accesso libero, equo e universale ai saperi peso dei costi assai inferiore a quello dei benefici e nei Paesi deboli, al contrario, assai superiore. Ed è altrettanto facilmente comprensibile come vivere da immigrati stranieri oggi nel mondo non sia la stessa cosa là dove si è realmente un costo o un beneficio, un problema o una risorsa. Tutto ciò poi in combinazione con l‟essere ritenuti tali in corrispondenza o meno con la realtà. Semplificando e schematizzando al massimo, si danno tre situazioni-tipo estreme. La prima (problema-problema) dove l‟immigrato straniero è in generale un problema e viene percepito nell‟opinione pubblica come problema. La seconda (risorsa-problema) dove l‟immigrato straniero è in generale una risorsa, ma viene percepito nell‟opinione pubblica come un problema. La terza (risorsa-risorsa) dove l‟immigrato straniero è in generale una risorsa e viene nell‟opinione pubblica percepito come risorsa. Il milione di hutu rwandesi nei campi profughi del Congo o i Rom rumeni in Italia possono rappresentare la prima situazione tipo (problema nella realtà-problema nella percezione). I ghanesi o i marocchini oggi nel Veneto la seconda (risorsa nella realtà-problema nella percezione). Gli italiani a Toronto la terza (risorsa nella realtà-risorsa nella percezione). Ma quasi mai le situazioni-tipo si riscontrano in forma estrema ed esclusiva. Molto spesso si stemperano, si modificano nel tempo e convivono tra loro con riferimento a gruppi diversi di stranieri. I turchi in Germania sono da sempre e da sempre vengono percepiti allo stesso tempo come problema e come risorsa a seconda della congiuntura economica, vedendo accentuato in momenti diversi ora l‟uno ora l‟altro degli attributi positivi o negativi. Questo vale anche per gli immigrati di altre nazionalità residenti a diverso titolo nei vari Paesi del mondo, in particolare quelli a sviluppo avanzato. Restringendo l‟attenzione all‟Unione europea, non c‟è dubbio che nel suo insieme - anche per quanto riguarda in particolare l‟Italia, il Veneto e Verona – l’immigrazione rappresenta oggi una necessità e allo stesso tempo una grande risorsa: nella produzione di beni e servizi molti settori entrerebbero in crisi se non ci fosse la disponibilità di manodopera straniera; le economie locali non avrebbero nello stesso consumo di beni e servizi da parte degli immigrati una fonte in più di profitti per le imprese; le casse dello Stato non introiterebbero contributi previdenziali e versamenti fiscali senza i quali il sistema pensionistico e il sistema dei servizi sociali subirebbero ulteriori ridimensionamenti; centinaia di migliaia di persone anziane e non autosufficienti si troverebbero prive di assistenza; nella cooperazione internazionale non ci sarebbe quell‟aiuto decisivo allo sviluppo che è costituito dalle rimesse degli emigrati. E tutto questo senza aver avuto il paese di immigrazione quelle spese ingenti di “investimento nella riproduzione della forza lavoro” che sono normalmente costituite dalle politiche di welfare per i cittadini da quando nascono a quando raggiungono la maggiore età, perché queste spese le ha avute il paese di emigrazione. Eppure l’immigrazione è continuamente percepita da vasti settori dell’opinione pubblica prevalentemente in termini di disagio, di male da combattere, di disgrazia da evitare, quasi la presenza degli immigrati dovesse comportare in maniera deterministica aumento della criminalità, diffusione di malattie infettive, sottrazione di posti di lavoro, degrado dell‟ambiente, conflitti culturali, perdita di identità. Non c‟è paese a sviluppo avanzato e a benessere diffuso dell‟Europa occidentale che non abbia i suoi