I mariti delle altre - Guia Soncini

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Se un giorno dovessero chiedermi che cos’è il matrimonio, racconterei la storia di
quel politico che, insospettabilmente, aveva una certa passione per le donne.
Racconterei la storia che raccontava un’attrice un po’ fanée con la quale lui si era
fissato, probabilmente solo perché non era mai riuscito a concludere, e si sa che
dalle elementari alla pensione il non ottenimento del giocattolo è sempre il più
potente afrodisiaco.
Racconterei di quell’estate in cui la famiglia di lui è al mare e lei finalmente cede
al suo ennesimo invito. Lui la invita nella casa coniugale: non è certo il caso di
farsi vedere in giro per Roma. Mangiano degli affettati in cucina per poi
rapidamente passare a fare ciò che sono lì per fare.
Lui a un certo punto si alza dal letto, ed è un momento sfasato, non quello in cui
uno dei due si alza per tagliar corto il post-coito, ancora non hanno finito, si alza
senza una ragione apparente, lei è una donna con un certo uso di mondo ma
quell’alzarsi è sufficientemente strano da chiedere «Dove vai?».
Lui risponde: «A rimettere in frigo il prosciutto, altrimenti si rovina».
Non erano solo le ricette che contrappuntavano l’Affari di cuore di Nora Ephron:
tutte le storie di felicità domestica a rischio passano per la cucina. Se non è un
affettato, è un elettrodomestico.
La separazione del maschio è un libro del 2008.
È definibile in molti modi.
È il romanzo di uno scrittore al quale qualunque psicanalista direbbe che sta
cercando di farsi cacciare di casa, tanto è impalpabile la dissimulazione
dell’autobiografismo e tanto è agghiacciante la descrizione della catena di
montaggio di tradimenti che arredano un matrimonio apparentemente sereno.
È l’opera pornografica ma piena di punti e virgola di un autore stilisticamente
rispettabile anche nei suoi eccessi ormonali.
È, soprattutto, la versione sociologica della sindrome dell’arto fantasma.
Quando uscì Paura di volare io prendevo il biberon, ma temo che le dinamiche
delle discussioni che generava non fossero dissimili: perlopiù, tra quelli (quelle?)
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che si davano un tono definendolo piuttosto realista, e quelli (quelle?) che non
dissimulavano il proprio trasecolare. Ora come allora, il ruolo «Ma è proprio
così?!» dà più soddisfazione: atteggiarsi a gente di mondo non è mai
raccomandabile, volendo capire qualcosa del mondo.
Il protagonista descritto da Francesco Piccolo è un montatore cinematografico, è
sposato, ha una figlia – ma questi sono tutti dettagli marginali. Per vocazione, egli
tradisce. Devo precisare che questa è una mia interpretazione: altrettanto
plausibile sarebbe sostenere che la sua vocazione non sia tradire bensì fare sesso.
Il protagonista fa sesso continuamente e un po’ con tutte. Una collega, una
passante, la moglie di un amico, la migliore amica della moglie, la madre della
moglie (stavo per scrivere “la sorella della moglie”, poi mi sono accorta che stavo
sovrapponendo la trama del romanzo alla vita di un tizio che frequentavo: tutti gli
accoppiamenti in cattività si somigliano, ma su questo elemento torniamo dopo).
C’è una quantità di sesso, in La separazione del maschio, da far sembrare Erica
Jong una povera dilettante, lei e le sue centinaia di romanzi sulla scopata senza
cerniera e le di essa emanazioni e conseguenze. Sul fatto che quel tizio lì sia un
maniaco (o: uno molto dedito a un hobby), le lettrici sono tutte d’accordo,
qualunque mestiere facciano e qualunque vocazione abbiano. È sui dettagli, che ci
si divide.
Quelli che per mestiere scrivono “io”, cioè quelli che raccontano la realtà
raccontando di sé, non intendono praticamente mai “io”. È un io diluito, un io
compresso, un io distorto da lenti necessariamente narcisiste.
