Corso su immigrazione

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Corso su immigrazione
L’immigrazione in Italia: risorsa o minaccia?
accesso libero, equo e universale ai saperi
L’immigrazione in Italia
1) LA FOTOGRAFIA DEL FENOMENO
2) IMMIGRAZIONE ED ECONOMIA
3) IMMIGRAZIONE E CRIMINALITÀ
La fotografia del fenomeno
Quanti sono gli immigrati in Italia?
Attualmente gli immigrati regolari sono 3.891.295 che equivale al 6,5%della popolazione
nazionale
Ci sono anche circa 650.000 immigrati irregolari pari all‟1% della popolazione
Sono tanti o pochi? (1)
Sono tanti rispetto a quanto eravamo abituati
Fino alla fine degli anni ‟80 c‟erano più italiani che andavano all‟estero che stranieri che
venivano in Italia
Ma negli ultimi 20 anni la popolazione straniera è aumentata molto:
Sono tanti
pochi? (2)
o
accesso libero, equo e universale ai saperi
Sono pochi se paragoniamo l‟esperienza italiana a quella degli altri grandi paesi occidentali e
alla media europea (EU15):
accesso libero, equo e universale ai saperi
Da dove vengono?
Quasi un terzo degli stranieri (28%) proviene dagli stati dell‟Unione Europea (colorati in blu ed
azzurro) e quindi possono entrare liberamente in Italia.
I paesi da cui riceviamo più immigrati sono Romania, Albania, e Marocco.
Invece gli stranieri che vengono dall‟Africa Sub-Sahariana sono solo una parte minoritaria
AFRICA
accesso libero, equo e universale ai saperi
Come entrano i clandestini in Italia?
Circa il 73% dei clandestini entra in Italia con un normale visto turistico, ma poi rimane anche
dopo che il visto è scaduto. Solo il 12% entra via mare con i barconi dall‟Africa. Questo
significa che i respingimenti di massa della scorsa estate hanno un alto impatto politico e
mediatico, ma servono a poco per contrastare l‟ingresso di clandestini. Inoltre la maggior parte
degli immigrati che arrivano con i barconi provengono da paesi in guerra ed in base alle
convenzioni internazionali avrebbero diritto di asilo
accesso libero, equo e universale ai saperi
Come sono?
Istruzione
Come possiamo vedere italiani ed immigrati hanno un tasso di istruzione molto simile
accesso libero, equo e universale ai saperi
Come sono?
L‟aspetto demografico
ISTAT
Da queste cosiddette piramidi demografiche possiamo vedere come gli immigrati siano
piùgiovani degli italianiOltre l‟80% degli stranieri ha meno di 45 anni (a fronte del 50% degli
italiani)ed il 20% degli stranieri ha meno di 15 anni (13% per gli italiani)Gli immigrati hanno
anche maggiori tassi di fecondità. Una donna straniera ha in media 2,12 figli mentre una donna
italiana 1,26
Come saremo?
Il gruppo dove la presenza straniera èpiùconsistente èquello dei bambini e dei ragazzi, dove la
presenza di stranieri èraddoppiata dal 2003 ad oggi. Infatti èdi origine straniera:
•1 neonato su 10
•il 7% dei minorenni
•il 10% dei bambini con meno di 6 anni
Gli studenti stranieri sono circa il 7% nelle scuole elementari e medie. Ci sono poi dei picchi in
alcune zone del nord, a Milano per esempio il 66% dei nuovi iscritti alle medie èdi origine
straniera.Secondo le proiezioni ISMU infatti nel 2050 saràdi origine straniera 1 italiano su 3
della popolazione con meno di 24 anni!
Come saremo?
La cosa importante da tenere a mente è che la maggior parte di questi ragazzi nasceràin Italia e
sarà quindi italiano a tutti gli effetti una volta raggiunta la maggiore età. Essi saranno una parte
importante degli italiani del futuro e I bambini figli di immigrati contribuiranno all‟Italia del
domani. La loro integrazione è una delle sfide politiche più importanti del nostro Paese e si
gioca proprio sugli immigrati di seconda generazione.
La scuola avrà un ruolo importantissimo in questo obiettivo di integrazione.
accesso libero, equo e universale ai saperi
IMMIGRATI ED ECONOMIA:
A) Il mercato del lavoro
B) Lo stato sociale
IMMIGRATI E MERCATO DEL LAVORO (1)
Italiani Stranieri Come possiamo vedere gli stranieri hanno dei tassi di occupazione molto
alti(superiori a quelli degli italiani). Questo ci fa capire che chi immigra in Italia lo fa
principalmente per lavorare
MA IN SOSTANZA CHE EFFETTI HA
L’IMMIGRAZIONE
SUL
LAVORO
DEGLI
ITALIANI? (1)
Le domande che più spesso ricorrono quando si parla di immigrati e lavoro sono:
1.Ma gli immigrati “rubano”il lavoro agli italiani?
2.Ma la presenza degli immigrati obbligano gli italiani ad accettare salari più bassi?
E‟complicato ottenere evidenza certa su questi effetti, tuttavia :
• Uno studio della Banca d‟Italia infatti osserva che “la crescita della presenza straniera non si è
riflessa in minori opportunità occupazionali per gli italiani”
no effetti negativi sull‟occupazione!
accesso libero, equo e universale ai saperi
• Lo studio della Banca d‟Italia dice addirittura che“l‟immigrazione ha effetti positivi per gli
italiani più istruiti e per le donne dato il livello di complementarietà tra lavoratori italiani e
stranieri”
effetti positivi su alcune fasce!
• Uno studio dell‟INPS mostra che “nelle province con maggiore incidenza di lavoratori
stranieri i salari degli italiani hanno lo stesso trend delle zone con minore immigrazione”
no effetti negativi sui salari!
Questo che cosa significa?
MA IN SOSTANZA CHE EFFETTI HA
L’IMMIGRAZIONE
SUL
LAVORO
DEGLI
ITALIANI? (2)
Per capire meglio prendiamo ad esempio la ditta “G&G”che ha bisogno per produrre di:


10 operai non specializzati
5 ingeneri specializzati
L‟arrivo di immigrati permette alle imprese di assumere nuovi operai non specializzati; ad
esempio ora la ditta “G&G”assumerà4 operai.
Per mantenere la stessa proporzione di lavoratori la ditta ha bisogno ora di 2 ingegneri in piùe
quindi ne assumerà di nuovi
Questo è il concetto di complementarità che fa si che l‟immigrazione abbia un effetto positivo
sull‟occupazione dei lavoratori più istruiti.
MA IN SOSTANZA CHE EFFETTI HA
L’IMMIGRAZIONE
SUL
LAVORO
DEGLI
ITALIANI? (3)
La Banca d‟Italia sottolinea anche l‟effetto positivo che l‟immigrazione ha sull‟occupazione
delle donne, cerchiamo di capire come funziona:
Gli immigrati, soprattutto l‟immigrazione femminile, va a soddisfare una domanda di servizi
alla persona che non sono offerti in maniera adeguata dallo stato come la cura agli anziani.
Si prenda ad esempio Laura, una mamma laureata, con un figlio di 4 anni ed un padre ammalato
bisognoso di cure. Laura ha la necessità di accudire il padre e sarebbe costretta a rimanere a
casa. La possibilità di assumere una badante le permette di potere tornare a lavorare.
Questo è un esempio di come l‟immigrazione fa aumentare il numero di donne che lavorano in
Italia.
accesso libero, equo e universale ai saperi
MA IN SOSTANZA CHE EFFETTI HA
L’IMMIGRAZIONE
SUL
LAVORO
DEGLI
ITALIANI? (4)
Un timore diffuso èche i nuovi arrivati sostituiscano i lavoratori italiani poco qualificati oppure
li obblighino a guadagnare un salario piùbasso.
A riguardo, studi effettuati per altri paesi dimostrano chetra i lavoratori poco qualificati gli
effetti negativi, se presenti, sono di piccola misura. Questo può valere anche per l‟Italia.
Infatti:
1)In alcuni settori ed in particolari aree del Paese c‟è un effettiva domanda di manodopera poco
qualificata da parte delle imprese che non è pienamente soddisfatta dall‟offerta di lavoro degli
italiani.
2)I lavoratori italiani e stranieri, anche a parità di qualifica, spesso non sono considerati
sostituibili dall‟impresa. I nuovi immigrati generalmente competono direttamente con i vecchi
immigrati piuttosto che con gli italiani.
Tuttavia la forte diffusione del mercato nero nel nostro Paese potrebbe rendere la competizione
tra lavoratori italiani ed immigrati più accesa e può portare ad una riduzione dell‟occupazione
degli italiani e ad una generale riduzione dei salari
MA IN SOSTANZA CHE EFFETTI HA
L’IMMIGRAZIONE
SUL
LAVORO
ITALIANI? (5)
DEGLI
Per fare un bilancio
• Gli immigrati hanno un effetto positivo in aggregato sul mercato del lavoro: hanno alti tassi
d‟occupazione, e sono il maggiore bacino di manodopera per molte imprese italiane.
Di fatto, gli immigrati, pur essendo il 6,5% della popolazione, generano ben il 10% del PIL
italiano (ISMU, 2009).
• Gli effetti sui salari e sull‟occupazione però non sono equamente distribuiti tra lavoratori,
c‟èchi ci guadagna (i lavoratori più qualificati e le donne) e chi ci perde, anche se poco (i
lavoratori poco qualificati).
• Portare gli immigrati fuori dalla zona d‟ombra del lavoro nero è un bene sia per gli italiani
perché renderebbe la competizione tra diversi lavoratori più corretta, che per gli immigrati stessi
che godrebbero di maggiori diritti e sicurezza sul lavoro.
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IMMIGRATI E STATO SOCIALE
IMMIGRATI E STATO SOCIALE (1):
Ma è vero che gli immigrati sono un costo?
Come vediamo gli immigrati sono, dal punto di vista fiscale, una risorsa per lo Stato. Il 4% del
totale che lo Stato incassa dalle tasse arriva da lavoratori stranieri,mentre solo il 2,5% di quello
che lo Stato spende in sanità, scuola, pensioni, sussidi, etc. va agli immigrati. Quindi gli
immigrati danno allo Stato Italiano più di quanto ricevono.
IMMIGRATI E STATO SOCIALE (2):
Facciamo un po' i conti.....
TASSE:
• pagano 4,5 miliardi di imposta personale sul reddito
• pagano 10 miliardi di contributi
• pagano il 5% dell‟IRAP
ISTRUZIONE:
assorbono quasi 4 miliardi
 il 5% della spesa totale.
SANITÀ:
assorbono circa 3 miliardi
 il 3% della spesa totale. In media sono più giovani e si ammalano di meno.
SOSTEGNO AL REDDITO:
assorbono circa 1 miliardo
 il 7% della spesa totale. Usufruiscono di più di sostegni perché più poveri.
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IMMIGRATI E STATO SOCIALE (3):
Pagano le nostre pensioni?
Una cosa che si sente dire spesso è che abbiamo bisogno dell‟immigrazione perché noi stiamo
diventando vecchi e non abbiamo chi “paga”le nostre pensioni.
E‟vero?
Per adesso assolutamente si!
L‟Italia è, dopo il Giappone, il paese con la popolazione più vecchia al mondo. Questo vuole
dire: più anziani pensionati ed allo stesso tempo meno persone in età lavorativa che pagano i
contributi.
La popolazione straniera è molto più giovane di quella italiana e questo contribuisce a diminuire
l‟indice di dipendenza. [L‟indice di dipendenza è il numero di anziani rispetto alla popolazione
in età lavorativa. Esso da un‟idea dell‟anzianità di un paese e del conseguente peso delle spese
per pensioni e sanità sul bilancio dello Stato]
IMMIGRAZIONE E CRIMINALITÀ
QUANTI CRIMINI COMMETTONO
GLI IMMIGRATI IN ITALIA?
Il 26% dei crimini in Italia sono commessi da stranieri
Il 37%delle persone in carcere sono straniere
CRIMINI TOTALI: SONO TANTI O
POCHI? (1)
Sono tanti perché la percentuale di crimini commessi da immigrati è quattro volte superiore
alla loro percentuale sulla popolazione italiana
accesso libero, equo e universale ai saperi
CRIMINI TOTALI: SONO TANTI O POCHI? (2)
Sono tanti anche se guardiamo all‟esperienza dei principali Paesi europei
Infatti solo la Germania ha una percentuale di crimini commessa da stranieri simile alla
nostra, ma la percentuale di immigrati della Germania è quattro volte superiore alla nostra
(i dati si riferiscono al 2003).
accesso libero, equo e universale ai saperi
QUALI SONO GLI IMMIGRATI CHE HANNO
COMESSO PIU’REATI? (2)
Il maggior numero di reati tra gli stranieri è commesso da marocchini, rumeni, e albanesi.
Questo perché sono i gruppi con più immigrati.
QUALI SONO GLI IMMIGRATI CHE HANNO
COMESSO PIU’REATI? (2)
Ma se rapportiamo il numero di crimini al numero di immigrati totale, risulta che i più alti tassi
di delinquenza sono tra gli algerini, cileni e in misura minore senegalesi. Mentre gli albanesi
commettono in proporzione meno crimini dei cittadini dell‟Unione Europea a 15, i marocchini e
rumeni leggermente di più.
accesso libero, equo e universale ai saperi
TASSO DICRIMINALITÀ(1)
Benché i crimini commessi da immigrati siano tanti, il tasso di criminalità tra gli immigrati è
diminuito sensibilmente negli ultimi anni.
Questo è perche la grande maggioranza degli immigrati che sono entrati nel nostro Paese non
sono delinquenti, ma persone in cerca di migliori opportunità di vita.
TASSO DICRIMINALITÀ(2)
Un dossier della Caritas mostra che si confrontano con attenzione i tassi di criminalità degli
italiani ed immigrati non risultano così dissimili. Infatti se teniamo conto delle denunce
verso i soli immigrati regolari la differenza si dimezza.
Inoltre se consideriamo solo la fascia d‟età18-44, ossia quella in cui si concentrano circa l‟80%
dei reati...le cose cambiano considerevolmente.
accesso libero, equo e universale ai saperi
MA
GLI
IMMIGRATI
CRIMINALITÀ?(1)
PORTANO
Come vediamo nel 2003 si son commessi lo stesso numero di crimini del 1996 e nel 2007 il
numero di reati è stato simile al 1991.L‟aumento di crimini che vediamo tra il 2006 e il 2007
è dovuto anche all‟indulto. In sostanza negli ultimi 15 anni, nonostante il forte aumento
dell‟immigrazione, il numero totale dei crimini non ha avuto un aumento significativo. Ad
ogni modo un rapporto della Banca d‟Italia, attraverso studi econometrici, dimostra che
l‟aumento del numero di immigrati non causa un aumento del numero di crimini
MA GLI IMMIGRATI PORTANO CRIMINALITÀ?
(2)
Chiaramente no
Ma questo implica che non c’è nessun problema di criminalità legato all’immigrazione?
Gli alti tassi di criminalità tra gli immigrati sono un grosso problema di integrazione
Ma il punto è:
ai cittadini italiani interessa che diminuiscano i reati in generale o i reati commessi da
immigrati?
Se quello conta è diminuire la criminalità in generale, allora un atteggiamento restrittivo o
repressivo sull‟arrivo di nuovi stranieri non è la risposta giusta.
Quello che conta è un‟azione incisiva sulle radici che favoriscono la criminalità in Italia.
accesso libero, equo e universale ai saperi
IMMIGRATI, CRIMINALITÁ E MEDIA (1)
Nella nostra opinione pubblica, l‟associazione tra immigrazione e criminalità è ben radicata:
Questo sondaggio ISPO, che risale al 2003, mostra come il 57,4% degli italiani vede
l‟immigrazione come fonte di delinquenza.
Solo il 25,8% ritiene che questo non sia vero.
Probabilmente oggigiorno ancora più persone risponderebbero di essere d‟accordo con questa
affermazione
IMMIGRATI, CRIMINALITÁ E MEDIA (2)
Ma l‟opinione che abbiamo su questo fenomeno è dettata in buona parte da episodi eclatanti e
non da una conoscenza della situazione nel suo complesso.
In questo contesto il ruolo dei media e dei telegiornali è cruciale:
Nel grafico in alto la linea rossa rappresenta il numero di notizie di criminalità date dai
principali TG italiani
La linea azzurra rappresenta invece il numero di reati effettivi
La linea gialla rappresenta invece la percezione di criminalità dei cittadini
accesso libero, equo e universale ai saperi
Come vediamo l‟aumento del bombardamento mediatico sulla criminalità, fa passare la
percezione del crimine dal 33% al 53% senza che vi sia un riscontro effettivo dell‟aumento di
reati
IMMIGRATI, CRIMINALITÁ E MEDIA (3)
Per avere una visione corretta della relazione tra immigrazione e criminalità è fondamentale
guardare al fenomeno nel suo complesso ed in profondità tra le pieghe dei dati.
La percezione che deriva da alcuni episodi, per quanto reali ed efferati, che hanno una alta
risonanza mediatica danno solo una visione parziale della situazione
CONCLUSIONE:
L’IMMIGRAZIONE È UNA RISORSA
Con questa presentazione speriamo di aver mostrato che l‟immigrazione è una risorsa
importante per l‟Italia
Chiaramente questo non significa che non ci siano problemi legati all‟immigrazione o che la
cosa migliore da fare sia aprire le frontiere a tutti gli immigrati indiscriminatamente
Quello che vogliamo rimarcare è l‟importanza di avere una politica dell‟immigrazione volta a
favorire l‟ingresso e l‟integrazione degli stranieri in modo da esaltare gli effetti benefici
dell‟immigrazione e minimizzarne i costi
L‟immigrazione rappresenta dunque una risorsa, che però va gestita, programmata e regolata
adeguatamente.
Per questo la gestione dell‟immigrazione deve essere affrontata in maniera lungimirante, priva
di ideologismi e tenendo conto dei dati oggettivi
Per motivi di spazio non abbiamo affrontato la relazione tra immigrazione e cultura, per questo
vi salutiamo con una bella metafora di Massimo Montanari ne “Il cibo come Cultura”
Spesso ci si oppone all‟immigrazione “In difesa delle nostre radici”. Ma le radici degli alberi,
sotto terra, in realtà si biforcano fino a perdersi molto lontano dalla pianta, hanno percorsi quasi
imprevedibili e portano a tanti punti differenti anche molto remoti.
Pensiamo ad esempio alla pasta con il pomodoro, classico piatto nazionale che afferma un‟idea
di “italianità”in tutto il mondo. Le radici di questo piatto in realtà sono tutt‟altro che italiane.
L‟invenzione della pasta se la contendono arabi e cinesi e noi l‟abbiamo soltanto fatta nostra
venendo a contatto con queste civiltà; il pomodoro non è una pianta originaria dell‟Italia, e
neanche dell‟Europa, ma è stato portato dalle Americhe.
accesso libero, equo e universale ai saperi
Frontiere, migranti e rifugiati. Studi cartografici
È impossibile parlare delle migrazioni di esseri umani senza evocare i confini che altri esseri
umani erigono. La relazione tra i due fenomeni è infatti molto stretta, dal momento che il
confine è l‟ostacolo più pericoloso in cui si imbatte il migrante, clandestino o meno, nel corso
del suo viaggio.
Il confine si inscrive in modo contrastante nel paesaggio: o si impone come una barriera spessa,
o finge di sparire. Dà l‟illusione di un mondo perfettamente organizzato in regioni e paesi. I
confini allo stesso tempo aggruppano gli uomini e li separano. Si muovono nel tempo e nello
spazio quando la storia sconvolge la geografia del mondo.
Le carte qui esposte sono schizzi fatti a matita, il cui aspetto incerto testimonia la natura del
confine stesso: ambivalente e paradossale.
Lo schizzo prefigura la mappa, permette di esprimere più liberamente e più soggettivamente il
carattere instabile o arbitrario di queste linee di spartizione, insieme alla diversità del loro
statuto.
In questo modo la cartografia incontra l‟arte e il cartografo si cimenta in un esercizio che gli
permette di essere più diretto e incisivo.
Le carte rispondono prima di tutto alla domanda “dove?” e permettono in seguito di capire
“cosa”, cioè in quale modo le comunità umane producono il loro territorio. Dietro ogni mappa,
c‟è un‟intenzione. La mappa nasce da un‟idea, è una costruzione mentale prima che cartacea. Lo
schizzo mostra l‟umore e le esitazioni del cartografo, il quale annota in disordine le idee che
costituiranno la trama della storia da raccontare. Il disegno è così concepito e organizzato come
un gioco di costruzione: ogni pezzo si trova in contatto con tutti gli altri. Cambiare il posto di
uno di questi pezzi significa tornare a ricomporre il paesaggio.
Lo schizzo è un “opera di transizione” malleabile, è il luogo di sperimentazioni grafiche, un
rivelatore più autentico e più fedele al pensiero del cartografo rispetto al computer, che invece lo
tradisce: cristallizza in modo freddo e artificiale situazioni spesso mutevoli.
È anche più dinamico: movimenti, forme e colori si esprimono in modo più vivace. È possibile
rinforzare i tratti, giocare sui contrasti, insistere sul carattere aleatorio della geografia del
mondo. Tutto questo suscita un‟emozione sia artistica sia politica.
Philippe Rekacewicz, geografo cartografo Le Monde Diplomatique
accesso libero, equo e universale ai saperi
Un mondo in movimento.
Principali migrazioni economiche
Un mondo in movimento. Principali migrazioni economiche
Mi piacciono le frontiere,
Senza fuoco, senza fiamme, senza fumo e senza apparecchiature:
Io mi accontenterei di fior di vilucchi
Attorno alle dogane e alle loro piantagioni.
Jean Cayrol,
Citato da Michel Foucher in Fronts et frontières, Fayard, Parigi, 1991.
accesso libero, equo e universale ai saperi
In esilio nel proprio paese. 25 o 200 milioni di dislocati interni?
In esilio nel proprio paese. 25 o 200 milioni di dislocati interni?
Costrette ad abbandonare la propria casa, le persone dislocate vivono la stessa condizione dei
rifugiati, senza però poter ambire a questo status poiché non hanno varcato alcun confine
internazionale.
Queste popolazioni, spesso abbandonate a se stesse, sono difficilmente raggiungibili dagli aiuti
internazionali. Alcuni Stati, appellandosi alla loro sovranità e denunciando il rischio di
“ingerenza nei loro affari interni”, rifiutano ogni intervento umanitario. Va precisato che questi
Stati sono spesso responsabili dell‟oppressione che ha costretto alla fuga una parte della loro
popolazione…
Il centro di monitoraggio per i dislocati interni (IDMC) del Consiglio norvegese per i rifugiati
(NRC), che gestisce una banca dati sull‟argomento, stima 25 milioni di persone dislocate nel
mondo. Questo se si considera solamente i dislocamenti legati ai conflitti, alle violenze politiche
e alle violazioni dei diritti umani…
Gli spostamenti di popolazione hanno anche altre cause: i grandi progetti di sviluppo (dighe,
centri industriali, piantagioni) provocano il dislocamento di quindici milioni di persone ogni
anno. Nel 2006, i problemi ambientali hanno colpito circa 145 milioni di persone… È difficile
stilare statistiche affidabili, però, mettendo insieme tutte le cause, si può ritenere che i
dislocamenti forzati riguardino oggi tra i 100 e i 200 milioni di persone.
accesso libero, equo e universale ai saperi
Data la situazione, un riesame della definizione del dislocamento forzato sarebbe la benvenuta.
Essa permetterebbe di affrontare situazioni come quella statunitense, dove 400.000 vittime – le
più povere – dell‟uragano Katrina non sono ancora potute tornare a casa. Oppure permetterebbe
di valutare l‟importanza degli spostamenti legati allo sviluppo delle grandi piantagioni in tutta la
regione della foresta amazzonica…
Quelli che hanno varcato il confine. Il Sud, zona di accoglienza principale dei rifugiati
Quelli che hanno varcato il confine. Il Sud, zona di accoglienza principale dei rifugiati
Alla fine del 2006, l‟Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (UNHCR) contava
dieci milioni di rifugiati nel mondo, tra cui l‟80 % in paesi in via di sviluppo. Le cifre più
elevate si riscontrano spesso nei paesi più poveri: la Repubblica democratica del Congo ne
accoglie tra i 200.000 e i 300.000, la Siria più di un milione, lo Yemen 100.000, la Tanzania
circa 500.000, il Pakistan più di un milione, la Giordania tra i 2,3 e i 2,5 milioni…
Nessuno di questi avrebbe i mezzi per assumersi da solo questa responsabilità senza l‟aiuto
logistico e finanziario degli Stati del Nord, che agiscono attraverso organismi internazionali.
L‟UNHCR, istituzione mandataria dell‟Assemblea generale dell‟Organizzazione delle Nazioni
unite (ONU) incaricata di rispondere alle crisi umanitarie, ha saputo allestire un apparato
logistico che le permette di portare aiuto a 500.000 persone in meno di quarantott‟ore. Una cosa
che non si improvvisa. I suoi vantaggi? Trecento addetti alla logistica e personale sanitario “di
guardia” nei cinque continenti, centinaia di migliaia di teloni, tende, coperte, zanzariere, utensili
accesso libero, equo e universale ai saperi
da cucina, ma anche Tir, depositi prefabbricati e gruppi elettrogeni pronti ad essere imbarcati dai
magazzini di Dubai, Copenaghen, Amman, Accra o Nairobi. L‟azione umanitaria comincia con
una corsa contro il tempo per salvare delle vite: nutrire, curare e offrire riparo.
Una volta passata l‟emergenza, comincia un lungo e difficile percorso finalizzato alla
registrazione e alla protezione dei rifugiati. Varcando il confine, hanno perso la cittadinanza del
loro paese d‟origine, senza per questo trovarne una nuova nel paese che concede loro asilo. A
questo punto l‟UNHCR è incaricato di assicurare la protezione fisica e giuridica a tutti coloro
che ne hanno bisogno. Per questo, però, bisogna poterli identificare…
La registrazione presso l‟UNHCR nei paesi d‟accoglienza è facoltativa: i rifugiati stessi
decidono se ufficializzarsi, e spesso capita che giudichino tale procedura inutile, nonché
pericolosa. Ovunque sul pianeta, alcune centinaia di migliaia di persone aventi il diritto di
ottenere lo status internazionale di rifugiato rimangono in questo modo invisibili e sfuggono alle
statistiche.
Questo Nord che non accoglie. Dei richiedenti asilo così poco numerosi...
Questo Nord che non accoglie. Dei richiedenti asilo così poco numerosi...
Essere “rifugiati” nei paesi del Nord non è come esserlo nei campi dell‟UNHCR dei paesi
poveri. I primi hanno chiesto e ottenuto l‟asilo da parte di un governo che ha accettato di
concederglielo, mentre i secondi hanno semplicemente attraversato un confine internazionale
per fuggire la guerra.
accesso libero, equo e universale ai saperi
In un nota di aprile 2003, la Commissione nazionale consultiva dei diritti umani (CNCDH)
sottolinea che “l‟accezione del diritto d‟asilo della legge francese riduce la questione dell‟asilo a
un problema di politica migratoria” [1]. Questa confusione tra concetti è comune nei paesi
occidentali. Se l‟immigrazione è effettivamente di competenza dello Stato, l‟asilo è un diritto
riconosciuto dalla Convenzione di Ginevra (1951). L‟arsenale di misure deterrenti adottate
contro l‟immigrazione ha di fatto conseguenze sull‟accoglienza dei rifugiati.
In Francia, secondo l‟Ufficio francese di protezione dei rifugiati e degli apolidi (OFPRA), il
numero di richieste d‟asilo è diminuito del 33,6% dal 2005. Nel 2007, solo 7.354 domande sono
state accettate a fronte delle 13.770 nel 2005… E considerando l‟insieme dei paesi ricchi, il
numero dei richiedenti asilo è passato da 600.000 nel 2002 a circa 300.000 nel 2007.
Questa diminuzione drastica si può spiegare col numero sempre più alto di controlli effettuati,
ma anche con l‟approvazione di nuove misure, come l‟istituzione tramite la legge sull‟asilo
(2003) di una “lista di paesi sicuri”, che contiene ad esempio la Bosnia, l‟Ucraina e l‟India,
(l‟Albania e il Niger sono stati cancellati poco tempo fa a seguito di un pronunciamento del
Consiglio di Stato), oppure come la “procedura prioritaria”, che permette di trattare le domande
in quindici giorni senza rilasciare alcuna autorizzazione provvisoria di soggiorno (APS). Ci si
può interrogare sulla pertinenza di una distinzione così netta tra migranti economici e rifugiati
che fuggono le guerre e le persecuzioni. In effetti, sebbene non percorrano sempre le stesse
strade, affrontano i peggiori pericoli negli stessi luoghi: le isole Canarie, Gibilterra, Lampedusa,
il mar Egeo, il golfo di Aden (dove gli scafisti sono di una crudeltà inimmaginabile), il confine
tra Messico e gli Stati Uniti… Queste popolazioni sono davvero così dissimili, da volerle
differenziare a tutti costi? Il migrante economico forse non ha avuto altra scelta che partire:
perché non può anche lui aspirare a una protezione internazionale?
Provare a distinguere oggi non è più pertinente, dal momento che, sebbene le cause degli
spostamenti siano varie, le conseguenze sono le stesse: tutte queste vittime meritano la stessa
assistenza e gli stessi diritti. Forse vedremo presto il linguaggio dell‟Onu arricchirsi di una
nuova espressione: “rifugiati economici”?
accesso libero, equo e universale ai saperi
L’arco delle crisi. Rifugiati: la vertigine delle cifre
Da qualche parte, in un campo di rifugiati in Giordania:
"Mio marito era ufficiale nell‟esercito precedente, racconta Amina. Dopo l‟invasione, delle
milizie hanno cominciato a minacciarci. Quindi siamo andati a Falluja, ma il nostro passato ci ha
perseguitato. È uscita una lista con i nomi di tutti quelli che erano stati nell‟esercito. Abbiamo
lasciato tutto e siamo venuti in Giordania all‟inizio del 2005. A quell‟epoca era ancora facile
entrare in Giordania. Mio marito non poteva lavorare, quindi è tornato in Iraq per provare a
guadagnare un po‟ di soldi. È rimasto 15 giorni. Non so cosa sia successo, ma mi ha chiamato
per dirmi che voleva tornare in Giordania. A un posto di controllo, tra Abu Ghraib e Ramadi,
c‟erano uomini che sembravano appartenere alle forze governative, ma più tardi abbiamo saputo
che era l‟Esercito del Mahdi [milizia di obbedienza sciita]. Gli hanno chiesto i suoi documenti, e
poi lo hanno portato via. Sono quattordici mesi che non ho sue notizie. Vivo sola con i miei
cinque figli. Non ho nessuna fonte di reddito” [2].
Da nessun‟altra parte del mondo la circolazione delle persone che fuggono le guerre è così
intensa. Quelli che si incrociano sulle strade dell‟esilio – sfollati e rifugiati – si contano a
milioni: il conflitto afghano, tra i 2 e i 5 milioni a seconda delle stime, il conflitto iracheno, tra i
4 e i 5 milioni, i conflitti in Sudan tra i 5 e i 5,5 milioni, il conflitto israelo-palestinese tra i 4,5 e
i 5 milioni… È necessario continuare? Questi numeri stordiscono.
accesso libero, equo e universale ai saperi
La Giordania accoglie sul suo territorio due milioni di rifugiati palestinesi presenti da due
generazioni, e tra 500.000 e 800.000 Iracheni arrivati dall‟inizio del conflitto del 2003. Ossia
complessivamente 2,5 milioni di persone per un paese di 5,7 milioni di abitanti… Uno dei paesi
più poveri di risorse idriche del pianeta.
Vivere
all’ombra
La Palestina squartata, rinchiusa, accerchiata
del
muro.
Vivere all’ombra del muro. La Palestina squartata, rinchiusa, accerchiata
Siamo all‟inizio del nuovo millennio, molto prima dell‟edificazione di ciò che è chiamato il
“muro dell‟apartheid” dal lato palestinese, e la “recinzione di sicurezza” dal lato israeliano.
Durante le discussioni sullo status di Gerusalemme, uno dei negoziatori palestinesi ci confida il
suo sconforto di fronte al complesso e incomprensibile imbroglio territoriale che gli Israeliani
proponevano loro: “se firmiamo un accordo su queste basi, bisognerà in futuro dotare ogni
Palestinese di scarpe con piccole luci rosse. Esse si accenderanno quando entreranno per sbaglio
nella zona C (sotto il controllo israeliano) e si spegneranno quando torneranno in zona A o B
(sotto il controllo palestinese o misto)”.
Ora però c‟è il muro. Un immenso muro di cemento, da otto a dieci metri d‟altezza, che
serpeggia ai margini della città, penetra nel cuore della città, attraversa la strada, frattura lo
spazio urbano e lo spazio sociale palestinese.
“Non è un confine!” ripeteva Ariel Sharon a chi lo ascoltava quando è cominciata la
costruzione. Che paradosso, però! La Linea Verde, il confine legittimo riconosciuto a livello
accesso libero, equo e universale ai saperi
internazionale, viene rifiutata sia sul terreno che sulle mappe israeliane. È invisibile. Al
contrario, il muro è molto ben visibile… Esso è stato dichiarato illegale dalla Corte
internazionale di giustizia ed è pressoché invalicabile. Pur essendo illegittimo, i suoi terminal ed
i suoi checkpoint sono così simili a posti di dogana da poterli facilmente scambiare... E di fatto
esso costituisce il vero confine, un confine fisicamente e massicciamente radicato all‟interno del
territorio occupato.
Una cittadina di Betlemme ne parla:
“Dalla mia finestra avevo una vista magica, la dolcezza del paesaggio, i colori… il verde scuro
dei miei ulivi, l‟ocra chiara della sabbia e della roccia, la secchezza dell‟atmosfera. Era caldo.
Fuori dalla mia finestra avevo tutto l‟universo, il mio universo, migliaia di anni di storia! La
polvere e l‟erba rasa. Dalla mia finestra potevo ammirare un paesaggio stupendo, abbracciare
Gerusalemme!
Il tempo passa, il muro si alza e ci rende ciechi. Stiamo diventando ciechi. Finiamo per
dimenticare cosa c‟è dietro, quelli che vivono dietro. Loro invece non ci dimenticano: ci
occupano. Questo muro è… come dire, imponente. È anche… senza fine, senza speranza.
Chiude il paesaggio, e chiude anche le nostre vite. Questo muro è enorme e la sua ombra ancora
di più. Essa copre le nostre strade, le nostre case e i nostri giardini. Copre anche, e soprattutto, la
nostra speranza.
Questo muro è incomprensibile, inspiegabile. Cioè, “loro” lo spiegano… Il loro popolo è
traumatizzato dagli attentati-suicidi. E quindi lo hanno costruito, dicono, per assicurare la
propria sicurezza, e, secondo le statistiche, gli attacchi si sono fermati.
Dalla comparsa del muro, però, la mia anima vive nell‟ombra. Come l‟anima di milioni di
persone. Da quando è lì, i nostri negozi chiudono uno ad uno, le nostre stazioni di servizio
scompaiono. Il muro frammenta i nostri spazi di vita, ci separa dai nostri luoghi di preghiera,
dalle nostre scuole, dai nostri ospedali. Il muro fa a pezzi le nostre vite. Ci divide dai nostri
amici e, ancor peggio, dalla nostra famiglia…”.
accesso libero, equo e universale ai saperi
Cittadini di nessun luogo
Cittadini di nessun luogo
“Un tempo, l‟uomo aveva solo un corpo e un‟anima. Oggi gli serve anche un passaporto
altrimenti non viene trattato come un uomo”. Stefan Zweig (apolide dal 1938 alla sua morte, nel
1942)
Mentre ascolto Philippe Leclerc, dell‟Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati
(UNHCR) raccontare storie di apolidi, questi esseri umani senza nazionalità, e quindi “senza
patria”, come posso non pensare ai miei nonni? Arrivati in Francia nel 1928, provenienti
dall‟Ungheria, dalla Cecoslovacchia e dall‟Ucraina, furono dichiarati apolidi dal momento del
loro ingresso in territorio francese. Alla vigilia della seconda guerra mondiale, la loro richiesta
di naturalizzazione era quasi riuscita. L‟arrivo delle truppe tedesche e l‟Occupazione cambiò il
corso degli eventi: alla fine dovettero aspettare il 1948 per ottenerla. A parte il periodo di guerra,
durante quei vent‟anni, malgrado tutto, avevano dei documenti, erano registrati, potevano
lavorare e beneficiavano all‟incirca degli stessi diritti dei cittadini francesi.
Sessant‟anni dopo, la situazione mondiale non sembra essere così “favorevole”. La grande
maggioranza degli apolidi è condannata a vivere nell‟ombra, emarginata dalla società e molto
spesso privata dei diritti più elementari.
La popolazione apolide è invisibile per definizione: come sottolinea Stefan Zweig, “l‟essere
umano non può nulla davanti alla macchina amministrativa”. Solo i documenti provano
l‟esistenza dell‟individuo, non la realtà della sua carne. In questa situazione paradossale, la
accesso libero, equo e universale ai saperi
contraddizione a volte si può spingere fino a questa domanda: quali carte presentare per avere un
certificato di apolide?
Gli apolidi sono così condannati a navigare in acque torbide, nei vuoti lasciati da leggi mal
concepite, dagli sconvolgimenti geopolitici frequenti e da diverse discriminazioni...
Fenomeno poco conosciuto dal grande pubblico, se non ignorato, l‟apolidia nasce da quattro
grandi processi: dalla privazione ufficiale di nazionalità (come fu il caso, ad esempio, delle
persone fuggite dalla Germania nazista), dalla sua perdita, che spesso avviene in seguito al non
compimento delle pratiche, dal rifiuto di registrarsi (soprattutto per ragioni politiche, come
avviene, in particolare, per le minoranze e le popolazioni autoctone) e da errori di registrazione.
Ed è proprio su quest‟ultimo punto che le organizzazioni internazionali concentrano i loro
sforzi, considerando che uno dei mezzi più efficaci per lottare contro l‟apolidia è di promuovere
un sistema efficace di registrazioni delle nascite.
In Europa, la caduta dell‟URSS nel 1991 ha trasformato centinaia di migliaia di cittadini
sovietici in apolidi. In Lettonia, 400.000 Russi si vedono ancora rifiutare la nazionalità. Alcune
note verbali del governo lettone indirizzate all‟UNHCR alla fine degli anni ‟90 testimoniano il
dibattito che circonda la questione: con esse, il governo rifiutava all‟UNHCR il diritto di
definire “apolidi” quelli che lui chiamava “non-cittadini”.
Recentemente, alcuni paesi dell‟Asia e del Golfo hanno realizzato importanti progressi politici e
legislativi. È il Nepal, in particolare, che resterà a lungo impresso nella storia dell‟apolidia: nel
novembre 2006, questo piccolo paese ha votato una legge sulla cittadinanza che ha permesso a
2,6 milioni di persone su 3,4 milioni di ottenere la nazionalità nepalese. Questa regolarizzazione
di massa indica una certa presa di coscienza da parte degli Stati che finalmente comprendono i
vantaggi del riconoscere e registrare queste popolazioni, che, se isolate e fuori controllo,
potrebbero rappresentare una minaccia per la sicurezza interna.
L‟UNHCR stima il numero di persone apolidi nel mondo di circa 5,8 milioni, ma ammette che
potrebbe arrivare fino a 15 milioni...
accesso libero, equo e universale ai saperi
La nazione Rromani. Il popolo europeo
La nazione Rromani. Il popolo europeo
La scelta di un colore solo, la tinta ocra, simboleggia l‟unità di un popolo sparso in una
moltitudine di paesi: la nazione Rromani, che raggruppa in particolare i Rrom (con due “r”), i
“Manouches” (Sinti) e i “Gitani” (Kalé).
Essa si definisce come una nazione “senza un territorio compatto e senza la pretesa di avere un
tale territorio” (quinto congresso dell‟Unione internazionale Rromani, Praga, luglio 2000). Le
sue rivendicazioni non riguardano lo spazio, ma il diritto e la giustizia.
Una proposta di statuto-quadro, elaborata dal RANELPI (Rete di attivisti rrom sulle questioni
politiche e giuridiche) per l‟Unione Europea, definisce il popolo rrom come “un elemento
costitutivo dell‟Europa, alla quale ha apportato un contributo umano, materiale, artistico,
economico, militare e morale troppo spesso trascurato”. Questo popolo desidera “iscriversi in
una dinamica progressista, orientata verso l‟integrazione sociale, l‟uguaglianza dei diritti, il
rifiuto dell‟esclusione e il rispetto reciproco di tutte le identità rappresentate in Europa”.
Ecco un documento che Nicolas Sarkozy sicuramente non si è preoccupato di leggere, e
nemmeno certi politici che riprendono in coro i suoi discorsi apertamente razzisti e “rromofobi”.
Come, ad esempio, Dominique Leclerc, senatore UMP (Unione per un movimento popolare) di
Indre-et-Loire. La scena si svolge al Senato il 31 luglio 2002, nel corso dei dibattiti sulla
accesso libero, equo e universale ai saperi
cosiddetta legge Sarkozy: “Abbiamo parlato dei nomadi! Sono la piaga di domani. […]
Costituiranno problemi enormi […]. Sono gente asociale, aprivativa [sic], che non ha alcuna
radice e per cui le parole che noi usiamo non hanno significato. […] Noi, i sindaci, che facciamo
ronde, che vediamo ogni notte tre, quattro o cinque camioncini di zingari che vengono a scopare
- non ho altre parole - bambine di dodici o tredici anni fin sotto casa dei loro genitori, e questo
non interessa a nessuno!”. Si può leggere nel resoconto ufficiale, a conclusione di questo
elegante panegirico: “Sostegno ed applausi dalle file dell‟RPR, [Raggruppamento per la
repubblica], dei Repubblicani ed Indipendenti, dell‟Unione centrista, ed anche su certi banchi
del RDSE [Raggruppamento democratico e sociale europeo]”.
Dal 2002, lo Stato francese tenta di criminalizzare i Rrom di Francia per poterli espellere più
facilmente. Mentre per i cittadini europei “riconosciuti” i confini scompaiono, per i Rrom, così
spesso discriminati e a cui i diritti più elementari sono costantemente negati, essi rimangono un
autentico incubo…
Sulla mappa quei confini sono i brutti sfregi rossi e neri.
Il paese che non esisteva. Un desiderio di nazione
Il paese che non esisteva. Un desiderio di nazione
Esiste una linea nella sabbia che separa il Sahara occidentale dal Marocco? Ma sì! “C‟è
effettivamente una linea che i Sahrawi non possono attraversare a meno che non accettino di
diventare Marocchini…” Kamel Fadel, rappresentante del Fronte Polisario [3] in Australia. Ma
accesso libero, equo e universale ai saperi
no! “Neanche la migliore cartografia del mondo può negare con un semplice tratto la lotta
legittima del popolo marocchino per il completamento della sua unità territoriale…” Un
professore dell‟università di Casablanca. Ma sì! “Ho risolto la questione del Sahara occidentale
che ci avvelenava da venticinque anni…” Mohamed VI, re del Marocco, in un esercizio di
autosuggestione abbastanza ben riuscito, durante un‟intervista con i giornalisti de Le Figaro,
settembre 2001.
Le fortezze del mondo ricco. Un mondo vietato
Le fortezze del mondo ricco. Un mondo vietato
È strana questa paura paranoica dell‟invasione, questa volontà di “proteggersi” a tutti i costi
dalle decine di milioni di esseri umani in miseria che, ogni anno, prendono la strada dell‟esilio
verso le regioni ricche, che essi immaginano come terre di speranza. I ricchi, però, hanno deciso
che questa parte di umanità è indesiderabile. Rinforzano le frontiere, erigono barriere
invalicabili e costruiscono muri sempre più alti. In fondo si tratta di una vera e propria strategia
di guerra, messa in atto per contenere l‟invasore minaccioso.
Per effetto a catena, altri grandi paesi come il Brasile, la Cina o la Russia mettono in atto allo
stesso modo una “fortificazione interna”, per tentare di limitare le migrazioni economiche dalle
regioni povere verso le zone di forte crescita.
Questi ostacoli fisici sono uno degli strumenti più efficaci per criminalizzare l‟immigrazione e
giustificare l‟uso di espressioni come “immigrato illegale” o “clandestino” per chi trasgredisce
la legge. Questi nuovi ostacoli, giuridici o fisici, permettono di creare in maniera artificiale
accesso libero, equo e universale ai saperi
nuove categorie di delinquenti: diventa così un crimine migrare per ragioni economiche, per
raggiungere la propria famiglia o per richiedere asilo.
Migliaia di morti alle porte dell’Europa. Un continente dalle molteplici frontiere
Migliaia di morti alle porte dell’Europa. Un continente dalle molteplici frontiere
Abbiamo composto questa carta per la prima volta nel 2003, grazie al meticoloso lavoro di
Olivier Clochard, del laboratorio di Migrinter (Migrazioni internazionali, spazi e società, di
Poitiers). Nella prima versione sfortunatamente le cifre erano notevolmente sottostimate.