movimenti xenofobi continuamente alimentati dall‟evidenziazione e dall‟enfatizzazione strumentale di quanto l‟immigrazione sicuramente porta con sé anche di problematico, ma certo in misura assai ridotta rispetto alle rappresentazioni correnti indotte dai media. Vivere da immigrati stranieri in Europa oggi significa sentirsi addosso questa contraddizione che è data dall‟essere consapevoli del proprio ruolo positivo di nuovi cittadini che producono benessere per tutti (oltre che per sé, per la propria famiglia qui e nel paese di origine) e accesso libero, equo e universale ai saperi dall‟essere allo stesso tempo frustrati dalle rappresentazioni negative che dell‟immigrazione ha tanta gente con cui si convive ogni giorno. Se ci domandiamo perché questo avvenga, perché nell‟opinione pubblica prevalgano le rappresentazioni negative, si possono dare varie spiegazioni. C‟entrano sicuramente ignoranza e sprovvedutezza di giornalisti e politici che fungono da opinion leaders nei media e nei partiti per quanto riguarda il trattamento delle tematiche relative ai fenomeni migratori. Ma c‟entrano anche il cinismo e la mancanza di deontologia professionale di non pochi di loro più interessati al facile consenso demagogico che a quello difficile basato sulla fatica dell‟argomentazione critica. Tanti problemi di buona integrazione funzionale alla convivenza civile gratificante per tutti (ossia connotata da rispetto della legalità, lavoro regolare, abitare dignitoso, welfare fruibile alla pari) gli immigrati stranieri li hanno e li pongono per lo più quando si trovano in contesti di accettazione della loro necessaria presenza come lavoratori (da impiegare possibilmente in nero), ma non di riconoscimento del loro diritto ad essere trattati da cittadini come gli altri con pari doveri e pari opportunità. L’essere trattati da non-cittadini - e in molti casi, quando non si è in regola con il permesso di soggiorno, addirittura da non-persone - non favorisce certo la cultura dell’appartenenza, del sentirsi cioè parte di una società che mira all‟inclusione piuttosto che all‟esclusione, ossia di una società per la quale valga la pena impegnare il proprio futuro e quello dei propri figli e delle generazioni a seguire. Nonostante ciò, molte ricerche portano ad affermare che la stragrande maggioranza degli immigrati nei vari paesi Ue (inclusa l’Italia) sono di fatto, con intelligenza e determinazione, dentro processi positivi di integrazione. Purtroppo lo sono, almeno per quanto riguarda la prima generazione, in maniera alquanto precaria. Ossia a rischio di vanificare da un momento all‟altro le conquiste fatte. Perché troppe cose dipendono da variabili di sistema rispetto alle quali gli immigrati possono poco o nulla. Si tratta di politiche economiche, sociali e culturali che soltanto i governi nazionali e locali dei paesi che li hanno richiesti, attratti o accolti, possono fare. E questo, a seconda degli interessi del mercato del lavoro e delle ricadute sul consenso degli elettori, in funzione degli immigrati come lavoratori ospiti o come concittadini. Max Frisch direbbe: “come braccia o come uomini”. L’immigrazione in cifre nei vari Paesi dell’Unione europea (dati tratti da: Caritas, Dossier statistico immigrazione 2003) Intorno ai 20 milioni sono le persone che risiedono da cittadini stranieri nei 15 paesi Ue, 6 milioni con lo status di “comunitari” (ad es. i circa 600 mila italiani in Germania) e 14 milioni con lo status di “extracomunitari” (ad es. i circa 150 mila albanesi in Italia). La maggioranza relativa si trova in Germania, che conta quasi 7.300.000 stranieri, il 37,3 per cento del totale (19.584.000 al 31 dicembre 2001); la