Una volta, ai tempi di Caro Diario, chiesero a Nanni Moretti dell’autobiografismo
e dell’improvvisazione, e lui disse una cosa tipo «Uno non è spontaneo a casa sua,
figuriamoci se è spontaneo davanti alla macchina da presa».
La separazione del maschio è scritto in prima persona. È scritto da un maschio
che ha deciso d’intitolarlo enfatizzando quella cosa lì: siamo maschi, siamo fatti
così.
Voi sarete pure dolcemente complicate come in quella canzone da premestruo di
Fiorella Mannoia, ma noi siamo traditori per natura, non abbiamo mai smesso di
esserlo, anche se colti, anche se di sinistra, anche (soprattutto) se di quegli uomini
che hanno il vezzo di dirsi femministi.
Noi ci accoppiamo senza ragione, è nella biologia, l’istinto a perpetuare la specie e
tutte quelle puttanate, siamo pieni di buone scuse ad alto tasso di scientificità.
Avrete non dico letto ma almeno visto il film da Le relazioni pericolose, care
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signore dolcemente complicate, no? Ecco, siamo Valmont: «Trascende ogni mio
controllo».
Che, traslato dalla prosa del Settecento, significa: non sappiamo tenerci i pantaloni
abbottonati.
La moglie del protagonista di La separazione del maschio non si accorge di niente.
Se se ne accorgesse, probabilmente non farebbe differenza, come non l’ha
plausibilmente fatta il sospetto autobiografismo per la moglie dell’autore.
Ma non perché alla biologia non si comanda e gli uomini sono fatti così e
valmontismi assortiti. Perché non ci si lascia per i tradimenti: ci si lascia perché
hai comprato solo tre limoni.
È la principale lezione che ci lascia la carriera cinematografica di Jennifer Aniston,
reginetta delle tradite hollywoodiane su cui avremo fin troppo modo di tornare, e
in generale ben più nota per le copertine da cornuta che per il corpus dell’opera
cinematografica, di cui nessuna di noi ricorda nulla. Tranne i tre limoni.
Sarà che quel film racconta di un lui e una lei che si stanno lasciando, e lottano
per il controllo territoriale nell’appartamento che nessuno dei due potrà
permettersi da separato (anche sul tema della tana toccherà tornare: la casa è un
collante matrimoniale ben più forte dei figli). Fatto sta che le famiglie dei due
vengono a cena, lei vuole fare un centrotavola, chiede a lui di portare a casa i
limoni, lui si ferma a comprarli, e ne compra tre.
Non ci si lascia per i tradimenti: ci si lascia per i limoni numericamente
insufficienti per un centrotavola, il prosciutto dimenticato fuori dal frigo, e –
soprattutto – per le ambizioni non compatibili.
Ci si lascia perché (è di nuovo Macramé) «l’amore dura quel che deve durare», ma
non ci si lascia per delle innocue corna in Italia, dove il divorzio continua a essere
un’eccezione alla quale ricorrere in casi quali le smanie di paternità tardiva del
coetaneo di una moglie in menopausa, o il reperimento sul mercato di un articolo
più vantaggiosamente matrimoniabile. Non cacciano di casa i mariti le mogli dei
commercialisti, figuriamoci se lo fanno le mogli di coloro che riescono a
trasformare gli ormoni in diritti d’autore.
Poverette noi, che abbiamo passato anni a scervellarci sui cellulari.
A dividerci in quelle che li controllavano – sempre, appena potevano, a ogni
occasione, doccia, barba, narcolessia post-coito, macchina da caricare – e quelle
che non volevano sapere niente (in genere c’erano rimaste sotto una volta, ed
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erano diventate così razionali da dirsi che, se scoprivano cose orrende, poi toccava
lasciarsi e insomma trovarne un altro, la crisi del mercato, sai che fatica).
Anni a scegliere se iscriverci alla mozione di quelle che, se lui abbandona il
cellulare, è perché sta tentando di farsi scoprire, perché vuole che io sappia e lo
costringa a piantare l’altra, o di quelle che se lui lo lascia lì incustodito si merita di
essere mollato, ché va bene tradirmi ma almeno devi fare lo sforzo di occultare
benissimo le prove.
