Luglio 2005 - Associazione Michael

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Luglio 2005 - Associazione Michael
M
icHaeL
IV, N. 1
Luglio 2005
Anno
Bollettino dell’Associazione M i cH a eL per la Pedagogia terapeutica
O.N.L.U.S
VIA G. A PRATO, 11 - 38100 TRENTO - TEL./FAX 0461.921864
[email protected] - www.associazione-michael.org.
Direttore responsabile: Cinzia De Salvia - Progetto grafico: MOOD di Federica Buoncristiani
Autorizzazione del Tribunale di Trento n. 1131 del 19 aprile 2002
w w w.associazione-michael.org
Evviva!
Da fine maggio l’Associazione ha il suo
SITO !
Dopo un primo tentativo, l’anno scorso, non risoltosi positivamente, ora siamo arrivati
in porto, anzi… siamo in rete.
Le informazioni sul lavoro di pedagogia terapeutica svolto all’interno della Michael possono essere reperite su www.associazione-michael.org un nuovo spazio per far conoscere l’attività e i percorsi individualizzati per bambini e ragazzi in difficoltà e le loro famiglie, per un rapido scambio di posta ed informazioni ecc.
Tale iniziativa è stata proposta e seguita con determinazione e competenza da un genitore, (Grazie, Marco!! Grazie) che ha vinto tutte le nostre perplessità, titubanze e che ci ha
aiutate, con enorme pazienza, a superare ritrosie e difficoltà con la tecnologia, ci ha
sostenute e sponsorizzate…
Grazie a Roberto per la
creatività, il buon gusto e la
professionalità con le quali
ha immesso l’immagine dell’attività dell’Associazione
in questo mondo, per noi
così vasto ed enigmatico.
Ora non ci resta che…
navigare!
Andreina, Elena, Pia
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Sottovoce
“
“Sai, mamma, per essere professori, ci vuole amore!”
“Ah, sì? Rispondo sorpresa a mio figlio, che coglie spesso i momenti
per me più assurdi per fare le sue considerazioni. Forse è la mia saggezza di adulto che vorrebbe tutto organizzato in una bella tavola
rotonda familiare?
“Ci siamo” mi sono detta. “Adesso cosa vuole dirmi ed io cosa devo
rispondere? Calma! Non voler essere sempre all’altezza, ascolta il
cuore”.
Lungo momento di silenzio.
“E tu l’hai sentito nei tuoi professori?” chiedo.
Diciannove anni, alle spalle un percorso scolastico non certo brillante, che ha lasciato il segno nonostante le tipiche spavalderie giovanili.
Mi guarda serio; traspare dal volto ancora adolescenziale una tristezza,
che addolcisce i suoi grandi occhi azzurri.
“Nella prof. di latino, nel biennio e … in quello d’inglese…..”
Lungo momento di silenzio.
“Non saprei dirti quando ho iniziato a scendere la china…forse ho
sempre avuto poca voglia di studiare…..
“E alle elementari?” chiedo. “Alle elementari, i tuoi insegnanti avevano amore?”
Sorride sornione. “Ero piccolo, allora. Ma, mi ricordo il maestro di
musica…Lui insegnava con amore!”
Silenzio. Da parte sua e da parte mia.
Che strano - penso – persone così diverse….
Alcuni giorni dopo mi torna alla mente ciò che lessi in un articolo:
“Di che cosa ha urgentemente bisogno la gioventù”.
“L’umanità fa sempre più fatica ad “essere” in quello che fa, ad amare
quello che fa e tale fenomeno si allargherà sempre più. I giovani, la
futura umanità, hanno urgente bisogno di uomini liberi, ricolmi di
spirito, che siano loro d’esempio attraverso un agire morale. Uomini
dipendenti, non in grado di essere se stessi oppure individui che vivono di luoghi comuni, sono, come esempio per i giovani, dannosi.”
Questo vale per tutti, mi sono detta, forse soprattutto per i genitori
nel loro compito di educatori. Un grazie a mio figlio per avermelo
ricordato!
”
P.W.