Francia ne ospita il 16,7 per cento e il Regno Unito il 12,5 per cento. Nel complesso i paesi di più antica esperienza in fatto di immigrazione (ossia, oltre a quelli già citati, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo) accolgono il 75,1 per cento di tutti gli stranieri presenti nell‟Ue, mentre i paesi mediterranei (Spagna, Italia e Grecia) raggiungono insieme appena il 15 per cento. D‟altro canto nell‟ultimo decennio in quelli che fino agli anni ‟80 erano ancora considerati paesi di emigrazione, la presenza straniera è cresciuta in modo consistente. Ad esempio in Spagna essa è più che triplicata, passando dalle 278.800 presenze del 1990 alle 895.700 del 2000. Analogamente in Portogallo si è passati da 107.800 stranieri agli attuali 207.600 e in Italia da 780.000 a 2.147.000 (al 31 ottobre 2003). Allo stesso modo anche l‟incidenza degli stranieri sulla popolazione accesso libero, equo e universale ai saperi complessiva è molto diversa da caso a caso: si va dal valore record del 36,9 per cento in Lussemburgo , all‟8-9 per cento di Austria, Belgio e Germania, mentre nei paesi mediterranei si è sotto il 4 per cento. accesso libero, equo e universale ai saperi PICCOLI RIFUGIATI, BAMBINI COME NOI CHI E’ IL RIFUGIATO? “Una notte mamma e papà mi svegliarono improvvisamente dicendo che bisognava scappare, che stavano arrivando i soldati e che non c‟era tempo per prendere nulla, né i vestiti, né i miei giocattoli. Ci incamminammo lungo il sentiero che portava al bosco per non farci trovare dai soldati, ma io avevo tanta paura. Mia sorella piangeva mentre mamma e papà ci dicevano che sarebbe andato tutto bene, ma io non capivo cosa stava succedendo”. Ogni giorno 5mila bambini sono costretti a scappare dalla guerra e dalla violenza. Senza saperlo diventano rifugiati, proprio come è capitato una notte al piccolo Nico di 9 anni che in queste pagine ci racconta la sua esperienza. Ma chi è il rifugiato? E‟ una persona esattamente come noi che ha una vita normale fin quando, un giorno, è costretta a fuggire dal proprio paese per mettersi in salvo. Essere un rifugiato è molto più che essere uno straniero o un migrante. Significa vivere in esilio, non poter tornare liberamente nel proprio paese e dipendere dagli altri per qualsiasi cosa. E non è finita qui. Una volta lasciata la propria casa, i rifugiati diventano come tante stelle che vagano nel cielo senza una meta. Spesso sono costretti afuggire rapidamente, senza portare nient‟altro che i vestiti che indossano e senza sapere dove andare. Giunti in un paese straniero, debbono ricominciare da zero, imparare una nuova lingua e nuove abitudini. Non èuna vita facile PERCHE’IL RIFUGIATO FUGGE DAL PROPRIO PAESE? “Nessuno vuole scappare via dalla sua casa e diventare un rifugiato. Neanche io volevo andarmene, ma a volte non si ha scelta. Io vivevo in un paese bellissimo e dopo la scuola andavo sempre a giocare con i miei amici al parco vicino casa. Mi ricordo che c‟era un lago dove ci facevamo il bagno d‟estate e alcune volte con i miei genitori andavamo per un picnic. Mi manca tanto la mia casa. Io sono scappato perché nel mio paese c‟è la guerra e i soldati ci volevano uccidere perché vogliono rimanere con quelli come loro”. In alcuni paesi, una persona può essere condannata a morte solo perché ha idee politiche diverse dagli altri, perché pratica la sua religione, perché ha un colore di pelle diverso o perché appartiene ad un determinato gruppo sociale. Non è assurdo? Ci sono paesi dove, addirittura, chi comanda ordina ai militari di compiere la pulizia etnica, cioè uccidere o cacciare via tutte le persone che hanno un‟etnia diversa dalla loro. Sempre più