Aggiorniamo questo documento abbastanza di frequente e, sfortunatamente, ogni volta
dobbiamo aggiungere punti neri, ogni volta dobbiamo cambiare le cifre in rosso. E mettere al
loro posto cifre sempre più elevate.
Il 1° gennaio 1993, Gerry Johnson, un cittadino della Liberia - paese in quel momento devastato
da una sanguinosa guerra civile -, viene ritrovato morto, soffocato in un vagone-merci a
Feldkirch, in Austria. Il 16 febbraio 2007, i guardacoste constatano la morte di ventiquattro
persone, tra cui una donna, tutte originarie della Somalia - paese attualmente dilaniato e
smembrato da una guerra sanguinosa - in seguito al naufragio della loro piccola imbarcazione,
vicino all‟isola greca di Samo. Tra queste due date e questi due luoghi, circa altri 9.000 migranti
- come minimo - hanno perso la vita tentando di raggiungere l‟Europa, terra di libertà e dei
diritti dell‟uomo.
accesso libero, equo e universale ai saperi
Questa cifra spaventosa è fornita dall‟organizzazione non governativa United, che si basa sui
rapporti giornalistici e sulle segnalazioni delle organizzazioni locali. Solo i decessi conosciuti
figurano sulla carta, che rappresenta quindi solo una minima parte di un‟ecatombe ignorata.
Questa carneficina è il risultato delle scelte dell‟Europa, che ha posizionato un po‟ dappertutto le
sue “reti di protezione”. L‟ha fatto coscienziosamente, a partire da lontano, molto lontano dal
suo proprio territorio: da Nouakchott a Tripoli, passando da Niamey e Agadir, l‟Europa si dota
di una “pre-frontiera”. Già nel cuore del deserto, controlli polizieschi, espulsioni,
raggruppamenti informali e primi campi. Il pericolo si ripropone presto per coloro che
oltrepassano le maglie di questa prima barriera e arrivano alla vera “frontiera”, in assoluto la più
mortale. Tutti quelli che sono riusciti a passare questa linea rossa, sopravvivendole, saranno
attesi ai punti neri, nei cosiddetti campi di accoglienza, cioè alla “post-frontiera”.
Ma non si muore solo arrivando. Si muore anche ripartendo, come Marcus Omofuma, cittadino
nigeriano, che il 1° maggio 1999 è stato molto semplicemente assassinato (col viso quasi del
tutto bendato) in un aereo della Balkan Air, da tre sadici poliziotti austriaci incaricati di scortarlo
nel suo viaggio di ritorno, dopo che la sua domanda di asilo era stata rifiutata.
Quando la storia scompiglia la geografia. Ridistribuzione dei confini europei
Quando la storia scompiglia la geografia. Ridistribuzione dei confini europei
I paesi dell‟Europa occidentale completano la loro “unità territoriale” raggruppandosi e
compattandosi all‟interno dello spazio Schengen. In questo modo, essi danno l‟illusione di
accesso libero, equo e universale ai saperi
aprirsi agli altri e di facilitare la circolazione degli esseri umani. In verità, con questa zona di
libera circolazione si rinchiudono su loro stessi, si ritraggono.
Con un movimento pressoché simultaneo, gli ex-paesi comunisti dell‟Europa dell‟est viaggiano
in senso contrario. Si frammentano in parti piccole o grandi, si separano come si divorzia
consensualmente, e, di comune accordo, erigono nuovi confini.
Quando la geografia scompiglia la storia. Dal Comecon allo spazio Schengen
Quando la geografia scompiglia la storia. Dal Comecon allo spazio Schengen
Ecco! Finalmente l‟Est è passato all‟Ovest... Le vecchie democrazie popolari, insieme a tre exrepubbliche sovietiche, sono state assorbite nello spazio Schengen, che si costruisce senza i suoi
“estremi”.
Ai margini dell‟Europa “schengenizzata”, gli esclusi sono innanzitutto i più ricchi, Svizzera e
Liechtenstein in testa, seguite da Andorra, dal Vaticano, dal Regno Unito e dall‟Irlanda. Poi, i
più poveri: la piccola enclave russa di Kaliningrad, l‟ex-Jugoslavia (eccetto la Slovenia),
l‟Ucraina, la Moldavia... e la Georgia! Ebbene, i Georgiani sono ottimisti. Da loro, non un solo
edificio pubblico ostenta una bandiera georgiana senza affiancarla a quella dell‟Unione europea.
E, l‟anno scorso, sul parlamento erano i colori della bandiera europea a dominare... Non si
potrebbe esprimere più chiaramente le proprie aspirazioni.
Quando anche la Bulgaria e la Romania entreranno in Schengen, resteranno solo queste poche
isole in Europa, più o meno grandi e isolate.
accesso libero, equo e universale ai saperi
Nel settembre 2007, l‟Unione europea (UE) firmava un accordo di liberalizzazione parziale del
regime dei visti per alcuni paesi balcanici, tra cui la Macedonia. C‟è, però, un‟importante
eccezione: la Grecia che, anche se membro dell‟UE, applica gli accordi Schengen... eccetto che
per i cittadini macedoni, dai quali esige uno specifico visto greco. In modo del tutto illegale. È
vero che esiste qualche dissapore tra questi due paesi, ma questo è davvero un colpo basso...
La grande ruota
La grande ruota
Scambi euro-africani: l‟Africa salva l‟Europa, che impoverisce l‟Africa, che nutre l‟Europa, che
schiavizza l‟Africa, che paga l‟Europa, che continua a saccheggiare l‟Africa...
In Mali, all‟inizio del 2006, una radio ha messo in scena un falso processo alla Banca mondiale
e al Fondo monetario internazionale (FMI). Questo episodio in seguito è stato ripreso da un
adattamento cinematografico esilarante, “Bamako” di Abderrahmane Sissako. Le autorità
finanziarie internazionali ridicolizzate. Tutto questo potrebbe in effetti essere divertente, se le
conseguenze delle loro successive politiche non fossero state assolutamente reali e così
disastrose per il continente africano. Gli aggiustamenti strutturali imposti dalle istituzioni di
Washington per “risanare” le economie hanno distrutto l‟Africa.
All‟inizio del XXI secolo, la Banca mondiale ha riconosciuto di essersi sbagliata e ha pubblicato
un comunicato stampa di circa dieci righe che annunciava l‟abbandono di questi piani,
sottolineandone “gli effetti negativi”, riconoscendo che “la situazione dello sviluppo umano in
Africa si è degradata” e scusandosi “dei disagi provocati alle popolazioni dei paesi che ne erano
accesso libero, equo e universale ai saperi
state vittime”. A Washington ci si scusa per dei “disagi” che hanno ucciso centinaia di migliaia
di persone, derubato le popolazioni, distrutto le economie e annientato branche intere del settore
pubblico.
Si è così passati al “Quadro strategico di lotta alla povertà” (CSLP), una nuova impostura
inventata e promossa dalle stesse autorità, a spese della stessa popolazione e che conduce alle
stesse impasse. L‟America fa generosamente dono all‟Africa delle geniali politiche della Banca
mondiale e dell‟FMI.
In cambio, l‟Africa dà petrolio e minerali.
Da parte sua, l‟Europa offre orgogliosamente le politiche di aiuto allo sviluppo della
Commissione europea, che non valgono molto di più. Cosa che il sociologo svizzero Jean
Ziegler sosteneva in Libération (ottobre 2007): “L‟Europa favorisce la fame in Africa”,
scriveva. Cosa a cui Peter Mandelson e Louis Michel, commissari europei, risposero che “solo
gli accordi di partenariato economico (APE ) permettono la crescita e lo sviluppo del benessere
in Africa”.
Dietro questa bella espressione che coniuga le parole lusinghiere di “partenariato” e “accordi” si
nasconde un temibile strumento di dominazione, che permette alle potenze occidentali di
esercitare un certo controllo sull‟economia africana, e alle multinazionali di attingervi tutto ciò
che c‟è di valore.
In cambio, l‟Africa dà petrolio e minerali.
Anche la Cina rinforza i suoi rapporti con l‟Africa. Essa ha di recente dato prova del suo senso
dell‟umorismo, accordando alla Repubblica democratica del Congo un prestito di 5 miliardi di
dollari per lo sviluppo delle infrastrutture di trasporto e di produzione mineraria, togliendo così
il terreno da sotto i piedi all‟FMI... Il quale ha qualche difficoltà a rimettersi da questo scherzo,
ora che i suoi progetti nella regione sono compromessi.
In cambio, l‟Africa dà petrolio e minerali.
È dunque solo questo tutto ciò che l‟Africa ha da offrire? Se ne sa poco, ma l‟Africa offre anche
cultura, musica e teatro. Diplomati, professori ed esperti. Studenti, lavoratori qualificati e
intellettuali. Scrittori. Molti altri esseri umani che l‟Europa rinvia in aereo talvolta legati come
salami, se non in una bara.
Le parole di conclusione sono affidate a Eva Joly, ex-giudice istruttore franco-norvegese, che, in
un capitolo del suo ultimo libro (La force qui nous manque, [La forza che ci manca], Les
Arènes, Parigi, 2007) intitolato molto a proposito “Giustizia per l‟Africa”, esclama: “Chi
contesterà i contratti conclusi da Areva per l‟uranio in Niger o da Sadiola per le miniere d‟oro in
Mali, da Elf-Total in Nigeria o in Gabon per il petrolio? Paesi tra i più poveri del globo che
toccano solo una parte derisoria delle ricchezze prelevate dai loro suoli? La Repubblica
[francese] ha contratto un debito che dovrà onorare. La nostra prosperità è nutrita dalla ricchezze
che noi rubiamo. A qualcuno di questi migranti clandestini che rischiano la vita per raggiungere
l‟Europa, si potrebbe offrire una rendita invece dell‟avviso di espulsione. Io sogno [per la
Francia] un risveglio collettivo...”
accesso libero, equo e universale ai saperi
Quando Vienna ha appuntamento con l’Africa. Popolazione africana in Austria per paese
di provenienza
Quando Vienna ha appuntamento con l’Africa. Popolazione africana in Austria per paese
di provenienza
Circa 21.000 Africani vivono oggi in Austria. Nel 1991, se ne contavano 8.500. Un po‟ più della
metà vive a Vienna e nelle zone limitrofe. A questo numero bisogna aggiungere circa 19.000
persone originarie dell‟Africa che sono state naturalizzate, per un totale di circa 40.000 persone.
Tendiamo a dimenticarlo: l‟Africa non è una, ma è multipla. E la comunità africana che vive in
Austria non è una, ma multipla. Essa raccoglie una popolazione molto varia che proviene da tutti
i paesi dell‟Africa, e che costituisce un‟innegabile ricchezza umana e culturale. La maggioranza
viene dalla Nigeria, dall‟Egitto, dal Gana, dalla Tunisia, dal Marocco, dall‟Algeria, dal Sud
Africa e dal Camerun. Non tutti sono rifugiati, esiliati o bisognosi, non tutti sono fuggiti dalle
guerre, dalla povertà o dai disastri ambientali... E non sono neanche tutti drogati, spacciatori,
ladri o ricettatori. Tra di loro ci sono anche insegnanti e diplomati. Lavoratori, scienziati,
studenti o membri delle organizzazioni internazionali. In Austria sono tutti, spesso e senza
distinzioni, vittime di discriminazioni, talvolta estremamente brutali. Questo razzismo ordinario,
essenzialmente fondato sulla criminalizzazione generale della popolazione africana, è radicato
nel pensiero popolare. Esso è nutrito e diffuso da media compiacenti.
accesso libero, equo e universale ai saperi
Marcus. Sotto la minaccia di violenze etnico-religiose
Marcus. Sotto la minaccia di violenze etnico-religiose
Marcus ha solo sette anni quando è oggetto per la prima volta di discriminazioni brutali. Siamo a
Yola, capitale dello Stato di Adamawa, nel nord-est della Nigeria. Sua madre è morta da molto
tempo e il suo padre biologico è sconosciuto. Marcus vive dal patrigno, che lo caccia da casa...
Il suo crimine? Essere cristiano. Il suo patrigno è musulmano. E il bambino non ha nessun posto
dove andare.
La storia di Marcus si iscrive in un contesto di violenze etnico-religiose che, da una ventina di
anni, ha provocato la morte di una decina di migliaia di persone nell‟intera Nigeria, dove circa il
50% della popolazione è musulmana e il 40% cristiana.
A Yola (ma anche in altre città, come Numan, nello stesso Stato), le violenze religiose sono
regolari. Marcus, cacciato dalla sua casa, dorme ormai nel garage in cui lavora. Per un certo
periodo viene accolto da una giovane donna di venticinque anni che ha incontrato in chiesa; ma
è costretto a tornare a dormire nel garage quando il suo patrigno comincia a minacciarla
seriamente. Nei cinque anni che seguono vive in questo modo, dormendo tra le macchine in
riparazione e lavandosi nel fiume. All‟epoca ha 13 anni e migra verso il mercato, nella speranza
di trovare dei piccoli lavori, ma è vittima di gang che non gli permettono di restare.
Allora ritorna alla chiesa, dove i preti tentano di convincerlo a tornare dal suo patrigno;
quest‟ultimo sarebbe pronto ad accettarlo, a condizione però che diventi musulmano. Marcus si
accesso libero, equo e universale ai saperi
rassegna e alla fine accetta il compromesso, ma qualche giorno più tardi ritratta. È di nuovo
cacciato da casa.
Questa volta, la situazione e molto più grave: poiché Marcus è ormai adolescente, il patrigno
non accetta l‟affronto. Il ragazzo vive metà del suo tempo per strada e l‟altra metà nella chiesa.
Un giorno, un gruppo di uomini, amici del suo patrigno, lo avvicinano. Sono venuti a ucciderlo.
Marcus ha giusto il tempo di vederli sfoderare le lame dei coltelli e di fuggire via il più
velocemente possibile. Deve la vita alla sua velocità.
I preti della chiesa dove si è rifugiato organizzano subito una fantastica catena di solidarietà per
portarlo fuori dalla città e metterlo al sicuro. Viene nascosto nel bagagliaio di una macchina che
parte nel mezzo della notte in direzione di Port Harcourt, da dove è immediatamente trasferito in
un cargo con destinazione Europa. Il viaggio, interminabile, durerà sei settimane, durante le
quali Marcus non uscirà mai dalla stanza in fondo alla stiva dove è recluso.
I ricordi di Marcus circa il suo arrivo sono molto incerti. Si ricorda di un grande porto –
Rotterdam o Amburgo -, della pioggia e di migliaia di container. Deve passare il più possibile
inosservato. È tutto quello che si ricorda. Viene affidato a un uomo, che rimane in silenzio
durante il tragitto, con cui prende il treno per Vienna, via Monaco. Alla stazione, un altro
intermediario lo prende in carico e lo accompagna fino al campo di Traiskirchen, dove la polizia
gli dice che è in Austria. “Il freddo percuoteva violentemente il mio corpo, racconta Marcus, e
questo campo non è di sicuro il luogo più allegro del mondo, ma al mio arrivo, dopo il viaggio
estenuante, faceva caldo, c‟era il necessario per dormire e mangiare, e, soprattutto, mi era
permesso restare senza essere minacciato di niente...”.
accesso libero, equo e universale ai saperi
Daniel. L’Austria per caso
Daniel. L’Austria per caso
La storia di Daniel comincia nel piccolo villaggio di Boya, nel sud del Camerun. Nato nel 1981,
compie studi scientifici all‟università e poi torna al villaggio, dove non gli si offre alcuna
prospettiva. Nel 2004, dopo un primo tentativo fallito, decide di compiere il grande passo e di
lanciarsi nell‟avventura europea. Destinazione Bochum, in Germania, dove vive una sua amica.
Prima tappa: Yaoundé, per ottenere il sesamo magico, un visto Schengen. Il visto gli viene
rifiutato in diversi consolati (di Germania, Spagna e Italia) prima di ottenerlo finalmente in
quello francese. Daniel, però, è rimasto diversi giorni nella zona della “strada delle
Ambasciate”, luogo conosciuto dai poliziotti corrotti che vi impongono un racket ai danni dei
candidati all‟esilio, condannati a dormire per strada in attesa dell‟ipotetico documento che apre
le porte dell‟Europa. Daniel non vi scappa ma, fortunatamente, conserva una parte del suo
denaro nascosto nelle scarpe.
Di ritorno a Boya, deve raggiungere un porto nigeriano. È impossibile passare per la frontiera
terrestre: il viaggio avverrà dunque via mare. Due ore di motoscafo lo portano fino a Malabo, in
Guinea Equatoriale; da lì, un‟altra barca lo porta in Nigeria, dove incontra il suo “scafista”.
Chiuso nel fondo della stiva di un cargo, impiega una settimana per raggiungere Accra, nel
Gana, e si imbarca sul volo regolare di Air France per Parigi.
accesso libero, equo e universale ai saperi
A Parigi, il suo destino precipita. Per una serie di casi infelici, non raggiungerà mai la città
tedesca di Bochum. L‟impiegato dello sportello della gare du Nord gli vende un biglietto per la
Germania, ma via Svizzera anziché via Belgio. Daniel cambia stazione, prende il treno ed è
respinto alla frontiera svizzera, dove il suo visto non è valido. Torna a Parigi dove, per la
seconda volta, gli viene venduto un biglietto... per l‟Italia, mentre credeva di partire per
Bochum. Arrivato nella stazione di Milano, non capisce nulla, non sa dov‟è... Vaga due giorni
per la stazione, vende i suoi vestiti per potersi comprare un biglietto del treno e poi del bus per
Innsbruck, che finalmente raggiunge dopo aver compiuto a piedi l‟ultima decina di chilometri.
Passerà ancora una settimana in stazione e dormirà, con un freddo glaciale, in uno stadio di
calcio, prima che un passante gli consigli di recarsi al posto di polizia. Passa allora ventiquattro
ore in prigione, poi viene trasferito per due mesi a Salisburgo in un centro per richiedenti asilo,
dove resterà tre mesi in condizioni sociali e sanitarie che definisce “atroci”. In seguito viene
trasferito per due mesi al centro di Traiskirche, vicino a Vienna, e ritorna in Bassa Austria dove,
vivendo in una pensione lontana dal centro della città, aspetta ancora che la sua domanda di
asilo venga accettata. Alla fine, il viaggio di Daniel è durato due anni.
Djewe. Solo andata
Djewe. Solo andata
La storia di Djewe è spettacolare, ma non tanto per la complessità dell‟itinerario compiuto: il
suo è stato abbastanza semplice, un volo diretto Africa-Europa... No, la storia di Djewe è
incredibile piuttosto per la catena di avvenimenti che hanno impedito il suo ritorno in Camerun.
accesso libero, equo e universale ai saperi
Nel 1995, Djewe viene invitato in Austria per partecipare a un congresso. Deve presentarvi la
situazione del giornalismo in Camerun, caratterizzata soprattutto dalla difficoltà di esercitare
questa attività in modo indipendente in un paese dove la repressione è feroce.
Munito del suo visto Schengen, si imbarca sul volo regolare di Air France diretto a Parigi,
Charles de Gaulle, dove lo aspetta la corrispondenza per Vienna. Allo sbarco dall‟aereo, però,
viene fermato e maltrattato dai doganieri per alcune ore, perde la corrispondenza, per poi essere
alla fine dirottato su un altro aereo. Il congresso dura una settimana, durante la quale tutto ha
luogo normalmente...
Quando tutto si è concluso, Djewe si reca all‟aeroporto in largo anticipo per imbarcarsi con
calma. Improvvisamente, si sente chiamare dagli altoparlanti del terminal e si presenta
all‟ufficio informazioni, dove la hostess gli dà un pezzo di carta con un messaggio e un numero
di telefono da richiamare con urgenza. Sono gli organizzatori del congresso che lo supplicano di
non salire sull‟aereo. Delle informazioni provenienti dal Camerun lasciano pensare che sarà
catturato dalla polizia all‟arrivo a Douala e rinchiuso in prigione. Più tardi saprà che nello stesso
momento sua madre veniva arrestata e imprigionata.
È tutta una catena di avvenimenti, come in un in brutto sogno: l‟aereo decollerà dopo tre minuti,
ci sono ancora da passare i controlli di sicurezza e c‟è da raggiungere il gate di imbarco. Djewe
ha esattamente tre minuti per decidere del proprio destino. Le opzioni? Rinunciare a rivedere la
propria famiglia e gli amici per anni, perdere il lavoro, ma avere la certezza di continuare a
vivere, oppure tornare nel proprio paese e rischiare di farsi uccidere nelle sinistre prigioni di
Paul Biya.
In quel momento Djewe decide di “mancare” il proprio aereo e si reca in centro città per
presentarsi all‟ufficio dei richiedenti asilo. Comincia un anno da incubo. Deve instancabilmente
provare che la sua vita è in pericolo in Camerun ad agenti dell‟amministrazione austriaca, che
continuano a non credergli e che non smettono di provare a intrappolarlo con domande
contraddittorie. Eppure è aiutato da colleghi austriaci che testimoniano per lui. La sua prima
domanda di asilo è respinta. Fa appello e ottiene infine, qualche mese più tardi, una risposta
positiva. Da allora Djewe, perfettamente integrato, vive e lavora a Vienna, munito di un titolo di
soggiorno illimitato...
accesso libero, equo e universale ai saperi
Gabriel. Un’epopea nell’Africa occidentale
Gabriel. Un’epopea nell’Africa occidentale
Gabriel, originario della Guinea Bissau, porta a termine i suoi studi di medicina all‟università di
Lomé (Togo). È membro attivo dell‟Unione delle forze di cambiamento (UFC), partito che si
oppone al generale Eyadema, che all‟epoca governa il paese con il pugno di ferro. Durante una
notte di repressione, però, Gabriel è minacciato e deve fuggire in macchina verso il Benin. Poi,
continua la sua fuga in taxi collettivo verso il Burkina Faso via Niamey (Niger).
Resta sei mesi in Burkina Faso, dove lavora nei mercati di Ouagadougou e di Koudougou.
Successivamente, riparte per Bamako, in Mali, dove per un anno vive di nuovo di piccoli lavori.
Infine raggiunge Conakry, in Guinea, dove fonda una clinica privata. Ci resterà circa quattro
anni, e sarà tra l‟altro ingaggiato come medico volontario per lavorare nei campi di rifugiati di
Cancan e Nzérékoré. Siamo allora nel mezzo della guerra in Sierra Leone e in Liberia: centinaia
di migliaia di persone fuggono verso la Guinea per scappare ai combattimenti e al terrore.
Vittima di racket, Gabriel deve lasciare Conakry. Raggiunge Bissau, dove lavorerà per un anno
per conto di missionari brasiliani. Diviene responsabile dell‟organizzazione dei giovani del
Partito della rinnovazione sociale (PRS) del presidente Kumba Yala, rovesciato poi nel
settembre 2003. Gabriel è allora arrestato e trasferito in una prigione militare. Un giorno, i
prigionieri sono portati nella boscaglia, e, per una coincidenza straordinaria, arrivano proprio
vicino a Obiam, il villaggio di cui Gabriel è originario. Conosce la regione come le sue tasche.
accesso libero, equo e universale ai saperi
Dopo essere riuscito a scappare ai suoi carcerieri, raggiunge la capitale, distante quaranta
chilometri, a nuoto e a piedi.
Viene nascosto presso i missionari brasiliani e spedito la notte stessa su un piccolo peschereccio
verso la Casamance. Da Ziguinchor raggiunge Dakar in un taxi collettivo. Prosegue il suo
viaggio e si ferma quattro mesi nelle isole di Capo Verde. Di ritorno in Senegal, si nasconde di
nuovo da altri missionari per un mese, il tempo di far fare un visto Schengen.
Perché l‟Austria? “Mi sono ricordato dei miei corsi di storia, della prima guerra mondiale e
dell‟impero austro- ungarico”, spiega...
Si imbarca su un volo regolare di Alitalia per Roma con una corrispondenza per Vienna, tutto
questo dopo essersi preoccupato di effettuare una prenotazione a suo nome per tutt‟altro tragitto,
al fine di confondere le tracce... Sbarca quindi regolarmente in Austria e incontra per caso a
Vienna quello che chiamerà “il suo piccolo angelo”, una persona che si prenderà cura di lui, gli
darà alloggio e lo aiuterà a compiere tutte le pratiche per la domanda di asilo. Gabriel subirà più
volte la brutalità della polizia viennese. Alla fine, la sua epopea sarà durata dieci anni.
accesso libero, equo e universale ai saperi
Pregiudizi e stereotipi
Il termine stereotipo ( dal greco stereòs =
rigido e tòpos =impronta), utilizzato in
ambiente tipografico per indicare la
riproduzione di immagini a stampa per mezzo
di forme fisse, venne introdotto per la prima
volta nelle scienze sociali da Walter
Lippmann nell‟ambito di uno studio sui
processi di formazione dell‟opinione pubblica
(1922). Secondo Lippmann il rapporto
conoscitivo con la realtà esterna non è diretto
ma mediato dalle immagini mentali che di
quella realtà ciascuno si forma. Tali immagini (gli stereotipi appunto) altro non sono se non
delle semplificazioni grossolane e piuttosto rigide che il nostro intelletto costruisce quali
“scorciatoie” per comprendere l‟infinita complessità del mondo esterno. Questo processo di
semplificazione e il suo esito non dipendono da un‟arbitraria decisione individuale ma da
modalità stabilite culturalmente dal gruppo. Proprio per questo loro carattere di costruzione
mediata socialmente, gli stereotipi rivestono una funzione in qualche modo difensiva
dell‟identità del gruppo che li ha prodotti poiché concorrono al mantenimento del sistema
(sociale) che li ha generati. Per capire più a fondo il modo di funzionamento degli stereotipi è
necessario inoltre tener conto di alcune importanti variabili rispetto alle quali essi possono
venire distinti:
 Gli stereotipi possono essere caratterizzati da diversi livelli di condivisione sociale ossia,
ad esempio nel caso dello stereotipo etnico, l‟immagine che un gruppo si fa di un altro
può essere più o meno diffusa fra i suoi componenti;
 Gli stereotipi possono essere caratterizzati da diversi livelli di generalizzazione: ad
esempio, sempre nel caso dello stereotipo etnico, data una certa immagine di un gruppo,
si può essere convinti che pressoché tutti gli individui appartenenti a quel gruppo
possiedano le caratteristiche che lo contraddistinguono, oppure che sussistano talmente
tante eccezioni che è necessario stabilire volta per volta quanto l‟individuo che si ha di
fronte corrisponda allo stereotipo stesso;
 Infine gli stereotipi possono essere più o meno rigidi, ossia più o meno mutabili.
Etimologicamente il termine pre-giudizio si
riferisce ad un giudizio precedente all‟esperienza,
emesso cioè in assenza di dati sufficienti e quindi
potenzialmente errato. Nell‟ambito delle scienze
sociali il concetto di pregiudizio si arricchisce di
due ulteriori specificazioni: da una parte esso
viene sempre più spesso utilizzato in riferimento
a gruppi sociali generalmente minoritari,
dall‟altro viene identificato con un giudizio
sfavorevole nei confronti del gruppo -o
individuo- oggetto del pregiudizio stesso.
Secondo questa definizione il pregiudizio sarebbe allora una predisposizione a percepire,
giudicare e agire in maniera sfavorevole nei confronti di gruppi diversi dal proprio.
Caratteristica saliente del pregiudizio - sia nell‟accezione più ampia di giudizio precedente
accesso libero, equo e universale ai saperi
all‟esperienza che in quella sociologica di atteggiamento sfavorevole nei confronti di altri
gruppi- è il suo essere d‟orientamento per l‟agire concreto.
Termine introdotto nel 1906 dal sociologo e
antropologo americano W.G. Sumner (18401910), designa una concezione per la quale il
proprio gruppo è considerato il centro di ogni
cosa e tutti gli altri sono classificati e valutati
in rapporto a esso. L‟etnocentrismo comporta
una prospettiva secondo cui tutte le società
vengono collocate lungo una scala evolutiva in
cui le società occidentali, civilizzate,
sviluppate e modernizzate occupano il gradino
più alto, mentre le società "primitive",
tradizionali e sottosviluppate occupano il
gradino più basso e non hanno ancora subito le
necessarie trasformazioni che, attraverso
uguali processi evolutivi, le innalzino sino a
noi. Questa attitudine all‟autopreferenza di gruppo è universalmente osservabile in tutte le
società e può esemplificarsi in atteggiamenti diversi: nella tendenza a valutare ogni cosa
secondo i valori e le norme proprie al gruppo d‟appartenenza del soggetto, come se questo fosse
l‟unico; nella tendenza propria ai membri di ogni gruppo umano a credersi migliori dei membri
degli altri gruppi; nella tendenza a manifestare atteggiamenti favorevoli nei confronti del gruppo
di appartenenza, combinati ad atteggiamenti sfavorevoli nei confronti di quanti non vi
appartengano, spesso accompagnati da pregiudizi e stereotipi negativi.
Il razzismo come teoria organica e come
movimento organizzato è un fenomeno
recente e affonda le sue radici nel nascente
nazionalismo europeo della seconda metà del
XIX sec. Precursore del moderno razzismo fu
il francese J. A. Gobineau (Saggio
sull'ineguaglianza delle razze umane, 18531855), cui si dovettero la prima
interpretazione razziale della storia e la tesi
della necessaria supremazia della razza bianca
pura, o razza ariana, identificata con i
"Germani" in senso stretto (biondi dolicocefali
del Nord della Francia, del Belgio e delle Isole
Britanniche). Il razzismo a base biologica,
così come propinato da J. Gobineau è oggi
totalmente in disuso, almeno dal punto di vista
della teoria. Lo stesso concetto di razza,
fondato su presunte differenze biologiche è
senza alcun senso. Come sostengono L. ed F.
Cavalli Sforza (Chi siamo. La storia della
diversità umana, Mondadori, Milano, 1995) “i
gruppi che formano la popolazione umana non
sono nettamente separati, ma costituiscono un
continuum. Le differenze nei geni all‟interno di gruppi accomunati da alcune caratteristiche
fisiche visibili sono pressoché identiche a quelle tra i vari gruppi e inoltre le differenze tra
accesso libero, equo e universale ai saperi
singoli individui sono più importanti di quelle che si vedono fra gruppi razziali.(...)”. Il razzismo
“riconosce”ed anzi "esaspera" le differenze: lo scopo del riconoscimento e della "valorizzazione
delle differenze" è il dominio, il permanere di una relazione di dominio quale quella tra
accusatore e vittima. Apice del razzismo è la produzione di un discorso capace di persuadere il
diverso a cui si riferisce di essere realmente "inferiore". Tuttavia, se è vero che il razzismo
(soprattutto a base genetica) non trova oggi difensori è anche vero che forme di razzismo
operano pressoché ovunque nel mondo, esprimendosi in particolare nel vissuto quotidiano. Il
razzismo oggi è la posizione di chi ritiene necessario difendere e/o preservare le differenze
culturali dai processi di massificazione ed omogeneizzazione tipici delle società occidentali e
per questo, anche “per il bene” delle culture altre, pensa che le società non debbano in nessun
modo essere multiculturali o interculturali e che quindi le differenze e le alterità vanno difese
ma, proprio per questo... ognuno a casa propria. In sede educativa e sociale il rischio di questo
velato razzismo è che tende a concretizzarsi in una specie di apartheid dove le culture altre sono
sì riconosciute ma "recintate" e conservate in appositi contenitori sociali senza possibilità
significative di interagire sia tra loro che con le culture autoctone in vista della costruzione di
una società intesa come "casa comune" ove ad ognuno competono uguali diritti ed uguali doveri.
accesso libero, equo e universale ai saperi
LE DIMENSIONI
DEL FENOMENO
A causa di migrazioni interne allo stesso paese o internazionali, sono quasi un miliardo le
persone che oggi nel mondo si trovano a vivere in una regione diversa da quella di nascita. Un
miliardo significa un migrante ogni sei persone sulla terra. Le migrazioni internazionali, quelle
che comportano la condizione dell'essere e del rimanere stranieri ("non nazionali") in uno Stato
di cui non si ha la cittadinanza, riguardano una cifra meno impressionante, ma in ogni caso
notevole: più di 100 milioni di persone. Di queste (130 milioni alla fine del '98), l'Unione
Europea ne registrava dentro i suoi confini 19.000.000 (il 14%) e l'Italia 1.250.000 (lo 0,9%).
Tra gli stranieri residenti nei vari Paesi dell'Unione Europea si fa spesso distinzione tra
"comunitari" (cittadini di uno o l'altro degli Stati che aderiscono all'UE) e noncomunitari"
(cittadini di Paesi che non aderiscono all'UE). In Italia viene spesso usato il termine
extracomunitari per definire gli immigrati.
Extracomunitari: "è una parola che abbiamo inventato noi, in italiano (in altre lingue
non si trova quasi mai: piuttosto extraeuropei); e forse perché goffa, impronunziabile,
troppo lunga e burocratica, è entrata nell'uso. ...Questo temine accomuna, con un duplice
meccanismo: ci fa sentire, "noi", parte della Comunità Europea; e segnala che gli altri
sono, a loro volta accomunati dall'extra: esterni".
(da: L. Balbo e L. Manconi, I razzismi reali, op, cit. p.59)
Le migrazioni non hanno una direzione obbligata
"Sui circa 105 milioni di migranti sparsi nel mondo, più della metà vivono nei paesi poveri,
anche se sono quelli ricchi a lamentarsi di più.
Immigrati
al
31/12/1985
Austria
308.800
Belgio
860.600
Danimarca 117.000
Finlandia
17.000
Francia
3.594.000
Germania
4.512.700
Grecia
111.100
Irlanda
91.300
Italia
318.700
Lussemburg 101.600
o
Paesi Bassi 552.500.
Portogallo 79.600
Regno
1.785.000
Unito
Spagna
293.200
Svezia
390.800
Immigrati al
31/12/1998
739.837
864.616
256.276
85.060
3.970.786
7.365.833
161.148
111.100
1.250.214
152.900
662.372
177.774
2.120.600
719.647
532.000
accesso libero, equo e universale ai saperi
In particolare l'Italia, rispetto a poco più di un
milione di stranieri, conta ancora cinque milioni
di italiani sparsi nel mondo. L'emigrazione italiana, definita da qualche studioso "madre di tutte
le migrazioni moderne", serve a ricordare che l'Italia ha fatto e resta parte di questo contesto
internazionale con 30 milioni di espatri nel corso di un secolo, quasi mezzo milione di pensioni
in pagamento all'estero e ben 60 milioni di oriundi.
Lo stesso avviene per i 26 milioni tra rifugiati e altre categorie assistite dall'Alto Commissariato
delle Nazioni Unite all'inizio del 1996. L'Europa occidentale, nel corso degli anni 90 ha visto
aumentare di dieci volte le persone da assistere (attualmente quasi otto milioni), tuttavia
accoglie solo il 29% dei rifugiati, un compito tutto sommato più agevole rispetto a quanto si fa
in altre parti del mondo. Basti pensare che i paesi dell'ex area sovietica sono alle prese con più
di 3.600.000 persone tra rifugiati, sfollati e trasferimenti involontari. In Italia, i richiedenti asilo
sono stati nel 1995 appena 1.732, in prevalenza dall'Africa e dall'Europa dell'Est, mentre i
titolari di permesso di soggiorno, concessi nel corso di questi anni per motivi umanitari, sono
risultati 56.000". (Da: Caritas di Roma, Dossier statistico sull'immigrazione 1996).
U.E.
13.133.900
19.170.163
1.1 - L'immigrazione in Italia: dati e sensazioni
L'Italia da paese d'emigrazione (si calcola che non meno di 9 milioni di italiani non hanno più
fatto ritorno in patria durante gli ultimi 100 anni) è diventata, a partire dagli anni '70, un paese di
immigrazione, che accoglie soprattutto stranieri provenienti dal Sud del mondo. Nella danza dei
numeri sono state indicate le cifre più disparate, spesso basate su un eccessivo allarmismo. Gli
unici dati ufficiali cui fare riferimento sono quelli forniti annualmente dal Ministero degli Interni
e che indicano il numero degli stranieri presenti in Italia, ad una certa data e con regolare
permesso di soggiorno. Ebbene, gli stranieri presenti in Italia con regolare permesso di
soggiorno, al 31 dicembre 1999, sono 1.251994. Se da questa cifra sottraiamo gli europei, gli
americani e gli svizzeri., ricaviamo che gli immigrati in senso stretto, cioè coloro che
provengono da Paesi del Sud del mondo, in cerca di lavoro e di condizioni di vita migliori, sono
1.032.262. Questi ultimi non costituiscono pertanto numericamente quell' "esercito" di cui la
maggioranza degli organi di stampa parla. Anche aumentando del 10 - 20 % il numero per
includervi gli irregolari, la percentuale di immigrati provenienti dal Sud del mondo sul totale
della popolazione italiana (circa 57 milioni di abitanti) non arriva a superare il 2%. Le contenute
dimensioni del fenomeno contrastano con l'innegabile preoccupazione con la quale governo ed
opinione pubblica guardano all'immigrazione, preoccupazione che deriva non tanto
dall'imponenza del fenomeno, quanto dalle deficienze croniche delle strutture pubbliche e dalle
ormai storiche contraddizioni del nostro sistema economico che il flusso immigratorio porta allo
scoperto. Per quanto riguarda gli Stati dell'Est, è da rilevare che, dopo una prima impennata del
flusso migratorio in direzione Est - Ovest, causata dalla libertà di espatrio riconosciuta ai
cittadini dell'Est solo a partire dagli anni 90, i flussi migratori si sono poi assestati e non é stata
registrata quell'invasione che il crollo del muro di Berlino aveva fatto temere.
accesso libero, equo e universale ai saperi
MIGRAZIONI: UNA REALTA’ DI SEMPRE
La storia dell‟uomo è caratterizzata da una costante mobilità di singoli, di gruppi, talvolta di
interi popoli, da una regione all‟altra della terra, alla ricerca di migliori condizioni di vita.
Se quella economica fu la causa prima dei movimenti migratori, accanto ad essa altre ragioni
diedero impulso al fenomeno: guerre, conflitti sociali, intolleranza religiosa. Dalla diaspora del
popolo ebraico, conseguente alla conquista romana della Palestina, fino al dramma recente dei
popoli curdo, vietnamita, tamil, eritreo: la storia del genere umano è segnata da questi dolorosi
spostamenti collettivi.
Risalendo alla preistoria, nell'era quaternaria, con la fine delle glaciazioni si assiste all'interno
del nostro Continente ad un aumento delle genti provenienti da Asia e Africa.
Nel II° millennio a. C. i due fenomeni migratori più importanti sono legati a due gruppi etnico-
linguistici: i semiti e gli indoeuropei. I primi, provenienti forse dalla penisola arabica,
penetrarono in Mesopotamia imponendosi alle popolazioni sumeriche. Da allora in poi
l'elemento semita prevarrà nel Vicino Oriente dando origine anche alle lingue della zona.
accesso libero, equo e universale ai saperi
49.808
Sicilia
15.315
Calabria
Puglia
Basilicata
3.110
35.565
68.159
Campania
2.039
Molise
18.933
Abruzzo
35.777
Marche
Lazio
Umbria
26.068
114.972
Toscana
38.784
Liguria
113.048
43.432
Friuli V.G.
Emilia Romagna
Fonte: Caritas di Roma
Veneto
Trentino A.A.
Lombardia
Valle d'Aosta
Piemonte
2.494
31.799
83.811
139.522
245.666
308.408
stranieri con permesso di soggiorno al 31/12/2000
“Migrare é una caratteristica di molte specie animali, uomo compreso. Gli individui
umani da tempo immemorabile si sono mossi in gruppi di luogo in luogo alla ricerca di
alimenti o per evitare pericoli. Leggende e resti archeologici diversi dimostrano le tracce
di antichi movimenti.
La diffusione stessa dell'umanità primitiva dalla culla africana
all'Eurasia é un fenomeno migratorio che col passare delle
generazioni ha plasmato le diverse popolazioni adattandole alle
differenti condizioni ambientali. I fenomeni migratori hanno
trasformato le terre e i continenti e la composizione biologica,
etnica e linguistica dei loro abitanti.
Anche se negli ultimi 400 anni le grandi ondate migratorie sono state principalmente
operate dalla sottospecie caucasica, altre popolazioni vi hanno contribuito e per il passato
esistono documenti che attestano migrazioni di interi popoli.
Da un punto di vista psicologico é interessante una distinzione tra gli individui migranti e
i cosiddetti sedenti, distinguere cioè quelli più inclini, a parità di condizioni, a rimanere
nell'area in cui sono nati e cresciuti rispetto a quelli più interessati a muoversi in altri
territori. Le basi biologiche di questo spirito migratorio sono presenti in tutte le specie
animali e sono legate, a livello individuale, allo spirito di ricerca del partner o a migliori
mezzi di sussistenza, e a livello collettivo, alla ricerca di migliori fonti alimentari e di
condizioni climatiche più idonee.
Nell'uomo i movimenti migratori sono il risultato anche di pressioni;motivate da
differenze economiche fra popolazioni e sono l'espressione di un trend verso una
equalizzazione di tale diversità. Le tendenze migratorie di una popolazione possono
essere stimolate quando le risorse disponibili sul territorio sono state ridotte a causa di
disastri climatici e di altre calamità. Altro importante fattore é l'eccessiva crescita della
popolazione. Il fenomeno migratorio si é verificato in tutti i tempi, fin da quando le
prime forme umane si originarono in Africa tre o più milioni di anni fa, anche se non
come processo continuo. Le motivazioni sono la causa di molti cambiamenti, anche
recenti, nelle caratteristiche fisiche delle popolazioni umane.
Vi sono comunque quattro tipi di movimenti nello spazio delle popolazioni: - i
movimenti migratori tribali e la conquista di nuovi territori: questo processo in epoche
attuali ha la sua continuità nelle occupazioni militari e nella colonizzazione; - il
trasferimento forzato di popolazioni, inclusa l'acquisizione di prigionieri, il trasferimento
di schiavi e l'espulsione di minoranze per ragioni politiche o religiose; - il movimento di
persone per contratti di lavoro o per accordi prefissati; - il libero movimento di individui.
Il termine di migrazione viene generalmente riferito al libero movimento di individui, ma
gli altri tipi di movimento stati forze altrettanto importanti nel determinare la
distribuzione attuale delle popolazioni umane sul Globo."
(Da Brunetto Chiarelli, Migrazioni. Antropologia e storia di una rivoluzione in atto. Firenze,
Vallecchi, 1992, p. 5-6)
accesso libero, equo e universale ai saperi
Gli
Indoeuropei
provenienti dalle steppe
danubiane si sovrapposero
e si mescolarono alle
popolazioni
indigene
dell‟Europa centrale e
meridionale, dando origine
a grandi civiltà come
quella greca.
Anche il Medioevo vide
imponenti
on-date
migratorie che, dal Nord
Europa e da diverse
regioni
asiatiche,
si
spinsero verso le terre più
fertili del Continente e
che per alcuni secoli
provocarono
conflitti
anche cruenti con le
popolazioni locali. Più
tardi gli Arabi si spinsero
fino alla penisola iberica,
occupandola per alcuni
secoli
quasi
completamente.
Dalla
seconda metà del secolo
XIV i Turchi entrarono in
Europa riuscendo ad
arrivare fino a Vienna.
2.1 Si parte per l'America
La scoperta-conquista delle Americhe attivò un flusso continuo di immigrati dall'Europa, che
crebbe di intensità a partire dal primo Ottocento.
Si calcola che dal 1820 al 1914 circa 40 milioni di europei siano sbarcati negli Stati Uniti. Lo
sviluppo industriale aveva portato al rapido declino della società rurale che per secoli era stata
alla base del sistema sociale europeo. La diminuzione del tasso di mortalità e una tendenza al
sovrappopolamento, la nuova offerta di lavoro nelle città industriali e la frantumazione del
sistema socio-economico del villaggio rurale spinsero i contadini ad abban-donare la terra per
avventurarsi nelle grandi città americane.
I paesi maggiormente coinvolti furono l'Irlanda, la Polonia, la Germania, e i Paesi del sud
dell'Europa. Talvolta furono delle crisi locali ad incrementare l'emigrazione: in Irlanda una
carestia dovuta ad un fungo nocivo alle patate (unico cibo per 1/3 della popolazione) causò la
morte di circa un milione di persone e ne spinse all'emigrazione circa un altro milione e mezzo.
Sempre in Irlanda le pesanti tasse e le violente persecuzioni contro i cattolici e i presbiteriani da
parte del governo inglese indussero circa il 72% degli Irlandesi, nel periodo dal 1851 al 1901, ad
emigrare.
Negli ultimi anni dell'ottocento anche l'Italia fu intensamente coinvolta in questo flusso tanto
che circa 7 milioni di italiani lasciarono le regioni agricole del sud e del nord-est della Penisola
per tentare la fortuna oltre oceano.