E poveretti loro, che in questa fase evolutiva che prevede l’emulazione credono di
dover capire cosa fare dei nostri cellulari, e non sanno che la serenità coniugale
passa per un altro elettrodomestico. Il cui acquisto è già dichiarazione
d’appartenenza a un sottinsieme ben preciso.
Ogni volta che si parla di quel libro con qualcuno che l’abbia letto, viene fuori
quell’attrezzo.
Ogni volta, contrapponendosi all’inevitabile interlocutore che affetta uso di mondo
e non si lascia impressionare, qualcuno sgrana gli occhi a proposito della crudezza
di quel romanzo, e ogni volta, immancabilmente, quel qualcuno cita
l’aspirabriciole.
Immagino ci siano facili interpretazioni psicanalitiche per il fatto che,
nell’immaginazione di chi ha letto La separazione del maschio, l’uso
dell’aspirabriciole per togliere qualunque pelo, capello, brandello di Dna altrui dal
talamo coniugale abbia lasciato un segno maggiore dello scoparsi la suocera
(chissà se anche a casa di Elaine – la ragazza del Laureato, la figlia di Mrs
Robinson – c’è un attrezzo per aspirare le briciole).
Io poi mi chiedo se davvero faccia tutta quella differenza. In un certo senso, mi
pare l’unico dettaglio narrativamente debole. Una moglie così distratta da non
accorgersi che le lenzuola in cui dorme hanno l’odore di un’altra noterebbe un
capello non esattamente della sua tinta?
Ma è ovvio che posso permettermi di cavillare solo perché ho sempre abitato in
case prive di aspirabriciole. Anche dopo il 2008. Quando gli uomini hanno
iniziato a guardare con sospetto le mogli che compravano aspirabriciole. Persino
se il libro lei non l’aveva neanche sentito nominare; pure se da ben prima che
venisse scritto si lamentava che il marito scrollasse la tovaglia in balcone.
Mentre scrivo queste pagine Francesco Piccolo tiene da circa un anno una rubrica
sul mensile GQ. Ne è protagonista una figura consolatoria per i lettori di quella
rivista a target maschile.
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C’è questa caratteristica che raccontano gli amputati: si continua a sentire l’arto
mancante. Pare che sembri di avercelo ancora. Che si sia convinti di poterlo usare,
di esser forti delle sue funzioni.
Piccolo chiama il protagonista della sua rubrica Il Maschio, e gli fa fare le cose
che, in una civiltà ormai estinta, faceva l’arto fantasma, dal tradire al non
ricordarsi il nome di una con cui ha fatto sesso al non voler fermarsi a dormire. Le
cose che in questo secolo fanno i nuovi scapoli, cioè le donne.
Lucio Dalla l’aveva capito venticinque anni fa, ma d’altra parte essere un genio
vuol dire anche fotografare una realtà che non esisterà per decenni ancora. Noi
mortali ci abbiamo messo un passaggio di secolo, a capire quanto fosse esatto quel
maschio del 1977 che dolente rinfacciava «Ti hanno visto bere a una fontana che
non ero io». E non ce ne siamo mica ancora fatti tutti una ragione, di
quell’amputazione di ruolo. Ogni volta che leggo quella rubrica, ogni volta che
vedo quella maiuscola su Maschio, penso con immensa tenerezza e ammirazione
alla bravura di certe mogli, che sono riuscite a convincere i mariti che nulla sia
cambiato.
Vedere l’uomo moderno che tenta d’illudersi d’essere ancora Il Maschio – quello
che è lui che tradisce, è lui che aspira le briciole, è lui che conduce doppie vite,
quello che gli anni Cinquanta non sono mai finiti e l’Italia di Ugo Tognazzi lo
esige a tavola a Natale – vedere quello spettacolo struggente è come guardare la
fragile psiche del padre di Rossella O’Hara che non si capacita del crollo di una
civiltà, che preferisce illudersi d’essere ancora proprietario di una florida
piantagione con molti schiavi felicemente devoti.