spesso le guerre si fanno accesso libero, equo e universale ai saperi contro la gente indifesa. Nella maggior parte dei casi sono sempre i più deboli, specialmente i bambini, a pagarne il prezzo più alto, perché si pensa che uccidere un bambino oggi è uccidere il nemico di domani. CHE COS’E’ L’ACNUR? “Durante la fuga per le montagne vidi delle pecore e pensai: anche le pecore hanno più fortuna di noi. La montagna è la loro casa. Noi, invece, non sappiamo dove andare. Ma quando abbiamo attraversato la frontiera, delle persone ci sono venute incontro, ci hanno dato da mangiare, delle coperte e nuovi vestiti. Poi ci hanno portato nella nostra nuova casa. Si chiama campo profughi e da allora viviamo nella tenda numero 52”. Chi erano quelle persone? Erano gli operatori dell‟Acnur, l‟Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati. Nel 1950, quando fu creato dall‟Onu, l‟Acnur doveva fornire aiuto a circa 1 milione di rifugiati scappati durante la seconda guerra mondiale. Oggi, 50 anni dopo la sua nascita, l‟Acnur si occupa di oltre 21 milioni di persone sradicate dalla loro terra. E‟ esattamente questo il ruolo dell‟Acnur, proteggere, aiutare ed assistere chi è stato costretto ad abbandonare la propria casa e il proprio paese. La sede dell‟Acnur è a Ginevra, e i suoi uffici si trovano in 120 nazioni, tra cui l‟Italia. Più di 5.000 operatori dell‟Acnur lavorano ogni giorno per aiutare il popolo dei rifugiati rischiando, in alcuni casi, la propria vita. COME SI COSTRUISCE UN CAMPO PROFUGHI? “All‟inizio il campo profughi mi sembrava divertente perché somigliava ad un enorme campeggio. Ma ormai è più di 6 mesi che vivo qui e mi mancano tanto la mia casa e i miei amici. Vorrei andare in una scuola vera e al parco giochi; invece tutte le mattine devo andare a prendere l‟acqua al pozzo e devo fare la fila per mangiare. Non è facile. Però, so di essere molto fortunato perché, anche se la zuppa di piselli non mi piace tanto, mangio due volte al giorno e ho tanti nuovi amici. Comunque, secondo me, un bambino non dovrebbe crescere in un campo profughi”. Se i rifugiati riescono a superare i pericoli e le difficoltà della fuga sono, in genere, accolti nei paesi più vicini e vengono alloggiati accesso libero, equo e universale ai saperi in scuole, palestre e alberghi. In alcuni casi però, i rifugiati arrivano e si fermano in luoghi desolati, dove non c‟è niente e l‟unica possibilità è costruire il più rapidamente possibile dei campi profughi. Innanzitutto viene scelta un‟area adatta dove poterlo costruire, in un secondo tempo vengono allestite delle tende dove i rifugiati possono dormire. Vengono costruiti i servizi igienici, il sistema fognario, i punti di distribuzione per la fornitura di cibo e acqua. Altre tende sono utilizzate come cucine, ospedali e scuole. Anche se si preferiscono accoglienze di piccole dimensioni, a volte un campo profughi può ospitare anche 300mila persone, una vera e propria città come Bari o Verona. DI CHI SI OCCUPA L’ACNUR? “Quando finirà la guerra, tornerò nel mio paese. Però, molti dicono che altre persone vivono nella mia casa e quindi dovremo costruirne un‟altra. Anche la mia scuola è stata distrutta. Chi ci darà tutti questi soldi? Chi ci aiuterà?”