Sebbene sia difficile ricostruire l'esatta composizione professionale dell'emigrazione italiana non esistono in merito statistiche ufficiali complete - si può ritenere che essa attinse soprattutto
ai serbatoi delle campagne e a quella dei lavoratori manuali con scarsa qualificazione (muratori,
manovali, operai in genere). Di conseguenza gli italiani o si diressero verso le grandi campagne
del Sudamerica, Argentina e Brasile, dove cercarono un clima e un ambiente simile a quello
lasciato, o contribuirono alla creazione di imponenti fenomeni di proletarizzazione nei quartieri
più poveri delle grandi città statunitensi (New York, Chicago).
Anche il Veneto contribuì massicciamente a questi fenomeni emigratori: dal Veneto provenne
infatti circa un terzo
dell'emigrazione
italiana di quegli anni.
Nel
solo
periodo
Quando l’emigrazione
1876/1901,
secondo
le
era impedita!
statistiche
ufficiali
dell'epoca,
lasciarono
“Per molto tempo in Europa ci si è preoccupati più delle conseguenze dell‟emigrazione
che di quelle dell‟immigrazione. La discussione in tal senso risale al diciottesimo
definitivamente
la
secolo………..
regione
più
di
400.000
All‟epoca l‟emigrazione era considerata un salasso e si cercava di limitarla e persino di
persone,
mentre
vietarla. In molti stati si condannavano a punizioni corporali e alla pena capitale non solo
chi cercava di emigrare clandestinamente, ma soprattutto chi faceva opera di proselitismo
1.500.000 emigrarono
o aiutava a espatriare…..Già Luigi XIV faceva sorvegliare strettamente le frontiere per
tempo-raneamente: se
impedire ai suoi sudditi di abbandonare il paese, e in Inghilterra il divieto di espatrio per
ne andò così circa il
lavoratori specializzati fu in vigore fino alla metà del diciannovesimo secolo”
15% della popo-lazione
(da: H. M. Enzensberger, La grande migrazione, Torino, Einaudi, 1993, pag.23)
regionale.
L'emigrazione riguardò
in particolare le zone di
pianura: emigrarono soprattutto i piccoli proprietari e quelli che pur essendo contadini non
possedevano una proprietà; spesso se ne andavano anche famiglie intere che vendevano tutto per
pagarsi il viaggio e garantirsi un minimo di sostentamento all'arrivo.
La destinazione preferita dai contadini veneti fu l'Argentina e il sud del Brasile, paesi che
necessitavano di manodopera da destinare alla coltivazione della terra.
accesso libero, equo e universale ai saperi
Immigrazione negli Stati Uniti dal 1820 al 1978
Tot. Immigrati
Paese
% sul tot.
Germania
6.978.000
14.3
Italia
5.294.000
10.9
G. Bretagna 4.898.000
10.0
Irlanda
4.723.000
9.7
Austria
4.315.000
8.9
Canada
4.105.000
8.4
Russia
3.374.000
6.9
Scandinavia 2.525.000
5.2
2.3 E negli ultimi quarant'anni?.
"Negli anni '50 e '60, almeno in Europa, le migrazioni internazionali assolvono una funzione precisa: quella di
fornire ai paesi che ne abbisognavano la manodopera necessaria alla ricostruzione post-bellica e al successivo
lungo periodo di espansione"
(Melotti)
Nello sviluppo dell'economia industriale europea si è assistito a migrazioni di popolazioni da
uno spazio periferico verso uno spazio centrale dell'economia capitalista, con la prospettiva di
un lavoro manuale dipendente. In termini di popolazione le migrazioni non sono altro che la
manifestazione di uno sviluppo ineguale. Concretamente in questa prima fase i flussi
provenienti dai Paesi dell'Europa meridionale e del bacino del Mediterraneo sono spesso
sollecitati da precise politiche di reclutamento dei paesi dell'Europa centrosettentrionale. Se
guardiamo alla storia recente il 1973 segna il confine temporale tra due periodi di flussi
migratori ben diversi. Dal secondo dopoguerra al 1973 le migrazioni rispondono ad una reale
domanda di lavoro da parte dei paesi dell'Europa centrosettentrionale.
Se guardiamo alla storia recente il 1973 segna il confine temporale tra due periodi di flussi
migratori ben diversi.
Dal secondo dopoguerra al 1973 le migrazioni rispondono ad una reale domanda di lavoro da
parte dei paesi dell‟Europa centrosettentrionale, meta dei lavoratori provenienti dai paesi
mediterranei (Italia, Grecia, Spagna, Portogallo e Turchia). Nella seconda metà degli anni '60,
tuttavia, mentre calava drasticamente quest'ultimo flusso migratorio, si faceva più consistente
quello proveniente dalle ex-colonie degli stati europei.
Dopo il 1973 la recessione economica induce all'assunzione di politiche immigratorie più
restrittive, che frenano parzialmente l'arrivo di extraeuropei, mentre vengono incoraggiati i
rimpatri. Dalla seconda metà degli anni '70, gradualmente, i paesi della sponda nord del
Mediterraneo si trasformano da esportatori ad importatori di manodopera dagli altri continenti.
Dalla fine degli anni '80, in seguito ai processi di democratizzazione che hanno coinvolto i paesi
dell'Europa dell'Est, è stata riconosciuta o è in via di riconoscimento la libertà di espatrio. Ciò ha
reso possibile un importante flusso migratorio Est-Ovest.
Questo rapido excursus non pretende di esaurire la storia delle migrazioni, ma piuttosto di
stimolarne l'approfondimento, per meglio comprendere come e perché i movimenti migratori
abbiano costituito un forte elemento di sviluppo delle società umane. Non vi è dubbio, infatti,
che la mobilità costituisca uno dei metodi più ricorrenti nella storia dell'uomo per permettere il
riequilibro delle risorse sul territorio.
accesso libero, equo e universale ai saperi
Fortezza Europa?
"Tutti i paesi del mondo mantengono le porte aperte ai migranti provenienti da altre parti del mondo, purché abbiano specializzazioni
molto richieste, capitali sostanziosi da investire o stretti legami familiari nel paese stesso. Ma per chi non possiede tali caratteristiche, le
possibilità di ammissione sono alquanto limitate. Come dichiara con crudezza un analista, nei paesi industrializzati "il fabbisogno di
immigrati é finito e non tornerà più". Non é difficile spiegarne il perché. Durante il boom economico dei trent'anni successivi alla seconda
guerra mondiale, i paesi industrializzati del Nordamerica, dell'Europa occidentale e dell'Oceania avevano bisogno di forze di lavoro e
reclutavano attivamente immigrati provenienti da regioni quali il Nord Africa, l'Europa meridionale, il subcontinente indiano e i Caraibi.
All'inizio accettavano anche un gran numero di stranieri nel quadro di programmi di reinsediamento dei rifugiati; molti di essi originari
dell'Europa orientale, passata sotto il controllo comunista. Questa fase, però, ha avuto bruscamente termine alla metà degli anni '70,
quando il fabbisogno di immigrati poco qualificati é scomparso, soprattutto nell'Europa occidentale, sotto l'effetto combinato di diverse
tendenze, tra cui: - la fine del boom del dopoguerra e il successivo rallentamento della crescita economica; - il declino delle industrie
tradizionali, che occupavano molta manodopera, e l'introduzione di nuove tecnologie, che necessitavano di molto capitale ma di un minor
numero di lavoratori manuali; - l'aumento della disoccupazione e il fatto che i datori di lavoro potevano soddisfare le restanti necessità di
manodopera non specializzata impiegando donne e personale non dichiarato e clandestino; - l'incapacità dei governi di far rimpatriare i
lavoratori immigrati assunti con contratti a tempo determinato, sommata all'arrivo di nuovi immigranti nel quadro del ricongiungimento
familiare.
Queste e altre considerazioni hanno fatto si che, durante gli anni '70 e '80, la maggior parte dei paesi industrializzati
abbiano cessato di reclutare migranti non specializzati e abbiano introdotto leggi sull'immigrazione sempre più restrittive,
fornendo a volte ai lavoratori stranieri incentivi al rimpatrio. Ma proprio nello stesso tempo, andavano aumentando le
pressioni all'emigrazione nei paesi più sfavoriti: ristagno economico, crescita demografica, aumento della disoccupazione,
violenza sociale e instabilità politica, senza dimenticare l'espansione delle comunicazioni e dei trasporti di massa. Come
indica l'Istituto di Ricerca delle Nazioni Unite per lo Sviluppo Sociale, "si sta preparando un potente cocktail, composto da
un'accresciuta spinta all'emigrazione e da ostacoli sempre più severi all'immigrazione. Il numero dei potenziali migranti é
in continua crescita, ma nessun paese e disposto ad accoglierli".
(Da ACNUR, I rifugiati nel mondo. La ricerca delle soluzioni , 1995, pg.191-192).
accesso libero, equo e universale ai saperi
PREMESSE STORICHE DEGLI ATTUALI FLUSSI
MIGRATORI
Se vogliamo com-prendere le ragioni più recenti che stanno alla base degli attuali flussi
migratori dobbiamo partire dalla cause di carattere storico e politico: per i paesi del Terzo
Mondo analizziamo gli effetti del colonialismo e del neocolonialismo, per gli Stati dell‟Est la
difficoltà di passare dall‟economia collettivista a quella di mercato
3.1 Il Colonialismo
Uno dei fenomeni storici di maggiore peso nella storia mondiale è stato nell'ultimo quarto del
secolo XIX la spartizione del mondo in possedimenti coloniali e zone di influenza delle grandi
potenze europee.
Il colonialismo moderno è strettamente legato allo sviluppo capitalistico: la spinta
fondamentale derivò infatti dalla necessità di materie prime e sbocchi di mercato per i prodotti
finiti. Il dominio politico apparve come la migliore garanzia per gli investimenti economici delle
grandi potenze europee in Asia e in Africa.
In particolare durante il XIX secolo, il consolidamento del modello di produzione
capitalistico basato sulla proprietà privata dei mezzi di produzione e sul libero scambio fa sì che
il mondo venga considerato un unico grande mercato, dominato da potenti imprenditori
capitalisti. Esiste in questo modo la possibilità di realizzare ingenti guadagni a condizione che le
materie prime e i costi di produzione siano bassi e che le aree di investimento e di vendita siano
sempre più ampie.
Il sistema coloniale ha imposto un modello di divisione internazionale del lavoro in base al
quale ai Paesi dominati era riservato il ruolo di fornitori di materie prime del suolo e del
sottosuolo, a costi molto bas-si, anche grazie al lavoro della manodopera indigena o
appositamente deportata (schiavitù); ai Paesi colonialisti, tecnologicamente più avanzati,
spettava il compito di produrre i manufatti, beni a più alto valore aggiunto e dunque più
remunerativi.
Ma accanto agli interessi economici e politici,
altri fattori sociali ed ideologici determinarono la
spinta colonizzatrice: la sovrappopolazione
europea dovuta ad un forte incremento
demografico negli anni che vanno dal 1870 al
1914, la volontà di affermare il proprio prestigio e
potenza, l'ideologia imperialistica che sosteneva la
necessità per le nazioni "superiori" di farsi carico
del progresso dei paesi "inferiori" incapaci di
sfruttare le loro risorse economiche.
Gli effetti della colonizzazione sono stati
molteplici; con grande lucidità lo storico francese
Yacono ha scritto: " ... la più grande rivoluzione
di tutti i tempi è stata forse quella che, per mezzo
della colonizzazione, ha gettato l'europeo e i suoi
capitali come fermenti in mezzo a popolazioni
assopite, determinando uno sconvolgimento
demografico, economico e sociale assolutamente
imprevedibile e preparando l'entrata sulla scena
mondiale di quello che doveva essere il Terzo
Mondo."
(Cit. In R. Villari, Storia Contemporanea, Bari, Laterza, 1990).
accesso libero, equo e universale ai saperi
3.2 Il neocolonialismo
Nel secondo dopoguerra si assiste alla crisi definitiva del sistema coloniale. I movimenti
nazionalisti ed indipendentisti che si svilupparono nelle colonie durante i primi decenni del 900
portarono all'avvio di un processo di decolonizzazione, soprattutto nei Paesi africani ed asiatici
che, culminato durante gli anni '60, non si è ancora concluso. Due avvenimenti possono
assumersi come emblematici di questa fase: l'indipendenza riconosciuta all'India dalla Gran
Bretagna nel 1947 e la Conferenza di Ginevra nel 1954 in cui la Francia rinunciò alle sue pretese
sugli Stati Indocinesi.
All'indipendenza politica, tuttavia, non ha fatto seguito quella economica. Una volta
raggiunta
l'indipendenza,
questi Stati si sono trovati a
scegliere tra due modelli di
"Le multinazionali sono imprese produttive o finanziarie che controllano altre
società di nazionalità estera. Le prime multinazionali (petrolifere, minerarie,
sviluppo industriale: quello
alimentari) si costituirono intorno al 1880, ma la massima espansione si è
capitalistico occidentale e
avuta nel decennio tra il 1970 e il 1980. Le multinazionali si sono formate per
quello socialista sovietico.
agire liberamente all'interno di altre nazioni. Le società che esse controllano,
infatti, hanno la veste legale del paese in cui operano e quindi godono di tutti i
Scegliendo l'uno o l'altro,
vantaggi accordati alle società locali e magari negati alle società straniere.
oppure cercando di seguire una
Con questo stratagemma le multinazionali vogliono raggiungere due obiettivi
terza via che conciliasse la
fondamentali: 1) conquistare nuovi mercati in barba alle barriere commerciali
poste dagli Stati; 2) dislocare la produzione dove i costi (lavoro, materie
pianificazione sovietica con lo
prime, tasse, energia) sono più bassi. Secondo le statistiche delle Nazioni
sviluppo
delle
borghesie
Unite le multinazionali sono 35.000 e controllano 147.200 società. Il 90%
nazionali
e
dell'iniziativa
delle società multinazionali ha sede nei paesi del Nord, ma le società
controllate sono localizzate per il 50% nei paesi del Sud".
privata, la maggior parte degli
da Centro Nuovo Modello di Sviluppo - Nord/Sud, predatori, predati,
Stati ex-coloniali ha dovuto
opportunisti, pag.75
richiedere assistenza tecnica e
finanziaria alle Nazioni più
ricche. Lo sfruttamento da parte dei Paesi industrializzati ha potuto continuare, subordinando le
Nazioni del Sud del Mondo ad un nuovo "colonialismo" di carattere economico.
Fenomeno tipico del neocolonialismo sono le multinazionali, società di capitali di enormi
dimensioni, che dominano il mercato interno ed internazionale in regime di oligopolio.
accesso libero, equo e universale ai saperi
Le multinazionali
Dopo la seconda guerra mondiale si è verificato un boom degli investimenti privati all'estero
e la conseguente internazionalizzazione del commercio. Le protagoniste di questo nuovo
fenomeno sono state le aziende transnazionali dette anche multinazionali. Si tratta di imprese di
grandi dimensioni che dispongono di filiali disseminate nei vari paesi del mondo, che
controllano da un quarto a un terzo di tutta la produzione del pianeta e che sono soprattutto
molto attive nel campo della ricerca e dell'innovazione tecnologica. La loro caratteristica è
quella di produrre in più paesi e poter inoltre diversificare le proprie attività investendo in vari
settori, in modo da coprire una vasta gamma della produzione mondiale. Ad esempio la ITT
(International Telephone and Telegraph) che aveva iniziato la propria attività nel campo delle
telecomunicazioni, si è estesa successivamente nei settori dei prodotti di bellezza, degli hotel,
delle assicurazioni, dei surgelati, dei tessili, delle cartiere ecc. La potenza delle multinazionali
sta proprio nella loro fortissima dinamicità, nella capacità di ripartire i rischi su base mondiale
o plurisettoriale, prevedendo e correggendo gli effetti negativi delle fluttuazioni del mercato
internazionale. Questi colossi finanziari ( il loro bilancio supera spesso quello di interi Stati,
come ad esempio la General Motors che ha un bilancio superiore a quello dell'Austria o della
Danimarca) localizzano le diverse fasi del ciclo produttivo (ricerca, progettazione, costruzione
dei componenti, assemblaggio, commercializzazione) in quei Paesi che offrono costi di gestione
più bassi e quindi profitti più alti. Nel 1988 nella graduatoria delle 500 maggiori multinazionali
176 erano statunitensi. La crescita delle società transnazionale è tale che ormai si calcola che
controllino, a livello mondiale, 1/3 della produzione industriale, 2/3 del commercio, l' 80% dei
brevetti e 1/3 degli operai. Anche se non tutte le grandi società multinazionali possono essere
considerate come la radice di ogni male, in quanto la loro condotta varia da impresa a impresa,
da paese a paese, gli Stati industrializzati hanno promulgato leggi anti-trust (anti monopolio)
per difendersi dalla loro invadenza. Nel "Rapporto Brandt" si legge: "Le multinazionali sono
state oggetto di dure critiche anche per le attività commerciali e politiche non etiche... esse sono
state e sono in grado di procedere ad operazioni di carattere globale sfuggendo a controlli
effettivi da parte degli Stati nazionali o di Organizzazioni internazionali; si sono dimostrate
capaci di trarre vantaggi da disordini economici verificatisi in alcune Nazioni...".
( cfr. W. Beretta Podini, Fame e squilibri internazionali, Firenze, Bulgarini, 1992).
accesso libero, equo e universale ai saperi
3.3 Il crollo del muro di Berlino
"Dopo la caduta del muro di Berlino nel 1989 e la dissoluzione dell'Unione Sovietica nel
1991 si temevano massicci spostamenti di persone verso l'Europa occidentale. Questi non si
sono verificati e al contrario vi sono stati spostamenti di stupefacente ampiezza all'interno della
CSI - Confederazione degli Stati Indipendenti - che raggruppa 12 delle 15 entità autonome
costituitesi dopo l'URSS. Il fenomeno é stato esaminato a Ginevra a fine maggio 1996 in una
conferenza internazionale promossa dall'ACNUR (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i
Rifugiati), dall'OIM e dall'OCSE - Ufficio per i Diritti Umani della Conferenza sulla sicurezza e
la Cooperazione in Europa. Dal 1989 ad oggi, o all'interno dello stato di appartenenza o da uno
Stato all'altro, si sono spostate 9 milioni di persone (uno ogni nove), escludendo tra l'altro i
migranti volontari per motivi economici e i militari rimpatriati."
(Da Caritas di Roma, Immigrazione. Dossier statistico 1996. Anterem ed. 1996).
Lo scenario migratorio del 2000
Quale scenario migratori si delineerà in Europa Occidentale, area caratterizzata da una bassa
crescita demografica, e in particolare in Italia? Cercare di prevederlo è indispensabile perché il
sistema delle quote deve tenere conto delle esigenze del mercato occupazionale e, ovviando alla
necessità della difficile ricerca tra domanda e offerta per ogni lavoro rimasto scoperto. Qui di
seguente ci soffermiamo sullo scenario che ipotizza il demografo Antonio Golini.
L‟Italia è un paese vicino ai paesi che si affacciano sul Mediterraneo e a quelli dell‟Est
europeo. Si tratta di paesi ad alto sviluppo
demografico,
dove
sono
invece
insoddisfacenti le situazioni economiche e
spesso anche quelle politiche. Questi
differenziali strutturali, tra i più alti mai
registrati, lasciano intendere che i flussi
migratori continueranno.
Nell‟Europa dell‟Est, poiché è prevista
una forte diminuzione della popolazione
in età lavorativa, non è escluso che,
ipotizzando un livello elevato di
investimenti stranieri e un miglioramento
delle condizioni economiche, possano
diminuire i flussi verso l‟Unione Europea
e addirittura insorgere la necessità di
immigrazione di manodopera.
Nel Nord Africa e nel Medio Oriente
diminuirà l‟aumento percentuale (1,8 –
1,9%) della popolazione in età lavorativa
e comunque, così come hanno conosciuto
la crescita di 52 milioni di giovani
nell‟ultimo ventennio del secolo XX,
conosceranno un aumento di oltre 50
milioni di unità nei prossimi 20 anni.
Invece nell‟Africa subsahariana, caratterizzata da un sistema produttivo imperniato sul
settore primario (dal 4% all‟80%), la crescita continuerà ad essere eccezionale (tassi del 2,93,5%) per cui la popolazione in giovane età lavorativa, che è aumentata di 70 milioni di unità
nell‟ultimo ventennio, aumenterà di altri 128 milioni di unità nel prossimo ventennio.
accesso libero, equo e universale ai saperi
L‟accentuazione dei flussi di immigrazione non è eliminabile perché i paesi del Sud del
mondo non sono in grado di creare i posti di lavoro necessari per frenare l‟esodo e di attenuare
la capacità di attrazione dei mercati occidentali. La tendenza all‟esodo diventerà più accentuata
sia per effetto dell‟aumento del grado di istruzione, che influisce sulle aspettative professionali,
sia per effetto della crescente urbanizzazione del Sud del Mondo (ad esempio Addis Abeba, ora
inferiore a Roma, perché ha una popolazione di meno di 2,5 milioni di abitanti, nel 2015
supererà i 6 milioni e mezzo).
In Italia per 5-10 anni non cambierà molto il panorama dei paesi di origine dei flussi, mentre
nel secondo decennio del secolo l‟Africa Subsahariana, superata la soglia di sviluppo minimo,
peserà molto di più.
accesso libero, equo e universale ai saperi
LA CAUSA PRINCIPALE: LO SQUILIBRIO
Nell‟analisi delle cause degli attuali flussi migratori, è importante considerare gli stretti
collegamenti esistenti tra lo sviluppo sociale ed economico delle diverse aree del mondo:
occorre, detto in altro modo, riconoscere l‟interdipendenza come una delle leggi fondamentali
di molti avvenimenti contemporanei. Pertanto non cercheremo i motivi dell‟immigrazione
solamente nella situazione socio-economica del Paese di partenza o in quello di arrivo, ma
proveremo a capire quale effettivo rapporto si è creato tra il Nord e il Sud del mondo. E‟ così
che nell‟analisi delle cause che spingono all‟emigrazione, i cosiddetti fattori di espulsione,
approfon-diremo i “grandi squilibri” che caratterizzano l‟at-tuale situazione mondiale. Sono
squilibri di carattere demografico, politico ed economico che trovano la propria origine in cause
storiche già analizzate (colonialismo e neocolonialismo) e in comportamenti politico-economici
ancora in atto: sono disuguaglianze che causano in maniera diretta l‟emigrazione dai Paesi del
Sud verso gli Stati “ricchi” del Nord
Ma che cos'è lo sviluppo?
Il Rapporto sullo sviluppo umano che l'UNDP presenta annualmente ha introdotto come
nuova misurazione del progresso, l‟ ISU, ovvero l‟ Indice di sviluppo umano. Solitamente la
crescita di uno stato e di un popolo viene misurata in base al reddito procapite e al Prodotto
Nazionale Lordo. I rapporti dell'UNDP utilizzano un indice che combina gli indicatori del
potere d'acquisto, dell'istruzione e di salute e longevità (ISU).
In base a questo indice la prima nazione nella classifica dell' ISU è il Giappone, mentre la
prima nella classifica del PNL è la Svizzera. L'Italia è al diciottesimo posto per il PNL, ma al
ventiduesimo nell' ISU. Tra i paesi del Sud, lo Sri Lanka, Cile, Costa Rica, Giamaica,
Tanzania e Tailandia sono nazioni che si situano in posizioni decisamente migliori nella
classifica dello sviluppo umano che in quella del reddito, dimostrando di aver orientato di più
le loro risorse economiche verso alcuni aspetti del progresso umano.
L' ISU ha comunque dei limiti, riconosciuti dallo stesso UNDP, poiché esclude altri indici,
quali la libertà economica, sociale e politica, la protezione contro la violenza, l'insicurezza e
la discriminazione.
4.1 Il problema del debito
Solitamente i Paesi poveri del Sud del mondo sono chiamati "Paesi in via di sviluppo",
indicando così quella che dovrebbe essere la loro situazione: incamminati sulla strada che
conduce allo sviluppo.
Tralasciando ora le difficili e lunghe discussioni sul concetto di sviluppo, l'analisi del problema
del debito ci mostrerà che sarebbe più corretto chiamare i Paesi poveri del Sud del mondo come
"Paesi in via di dipendenza": questa infatti risulta essere la situazione provocata dal debito
assunto dai Paesi poveri nei confronti di Stati, istituzioni internazionali (Fondo Monetario
Internazionale e Banca Mondiale) e banche del Nord. Quantitativamente il debito ha raggiunto
cifre elevate che secondo stime del 1997 superano i 2300 miliardi di dollari USA. In realtà non è
la quantità del debito a creare disuguaglianze tra Nord e Sud (già nel 1986 gli Stati Uniti
avevano un debito pubblico, ovvero soldi presi a prestito dai propri cittadini di 2000 miliardi di
dollari), ma il circolo vizioso che l'indebitamento ha creato nei Paesi poveri. Cerchiamo di
capire come e perché.
accesso libero, equo e universale ai saperi
Grosso modo negli anni '70 l'alto prezzo del petrolio fece affluire nelle banche degli Stati
industrializzati ingenti quantità di petrodollari (dollari ricavati dalla produzione e vendita del
petrolio). L'eccesso di denaro a disposizione rispetto all domanda fece crollare il suo prezzo,
addirittura sotto il livello dell'inflazione del dollaro. A questo punto si rese necessario trovare
una collocazione di investimento e la finanza (banche europee e americane) insieme alle
industrie del Nord trovarono estremamente vantaggioso il prestito ai Paesi in via di sviluppo.
Questi ebbero prestiti a tassi vantaggiosi; le banche investivano il denaro che sarebbe poi
rientrato tramite gli interessi; alle industrie aprivano nuove possibilità di mercato, perché
l'aumento di investimenti implica un aumento della domanda.
Ma come vennero utilizzati quei soldi? Portarono realmente sviluppo?
"Nel migliore di casi i capitali presi a prestito sono andati effettivamente a finanziare progetti
che, almeno nelle intenzioni, erano di sviluppo economico. Tuttavia il più delle volte è
dimostrabile che tali progetti sono stati dettati dagli interessi dei Paesi che concedevano i
prestiti. E questo almeno in due sensi:
a) nel senso che avevano lo scopo di stimolare l'acquisto di beni prodotti nel paese creditore.
b) nel senso che avevano lo scopo di stimolare la produzione di beni (per lo più materie prime
agricole e minerarie e prodotti energetici) che al paese creditore interessava importare a basso
prezzo o interessava commercializzare." (Da: A. Sciortino, Il debito..., op. cit. p. 31).
Così avvenne che le Filippine acquistarono vecchie centrali nucleari americane, senza mai
utilizzarle, oppure il Brasile deforestò regioni dell'Amazzonia per lo sfruttamento di miniere.
Accadde inoltre che in alcuni stati i soldi non furono investiti ma entrarono direttamente nei
conti privati dei vari dittatori (Marcos nelle Filippine, Somoza in Nicaragua, lo Scià in Iran,
ecc.). Infine i crediti servirono a molti governi per l'acquisto di armi, facendo la fortuna delle
industrie belliche del Nord e meno dei popoli coinvolti nelle frequenti guerre.
Risulta quindi che in genere i crediti sono stati utilizzati male instaurando quel circolo vizioso
dal quale molte nazioni del Sud sono impossibilitate ad uscire. Infatti anche nella più semplice
legge economica se un prestito per l'investimento non produce frutto, al debitore non entra
ricchezza e resta al contrario il debito da pagare sommato agli interessi sul debito.
Per il pagamento del debito, i Paesi creditori hanno imposto politiche di aggiustamento
strutturale come la riduzione della spesa pubblica (tagli alla sanità, trasporti, previdenza sociale,
tutto ciò che non è produttivo), oppure hanno favorito la svendita al capitale straniero delle
imprese statali. In altri casi, i paesi debitori hanno chiesto dilazioni per il pagamento, facendo
crescere gli interessi, oppure hanno contratto altri debiti per il pagamento dei primi. Il servizio al
debito (interessi passivi e quote di ammortamento dei prestiti ricevuti) è cresciuto fino al punto
di superare in alcuni casi, il valore delle esportazioni dei paesi indebitati. L'attivo commerciale
dei Paesi in via di
sviluppo nel 1987 era
di circa 600 miliardi di
dollari, a fronte di un
Nonostante l’Africa sub-sahariana abbia pagato,
tra il 1980 e il 1996, l‟equivalente di due volte il
debito che ammontava a
circa 1.050 miliardi di
suo debito estero effettivo, al termine del 1996 si
dollari.
è trovata 3 volte più indebitata rispetto a 16 anni
E'
paradossale,
ma
perfettamente
prima, e ciò a causa degli enormi interessi che
moltiplicano di anno in anno l‟entità del debito.
compren-sibile che il
flusso di denaro che
del mondo, sotto
dal Sud fluisce al Nord
forma di servizio al
debito, supera quello
mosso in direzione opposta come prestiti e aiuti allo sviluppo; infatti già nel 1985 ad un flusso
di 40,8 miliardi di dollari verso i paesi indebitati corrispondeva un flusso inverso come servizio
al debito pari a 114,4 miliardi. In quell' anno il Sud ha finanziato il Nord per 73,6 miliardi di
dollari.
4.2 Come lo squilibrio provoca altri squilibri
a) Lo scambio ineguale
accesso libero, equo e universale ai saperi
In base alla divisione internazionale del lavoro, i Paesi del Terzo Mondo, il cui apparato
industriale non è in grado di competere con quello delle Nazioni sviluppate, partecipano al
mercato mondiale esportando principalmente materie prime. I prezzi di queste sono molto bassi
poiché subiscono il controllo delle grandi società multinazionali ed inoltre il loro valore viene
stabilito nelle borse occidentali (Londra, Chicago, New York, Amsterdam, ecc.).
Ma mentre il prezzo delle materie prime è sostanzialmente diminuito nel tempo, quello dei
prodotti industriali è aumentato. Ecco perché i Paesi del Terzo Mondo sono costretti ad
esportare quantitativi sempre maggiori delle loro risorse per ottenere la stessa quantità di
manufatti industriali.
Così ad esempio se nel 1965 la Costa D'Avorio doveva produrre 5 t. di cotone per potere
acquistare un trattore, nel 1985 doveva produrne 7 volte tanto.
I termini di scambio (rapporto tra il livello dei prezzi dei prodotti a tecnologia avanzata esportati
dai paesi sviluppati e quello dei prodotti esportati di paesi sottosviluppati) dal 1953 al 1975 per i
Paesi del Terzo Mondo sono peggiorati mediamente del 23%.
Dobbiamo inoltre tener presente che per molti Stati poveri l'economia è basata sulla produzione
ed esportazione di uno o due prodotti; ciò li espone al rischio di abbassamenti consistenti e
rapidi delle quotazioni di tali risorse e alle crisi economico-finanziarie che ne conseguono.
Se a ciò aggiungiamo la svalutazione delle monete nazionali rispetto al dollaro, unità monetaria
negli scambi internazionali, il quadro risulta ancor più negativo.
Questi meccanismi hanno l'effetto di ridurre, fino ad annullarli, gli introiti delle esportazioni,
nonché di impedire l'accumulazione del capitale necessario ad avviare programmi di sviluppo e
di spingere i paesi così impoveriti a ricorrere a prestiti stranieri.
b) Il narcotraffico
"Il commercio della droga è l'unica multinazionale di successo in America Latina". Così ha
detto Alan Garcia ex-presidente del Perù, e quello che può sembrare assurdità risponde invece a
chiare leggi economiche.
In America Latina sono principalmente 3 i paesi produttori di cocaina, Bolivia, Perù e
Colombia. Analizzando i dati relativi al debito si può osservare come tra il 1982 e il 1988 il
debito in Bolivia sia aumentato del 47% , in Colombia del 55% e in Perù del 64%.
Contemporaneamente solo in Bolivia la produzione di cocaina è passata dalle 9 mila tonnellate
del 1972-1974 alle 100-150 mila tonnellate degli inizi anni ottanta.
L'aumento di domanda di droga nei Paesi occidentali (in primis gli Stati Uniti), l'insanabilità del
debito e l'impossibilità di reggere l'economia su altre esportazioni - la Colombia nel solo 1989,
anno in cui su permesso degli Stati Uniti si dimezzò il prezzo del caffè, perse dai 300 ai 400
milioni di dollari - hanno spinto questi paesi a reggersi sui soldi del narcotraffico. Non sono
infatti solamente i famosi signori della droga a fare fortuna, e tutta un'intera economia che si
regge su questo mercato: in Bolivia infatti si calcola che un lavoro ogni 3 o 4 è assicurato da
attività connesse alla droga.
Il problema ecologico.
La situazione ambientale nei Paesi del Sud del mondo sembra essere divenuta negli ultimi
anni più grave di quella dei Paesi del Nord. Il problema che si presenta con maggiore
evidenza è la diminuzione del suolo adatto allo sfruttamento agricolo. Le cause di questo
fenomeno sono molte: l'avanzata dei deserti causata dai cambiamenti climatici e dalle
attività umane, la progressiva salinizzazione dovuta l' intensa vaporizzazione che avviene in
un suolo tropicale sottoposto ad irrigazione; l'erosione causata da un cattivo sfruttamento
del territorio; l'urbanizzazione che avviene in modo incontrollato; l'allevamento intensivo di
accesso libero, equo e universale ai saperi
animali destinati ai consumatori del Nord; l'uso del territorio per la coltivazione di un unico
prodotto. Inoltre la distruzione delle foreste (specialmente in America Latina) per dare
spazio ai pascoli per il commercio di legni pregiati o per lo sfruttamento delle ricchezze del
sottosuolo; le discariche ad alto rischio di materiale fortemente inquinante proveniente dalle
industrie dei Paesi del Nord, l'uso di pesticidi tossici che negli Stati industrializzati sono
proibiti da tempo. Il problema non è da sottovalutare anche per quanto riguarda le
migrazioni, tanto che nei più recenti studi si è iniziato ad individuare una nuova "categoria"
di emigranti: i profughi ambientali o ecologici.
(Da: G. Pallottino Rossi Doria, Nord-Sud..., op. cit. p. 3
ALTRE CAUSE DI RILIEVO
5.1 Il fascino dell'Occidente
Il livello di istruzione e di cultura delle popolazioni che vivono nel Terzo Mondo è cresciuto
negli ultimi decenni, senza che si sia verificato un corrispondente aumento delle opportunità
occupazionali. Ciò ha sollecitato molti giovani diplomati e laureati a cercare lavoro qualificato
nei Paesi industrializzati, senza peraltro avere una garanzia di ottenerlo.
Questo è certamente un fattore di ordine economico che esercita una notevole attrattiva su chi è
intenzionato a lasciare il proprio Paese. Ma in questo contesto vogliamo porre l'attenzione su
altri elementi, oggi più attuali o totalmente nuovi rispetto a emigrazioni storiche precedenti. "Il
fascino dell' Occidente" unito al desiderio di riunirsi con familiari o amici che già risiedono in
Nazioni del Nord del Mondo, si rivelano elementi di forte richiamo per molti migranti.
Molto spesso chi parte è attratto dai modelli di vita e di consumo delle società occidentali,
proposti attraverso i mass-media, il contatto con turisti e missionari, le attività di promozione
della propria immagine che i Paesi sviluppati svolgono tramite le ambasciate e i propri centri
culturali nei Paesi del Sud del mondo.
Così prende corpo negli Stati poveri un'immagine stereotipata dei Paesi industrializzati:
opulenti, modelli di democrazia, aperti all'incontro con culture diverse, disposti ad accogliere
chi è in cerca di lavoro ( la stessa immagine che avevano dell'America i nostri emigranti
all'inizio del novecento). "Nessuno emigra senza una promessa. In passato, i media della
speranza erano le saghe e le dicerie. La terra promessa, l'Arabia felix, la mitica Atlantide, l'El
Dorado, il Nuovo Mondo: queste erano le magiche narrazioni che spingevano molta gente a
partire. Oggi, invece, sono le immagini ad alta frequenza, che la rete mondiale dei media porta
fin qui nel più sperduto villaggio del povero mondo. Il loro contenuto di realtà è ancora minore
di quello delle leggende degli inizi dell'età moderna; ma il loro effetto è incomparabilmente più
forte. In particolare la pubblicità, che nei Paesi ricchi dove è prodotta viene intesa senza
problemi come un semplice sistema di segni senza referenti reali, nel Secondo e Terzo Mondo
passa per una descrizione attendibile di un possibile modo di vita. Essa condiziona in parte
l'orizzonte delle aspettative legate alla migrazione". (Enzesberger, La grande migrazione,
op.cit.p.14).
Questo tipo di analisi è stata applicata di recente per spiegare l'arrivo in massa degli Albanesi
nell'Agosto del 1991. La stampa e i mass-media italiani hanno letto questo fenomeno come una
fuga dalla povertà verso i beni visti alla TV e diventati per loro simbolo di riscatto e di
benessere.
Molto spesso però tali aspettative non trovano conferma una volta approdati nel Paese prescelto,
sicché la permanenza diventa un'esperienza di sofferenza. La speranza di poter comunque
migliorare col tempo la propria condizione economica induce gli immigrati ad accettare
situazioni di vita e di lavoro assai precarie.
accesso libero, equo e universale ai saperi
Le donne: la maggioranza che non partecipa
Le donne sono la maggioranza della popolazione mondiale, eppure dispongono solo di una
quota minima delle opportunità globali.
Alfabetizzazione: le donne hanno molte meno possibilità degli uomini di imparare a leggere e
scrivere. Nell'Asia meridionale, ad esempio, il tasso di alfabetizzazione femminile è circa la
metà di quello maschile. Le donne costituiscono i due terzi di tutti gli analfabeti del mondo. La
mancanza di un'istruzione adeguata esclude le donne da attività qualificate.
Occupazione: nei Paesi in via di sviluppo le donne hanno minori opportunità di lavoro: il
tasso medio di partecipazione alle forze di lavoro è solo il 50% di quello degli uomini. Anche
quando riescono a trovare lavoro, comunque, le donne ricevono salari nettamente inferiori. Le
donne più povere nei Paesi del Terzo Mondo hanno spesso un lavoro pesante, che le impegna
fisicamente per lunghe ore al giorno e che va dalla preparazione del cibo, al trasporto
dell'acqua e della legna su lunghe distanze, alla cura dei bambini e degli anziani e alla
coltivazione dei campi.
Salute: solitamente le donne vivono in media più a lungo degli uomini. Ma in alcuni Stati
dell'Asia e dell'Africa del Nord, la discriminazione nei loro confronti - sotto forma di assistenza
sanitaria - è talmente grave che hanno una speranza di vita inferiore a quella maschile. Uno dei
rischi maggiori per la salute delle donne dei Paesi in via di sviluppo è il parto: il tasso di
mortalità materna è 15 volte
più elevato dei Paesi industrializzati. D'altra parte il riconoscimento della donna all'interno
della comunità è spesso legato alla sua capacità di procreare figli.
Vita politica: in numerosi Stati le donne non hanno ancora il diritto di votare. La loro
rappresentanza nei poteri legislativo ed esecutivo e dovunque inferiore alla loro consistenza
numerica.
Percentuale del lavoro femminile
dell'Africa subsahariana
Produzione agricola
Cura degli animali
Riserve agricole
Trasformazioni degli
alimenti
Approvvigionamento
dell'acqua
e del combustibile
Commercializzazione
degli alimenti
70%
50%
50%
99%
90%
80%
60%
(Da: W. Beretta Podini, Fame e squilibri internazionali, 1992, Bulgarini, Firenze; e AA.VV.,
Rapporto sullo Sviluppo Umano n.4. Decentrare per partecipare, Torino, Rosemberg & Sellier,
1993)
accesso libero, equo e universale ai saperi
5.2 La fuga dal terrore
La guerra fredda seguita alla seconda guerra mondiale tra USA e URSS ha scatenato nel Terzo
Mondo una serie senza fine di conflitti. Le due potenze hanno combattuto indirettamente tra loro
per controllare o accaparrarsi le regioni con ricche risorse minerarie o situate in posizione
strategica. Il controllo avveniva attraverso forti ingerenze politiche, mantenendo al potere il
regime che più poteva assicurare i loro interessi, sostenendolo finanziariamente e militarmente.
La recente perdita di ruolo del blocco socialista ha scatenato il proliferare di scontri interetnici e
il protagonismo politico di alcune fazioni; ne sono un chiaro esempio la guerra dell'exYugoslavia e le tensioni tra le Repubbliche della ex-Unione Sovietica. In Asia e in Africa dove
la maggioranza dei Paesi è retta da regimi totalitari o militari, le rivendicazioni di democrazia e
di uguaglianza sociale sono osteggiate dalle ristrette oligarchie economiche e militari che
governano con l'intento di arricchire le proprie famiglie e i propri sostenitori. In Africa in
particolare non bisogna dimenticare che molte delle guerre in corso dipendono dall'arbitraria
divisione in Stati seguita alla decolonizzazione secondo i confini delle colonie europee, senza
tenere in alcun conto la componente etnica e le diverse credenze religiose della popolazione.
Questa situazione di conflitto continuo ha come conseguenza esodi di massa in Paesi confinanti
alla ricerca di rifugio e asilo politico. Oggi sono circa 11,5 milioni le persone che vivono fuori
dalla loro patria con lo status formale e riconosciuto di rifugiato politico e rappresentano
meno della metà di coloro che hanno dovuto abbandonare la propria terra in conseguenza di
persecuzioni politiche o conflitti interetnici. I paesi più poveri sono quelli che generano il
maggior numero di rifugiati e, allo stesso tempo, ne accolgono il maggior numero.
5.3 Chi sono i rifugiati
Il termine rifugiato si applica secondo la Convenzione di Ginevra (art.1) a tutti coloro che
"avendo ragione di temere di essere perseguitati per la propria razza, la propria religione, la
propria nazionalità, la propria appartenenza ad un gruppo sociale, o per le proprie opinioni
politiche, si trovano fuori dal Paese di origine e non possono o non vogliono, per paura, chiedere
protezione al proprio Paese; o a chi, non avendo nessuna nazionalità e trovandosi fuori del Paese
di abituale residenza, in seguito a gravi avvenimenti, non può o non vuole, sempre per paura,
ritornarci".
In base a questa definizione l'onere di provare la fondatezza dei timori è a totale carico del
richiedente asilo, sono esclusi tutti i rifugiati in seguito a guerre e carestie. La Convenzione fu
firmata nel 1951 nel periodo del dopoguerra e concepita soprattutto a beneficio dei rifugiati
dell'Europa socialista. Inoltre la Convenzione presentava un limite temporale, doveva infatti
essere adottata per "eventi occorsi anteriormente al 1 gennaio 1951", a questo si pose rimedio
nel 1967 con il Protocollo di New York che ha prescritto che lo status di rifugiato si applichi a
tutti coloro che rientrano nella definizione senza limiti di tempo.
Ma ben presto la Convenzione si è dimostrata inadeguata quando si dovette far fronte
all'affluenza in massa di persone che scappavano a causa di una situazione di conflitto
generalizzato come già nel 1956 con la crisi ungherese quando 200 mila persone richiesero asilo
in Europa.
In Africa le guerre continue e il conseguente spostamento di intere popolazioni indussero
l'Organizzazione per l'Unità dell'Africa (OUA) a redigere e adottare nel 1969 ad Addis Abeba
una convenzione che amplia la definizione di rifugiato: tale termine si applica a tutti coloro "che
in seguito ad una aggressione, un'invasione, una dominazione straniera o ad avvenimenti che
turbano gravemente l'ordine pubblico in una parte o in tutto il Paese d'origine o di cui hanno la
nazionalità, sono obbligati ad abbandonare la propria residenza abituale per cercare scampo in
un altro luogo". L'80% dei Paesi africani ha ratificato la convenzione e oggi nei campi profughi
di questo continente si trova quasi la metà dei 17 milioni di profughi del mondo.
accesso libero, equo e universale ai saperi
L'Italia ha ratificato la Convenzione di Ginevra nel 1954 con la cosiddetta "clausola della riserva
geografica", limitandola cioè ai soli cittadini dell'Est europeo. Questa clausola è stata abolita
solo nel 1990 con l‟approvazione dell‟art.1 della legge n.39/90, conosciuta come legge Martelli.
Bisogna ricordare che la nostra Costituzione nell'art. 10 terzo comma riconosce il diritto di asilo
in maniera ancora più ampia che la Convenzione di Ginevra: "lo straniero al quale sia impedito
nel suo Paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana,
ha diritto d'asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilite dalla legge".