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?
che si fa piccoli tagli con un temperino. Li
ascolto tutti, una parola e magari un sorriso per tutti, una battuta se è il caso. Un
segno d’affetto, dato e ricevuto. Fuori orario parlo individualmente con loro, ricevo
genitori, alcuni presenti e lucidi, altri
disperati. Poi bisogna tamponare le falle del
gruppo docente: la mia non è una statistica, ma qua ogni due colleghi sufficientemente a posto con la testa ce n’è almeno un
altro, se non due, che ha vari problemi,
dalla depressione alle difficoltà di relazione.
Per non parlare del senso di impotenza
dilagante, assoluto, incolmabile.
Piccoli lavori di cucitura sottile, per stringere
un’alba di relazione con ragazzi già nauseati
dagli adulti, per aiutarli a fidarsi, almeno un
po’, ricominciare, decidere di crescere. E
dopo tutto questo sforzo per tenere a scuola
i più difficili, arriva immancabile la collega o
il preside con la fatidica frase “questa non è
la scuola dell’obbligo, se non avete voglia
andatevene!”. Riprendi la vittima in corridoio, scoraggiato, già pensa di non metterci
più piede qui. Ci riprovi, ancora una volta.
Poi guardo meglio queste colleghe: stanche,
deluse, sfibrate; quei ragazzi scavano senza
pietà nelle loro (nostre) adolescenze mancate, nelle menopause precoci, nei vuoti esistenziali lasciandoli (lasciandoci) senza vita.
Eppure quando arrivo a sera dopo riunioni
senza fine, quando vedo gli occhi dei genitori cercarmi e dirmi “parlo con lei perché è
l’unico umano qui dentro”, sento che tutta
questa fatica forse serve a qualcosa. Ma non
so fino a che punto.
Questi ragazzi e ragazze che cerco di seguire sono preziosi e così delicati…
scuola-scuola
o
scuola di VITA
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RISPONDE UMBERTO GALIMBERTI
Che ci faccio in cattedra?
Bisogna conoscere e soffrire la distanza tra le
domande segrete che gli studenti comprimono nel loro cuore e la risposta che la scuola
dà ai percorsi a rischio di troppi studenti.
Sono un docente di un istituto professionale, un docente “speciale” poiché ho la
funzione di tutor, niente a che fare con la
triste invenzione morattiana. Il mio compito è di occuparmi degli studenti, di comunicare con loro, di ricevere e contenere i
loro sconforti e le loro lamentele, e di stabilire comunicazioni autentiche con le loro
famiglie, di aiutarli a crescere entro una
struttura che rende loro particolarmente
difficile farlo. Facile a dirsi. Lo faccio con la
sensibilità che ho e qualche competenza
psicologica acquisita a mie spese, perché i
corsi di aggiornamento che ci propongono
sono (ovvio, no?) tutti centrati sulle discipline, ovvero su quel che qui meno serve.
Ci misuriamo con famiglie assenti, ragazzi
persi nel mondo o in se stessi. Con crescite
bloccate. Un rifiuto della scuola che già è al
limite prima ancora di entrare in questo
nostro Istituto, si figuri cosa succede poi
qui. Vite che sembrano già finite prima
ancora di cominciare.
La mia giornata è lunga. Entro in classe per
la normale lezione, e già sono assalito da
richieste e problemi. Fuori ci sono teppisti
di un’altra scuola che minacciano botte.
Dentro la classe ci sono litigi e scontri continui. La ragazza che si brucia con i mozziconi di sigaretta, quella che vomita, quella
LETTERA FIRMATA
Capiamo da questa lettera, così potente nella
sua delicatezza, che non c’è riforma della
scuola che possa cambiare davvero qualcosa se
i professori non si lasciano sedurre, corrompere e commuovere da quei ragazzi, più o meno
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dissestati, che incontrano ogni mattina quan- questi requisiti, per quante riforme si facciano
non si sarà inciso minimamente in quei prodo entrano in classe.