. L‟Acnur, oltre ad occuparsi di rifugiati, assiste anche i rimpatriati, cioè coloro che ritornano dall‟esilio e devono ricominciare la loro vita da zero. Poi, si occupa dei richiedenti asilo. Sono persone che hanno lasciato il loro paese e chiedono asilo in un altro. Concedere asilo significa che un paese sicuro offre protezione a qualcuno che è in pericolo nel proprio. Infine ci sono gli sfollati che, come i rifugiati, sono stati costretti ad abbandonare la propria casa – a causa di persecuzioni, guerre o altre minacce – ma, a differenza dei rifugiati, non hanno attraversato la frontiera. Per esempio, quando la famiglia di Nico è scappata dalla propria casa, si è nascosta per due mesi nel bosco, quindi erano sfollati all‟interno del loro Stato. In qualsiasi modo si chiamino, rifugiati, richiedenti asilo, rimpatriati o sfollati, tutti hanno una cosa in comune: la loro vita è stata spezzata, i loro sogni spazzati via e li aspetta un futuro incerto e pieno di problemi da affrontare. accesso libero, equo e universale ai saperi CHI SONO I ACCOMPAGNATI? BAMBINI NON “Prima di diventare rifugiato mi piaceva ricevere i regali o giocare a pallone con i miei compagni di scuola. Avevo tutto quello che desideravo mentre ora non ho più niente. Ma la cosa più importante è che sono insieme alla mia famiglia. Nel campo ci sono tanti bambini soli perché hanno perduto la mamma e il papà”. E‟ già terribile per un bambino fuggire in un altro paese, dopo aver abbandonato bruscamente, sotto i bombardamenti o il fuoco delle pallottole, tutto quello che dava un significato alla sua vita, che lo rassicurava e gli ispirava fiducia nell‟avvenire. Se, per di più, si ritrova solo in un ambiente sconosciuto, senza i genitori, per lui diventa insopportabile. Ma chi sono i bambini non accompagnati? Sono bambini che giungono nel paese d‟asilo senza i genitori o un altro adulto responsabile per lui. In genere, i bambini non accompagnati rappresentano durante un‟emergenza tra il 2 e il 5 per cento della popolazione di rifugiati. Per questo, l‟Acnur e altre agenzie umanitarie elaborano progetti specifici affinché i bambini siano, il prima possibile, riuniti alle loro famiglie. QUALI SOLUZIONI? “Da quando sono un rifugiato spero sempre di poter tornare a casa e ritrovare il mio quartiere, la mia scuola, i miei amici e soprattutto mia nonna. Quando nel mio paese finirà la guerra e tornerà ad essere sicuro, l‟Acnur organizzerà il rimpatrio e, per me e la mia famiglia, questa è la soluzione migliore”. A pensarla così sono tutti i rifugiati, ovunque nel mondo. Ma a volte rimpatriare non è possibile, perché la guerra continua o perché ci sono ancora molti pericoli. I rifugiati allora vengono integrati nel paese d’asilo. L‟Acnur, il governo e le persone di questo paese aiuteranno i rifugiati a trovare un alloggio più stabile, un lavoro e una scuola per i bambini. Ma spesso gli stati non possono accogliere tanti rifugiati, a volte perché sono troppo poveri, oppure perché temono che i rifugiati possano creare dei disordini. Può anche accadere che il paese d‟asilo che ospita il rifugiato non è più accesso libero, equo e universale ai saperi considerato paese sicuro. Allora, in questi casi, bisogna trovare una terza soluzione, ovvero un nuovo paese dove trasferire i rifugiati. E‟ per questo motivo, per trovare una soluzione duratura, che si fanno i reinsediamenti di rifugiati in altri paesi. COME SENTIRSI A CASA? “Nel campo dove vivo ho tanti nuovi mici, ma quando esco e vado nel villaggio vicino, gli altri bambini ridono e dicono “Guardate, arriva il rifugiato”. Nessuno di loro è gentile con me e quando io chiedo di giocare, loro dicono no oppure vanno più lontano. Questo mi fa tanta rabbia, ma la cosa che mi fa soffrire di più è che la mia mamma e il mio papà non riescono a trovare un lavoro. Per questa ragione la mamma piange spesso e io cerco di consolarla, ma è inutile. Lei non sa parlare la lingua di questo paese e sarà molto difficile che qualcuno la aiuti”. Nico e i suoi genitori hanno gli stessi problemi di milioni di rifugiati che tentano di integrarsi nel paese d‟asilo. Immaginate