Come si può notare questo dettato della Costituzione non solo riconosce il diritto d'asilo a chi è
perseguitato nel proprio Paese, ma anche a chi vive in un Paese dove non sono riconosciute le
libertà garantite dalla Costituzione Italiana. A tutt‟oggi non è ancora stata approvata una legge
che dia esecuzione a questo importantissimo principio, benché siano stati presentati numerosi
progetti. La legge 40/98 (vedi scheda n.8) ha però introdotto alcune novità: innanzitutto sono
ora vietati in ogni caso l‟espulsione o il respingimento dello straniero verso uno Stato in cui egli
possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, sesso, lingua, cittadinanza, religione,
opinioni politiche , condizioni sociali o personali. Viene in secondo luogo prevista la possibilità
di disporre di misure di protezione temporanea da adottarsi per esigenze umanitarie in occasione
di conflitti o altri eventi particolarmente gravi in Paesi non appartenenti all‟Unione Europea.
accesso libero, equo e universale ai saperi
EFFETTI DELLE MIGRAZIONI
Sono state fatte molte ipotesi su quali siano gli effetti prodotti dalle migrazioni. Si tratta in ogni caso di domande
cui è difficile dare una risposta univoca, in quanto la realtà è molto complessa.
Una distinzione sommaria può certamente essere fatta fra gli effetti provocati dall‟emigrazione
sui Paesi d‟origine e gli effetti dell‟immigrazione nei Paesi d‟arrivo. Alcuni studiosi tentano di
distinguere gli effetti positivi da quelli negativi, ma si tratta spesso di valutazioni soggettive.
Per questo motivo preferiamo limitarci a fornire una panoramica di alcune delle principali conseguenze delle
migrazioni, a prescindere dal fatto che possano essere considerate come positive o negative.
6.1 Le conseguenze nei paesi di partenza
L'emigrazione ha sempre costituito una valvola di sfogo per la forza lavoro in esubero rispetto
alle possibilità occupazionali, particolarmente nei Paesi caratterizzati da una rapida crescita
demografica naturale.
La partenza dei lavoratori sottoccupati e non qualificati ha un'incidenza sull'occupazione, la
produzione, i salari: in un primo tempo il mercato del lavoro e la spesa sociale vengono
alleviati, e il reddito delle famiglie rimaste aumenta in seguito all'invio di parte dei guadagni
degli emigranti. La somma complessiva delle rimesse può incidere positivamente sulla bilancia
dei pagamenti dello Stato costituendo una entrata di capitale di notevoli dimensioni. Si pensi
che, ad esempio, nel piccolo El Salvador le rimesse degli emigrati costituiscono il 5% delle
entrate dello Stato. Le rimesse degli immigrati, sommate a livello mondiale, hanno superato nel
1999 i 100.000 miliardi di lire. Nei paesi in cui le rimesse vengono utilizzate per attuare
investimenti l‟emigrazione può costituire un aiuto allo sviluppo. Se invece vengono utilizzate
solo per consumi personali possono a lungo termine favorire l‟inflazione.
Se ad emigrare sono persone la cui crescita e grado di qualificazione è costata allo Stato in
termini educativi, sociali e sanitari, si verifica paradossalmente che il frutto di questi
investimenti sia goduto dai Paesi di arrivo. Ciò è stato particolarmente evidente nel caso dell'ex
RDT, dove l'esodo di tecnici e laureati verso il più allettante mercato del lavoro occidentale ha
creato nell'arco di pochi mesi vuoti consistenti nel settore industriale e in quello dei servizi
assistenziali, specialmente negli ospedali.
D'altra parte secondo alcune ipotesi l'immigrazione ha potuto apparire come un sostituto ad un
possibile sviluppo in loco, nel senso che si può assistere al rientro di persone che hanno
arricchito la propria professionalità all'estero e per le quali lo Stato non ha impiegato denaro.
Se nelle migrazioni temporanee a partire sono i giovani, prevalente maschi, la popolazione
subirà, per un periodo più o meno lungo di tempo, uno squilibrio sia per quanto riguarda le
classi di età che per sesso: la popolazione sarà costituita prevalentemente da anziani, bambini e
donne. Inoltre possono emergere carenze di manodopera , difficili da sanare in quanto è
maggiore l'attrazione dei salari dei Paesi industrializzati.
Se a migrare sono prevalentemente donne (come avviene ad esempio per molti Paesi latino
americani, le Isole di Capo Verde e le Filippine) a risentirne saranno importanti settori
economici come l'agricoltura.
accesso libero, equo e universale ai saperi
Paese
India
Messico
Egitto
Portogallo
Volume rimesse
(miliardi di lire)
16.306
9.207
5.813
5.518
Spagna
Grecia
Marocco
Bangladesh
5.087
4.857
3.469
2.760
Nigeria
Giordania
El Salvador
Rep. Dominic.
2.715
2.662
2.308
2.304
Graduatoria delle rimesse ricevute nel 1998
6.2 Le conseguenze nei paesi d'arrivo
L'arrivo di lavoratori stranieri può a breve termine abbassare il costo del lavoro e avere
quindi un effetto positivo sulla produttività generale e permettere alle imprese marginali di
sussistere. Infatti il costo della manodopera costituita dagli immigrati è tendenzialmente più
basso di quello della manodopera locale sia perché questi lavoratori accettano salari inferiori, sia
perché, nel caso di assunzione illegale, consentono al datore di lavoro di evadere le
contribuzioni fiscali e previdenziali.
Gli immigrati accettano spinti dalla necessità condizioni di lavoro più dure, come orari più
lunghi, turni notturni e festivi, mansioni nocive e pericolose, lavori temporanei. Inoltre sono
difficilmente sindacalizzabili e il loro licenziamento può avvenire più facilmente, specialmente
se si tratta di lavoro nero.
Tutto questo può avere effetti negativi per quanto riguarda l'azione sindacale tesa a
salvaguardare salute e sicurezza nei luoghi di lavoro.
Il basso costo della manodopera straniera e, più in generale, la compressione della dinamica
salariale disincentivano molte imprese dall'effettuare investimenti in tecnologie atte a
razionalizzare il ciclo produttivo. La disponibilità degli immigrati a compiere operazioni nocive
alla salute o rischiose permette a certi imprenditori di mantenere antiquati e spesso illegali
sistemi di sicurezza contro le malattie professionali.
Se il rallentamento dell'innovazione tecnologica può essere considerato nel breve periodo un
risparmio di costi, esso può trasformarsi in un ritardo che nel lungo periodo toglie competitività
alle produzioni in cui è richiesto alto livello di precisione, affidabilità e standardizzazione.
La presenza di immigrati in condizione di disoccupazione o di lavoro nero comporta dei costi
per l'erogazione di servizi socio-assistenziali: abitazione, educazione scolastica, assistenza
sanitaria, senza che vi sia un corrispettivo in termini di contributi versati.
Inoltre secondo il contesto di inserimento, la difficoltà nel trovare lavoro facilita in zone
disagiate e periferiche forme di emarginazione, oppure di reclutamento nelle organizzazioni
criminali.
Le migrazioni producono poi effetti sociali di rilievo a motivo dell'inserimento degli immigrati
in un contesto culturale differente da quello d'origine. Il contatto tra i locali e i nuovi arrivati
provoca una certa positiva compenetrazione nello scambio culturale per quanto riguarda i
costumi, i comportamenti , i valori, le istituzioni. Ma dall'incontro possono anche scaturire
accesso libero, equo e universale ai saperi
ostacoli di varia natura quali la diffusione di atteggiamenti razzistici o il nascere di separatismi e
ghetti. (su questo tema si vedano le schede n. 9 – 10
AA = .Allora dove sei andato? A zonzo, per strada. Chiunque è libero di andarci, ma
loro, gli altri, sono liberi di guardarti. E quegli sguardi scoprono chi sei a un chilometro
di distanza. La tua faccia.salta subito agli occhi. Non puoi sottrarti.
…
AA = Torniamo alla tua passeggiata. Sei passato davanti al cinema e hai detto: qui
sarebbe bello entrare!
XX = A me piace il cinema.
AA = E’ chiaro al cinema nessuno ti guarda. Tutti guardano lo schermo. E anche tu.Il
cinema però ha un maledetto difetto: dvi pagare!
XX = Io non vado mai al cinema.
AA == Ti rimane sempre una speranza! La stazione.
XX = Centrale
AA = Ah certo, centrale,…Perché lì ci sono agevolazioni a non finire. Primo, Ingresso
gratuito. Secondo, lì non sei uno straniero.
Lì non ci sono stranieri, dato che una stazione è fatta apposta per gli stranieri; in una
stazione gli stranieri hanno l’aria di essere del posto più della gente del posto. In una
stazione il tuo aspetto non dà nell’occhio
Dialogo teatrale tratto da: s. Mrozek, Emigranti, Torino, Einaudi, 1987
accesso libero, equo e universale ai saperi
Le migrazioni femminili
Sebbene le donne siano spesso considerate "emigranti passive" che si spostano unicamente per
seguire o raggiungere i membri della famiglia, alcune ricerche hanno dimostrato come in realtà
prevalgono motivazioni di tipo economico rispetto a quelle di tipo personale o sociale. In alcune
aree come l'America Latina, le Filippine, il Pacifico meridionale, l'emigrazione di ragazze
giovani fa parte della strategia di sopravvivenza delle famiglie. Le rimesse delle figlie indicano
che l'emigrazione femminile è
altrettanto importante di quella
maschile
nell'aiutare
le
famiglie delle aree rurali. Le donne
sembrano
infatti
inviare
denaro con maggiore regolarità,
nonostante i salari inferiori, di
quanto non facciano gli uomini. Le
donne provenienti dai Paesi in
via di sviluppo tendono ad avere, nel
momento in cui si spostano,
un basso livello di istruzione. Questo
fattore limita fortemente le
possibilità occupazionali per cui
l'impiego
retribuito
è
caratterizzato per la maggior parte dal
salario più basso, dal lavoro
meno sicuro e più umile. Il basso
livello di istruzione influisce
anche sulla capacità di interazione con
la comunità di accoglienza: i
rapporti e le relazioni sociali delle
donne, anche per difficoltà
linguistiche, tendono ad essere limitati
al
gruppo
etnico
di
appartenenza che impedisce la
mobilità verso modelli più alti.
Le donne immigrate sono più facilmente vittime di soprusi e violazioni dei diritti umani, in
particolare lo sfruttamento e l'abuso sessuale. Altrettanto importante è l'assenza di servizi
sanitari di assistenza alla maternità: tra le emigranti e le rifugiate la gravidanza crea più
problemi di quelli che attraversano le donne che vivono nelle comunità di appartenenza.
Gli effetti delle migrazioni femminili devono essere analizzati sia nel contesto dello sviluppo
economico che in quello dei mutamenti sociali. Nonostante la loro posizione di svantaggio, le
emigranti sono diventate significativi soggetti economici a livello nazionale ed internazionale.
Ad esempio nello Sri Lanka, verso la metà degli anni '80, le rimesse estere effettuate
principalmente dalle donne residenti negli Stati del Golfo rappresentavano la seconda fonte di
valuta estera subito dopo le entrate derivate dalla produzione e dal commercio del tè.
Le migrazioni hanno anche un impatto sui tassi di fertilità: le informazioni disponibili indicano
che le donne hanno meno figli al momento dell'emigrazione e continuano ad avere una bassa
fertilità rispetto alle donne non emigranti delle aree rurali. E' stato affermato che l'emigrazione
favorisce l'emancipazione, tuttavia le migrazioni possono non allargare le opportunità delle
donne così come si potrebbe pensare: infatti, a causa dei sistemi sociali, dei forti legami di
parentela e delle limitate opportunità di lavori, l'emancipazione della donna è solo lievemente
maggiore che nei paesi d'origine.
Nonostante si abbiano chiare prove della partecipazione alla forza lavoro, le politiche
sull'immigrazione tendono ancora a considerare che gli "emigranti" siano uomini e che le donne
siano "a loro carico". Il diritto delle donne al lavoro può essere severamente ristretto; l'accesso ai
servizi sociali può essere limitato; il diritto alla naturalizzazione può essere indiretto e vincolato
allo status di moglie.
Le donne sole hanno grande difficoltà ad assicurarsi l'ingresso legale nei paesi industrializzati.
Soltanto di recente gli studiosi e i politici hanno iniziato ad occuparsi sistematicamente"
dell'invisibilità delle donne immigrate".
accesso libero, equo e universale ai saperi
(Da: UNFPA, Lo stato della popolazione mondiale 1993 op. cit.)
CONDIZIONI DI VITA DEGLI IMMIGRATI
La permanenza degli immigrati nei Paesi di accoglienza è spesso caratterizzata almeno in una
prima fase da una condizione di disagio generale la cui gravità dipende dall‟efficienza dei
servizi che il Paese d‟arrivo è in grado di offrire.
L’Italia si è dimostrata impreparata ad accogliere quel flusso di immigrati che cercano
condizioni di vita dignitose, soprattutto là dove queste sono tuttora negate anche a una parte di
popolazione italiana.
Inoltre gli immigrati non devono essere considerati come semplice fattore economico ma vanno
riconosciuti come soggetti sociali e politici. Ne consegue una richiesta di ampliamento della
sfera dei diritti (abitazione, istruzione, sanità, assistenza, previdenza, ecc.) spesso vissuta dalla
comunità di accoglienza come un costo.
L‟aumento della presenza di migranti appartenenti a culture molto diverse da quelle locali e il
fenomeno delle migrazioni clandestine acuiscono le difficoltà di integrazione.
7.1 Il mondo del lavoro
Gli immigrati provenienti dal Terzo Mondo sono occupati prevalentemente in mansioni con
basso livello di qualificazione, spesso nocive alla salute e, nella maggioranza dei casi, poco
retribuite.
Il lavoro nero è una condizione assai ricorrente tra gli immigrati e ciò contribuisce ad aumentare
la loro precarietà, in quanto privi di tutela giuridica e sociale.
Nemmeno la regolarizzazione prevista dalle leggi 943/86 e 39/90 ha fatto emergere del tutto il
lavoro nero (vd. scheda 8).
Per quanto riguarda la formazione professionale non esiste ancora una efficace politica rivolta
agli immigrati. Le iniziative finora realizzate da soggetti pubblici e privati hanno dovuto
misurarsi con i ritardi normativi e il disinteresse o l'incapacità di molti enti locali.
Persino precise indicazioni legislative contenute nella legge 39/90 riguardanti la
regolarizzazione del lavoro autonomo e la possibilità di accesso alle professioni infermieristiche
sono state per molti aspetti disattese.
Non mancano le discriminazioni, anche formali, che impediscono o rendono difficile
l'inserimento lavorativo.
La più importante è l'impossibilità di accedere al pubblico impiego, diritto esclusivo dei
cittadini italiani.
Un'altra barriera è costituita dalla non equivalenza dei titoli di studio. Ciò comporta che, per un
numero consistente di immigrati, l'arrivo in Italia rappresenta una regressione nella
qualificazione.
Si aggiunga l'ostacolo della lingua, il cui livello di conoscenza pregiudica talvolta l'assunzione
o l'attribuzione di mansioni corrispondenti alla qualifica dell'immigrato.
Questo ostacolo è particolarmente penalizzante in un Paese come l'Italia in cui le lingue
straniere sono poco conosciute.
Per gli immigrati che vivono in comunità chiuse, con relative opportunità di socializzazione, la
sola frequenza dei corsi di lingua italiana (ove questi siano attivati) non è sufficiente a far
acquisire dimestichezza linguistica.
7.2 La casa
accesso libero, equo e universale ai saperi
La richiesta abitativa avanzata dagli immigrati aggrava ulteriormente il problema della casa che
ancora hanno migliaia di famiglie di italiani. Essendo gli immigrati nell'impossibilità di
spendere grosse somme di denaro e spesso senza la sicurezza di un lavoro continuativo, essi
trovano difficilmente alloggi dignitosi in cui vivere, specialmente in città dove le carenze
abitative sono maggiori. Essi devono allora adattarsi ad una situazione di promiscuità: alloggiare
in piccoli appartamenti, accalcati, dove si dorme a rotazione. Spesso pagano canoni altissimi e
senza ricevere quietanze di pagamento, cosicché il proprietario, che a volte è anche il datore di
lavoro, può farli sloggiare quando vuole, in quanto abusivi. Specialmente nelle medie e grandi
città le amministrazioni locali hanno cercato di far fronte all'emergenza destinando agli
immigrati grandi edifici pubblici dismessi, in cui si vive a decine o a centinaia, senza la minima
privacy, con scarsi servizi igienici e di mensa. Si creano così dei ghetti in cui degrado umano ed
emarginazione sociale aumentano con l'aumentare della diffidenza, se non di una vera e propria
avversione, da parte della popolazione residente, che non tollera simili concentrazioni di
stranieri, tanto diversi per cultura e modi di vita. Molti immigrati non hanno alloggio. Allora si
appoggiano a connazionali per un'ospitalità temporanea, oppure dormono nelle sale d'attesa
delle stazioni, in cantine, stalle. Considerando il problema abitativo in Italia, è indubbio che tale
emergenza sarà superabile se il governo e le amministrazioni locali favoriranno il recupero del
consistente patrimonio edilizio inutilizzato, bloccando le speculazioni che tengono sfitti migliaia
di appartamenti, realizzando interventi di edilizia rispondenti alle esigenze di sfrattati, baraccati,
senza casa, locali o immigrati.
La legge 40/98 ha introdotto alcune novità, disponendo, innanzitutto, che vengono istituiti dagli
Enti Locali “centri di accoglienza” per stranieri, regolarmente soggiornanti, che siano
temporaneamente impossibilitati a provvedere autonomamente alle proprie esigenze abitative.
Contemporaneamente viene riconosciuto ai medesimi il diritto di accedere, a condizioni di parità
con i cittadini italiani agli alloggi di edilizia residenziale pubblica e al credito agevolato in
materia edilizia, recupero, acquisto e locazione della prima casa di abitazione.
7.3 Diritti politici
In Italia, solo chi gode della cittadinanza può partecipare alla vita politica. Gli stranieri
possono iscriversi a partiti e sindacati, esprimere opinioni politiche, attivarsi nelle campagne
elettorali, ma non possono votare né candidarsi nelle liste elettorali.
Sotto questo profilo l'Italia si discosta dai Paesi del Centro-Nord Europa, che hanno accordato
agli stranieri residenti il diritto di voto in alcune elezioni locali e regionali.
7.4 La scuola
I modelli e le strutture educative mostrano difficoltà nel far fronte alla richiesta di istruzione,
rappresentata dagli immigrati: mantenimento della identità culturale, tutela della lingua e della
cultura d'origine, riconoscimento dei diplomi professionali acquisiti nei Paesi d'origine,
fruizione di corsi di lingua e cultura italiana, fruizione di insegnamenti integrativi nella lingua e
sulla cultura d'origine.
 L'intervento più diffuso a livello nazionale, destinato agli immigrati, è rappresentato dai corsi
di alfabetizzazione condotti da insegnanti statali nell'ambito delle iniziative di educazione degli
adulti.
 Nelle scuole dell'obbligo il numero dei minori stranieri presenti nell'anno scolastico 1998/99
è stato di 76.612. Circa l'80% di questi frequenta le scuole statali e sono per la maggior parte
concentrati in sole sei Regioni (Lombardia, Emilia Romagna, Piemonte, Toscana e Veneto).
 Nella scuola elementare generalmente non vengono attivati progetti di comunicazione
interculturale e insegnamenti sulla cultura di origine. Bambini che si trovano quasi
improvvisamente a dover studiare in una lingua estranea, in un contesto che stravolge i loro
valori tradizionali e il loro comportamento abituale, danno talvolta segnali di disadattamento.
accesso libero, equo e universale ai saperi
 Alla scuola superiore possono iscriversi solo gli immigrati residenti, se il titolo di studio
posseduto equivale a quello che consente in Italia l'accesso alla scuola superiore. Devono inoltre
superare un esame di ammissione. Mancano interventi di orientamento, corsi preparatori di
lingua italiana, servizi informativi specifici.
 Per l'iscrizione all'Università sono richiesti il permesso di soggiorno per motivi di studio, la
conoscenza della lingua italiana e/o l'iscrizione preventiva ai corsi di italiano per stranieri, la
possibilità di disporre di una borsa di studio o di somma mensile equivalente per tutta la durata
degli studi e il superamento di un esame di ammissione. L'Autorità Ministeriale stabilisce di
anno in anno il numero di studenti stranieri che possono essere ammessi nelle facoltà italiane.
Gli studenti stranieri possono accedere alle mense universitarie ma non possono godere
dell'alloggio gratuito.
7.5 La salute
La legge 40/98 ha esteso l‟accesso alle prestazioni erogate dal Servizio Sanitario nazionale alla
maggior parte degli stranieri regolarmente presenti sul territorio. Gli stranieri con permesso di
soggiorno per lavoro o per motivi familiari hanno l‟obbligo di iscriversi al Servizio Sanitario
Nazionale in condizioni di parità con i cittadini italiani. L‟iscrizione è gratuita. Agli stranieri con
permesso per motivi di studio è lasciata invece la scelta fra un‟assicurazione privata e
l‟iscrizione volontaria (e quindi a pagamento) al SSN. Gli stranieri semplicemente "presenti" sul
territorio nazionale non hanno diritto all'assistenza medica generica, specialistica e farmaceutica.
Sono però in ogni caso loro garantite le cure ospedaliere urgenti conseguenti a malattie,
infortuni, maternità. (vedi scheda 8)
E' un luogo comune, privo di fondamento, quello secondo cui gli immigrati "ci portano le
malattie". Nella larga maggioranza dei casi, invece, essi si ammalano qui, vivendo in case
sovraffollate, senza adeguati servizi igienici, senza acqua corrente oppure svolgendo lavori
pericolosi e nocivi alla salute.
La malattia é generalmente avvertita dagli immigrati come un dramma, dato che l'unica risorsa
su cui contare per sopravvivere é possedere un organismo sano e robusto per lavorare.
Ciò li spinge in determinate situazioni a trascurare la salute, a sottovalutare i sintomi della
malattia o addirittura a negare di essere ammalati, per non perdere il posto di lavoro.
Particolarmente pregiudicata é la situazione di chi lavora senza contratto e degli immigrati
clandestini, i quali non possono usufruire dell'assistenza previdenziale, in caso di infortunio o di
malattia, né maturare la pensione.
accesso libero, equo e universale ai saperi
Alunni con cittadinanza
1998/99
Area
MATERNA
cont
V.A
%
di
origine
UE
685
21.77
Non
5.279 16.22
UE
Africa 7.563 29.52
non italiana per ordine di scuola e continente di appartenenza. A.S.
ELEMENT
V.A.
%
MEDIA
V.A.
%
SUPERIORE
V.A.
%
TOTALE
V.A.
%
1354
43.04
16.605 51.03
591
7.071
18.79
21.73
516
3.586
16.40
11.02
3.146 100.0
32.541 100.0
10.454 40.81
5.530
21.59
2.069
8.08
25.616 100.0
Americ 1.620
a
Asia
2.961
16.73
4.204
43.43
2.342
24.19
1.515
15.65
9.681
20.85
6.369
44.84
3.674
25.87
1.200
8.45
14.204 100.0
Oceani 8
a
Apolidi 44
10.39
25
32.47
22
28.57
22
28.57
77
100.0
17.12
183
71.21
28
10.89
2
0.78
257
100.0
8.910
10.42
85.522 100.0
TOTAL 18.160 21.23
E
39.194 45.83
19.258 22.52
accesso libero, equo e universale ai saperi
100.0
LEGISLAZIONESULL’IMMIGRAZIONE
Fino ad una quindicina di anni fa l‟Italia, che per quasi un secolo era stata terra da cui partire e non
meta di flussi migratori, non aveva alcuna legge in materia di stranieri e di immigrazione. L‟unica
legge cui fare riferimento era il Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza del 1931, seguito da
una infinita serie di circolari, emanate dai differenti ministeri competenti, e spesso in contraddizione
l‟una con l‟altra.
Tre dovevano essere le coordinate lungo cui muoversi per arrivare ad una legislazione organica:
1. progressiva eliminazione delle discriminazioni nei confronti degli stranieri presenti sul territorio
2. adeguamento della politica nazionale sull‟immigrazione a quella degli altri paesi dell‟Europa
occidentale.
3. Leggi di sanatoria che accompagnano le nuove leggi di indirizzo e programmazione per
“regolarizzare” le situazioni di illegalità precedentemente createsi.
Le leggi emanate nel corso di questi anni (in particolare la n.943/86 e la n.39/90, meglio nota come
legge Martelli) hanno di volta in volta affrontato singoli aspetti della condizione dello straniero, ma
solo nel 1998 siamo arrivati ad una legge organica che, abrogata quasi tutta la legislazione
precedente, intende disciplinare in modo completo la condizione giuridica dello straniero.
La legge n.40 del 6 marzo 1998 (inserita successivamente nel Testo Unico delle disposizioni
concernenti la disciplina dell‟immigrazione) fissa gli indirizzi, gli obiettivi e le regole su tutti gli
aspetti che concernono la vita degli stranieri nel nostro paese, ma demanda al Governo e alle
amministrazioni la loro attuazione. Nonostante lo sforzo di dare una disciplina unitaria ed organica
all‟intera materia, è continuata quindi la prassi di regolare in concreto le situazioni attraverso
circolari
ministeriali
ripetute e spesso
L‟Italia aderisce agli accordi di Shengen. Gli accordi puntano a realizzare uno spazio comune di
libera circolazione tra i cittadini degli Stati aderenti, cancellando le frontiere interne e rafforzando
contraddittorie.
i controlli alle frontiere esterne. Gli accordi prevedono anche la cooperazione tra polizie e autorità
giudiziarie in materia penale e di estradizione e la creazione di un sistema di scambio di
informazioni denominato SIS (Sistema Informativo Schengen). Fanno attualmente parte dell‟area
Shengen: Germania, Francia, Olanda, Belgio, Lussemburgo, Italia, Spagna, Portogallo, Grecia,
Austria e Finlandia. Tutti i paesi che aderiscono all‟accordo hanno eliminato i controlli alle
frontiere comuni e hanno creato un unico sistema di visti e ingressi.
I punti salienti
della disciplina:
Ingresso:
l‟ingresso nello
Stato italiano è subordinato al possesso di un passaporto valido e di un visto rilasciato
dall‟ambasciata o dal consolato italiano del paese di residenza. La legge stabilisce quali sono le
condizioni e i documenti necessari per i differenti tipi di visto (turismo, affari, lavoro, studio, cure
mediche, ecc.). Il visto viene negato a chi è già stato espulso dall'Italia o da uno dei paesi dell'area
Schengen e a chi è considerato come pericoloso per l'ordine pubblico e la sicurezza dell'Italia e
degli altri paesi dell'Unione Europea in base ad accordi o intese internazionale.
Ogni anno il Governo italiano stabilisce, con il decreto per "La programmazione dei Flussi", le
quote massime di cittadini extracomunitari che possono entrare in Italia per motivi di lavoro . Il
tetto viene definito in base a differenti criteri che fanno principalmente riferimento alle offerte di
lavoro e alla accertata indisponibilità di manodopera sul mercato del lavoro nazionale. Accordi
bilaterali tra l‟Italia ed i singoli Paesi di emigrazione possono portare a stabilire quote riservate a
questi ultimi.
Respingimento: Gli stranieri che si presentano alla frontiera senza i requisiti per l'ingresso in Italia
(visto, passaporto, ma anche mezzi necessari per il sostentamento in Italia) sono respinti dalla
polizia
accesso libero, equo e universale ai saperi
Anche se privi dei documenti e dei requisiti normalmente richiesti per l'ingresso in Italia, non possono essere respinti
gli stranieri che richiedono asilo politico, hanno lo status di rifugiato, o beneficiano di misure di protezione
temporanea per motivi umanitari.
Lotta all’immigrazione clandestina: Le persone che favoriscono l'ingresso illegale di stranieri in
Italia sono punite con il carcere da 3 a 12 anni e una multa fino a 30 milioni di lire per ogni per-sona
fatta en-trare clande-stinamente in Italia.
Il Soggiorno
La carta di soggiorno
Lo
straniero
che
sia
entrato
regolarmente nel territorio italiano ha
La carta di soggiorno è una delle novità introdotte dalla legge
bisogno di un documento che lo
n. 40/98. Il cittadino straniero che soggiorna in Italia da
almeno cinque anni ed ha un permesso di soggiorno che
autorizzi a trattenervisi. Il permesso di
consente più rinnovi può chiedere il rilascio della carta di
soggiorno deve essere richiesto, entro
soggiorno. Questo documento, che sostituisce il permesso di
otto giorni lavorativi dall‟ingresso in
soggiorno ed ha durata di dieci anni, gli consentirà di entrare e
uscire in Italia senza bisogno del visto, svolgere qualsiasi tipo
Italia, al questore del luogo di
di attività lecita che non sia riservata a cittadini italiani,
destinazione. La durata del permesso ed
accedere ai servizi e alle prestazioni della pubblica
il motivo per cui viene rilasciato
amministrazione e partecipare alla vita pubblica del luogo in
cui vive.
dipendono da quelli contenuti nel visto.
La carta di soggiorno può essere revocata solo nel caso di
In ogni caso la durata non potrà essere
condanna per reati penali di particolari gravità.
superiore a tre mesi per visite, affari e
turismo, a sei mesi o nove mesi per
lavoro stagionale, a un anno per studio o
formazione, a due anni per lavoro autonomo, lavoro subordinato a tempo indeterminato e per
ricongiungimenti familiari
Rinnovo
Il rinnovo va richiesto alla questura della provincia di residenza almeno 30 giorni prima della
scadenza del permesso di soggiorno.
Il questore verifica se ci sono ancora i requisiti che ne avevano determinato il rilascio oppure se ci
sono le condizioni per la conversione.
Il rinnovo o la proroga non sono consentiti per motivi di turismo e in caso di lunghe e continuative
assenze dall'Italia (da un minimo di oltre 6 mesi a più della metà della durata di un permesso di
soggiorno biennale).
Rifiuto e revoca
Il permesso di soggiorno viene negato se mancano i requisiti richiesti per l'ingresso e la
permanenza.
Il permesso può anche essere revocato se vengono a mancare alcuni dei requisiti necessari. La
decisione deve essere comunicata allo straniero o direttamente o con notifica del provvedimento
scritto e motivato. In caso di rifiuto o di revoca, si può fare ricorso al T.A.R. (Tribunale
Amministrativo regionale) entro 60 giorni dalla comunicazione.
Obblighi
Il cittadino straniero deve mostrare il proprio permesso di soggiorno ogni volta che gli viene
richiesto dagli ufficiali e agenti di pubblica sicurezza. Se si rifiuta, è punito con l'arresto fino a 6
mesi e una multa fino a ottocentomila lire. Le forze dell'ordine, se lo ritengono necessario, possono
chiedere ulteriori informazioni e documenti sul lavoro, l'alloggio, il reddito di cui si dispone in Italia
per mantenere i familiari a carico. In caso di cambio del domicilio, lo straniero deve avvisare il
questore entro 15 giorni.
accesso libero, equo e universale ai saperi
Espulsione
Il provvedimento di espulsione viene emanato dal prefetto nei confronti dello straniero che è entrato
in Italia senza passare dai controlli di frontiera, soggiorna senza il permesso di soggiorno, oppure è
in possesso di un permesso di soggiorno revocato, annullato oppure scaduto da oltre 60 giorni e non
ha presentato la domanda per il rinnovo.
Il cittadino straniero, per rilasciare l'Italia, ha 15 giorni di tempo a partire dalla data di "intimazione"
dell'espulsione.
L'espulsione è eseguita con l'accompagnamento alla frontiera da parte delle forze di polizia, se lo
straniero:
è considerato pericoloso o si è trattenuto in Italia oltre il termine fissato con l'intimazione del
provvedimento oppure è stato espulso con provvedimento del Ministro dell'Interno.
Divieto di espulsione
Non può essere espulso o respinto lo straniero che rischia di essere vittima di persecuzioni o di
essere rinviato verso uno Stato che non lo protegge da questo rischio.
Sono inoltre esclusi dall'espulsione gli stranieri minori di 18 anni, gli stranieri in possesso dalla
carta di soggiorno (salvo casi di particolare gravità), gli stranieri che convivono con parenti italiani
entro il quarto grado o con il coniuge italiano e le donne in stato di gravidanza o nei sei mesi
successivi alla nascita del figlio.
I Diritti
Ad ogni straniero presente sul territorio dello Stato (anche se privo di documenti) sono riconosciuti
i diritti fondamentali della persona umana. Lo straniero regolarmente soggiornante gode inoltre dei
medesimi diritti in materia civile attribuiti al cittadino italiano.
Diritto alla salute
La legge 40/98 ha reso obbligatoria (e gratuita, in quanto fiscalizzata) l‟iscrizione al Servizio
Sanitario Nazionale di tutti gli stranieri che abbiano un permesso di soggiorno per motivi di lavoro,
per motivi familiari, per richiesta asilo, per attesa adozione e per acquisto di cittadinanza. Gli
stranieri con altri tipi di permesso (ad esempio per motivi di studio) sono comunque tenuti ad
assicurasi, anche mediante l‟iscrizione volontaria al SSN. Lo straniero iscritto al SSN ha parità di
trattamento e piena uguaglianza di diritti e doveri rispetto ai cittadini italiani.
Le cure ambulatoriali e ospedaliere urgenti o essenziali, anche continuative, sono comunque
assicurate a tutti gli stranieri, anche se non sono in regola con il permesso di soggiorno. In
particolare sono garantite le prestazioni per la tutela della gravidanza e della maternità, allo stesso
modo delle alle cittadine italiane, la tutela della salute del minore, le vaccinazione e gli interventi di
profilassi internazionale, la profilassi, la diagnosi e la cura delle malattie infettive. Tutte queste
prestazioni non sono a carico del cittadino straniero.
L'accesso al Servizio Sanitario da parte di uno straniero non in regola con il permesso di soggiorno
non comporta la segnalazione alla questura. La segnalazione può avvenire soltanto nei casi in cui il
medico riscontra degli elementi che fanno ipotizzare un reato: in questo caso i medici sono tenuti a
redigere un rapporto scritto (referto), come ugualmente avviene per i cittadini italiani.
Diritto allo studio
Minori
Tutti i minori stranieri che non abbiano superato l'età di 15 anni, sia regolari che irregolari, hanno
diritto all'istruzione (scuola dell'obbligo), ad accedere ai servizi educativi e a partecipare alla vita
della comunità scolastica.
Istruzione scolastica per gli adulti
accesso libero, equo e universale ai saperi
Anche agli stranieri adulti regolarmente presenti in Italia, viene garantita l'istruzione scolastica,
potendo frequentare i seguenti corsi:
 corsi di alfabetizzazione nelle scuole elementari e medie per conseguire il titolo di studio
della scuola dell'obbligo
 corsi di integrazione degli studi fatti nel Paese di provenienza per ottenere il titolo della
scuola dell'obbligo o il diploma di scuola secondaria superiore
 corsi di lingua italiana
 corsi di formazione professionali.
Università
Ogni anno il Ministero degli Affari Esteri, in base alla disponibilità dei posti, stabilisce il numero
dei visti di ingresso per studio e formazione nelle Università italiane.(vedi anche scheda n. 7)
Possono iscriversi ai corsi universitari anche gli stranieri che abbiano una carta di soggiorno o un
permesso per lavoro subordinato o autonomo, motivo familiare, asilo politico o umanitario, motivo
religioso.
Diritto alla difesa
Ad ogni cittadino straniero sono garantiti gli stessi diritti alla difesa dei cittadini italiani.
I cittadini stranieri, indagati o imputati, che non hanno un reddito sufficiente per pagarsi un
avvocato, né in Italia né all'estero, hanno diritto al gratuito patrocinio: possono quindi scegliersi
un difensore che sarà pagato dallo Stato.
Diritto all’unità familiare.
I cittadini stranieri che possiedono una carta di soggiorno o un permesso della durata di almeno 1
anno possono chiedere il ricongiungimento familiare con il coniuge legalmente convivente, con i
figli minori a carico (anche affidati o adottati o nati fuori del matrimonio), con i genitori a carico, e
con i parenti entro il terzo grado a carico, inabili al lavoro.
La
durata
del
permesso
di
soggiorno per motivi
Principali riferimenti normativi
familiari è la stessa
L. 6 marzo 1998, n. 40 – Norme sulla condizione giuridica dello straniero
del permesso di
D.L. 25 luglio 1998, n.286 – Testo Unico delle disposizioni concernenti la disciplina
soggiorno
del
dell‟immigrazione e norme sulla condizione giuridica dello straniero (coordina la legge 40/98
familiare
con le preesistenti norme dell‟ordinamento)
DPR 31 agosto 1999 n. 394 – regolamento di attuazione del Testo Unico n. 286/98
ricongiunto in Italia
DPR 9 aprile 2001 – Programmazione dei flussi di ingresso dei lavoratori extracomunitari nel
ed è rinnovabile alla
territorio dello Stato. Il decreto viene rinnovato ogni anno.
data
della
sua
scadenza.
accesso libero, equo e universale ai saperi
VERSO QUALE MODELLO SOCIALE
E‟ evidente ormai che il fenomeno immigratorio deve essere considerato dagli Europei come
irreversibile.
Occorre dunque porci di fronte alle questioni sollevate da una società sempre più variegata dal
punto di vista etnico-culturale, al fine di garantirci una convivenza pacifica.
Superate le prime fasi del ciclo migratorio, in cui risultava prioritario mettere a punto politiche che
regolassero l‟ingresso e l‟accesso ai servizi sociali e l‟immissione nel mercato del lavoro, gli Stati
dell‟Europa occidentale hanno dovuto approntare (e i paesi di recente immigrazione come l‟Italia
stanno approntando) politiche di stabilizzazione di lungo periodo, in modo da rendere compatibile
l‟unità della Nazione con le differenze culturali e sociali, legate alla presenza di immigrati, anche di
seconda e di terza generazione.
9.1 Modelli sociali a confronto
La complessità delle situazioni createsi con le migrazioni in vari momenti storici e in situazioni
diverse ha dato origine a modelli di società molto differenti tra loro che rispecchiano gli
orientamenti politici e sociali dominanti in
quella determinata epoca.
- E' il progetto sociale di
integrazione alla base della politica
nordamericana nei confronti dei migranti
europei tra l'800 e l'inizio del '900.
L'obiettivo era la creazione dell' "uomo
americano", un individuo nuovo non più
immigrato italiano, tedesco o irlandese. Il
termine fusione indica la volontà di
sciogliere le peculiarità culturali originarie di
ogni immigrato per arrivare ad una società
etnicamente e culturalmente omogenea.
Tale modello è stato definito "melting pot"
ossia crogiolo di razze.
Questo progetto non si è mai realizzato, anzi
al contrario un gruppo sociale, costituito dai
WASP (White Anglo-Saxons and Protestans
- bianchi, anglosassoni e protestanti), è
divenuto
dominante
nella
società
americana Assimilazione - Si realizza
togliendo valore alle culture diverse da
quella dominante. L'integrazione è possibile nella misura in cui gli immigrati acquistano la cultura e
i modi di vita della popolazione locale.
La Francia, come sarà più diffusamente spiegato in seguito, ha adottato questo modello, ma si trova
oggi a fronteggiare le rivendicazioni degli immigrati, in particolare di quelli di cultura islamica.
Fusione
Segregazione razziale - Si ha in condizioni di oppressione, formale e sistematica, da parte di un'etnia
che detiene il potere politico, economico e culturale di uno Stato.
Si basa sul presupposto che l'etnia dominante legittimi il proprio potere sulla convinzione
dell'inferiorità "razziale" delle altre etnie.
accesso libero, equo e universale ai saperi
Questo modello ha caratterizzato la Repubblica del Sudafrica, fondata sul dominio di una
minoranza bianca (i discendenti degli antichi coloni olandesi) e sul regime di "apartheid" nei
confronti della maggioranza nera.
La caduta di tale regime non ha impedito il persistere di gravi tensioni sociali provocate da questo
modello
9.2 Esperienze europee
a) il progetto francese: l'assimilazionismo etnocentrico
"La società francese ha cercato di integrare l'immigrazione nell'unico modo concepibile in un
Paese che si rappresenta come una grande nazione omogenea e si identifica profondamente con un
forte Stato centralizzato che non riconosce al proprio interno né nazionalità minoritarie, né gruppi
etnici locali e che contrasta con vigore ogni pretesa di mediazioni particolaristiche fra lo Stato e
cittadini (ai quali d'altra parte assicura i diritti formali solennemente sanciti dalla Dichiarazione
del 1789)". In concreto, il progetto francese impone che gli immigrati abbandonino completamente
la propria identità etnico-culturale per divenire dei buoni cittadini francesi. L'assimilazione deve
essere totale per quanto riguarda la lingua, la cultura e se possibile la mentalità. Tale politica, d'altra
parte, era stata applicata anche nella gestione delle colonie nelle quali gli africani e gli asiatici
potevano aspirare alla naturalizzazione francese nella misura in cui riuscivano ad assorbire la
mentalità e la lingua francese. La stessa educazione, impartita nelle scuole delle colonie, aveva
come obiettivo quello di far dimenticare la cultura locale: i libri di storia, per esempio, iniziavano
con la frase "i nostri antenati Galli". Questa politica si scontra oggi con le rivendicazioni culturali e
religiose degli stranieri che tendono a formare comunità etniche in contrasto con l'ideale
assimilazionista. Ma "il vecchio modello fa però ancora sentire tutta la sua influenza sul piano
amministrativo, dove continua a prevalere una politica di netto rifiuto per gli interventi speciali per
gli stranieri ...e la preferenza per il ricorso a interventi "universalistici" di diritto comune, per tutti
coloro (francesi o immigrati) che presentino determinati problemi (abitativi, sanitari, educativi,
ecc.)".
b) il progetto britannico: il pluralismo ineguale
L'etnocentrismo inglese si manifesta in modo diverso rispetto a quello francese, è fondato infatti
"sulla convinzione che gli immigrati anche dei Paesi tradizionalmente più vicini per storia e cultura
mai potrebbero diventare, anche volendolo, dei "buoni britannici" (o, per meglio dire, dei buoni
inglesi, dei buoni scozzesi, dei buoni gallesi). Li si accetta pertanto per quello che sono, dandone
per scontata l'irrecuperabile diversità e ci si preoccupa quindi di metterli nella condizione di
nuocere il meno possibile, limitandone le interferenze...Queste popolazioni trapiantate, perché di
ciò in effetti si tratta, hanno potuto formare nel Regno Unito le loro comunità. Tali comunità
etniche hanno così potuto diventare da tempo un importante punto di riferimento per le autorità
amministrative...A queste comunità peraltro sono stati riconosciuti tanto dei diritti quanto dei
privilegi." Una categoria a parte è costituita dagli immigrati del Commonwealth che, per la maggior
parte, godono del diritto di voto attivo e passivo, sia alle elezioni politiche che amministrative.
c) il progetto tedesco: l'istituzionalizzazione della precarietà
Nonostante la Repubblica Federale Tedesca sia il Paese d'Europa con il più alto numero assoluto di
immigrati (oltre 7 milioni), essa non si considera paese d'immigrazione. Infatti "in Germania gli
immigrati sono stati considerati soltanto come lavoratori ospiti (gastarbeiter)...Gli immigrati
restano fonda-mentalmente degli stranieri (auslaender) di cui si può anche apprezzare l'apporto
economico, ma di cui non si caldeggia in alcun modo l'insediamento definitivo. Con loro si può
accesso libero, equo e universale ai saperi
anche convivere per un lungo periodo, se è necessario, senza che ciò implichi, peraltro, delle
confusioni di stato. ...Anziché favorire la nazionalizzazione degli immigrati, infatti, ci si attende che
essi siano sempre pronti a lasciare il paese, non soltanto per libera scelta o in seguito ad una crisi
economica o una crisi politica, ma anche solo in ossequio ad un eventuale mutamento degli
orientamenti governativi. Pertanto si mira non già alla loro assimilazione, ma al contrario, alla
tutela della loro lingua e della loro cultura, in vista appunto del rientro. ...Tutta la normativa è
orientata a favorire la temporaneità della presenza degli immigrati sul suolo tedesco e prevenirne
il radicamento. A tal fine vengono privilegiati nettamente, ancora oggi, gli interventi di prima
accoglienza, legati ad una effettiva presenza per motivi di lavoro, come, ad esempio, l'istituzione di
dormitori;...la politica dei dormitori ottiene l'effetto di disincentivare i ricongiungimenti familiari,
ammessi per rispetto dei diritti umani, ma poco graditi e quindi non facilitati. Allo stesso modo,
tanto le iniziative di carattere culturale e sociale per i lavoratori quanto i programmi scolastici per
i loro figli tendono a favorire il mantenimento dei legami con il Paese di origine, in vista del pur
improbabile ritorno."
(da: U. Melotti, L'immigrazione una sfida per l'Europa, Edizioni associate, 1992).
9.3 Il progetto interculturale
Accanto ai modelli prima presentati e realizzatisi in determinati paesi, presentiamo un progetto
alternativo di gestione delle differenze in una situazione multi-etnica: il progetto interculturale.
Occorre distinguere nell'uso dei termini " multi o pluri-culturale" da "inter-culturale". I prefissi
"multi" o "pluri" indicano una situazione di fatto, ovvero la compresenza di più culture; il prefisso
"inter" al contrario prevede un rapporto e una compenetrazione tra le culture. Quello interculturale
è un progetto, politico e individuale, che partendo da un dato di fatto - l'esistenza nel medesimo
luogo di più gruppi e culture - cerca di favorire l'incontro e lo scambio.