I professori sono soliti interrogare gli studenti cessi di crescita che sono il vero scopo per cui
per verificare la loro preparazione, ma già una la scuola esiste e trova la sua giustificazione.
grande rivoluzione sarebbe se, segretamente, i Tutto il resto viene dopo, ma molto dopo.
professori si facessero interrogare dagli studenti,
a partire da quella semplice domanda che
Tratto da “D -Repubblica” dd 4.6.2005
Bruce Chatwin ogni tanto si faceva nel suo
peregrinare: “Che ci faccio io qui?”. Una
domanda inquietante che interroga la propria
idoneità a occupare la cattedra, la propria dis- Esperienze d’insegnamento.
ponibilità a prendersi cura degli altri, la pro- Come si educa lo spirito
pria capacità a seguire, oltre ai percorsi intellettuali dei propri studenti, anche quelli più “L’educazione spirituale dei ragazzi era molto
tortuosi e nascosti delle loro emozioni, fino a più difficile di quella fisica ed intellettuale. A
toccare la loro passione, primo motore dell’inte- mano a mano che li conobbi meglio, mi
resse e della voglia di vivere e crescere.
convinsi che l’educazione spirituale non la si
Conosco l’obiezione dei professori: “Non può imparare sui libri: così come l’educaziosiamo psicologi, e per quello che ci pagano non
ne fisica viene impartita con l’epossiamo farci carico di trenta o
sercizio fisico e all’educazione
sessanta biografie”. Rispondo che scuola-scuola della mente si arriva per mezzo
o
non si chiede questo. Si chiede
dell’esercizio intellettuale, l’edusolo di offrire agli studenti un scuola di VITA cazione spirituale è possibile solo
esempio di personalità matura
esercitando lo spirito, esercizio
che possa fare da modello orientativo per del tutto subordinato al tipo di vita e al
come si diventa adulti.
carattere dell’insegnante. A mio giudizio l’inSe non riconosciamo in noi questo tipo di perso- segnante deve sempre controllare il suo
nalità, se la stanchezza, la delusione, la demoti- modo di esprimersi ed il suo comportamenvazione, oppure il nervosismo, la reattività e to e non solo quando è con i suoi allievi.
l’irritabilità sono i tratti che ci connotano quan- Un insegnante può influenzare con il suo
do entriamo in classe, dobbiamo chiudere subi- modo di vivere l’animo dei suoi allievi
to la porta alle nostre spalle e non tornarci più, anche a miglia di distanza. Sarebbe impenperché non possiamo consegnare all’inedia o alla sabile che io, se fossi un bugiardo, insedepressione quella stagione così esuberante e gnassi ai ragazzi a dire la verità: un inseinquieta della vita che si chiama adolescenza, gnante vigliacco non riuscirà mai ad insedove si definiscono una volta per sempre i linea- gnare il coraggio ai suoi allievi, così come
menti della futura personalità.
uno che non conosce l’auto-controllo non
La responsabilità di un insegnante è enorme e potrà mai insegnarne il valore. Mi resi
il basso profilo non mette al riparo dal falli- conto dunque che dovevo in ogni momenmento, che non riguarda solo il processo educa- to essere di esempio ai ragazzi che vivevano
tivo, ma per intero la personalità dell’inse- con me. Così essi diventarono i miei maegnante, il quale ai propri occhi non può stri ed io imparai ad essere buono e a vivenascondere quella disistima di sé che consegue re rettamente, se non altro per amor loro.”
all’aver intrapreso una professione per la quale
non si avevano i minimi requisiti di idoneità.
Da Gandhi – La mia vita per la libertà –
Finché la nostra scuola si esonera dal valutare
Newton
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È possibile ricercare, nutrire, trovare, all’interno della propria interiorità, un centro? Un centro che ci permetta di non
essere travolti dal flusso degli eventi, di rimanere saldi, di sviluppare creatività nell’arte della vita e di attingere forze alle
sorgenti inestinguibili dello spirito?
scuola-scuola
o
scuola di VITA
Ci sembra la sintesi di domande portateci da tanti genitori. Per fare un cammino interiore, le strade possono essere tante. Proponiamo da: Dietro il velo di JAAP VAN DE WEG Urachhaus - liberamente tradotto.