Certo che ci crede, e certo che questa sua convinzione va rispettata: prendereste in
giro uno con un moncherino?
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Conosco un solo uomo che abbia lasciato la moglie per un’altra. Conosco un solo
uomo che abbia lasciato la moglie per un’altra avendo con quest’altra una
relazione la cui durata si misurava, al momento dell’abbandono del tetto
coniugale, in quarti d’ora. Conosco un solo uomo che abbia lasciato la moglie per
un’altra che era poco più di un’estranea e l’abbia fatto quando a casa, oltre alla
moglie, c’era un bambino abbastanza piccolo da essere ancora allattato. Conosco
una sola coppia che si sia separata per fatti di corna. O almeno: usando le corna
come pretesto principale.
Lei era una ragazza di paese, genere «o mi sposi o non ti seguo al nord». Lui era
un professionista in trasferta temporanea che, tutto sommato, non trovava così
balzana l’idea di provare pure il matrimonio. Per allegria, di tutte le ragioni
sbagliate.
Lei poi era rimasta incinta, e quindi al nord stava in casa. Stava sempre in casa.
Stava talmente sempre in casa che, la sera in cui usciva con un’amica, il marito la
chiamava quattordici volte in due ore perché il bambino piangeva, e cosa se ne fa
un uomo di un bambino che piange. Non erano gli anni Cinquanta. E lei non era
mia madre.
Era il ventunesimo secolo, quello in cui lei aveva la regina delle scuse: la
depressione post-parto. Lascerebbe mai, un uomo civile del terzo millennio, una
donna che si alterna tra piangere e allattare? Può mai, uno ben più vicino ai
cinquanta che ai trenta, innamorarsi con la stessa svagatezza con cui s’è sposato?
Quando Sergio Cofferati s’innamorò (o almeno mise su una nuova famiglia con
un esemplare di femmina più giovane del precedente), nel 2005, il più lucido
pensatore che l’Italia abbia avuto negli ultimi decenni, Edmondo Berselli, diede
un’intervista in cui commentava l’eventuale cotta cofferatiana, e quella – ancora
più eventuale – di Gianfranco Fini, su una cui leggenda di flirt con Stefania
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Prestigiacomo le cronache pettegole sispendevano con lo zelo della stampa d’un
Paese privo e di Grimaldi e di Windsor.
Quell’intervista sta ancora attaccata sul mio frigo, ma non c’è bisogno che mi alzi
e vada a prenderla per ricopiarvela, giacché ne so a memoria i passaggi più
rilevanti.
Quello in cui Berselli dice che è un problema di crollo delle ideologie, questo per
cui un signore stagionato con un posto di responsabilità scambia una qualsiasi
copula per roba per la quale andarsene di casa: «Non credendo più in niente, non
crede neanche nel clima monogamico».
Quello in cui ribalta la scemissima convinzione protestante che il problema sia il
sesso clandestino, e non il sentimento palese: «Sono per le amanti nascoste, non
per i fidanzatini di Peynet».
Soprattutto, quello in cui conclude che scopare sì, ma innamorarsi, santiddio,
come si fa a fidarsi di un politico che s’innamora, di un sessantenne che si prende
la cotta: «Innamorarsi è segno di debolezza e di fragilità culturale».
Era il ventunesimo secolo, dunque, e il tizio che conoscevo, e la sua fragilissima
fragilità, e le sue pesanti catene d’oro incontrarono su Facebook (dove altro?)
l’anima gemella– sia detto senza alcuna ironia. Lui e l’Altra erano proprio anime
gemelle, adulti capaci di dire senza mettersi a ridere «Tu non capisci, noi siamo
due spiriti liberi» a una che piangeva e allattava, allattava e piangeva.
La constatazione non troppo amichevole di spiritoliberevolezza avvenne allorché la
moglie – con l’appoggio di talune amiche e la riprovazione di altre, secondo uno
schema di gioco imprevedibile nella sua prevedibilità, ma su questo torniamo tra
un po’ – lo mise davanti a evidenze con cui voi e io rinfacceremmo a un
tredicenne di non aver fatto i compiti. Ti ho visto che hai sempre la chat aperta.