Quella interculturale non è quindi una politica basata sul pluralismo esteso in cui tutte le culture
sono riconosciute, ma ognuno vive una vita propria isolata dalle altre; né è quella basata sull'
assimilazionismo che, in nome di principi egualitaristi, porta all'assorbimento di tutte le differenze.
Primo obiettivo di un progetto interculturale è quello di riconoscere che la propria cultura è
una possibilità tra le altre, che non esiste tra esse un ordine gerarchico e che una cultura non può
essere giudicata a partire da un'altra. Successivamente il progetto interculturale conduce gli
individui a riflettere sulla propria cultura e li educa a prenderne le distanze per avviare un
dialogo con altri individui portatori di culture diverse.
L'interculturalità, come progetto politico, prevede scelte che permettano la creazione di spazi per un
confronto tra i gruppi, promuove la conoscenza reciproca dei cittadini e degli stranieri a tutti i livelli
della vita economica, sociale e culturale. Per tutti questi motivi la scuola è uno dei ambiti
privilegiati e prioritari per educare alla differenza e al confronto.
Non si può negare però che il modello costituito dalla società interculturale proprio per la sua
connotazione ideale a volte si manifesta di non facile realizzazione. Il razzismo, la xenofobia e
l'etnocentrismo sono alcuni degli ostacoli principali.
Razzismo: "...nella sua accezione corrente la parola designa due ambiti molto diversi della realtà: si
tratta, da un lato, di un comportamento, fatto perlopiù di odio e di disprezzo nei confronti di persone
dotate di caratteristiche fisiche ben definite e differenti dalla nostra; dall'altro, di un'ideologia, di
una dottrina riguardante le razze umane."(T. Todorov, Noi e gli altri, cit.)
Etnocentrismo: è un atteggiamento psicologico che si evidenzia nel momento in cui si percepisce un
altro gruppo, quindi un'altra cultura. In quel momento l'individuo tende ad elevare in modo
indebito i valori caratteristici della propria società come valori universali. Questo atteggiamento
può diventare "nazionalismo” come difesa assoluta e cieca della propria nazione.
accesso libero, equo e universale ai saperi
Xenofobia: è la paura dello straniero che si esprime in forme di discriminazione e violenza. La
xenofobia proclama l'incompatibilità di mentalità e comportamenti tra differenti etnie; ritiene la
coesistenza impraticabile e denuncia l'impossibilità di integrazione dei gruppi di immigrati. E'
l'etnocentrismo al massimo grado e ritiene la presenza di stranieri pericolosa per l'identità della
cultura perché inquinerebbe i suoi valori fondanti. La xenofobia arriva ad imputare i mali della
società alla presenza dello straniero.
GLI ORIENTAMENTI DEL CONSIGLIO D'EUROPA
PER UN'EDUCAZIONE INTERCULTURALE
* la revisione dei programmi di storia e di geografia per una lettura meno etnocentrica, approfondendo gli apporti delle
migrazioni al nascere di diverse civiltà e culture.
* l'introduzione di alcune scienze umane come l'antropologia culturale, la sociologia delle lingue e delle culture.
* la conoscenza dei Diritti Umani e l'individuazione delle fonti dell'intolleranza e della xenofobia.
accesso libero, equo e universale ai saperi
PROSPETTIVE E POLITICHE DELLE MIGRAZIONI
La rapida crescita della popolazione mondiale ha rappresentato una costante degli ultimi anni e lo
sarà anche per i prossimi trenta. Attualmente la popolazione mondiale supera i 5 miliardi e mezzo;
nel 2000 la popolazione sarà probabilmente di 6,25 miliardi e nel 2025 la quota sarà di 8,5 miliardi.
Si stima comunque che globalmente i tassi di crescita più rapidi si registrano nei Paesi più poveri.
L'aumento maggiore si registrerà in Africa dove dai 640 milioni di persone del 1990 si passerà ai
1500 milioni nel 2025. Il continente più affollato sarà l'Asia con quasi 5 miliardi di abitanti.
La crescita demografica di per sé non è la causa principale delle migrazioni. Paesi che hanno oggi
un maggior numero di emigranti, come il Messico, la Turchia e il Marocco, presentano tassi di
crescita della popolazione relativamente moderati. E' piuttosto il perdurare della situazione di
squilibrio (economico, sociale, ecologico, politico) tra i Paesi industrializzati e quelli in via di
sviluppo, sommato alla crescita demografica, a favorire le migrazioni. Le tendenze migratorie
raddoppieranno nell'arco dei prossimi due o tre decenni e si potranno determinare ingenti flussi
migratori dai Paesi poveri verso quelli più ricchi.
Tuttavia il peso maggiore delle migrazioni sarà sostenuto dai Paesi del Sud del Mondo. Infatti nel
prossimo futuro la principale emigrazione sarà dalle aree rurali alle megalopoli degli Stati poveri.
Entro il 2000, le 125 città dei Paesi in via di sviluppo che contano più di 1 milione di abitanti
diventeranno oltre 300 e tra le 20 maggiori città del mondo solo 4 apparteranno ai Paesi
industrializzati. Mentre la crescita urbana procederà a ritmi senza precedenti, le città avranno
sempre minori capacità di fornire opportunità economiche e anche i più modesti livelli di servizi
essenziali ai nuovi immigrati. Questo provocherà l'aumento delle bidonvilles nelle periferie delle
grandi città che costituiscono già uno dei problemi di più difficile soluzione.
Tra le cause di future emigrazioni non bisogna dimenticare quelle ecologiche, come la
desertificazione progressiva di ampie zone, la salinizzazione, il disboscamento. E' stato previsto per
esempio che nel futuro il surriscaldamento della terra renderà alcune isole, aree costiere e delta di
fiumi inabitabili a causa dell'innalzamento del livello del mare: si è calcolato che solo questo fatto
trasformerà il 16% della popolazione egiziana ed il 10% della popolazione del Bangladesh in
rifugiati per cause ambientali.
Si può prevedere anche un aumento dei rifugiati politici, che come si è già visto sono accolti per la
maggior parte in campi profughi dei Paesi in via di sviluppo. Anche nel prossimo futuro la
situazione non cambierà aggravando così la già critica condizione di questi Stati.
Dalla fine degli anni '80 è iniziata la trasformazione politica ed economica dei Paesi dell'Europa
orientale. Troppo a lungo isolati e retti da un sistema autarchico, essi stanno attraversando una crisi
economica. Nel breve e medio periodo, la transizione dal sistema socialista pianificato a quello
capitalistico di mercato è destinata a causare un peggioramento delle condizioni di vita, con un
aumento vertiginoso del fabbisogno finanziario (stimato in 6800 mld di $ USA) e un incremento
della disoccupazione senza precedenti.
Dal rapido scenario tracciato, le ipotesi più realistiche relative ai flussi migratori futuri sono le
seguenti:
- nonostante la limitata capacità di assorbimento di nuova forza lavoro, è del tutto probabile che il
flusso migratorio dal Terzo Mondo verso i Paesi dell'Europa occidentale continuerà, anche solo per
coprire posti di lavoro indesiderati dai lavoratori locali;
- il permanere di un'economia sommersa, soprattutto negli Stati europei mediterranei, incoraggerà
l'immigrazione anche clandestina.
(dati da: UNFPA (a cura di), Lo stato della popolazione mondiale 1993, op.cit.)
10.2 Le prospettive in Italia
accesso libero, equo e universale ai saperi
Lo squilibrio rimane una chiave di lettura irrinunciabile anche quando dal contesto mondiale si
passa a quello mediterraneo.
Secondo le previsioni ONU, la popolazione dei Paesi che si affacciano sul Mediterraneo crescerà tra
il 1985 e il 2020 di circa 178 milioni di abitanti, di cui 14,5 milioni nella sponda nord e i rimanenti
163,5 nelle sponde sud e est. Di questi ultimi ben 131 milioni saranno in età lavorativa (15-65 anni),
contro appena 4 dei 14,5 della sponda nord.
Rispetto alla situazione demografica dell'Italia il calo della fecondità dalla fine degli anni sessanta
ad oggi e il contemporaneo innalzamento della durata media della vita a 76 anni fanno presupporre
un decremento della popolazione italiana in età lavorativa nei prossimi anni. La situazione sarà
quindi caratterizzata da un calo della forza lavoro e già ora l'Italia é uno tra i primi Paesi al mondo
in cui il numero delle persone con meno di venti anni é inferiore a quello delle persone con più di
sessanta.
Il differenziale di crescita demografico tra il Sud del Mediterraneo e il Nord, in particolare l'Italia,
costituirà un fattore di spinta all'emigrazione, ma risulta ugualmente molto difficile immaginare
come evolveranno la situazione socioeconomica in Italia e le emigrazioni.
Questa situazione di "incertezza" sul futuro è causata da alcuni fattori:
- oggi solo il 25-30% dei migranti nel mondo si spostano tra il Sud e il Nord, ma non sappiamo in
che direzione si modificheranno i flussi, dal momento che i nuovi Paesi entreranno nella cerchia dei
Paesi ricchi (soprattutto nel sud-est asiatico) ed altri tra i Paesi in via di sviluppo diventeranno
ancora più poveri;
- non esistono orientamenti "maturi" nelle politiche migratorie dei Paesi di destinazione, in
particolare l'Italia non ha ancora compiuto scelte definitive in tema di immigrazione e integrazione;
- non sono ancora sicuri gli orientamenti della Comunità Europea e dell'Italia in tema di economia e
politica internazionale;
- da ultimo l'incertezza nelle migrazioni è data dal sempre vivo rischio di possibili guerre e
stravolgimenti politico-economici anche nelle vicinanze dell'Europa (ne è un esempio il caso dei
Balcani).
Riveste notevole importanza anche un fattore di tipo socioculturale: ci riferiamo al livello di
accettazione sociale degli immigrati da parte della popolazione locale. Vi è timore, più o meno
fondato, che un supposto forte potenziale di crescita demografica degli immigrati possa provocare
da un lato la perdita dell'identità etnico-culturale, dall'altro l'aumento della concorrenza tra le classi
sociali più umili e gli immigrati sul piano del mercato del lavoro e dell'accesso ai servizi socioassistenziali.
Bisogna ammettere, a questo proposito, che gli organi di informazione e molti movimenti culturali e
politici, senza un'oggettiva base d'analisi del fenomeno immigratorio, fomentano tra la popolazione
nazionale la sindrome della "fortezza assediata" ed alimentano atteggiamenti xenofobi e razzisti.
Il problema dell'immigrazione non va affrontato in modo emotivo e preconcetto. Proprio per la sua
complessità, esso richiede un'attenta analisi di tutte le componenti che intervengono nella
determinazione del fenomeno, nonché la messa a punto di azioni comuni a tutti i Paesi dell'Europa
occidentale o, almeno, comunitaria, in accordo con le regioni povere che alimentano i flussi.
(dati da: Censis (a cura di ), I nuovi scenari dell'immigrazione, Roma, 1993)
10.3 Politiche migratorie dirette
Obiettivi concreti di tali politiche dovrebbero essere:
1) favorire un flusso immigratorio compatibile con le capacità che ciascun Paese saprà sviluppare
per organizzare l'insediamento temporaneo o permanente degli immigrati;
2) impedire, per quanto possibile, le migrazioni clandestine.
accesso libero, equo e universale ai saperi
La realizzazione di tali obiettivi richiede uno sforzo ulteriore nella programmazione economica e
sociale per poter passare velocemente dalla fase di prima accoglienza a quella di un inserimento
nella società a condizioni di parità con i cittadini del Paese di immigrazione.
Onde evitare i fenomeni di emarginazione è auspicabile il superamento dei circuiti di lavoro nero
e, sul piano culturale, un consistente impegno da parte delle istituzioni pubbliche e delle
associazioni, mirante ad accrescere la conoscenza delle lingue straniere e delle culture diverse da
quella nazionale
10.4 Politiche migratorie indirette
E' necessario superare la fase dei provvedimenti che inseguono l'immigrazione già verificatasi ed
agire invece sulle cause che determinano il fenomeno.
E' ormai provato che l'unico disincentivo a migrare è la drastica riduzione del differenziale di
reddito pro capite tra Paesi ricchi e Paesi poveri.
Sembra ragionevole ritenere che il rimedio per l'immigrazione sia un'efficace cooperazione tra
Nord e Sud del mondo, mirante a riequilibrare le condizioni di vita delle popolazioni.
E' doverosa, però, una revisione critica delle politiche di cooperazione allo sviluppo condotte finora
dai Paesi a sviluppo avanzato, incentrata sui prestiti e sulla spinta dei Paesi sottosviluppati a
produrre quei beni che possono commercializzare sul mercato internazionale . Sia ben chiaro che
l'accesso ai capitali e agli scambi commerciali non sono di per sé sufficienti a favorire la crescita dei
Paesi poveri. Attualmente sembra però necessario abolire tutte quelle misure protezionistiche che i
Paesi industrializzati hanno eretto a difesa delle proprie economie: sarebbero proprio queste barriere
ad impedire l'accesso dei Paesi poveri al libero mercato e di partecipare al sistema economico
mondiale con le stesse possibilità degli altri Paesi.
In secondo luogo i programmi di cooperazione impostati dagli Stati ricchi, non possono prescindere
né sostituirsi alle politiche nazionali di sviluppo; in particolare devono escludere l'indebitamento o,
peggio, l'abbattimento dello stato sociale.
Si impone dunque una nuova fase della cooperazione internazionale imposta su criteri di equità
negli scambi e di solidarietà verso chi è in condizioni di svantaggio.
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Con cooperazione internazionale e altre definizioni simili, si raggruppano tutti gli interventi volti a favorire lo sviluppo dei Paesi meno
sviluppati. Sebbene si sia giunti ad elaborare un concetto di sviluppo umano profondamente diverso da quello economico, la cooperazione
continua ad essere valutata per lo più in termini monetari. Ciò crea una serie di equivoci: mentre viene inteso comunemente che la
cooperazione sia un aiuto doveroso dei ricchi verso i poveri, in realtà in essa vengono compresi tutti gli interventi pubblici e privati che dagli
Stati o da un loro insieme siano volti a creare ricchezza in un altro.
Delle circa 120 organizzazioni non governative (ONG) riconosciute idonee dal Ministero degli Affari Esteri per realizzare programmi di
cooperazione internazionale, una sessantina utilizzano personale volontario e cooperanti.
In base alla legge 49/1987, i volontari devono prestare servizio per almeno due anni nei paesi in via di sviluppo, hanno diritto al mantenimento
del posto di lavoro (se dipendenti pubblici) e ricevono una sorta di stipendio per il loro mantenimento. I cooperanti sono impiegati in missioni
di durata variabile: da pochi mesi a due anni. Le professionalità richieste sono le più varie e dipendono dal tipo di progetto, dal contesto socioeconomico e dal Paese in cui si opera. Molti volontari partono con il coniuge, che può essere anch‟esso volontario o a “carico” e, chi li ha, con
i figli. Il volontariato internazionale assolve l‟obbligo di leva.
La maggior parte delle ONG è riunita in tre federazioni: il COCIS, ad ispirazione laica, con sede in via Correnti 17, 20123 Milano, tel.
02/89401705-1602, fax 02/58102285; la FOCSIV, ad ispirazione cattolica, con sede in via del Conservatorio 1, 00186 Roma, tel. 06/6877796867, fax 06/6872373; ed il CIPSI, che riunisce alcune organizzazioni che fanno progetti senza impiego di volontari, che ha sede in via Baldelli
41, Roma, tel.06/5414894, fax 06/59600533.
accesso libero, equo e universale ai saperi
Il Progetto Migratorio
Introduzione
L‟enorme squilibrio esistente tra il Nord ed il Sud del mondo in termini di distribuzione di ricchezza
è alla base delle massicce migrazioni di cui assistiamo attualmente. Milioni di persone di fronte
all‟immutabilità delle condizioni di vita al limite della sopravvivenza tipica dei P.V.S. prima o poi
abbandonano il proprio Paese alla ricerca di soluzioni altrove. Ignorando i fattori di attrazione e di
scelta perché occupano un posto marginale nella determinazione delle partenze e nel contempo
considerando quelli di espulsione come la causa principale del mutamento del luogo di vita, si può
sostenere che le emigrazioni sono prevalentemente forzate e, a seconda delle situazioni (vedi più
avanti) possono essere programmati o meno.
Gli immigrati partono con molte illusioni e si aspettano di concretizzare i loro progetti con minore
fatica, molto spesso si aspirano a svolgere lavori di loro piacimento (area di formazione) e, invece si
trovano a dovere adempiere mansioni più pesanti ed umilianti rifiutate molto spesso dagli autoctoni.
In modo analogo, le condizioni abitative scarseggiano e alla fine versano nelle situazioni al limite
della sopravvivenza.
Lo sforzo della mia riflessione, è quello di fornire una chiave di lettura in grado di classificare i
progetti migratori degli immigrati. A tale riguardo, ho proposto il concetto della Triade socioeconomica nel cambiamento di luogo di vita. Con questa terminologia intendo spiegare in che modo
e che tipi di cambiamenti si hanno in immigrazione. Lo spostamento delle persone si verifica in due
modalità: trasferimento in un altro paese per un periodo considerevole o definitivo e dislocamento
per brevi periodi pur continuando a mantenere la residenza nel proprio paese. In entrambi casi e a
seconda del progetto migratorio, da un lato, si può avere solo il miglioramento della condizione
economica, dall‟altro, una conquista di uno status sociale elevato accompagnato naturalmente da un
maggiore potere d‟acquisto.
La prima trattazione riguarda lo strumento legislativo in materia di immigrazione ed è volta ad
evidenziare come il governo italiano seppure abbisogna annualmente di manodopera immigrata per
molti dei segmenti produttivi della sua economia abbia prodotto una legge che non solo non tiene
minimamente conto dell‟importante contributo apportato dagli immigrati, ma addirittura si orienti
nella direzione che viola i loro diritti, ad esempio, l‟ottenimento del permesso di soggiorno è
vincolato dal contratto di lavoro. Nel secondo punto, evidenzierò il tema della preparazione del
viaggio perciò che riguarda sia le difficoltà economiche sia quelle burocratiche. Seguirà il paragrafo
relativo al problema del cambiamento sotto vari punti di vista nella società di immigrazione: la
riuscita del non autoctone dipende in buona parte dalla sua capacità di adattamento. Con l‟aiuto dei
dati relativi alle fonti dal Ministero dell‟Interno, presenterò una breve analisi circa la dimensione
del fenomeno migratorio nelle sue varie caratteristiche: numero, provenienze, genere e trend. A
questo punto, l‟esposizione continuerà con l‟analisi delle teorie che spiegano i processi migratori a
cominciare dai contributi classici fino a comprendere quelli più recenti; questi ultimi evidenziano
come in genere ad emigrare non sono solo persone povere, ma soggetti che provengono dai luoghi
dove si inizia ad intravedere i miglioramenti socio-economici. La riflessione a seguire, si
concentrerà sull‟argomento di emigrazione programmata alla quale si assocerà il tema delle
tipologie progettuali e dei cambiamenti ad esse legate. Un altro fattore importante di questa mia
esposizione, è dato dal tema del confronto quale aspetto catalizzatore delle partenze. L‟analisi
prenderà in considerazione una ricerca che ha lo scopo di dimostrare come i dati in essa contenuti
mettono con chiarezza che le condizioni di vita degli immigrati considerati rientrino pienamente
nella prima tipologia del cambiamento di luogo di vita (miglioramento del potere d’acquisto
accesso libero, equo e universale ai saperi
contrassegnato dall’immutabilità dello status sociale). Un tema che non poteva mancare in questa
riflessione riguarda la situazione lavorativa degli immigrati; come ho affermato sopra, nella
stragrande maggioranza dei casi, gli immigrati si riducono a svolgere lavori pesanti ed in condizioni
poco sane. L‟argomento del lavoro immigrato per una considerevole parte, concerne l‟inserimento
nel sommerso a causa anche delle difficoltà legate alla regolarizzazione dello status giuridico.
Infine, cercherò di evidenziare/richiamare alcune difficoltà insite nel fenomeno migratorio e che
meritano di essere costantemente sostenute con particolare riguardo nella prima fase dell‟ingresso.
Lo strumento legislativo
Legge sull’Immigrazione (Ddl Senato 11/07/02)
Un primo intervento legislativo del governo italiano in materia di lavoro per gli immigrati non
appartenenti all‟U.E. risale alla legge n.943, art. 6 comma 1, 30 dicembre 1986. In seguito, con
l‟art. 9 comma 3 della legge 28 febbraio 1990, n. 39, si giunge ad attribuire al lavoratore immigrato
la possibilità di iscrizione nelle liste di collocamento predisposte per i lavoratori italiani a livello
circoscrizionale, anche nelle more del rilascio del libretto di lavoro (Centro Studi e Formazione
Sociale, 1995).
L‟11 Luglio 2002 sono state apportate delle modifiche al T.U. sull‟immigrazione del 1998,
introducendo misure più rigide rispetto alle disposizioni finora in vigore. Tra le novità più eclatanti
troviamo che gli immigrati non potranno più cercare lavoro una volta in Italia ma dovranno essere
in possesso di un regolare contratto lavorativo già al momento del loro ingresso e che diventa
obbligatorio il rilascio delle impronte digitali al momento della richiesta del permesso di soggiorno.
Segnalerò in particolare le modifiche introdotte dalla legge sul tema del lavoro, tralasciando quelle
sulla questione sicurezza e ordine pubblico ritenute meno importanti ai fini di questa riflessione.
Articolo 3
Il Decreto Quote del Presidente del Consiglio per determinare le quote di immigrati che ogni anno
potranno entrare in Italia diventerà facoltativo.
Articolo 5
Lo straniero che richiede il permesso di soggiorno è sottoposto a rilievi fotodattiloscopici.
3-bis. Il permesso di soggiorno per motivi di lavoro è rilasciato solo in seguito alla stipula del
contratto di soggiorno per lavoro subordinato di cui all‟articolo 5-bis. La durata del relativo
permesso di soggiorno per lavoro è quella prevista dal contratto di soggiorno e comunque non può
superare:



in relazione ad uno o più contratti di lavoro stagionale, la durata complessiva di nove mesi;
in relazione ad un contratto di lavoro subordinato a tempo determinato, la durata di un anno;
in relazione ad un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, la durata di due
anni.
accesso libero, equo e universale ai saperi
Articolo 6
Il datore di lavoro avrà l‟obbligo di fornire garanzie sulla disponibilità di un alloggio per il
lavoratore immigrato e l‟impegno delle spese di viaggio per il rientro del lavoratore nel paese di
provenienza.
Articolo 9
Passerà da cinque a sei anni il periodo di permanenza necessario per ottenere la carta di soggiorno a
tempo indeterminato.
Articolo 12
Gli immigrati trovati privi di regolare permesso di soggiorno saranno espulsi per via amministrativa
e, se privi di documenti, saranno condotti in centri di permanenza per un periodo di 60 giorni,
necessari allo svolgimento delle pratiche per l‟identificazione. In mancanza d‟identificazione, sarà
intimato l‟abbandono del territorio italiano entro tre giorni (anziché quindici come in passato). Sarà
considerato reato il ritorno in Italia a seguito dell‟espulsione.
Articolo 17
Nella prefettura di ogni provincia sarà istituito uno sportello unico atto all‟assunzione dei lavoratori
immigrati, al quale dovrà rivolgersi il datore di lavoro con l‟idonea documentazione. Lo sportello
unico trasmette la documentazione agli uffici consolari, i quali dopo i dovuti accertamenti
provvedono a rilasciare il visto di ingresso. Entro 8 giorni dall‟ingresso in Italia l‟immigrato deve
rivolgersi al suddetto ufficio per la firma del contratto di soggiorno dove resterà conservato. È
compito dello sportello unico trasmettere in copia il contratto di soggiorno agli uffici consolari
competenti e al centro per l‟impiego territoriale.
La perdita del posto di lavoro, anche per recesso volontario, non costituisce motivo di revoca del
permesso di soggiorno al lavoratore extracomunitario e ai suoi familiari legalmente residenti.
L‟immigrato può essere iscritto nelle liste di collocamento per il periodo di validità residua del
permesso di soggiorno.
Articolo 22
Il ricongiungimento familiare ( del coniuge, del figlio minore o di figli maggiorenni) sarà possibile
al cittadino immigrato in possesso di regolare permesso di soggiorno purché ne possa garantire il
sostentamento. Sarà inoltre possibile il ricongiungimento dei genitori che avranno compiuto il
sessantacinquesimo anno d‟età ed ai quali nessun altro figlio possa provvedere.
Articolo 29
Ogni famiglia potrà regolarizzare una sola colf; nessun limite invece è imposto per le badanti di
portatori di handicap, anziani e persone malate. La denuncia per la regolarizzazione deve essere
presentata all‟ufficio territoriale della prefettura entro due mesi dall‟entrata in vigore della legge.
Inoltre, è stata eliminata la figura dello sponsor (elemento caratterizzante della legge TurcoNapolitano).
accesso libero, equo e universale ai saperi
Pur avendo tralasciato la parte sulla sicurezza e le relative sanzioni, ciò che colpisce maggiormente
è la direzione presa nel rivedere il T.U. attraverso il nuovo disegno di legge, un orientamento
decisamente indirizzato più a problemi di ordine pubblico con misure coatte, e quindi di lotta alla
clandestinità, piuttosto che attento ad importanti azioni o politiche di inserimento al lavoro e
all‟integrazione degli immigrati. Interventi questi che faciliterebbero la convivenza tra immigrati e
cittadini italiani. L‟importante beneficio di cui trae l‟Italia dalla forza lavoro immigrata non può
ridursi nell‟assoluto controllo sociale rappresentato dalla nuova legge: concessione del permesso di
soggiorno vincolato da un contratto di lavoro. Secondo le stime riportate dall‟INPS per l‟anno 1999,
il gettito contributivo dei lavoratori immigrati equivale 1.325 milioni di euro (Caritas, 1999).
Quand‟anche si è cercato di muoversi in maniera più consona, questo disegno di legge sembra
inattuabile e poco realistico. Soffermandomi su alcuni punti innovativi del disegno di legge
poc‟anzi descritti, sorgono alcune constatazioni e quesiti come sul rinnovo dei permessi. Proprio a
tal proposito finora si è assistito a lunghe code di immigrati davanti alle Questure con ritardi nelle
consegne per l‟aggravio di lavoro che si ritrovano. Cosa succederà nei prossimi anni, semmai si
riuscirà ad attuare le nuove norme? E soprattutto riusciranno a rispettare i tempi richiesti per il
rinnovo o il rilascio dei vari documenti?
Per quanto riguarda la questione sugli alloggi da parte dei datori di lavoro si potrebbe dire che si
tratta di una proposta molto interessante se non fosse di difficile attuazione. La difficoltà di reperire
un‟abitazione per immigrati è talmente diffusa che neanche il datore di lavoro sarà in grado di
assicurare tale sistemazione. Questo problema è conosciuto da sempre e in questo modo si cerca
solo di lanciare la patata bollente ai datori di lavoro che per evitare di scottarsi, molto
probabilmente opteranno per una soluzione illegale, cioè seguiteranno a prendere manodopera in
nero. Una soluzione più razionale e concreta sarebbe stata quella di proporre incentivi atti a
facilitare la coordinazione tra imprese edili, enti locali e associazioni al fine di creare abitazioni per
immigrati cercando, ovviamente, di evitare situazioni ghettizzanti. Il provvedimento, praticamente,
delega al datore di lavoro ogni responsabilità e crea una situazione di ricattabilità ai danni
dell‟immigrato, perché dipenderà dalla persona che fornisce il lavoro anche la sistemazione
alloggiativa, così l‟immigrato perdendo il lavoro perde anche la casa.
In relazione al ricongiungimento familiare c‟è da chiedersi come potranno essere svolti i dovuti
accertamenti per constatare l‟effettiva inadeguatezza del sostentamento da parte di uno dei figli. Se
anche un figlio lavora nel paese d‟origine, come si può impedire al padre di raggiungere l‟altro
figlio immigrato, considerata la misera paga che caratterizza i PVS e che sicuramente non può
garantire il sostentamento di un‟altra persona? Allora, quali sono i criteri adottati per stabilire
l‟eventuale ricongiungimento?
L‟eliminazione dello sponsor penalizza soprattutto, ma non solo, l‟area del lavoro domestico e di
assistenza, un settore in cui c‟è una fortissima richiesta di lavoratori immigrati. Sarà molto difficile
trovare un vecchietto che si fidi di una lista di prenotazione delle colf e badanti o faccia entrare in
casa una persona sconosciuta da tutti e che arriva da lontano. In modo particolare, in questo ambito
la stipula di un contratto di lavoro è preceduta d un rapporto di conoscenza e di fiducia. Rispetto a
queste indicazioni c‟è il rischio che si inneschino assunzioni in nero o che questo settore rimanga
carente di personale. Molto spesso ci si dimentica che si ha a che fare con esseri umani che provano
dei sentimenti, delle emozioni e affetti, sia gli immigrati sia gli italiani, e che ambo le parti
necessitano di politiche mirate alla costruzione di rapporti di conoscenza e di fiducia reciproca,
piuttosto che di stipule di contratti lavorativi che limitano la legalità e facilitano l‟insorgenza di
pregiudizi e di diffidenze, nonché confusione tra il delinquente e il lavoratore precario, magari
proprio vittima del "caporalato".
accesso libero, equo e universale ai saperi
La preparazione del viaggio
Quando una persona si accinge ad emigrare, si imbatte principalmente in tre questioni:
accantonare/interrompere ciò che stava portando avanti dopo aver soppesato i vantaggi e gli
svantaggi della scelta; disporre di cospicue risorse economiche per affrontare le spese del viaggio (
e questo è un paradosso per l‟emigrante!); procurarsi i canali legali giusti che favoriscano la riuscita
nell‟impresa. Se il primo fattore è di importanza secondaria, gli ultimi due sono indispensabili.
Parlando più strettamente dell‟aspetto economico, si può affermare che la frequente inflazione, la
bassa paga dei dipendenti e il basso costo dei prodotti agricoli dei P.V.S., fanno sì che l‟acquisto del
biglietto di aereo/nave si trasformi in un autentico sacrificio economico. In genere il costo del
viaggio è il risultato di tanti anni di risparmio, in alcuni casi vengono coinvolti anche i parenti
dell‟immigrato. La preparazione e la realizzazione del viaggio è raramente una pratica unicamente
individuale, ma si concretizza grazie al supporto e all‟aiuto di familiari, amici ed istituzioni presenti
sul territorio (Mauri et al., 1993). Gli eccessivi costi del biglietto e delle pratiche burocratiche
portano a volte a quintuplicare la spesa complessiva del viaggio. Pur di raggiungere la loro
destinazione e nell‟illusione di trovare subito un lavoro, gli immigrati arrivano a pagare cifre da
capogiro oppure quando non dispongono della somma necessaria contraggono debiti per sostenere
le spese del viaggio. Tali costi variano a seconda dell‟area di provenienza, per alcuni immigrati, ad
esempio i cinesi, il debito da pagare per il viaggio varia tra 5.000 a 15.000 euro; 750 per gli
albanesi; circa 2.750 euro per gli immigrati africani. Mariet, una donna originaria di Manila
(Filippine) ha riferito di avere pagato 1.000 euro per ottenere un passaporto falso e un visto per
entrare in Italia (Macioti et al., 1991). Si tratta di cifre da capogiro nei P.V.S. L‟elevatissimo costo
del viaggio supportato in genere da debiti contratti fanno sì che per alcuni immigrati a fronte della
minaccia del fallimento o dell‟insuccesso cadano nella trappola della malavita organizzata.
L’immigrazione come cambiamento
Il lungo percorso di cambiamento può avere inizio da diverse zone del Paese, come la campagna, la
città o la capitale. Comunque sia, la capitale è il punto con il maggiore numero di persone che
emigrano. Può accadere che un contadino decida personalmente di lasciare il proprio villaggio
oppure venga invitato da un parente o amico a trasferirsi in città con l‟obiettivo di procurarsi
un‟occupazione moderna e più redditizia (Lanternari in Macioti, 1998). La sosta nella capitale
spesso è inevitabile perché generalmente tutte le pratiche necessarie per l‟espatrio vengono svolte lì
e quindi anche persone provenienti dai villaggi devono passarvi. Quando la persona arriva in
Europa, l‟impatto con le abitudini occidentali è più problematico per colui che proviene dalle zone
rurali rispetto a chi è nato e ha vissuto in città dal momento che i centri urbani sono maggiormente
influenzati dalla cultura europea (attraverso gli scambi politici, commerciali e l‟influenza della TV)
di quanto non lo siano i villaggi.
La decisione di emigrare, pur rimanendo una grossa opportunità di miglioramento, per buona parte
degli immigrati si trasforma in un autentico sacrificio in termini non solo di investimento, ma
soprattutto di adattamento. Infatti, alcune persone poco dotate di risorse cognitive (e non solo) sono
più soggette a rimanere vittime dello stress derivante dall‟esperienza migratoria con conseguenze di
vario genere. Tuttavia, Il cambiamento è un evento insito nelle potenzialità del cervello umano, il
non saperlo gestire, affrontarlo, provoca una disorganizzazione nella dinamica dei processi vitali
dell‟individuo (Tognetti Bordogna et al., 1992).
Il bisogno e la speranza di poter condurre una vita più dignitosa e nel contempo di contribuire allo
sviluppo del proprio Paese ricompensa dal prezzo pagato in termini di sacrifici. In ogni nazione
accesso libero, equo e universale ai saperi
servono quegli individui che sono in continua mobilità, che fanno circolare le idee, i soldi, le merci
fra contesti differenti - tali soggetti sono i protagonisti del cambiamento, sono i soggetti trainanti al
mutamento. Il fenomeno del rinnovamento è inevitabile e contiene in sé elementi positivi, creativi e
di grande sviluppo che deve potersi verificare in modo sano (ibidem). Il rapido sviluppo di alcuni
Paesi, in testa gli Stati Uniti d‟America, è stato favorito anche dalla coabitazione di diverse
nazionalità, seppure caratterizzata da forti conflitti sociali e/o etnici. Il processo migratorio svolge
un ruolo di "funzione specchio", cioè l‟immigrazione, più di ogni altro fenomeno, è capace di
rivelare la natura della società detta "di accoglienza" (Dal Lago, 1999) e perciò favorire il
cambiamento al suo interno.
Dal punto di vista psicologico, l‟emigrazione comporta un enorme prezzo in fatto di affetti: la
separazione dai propri cari e/o vicini, costituisce un momento carico di emozioni e di ansia; inoltre,
l‟allontanamento porta a vissuti di speranze, ma al tempo stesso dubbi circa il proprio futuro, come
la riuscita nel perseguire il proprio obiettivo, la salute, la vita stessa, ecc.). Il successo economico
può essere totale, ma permangono le perdite affettive/sentimentali (Thomas, 1921). Si pensa ad
esempio ad un immigrato sposato con moglie e figli, spesso l‟unico stipendiato in famiglia, che a
causa delle condizioni economiche disagiate decide di emigrare, lasciando moglie e figli in Patria. È
altrettanto vero che si verifica la situazione opposta, e cioè, che ad emigrare sia la moglie cedendo
la cura della prole al marito. In entrambi i casi, quando il periodo di soggiorno all‟estero si prolunga
per molto tempo e il partner non riesce a ricongiungersi con la famiglia oppure non si trova nelle
condizioni di continuare ad inviare i soldi per il mantenimento dei propri cari si può arrivare alla
separazione. Quindi, sebbene l‟emigrazione rimane per alcune persone l‟unica soluzione per
migliorare le proprie condizioni di vita, nel caso di immigrati sposati, l‟espatrio di uno dei coniugi
può portare alla disgregazione del nucleo familiare e nella peggiore delle ipotesi anche alla
separazione/divorzio con pesanti conseguenze sul piano psicologico particolarmente per i piccoli.
Le persone che lasciano il proprio luogo di origine, sono portatrici di ricche esperienze personali, in
parte acquisite nell‟ambiente familiare in parte da quello sociale: il modo di condurre la vita, i
rapporti interpersonali, i ritmi di lavoro, l‟alimentazione, il modo di manifestare i propri affetti ed
emozioni, nonché l‟adattamento ad un certo tipo di clima. Tali abitudini sono soggette al
mutamento quando ci si sposta sia all‟interno del proprio Paese, sia soprattutto verso un altro,
perché "costretti" a rivedere, modificare ed adattare i comportamenti consueti. Come sottolineato
sopra, qualsiasi cambiamento, sia esso positivo o negativo, comporta sofferenza in termini di
adattamento. L‟immigrato avverte senza dubbio tale malessere dal momento che cambia nazione,
casa, ambiente (l‟impatto col traffico e l‟inquinamento atmosferico delle città europee), cambia
amici, ed è obbligato ad imparare una nuova lingua, perché quest‟ultima è uno degli strumenti
fondamentale per l‟inserimento socio-lavorativo. In termini economici però, sicuramente
l‟immigrato passa da una situazione in cui disponeva di pochi soldi, a quella in cui i suoi guadagni
sono maggiori e di conseguenza, aumenta la possibilità di entrare in possesso di più beni di
consumo. Il nuovo contesto genera delle crisi e nel corso di tale crisi, l‟immigrato tende a
riorganizzare positivamente la propria vita, ad adottare nuove abitudini e nuovi principi per fare
fronte alla nuova sistemazione (Thomas, 1921). Per alcuni immigrati, l'emigrazione mette in crisi
l‟autonomia soprattutto quando si trovano in una situazione di estremo bisogno. Tale crisi si
manifesta ancora di più quando si tratta di soggetti che avevano già un impiego nel proprio Paese
con un ruolo specifico sia in senso sociale sia all'interno della cerchia parentale. L‟immigrato passa
da una situazione in cui poteva decidere personalmente circa la propria vita a quella in cui sono gli
altri a decidere per lui. Si immagini la situazione di un immigrato ospite presso un centro di
accoglienza dove anche la sua giornata può essere completamente decisa dai responsabili e/o dagli
operatori della struttura.
accesso libero, equo e universale ai saperi
Un altro livello di cambiamento di importanza vitale è legato alla difficoltà di adattamento ai ritmi
del lavoro diversi dai propri e può costituire la causa della perdita del posto occupato. I
cambiamenti più significativi in fatto di lavoro riguardano la massima osservanza della puntualità,
velocità nell‟adempimento delle mansioni, ristretti tempi di pausa, ecc.. Ad esempio, il tempo che
viene concesso agli operai di una fabbrica per mangiare è, molto spesso, di circa 20-30 minuti.
Nonostante questi ritmi frenetici, gli immigrati all‟inizio sono attratti dal guadagno e, in genere
reagiscono bene. Superato l‟entusiasmo iniziale, alcuni di essi si adattano, altri invece non
riuscendo ad abituarsi, rispondono con i classici disturbi da stress. Le migrazioni sono fonte di
continuo stress e di pericoli per la salute a causa degli inevitabili cambiamenti in rapporto
all‟organizzazione del proprio tempo e del proprio contesto con un conseguente totale sradicamento
dalle proprie radici culturali (Longo et al., 1994).
Lo scopo principale di un cambiamento, nonostante le svariate difficoltà affettive, adattive e di
ordine burocratico, è certamente quello di cercare un lavoro, ma è sovente la situazione in cui
bisogna scendere a compromessi accettando la condizione di passare da una categoria professionale
qualificata ad una più bassa. E importante ricordare che ci sono immigrati che nel loro Paese
appartenevano ad un livello sociale alto, con l‟immigrazione, tale status viene ad essere
completamente annullato. A tale proposito, Thomas (1921), riferendosi al contesto statunitense,
affermava che il cambiamento più serio riguarda la perdita della posizione sociale e della
conseguente riduzione del senso della propria personalità quando l‟immigrato entra in contatto con
la nuova realtà. Così, gli immigrati che avevano uno status elevato nel loro Paese si trovano
"costretti" per motivi di sopravvivenza a svolgere lavori umili: ad esempio chi faceva l‟insegnante
nel Paese d‟origine può finire per adempiere mansioni da operaio comune. Questo tipo di
mutamento viene definito migrazione verticale regressiva, intendendo con ciò, la situazione in cui
non vi sia conservazione del proprio status (Amiel, 1985 in Tognetti Bordogna et al., 1992). I
cambiamenti di status in negativo più frequenti riguardano anche la temporanea disoccupazione del
padre e di conseguenza il ridimensionamento del suo ruolo all‟interno della famiglia (Losi et al.,
2000). Tuttavia, questo stato di cose si verifica prevalentemente nella fase iniziale
dell‟immigrazione, poiché superato il momento critico, è possibile vedere che l‟immigrato riesca a
conquistare una condizione lavorativa migliore.
Dal punto di vista religioso, l‟Italia non è ancora in grado di fornire spazi dove gli immigrati di
confessione religiosa diversa da quella locale possono raccogliersi per i loro momenti di preghiera.
In particolare, per gli immigrati di religione islamica, l‟assenza di moschee in alcune città li porta a
dovere spostarsi lontano dal luogo di abitazione oppure devono fare i conti con le difficoltà legate
agli orari di lavoro italiano e alle giornate di festività differenti. Inoltre, gli immigrati dei P.V.S. che
rimangono fedeli alla loro religione non sono in condizioni di espletare le cerimonie e devono
perciò delegare tale pratica ai parenti rimasti nel paese; per coloro che sono invece di religione
cattolica, il cambiamento può riguardare l‟atmosfera festosa, accompagnata da suoni e ritmi di
tamburi, che si vive durante la messa e di canti e di danze soprattutto durante il momento
dell‟offertorio.
Le migrazioni non sono un fenomeno legato ad un semplice cambiamento di luogo, ma implicano
una moltitudine di trasformazioni e adattamenti molto complessi e difficili che vanno dalle
elementari abitudini quotidiane, quali, il vestirsi, il magiare, l‟utilizzo del tempo libero, ai
cambiamenti più importanti come gli affetti dei propri cari ed amici, delle credenze e delle certezze
fino all‟obbligo di adattarsi e di accettare ciò che viene offerto, anche se a caro prezzo.
accesso libero, equo e universale ai saperi
Una breve analisi del fenomeno migratorio in Italia
L‟ingresso di immigrati in Italia ha iniziato ad assumere dimensioni sempre più crescenti a partire
dal 1990 con conseguenti problemi di alloggio e di regolarizzazione dello status giuridico. Uno
sguardo del fenomeno per area geografica (tabella 1) dimostra che sono soprattutto i Paesi dell‟Est
europeo a costituire la presenza più significativa con un valore che sfiora i trenta punti percentuali.
La seconda area per importanza immigratoria è quella africana che registra il 27.8%, cui segue il
continente asiatico che però si arresta al 20.0%. Gli immigrati dell‟U.E. e quelli dell‟America
superano separatamente di poco il 10.0%. Alla base di questa differenza numerica sembrano
prevalere due spiegazioni: a) il minore numero dei cittadini dei paesi P.S. è dovuto allo sviluppo e
benessere tipico di dette nazioni; b) il continuo aumento degli immigrati dei P.V.S. è determinato
dai conflitti armati degli ultimi anni, verificatisi soprattutto nei Paesi dell‟Est europeo nonché dagli
accordi economici stipulati con i medesimi stati. Ad esempio, l‟Italia è tra i primi paesi europei ad
essere interessata nell‟importazione di materie prime dal Maghreb.
Procedendo nell‟analisi del fenomeno relativamente al motivo della richiesta del permesso di
soggiorno (Tabella 1), emerge in modo chiaro che il 60.5% degli immigrati è arrivato in Italia per
motivi di lavoro. Questo dato conferma l‟ipotesi secondo cui le partenze sono determinate dal
differenziale di reddito e dalle cattive condizioni di vita. Il valore relativo al ricongiungimento
familiare (26.4%) sembra indicare una tendenza verso l‟immigrazione stanziale. Un‟importante
presenza è rappresentata invece dagli immigrati che giungono in Italia per motivi non collegati al
lavoro (religiosi, residenza elettiva e studio) che costituiscono complessivamente il 9.8%. Gli
ingressi dovuti per motivi di asilo politico si attestano ad un livello bassissimo, cioè lo 0.8%,
nonostante l‟elevato numero di richieste che vengono inoltrate annualmente. Infine, è interessante
osservare che dal punto di vista di genere, non vi è molta differenza tra le presenze maschili e
femminili (tabella 1) e questo denota un importante cambiamento rispetto al passato. Gli ingressi
continuano ad aumentare tanto che si è avuto un incremento di 136.159 unità rispetto all‟anno
precedente corrispondente cioè al 10.9%. Questi incrementi hanno decisamente modificato in
positivo l‟incidenza percentuale sulla popolazione italiana che è pari a 3.9% su 57.844.017.
Tab. 1 Prospetto dell’immigrazione in Italia al 31/12/2000
Provenienza continentale
V.A
%
U.E.