cosa significa arrivare in un paese straniero senza conoscerne la lingua, le usanze, il cibo ed essere evitati o addirittura respinti dalla gente del posto! Aiutare i rifugiati a sentirsi a casa è uno degli obiettivi dell‟Acnur. A questo scopo, l‟Acnur incoraggia i governi a facilitare l‟integrazione dei rifugiati nel nuovo contesto sociale, attraverso corsi di lingue e di formazione. Allo stesso tempo, l‟Acnur invita tutti i bambini a non emarginare questi nuovi amici e a cercare di conoscerli meglio. Nessuno sceglie di fuggire dalle proprie case, di perdere i propri cari e ciò che possiede. Sono cose che possono succedere a tutti noi, indipendentemente dalla nostra volontà. Quindi, aiutiamo i bambini rifugiati a sentirsi più a casa! accesso libero, equo e universale ai saperi COME VIVONO I BAMBINI RIFUGIATI? Ma ora ascoltate quello che dicono i bambini: “Il mio nome è Jacob e ho 10 anni. Nel mio villaggio, nel Sudan meridionale, si combatteva dappertutto. Non c‟era la scuola e io da tempo sognavo di scappare via, in un posto dove non ci fosse la guerra, dove ci fosse da mangiare e dove potessi andare di nuovo a scuola. Così sono partito, senza dirlo a nessuno. Il primo giorno non ho mangiato, ho corso sempre. La notte avevo paura degli animali, così mi sono arrampicato su un albero per dormire, ma avevo tanta paura. Lungo la strada ho incontrato molta gente che scappava come me, alcuni sono morti di fame e stanchezza. Finalmente dopo una decina di giorni abbiamo raggiunto il campo profughi, in Etiopia. Abbiamo mangiato e il rumore degli aerei non mi spaventava più perché sapevo che portavano cibo, non bombe. Sono fortunato, ma mi manca tanto la mia famiglia. Credo che, il giorno che sono scappato, hanno pensato che non gli volevo più bene. Ma non è vero: vorrei tanto tornare a casa”. “Ciao, sono Mimosa, ho 8 anni e vengo dal Kosovo. Ho due fratelli, Rajmonda e Luan. Siamo scappati perché i serbi non volevano più vivere con gli albanesi e ho visto uccidere molte persone. Dato che non avevamo più niente, io e la mia famiglia siamo andati a casa di mio nonno, ma i soldati sono venuti anche là. Erano sporchi e brutti. Così, un giorno, abbiamo preso il trattore e con altri albanesi siamo arrivati in Albania dove ci hanno ospitato nel campo profughi di Kukes. Lì abbiamo mangiato e siamo rimasti per due settimane. Ma siccome continuava ad arrivare tanta gente dal Kosovo, un giorno siamo partiti e siamo andati più lontano, a Valona. Da lì siamo arrivati in Italia con un motoscafo pieno di gente, ho avuto tanta paura soprattutto quando ci hanno costretto a sbarcare nel mare, perché io non sapevo nuotare. Per fortuna dei signori italiani ci hanno salvato. Ora vivo in Italia, ma ci hanno detto che tra poco tempo potremo tornare in Kosovo per ricostruire la nostra casa”. Nel mondo i bambini come Jacob e Mimosa sono moltissimi, purtroppo non tutti sono fortunati come loro. Si calcola che negli ultimi 10 anni, circa 9 milioni di bambini sono stati uccisi, mutilati, feriti, resi orfani o separati dai genitori. Altri - circa 300mila – vengono sin da piccoli arruolati nell‟esercito e mandati a combattere. Proteggere e assistere i bambini rifugiati è una delle priorità dell‟Acnur. I bambini, infatti, non sono soltanto individui particolarmente bisognosi di assistenza, ma accesso libero, equo e universale ai saperi costituiscono il futuro di popoli e nazioni. E un bambino derubato della sua infanzia, una volta cresciuto, può dar vita a nuove violenze. Di qui l‟impegno dell‟Acnur di dedicare un‟attenzione particolare al recupero dei bambini rifugiati traumatizzati e a curarne le cicatrici più nascoste. COME AIUTARE? • Diventare