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scenti pieni d’ideali e irruenti, da adulti
forse facilmente irritabili o particolarmente
timidi. Tratti che siamo riusciti a riequilibrare oppure no. In tutto questo percorso,
siamo sempre noi stessi - lo stesso “Io”.
L’Io è in tutte le trasformazioni del corpo e
dell’anima ciò che rimane costante; è l’elemento che può contemplare tutto e guidare, è quella parte dell’uomo che determina
il suo essere e che porta l’impulso di continuo sviluppo. In quanto tale, la sua natura
non può essere che d’ordine superiore; solo
lui può prendere la guida per trasformare
quanto è ad un livello inferiore. L’Io è il
nocciolo divino dell’essere umano; vive nell’anima e ne è il punto centrale. Da dove
proviene questo Io? Si può pensare, che
accanto alle prime due sfere, ne esista una
terza. Nell’ambito di questo libro chiamiamo questa terza sfera “mondo spirituale”.
Dobbiamo rappresentarci questo mondo
come intessuto di forze creatrici che creano dietro gli altri due mondi e che agiscono in essi.
Viviamo in tre mondi diversi. Siamo indubbiamente più coscienti del primo: la nostra
cultura è principalmente indirizzata verso il
mondo materiale, rispetto al quale abbiamo
già acquisito molte conoscenze. Dalla prima
infanzia rivolgiamo la nostra attenzione verso
di esso, a scapito della nostra attenzione per la
realtà del mondo dell’anima e del mondo spirituale. I nostri organi di senso rivolti al
Il velo della realtà esteriore.
La via di sviluppo interiore
Nella realtà quotidiana di ognuno di noi
s’intrecciano e si determinano reciprocamente sfere diverse. Percepiamo la prima
con i comuni organi di senso. Il senso della
vista, dell’udito, del gusto, del tatto sono le
porte attraverso le quali ci raggiunge il
mondo dei sensi. L’altra sfera è un mondo
di forze. Forze come opinioni, attese, emozioni, impulsi. Questa realtà non è percepibile con i normali organi di senso, eppure si sente fortemente. Sono forze che si
trovano nascoste dietro il velo visibile del
mondo che provocano ciò che avviene visibilmente nel mondo esteriore. Voler percepire questo mondo richiede un’altra forma
di coscienza.
Colui che sta alla guida, tra queste due
sfere, è l’Io. L’Io possiede la facoltà di osservarle, di prenderne le distanze e così facendo d’avere coscienza di sé.
Si può percepire il proprio corpo poiché si
può toccare concretamente; esso è dunque
parte della realtà fisica. Questo corpo si trasforma nel corso della vita. Ogni sette anni
sono rinnovate materialmente tutte le
sostanze ed anche la struttura e la forma si
trasformano considerevolmente. Anche il
contenuto dell’anima si trasforma nel corso
della vita. Da piccoli eravamo creativi e
immersi nel mondo di fantasia, da adole5
mondo fisico sono molto stimolati; gli organi
di senso per la percezione dei processi animici
e del mondo spirituale sono poco accuditi e
nutriti.
Questi organi di percezione possono essere
sviluppati. Allora si crea un’apertura per
sfere di coscienza diverse. La via per svegliare gli organi di percezione per il mondo
dell’anima e dello spirito è una via che consiste nell’acquisire conoscenze e sviluppare
facoltà rispetto a realtà di un mondo nascosto, occulto perché non può essere percepito con i normali organi di senso e che si
trova dietro il velo del mondo sensoriale,
esteriore. Se sviluppiamo gli organi di senso
necessari, questo velo diventa a poco a poco
trasparente e i segreti diventano visibili. A
questo scopo è necessario che ci trasformiamo progressivamente come esseri umani,
che ci liberiamo dal legame troppo stretto
con la realtà materiale, per iniziare a percepire il mondo dell’anima e dello spirito e
poter interagire con essi. L’Io deve imparare a sciogliere il suo legame troppo forte
con la “piccola anima” e i condizionamenti
che ne derivano, senza rinnegare impulsi e
desideri, ma senza rendersi dipendente da
essi. I presupposti per percorrere una tale
via sono: l’essere disposti ad accogliere nel
proprio pensiero la possibile esistenza di un
mondo spirituale e, come per ogni percorso di studio, sono richiesti esercizio e perseveranza, un saldo collegamento con il quotidiano e sicurezza nello svolgere i normali
doveri nella giornata.