151.799
10.9
Altri paesi europei
404.768
29.2
Africa
385.630
27.8
Asia
277.644
20.0
America
164.942
11.9
Oceania/Apolidi
3.370
0.3
Totale
1.388.153
100.0
Lavoro
839.982
60.5
Famiglia (inclusi adozioni ed affidamenti)
366.132
26.4
Motivi di soggiorno
accesso libero, equo e universale ai saperi
Inserimento non lavorativo (religiose, residenza 136.098
elettiva, studio)
9.8
Presenza non di inserimento (giudiziari, salute e 14.161
turismo)
1.0
Asilo politico e richiesta asilo
10.435
0.8
Altri motivi
21.345
1.5
Maschi
754.424
54.2
Femmine
583.729
45.8
Caratteristiche incidenza popolazione immigrata
Fonte: elaborazione Caritas/Dossier Statistico Immigrazione su dati del Ministero dell‟Interno
Gli ingressi migratori degli anni ‟90 si caratterizzano soprattutto per l‟ampia varietà delle
provenienze nazionali degli immigrati (tabella 2), ma al di là di questo divario, il fenomeno rimane
rappresentato dai paesi vicini all‟Italia: da un lato l‟Albania e la Romania, dall‟altro, il Marocco.
Infatti, i valori percentuali in fatto di nuovi arrivi risultano più elevati tra questi paesi rispetto al
resto delle nazionalità presenti. Uno sguardo partendo dall‟alto basato sui valori percentuali dei
nuovi ingressi permette di distinguere a grandi linee dei raggruppamenti secondo quanto segue: il
primo gruppo di paesi presenta un valore superiore al 7.0% e si colloca tra e Albania e Romania, il
secondo registra una percentuale compresa tra 2.1-4.1 ed interessa gli U.S.A. fino a comprendere la
Francia, il terzo gruppo che è quello più consistente va dalla Gran Bretagna al Pakistan e ha un
valore che oscilla tra l‟1-1.9% ed infine, il quarto gruppo rappresentato dal Giappone alla Svizzera
si arresta al di sotto dell‟1.0%. Soffermandosi sulla colonna relativa "incidenza nuovi ingressi sul
soggiorno" emerge con chiarezza che sebbene si siano verificati espressivi incrementi, sono poche
le nazionalità che superano il 15%. Valori significativi riguardano Romania (18%), India (15.%),
Ucraina (42%), Russia (17.9%), Iraq-Curdi (90.9%), Colombia (18.0%), Cuba (22.9), Giappone
(21.5%), Turchia-Curdi (20.2%), Bulgaria (16.9%) e Nigeria (51.1%). Escluso il Giappone, tutti gli
altri gruppi nazionali presentano pesanti crisi economiche aggravati anche dai conflitti armati. Le
informazioni concernenti la presenza dei maschi e delle femmine, evidenziano che su 40 gruppi
nazionali (tabella 2), nel 50% delle nazionalità, la maggioranza è rappresentata dalle donne e nel
rimanente 50% prevalgono i maschi.
Tab. 2 Nuovi ingressi validi a fine anno: primi gruppi nazionali - 2000
Nazionalità
Nuovi
ingressi
%
Soggiorno
31/12/1999ISTAT
Albania
16.990
10.9
133.018
Marocco
13.739
8.8
Romania
11.412
7.1
%M
%F
12.7
53.0
47.0
155.864
8.8
61.7
38.3
61.212
18.6
53.8
46.2
accesso libero, equo e universale ai saperi
al Incidenza
nuovi
ingressi
sul
soggiorno
U.S.A.
6.484
4.1
47.855
13.5
38.6
61.4
Cina
5.360
3.4
56.660
9.5
57.9
42.1
Filippine
5.222
3.3
67.386
7.7
35.7
64.3
Germania
4.504
2.9
35.332
12.7
39.9
60.1
India
4.351
2.8
27.568
15.8
68.6
31.4
Polonia
4.127
2.6
29.478
14.0
30.5
69.5
Tunisia
3.769
2.4
46.773
8.1
71.7
28.3
Sri-Lanka
3.446
2.2
31.991
10.8
55.4
44.6
Francia
3.352
2.1
25.337
13.2
41.1
58.9
Gran
Bretagna
2.956
1.9
23.298
12.7
43.7
56.3
Spagna
2.769
1.7
17.750
15.6
32.3
67.7
Ucraina
2.751
1.7
6.527
42.1
28.7
71.3
Brasile
2.707
1.7
18.888
14.3
33.5
66.5
Perù
2.676
1.7
29.074
9.2
39.9
60.1
Macedonia
2.593
1.6
19.884
13.0
61.8
38.2
Jugoslavia
2.590
1.6
41.234
6.3
55.3
44.7
Russia
2.400
1.5
13.399
17.9
33.5
66.5
Bangladesh
2.187
1.4
18.980
11.5
84.9
15.1
Iraq (Curdi) 2.107
1.3
2.318
90.9
87.6
12.4
Croazia
1.994
1.2
16.508
12.1
60.2
39.8
Egitto
1.879
1.2
34.042
5.5
84.4
15.6
Colombia
1.700
1.0
9.460
18.0
32.7
67.3
Cuba
1.658
1.0
7.228
22.9
18.3
81.3
Pakistan
1.638
1.0
17.237
9.5
88.0
12.0
Giappone
1.447
0.9
6.741
21.5
40.4
59.6
Rep.
1.434
Domenicana
0.9
10.765
13.1
29.9
70.1
Equador
1.422
0.9
10.513
13.5
33.5
66.5
Grecia
1.309
0.8
9.569
13.7
51.3
48.7
Moldavia
1.305
0.8
1.146
11.4
31.6
68.4
Turchia
1.258
0.8
6.277
20.2
74.4
25.6
accesso libero, equo e universale ai saperi
(Curdi)
Bulgaria
1.247
0.8
7.378
16.9
46.2
53.8
Bosnia
Erzegovina
1.219
0.7
11.485
10.6
57.7
42.3
Nigeria
1.025
0.6
20.056
51.1
37.6
62.4
Austria
941
0.6
7.997
11.8
39.6
60.4
Ghana
935
0.6
19.972
4.7
Argentina
900
0.5
6.126
14.7
Svizzera
860
0.5
15.769
5.5
44.8
55.2
Totale
155.264
100.0 1.340.655
11.6
53.6
46.4
Fonte: elaborazione Caritas/Dossier Statistico Immigrazione su dati del Ministero dell‟Interno, 2000
I dati contenuti nella tabella 3 riassumono l‟andamento del fenomeno nell‟intervallo di tempo
compreso tra il 1990 ed 1999. Se dal 1991 gli ingressi sembravano assumere un andamento
crescente, già a partire del 1992 si è registrato una diminuzione di oltre 18.000 unità, per poi
segnare un recupero sebbene limitato nell‟anno 1993. Infatti, per tre anni consecutivi si è osservata
una consistente flessione, diminuzione questa compensata dagli incrementi dei tre anni successivi
che vanno dal 1997 al 1999.
Tab. 3 Andamento dei permessi concessi nel periodo di tempo tra 1990-1999
V.A,
Indice
1990
82.775
100
1991
135.812
164
1992
116.984
141
1993
150.750
182
1994
138.305
167
1995
137.297
166
1996
112.566
136
1997
155.241
188
1998
176.999
214
1999
200.471
242
Fonte: elaborazione Caritas/Dossier Statistico Immigrazione su dati del Ministero dell‟Interno, 2000
Da questa breve analisi, si può dedurre che sebbene le migrazioni siano determinate dalle disagiate
condizioni di vita, esistono fattori che influenzano il loro decorso e pertanto creano la diversità
accesso libero, equo e universale ai saperi
numerica tra i vari gruppi nazionali nel Paese d‟immigrazione. Tra questi fattori si segnala: la
vicinanza e gli accordi tra gli stati. L‟Italia per la sua vicinanza all‟area maghrebina ha sempre
attratto un maggiore numero di cittadini di detta zona. Una situazione analoga, ma di
manifestazione recente interessa i paesi dell‟Est Europeo seppure condizionata come già
sottolineato sopra da eventi bellici. Un segnale positivo è rappresentato invece da un orientamento
delle donne ad intraprendere il percorso di emancipazione sociale alla stessa stregua dei maschi,
anche se tale tendenza sembra riguardi soprattutto i Paesi dell‟Est, il Sud America e le provenienze
dai P.S.V. La differenza emersa tra le donne sembra essere imputabile alla diversità del livello di
istruzione che a sua volta accresce il desiderio di emancipazione nell‟emigrazione: come è risaputo,
le donne dell‟Est e quelle del Sud America in generale presentano un livello medio alto di
scolarizzazione.
Le teorie delle migrazioni
La molteplicità dei fattori che concorre a determinare i movimenti migratori impone un‟analisi che
tenga in considerazione le dinamiche macro e micro strutturali che generano le partenze. È sulla
base di tali meccanismi che gli studiosi del settore hanno orientato il loro sforzo nel tentativo di
fornire la spiegazione del fenomeno.
È ormai ampiamente riconosciuto che le motivazioni che stanno alla base dell‟emigrazione sono
dovuti a tre grandi categorie di fattori: la prima categoria riguarda i fattori di espulsione (push
factors) che comprendono a) inadeguato sviluppo umano – povertà ossia un‟iniqua distribuzione
delle ricchezze nel mondo: i Paesi Sviluppati rappresentano il 23% della popolazione mondiale che
detiene l‟80% delle ricchezze, contro il 20% dei Paesi in Via di Sviluppo dove vive il 77% della
popolazione mondiale; b) esplosione demografica e urbanizzazione: rispettivamente l‟elevato
numero di nascite nei P.V.S. che dispongono di scarso cibo e il fatto che il reddito pro capite della
popolazione cittadina è dal 50% al 100% più alto rispetto a quello delle aree rurali; c) guerre,
repressioni: profughi e rifugiati; d) catastrofi ambientali: profughi ambientali; e) aspettative
culturali: la diffusione dei modelli di vita dei P.S.
La seconda categoria è rappresentata dai fattori di attrazione nei paesi di approdo (pull factors)
costituiti da: a) aspettative culturali (benessere, libertà) – possibilità economiche (possibilità di
guadagnare di più rispetto al Paese d‟origine); b) richiesta di manodopera – ricongiungimento
familiare - è più probabile essere attratti verso un Paese dove si trova già un parente.
La terza e ultima categoria riguarda i fattori di scelta (choice factors): a) legislativo-amministrativo:
la persona che si accinge ad emigrare effettua la scelta a seconda del grado di restrittività o di
flessibilità delle leggi in materia di immigrazione (aspetto normativo), a seconda del grado di
rigidità nell‟applicazione delle leggi da parte delle forze dell‟ordine (aspetto esecutivo) e in
considerazione della severità della pena (aspetto punitivo); b) affettivo: riguarda la comunità di
riferimento, ad esempio, se i connazionali già immigrati sono ben organizzati e disponibili a fornire
l‟appoggio ai nuovi arrivati; c) ambiente sociale, cioè se i cittadini locali sono più o meno
accoglienti nei loro confronti; d) clima, se si tratta di un clima rigido o mite.
Negli ultimi anni c‟è stata una rilettura dei fenomeni migratori ed è emerso che ad emigrare non
siano solo i disperati dalla fame in cerca di migliori condizioni di vita e che le partenze avvengono
in modo organizzato (Ambrosini, 1999). Gli immigrati provengono dalle zone dove incomincia ad
emergere la possibilità di una vita promettente e gli arrivi sono programmati attraverso i legami e le
reti di persone (Ibidem). È sulla base di questa rete di legami che alcuni immigrati scelgono
determinati Paesi piuttosto che altri.
accesso libero, equo e universale ai saperi
I contributi degli studiosi rispetto a questi fattori possono essere sintetizzati in tre teorie.
Le Teorie macro economiche, l‟emigrazione è programmata sia a livello formale che informale: a)
formale, a favorire le migrazioni sono gli accordi tra i governi per movimenti di lavoratori, leggi
sull‟immigrazione, decisione di quote di ingressi annuali, accoglienza di rifugiati, disposizioni
relative all‟accesso alla cittadinanza, diritti e politiche per gli immigrati; b) informale, gli
spostamenti sono dovuti ad elevate differenze di reddito tra i Paesi di provenienza degli immigrati
rispetto a quelli di accoglienza, permeabilità di fatto di alcune frontiere, domanda non esplicita di
lavoro immigrato, influenza della comunicazione di massa (Light et al., 1993 in Ambrosini; 1999);
Le Teorie dei network migratori per cui l‟arrivo degli immigrati è mediato a livello formale dalle
norme di ricongiungimento familiare, dalla formazione di minoranze organizzate e dotate di
istituzioni riconosciute e dai servizi formali per gli immigrati mentre in via informale, l‟emigrazione
è facilitata attraverso la formazione di reti di mutuo aiuto, le reti di sostegno autoctone, le
specializzazioni etniche, le catene migratorie e le istituzioni facilitatrici (Pollini et al., 1998);
Infine, le Teorie micro economiche mettono in evidenziano il ruolo attivo del migrante e dei
familiari nell‟attuazione del cambiamento, l‟immigrato è visto come un soggetto razionale che
decide di emigrare dopo avere valutato attentamente i costi ed i benefici, egli sceglie
deliberatamente dove gli conviene investire le proprie risorse (Borjas, 1990). A questo livello, per
via formale, vi è l‟attivazione di procedure legali per l‟emigrazione, l‟utilizzo di rimesse inviate
mediante canali istituzionali; la procedura informale invece prevede: decisioni (individuali e
familiari) di emigrazione, l‟invio di rimesse attraverso canali informali e l‟attivazione di
meccanismi di richiamo.
Vi è poi la Teoria della diversificazione dei rischi/investimenti: le famiglie, promovendo la
migrazione all‟estero di alcuni dei loro componenti, attuerebbero scelte razionali di auto-tutela
rispetto all‟instabilità e all‟imprevedibilità dell‟economia contemporanea, in modo che i redditi
percepiti all‟estero possano eventualmente aiutare a superare le difficoltà economiche che
potrebbero accadere in Patria (Massey, 1988 in Ambrosini, 1999).
Rifacendosi alle macro Teorie, in particolare modo agli aspetti relativi agli accordi tra gli Stati e
alle decisioni di quote di ingresso si deduce che l‟immigrazione è anche un problema dei Paesi
ospitanti, nel senso che a seconda del periodo socio-economico l‟arrivo di nuovi cittadini può essere
favorito o meno così come la loro integrazione nel tessuto sociale. Secondo Ambrosini (1999), ogni
Paese costruisce un proprio modello di immigrazione, di conseguenza, è possibile individuare a
livello internazionale diversi modelli migratori:




modello dell‟immigrazione temporanea (Germania), gli immigrati venivano chiamati per
soddisfare le esigenze economiche, è un modello strumentale;
modello assimilativo (Francia), da un lato c‟è una politica di spinta a favorire una rapida
assimilazione anche culturale degli immigrati considerati sprovvisti di radici, dall‟altro, il
sistema ostacola e scoraggia la formazione di comunità minoritarie;
modello società multiculturale (U.S.A., Olanda, Svezia, Inghilterra), la filosofia che sta alla
base di questo modello è l‟atteggiamento di vicinanza o meno agli immigrati e alle loro
culture; in concreto, si cerca di sostenere e valorizzare la formazione delle comunità e delle
associazioni delle minoranze;
modello implicito (Italia), l‟immigrazione non è stata esplicitamente costruita, non vi è un
modello di regolamentazione e di promozione più organizzata di immigrati, si finisce per
regolarizzare chi è entrato illegalmente nel territorio.
accesso libero, equo e universale ai saperi
Da quanto presentato finora, si evince che il fenomeno migratorio non può essere circoscritto alla
mera percezione di gruppi di persone in movimenti, ma va inserito in un contesto più ampio e
complesso, sia da un punto di sociale, economico, politico sia prettamente individuale.
L’emigrazione programmata forzata
Il trasferimento di persone verso una località al di fuori del luogo abituale di vita avviene in seguito
ad una scelta maturata nel tempo, decisione accompagnata da un‟attenta valutazione sul perché,
dove, come e quando partire nonché dalla preparazione sia in termini del costo del viaggio sia delle
pratiche burocratiche come esposto sopra. Allo stato attuale in cui si accentua sempre di più la
disuguaglianza di ricchezza tra il Nord ed il Sud del mondo e nella misura in cui in quest‟ultima
parte del Pianeta si imperversano i conflitti armati, si può affermare (eccezione fatta per pochi casi)
che tutte le migrazioni sono forzate, solo che alcune sono programmate, mentre altre non lo sono,
come vedremo più avanti.
L‟imperioso bisogno di cambiare il luogo di vita è dovuto ad una reazione di rifiuto di continuare a
vivere in un ambiente che offre poche opportunità di miglioramento: un contesto lavorativo e
retributivo poco stimolante, noioso e mortificante, un ambiente che non appaga il soggetto per gli
sforzi compiuti. Nei P.V.S. dove la maggiore parte del lavoro viene svolto ancora manualmente,
una persona lavora molte ore al giorno (dieci o più) con molto dispendio di energia fisica per
produrre ricchezza per poi ottenere un guadagno insignificante che non corrisponde affatto allo
sforzo impiegato. Come è ampiamente risaputo, la paga mensile di un operaio nei P.V.S. non arriva
a superare i 20 dollari mensili. Con tale mensilità un individuo non riuscirà mai a condurre una vita
decente. Sono contesti dove la maggioranza della popolazione che produce ricchezza rimane
sottomessa alla minoranza benestante che mantiene la padronanza sui beni utilizzando a volte
metodi che violano i più elementari Diritti Umani. Quindi, non sarebbe azzardato affermare che le
cause di questi problemi sono da attribuire alle istituzioni, in primis il Governo, il quale mancando
di politiche occupazionali, causa forti disagi alle popolazioni e permette che taluni cittadini
sfruttino, infliggano sofferenze agli altri. Queste condizioni di vita vengono aggravate
sistematicamente dalle politiche di riaggiustamento strutturale imposte dagli istituti finanziari
internazionali determinando pesanti conseguenze da tutti i punti di vista alle popolazioni interessate.
Ribadendo quanto appena esposto, si può dire che le partenze sono in ogni caso "forzate" e perciò,
possono essere riassunte in due grosse categorie: emigrazione programmata forzata e emigrazione
non programmata forzata. La prima scaturisce da un forte disagio socio-economico ed è quella
prevalente, mentre la seconda, è dovuto a guerre, catastrofi naturali, persecuzioni politiche, ecc.;
infatti in questo caso, la persona non ha la possibilità di progettare i tempi e le modalità dello
spostamento, vi è solo l‟urgenza di fuggire per garantirsi la sopravvivenza, mentre il tempo per la
ristrutturazione/riorganizzazione della propria vita viene posticipata ad una fase successiva. Dopo
questa piccola premessa, qui di seguito, verrà presa in considerazione solo il tipo di emigrazione.
Come appare chiaramente dalla terminologia adottata, nell‟ambito di una emigrazione forzata
programmata, la persona è costretta a trovare soluzioni ai propri bisogni fuori dal luogo abituale di
vita attraverso la messa in atto di un ben definito progetto. Da questo punto di vista e
metaforicamente parlando, l‟emigrato si comporta allo stesso modo di un progettista del settore
sociale. Infatti, così come l‟operatore che lavora nell‟area sociale può stilare un progetto per cercare
di risolvere il disagio di una categoria debole (ad esempio, devianza minorile, tossicodipendenza,
ecc.) con degli obiettivi e dei risultati ben precisi, in modo analogo, l‟immigrato parte con un
progetto per superare la critica condizione economica. Nella maggiore parte dei migranti, il progetto
migratorio viene preparato nei minimi dettagli con degli obiettivi ben precisi, via via
accesso libero, equo e universale ai saperi
riaggiustato/calibrato secondo le opportunità o gli ostacoli che l‟interessato trova in loco. Per il
raggiungimento degli obiettivi prefissati, l‟emigrato mette in moto oltre alle proprie risorse
personali, anche quelle sociali ed istituzionali. In relazione alle risorse personali, si fa riferimento a
tutto ciò che riguarda il livello di scolarità, le competenze professionali acquisite nel paese
d‟origine, la conoscenza delle lingue (soprattutto quella del paese di destinazione), la capacità di
adattamento nelle sue varie forme; mentre per risorse sociali si intende l‟insieme di sostegni cercati
o offerti dagli amici e parenti (reperimento dell‟abitazione e del lavoro) ed infine, le risorse
istituzionali sono quelle legate a tutte le politiche promosse per favorire l‟inserimento sociolavorativo degli immigrati. Per cui la riuscita del progetto migratorio dipende dalla combinazione di
questi fattori.
Anche se l‟emigrazione forzata programmata presuppone la formulazione di un progetto, tra gli
immigrati vi sono individui che arrivano seppure con progetti definiti, fanno fatica almeno nella
fase iniziale a mettere in atto quelle azioni necessarie a portare ai risultati attesi e ciò sembra
dipendere dalla giovane età. Per tale ragione, i comportamenti di alcuni giovani immigrati vengono
interpretati sbrigativamente come un‟avventura. Secondo Colombo (1998), una persona che emigra
all‟avventura, con o senza amici, avrà aspirazioni diverse da chi ha/sente la responsabilità
famigliare. È la mancanza di responsabilità a contraddistinguere l‟atteggiamento del giovane da
altre persone immigrate che hanno un ruolo socio-familiare ben definito. L‟idea dei cosiddetti
immigrati all‟avventura senza un progetto migratorio è fuori luogo in quanto lo spostamento di per
sé presuppone raggiungere una meta, un luogo con tutti benefici ad esso collegato. È per questo
motivo che occorre concepire l‟espatrio in due fasi: una prima fase in cui si realizza l‟investimento
di denaro finalizzato al trasferimento; una successiva in cui il migrante può impegnarsi subito o
ritardare il miglioramento della propria condizione socio-economica. A tale proposito si distinguono
due tipi di modalità comportamentali: a) la giovane età e l‟assenza di responsabilità contribuiscono
in alcuni casi a fare in modo che non si abbiano le idee chiare circa il proprio futuro e perciò a non
mantenere l‟intraprendenza necessaria a raggiungere gli obiettivi inizialmente prefissati,
posticipando così l‟impegno al risparmio a vantaggio di brevi soggiorni nei vari paesi per
confrontarsi con i coetanei e fare esperienze; b) la presenza tra gli immigrati di persone che
continuano ad adottare lo stile di vita a cui erano abituate. Infatti, ci sono individui (pochi, ma
presenti in tutte le parti del mondo) orientati a vivere alla giornata e perciò si impegnano poco a
produrre un reddito che possa garantire loro un futuro. Forse lo sbaglio che commettiamo tutti è
quello di pensare che ogni azione umana è finalizzata all‟accumulo di risorse in ogni momento.
Tuttavia, occorre ammettere che quest‟ultima modalità comportamentale genera una situazione di
precarietà che può costituire, a lungo andare, un elevato rischio per un immigrato soprattutto nelle
situazioni in cui manca l‟appoggio importante della famiglia e/o dell‟istituzione.
Se il ruolo della famiglia viene a ridimensionarsi o ad azzerarsi nel paese di destinazione per la
lontananza, alla partenza, essa svolge una funzione decisiva per la definizione del progetto, per la
preparazione ed attuazione del viaggio. In relazione alle formulazioni teoriche esposte prima, gli
elementi di novità sono rappresentati soprattutto dalla messa in evidenza non solo del ruolo delle
reti sociali e dell‟atteggiamento razionale degli individui, ma anche e soprattutto delle famiglie
nella scelta dei luoghi dove investire la forza lavoro di un membro famigliare. Se è la famiglia a
promuovere l‟emigrazione di un proprio membro come una forma di autotutela, tale promozione
viene fatta su una valutazione mirata (programmata), nel senso che si valuta attentamente quale
parente conviene fare partire. La decisione di investire su un famigliare non avviene in modo
casuale, ma è preceduta dal confronto fra i vari membri, in genere vengono scelti i più giovani. Tale
confronto è orientato a scegliere il membro più promettente, in buona salute, colui che presenta il
minore rischio di fallimento, colui che ha sempre dato prova di riuscita: ad esempio successo
scolastico, precedenti azioni positive del giovane di fronte alle difficoltà familiari. È in ragione di
accesso libero, equo e universale ai saperi
ciò che si può affermare che la promozione all‟emigrazione di un parente passa per un processo di
negoziazione tra i componenti parentali. In sintesi, la decisone delle famiglie passa da un lato,
attraverso sia il confronto dei luoghi dove conviene "inviare" il membro, sia paragonando le
potenzialità dei candidati parentali, dall‟altro, investendo risorse e cercando collegamenti nei paesi
di riferimento.
Prima di concludere questa riflessione, preme anche sottolineare che l‟emigrazione programmata
forzata non avviene solo in presenza di disagiate condizioni economiche oggettive, ma anche in
previsione del peggioramento del tenore di vita. In relazione a ciò, si fa presente come i cittadini di
Hong Kong dell‟allora colonia inglese, prevedendo le conseguenze negative alla fine del tutorato
britannico (1997), avevano iniziato uno spostamento di massa, addirittura due anni prima, verso i
paesi che secondo loro potevano permettere di mantenere quello standard di vita a cui erano
abituati. È opportuno, non trascurare il fatto che l‟attuale scenario delle migrazioni ha anche come
protagonisti individui che provengono dai paesi dove si iniziano ad intravedere gli spiragli di
miglioramenti in termini di reddito, vale a dire, partono coloro che dispongono di maggiori risorse
economiche per sostenere le spese del viaggio (Reyneri, 1996).
Si può concludere, affermando che sebbene le partenze sembrino essere decisioni isolate, in realtà,
esse si inseriscono in un quadro di dinamiche strutturali ben più complesse: condizioni di povertà
dovute ai sistemi politici dei singoli paesi a cui si aggiunge la continua pressione degli organismi
finanziari occidentali. Inoltre, le emigrazione sebbene siano determinate da fattori di esodo, non
avvengono in modo casuale ed improvviso, ma sono il risultato di un lungo lavoro di
programmazione.
Tipologie progettuali nell’emigrato: la triade socio-economica nel cambiamento di luogo
Qualsiasi tipo di emigrazione, può essere sia interna che esterna: nel primo caso, il trasferimento
avviene nello stesso Paese, per cui, essa pone irrilevanti problemi di tipo affettivo, burocratico,
culturale e linguistico; nel secondo caso, lo spostamento ha come meta l‟insediamento fuori dal
proprio Paese. In quest‟ultima condizione, si avrà una situazione diametralmente opposta. Il
presupposto fondamentale del processo migratorio è il mutamento di luogo di vita, inteso come
nuovo spazio in cui gli individui, nello stesso momento in cui si slegano da altri rapporti, incontrano
altre persone e tessono pazientemente le relazioni e l‟insieme dei vissuti che ne derivano. Pertanto,
ritengo corretto adoperare il termine cambiamento di luogo piuttosto che di nazione, in quanto
quest‟ultimo denota soltanto l‟emigrazione esterna, mentre l‟adozione del primo termine vale per
entrambe le migrazioni. La riflessione a seguire verterà particolarmente sull‟emigrazione di tipo
esterno.
In questa sede, seppure l‟analisi è finalizzata ad esaminare le progettualità degli immigrati non
appartenenti all‟U.E. soggiornanti in Italia, in realtà, la riflessione circa le varie forme di progetti
interessano tutti i migranti a prescindere dal paese di provenienza e dallo strato sociale, ovvero, la
migrazione va dall‟operaio generico, al funzionario fino all‟imprenditore e/o intellettuale.
Nell‟ambito della prospettiva di emigrazione programmata forzata come si è visto prima, è
possibile avanzare l‟ipotesi secondo cui esistono differenze tra i progetti migratori a seconda delle
motivazioni. In virtù di tali differenze, propongo di riassumere i vari progetti migratori con la
seguente terminologia: La triade socio-economica del cambiamento di luogo. Il cambiamento del
luogo di vita può portare a seconda del tipo di progetto alla modificazione della posizione socioeconomica: a) acquisizione di un maggiore potere d‟acquisto e/o conquista di uno status sociale
elevato. Passerò ora ad esaminare le varie forme progettuali.
accesso libero, equo e universale ai saperi
1. La prima tipologia è caratterizzata dal miglioramento del potere economico senza il mutamento
dello status sociale. Nell‟ambito di questa peculiarità, il soggiorno dell‟immigrato può avere la
durata varia: bassa (fino a due anni), media (3-5 anni), prolungata (dai 6 anni in su) e definitiva.
Questo livello di cambiamento riguarda il desiderio di abbandonare uno specifico spazio fisico con
le opportunità ad esso connesse (relazioni parentali ed amicali, lavoro, abitazione, ecc.) per
trasferirsi in un altro, ritenuto promettente, senza per forza desiderare di modificare il proprio
status/posizione sociale. Così, se una persona apparteneva alla classe degli operai generici nel
proprio Paese e ad un certo punto della sua vita decide di andare all‟estero per lavorare come
operaio generico, se si farà una classificazione dal punto di vista sociologico in questo nuovo luogo,
avremo un immigrato con un buon potere di acquisto, che può permettersi l‟affitto di un‟abitazione
decente o nella migliore delle ipotesi l‟acquisto di un appartamento, avere una modesta macchina,
integrarsi socialmente, ecc.. La situazione diametralmente opposta, può verificarsi in una frangia di
immigrati che, seppure intenzionati a migliorare il potere d‟acquisto, a causa delle varie difficoltà,
finiscono per vivere nella precarietà, senza un lavoro stabile e spesso in condizione di senza dimora,
riescono a malapena a mangiare, in genere sono privi di documenti e permangono in tali condizioni
per molto tempo; per essi, non solo non vi è stato il miglioramento del potere d‟acquisto, ma si è
osservato il peggioramento dello status sociale di partenza – vi è stato un passaggio dalla
condizione di operaio con lavoro continuativo nel paese d‟origine ad una di lavoro saltuario o
condizione di disoccupazione. Quando anche riescono a regolarizzare la loro posizione giuridica,
continuano ad essere esposti al rischio di perderla.
Per un immigrato che riesce ad acquisire un buon potere d‟acquisto nel paese d‟immigrazione senza
un corrispettivo miglioramento della posizione sociale di partenza, si ha un mantenimento di status
e la modificazione del potere di entrare in possesso di beni di consumo. Il cambiamento di luogo
può comportare un maggiore guadagno soprattutto per gli immigrati dei P.V.S., sebbene ciò
avvenga anche per i migranti dei P.S. che emigrano verso i paesi meno industrializzati. Infatti, da un
punto di vista dell‟aumento del potere d‟acquisto, gli immigrati del Sud del mondo presentano una
retribuzione certamente dieci/quindici volte superiore rispetto al paese d‟origine, ma nel contempo
debole in quello di immigrazione. Il guadagno invece degli emigrati occidentali soggiornanti nei
P.V.S. è superiore sia alla media della nazione d‟appartenenza sia soprattutto a quella del paese
ospitante (per la gran parte di questi paesi, la paga 50-70 volte). A tale proposito, vale la pena di
ricordare che la migrazione degli occidentali (esclusa quella a carattere diplomatico, volontariato ed
ecclesiastico) si manifesta prevalentemente in due modalità: a) nell‟ambito dei progetti di
cooperazione che procurano agli interessati compensi invidiabili, b) la delocalizzazione da parte di
medi/grandi gruppi industriali delle attività produttive nei paesi dove il costo del lavoro è
particolarmente basso, azzerando così il rischio di fallimento e nel contempo rafforzando il potere
concorrenziale. Secondo Brecher (2001), di fronte ad un‟inarrestabile concorrenza internazionale, le
grandi imprese hanno iniziato a sperimentare strategie volte ad aumentare i profitti attraverso il
taglio dei salari e di altri costi, tali strategie comprendevano lo spostamento delle attività verso
luoghi con costi più bassi. Se l‟emigrazione dei cittadini del P.V.S. rappresenta una spinta
all‟emancipazione sociale (Basso et al., 2000), quella delocalizzante dei gruppi industriali dei P.S.
esprime il dominio, la perpetuazione della distribuzione disuguale della ricchezza sia all‟interno del
proprio contesto di appartenenza sia tra le popolazioni del mondo.
Per quanto riguarda, i migranti appartenenti alla classe media ed alta (persone con qualifiche
professionali e/o livello culturale elevati), va detto che se da un lato, la motivazione è certamente
legata all‟aumento del potere d‟acquisto, dall‟altro, la spinta migratoria è fortemente dovuta al
desiderio di realizzare le proprie aspirazioni culturali e/o professionali: ad esempio, un funzionario
o un ricercatore di qualsiasi paese europeo che si trasferisce negli U.S.A. rispettivamente, uno a
causa delle ottimali condizioni lavorative (sistemi burocratici informatizzati, maggiori incentivi) e
accesso libero, equo e universale ai saperi
l‟altro per le opportunità di accedere alle risorse e tecnologia presenti in questo paese per fare
ricerca. Quest‟ultimo tipo di emigrazione è conosciuta con il nome della fuga dei cervelli che
interessa la gran parte dei paesi del mondo: dai meno sviluppati a quelli più sviluppati. Quindi, ciò
che contraddistingue ad esempio, l‟operaio non appartenente all‟U.E. che viene in Italia per lavorare
dal ricercatore italiano che va negli Stati Uniti d‟America è che nel primo caso, l‟emigrazione è
prevalentemente determinata dal bisogno esistenziale, di sopravvivenza, nel secondo, il
trasferimento è motivato soprattutto da una necessità "psicologica" di potere esprimere al massimo
le proprie potenzialità intellettive. In entrambi le situazioni, non cambia lo status di partenza; ciò
che invece muta è il ruolo che ognuno dei due protagonisti può assumere all‟interno del proprio
ambito di lavoro. Nel caso dell‟operaio, il cambiamento potrebbe riguardare la promozione alla
dirigenza di qualche settore della fabbrica, mentre per il ricercatore la novità potrebbe essere quella
di diventare capo di uno staff di ricercatori dopo avere dimostrato le sue competenze attraverso le
produzioni scientifiche.
Quello che è emerso da questa analisi, è che l‟emigrazione può verificarsi in assenza di una
sostanziale modificazione dello status sociale di partenza, ma in un caso, si ha il miglioramento o
peggioramento del potere d’acquisto, nell‟altro, si ottiene il rafforzamento e l’espansione del potere
economico. Nell‟ambito di un progetto migratorio la cui motivazione è tendenzialmente orientata
all‟ottenimento di un maggiore potere d‟acquisto, si può arrivare all‟acquisizione anche di una
posizione sociale migliore, come si vedrà nella tipologia a seguire.
2. La seconda tipologia di progetto si distingue sia per la conquista di uno status sociale elevato sia
per il raggiungimento di un potere d’acquisto maggiore nel nuovo contesto di vita. In analogia con
la prima tipologia, il soggiorno che caratterizza questo può essere variegato: medio-basso (6-7
anni), prolungato (oltre 8 anni) e definitivo. In questa categoria di immigrati, il cambiamento
riguarderebbe in un caso, la situazione di una persona che prima di partire aveva programmato di
arrivare nel nuovo paese non solo per lavorare, ma per intraprendere lo studio e ottenere un diploma
professionale o universitario che le permetterebbe successivamente di occupare una posizione
lavorativa migliore, nell‟altro caso, il progetto è volto a conquistare una posizione sociale elevata
attraverso un iter lavorativo che porta alla creazione di un‟attività imprenditoriale autonoma. In
entrambi i casi, il mutamento più importante concerne lo status di partenza. È da notare che le
emigrazioni per motivi di lavoro e studio tendono a sovrapporsi, intersecandosi e confondendosi
l‟una con l‟altra (Mauri et al., 1993). Nel primo caso, la conquista di un nuovo status passa
attraverso l‟acquisizione di un livello di istruzione superiore (laurea) ottenuto da un immigrato
studente che può essere borsista o che lavora per mantenersi agli studi. Occorre però, prendere atto
del fatto che attualmente in Italia, accanto ad un crescente numero di immigrati che ottengono un
titolo superiore, non corrisponde affatto l‟affermazione sociale e/o professionale. La maggiore parte
degli immigrati che concludono gli studi universitari finisce per svolgere lavori del tutto diversi
dall‟area di formazione. Un secondo percorso che porta alla conquista di un nuovo status avviene
attraverso la creazione di un‟attività in proprio. In questo caso, rientrano quegli immigrati che sono
arrivati con l‟obiettivo di lavorare in un primo momento come operaio per accumulare il denaro per
poi crearsi un‟attività autonoma. Le varie iniziative imprenditoriali che hanno come protagonisti gli
immigrati non appartenenti all‟U.E., confermano questo dato di fatto anche se rimangono ancora ad
un livello molto basso. Infatti, le attività in cui gli immigrati dei P.V.S. riescono ad emergere
riguardano i settori dell‟import-export (legname, prodotti alimentari, abbigliamento, tappeti), della
ristorazione, dell‟acconciatura, dell'artigianato; tale affermazione stenta a decollare a causa dei
rigidi criteri di garanzia previsti dalle banche creditrici.
A proposito del lavoro autonomo, si è visto che in Emilia Romagna, Lombardia e Piemonte, un
immigrato cinese su cinque risulta titolare di un permesso di soggiorno per l‟esercizio dell‟attività
accesso libero, equo e universale ai saperi
del lavoro autonomo (Campani et al., 1994 in Chan). L‟entità di tale fenomeno è in buona parte il
risultato di un lungo percorso di acquisizione del potere economico e della posizione all‟interno
dell‟impresa etnica. Infatti, è ampiamente dimostrato come raramente la forza lavoro cinese si
spinga oltre la cerchia dei connazionali. Una situazione analoga è in atto anche a Milano dove 1.500
egiziani sono iscritti alla Camera del Commercio in qualità di lavoratori autonomi nei settori della
ristorazione, dell‟edilizia, del piccolo commercio, dei negozi e delle attività di import-export
(Baptiste, Zucchetti, 1994). Le due varianti di questa tipologia progettuale si distinguono per il fatto
che la modificazione dello status iniziale è preceduto da un impegno formativo e da un investimento
di risorse economiche.
Se la conquista di uno status migliore e l‟ottenimento di un maggiore potere d‟acquisto possono
avvenire con l‟emigrazione, vi sono spostamenti che pur portando ai medesimi risultati, non
implicano necessariamente il trasferimento stanziale in un altro luogo.
3. La terza ed ultima tipologia progettuale riguarda il miglioramento del potere d’acquisto e/o dello
status attraverso le trasferte all‟estero. Sebbene questo tipo di emigrazione sia strettamente legata
alle stagioni produttive del paese di destinazione, vi si verificano spostamenti che prescindono dalle
richieste di manodopera periodiche/temporanee. Gli immigrati che intraprendono detti percorsi
migratori sono motivati ad incrementare il loro potere d‟acquisto e non di rado a conquistare uno
status sociale elevato pur continuando a mantenere la residenza di riferimento principale nel Paese
d‟origine. Da questo punto di vista, l‟emigrazione assume un significato certamente di una grossa
opportunità per ottenere un cambiamento socio-economico, ma nello stesso tempo,
l‟allontanamento prolungato dal Paese d‟origine costituisce un‟esperienza difficile da reggere sulla
sfera psico-sociale, per cui, alla fine si può optare per la soluzione delle trasferte. Le elevate
richieste di manodopera stagionale (e non solo) vanno ad innescare il "pendolarismo" lavorativo
riassumibile in quattro varianti costituenti la terza tipologia progettuale. Più concretamente, si
sceglie questo tipo di percorso migratorio come una necessità per:
a) arrotondare/incrementare la finanza familiare, una modalità che può chiudersi in poco tempo così
come può durare a lungo;
b) racimolare un gruzzolo di denaro sufficiente per risollevarsi da una critica situazione finanziaria
o evitare il fallimento di un‟attività già avviata - si tratta di una strategia circoscritta nel tempo;
c) accumulare del denaro in un primo momento per un periodo di tempo prolungato (6-7 anni), solo
successivamente si decide di aprire un‟attività in proprio nel Paese d‟origine;
d) rafforzare il proprio potere economico attraverso il rifornimento della merce al mercato interno.
Questa quarta variante forma di emigrazione ha come protagoniste persone che alla partenza
dispongono di un elevato potere d‟acquisto nel Paese d‟origine (e non solo), per cui, lo spostamento
ha come scopo il rafforzamento dell‟oggettiva superiorità economica. Come si è visto sopra, tale
trasferimento è di brevissima durata (1-2 settimane al massimo), per cui, l‟immigrato è impegnato
in contatti di lavoro ad alto livello. Così, potremmo avere i/le migranti dei P.V.S. che arrivano in
Italia per motivi d‟affari e viceversa quelli italiani che si dirigono in detti paesi o verso quelli a pari
o a più elevato sviluppo economico (Francia, Giappone, U.S.A., ecc.). A questo proposito, si
calcola che ogni giorno un esercito di 4 milioni di businessmen si sposta da un posto all‟altro del
pianeta in cerca di nuovi mercati ed opportunità (L‟Annuario del Turismo, 2000). Per quanto
concerne la situazione nazionale e relativamente ai permessi di soggiorno concessi nel 2000, risulta
che 2.063 (1.621 maschi e 442 femmine) immigrati erano giunti in Italia per motivi di affari
accesso libero, equo e universale ai saperi
(Caritas, 2001). Lo spostamento interessa i migranti impegnati nel commercio (import-export o
attività affini) che pur risiedendo stabilmente nel Paese d‟origine, sono portati a frequenti viaggi
all‟estero per poi rientrare con cospicui guadagni in Patria. È per questa ragione che si può
sostenere che mentre nelle migrazioni a permanenza stanziale, il ricavato inviato nel paese d‟origine
è dilazionato nel tempo, per quella caratterizzata dal "pendolarismo", il guadagno produce effetti
immediati e positivi nel Paese, nel senso che il commerciante attraverso la sua merce rifornisce,
arricchisce e fa sopravvivere il mercato interno. Quindi, tutte le quattro varianti della terza tipologia
conducono ai vari livelli di cambiamenti fino a qui evidenziati, ma ad eccezione dell‟ultima, le
prime tre sono decisamente influenzate dalla vicinanza del paese di riferimento.
I dati emersi da una ricerca (esposti ampiamente più avanti) svolta tra gli immigrati maghrebini
reclusi e liberi permettono di rifarsi alla prima tipologia del progetto migratorio. Detti dati si
riferiscono ad un confronto di immigrati maghrebini reclusi v/s non reclusi (100 soggetti per
gruppo) e sembrano rifarsi alla prima tipologia dei progetti migratori: a) cambiamento di luogo con
aumento del potere di acquisto e mantenimento dello status sociale; b) mutamento di luogo
caratterizzato sia da un basso potere di acquisto che da un peggioramento della posizione sociale.
Dalle analisi relative all‟alloggio è stato osservato che il 24% dei reclusi aveva preso la casa in
affitto, il 30% dormiva in case abbandonate e l‟8% versava in condizioni di senza fissa dimora
contro il 51%, il 4% ed il 3% rispettivamente del campione di confronto. La situazione lavorativa
registra ancora un vantaggio a favore del gruppo dei non reclusi: il 62% lavorava come operaio e
solo il 14% era disoccupato contro rispettivamente il 16% ed il 60% dei ristretti. Alla domanda
relativa all‟assistenza sanitaria, il 78% dei detenuti ha dichiarato di non averla mai avuta contro il
29% dei non reclusi. Da questi esigui risultati appare che i reclusi possono essere classificati sulla
base del cambiamento di luogo con basso o nullo potere d‟acquisto (disoccupati) e peggioramento
dello status sociale, mentre i non reclusi rientrano nel cambiamento di luogo con maggiore potere
d‟acquisto in relazione al paese d‟origine e mantenimento della posizione sociale. Altre
informazioni riguardano i risultati attinenti alla richiesta del permesso di soggiorno: è emerso che
solo l‟8% dei reclusi aveva provveduto all‟inoltro della domanda del permesso di soggiorno entro
gli otto giorni previsti dalla legge italiana contro il 30% dei non reclusi. La regolarizzazione del
proprio status giuridico è una condizione essenziale per trovare un "lavoro stabile" e vivere in
condizioni decenti.
Sebbene una parte di immigrati al loro arrivo non possieda nessuna qualifica professionale, per
coloro che emigrano in possesso di una professione, spesso l‟essere immigrato concorre a
mantenere/peggiorare lo status sociale di partenza, un esempio, è l‟impossibilità di accedere ai
concorsi pubblici per la mancanza della cittadinanza dello Stato ospitante. In queste situazioni
quindi, anche l‟immigrato professionalmente competente rischia di fare lavori diversi (spesso
pesanti e umili) rispetto all‟area di formazione. Infatti, in relazione alla ricerca appena citata, risulta
che nel gruppo di non ristretti, il 12% dei soggetti, pur possedendo la laurea, svolge mansioni del
tutto diversi da quelli dell‟area di formazione: operai generici, lavapiatti, braccianti agricoli, ecc.,
per cui, in questo caso, vi è stato un abbassamento della condizione di partenza.