amici dei bambini rifugiati che frequentano la vostra scuola, cercare di capire la loro situazione e insegnare loro la lingua italiana. • Preparare una mostra a scuola per presentare i vari aspetti del problema mondiale dei rifugiati. • Invitare un bambino rifugiato nella propria scuola per ascoltare la sua testimonianza. Scoprendo quanto ha sofferto, per arrivare fin dove si trova, capirete meglio cosa significa “essere un rifugiato”. • Con l‟aiuto di un adulto, scrivete una lettera ad un politico o ad un ministro, chiedendo loro di sostenere i rifugiati in generale o di risolvere situazioni particolari. • Con l‟aiuto di un adulto, organizzate una raccolta fondi nella vostra scuola a sostegno dei bambini rifugiati. In questo modo i piccoli rifugiati potranno avere il materiale per andare a scuola, nuovi vestiti e cure mediche. accesso libero, equo e universale ai saperi GLOSSARIO Rifugiato: il rifugiato è una persona che fugge dal proprio paese perché teme di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, opinione politica o perché appartiene a un particolare gruppo sociale. Rifugiato è anche chi fugge dalla guerra e dai conflitti interni. Un rifugiato non può tornare nel suo paese o ha paura di farlo. Migrante: persona che lascia il proprio paese per vivere all‟estero, spesso in cerca di una vita migliore per sé e per i propri figli. A differenza dei rifugiati, possono tornare a casa quando lo desiderano perché, anche se a volte sono poverissimi, non rischiano la vita. Esilio: allontanamento dalla propria patria che può durare per un breve periodo o per sempre. Pulizia etnica: In molti paesi convivono etnie diverse. La pulizia etnica è il tentativo di eliminare da un certo territorio tutti i membri delle altre etnie, al fine di ottenere una popolazione etnicamente omogenea. La pulizia etnica si effettua attraverso discriminazione e violenza. Etnia: complesso di persone che si distingue da altre per caratteristiche fisiche, linguistiche e culturali. Onu: Organizzazione delle Nazioni Unite, nasce nel 1945, subito dopo la seconda guerra mondiale. E‟ composta da 188 paesi, tra cui l‟Italia. Questi paesi lavorano insieme per aiutare i popoli a vivere in pace, incoraggiando i governi a rispettare i diritti e le libertà di ogni persona. Rimpatriati: i rifugiati che sono tornati nel loro paese. Richiedenti asilo: sono le persone che dopo essere fuggite dal loro paese chiedono protezione e assistenza in un paese sicuro. Il richiedente asilo ha diritto a non essere rimandato in un paese dove la sua vita o la sua libertà potrebbero essere in pericolo. Sfollati: sono persone costrette a fuggire dalla loro casa a causa di persecuzioni, guerre o altri pericoli. A differenza del rifugiato, lo sfollato resta all‟interno del suo paese. Rimpatrio: si ha quando il rifugiato, di sua spontanea volontà, ritorna nel suo paese di origine. L‟Acnur organizza i rimpatri fornendo l‟assistenza per il trasporto e beni di prima necessità. Paese d’asilo: paese o nazione che ospita e protegge un rifugiato riconoscendogli una serie di diritti. Reinsediamento: quando il rimpatrio non è possibile e al rifugiato non è garantita un‟adeguata protezione nel paese d‟asilo, l‟unica soluzione è quella di trasferirlo in un paese terzo, ovvero reinsediarlo in un paese dove gli viene garantita protezione e assistenza. Integrazione: può essere definita come il processo attraverso il quale un rifugiato è inserito nel contesto sociale ed economico del nuovo paese in cui si trova. L‟integrazione più completa è quando il rifugiato diviene cittadino a tutti gli effetti del paese in cui si trova. accesso libero, equo e universale ai saperi