Chi è questa che hai tra le preferite di Facebook e io non l’ho mai sentita
nominare.
Lui non vedeva l’ora di confessare. Le amiche più spicce di lei dicevano (in sua
assenza): perché lei nell’ultimo anno è stata una coperta bagnata. Le amiche meno
spicce dicevano che era Melania Rea.
Melania Rea era il caso di cronaca nera di quell’estate e, a ogni parente che
passava in qualche contenitore televisivo a testimoniare le smanie del marito
(accusato di averla uccisa) e la lagnosità di lei nella vita matrimoniale, le amiche
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della tizia che conoscevo sospiravano chetutto sommato, a ben pensarci, non era
andata poi tanto male, alla loro amica: era viva.
(Il ridimensionamento delle aspettative è un meccanismo diffuso nelle vicende di
accoppiamenti adulti: per parecchio tempo, dopo che il tizio che conoscevo se ne
fu andato di casa, la moglie abbandonata, di fronte a ogni racconto di altrui
disastro di coppia, sospirava «Almeno non se n’è andato, non sai quanto sei
fortunata», o «A me ogni uomo che non ti pianta sola con un bambino da un
giorno all’altro sembra un ottimo marito», o altre variazioni sulla teoria della
relatività.)
Quando raccontava da quali indizi aveva intuìto, come l’aveva interrogato, quanto
rapidamente s’era sentita dire che sì, effettivamente si era innamorato, e come poi
l’aveva visto andar via di casa nel giro di due settimane; quando faceva la cronaca
d’un paio di corna annunciate, la moglie abbandonata riscontrava nelle donne due
tipi di reazioni: quelle che «dovevi far finta di niente», e quelle che «hai fatto
benissimo, figuriamoci se una può tenersi uno che la tradisce».
L’intero campione statistico delle seguaci del farfintadinientismo era del tutto
incapace di attenersi a questa linea nella propria vita. Erano quelle di cui si diceva
poco fa, donne che controllavano telefoni mentre il marito era sotto la doccia e
che benedicevano la diffusione dell’iPhone, con il suo menu di sms uguali per tutti
che abbrevia le ricerche: mica come prima, che una rischiava di non riuscire a
controllare ogni mittente sospetta nel tempo di uno shampoo senza balsamo.
Le seguaci dell’indagine a tutto campo, invece, non ne avevano mai fatta una, di
indagine, neanche svogliata. Nessuna di loro. Erano, tutte, praticanti del
«preferisco non sapere», del «se sai poi non puoi tornare indietro», dell’occhio che
non vede, del cuore che non duole. Con la stessa tenacia con cui erano, per
chiunque altra, teoriche dell’indaga-e-punisci.
Credo che la morale sia che nessuna impara dai propri errori ma tutte siamo
docenti in quella disciplina di base che è il «fai il contrario di me, ti troverai
bene».
È passato un anno, nel momento in cui scrivo questa pagina, dall’unico caso a me
noto di padre di creatura ancora gattonante che abbia abbandonato la prole per
una biondina di passaggio. Tutte le transitorietà sono apparentemente consolidate.
Lui e la biondina sono ancora uniti da un certo gusto per la bigiotteria pacchiana
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e per le definizioni da Smemoranda – sì, insomma: sono ancora spiriti liberi. La
ormai ex moglie non ha ancora smesso di allattare.
Dall’estate 2005, invece, sono passati quasi otto anni. Cofferati sta ancora con la
donna con cui faceva il fidanzatino di Peynet. Fini se n’è poi andato davvero di
casa, ma non per quella Stefania: per un’Elisabetta con cui ha avuto dei bambini
nuovi e delle vacanze alle Maldive e la vita che mio padre tanto avrebbe voluto.
A modo suo, ha compiuto un’impresa eroica. Ha lasciato la moglie da presidente
di partito, essendo cresciuto in un Paese in cui non le lasciavano neppure i
cinematografari.