Prima di concludere questa riflessione, mi preme riprendere l‟argomento legato alla migrazione
degli studenti. Per essi, l‟acquisizione del potere d‟acquisto viene posticipato, privilegiando in un
primo momento l‟aspetto formativo che porterà alla conquista di uno status elevato. Sono individui
che partono con un progetto migratorio preparato sotto vari punti di vista (economico, giuridico,
assistenza sanitaria, ecc.). Chi decide di emigrare per motivi di studio è altamente spinto ad ottenere
la formazione in un‟area specifica. Da un punto di vista del coinvolgimento nella decisione di
partire, le motivazioni possono essere di due tipi: nel primo caso, la motivazione è intrinseca, per
cui è l‟interessato che decide di attuare il cambiamento di luogo e di status. La motivazione al
accesso libero, equo e universale ai saperi
cambiamento può scaturire in seguito all‟identificazione con un modello che appartiene alla cerchia
familiare (genitori, fratelli, zii/e, ecc., professionalmente affermati) oppure essa può derivare dal
contesto sociale (i vicini, i personaggi importanti della politica, cultura, economia, ecc). Nel
secondo, il cambiamento è dovuto a motivazione estrinseca: sono i familiari o le istituzioni statali
e/o private ad incentivare i giovani ad intraprendere determinati percorsi formativi orientati alla
promozione delle loro potenzialità. In entrambi i casi, i familiari o lo Stato provvedono ad
assicurare l‟appoggio economico (assegni familiari o borse di studio) per favorire il raggiungimento
dell‟obiettivo prefissato. Ma durante il percorso migratorio può accadere che il sostegno economico
erogato venga a mancare per vari motivi (fallimento dei familiari, perdita della borsa per non avere
sostenuto gli esami necessari), e allora lo studente si trova a dovere lavorare per mantenersi agli
studi. Nella peggiore delle ipotesi, può arrivare ad abbandonare il progetto iniziale e proseguire solo
con l„impegno lavorativo.
Poiché la maggiore parte delle persone emigra per motivi socio-economici, si può affermare, che il
livello più alto di successo tra gli immigrati, al di là delle singole aspettative è dato da un
cambiamento di luogo accompagnato da un maggiore potere d‟acquisto, un elevato status e
l‟autorealizzazione, anche professionale, mentre il fallimento è legato sicuramente ad un
cambiamento seguito da un basso potere di acquisto, instabilità lavorativa ed abitativa.
Il confronto come fattore centrale nella determinazione della spinta migratoria e nella
modificazione della posizione sociale
Pur tenendo in considerazione i vari contributi teorici che spiegano le spinte migratorie, la
riflessione che segue verterà sul tema del confronto come uno degli elementi che può concorrere a
spiegare le differenze tra gli individui nel decidere se partire o meno, ma anche in relazione alla
scelta di mantenere o di modificare lo status sociale di partenza.
La formulazione, la realizzazione e la riuscita del progetto degli immigrati, si inseriscono in un
quadro più ampio delle dinamiche di affermazione sociale di ogni individuo a prescindere dal paese
e dalla condizione sociale. Infatti, anche persone che rimangono nel proprio paese formulano un
proprio progetto di vita la cui concretizzazione può seguire un andamento più o meno simile a
quello di un immigrato.
Il massiccio impiego di mezzi di comunicazione in gran parte dei paesi del mondo fa sì che le
differenze nell‟accesso alle informazioni tra i giovani dei diversi paesi si assottiglino e le nuove
generazioni confrontino sempre più la propria situazione con quella di chi vive altrove (Sayad, 1991
in Colombo, 1998). Se da un lato, il confronto innesca una forte motivazione ad emigrare che
neppure il racconto delle cattive condizioni di vita in Occidente, da parte di chi già ci vive,
convincono l‟aspirante emigrato a ridimensionare il mito del Paese di riferimento (Minardi et al.,
1991), dall‟altro, ci sono situazioni (sebbene poche) in cui il confronto porta alla percezione
dell‟inadeguatezza ad intraprendere la decisone di partire e quindi alla rinuncia. È in considerazione
di ciò che l‟abbandono del Paese d‟origine non sempre avviene in modo brusco, ma è preceduto ad
esempio da una emigrazione intracontinentale. La partenza verso un Paese confinante precedente a
quella diretta verso l‟Occidente ha principalmente due finalità: a) guadagnare i soldi necessari per
intraprendere il viaggio più lungo, b) sperimentare/valutare le proprie capacità di affrontare
migrazioni extra-continentali. Infatti, per alcuni immigrati il progetto migratorio non procede oltre il
continente.
A parità del luogo di vita, delle difficoltà, delle risorse, dei bisogni, è l‟entità del confronto a
determinare la differenziazione nei comportamenti dei migranti. In linea di massima, il progetto
accesso libero, equo e universale ai saperi
migratorio passa attraverso vari livelli di confronto tra loro intrecciati: comparazione di luoghi in
termini di opportunità, processi di raffronti interpersonale ed intrapersonale. Per motivi di
semplicità espositiva, si distinguono a questo proposito due livelli di comparazione. Ad un primo
livello, il confronto scaturisce dalle informazioni acquisite per via informale e formale, nel senso
che l‟aspirante emigrato paragona il proprio luogo di vita rispetto ad altri contesti attraverso le
informazioni ottenute da amici, parenti o direttamente dalla TV. Gli indicatori di tali confronti non
sono solo di carattere economico (reddito, tenore di vita, ecc.), ma anche psicologico (un senso di
svantaggio, di deprivazione vissuti in relazione ai luoghi di riferimento). Le possibili azioni che ne
derivano spingono verso la ricerca di ulteriori informazioni circa il paese di riferimento, l‟accumulo
dei soldi necessari per le spese del viaggio, l‟impegno nel disbrigo delle pratiche occorrenti per
l‟espatrio, ecc. Il secondo livello di raffronto subentra una volta giunto nel paese di destinazione.
Nonostante la scelta del luogo dove andare a vivere possa essere influenzata da amici/conoscenti
che già risiedono nel paese d‟accoglienza, è possibile che tale decisione venga preceduta dal
confronto in termini di guadagno, di flessibilità nelle procedure di regolarizzazione della posizione
giuridica nelle varie questure, di facilitazione delle agenzie di collocamento lavorativo, ecc.. È in
virtù di ciò che un immigrato può scegliere di andare a vivere a Milano piuttosto che a Genova. In
termini di opportunità materiali, il confronto non si esaurisce con il raffronto dei luoghi fatto prima
della partenza e in seguito in loco, ma si manifesta anche nei riguardi degli individui assunti come
modello a cui aspirare per la posizione sociale all‟interno dei vari gruppi: a) connazionali
soggiornanti nel paese ospitante, b) altri immigrati, c) cittadini autoctoni d) connazionali rimasti a
casa. In relazione a quest‟ultimo punto, infatti, secondo Barbagli (1998), il gruppo di riferimento
degli emigrati italiani della prima generazione non era costituito dagli svizzeri che incontravano in
fabbrica o nei negozi, ma dagli amici e dai conoscenti che avevano lasciato in Italia; era con questi
che si paragonavano, ricavando dal confronto soddisfazione e rassicurazione. Proprio in relazione a
quest‟ultima situazione, alcuni immigrati trovano difficile tornare nel Paese d‟origine quando
falliscono nel loro intento. Questo tipo di raffronto può essere definito interpersonale; mentre
quando l‟individuo si misura con sé stesso facendo una valutazione e rivisitando il proprio progetto
sulla base dei risultati conseguiti, si ha il confronto intrapersonale. Ad esempio, l‟immigrato
paragonerà il reddito percepito e le rimesse inviate quest‟anno rispetto a quelli dell‟anno precedente
constatando o meno il raggiungimento dell‟obiettivo prefissato.
In virtù di queste dinamiche e, in modo particolare di quelle legate al confronto interpersonale, le
tipologie dei progetti migratori esaminati sopra (mantenimento dello status accompagnato da un
maggiore potere d‟acquisto, conquista di una posizione sociale migliore associata ad un maggiore
guadagno) possono essere ascritti in due tipi di comportamenti psico-sociali: confronto sociale
orientato in senso orizzontale e confronto sociale orientato in senso verticale. Nel primo caso, il
confronto è caratterizzato dal paragonarsi con gli altri individui senza alcuna aspirazione a superare
i confini della categoria sociale di appartenenza. Un operaio cercherà di trovare altro/altri
individuo/i di riferimento all‟interno della classe di appartenenza con cui confrontarsi in termini di
standard di vita/potere d‟acquisto. In tal senso, lo sforzo delle persone è orientato a non peggiorare
la propria posizione. Viceversa, nel confronto orientato in senso verticale, gli individui prendono
come modello di riferimento soggetti al di fuori della propria classe sociale perché motivati a
conquistare una posizione, uno status sociale superiore. Quindi, il successo del progetto migratorio
dipende anche dal numero e dal tipo dei confronti messi in atto dall‟interessato. Più i raffronti
saranno orientati verso diversi modelli socialmente riconosciuti, più sarà probabile che la persona
sia continuamente stimolata a perseguire il proprio obiettivo; le opportunità di conquistarsi uno
status diverso da quello precedente aumentano se un immigrato prende come modello individui che
occupano una posizione sociale elevata rispetto alla propria indipendentemente dal fatto che siano
italiani o meno. Inoltre, un fertile terreno di confronto e di sana competizione, dunque di successo
accesso libero, equo e universale ai saperi
tra gli immigrati, può derivare dagli incontri che avvengono nell‟ambito dell‟associazionismo
indipendentemente dalle varie forme di solidarietà che vi si sviluppano.
Si può sinteticamente concludere, affermando che il confronto è il fattore determinante la spinta ad
emigrare, a conquistare una posizione sociale superiore o quanto meno preservare quella di
partenza.
Un’analisi delle condizioni di vita tra maghrebini:
un confronto tra reclusi a e non reclusi a Padova
In questo paragrafo, viene presentata una ricerca svolta nel 1999 che ha coinvolto 200 immigrati
maghrebini (tutti maschi): 100 reclusi nelle carceri di Padova e 100 non reclusi soggiornanti nella
medesima città. L‟età media dei gruppi è pari a 27 e 31 anni rispettivamente dei ristretti e liberi. Lo
scopo di questa analisi è quello di evidenziare le critiche condizioni di vita in cui versa una parte di
immigrati, con particolare attenzione ai fattori di rischio per la salute fisica, fattori questi connessi
alla mancanza di un‟abitazione, di un lavoro, alla difficoltà di accedere ai servizi socio-sanitari
(Geraci et al., 1995), nonché alla mancanza di aiuto da parte delle istituzioni.
Iniziando con il motivo dell‟arrivo in Italia, emerge che in entrambi i gruppi, si registrano
percentuali elevate di soggetti che erano arrivati con la motivazione di lavorare: l‟82% ed il 91%
rispettivamente di reclusi e non detenuti. Solo il 10% dei ristretti era arrivato con la motivazione di
trovare degli amici che già risiedevano in Italia, mentre il 5% di non reclusi era venuto per poter
continuare gli studi. Questi dati confermano il fatto che gli immigrati abbandonano il paese
d‟origine soprattutto per motivi economici. Studi precedenti (Mauri et al., 1993), avevano
riscontrato risultati analoghi: su un campione di 170 immigrati, il 57.1% era giunto in Italia per
motivi di lavoro, il 10.6% per motivo di studio, il 7.6% ed il 2.4% rispettivamente per motivazioni
politiche e di ricongiungimento familiare.
Rispetto al titolo di studio; i reclusi presentano valori percentuali elevati in relazione al diploma
delle elementari (25%), il 28% per il diploma della scuola media inferiore ed infine il 23% della
scuola media superiore contro il 12%, il 13% ed il 41% rispettivamente dei non reclusi. Un dato
importante emerso da questo confronto riguarda il numero di soggetti analfabeti: il 13% ed il 4%
rispettivamente del campione dei reclusi e non incarcerati. Complessivamente, il campione dei non
reclusi sembra presentare un migliore profilo del titolo di studio. Infatti, il 12% di essi possiede la
laurea.
La condizione alloggiativa nel Paese ospitante (periodo antecedente la condanna per i reclusi),
sembra evidenziare differenze nei due gruppi, nel campione dei detenuti non si osserva un rilevante
miglioramento: il numero di coloro che avevano preso in affitto una casa, è passato dal 18% della
città di ingresso al 24% della città in cui è avvenuto l‟arresto, mentre nel campione dei non reclusi,
si è registrato un incremento che è passato dal 28% al 51% rispettivamente nella prima e nell‟ultima
città. Inoltre, sembra che con il passare del tempo il campione dei non reclusi tenda a non abitare
presso gli amici, mentre quello dei detenuti non presenta rilevanti variazioni rispetto alla città di
ingresso. Da notare però, che il campione dei non reclusi registra il 21% di soggetti che abitava
presso la casa di accoglienza (ultima città). Un indicatore di differenza a vantaggio dei non
incarcerati concerne il fatto che pochi soggetti abitavano in case abbandonate: dal 12% nella città di
ingresso al 4% nell‟ultima contro il 23% ed il 30% rispettivamente nella città di ingresso e
nell‟ultima (reclusi). In quest‟ultimo, si osserva che il 14% dei soggetti viveva nella condizione di
senza fissa dimora. Dal confronto emerge che i campioni sono significativamente diversi: c ²=48.33,
gl=4, P<0.01, Zc=2.80. I soggetti reclusi tendono ad abitare in misura minore nei centri
accesso libero, equo e universale ai saperi
d‟accoglienza rispetto ai non reclusi; viceversa, si registrano più soggetti reclusi che dormivano in
casa abbandonata; inoltre, i non reclusi tendono ad avere più possibilità di prendere in affitto una
casa anche se il vantaggio non è tale da differenziare i soggetti.
Rispetto all‟attività lavorativa, emerge che pochi soggetti lavoravano (in modo non regolare) nel
settore dell‟agricoltura in entrambi i campioni nei tre momenti di soggiorno dei soggetti (città: di
arrivo, dove l‟immigrato ha vissuto più a lungo ed il luogo in cui è avvenuta l‟intervista). La
mansione di operaio (riferito al periodo antecedente la reclusione per gli incarcerati) è quella che ha
assorbito il maggiore numero di manodopera di immigrati in entrambi i campioni. Mentre il gruppo
dei detenuti registra valori al di sotto di venti punti percentuali, eccezione fatta per i valori relativi
alla città di ingresso (modalità irregolare), il campione dei non ristretti presenta un andamento
crescente arrivando a raggiungere il 44% (lavoro regolare) ed il 18% (irregolare) nell‟ultima città.
Escludendo il 44% dei soggetti del campione dei non reclusi che lavorava in modo regolare
nell‟ultima città contro il 4% dei detenuti si registrano più soggetti che svolgevano le mansioni in
modo non regolare nei due campioni. In generale, sembra che la situazione lavorativa sia migliore
nel campione dei soggetti non reclusi. Il numero dei disoccupati è passato dal 40% (città ingresso)
al 60% (ultima città) nei soggetti reclusi contro il 25% ed il 14% rispettivamente nella prima e
nell‟ultima città dei non detenuti. Il confronto inerente all‟attività lavorativa è significativo: c
²=54.72, gl=1, P<0.01, Zc=2.31; si rilevano più soggetti reclusi disoccupati e sono pochi coloro che
svolgevano un lavoro come operaio, mentre il campione di confronto registra più soggetti che
lavoravano e pochi disoccupati
Relativamente allo stipendio (percepito prima della carcerazione per il campione dei ristretti), si
osserva che il 7% dei reclusi contro il 13% del gruppo di confronto percepiva una somma compresa
tra i 250-500 euro. Inoltre, si evidenzia che il 12% ed il 22% rispettivamente del campione dei
detenuti e non reclusi guadagnava una cifra tra i 500-750 euro. Da notare che per quanto riguarda il
campione degli incarcerati, non si registrano altri valori di rilievo, mentre nel campione dei non
reclusi rivela che il 38% di soggetti guadagnava una somma tra gli 800-1000 euro; è stato rilevato
anche che il 10% dei soggetti percepiva uno stipendio compreso tra 1.025-1.500 euro. Dato
l‟elevato numero di disoccupati (69%) del campione dei reclusi, non è stato preso in considerazione
il t-test per la verifica della significatività.
Le informazioni attinenti l‟accesso ai servizi (prima della detenzione) evidenziano che il campione
dei reclusi presenta un‟elevata percentuale (78%) di immigrati che hanno dichiarato che non
avevano mai avuto l‟assistenza sanitaria contro il 29 dei non reclusi; il 7% ed il 59% ha riferito di
averla avuta in alcuni periodi (assunzioni regolari) rispettivamente dei detenuti e non. Infine, il 13%
dei reclusi ed il 12% dei non detenuti hanno sempre avuto l‟assistenza sanitaria. In modo analogo a
quanto è stato visto per altre analisi, il campione dei detenuti appare presentare minore opportunità
in termini di cure sanitarie. Il confronto fra i gruppi è ampiamente significativo: c ²=63.96, gl=3,
p<0.01, Zc=2.71. La differenza è a vantaggio dei non reclusi, i quali evidenziano più soggetti che
hanno dichiarato di avere avuto accesso ai servizi sanitari in alcuni periodi.
I risultati riportati qui di seguito riguardano le richieste formulate e gli aiuti ricevuti dalle istituzioni.
Tali domande concernono i soldi, il cibo ed i vestiti, l‟appoggio per trovare un lavoro ed una
abitazione. Gli immigrati fuggono dalle condizioni disperate dei loro paesi e nutrono molte
aspettative nei confronti del Paese di immigrazione, ma una volta giunti a destinazione devono fare
i conti con i problemi di vario genere in loco. Per quanto riguarda le richieste di denaro (prima della
detenzione per i ristretti), si può notare che la domanda di aiuti in denaro è indirizzata soprattutto
all‟amico connazionale, sebbene nel campione dei non reclusi interessi anche la figura dei familiari
(fratelli/sorelle o zii che già risiedevano da tempo in Italia). In particolare, il campione dei reclusi
accesso libero, equo e universale ai saperi
registra più richieste rivolte all‟amico connazionale passando dal 45% (prima città) al 21% (ultima
città) contro il 20% ed il 14% rispettivamente nella città di ingresso e nell‟ultima (non detenuti).
Non si evidenziano rilevanti richieste nei confronti delle istituzioni. Con il passare del tempo, si
registra la diminuzione delle richieste nei due gruppi. Va rilevato che il campione dei reclusi sembra
avere ricevuto meno aiuti rispetto alle richieste formulate. La differenza è significativa sia in
relazione alle richieste che agli aiuti ricevuti. Infatti, per quanto riguarda le richieste i valori sono i
seguenti: c ²= 5.11, gl=1, P<0.05, Zc=1.59: I reclusi presentano più richieste verso l‟amico
connazionale e poche nei confronti della famiglia; la situazione opposta si osserva nel gruppo di
confronto. In modo analogo, i reclusi registrano più soggetti che avevano ricevuto aiuto dall‟amico
connazionale rispetto alla famiglia e viceversa in relazione al campione dei non detenuti.
Discussione
I risultati relativi al titolo di studio tra i maghrebini reclusi e non reclusi appaiono evidenziare che
questi ultimi presentano un livello di alfabetizzazione sensibilmente più elevato. Questi dati
sembrano concordare con gli studi di Semedo Moreira (1991 in Esteves, 1999), secondo cui, la
popolazione detenuta è in buona parte caratterizzata da individui appartenenti alle classi socioeconomiche basse (basso livello scolastico, instabilità familiare e lavorativa, ecc.). Un altro indice
di vantaggio a favore dei non reclusi riguarda i risparmi disponibili all‟arrivo. Il fatto di arrivare con
pochi risparmi può anche essere legato al fatto di avere un amico/conoscente/parente già nel Paese
d‟accoglienza disponibile a fornire l‟iniziale sistemazione. Quando l‟immigrato arriva, ad attenderlo
sono quasi sempre gli amici, che in generale si prendono cura di lui, lo ospitano e lo informano sulle
abitudini finché non riesce a provvedere per il suo mantenimento (Thomas, 1921).
La capacità di produrre un reddito ha un‟influenza positiva sulla condizione generale
dell‟immigrato, in primis per la possibilità di poter affittare una casa. Come si è visto prima, dal
confronto è emerso che i reclusi presentavano peggiori condizioni abitative e lavorative. Poiché la
maggiore parte del gruppo dei reclusi era sprovvista di documenti, tra i fattori da connettere a tale
differenza vi è la continua migrazione interna usata come strategia per sfuggire ai provvedimenti
delle forze dell‟ordine.
Il confronto relativo alla situazione lavorativa sembra suggerire che i non detenuti hanno avuto più
opportunità di trovare un lavoro rispetto ai reclusi (nella fase precedente all‟arresto). La spiegazione
da addebitare a questa diversità sembra essere legata alla mancanza di regolarizzazione della
propria posizione giuridica. La situazione concernente l‟accesso all‟assistenza sanitaria sembra che
vi sia un netto vantaggio a favore dei non detenuti. Poiché la possibilità di accedere ai servizi
sanitari è collegata alla produzione di un reddito, appare ovvio che i reclusi avendo registrato
un‟elevata percentuale di disoccupati, hanno avuto minori opportunità di potervi accedere. Da
notare che in quest‟ultimo campione tra coloro che lavoravano, pochi svolgevano l‟attività in modo
regolare.
Per quanto riguarda le richieste formulate e gli aiuti ricevuti dalle istituzioni, si può affermare che in
generale gli immigrati in caso di bisogno fanno riferimento più agli amici che alle istituzioni. Si
riesce a trovare lavoro grazie a voci raccolte nell‟ambiente migratorio, non sempre da connazionali,
bensì da immigrati e non, conosciuti in Italia (Colombo, 1998). Su un campione di 170 immigrati, è
stato riscontrato che il 58.3% era stato aiutato da amici e parenti e solo 5.6% ha dichiarato di avere
fruito dell‟aiuto delle istituzioni (Mauri et al., 1993). Però, nella realtà padovana e forse anche in
quella regionale (Veneto), i maghrebini sono in maggioranza tra le "comunità" di immigrati ospiti
nei centri d‟accoglienza. Inoltre, per coloro che sono sprovvisti di documenti, il non rivolgersi alle
istituzioni può essere legato al fatto che il chiedere l‟aiuto comporta il venire allo scoperto, cioè
accesso libero, equo e universale ai saperi
l‟essere controllati. Rivolgersi alle istituzioni per chiedere aiuto equivale a dovere ammettere di
essere entrati nella disprezzata categoria dei bisognosi (ibidem).
La difficoltà di trovare un alloggio aumenta quando subentrano altri fattori come la diffidenza dei
proprietari di stipulare un contratto agli immigrati (Dal Mas, 1996) oppure situazioni di mancanza
di case da destinare all‟affitto. Come è ampiamente risaputo, la difficoltà connessa al reperimento di
un alloggio è rappresentata dalla mancanza di un reddito. Ricerche precedenti hanno rivelato come
su un campione di 62 carcerati nel Carcere Penale di Padova, il 21% abitava in affitto nella prima
città, il 35.5% nell‟ultima città, mentre coloro che vivevano in condizioni di senza fissa dimora
erano del 21% al momento dell‟arrivo contro il 25.8% nella città in cui sono stati arrestati (Berto et
al., 1997).
La situazione lavorativa nei due campioni mostra come non solo la difficoltà di trovare un lavoro
ostacoli gli immigrati nel loro progetto, ma qualora riescono a trovare un‟occupazione, spesso
lavorano senza un contratto. Lavorare in modo irregolare è un altro fattore che va ad incidere nella
già precaria situazione in cui versano gli immigrati. La ricerca citata sopra sui carcerati immigrati
non appartenenti all‟U.E. reclusi a Padova, rivela che il 50% dei reclusi non lavorava al momento
dell‟arresto.
Se da un lato la disoccupazione può costituire un fattore di rischio alla devianza (Halzlehurst, 1987
in CNPDS, 1998) nonché alla salute fisica (Geraci, 1995); l‟ingresso nella criminalità da parte di
una fetta di immigrati sembra essere dovuta allo sfruttamento lavorativo sia da parte del datore di
lavoro locale che da parte di altri immigrati.
Il quadro delle azioni devianti sembra indicare che non solo siano stati più comportamenti
riconducibili al guadagno facile connesso con il mondo della droga, ma vi siano soggetti con atti
recidivi. Tale situazione, fa ipotizzare un collegamento di detti soggetti con la rete della malavita
locale. Alcuni studiosi hanno trovato che quei detenuti che all‟uscita non riuscivano a trovare un
impiego legittimo, erano più propensi a procurarsi il reddito in modo illegale (Leone et al., 1999).
Più che la difficoltà legata al reperimento di un lavoro dignitoso a produrre azioni recidive, è
l‟assenza di strutture istituzionali (e non) atte a favorire il reinserimento socio-lavorativo.
Conclusione
Le precedenti emigrazioni a differenza delle attuali erano caratterizzate da individui non solo
giovani e sani, ma altamente motivati ad attuare un cambiamento di luogo con miglioramento del
potere d‟acquisto e/o di status. Per tali caratteristiche si è parlato di emigrazioni a effetto selettivo.
Questa ricerca ha permesso di analizzare un processo di cambiamento decisamente fallimentare,
riconducibile alla tipologia di cambiamento di luogo con basso potere di acquisto, nel caso
specifico, c‟è stato un peggioramento rispetto al Paese di provenienza.
I risultati emersi dal confronto fra i due campioni sembrano portare alle seguenti considerazioni:


le condizioni di vita in cui versano gli immigrati nel Paese di accoglienza, spesso sono
uguali o peggiori di quelle lasciate in patria;
il fatto di scegliere un Paese ad elevato sviluppo economico (Italia) non è di per sé una
condizione sufficiente che può facilitare la riuscita del progetto migratorio;
accesso libero, equo e universale ai saperi




il campione dei reclusi maghrebini si presenta ampiamente svantaggiato in tutti gli indicatori
considerati rispetto ai non reclusi. Per questo motivo, esso va considerato esposto ad un
maggiore rischio di andare incontro a vari problemi di salute fisica e mentale;
in riferimento agli immigrati sprovvisti di documenti, sembra emergere che più la
permanenza si protrae nel tempo, più aumentano le difficoltà di trovare un lavoro ed una
casa;
l‟immigrato di fronte alle difficoltà si rivolge in prevalenza all‟amico connazionale o agli
amici immigrati e in misure minori alle istituzioni;
le scarse possibilità di inserirsi pienamente nel mondo del lavoro e quindi di poter produrre
un reddito in modo regolare è uno dei principali fattori che rende gli immigrati vulnerabili
ad agire in modo illegale per sopravvivere.
Come si vede, le difficoltà di una fetta di immigrati sono legate anche alla mancanza dei documenti.
Secondo Palidda (1999), l‟immigrato che non riesce ad accedere alla regolarità o a mantenerla,
accumula imputazioni sempre più numerose per vari reati amministrativi e penali, diventando
spesso pluri-recidivo, soggetto all‟espulsione o anche alla detenzione. Con la carcerazione,
l‟immigrato perde completamente le poche opportunità che era riuscito a conquistare (lavoro, casa,
ecc.) e quindi, si ritrova a ricominciare daccapo dopo la detenzione. Per alcuni di essi, una volta
tornati in libertà, il luogo di immediato inserimento nella vita quotidiana è quello delle classi
emarginate per cui esiste il rischio che rimangono intrappolati nella spirale dell‟illegalità.
Rifacendosi a Weber (1974 in Perocco, 1999), i fenomeni sociali non sono il prodotto di una sola
causa, per cui la spiegazione del fallimento e della devianza anche negli immigrati può essere
riconducibile ad un modello pluricausale.
La situazione lavorativa degli immigrati non appartenenti all’Unione Europea
Gli immigrati abbandonano il proprio paese con il desiderio non solo di migliorare le condizioni di
vita, ma anche di svolgere un lavoro qualificato. La realtà dei fatti, però, dimostra che accanto alle
ampie opportunità occupazionali corrisponde un inserimento nei segmenti più bassi del sistema
produttivo. L‟analisi che verrà presentata è finalizzata ad evidenziare il quadro della situazione
lavorativa degli immigrati sotto vari aspetti. Prima di affrontare l‟argomento in questione, desidero
fare un cenno circa l‟andamento della situazione occupazionale a livello nazionale degli ultimi anni.
Secondo l‟Istat nel gennaio 1999 si è evidenziato una crescita nell‟economia italiana pari a +1.0
rispetto allo stesso periodo dell‟anno precedente, il dato medio corrispondente al Centro-nord indica
un andamento positivo pari allo 0.6%, mentre per il Mezzogiorno esprime un ulteriore arretramento
-0.3% (Caritas di Roma, 1999). Questi graduali cambiamenti positivi registrati soprattutto a partire
dal 1995 hanno contribuito alla creazione di 656.000 posti nell‟ultimo anno e un totale di 1.494.000
unità (Banca d‟Italia, 2001). In particolare, i miglioramenti più espressivi si sono osservati nelle
occupazioni femminili con una crescita pari al 4.2% e del 2.8% di cittadini di età compresa fra 5564 anni. La distribuzione per aree geografiche dei nuovi posti di lavoro registra un‟incidenza del
3.7% nelle regioni del mezzogiorno per l‟anno 2000, un segnale questo importante di inversione di
tendenza in una zona caratterizzata da timidi incrementi occupazionali. Nonostante il tasso positivo
della crescita con nuovi posti, la disoccupazione ricopre ancora percentuali preoccupanti. È da
notare che il valore medio dei non occupati a livello nazionale è del 12.4% (ibidem), tale punteggio
non si discosta da quello registrato dall‟Unione Europea per l‟Italia (12.3%) (New Cronos in
Enciclopedia Encarta, 2000). La distribuzione della disoccupazione per strati sociali degli italiani e
non è così ripartita: donne (16.8%), giovani (37.4%), immigrati titolari del permesso per motivo di
accesso libero, equo e universale ai saperi
lavoro (27%). In particolare, gli immigrati non appartenenti all‟U.E. iscritti alle liste di
collocamento totalizzano il 7.0%.
Adesso passerò ad esaminare la situazione lavorativa degli immigrati nel sistema produttivo
italiano.
Il periodo in cui i P.S. erano mete dove "vendere" la propria manodopera, fare fortuna,
concretizzare il sogno economico, è ormai tramontato. Lo stipendio che percepisce un immigrato gli
permette a malapena di pagare le spese di cui necessita per vivere: l‟alloggio ed il vitto, la
macchina, ecc. Tanto per fare un esempio, un operaio regolare guadagna tra i 750–850 euro e alla
fine del mese deve pagare l‟affitto che varia tra i 350-400 euro, il vitto tra 175-200 euro se si tratta
di un singolo individuo, le spese per la benzina, le bollette della luce e del gas, il costo delle
telefonate intercontinentali, oltre alle spese impreviste come il ticket in caso di malattie e/o di visite
sanitarie. Stando a queste spese, forse l‟immigrato riuscirà a risparmiare una cifra pari a 100 euro.
Beninteso, questa è pure la condizione di guadagno e di vita dell‟operaio autoctono, con la
differenza che i cittadini locali hanno più possibilità nella scelta sia di un lavoro che di una casa ed
in generale subiscono meno sfruttamento rispetto agli immigrati.
Su un totale di 800.680 immigrati soggiornanti per motivi di lavoro, 90mila sono lavoratori
autonomi, 651mila sono dipendenti in attività e 60mila disoccupati pari al 7.0% come evidenziato
sopra. Questi dati dimostrano l‟aumento dell‟incidenza del lavoro autonomo (1 su 10) (Caritas di
Roma, 2002). Gli ingressi per motivo di lavoro coprono oltre il 60.0%, per una popolazione la cui
fascia d‟età è compresa tra i 19-40 anni.
Il quadro che emerge dalla distribuzione degli immigrati per aree geografiche e per settori produttivi
(tab. 4) presenta differenze abbastanza evidenti. Rispetto all‟occupazione in agricoltura, si rileva
che sono soprattutto le Isole a detenere la maggiore percentuale (62.2) di lavoratori, tale valore è 4
volte superiore a quello registrato nel Nord (15.6%). Inoltre, l‟altro valore rilevante spetta al Sud
con il 51.4% di immigrati che svolgono mansioni nello stesso settore. Procedendo con l‟analisi, e
relativamente al settore industriale, si verifica la situazione opposta e, cioè, il dato più elevato
(44.7%) si osserva nel Nord rispetto a quello registrato nelle Isole (11.9%). In questo particolare
ambito, il Centro si colloca in seconda posizione con il 36.9% della forza lavoro. Sebbene il settore
dei servizi presenti un quadro che rimarca ancora occupazioni a vantaggio del Nord, le differenze
sono meno sbilanciate. Infatti, il Nord si distacca di poco con il 39.7% contro il 35.9% del Centro. Il
Sud e le Isole si attestano ai 25 punti percentuali per ciascuno. Dunque, la maggiore concentrazione
della forza lavoro si colloca nell‟industria e nei servizi che sono quelli maggiormente presenti nel
Nord della penisola. Pertanto, i dati di questi settori spiegano l‟alta concentrazione della
popolazione immigrata al Nord rispetto al resto delle aree.
Tab. 4 Distribuzione degli immigrati non appartenenti all’U.E. per settori produttivi e aree
geografiche - 1999
Aree geografiche Agricoltura Industria Servizi
Nord
15.6
44.7
39.7
Centro
27.2
36.9
35.9
Sud
51.4
23.3
25.3
Isole
62.2
11.9
25.9
accesso libero, equo e universale ai saperi
Italia
22.6
40.1
37.3
Fonte: Caritas di Roma, 2000
Il lavoro immigrato ha rivitalizzato importanti settori: ad esempio la pesca a Mazara del Vallo in
Sicilia, la floricoltura in Liguria, la pastorizia in Abruzzo e nel Lazio (CGIL Veneto, 2000). Questi
settori dell‟economia italiana hanno passato un lungo di crisi per la mancanza di manodopera in
quanto i cittadini autoctoni preferiscono svolgere attività più qualificate. Uno studio effettuato su un
campione di 450 immigrati rivela che il 32.2% lavorava nell‟area dell‟artigianato, il 28.7%
nell‟agricoltura, l‟11.8 nell‟edilizia ed il 4.5% faceva ambulantato (Ferro, 1994 in Prospettive
Sociali e Sanitarie, 1995). In una ricerca realizzata dal Comune di Piacenza (Magistrali et al., 1999)
su un campione di 75 immigrati, risulta che le mansioni svolte sono così distribuite: edilizia
(57.3%), industria (17.3%), artigianato (9.3%), commercio (3.9%), sevizi qualificati (9.3%) servizi
non qualificati (2.9%).
In riferimento alla collocazione occupazionale e alla mobilità sociale, gli immigrati che vivono in
Italia si trovano ad un livello più basso rispetto ad altri paesi mete di emigrazione. A tal proposito,
Basso et al. (2000) fanno presente:



negli U.S.A., il 25% degli immigrati è costituito dalla forza lavoro di medio alta
qualificazione professionale con buona possibilità di mobilità ascendente;
nel 1997, l‟avviamento al lavoro nel Nord nel settore dell‟industria era pari al 50%, nel 1998
è stato registrato il 77.5% di immigrati che svolgeva un lavoro come operaio generico e solo
il 4.7% adempiva le mansioni da operaio qualificato o impiegatizio;
si stima che il 25-30% degli immigrati (maschi e femmine) è condannato al lavoro
domestico.
Tuttavia, negli ultimi anni, sembra profilarsi un timido orientamento all‟inserimento di professioni
intellettuali, scientifiche e di elevata specializzazione. Infatti, risulta che nel 2001, le assunzioni
riguardanti tutti gli immigrati, inclusi quelli dell‟U.E., sono state pari al 10%, cioè 4.392
(Unioncamere, 2001). È da tenere in considerazione che oltre al prevalente inserimento lavorativo
di basso livello, c‟è una forte presenza di immigrati nel sommerso. Secondo le stime riportate dal
quotidiano Il Nuovo (2001) sarebbero 300mila i lavoratori immigrati non appartenenti all'U.E. che
prestano attività produttiva in nero con un‟evasione fiscale complessiva pari a 6 milioni di euro.
Il quadro della situazione lavorativa degli immigrati non appartenenti all‟U.E. per l‟anno 2000 (tab.
5) evidenzia una concentrazione di assunzioni nel settore del commercio (59.602), seguita dalla
metallurgia e meccanica (49.035). Al terzo posto troviamo un altro ambito occupazionale, molto
conosciuto come fonte principale per il reclutamento di manodopera immigrata, che è l‟edilizia con
un numero di operai dichiarati pari a 26.494 unità. L‟area della chimica, e simili, occupa il quarto
posto in fatto di presenze di immigrati regolarmente denunciati con valori che si aggirano intorno
alle 17.315 unità annuali. Altri settori importanti per l‟impiego degli immigrati sono: tessile e
abbigliamento da un lato, trasporti e comunicazioni dall‟altro, che coprono rispettivamente 12.221 e
12.600 posti. Anche questi dati avvalorano quelli visti prima, cioè che le regioni italiane dove gli
immigrati trovano maggiormente occupazione riguardano i settori dell‟industria, commercio ed
edilizia; tali aree geografiche si collocano nel Nord e sono: Lombardia, Veneto, Emilia Romagna,
Piemonte e Toscana. Le rimanenti aree produttive registrano valori bassi in particolare modo il
settore dei servizi e dell‟agricoltura per il Sud. Questi dati contrastano con quelli osservati
precedentemente in tab. 4, cifre in cui emerge in modo chiaro che le Isole e in generale il Sud che
accesso libero, equo e universale ai saperi
presentavano valori percentuali molto elevati per la Caritas, risultano invece sorprendentemente
ridotti per l‟INPS. La spiegazione più convincente da addebitare a questa sottostima potrebbe essere
la diffusa affermazione dell‟ occupazione in nero all‟interno della quale una consistente parte di
immigrati per motivi vari, trova inserimento lavorativo.
Tab. 5 - Lavoratori extracomunitari
Numero medio di dipendenti
risultanti dalle denunce mensili delle
aziende – Anno 2000
Attività svolte dagli immigrati
V.A.
Agricoltura e attività connesse
586
Alimentari e affini
5.885
Amministrazioni statali ed enti 223
pubblici
Carta ed editoria
1.991
Chimica, gomma, ecc.
17.315
Commercio
59.602
Credito e assicurazione
157
Edilizia
26.494
Estrazione
minerale
e
trasformazione 7.212
Legno, mobili
8.655
Metallurgia e meccanica
49.035
Servizi
3.167
Tessile abbigliamento
12.221
Trasporti e comunicazioni
12.600
Varie
1.931
Totale
207.073
Fonte: INPS 2001
Le forme del lavoro irregolare degli immigrati
L‟urgente bisogno di guadagnare per soddisfare le necessità primarie accompagnato dal diffuso
fenomeno del lavoro irregolare presente sul territorio italiano concorrono a "spingere" gli immigrati
a reperire una collocazione lavorativa nel sommerso.
accesso libero, equo e universale ai saperi
In Italia il reclutamento della manodopera sommersa viene fatto principalmente dal datore di lavoro
(soprattutto nel Sud) che sceglie gli operai da un lato, per la forza fisica, dall‟altro, sulla base della
paga che gli stessi immigrati richiedono di volere percepire; più basso è il compenso dichiarato,
maggiore è la probabilità di essere assunto. In alcuni casi, sono gli interessati o i loro amici che
contattano le ditte. Rispetto a quest‟ultimo punto, gli immigrati rischiano di divenire sia vittime, sia
autori di attività illecite attraverso il diffuso meccanismo del "caporalato" (Calvanese, 1983). In
genere, vengono reclutati con uno stipendio che varia tra i 20-25 euro per un totale di 9-10 ore
giornaliere. È uno stipendio misero se si considera la fatica delle mansioni svolte. Per gli immigrati
sprovvisti del permesso di soggiorno, la paga varia tra i 4-5 euro all‟ora (Il Nuovo, 2001).
Riportiamo qui di seguito le varie forme di lavoro sommerso in Italia suggerite da Ambrosini
(1999).
Lavoro irregolare dipendente:
a) Lavoro occasionale e stagionale consistente nel bracciantato con forte mobilità territoriale.
b) lavoro semi-continuativo, si concentra in settori come edilizia, servizi e turismo e si osserva in
periodi limitati e di forte richiesta; c) Lavoro stabile e continuativo, quest‟ultima variante si
caratterizza da un lato, per l‟inserimento in azienda e nel basso terziario, artigianato e edilizia,
dall‟altro, nel lavoro domestico. Questo tipo di manodopera proviene dai paesi vicini all‟Italia.
Lavoro irregolare indipendente:
a) auto-impiego di rifugio, è rappresentato dal commercio ambulante abusivo che è in stretto
legame con il sistema economico italiano,
b) inserimento promozionale, interessa soprattutto le imprese etniche a gestione familiare. Questo
tipo di collocazione lavorativa è concepita come qualcosa di transitorio che può portare ad aprire
un‟attività autonoma legale.
Lavoro coatto:
a) lavoro coatto in azienda, normalmente si tratta di lavoro dipendente il cui datore di lavoro
appartiene alla stessa nazionalità (tipico dei cinesi). La coazione può dipendere dal debito contratto
al momento dell‟espatrio e ha come misure di garanzia per incassare i soldi dati in prestito il
"sequestro" dei documenti. Questo tipo di rapporto lavorativo si caratterizza per le condizioni
incresciose a cui sono sottoposti gli individui sia per gli orari ed i ritmi di lavoro sia per la
sistemazione alloggiativa a loro offerta;
b) "lavoro" coatto nella prostituzione, questa è la forma estrema di coazione che si caratterizza per
l‟inganno al momento dell‟espatrio, la violenza psicologica e non di rado quella fisica e le minacce
nei confronti dei familiari. Anche per le persone costrette a questo tipo di lavoro viene ritirata la
documentazione personale con conseguenze che si possono immaginare. Sembra quasi superfluo
sottolineare che tutte queste forme di lavoro sommerso non sono formalizzate da un contratto di
lavoro.
Seppure le difficoltà connesse al reperimento del lavoro regolare potrebbero essere ridimensionate
con l‟attuale legge che prevede che l‟immigrato debba arrivare in Italia con un contratto di lavoro,
rimangono alcuni punti critici nell‟inserimento socio-lavorativo. A tal proposito, segnalo qui di
seguito:
accesso libero, equo e universale ai saperi
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lingua - senza la conoscenza della lingua si hanno maggiori difficoltà a reperire
un‟occupazione;
tipo di qualifica posseduta - alcuni immigrati non possiedono qualifiche richieste dal
mercato occupazionale italiano;
lavoro in condizioni di sfruttamento - alcuni immigrati arrivano ad abbandonare il lavoro
precario ed irregolare solo dopo un lungo periodo di sfruttamento;
mancanza di un punto di riferimento (parenti, amici italiani e non) – l‟assenza si almeno di
una di queste figure costituisce senza dubbio un ostacolo che ritarda l‟ingresso nel mondo
del lavoro.
Gli squilibri economici che caratterizzano la maggiore parte dei paesi del mondo, spingeranno
sempre di più le persone a cercare condizioni di vita migliori, anche se molto spesso a queste
aspettative di partenza corrispondono occupazioni di basso profilo, impossibilità di ascesa sociale
fino a ritrovarsi vittime dello sfruttamento che si verifica soprattutto nei vari settori del sommerso.
Sono questi i nodi principali che ritardano o ostacolano l‟inserimento lavorativo dell‟immigrato.
Indipendentemente dal fatto che la forza lavoro immigrata sia riconosciuta da tutti come
indispensabile all‟economia italiana, le istituzioni dovrebbero agire per contrastare ogni forma di
discriminazione ed inferiorizzazione in modo da eliminare le pratiche che violano i diritti
fondamentali della persona. A questo impegno di promozione umana, è chiamata a rispondere
anche la società civile.
I bisogni degli immigrati e le possibili risposte degli attori sociali
Se le difficoltà dei primi immigrati avevano destato l‟attenzione soprattutto delle strutture a bassa
soglia ed in seguito quelle ad alta, con l‟aumentare degli ingressi degli ultimi anni, non si è
osservato complessivamente un altrettanto potenziamento delle stesse. Inizialmente la volontà dei
singoli cittadini, del volontariato fino a comprendere la Caritas hanno permesso di gestire ed
alleviare il disagio connesso agli innumerevoli problemi che si presentano nella fase iniziale di
immigrazione. In merito a ciò, Ambrosini (1999), afferma che l‟associazionismo caritativo espresso
in termini di cibo, vestiti e di posto letto ha avuto un ruolo fondamentale nel primo decennio in cui è
avvenuto il maggior numero di arrivi. Infatti, le iniziative attribuibili alle istituzioni statali sono da
collocare in un periodo successivo consistente nella creazione di centri di prima e di seconda
accoglienza. Lo scopo di questo paragrafo è quello di mettere in luce i momenti e le difficoltà che
incontra un immigrato quando giunge in Italia e di suggerire le modalità di aggancio per favorire
l‟inserimento socio-lavorativo.
Il vero "handicap" che ogni immigrato porta con sé è lo svantaggio economico, dovuto al basso
valore della valuta del Paese d‟origine rispetto a quella del Paese di accoglienza e di conseguenza, i
risparmi con cui gli immigrati arrivano in Italia per affrontare i costi prima di avere un lavoro sono
molto esigui. In una ricerca condotta dallo scrivente (1999, n.p.) che aveva coinvolto un gruppo di
100 soggetti maghrebini, è stato rilevato che il 14% di essi non possedeva soldi all‟arrivo, il 27%
disponeva di una quantità di soldi che si aggirava tra i 300-500 euro, mentre solo il 10% aveva una
somma superiore agli 800 euro. Come è facile intuire, queste somme sono assolutamente
insufficienti a coprire le spese di vitto e alloggio nel periodo di tempo che va dall‟arrivo fino a
quando l‟immigrato inizia a lavorare; è da ricordare che il tempo di latenza della disoccupazione si
prolunga a causa degli ostacoli connessi alle procedure per l‟ottenimento del permesso di soggiorno.
È in ragione di ciò che buona parte della sistemazione alloggiativa nella fase iniziale di
immigrazione si caratterizza per collocazioni transitorie. La minore/maggiore disponibilità
economica all‟arrivo associata ad eventuali sostegni che possono arrivare dagli amici e/o dai parenti
portano alle classificazioni alloggiative temporanee che sono:
accesso libero, equo e universale ai saperi
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Albergo/ostello
Amici/connazionali/parenti
strutture d‟accoglienza
abitazioni precarie e/o senza dimora (stazioni delle ferrovie, macchine in demolizione, case
abbandonate, baracche, sotto i ponti, ecc.).
Ad una prima analisi, si osserva che eccetto l‟ultima situazione, le prime tre presentano sia
vantaggi sia aspetti negativi. Nel caso della sistemazione in albergo, i benefici sono legati
alle buone condizioni alloggiative anche se limitati nel tempo per i costi elevati e con
ristrette possibilità di socializzazione perché si tratta di una sistemazione ad elevato turnover di persone che non vivono in quella città. L‟ospitalità presso amici sembra essere la
condizione che presenta minore disagio sebbene l‟immigrato rischi di rimanere rinchiuso
nella cerchia di sole persone straniere, di non avere una propria privacy e di vivere in
abitazioni sovraffollate. Ma va riconosciuto il fatto che questo tipo di solidarietà esistente
presso buona parte degli immigrati permette di evitare situazioni ancora più disagevoli. I
vantaggi conseguenti l‟abitare in strutture di accoglienza sono legate all‟ottenimento di una
sistemazione immediata, ma molto limitata nel tempo (da un minimo di un mese ad un
massimo di sei mesi); anche per questo tipo di offerta alloggiativa, l‟immigrato ha poche
opportunità di interagire con la gente del posto soprattutto quando non ha ancora trovato un
lavoro. Tuttavia, sono pochi gli immigrati che accedono alle strutture di accoglienza a causa
del limitato numero dei posti disponibili. L‟ultima situazione è priva di qualsiasi vantaggio
come anticipato sopra in quanto le condizioni di vita si collocano al di sotto dei limiti della
sopravvivenza con conseguente esclusione sociale. Rispetto a questa questione, è
ipotizzabile che gli immigrati che si trovano a vivere in dette condizioni siano più sfavoriti
presentando non solo ritardi nell‟inserimento socio-lavorativo, ma anche difficoltà a
cambiare la "sistemazione" inizialmente pensata come transitoria, situazione aggravata
ancora di più dall‟impossibilità di ottenere il permesso di soggiorno perché ad esempio,
entrati in Italia in modo illegale.
Come affermato altrove, il maggiore disagio connesso all‟arrivo degli immigrati rimane
senza dubbio quello legato al reperimento di un lavoro e di un alloggio in un tempo
accettabile. Secondo le nuove disposizioni legislative in materia di ingresso di nuovi
cittadini, tale disagio dovrebbe ridimensionarsi, infatti, l‟immigrato che arriva in Italia per
motivi di lavoro, deve avere già un contratto di lavoro e la garanzia di un alloggio da parte
del datore di lavoro. Tuttavia, non sempre le disposizioni legislative vengono pienamente
applicate, per cui, ci si può attendere che comunque, una parte di immigrati continuerà ad
avere difficoltà sotto questo aspetto come avvenuto finora. Un altro aspetto di criticità
riguarda il licenziamento. La perdita del posto di lavoro può dipendere da tre ordini di
fattori: a) dal datore di lavoro, b) dalla libera scelta dell‟immigrato stesso motivata ad
esempio dalla ricerca di un migliore guadagno, c) dal fallimento dell‟azienda. In tutte queste
situazioni l‟interruzione del rapporto di lavoro comporta anche la perdita della sistemazione
alloggiativa concessa dal proprietario dell‟azienda al momento dell‟assunzione e quindi, si
ripresenta l‟urgente necessità di trovare un altro lavoro per avere anche un tetto dove andare
a dormire.
Oltre a queste esigenze basilari, in linea di massima, sono quattro i bisogni che richiedono
una continua risposta a favore di una facile integrazione degli immigrati. Primo, la
conoscenza della lingua italiana costituisce un importante strumento di comunicazione nel
proprio posto di lavoro permette di adempiere correttamente alle mansioni assegnate; tale
strumento facilita le relazioni sociali ed amicali nonché consentendo di seguire gli
avvenimenti della società ospitante attraverso le informazioni che giungono dai media. Un
secondo aspetto di estrema importanza è la formazione professionale. Sebbene, molti
immigrati arrivino con un livello di istruzione medio-alto, non altrettanto avviene per quanto
accesso libero, equo e universale ai saperi
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concerne la qualifica professionale. Può accadere ad esempio, che la qualifica professionale
posseduta non risponda alle esigenze del mercato italiano, da qui la necessità di ottenere uno
specifico training nel settore in cui si accinge a lavorare. Il terzo punto è rappresentato dalla
conoscenza dei servizi presenti sul territorio. Questo aspetto ha a che vedere con tutto
l‟insieme di strutture deputate sia all‟erogazione dei servizi (ospedale, ufficio interventi
sociali del comune, ecc.) sia a quelle riguardanti tutte le pratiche burocratiche relative al
proprio status giuridico (prefettura, questura, comune). Infine, la conoscenza delle normative
legislative italiane è sicuramente un‟azione utile ad evitare che si compiano atti sbagliati;
molto spesso la non acquisizione di informazioni sulle normative del nuovo contesto è alla
base della messa in moto di comportamenti involontari che si scontrano con la legge del
posto e non di rado compromettono la posizione dell‟interessato. Non c‟è dubbio che
l‟insieme di questi fattori permetterebbe di accelerare il processo di integrazione. Il
superamento di queste difficoltà passa attraverso il coinvolgimento di vari attori sociali. A
tal proposito, oltre ai vari enti istituzionali (comuni, sindacati) sono chiamati in causa anche
quelli privati (Volontariato, Caritas, Associazioni degli immigrati e dei gruppi nazionali),
nonché il datore di lavoro fino a comprendere i singoli cittadini. In particolare, il solo fatto
di avere un punto di riferimento affidabile quale può essere un amico connazionale o
italiano, un parente, un mediatore linguistico-culturale può essere di grande aiuto. Il
sostegno che un immigrato potrebbe ricevere da questi attori riguarda le informazioni sulle
procedure burocratiche (a cominciare dal permesso di soggiorno), sulle leggi del Paese
ospitante, sui servizi esistenti sul territorio, sulla ricerca della casa, su come vestirsi durante
l‟inverno, ecc. Dai colloqui avuti con alcuni immigrati, è emerso ad esempio che è stata la
Caritas di Padova a fornire loro il primo aiuto anche se saltuario (cibo e vestiti). Tale
appoggio è durato dai due ai quattro mesi per la maggiore parte di loro, dopodiché alcuni
hanno trovato un lavoro temporaneo, altri si sono spostati in altre città alla ricerca di
un‟occupazione più retribuita.
Come è evidente, l‟azione coordinata di questi attori non sarebbe sufficiente a garantire un
inserimento adeguato dell‟immigrato se dietro a questa non si prefigurasse anche una
volontà politica orientata alla promozione dei nuovi cittadini attraverso interventi mirati a
permettere un incontro positivo tra i bisogni espressi dagli immigrati e le corrispondenti
risposte delle istituzioni. Oggi più che mai c‟è bisogno di tutte le varie forme di
associazionismo ed una più ampia collaborazione tra le reti associative ed istituzioni
pubbliche (Ambrosini, 1999). Accanto ad interventi orientati a superare le difficoltà
quotidiane, si dovrebbe accompagnare quello del diritto di voto, diritto che renderebbe
partecipi gli immigrati alla stessa stregua di tutti i cittadini alla scelta politica e nello stesso
tempo favorirebbe la loro mobilità ascendente finora inespressa.
Sulla base di quanto esposto e in considerazione dell‟attivazione delle risorse volte ad
agevolare l‟inserimento degli immigrati nella nuova società, si segnalano alcune linee-guida.
Dopo un‟attenta analisi della domanda e dei bisogni dei nuovi cittadini, la mossa successiva
per l‟aggancio degli immigrati dovrebbe riguardare tutti i luoghi frequentati da essi, come ad
esempio: le sedi delle Associazioni, i posti di lavoro, gli uffici istituzionali e non, le strutture
di promozione professionale e culturale. Tale contatto dovrebbe coinvolgere i vari attori a
seconda della struttura interessata, i quali nel caso in cui non fossero in grado di rispondere
adeguatamente alle richieste degli immigrati, di sapere almeno indirizzare i loro utenti verso
le strutture competenti. Non c‟è dubbio che l‟azione di aggancio e quelle successive ad essa
debbano essere precedute da una informazione a tappeto in modo da comprendere il più
ampio numero possibile di immigrati. La diffusione delle conoscenze inerenti i servizi
presenti sul territorio dovrebbe avvenire attraverso l‟utilizzo di depliant stampati nelle
lingue veicolari (inglese, francese, arabo, cinese) da distribuire nelle medesime strutture.
accesso libero, equo e universale ai saperi
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Una possibile modalità aggiuntiva potrebbe essere, organizzare gli incontri periodici con gli
immigrati su questioni espresse direttamente da loro.
Riflessioni conclusive
La disastrosa situazione economica che caratterizza la maggior parte del Pianeta è alla base
delle massicce emigrazioni che si osservano ogni anno. Uomini e donne di ogni età, inclusi i
bambini, sono obbligati ad emigrare, molto spesso anche in condizioni rischiose per la
propria vita pur di raggiungere i paesi dove si aspettano di ottenere l‟affermazione socioeconomica. In questo trasferimento endemico sembra assumere un ruolo cruciale la variabile
confronto, che prende piede soprattutto a partire dalle informazioni che giungono dai mass
media e dagli immigrati che rientrano nei Paesi d‟origine. Sono momenti durante i quali i
loro racconti amplificano l‟orientamento dei potenziali emigranti che si misurano con
individui che vivono in contesti molto lontani. La probabilità che una persona metta in atto
azioni necessarie a portare a termine il cambiamento desiderato aumenta quanto più c‟è la
consapevolezza dell‟esistenza di altri luoghi promettenti dove poter esprimere le proprie
potenzialità ed ottenere maggiori guadagni. Tuttavia, non sempre le aspettative degli
immigrati vengono attese. Seppure l‟immigrazione porti comunque ad un miglioramento del
potere d‟acquisto, gli immigrati trovano quasi esclusivamente l‟inserimento nei segmenti
lavorativi di basso livello (pesanti ed umilianti), rifiutati dai cittadini autoctoni. L‟Italia si
colloca ad una posizione bassa rispetto ad altri paesi sviluppati dove la mobilità ascendente
degli immigrati ha registrato progressi non indifferenti. E‟ proprio la minore disponibilità
della forza lavoro interna alla base dell‟istituzione delle quote annuali di immigrati da
impiegare nelle fabbriche e nel settore dei servizi. I paesi industrializzati, che sono i
principali responsabili del divario economico mondiale, dettano appositamente le leggi per
garantire la sopravvivenza di importanti settori produttivi senza considerare minimamente i
diritti della persona, dei lavoratori, siano essi immigrati o meno. In particolare, le
disposizioni in materia di immigrazione appena emanate dal Parlamento italiano
costituiscono la prova lampante di tale violazione dei diritti: l‟ingresso nel territorio
nazionale è vincolato dal contratto di lavoro, fatto questo che rende difficile il soggiorno in
Italia in mancanza di tale requisito.
Accanto al fattore economico, quale principale causa del trasferimento delle persone, si
prefigurano anche i motivi dovuti ai conflitti nazionali o fra Stati. Per questi motivi
(economici e guerre), si può dire che le migrazioni sono forzate: nel primo caso,
programmate, nel secondo, non programmate.
La novità emersa nella presente riflessione è data dalla classificazione dei progetti migratori
in tre grandi tipologie sotto la terminologia della Triade socio-economica del cambiamento
di luogo. Secondo questa mia proposta, i vari progetti che caratterizzano gli spostamenti
migratori possono portare ai seguenti cambiamenti: a) mantenimento dello status sociale
inalterato, seguito da un miglioramento dalla condizione economica, b) conquista di una
posizione sociale più elevata, accompagnata da un maggiore potere d‟acquisto. Tutti questi
cambiamenti avvengono durante i soggiorni che possono essere definitivi, lunghi, brevi o
brevissimi nel paese di destinazione.
Relativamente alle difficoltà che incontrano gli immigrati, si distinguono due momenti: una
prima fase che coincide con l‟arrivo che è caratterizzato dal disagio nel reperimento in
termini di alloggio, una seconda, in cui l‟immigrato per svariati motivi, affatica ad integrarsi
nel tessuto socio-economico.
accesso libero, equo e universale ai saperi
L’immigrato come risorsa economica e problema sociale.
Dati e spunti di riflessione per un dibattito.
Un miliardo di persone oggi nel mondo si trovano a vivere da immigrati in una regione
diversa da quella di nascita propria o dei propri genitori. Un abitante della terra ogni sei. Un
miliardo di persone che in base alle stime più accreditate rientrano per l’80 per cento (800 milioni)
nel fenomeno delle migrazioni interne e per il 20 per cento (200 milioni) nel fenomeno delle
migrazioni internazionali. Si tratta nel primo caso di immigrati in regioni che fanno parte dello
Stato di cui si ha la nazionalità. Nel secondo caso di immigrati in regioni che fanno parte di uno
Stato che non è il proprio e nel quale ci si trova quindi da “non national”.
Provenire da una migrazione interna o da una migrazione internazionale fa una
notevole differenza. Nel senso che in tutte le fasi paradigmatiche della migrazione, dalla decisione
di trasferirsi altrove alla fruizione delle opportunità di integrazione nella regione di insediamento,
l‟essere straniero, il sentirsi tale, il venir percepito come tale, il non poter mai godere in pienezza
dei diritti di cittadinanza, comporta tutta una serie di problemi in più rispetto a quelli già pesanti del
migrante interno. Basti pensare a cosa vuol dire ottenere e rinnovare il permesso di soggiorno per sé
e per i propri familiari, veder riconosciuti i propri titoli di studio, riuscire a capire e a farsi capire
finché non ci si è impadroniti bene della lingua, far fronte alle discriminazioni originate dal
pregiudizio xenofobo nella ricerca del lavoro e di una dignitosa sistemazione abitativa, il sentirsi
spesso considerati nella migliore delle ipotesi come forza lavoro necessaria ma di cui molti
autoctoni vorrebbero quanto prima fare a meno.
Si stima che il trasferimento dovuto a migrazione internazionale – quello che determina poi
lo status di immigrato straniero indipendentemente dalla regolarità del soggiorno - riguardi oggi
90 milioni circa di persone di fatto residenti in Paesi a sviluppo avanzato (30 in Europa
occidentale, 50 in Usa e Canada, 10 in Australia, Giappone e altri Paesi Ocse) e 110 milioni circa
di persone di fatto residenti in Paesi ad economia arretrata, in crisi strutturale o in via di
sviluppo (30 in Paesi dell‟Europa dell‟Est, 50 in Asia, 20 in Africa, 10 in America latina).
Sono cifre, queste, che sollecitano alcune precisazioni sulla tipologia stessa delle migrazioni.
Tipologia non sempre all‟attenzione di chi se ne dovrebbe occupare sotto il profilo del governo dei
flussi e delle politiche dell‟integrazione. Da una parte gli immigrati stranieri in un paese possono
essere presenti per necessità di sopravvivenza e/o per opportunità di miglioramento delle proprie
condizioni di vita. E dall‟altra la loro accettazione può essere data, volentieri o malvolentieri, da
ineludibili obblighi di asilo e/o da ancor più ineludibili bisogni di manodopera. Assai raramente
da una generosa cultura dell‟accoglienza e ancor meno da una illuminata cultura del diritto alla
libera circolazione delle persone sul pianeta e alla libera scelta del Paese in cui le persone
desiderino vivere da cittadini alla pari.
E‟ facilmente comprensibile, anche se la cosa appare ripugnante, come le legislazioni
sull‟immigrazione straniera dei Paesi forti (quelli a sviluppo avanzato) risultino oggettivamente
molto più funzionali a dare risposte in relazione agli “ineludibili bisogni di manodopera” piuttosto
che agli “ineludibili obblighi di asilo”, lasciando in gran parte le risposte a questi ultimi,
paradossalmente proprio in quanto estremamente onerose, ai Paesi deboli (quelli ad economia
arretrata, in crisi strutturale o faticosamente in via di sviluppo).
In altre parole siamo di fronte ad una governance cinica delle migrazioni internazionali
che, al di là della buona o mala fede di quanti ne sono politicamente responsabili, seleziona e
indirizza i flussi in maniera tale che il bilancio costi-benefici nei Paesi forti risulta alla fine con un
accesso libero, equo e universale ai saperi
peso dei costi assai inferiore a quello dei benefici e nei Paesi deboli, al contrario, assai superiore. Ed
è altrettanto facilmente comprensibile come vivere da immigrati stranieri oggi nel mondo non sia la
stessa cosa là dove si è realmente un costo o un beneficio, un problema o una risorsa. Tutto ciò poi
in combinazione con l‟essere ritenuti tali in corrispondenza o meno con la realtà.
Semplificando e schematizzando al massimo, si danno tre situazioni-tipo estreme. La
prima (problema-problema) dove l‟immigrato straniero è in generale un problema e viene
percepito nell‟opinione pubblica come problema. La seconda (risorsa-problema) dove l‟immigrato
straniero è in generale una risorsa, ma viene percepito nell‟opinione pubblica come un problema. La
terza (risorsa-risorsa) dove l‟immigrato straniero è in generale una risorsa e viene nell‟opinione
pubblica percepito come risorsa. Il milione di hutu rwandesi nei campi profughi del Congo o i Rom
rumeni in Italia possono rappresentare la prima situazione tipo (problema nella realtà-problema
nella percezione). I ghanesi o i marocchini oggi nel Veneto la seconda (risorsa nella realtà-problema
nella percezione). Gli italiani a Toronto la terza (risorsa nella realtà-risorsa nella percezione).
Ma quasi mai le situazioni-tipo si riscontrano in forma estrema ed esclusiva. Molto spesso si
stemperano, si modificano nel tempo e convivono tra loro con riferimento a gruppi diversi di
stranieri. I turchi in Germania sono da sempre e da sempre vengono percepiti allo stesso tempo
come problema e come risorsa a seconda della congiuntura economica, vedendo accentuato in
momenti diversi ora l‟uno ora l‟altro degli attributi positivi o negativi. Questo vale anche per gli
immigrati di altre nazionalità residenti a diverso titolo nei vari Paesi del mondo, in particolare quelli
a sviluppo avanzato.
Restringendo l‟attenzione all‟Unione europea, non c‟è dubbio che nel suo insieme - anche
per quanto riguarda in particolare l‟Italia, il Veneto e Verona – l’immigrazione rappresenta oggi
una necessità e allo stesso tempo una grande risorsa: nella produzione di beni e servizi molti
settori entrerebbero in crisi se non ci fosse la disponibilità di manodopera straniera; le economie
locali non avrebbero nello stesso consumo di beni e servizi da parte degli immigrati una fonte in più
di profitti per le imprese; le casse dello Stato non introiterebbero contributi previdenziali e
versamenti fiscali senza i quali il sistema pensionistico e il sistema dei servizi sociali subirebbero
ulteriori ridimensionamenti; centinaia di migliaia di persone anziane e non autosufficienti si
troverebbero prive di assistenza; nella cooperazione internazionale non ci sarebbe quell‟aiuto
decisivo allo sviluppo che è costituito dalle rimesse degli emigrati. E tutto questo senza aver avuto
il paese di immigrazione quelle spese ingenti di “investimento nella riproduzione della forza
lavoro” che sono normalmente costituite dalle politiche di welfare per i cittadini da quando nascono
a quando raggiungono la maggiore età, perché queste spese le ha avute il paese di emigrazione.
Eppure l’immigrazione è continuamente percepita da vasti settori dell’opinione
pubblica prevalentemente in termini di disagio, di male da combattere, di disgrazia da evitare,
quasi la presenza degli immigrati dovesse comportare in maniera deterministica aumento della
criminalità, diffusione di malattie infettive, sottrazione di posti di lavoro, degrado dell‟ambiente,
conflitti culturali, perdita di identità. Non c‟è paese a sviluppo avanzato e a benessere diffuso
dell‟Europa occidentale che non abbia i suoi movimenti xenofobi continuamente alimentati
dall‟evidenziazione e dall‟enfatizzazione strumentale di quanto l‟immigrazione sicuramente porta
con sé anche di problematico, ma certo in misura assai ridotta rispetto alle rappresentazioni correnti
indotte dai media.
Vivere da immigrati stranieri in Europa oggi significa sentirsi addosso questa
contraddizione che è data dall‟essere consapevoli del proprio ruolo positivo di nuovi cittadini che
producono benessere per tutti (oltre che per sé, per la propria famiglia qui e nel paese di origine) e
accesso libero, equo e universale ai saperi
dall‟essere allo stesso tempo frustrati dalle rappresentazioni negative che dell‟immigrazione ha
tanta gente con cui si convive ogni giorno. Se ci domandiamo perché questo avvenga, perché
nell‟opinione pubblica prevalgano le rappresentazioni negative, si possono dare varie spiegazioni.
C‟entrano sicuramente ignoranza e sprovvedutezza di giornalisti e politici che fungono da opinion
leaders nei media e nei partiti per quanto riguarda il trattamento delle tematiche relative ai fenomeni
migratori. Ma c‟entrano anche il cinismo e la mancanza di deontologia professionale di non pochi di
loro più interessati al facile consenso demagogico che a quello difficile basato sulla fatica
dell‟argomentazione critica.
Tanti problemi di buona integrazione funzionale alla convivenza civile gratificante per tutti
(ossia connotata da rispetto della legalità, lavoro regolare, abitare dignitoso, welfare fruibile alla
pari) gli immigrati stranieri li hanno e li pongono per lo più quando si trovano in contesti di
accettazione della loro necessaria presenza come lavoratori (da impiegare possibilmente in nero),
ma non di riconoscimento del loro diritto ad essere trattati da cittadini come gli altri con pari doveri
e pari opportunità.
L’essere trattati da non-cittadini - e in molti casi, quando non si è in regola con il
permesso di soggiorno, addirittura da non-persone - non favorisce certo la cultura
dell’appartenenza, del sentirsi cioè parte di una società che mira all‟inclusione piuttosto che
all‟esclusione, ossia di una società per la quale valga la pena impegnare il proprio futuro e quello
dei propri figli e delle generazioni a seguire.
Nonostante ciò, molte ricerche portano ad affermare che la stragrande maggioranza degli
immigrati nei vari paesi Ue (inclusa l’Italia) sono di fatto, con intelligenza e determinazione,
dentro processi positivi di integrazione. Purtroppo lo sono, almeno per quanto riguarda la prima
generazione, in maniera alquanto precaria. Ossia a rischio di vanificare da un momento all‟altro le
conquiste fatte. Perché troppe cose dipendono da variabili di sistema rispetto alle quali gli immigrati
possono poco o nulla. Si tratta di politiche economiche, sociali e culturali che soltanto i governi
nazionali e locali dei paesi che li hanno richiesti, attratti o accolti, possono fare. E questo, a seconda
degli interessi del mercato del lavoro e delle ricadute sul consenso degli elettori, in funzione degli
immigrati come lavoratori ospiti o come concittadini. Max Frisch direbbe: “come braccia o come
uomini”.
L’immigrazione in cifre nei vari Paesi dell’Unione europea
(dati tratti da: Caritas, Dossier statistico immigrazione 2003)
Intorno ai 20 milioni sono le persone che risiedono da cittadini stranieri nei 15 paesi Ue, 6
milioni con lo status di “comunitari” (ad es. i circa 600 mila italiani in Germania) e 14 milioni con
lo status di “extracomunitari” (ad es. i circa 150 mila albanesi in Italia). La maggioranza relativa si
trova in Germania, che conta quasi 7.300.000 stranieri, il 37,3 per cento del totale (19.584.000 al
31 dicembre 2001); la Francia ne ospita il 16,7 per cento e il Regno Unito il 12,5 per cento. Nel
complesso i paesi di più antica esperienza in fatto di immigrazione (ossia, oltre a quelli già citati,
Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo) accolgono il 75,1 per cento di tutti gli stranieri presenti nell‟Ue,
mentre i paesi mediterranei (Spagna, Italia e Grecia) raggiungono insieme appena il 15 per cento.
D‟altro canto nell‟ultimo decennio in quelli che fino agli anni ‟80 erano ancora considerati paesi di
emigrazione, la presenza straniera è cresciuta in modo consistente. Ad esempio in Spagna essa è più
che triplicata, passando dalle 278.800 presenze del 1990 alle 895.700 del 2000. Analogamente in
Portogallo si è passati da 107.800 stranieri agli attuali 207.600 e in Italia da 780.000 a 2.147.000
(al 31 ottobre 2003). Allo stesso modo anche l‟incidenza degli stranieri sulla popolazione
accesso libero, equo e universale ai saperi
complessiva è molto diversa da caso a caso: si va dal valore record del 36,9 per cento in
Lussemburgo , all‟8-9 per cento di Austria, Belgio e Germania, mentre nei paesi mediterranei si è
sotto il 4 per cento.
accesso libero, equo e universale ai saperi
PICCOLI RIFUGIATI, BAMBINI COME NOI
CHI E’ IL RIFUGIATO?
“Una notte mamma e papà mi svegliarono improvvisamente dicendo che bisognava scappare, che
stavano arrivando i soldati e che non c‟era tempo per prendere nulla, né i vestiti, né i miei giocattoli.
Ci incamminammo lungo il sentiero che portava al bosco per non farci trovare dai soldati, ma io
avevo tanta paura. Mia sorella piangeva mentre mamma e papà ci dicevano che sarebbe andato tutto
bene, ma io non capivo cosa stava succedendo”. Ogni giorno 5mila bambini sono costretti a
scappare dalla guerra e dalla violenza. Senza saperlo diventano rifugiati, proprio come è capitato
una notte al piccolo Nico di 9 anni che in queste pagine ci racconta la sua esperienza. Ma chi è il
rifugiato? E‟ una persona esattamente come noi che ha una vita normale fin quando, un giorno, è
costretta a fuggire dal proprio paese per mettersi
in salvo. Essere un rifugiato è molto più che
essere uno straniero o un migrante. Significa
vivere in esilio, non poter tornare liberamente
nel proprio paese e dipendere dagli altri per
qualsiasi cosa. E non è finita qui. Una volta
lasciata la propria casa, i rifugiati diventano
come tante stelle che vagano nel cielo senza una
meta.
Spesso
sono
costretti
afuggire
rapidamente, senza portare nient‟altro che i
vestiti che indossano e senza sapere dove andare.
Giunti in un paese straniero, debbono
ricominciare da zero, imparare una nuova lingua
e nuove abitudini. Non èuna vita facile
PERCHE’IL
RIFUGIATO FUGGE DAL PROPRIO PAESE?
“Nessuno vuole scappare via dalla sua casa e diventare un rifugiato. Neanche io
volevo andarmene, ma a volte non si ha scelta. Io vivevo in un paese bellissimo e
dopo la scuola andavo sempre a giocare con i miei amici al parco vicino casa. Mi
ricordo che c‟era un lago dove ci facevamo il bagno d‟estate e alcune volte con i miei
genitori andavamo per un picnic. Mi manca tanto la mia casa. Io sono scappato
perché nel mio paese c‟è la guerra e i soldati ci volevano uccidere perché vogliono
rimanere con quelli come loro”. In alcuni
paesi, una persona può essere condannata a
morte solo perché ha idee politiche diverse
dagli altri, perché pratica la sua religione,
perché ha un colore di pelle diverso o
perché appartiene ad un determinato
gruppo sociale. Non è assurdo? Ci sono
paesi dove, addirittura, chi comanda ordina
ai militari di compiere la pulizia etnica,
cioè uccidere o cacciare via tutte le persone
che hanno un‟etnia diversa dalla loro.
Sempre più spesso le guerre si fanno
accesso libero, equo e universale ai saperi
contro la gente indifesa. Nella maggior parte dei casi sono sempre i più deboli,
specialmente i bambini, a pagarne il prezzo più alto, perché si pensa che uccidere un
bambino oggi è uccidere il nemico di domani.
CHE COS’E’ L’ACNUR?
“Durante la fuga per le montagne vidi delle pecore e pensai: anche le pecore hanno
più fortuna di noi. La montagna è la loro casa. Noi, invece, non sappiamo dove
andare. Ma quando abbiamo attraversato la frontiera, delle persone ci sono venute
incontro, ci hanno dato da mangiare, delle coperte e nuovi vestiti. Poi ci hanno
portato nella nostra nuova casa. Si chiama campo profughi e da allora viviamo nella
tenda numero 52”. Chi erano quelle persone? Erano gli operatori dell‟Acnur, l‟Alto
Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati. Nel 1950, quando fu creato
dall‟Onu, l‟Acnur doveva fornire aiuto a circa 1 milione di rifugiati scappati durante
la seconda guerra mondiale. Oggi, 50 anni dopo la sua nascita, l‟Acnur si occupa di
oltre 21 milioni di persone sradicate dalla
loro terra. E‟ esattamente questo il ruolo
dell‟Acnur, proteggere, aiutare ed assistere
chi
è stato costretto ad abbandonare la propria
casa e il proprio paese. La sede dell‟Acnur
è a
Ginevra, e i suoi uffici si trovano in 120
nazioni, tra cui l‟Italia. Più di 5.000
operatori dell‟Acnur lavorano ogni giorno
per
aiutare il popolo dei rifugiati rischiando, in
alcuni casi, la propria vita.
COME SI COSTRUISCE
UN
CAMPO
PROFUGHI?
“All‟inizio il campo profughi mi sembrava
divertente perché somigliava ad un enorme
campeggio. Ma ormai è più di 6 mesi che vivo
qui e mi mancano tanto la mia casa e i miei
amici. Vorrei andare in una scuola vera e al
parco giochi; invece tutte le mattine devo
andare a prendere l‟acqua al pozzo e devo fare
la fila per mangiare. Non è facile. Però, so di
essere molto fortunato perché, anche se la
zuppa di piselli non mi piace tanto, mangio
due volte al giorno e ho tanti nuovi amici.
Comunque, secondo me, un bambino non
dovrebbe crescere in un campo profughi”. Se i
rifugiati riescono a superare i pericoli e le
difficoltà della fuga sono, in genere, accolti nei paesi più vicini e vengono alloggiati
accesso libero, equo e universale ai saperi
in scuole, palestre e alberghi. In alcuni casi però, i rifugiati arrivano e si fermano in
luoghi desolati, dove non c‟è niente e l‟unica possibilità è costruire il più rapidamente
possibile dei campi profughi. Innanzitutto viene scelta un‟area adatta dove poterlo
costruire, in un secondo tempo vengono allestite delle tende dove i rifugiati possono
dormire. Vengono costruiti i servizi igienici, il sistema fognario, i punti di
distribuzione per la fornitura di cibo e acqua. Altre tende sono utilizzate come cucine,
ospedali e scuole. Anche se si preferiscono accoglienze di piccole dimensioni, a volte
un campo profughi può ospitare anche 300mila persone, una vera e propria città come
Bari o Verona.
DI CHI SI OCCUPA L’ACNUR?
“Quando finirà la guerra, tornerò nel mio
paese. Però, molti dicono che altre persone
vivono nella mia casa e quindi dovremo
costruirne un‟altra. Anche la mia scuola è
stata distrutta. Chi ci darà tutti questi soldi?
Chi ci aiuterà?”. L‟Acnur, oltre ad occuparsi
di rifugiati, assiste anche i rimpatriati, cioè
coloro che ritornano dall‟esilio e devono
ricominciare la loro vita da zero. Poi, si
occupa dei richiedenti asilo. Sono persone
che hanno lasciato il loro paese e chiedono
asilo in un altro. Concedere asilo significa
che un paese sicuro offre protezione a
qualcuno che è in pericolo nel proprio. Infine ci sono gli sfollati che, come i rifugiati,
sono stati costretti ad abbandonare la propria casa – a causa di persecuzioni, guerre o
altre minacce – ma, a differenza dei rifugiati, non hanno attraversato la frontiera. Per
esempio, quando la famiglia di Nico è scappata dalla propria casa, si è nascosta per
due mesi nel bosco, quindi erano sfollati all‟interno del loro Stato. In qualsiasi modo
si chiamino, rifugiati, richiedenti asilo, rimpatriati o sfollati, tutti hanno una cosa in
comune: la loro vita è stata spezzata, i loro sogni spazzati via e li aspetta un futuro
incerto e pieno di problemi da affrontare.
accesso libero, equo e universale ai saperi
CHI
SONO
I
ACCOMPAGNATI?
BAMBINI
NON
“Prima di diventare rifugiato mi piaceva ricevere i regali o giocare a pallone con i
miei compagni di scuola. Avevo tutto quello che desideravo mentre ora non ho più
niente. Ma la cosa più importante è che sono insieme alla mia famiglia. Nel campo ci
sono tanti bambini soli perché hanno perduto la mamma e il papà”. E‟ già terribile
per un bambino fuggire in un altro paese, dopo aver abbandonato bruscamente, sotto i
bombardamenti o il fuoco delle pallottole, tutto quello che dava un significato alla
sua vita, che lo rassicurava e gli ispirava fiducia nell‟avvenire. Se, per di più, si
ritrova solo in un ambiente sconosciuto,
senza i genitori, per lui diventa
insopportabile. Ma chi sono i bambini non
accompagnati? Sono bambini che giungono
nel paese d‟asilo senza i genitori o un altro
adulto responsabile per lui. In genere, i
bambini non accompagnati rappresentano
durante un‟emergenza tra il 2 e il 5 per
cento della popolazione di rifugiati. Per
questo, l‟Acnur e altre agenzie umanitarie
elaborano progetti specifici affinché i
bambini siano, il prima possibile, riuniti alle
loro famiglie.
QUALI SOLUZIONI?
“Da quando sono un rifugiato spero sempre
di poter tornare a casa e ritrovare il mio quartiere, la mia scuola, i miei amici e
soprattutto mia nonna. Quando nel mio paese finirà la guerra e tornerà ad essere
sicuro, l‟Acnur organizzerà il rimpatrio e, per me e la mia famiglia, questa è la
soluzione migliore”. A pensarla così sono tutti
i rifugiati, ovunque nel mondo. Ma a volte
rimpatriare non è possibile, perché la guerra
continua o perché ci sono ancora molti
pericoli. I rifugiati allora vengono integrati nel
paese d’asilo. L‟Acnur, il governo e le
persone di questo paese aiuteranno i rifugiati a
trovare un alloggio più stabile, un lavoro e una
scuola per i bambini. Ma spesso gli stati non
possono accogliere tanti rifugiati, a volte
perché sono troppo poveri, oppure perché
temono che i rifugiati possano creare dei
disordini. Può anche accadere che il paese
d‟asilo che ospita il rifugiato non è più
accesso libero, equo e universale ai saperi
considerato paese sicuro. Allora, in questi casi, bisogna trovare una terza soluzione,
ovvero un nuovo paese dove trasferire i rifugiati. E‟ per questo motivo, per trovare
una soluzione duratura, che si fanno i reinsediamenti di rifugiati in altri paesi.
COME SENTIRSI A CASA?
“Nel campo dove vivo ho tanti nuovi mici, ma quando esco e vado nel villaggio
vicino, gli altri bambini ridono e dicono “Guardate, arriva il rifugiato”. Nessuno di
loro è gentile con me e quando io chiedo di giocare, loro dicono no oppure vanno più
lontano. Questo mi fa tanta rabbia, ma la cosa che mi fa soffrire di più è che la mia
mamma e il mio papà non riescono a trovare un lavoro. Per questa ragione la mamma
piange spesso e io cerco di consolarla, ma è inutile. Lei non sa parlare la lingua di
questo paese e sarà molto difficile che qualcuno la aiuti”. Nico e i suoi genitori hanno
gli stessi problemi di milioni di rifugiati che tentano di integrarsi nel paese d‟asilo.
Immaginate cosa significa arrivare in un paese straniero senza conoscerne la lingua,
le usanze, il cibo ed essere evitati o addirittura respinti dalla gente del posto! Aiutare i
rifugiati a sentirsi a casa è uno degli obiettivi dell‟Acnur. A questo scopo, l‟Acnur
incoraggia
i
governi
a
facilitare
l‟integrazione dei rifugiati nel nuovo
contesto sociale, attraverso corsi di lingue e
di formazione. Allo stesso tempo, l‟Acnur
invita tutti i bambini a non emarginare
questi nuovi amici e a cercare di conoscerli
meglio. Nessuno sceglie di fuggire dalle
proprie case, di perdere i propri cari e ciò
che possiede. Sono cose che possono
succedere a tutti noi, indipendentemente
dalla nostra volontà. Quindi, aiutiamo i
bambini rifugiati a sentirsi più a casa!
accesso libero, equo e universale ai saperi
COME VIVONO I BAMBINI RIFUGIATI?
Ma ora ascoltate quello che dicono i bambini: “Il mio nome è Jacob e ho 10 anni.
Nel mio villaggio, nel Sudan meridionale, si combatteva dappertutto. Non c‟era la
scuola e io da tempo sognavo di scappare via, in un posto dove non ci fosse la guerra,
dove ci fosse da mangiare e dove potessi andare di nuovo a scuola. Così sono partito,
senza dirlo a nessuno. Il primo giorno non ho mangiato, ho corso sempre. La notte
avevo paura degli animali, così mi sono
arrampicato su un albero per dormire, ma avevo
tanta paura. Lungo la strada ho incontrato molta
gente che scappava come me, alcuni sono morti di
fame e stanchezza. Finalmente dopo una decina di
giorni abbiamo raggiunto il campo profughi, in
Etiopia. Abbiamo mangiato e il rumore degli aerei
non mi spaventava più perché sapevo che
portavano cibo, non bombe. Sono fortunato, ma
mi manca tanto la mia famiglia. Credo che, il
giorno che sono scappato, hanno pensato che non
gli volevo più bene. Ma non è vero: vorrei tanto
tornare a casa”. “Ciao, sono Mimosa, ho 8 anni e
vengo dal Kosovo. Ho due fratelli, Rajmonda e
Luan. Siamo scappati perché i serbi non volevano più vivere con gli albanesi e ho
visto uccidere molte persone. Dato che non avevamo più niente, io e la mia famiglia
siamo andati a casa di mio nonno, ma i soldati sono venuti anche là. Erano sporchi e
brutti. Così, un giorno, abbiamo preso il trattore e con altri albanesi siamo arrivati in
Albania dove ci hanno ospitato nel campo profughi di Kukes. Lì abbiamo mangiato e
siamo rimasti per due settimane. Ma siccome continuava ad arrivare tanta gente dal
Kosovo, un giorno siamo partiti e siamo andati più lontano, a Valona. Da lì siamo
arrivati in Italia con un motoscafo pieno di gente, ho avuto tanta paura soprattutto
quando ci hanno costretto a sbarcare nel mare, perché io non sapevo nuotare. Per
fortuna dei signori italiani ci hanno salvato. Ora vivo in Italia, ma ci hanno detto che
tra poco tempo potremo tornare in Kosovo per ricostruire la nostra casa”. Nel mondo
i bambini come Jacob e Mimosa sono
moltissimi, purtroppo non tutti sono fortunati
come loro. Si calcola che negli ultimi 10 anni,
circa 9 milioni di bambini sono stati uccisi,
mutilati, feriti, resi orfani o separati dai
genitori. Altri - circa 300mila – vengono sin da
piccoli arruolati nell‟esercito e mandati a
combattere. Proteggere e assistere i bambini
rifugiati è una delle priorità dell‟Acnur. I
bambini, infatti, non sono soltanto individui
particolarmente bisognosi di assistenza, ma
accesso libero, equo e universale ai saperi
costituiscono il futuro di popoli e nazioni. E un bambino derubato della sua infanzia,
una volta cresciuto, può dar vita a nuove violenze. Di qui l‟impegno dell‟Acnur di
dedicare un‟attenzione particolare al recupero dei bambini rifugiati traumatizzati e a
curarne le cicatrici più nascoste.
COME AIUTARE?
• Diventare amici dei bambini rifugiati che frequentano la vostra scuola, cercare di
capire la loro situazione e insegnare loro la lingua italiana. • Preparare una mostra a
scuola per presentare i vari aspetti del problema mondiale dei rifugiati. • Invitare un
bambino rifugiato nella propria scuola per ascoltare la sua testimonianza. Scoprendo
quanto ha sofferto, per arrivare fin dove si trova, capirete meglio cosa significa
“essere un rifugiato”. • Con l‟aiuto di un adulto, scrivete una lettera ad un politico o
ad un ministro, chiedendo loro di sostenere i rifugiati in generale o di risolvere
situazioni particolari. • Con l‟aiuto di un adulto, organizzate una raccolta fondi nella
vostra scuola a sostegno dei bambini rifugiati. In questo modo i piccoli rifugiati
potranno avere il materiale per andare a scuola, nuovi vestiti e cure mediche.
accesso libero, equo e universale ai saperi
GLOSSARIO
Rifugiato: il rifugiato è una persona che fugge dal proprio paese perché teme di
essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, opinione politica o
perché appartiene a un particolare gruppo sociale. Rifugiato è anche chi fugge dalla
guerra e dai conflitti interni. Un rifugiato non può tornare nel suo paese o ha paura di
farlo.
Migrante: persona che lascia il proprio paese per vivere all‟estero, spesso in cerca di
una vita migliore per sé e per i propri figli. A differenza dei rifugiati, possono tornare
a casa quando lo desiderano perché, anche se a volte sono poverissimi, non rischiano
la vita.
Esilio: allontanamento dalla propria patria che può durare per un breve periodo o per
sempre.
Pulizia etnica: In molti paesi convivono etnie diverse. La pulizia etnica è il tentativo
di eliminare da un certo territorio tutti i membri delle altre etnie, al fine di ottenere
una popolazione etnicamente omogenea. La pulizia etnica si effettua attraverso
discriminazione e violenza.
Etnia: complesso di persone che si distingue da altre per caratteristiche fisiche,
linguistiche e culturali.
Onu: Organizzazione delle Nazioni Unite, nasce nel 1945, subito dopo la seconda
guerra mondiale. E‟ composta da 188 paesi, tra cui l‟Italia. Questi paesi lavorano
insieme per aiutare i popoli a vivere in pace, incoraggiando i governi a rispettare i
diritti e le libertà di ogni persona.
Rimpatriati: i rifugiati che sono tornati nel loro paese.
Richiedenti asilo: sono le persone che dopo essere fuggite dal loro paese chiedono
protezione e assistenza in un paese sicuro. Il richiedente asilo ha diritto a non essere
rimandato in un paese dove la sua vita o la sua libertà potrebbero essere in pericolo.
Sfollati: sono persone costrette a fuggire dalla loro casa a causa di persecuzioni,
guerre o altri pericoli. A differenza del rifugiato, lo sfollato resta all‟interno del suo
paese.
Rimpatrio: si ha quando il rifugiato, di sua spontanea volontà, ritorna nel suo paese
di origine. L‟Acnur organizza i rimpatri fornendo l‟assistenza per il trasporto e beni
di prima necessità.
Paese d’asilo: paese o nazione che ospita e protegge un rifugiato riconoscendogli una
serie di diritti.
Reinsediamento: quando il rimpatrio non è possibile e al rifugiato non è garantita
un‟adeguata protezione nel paese d‟asilo, l‟unica soluzione è quella di trasferirlo in
un paese terzo, ovvero reinsediarlo in un paese dove gli viene garantita protezione e
assistenza.
Integrazione: può essere definita come il processo attraverso il quale un rifugiato è
inserito nel contesto sociale ed economico del nuovo paese in cui si trova.
L‟integrazione più completa è quando il rifugiato diviene cittadino a tutti gli effetti
del paese in cui si trova.
accesso libero, equo e universale ai saperi