della quotidianità, fra famiglia e lavoro,
amici e altri doveri, non rimane tempo per
se stessi, nonostante se ne senta una grande
necessità. Tutta una serie di fattori rende
difficile la realizzazione di questo proposito; uno di questi è il dato di fatto che ci si
deve realmente strappare dal flusso del quotidiano. Si tratta di un flusso in cui io penetro fin dal risveglio e che io abbandono solo
con la quiete della notte. Sedersi e liberarsi
da tutti i compiti e doveri che mi attendono, è già molto difficile, senza parlare di
fare qualcosa che richiede un altro tipo d’energia. E’ un fenomeno che ben conosciamo: appena vogliamo sederci in quiete per
concentrarci, proviamo il bisogno di fare
ancora un paio di lavori pratici. Così, pensiamo, questi non possono più distrarci.
Allora facciamo velocemente ancora ordine, oppure laviamo i piatti e facendo ciò
dimentichiamo il nostro proposito.
La seconda difficoltà consiste nel fatto di
fare qualcosa che necessita un tipo di concentrazione molto diverso da quello richiesto nel quotidiano. Non ci si rivolge più al
mondo esteriore e agli intrecci con l’ambiente circostante: questo tipo di concentrazione, invero, è ancora compatibile con
certi fattori di distrazione. La concentrazione ora deve rivolgersi verso l’interno, devo
voler creare uno stato di quiete. Questo
capovolgimento di direzione della concentrazione è un fatto interiore molto difficile;
ma più ci si sforza coscientemente in questo senso e più tale sforzo diventa un elemento costante durante la giornata, più ci
sarà facile. Spesso è d’aiuto fare patti chiari in proposito con l’ambiente circostante.
Capita a volte che nel corso della giornata non troviamo alcun momento per concentrarci. Si decida allora coscientemente
di non compiere in quel giorno l’esercizio. Questo è più chiaro, che lasciar semplicemente cadere quello che c’eravamo
prefissato.
In momenti particolarmente difficili il
fatto di non aver tempo può essere solo una
Prima del velo
La prima domanda che si presenta è: come
posso procurarmi del tempo in cui io faccio
regolarmente qualcosa per me, qualcosa che
nessuno mi richiede e che non porta immediatamente un’utilità e frutti visibili?
Questa domanda precede tutti gli altri esercizi; io la chiamo l’esercizio “zero”. Parlo di
questo in particolare, perché spesso è qui
che molti propositi falliscono. Nel ritmo
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scusa, perché l’uscire dal tram tram quotidiano richiede maggior forza interiore. Ma
proprio allora è particolarmente importante creare la quiete interiore.
cercare di percepire quali pensieri vi sono
passati per la testa e in che stato d’animo
eravate: cosa sentivo, quali emozioni ed
impulsi vivevo? Che influsso ha avuto questo sperimentare interiore su quello che io
ho detto e ho fatto? Più il quadro diventa
dettagliato, meglio è. Potete fare quest’esercizio in qualsiasi momento vi pare del giorno, ogni volta ne avete il tempo e la concentrazione.
Prendere le distanze
Il primo passo sul sentiero di sviluppo
interiore consiste nel rafforzare la facoltà
di prendere le distanze da se stessi. Prima
di intraprendere questa via, l’io vive nell’anima più o meno inconsciamente ed è trascinato dalle onde tempestose del mare
delle emozioni, dei pensieri e impulsi che
la muovono. Essi hanno origine spontaneamente, dall’interno, come reazioni a
quanto ci travolge da fuori. Per raggiungere il gradino successivo è necessario che
l’Io sia svegliato e che si chiarisca maggiormente tutto quello che avviene nel mondo
interiore. Bisogna imparare a distinguere
quali forze agiscono lì e che relazioni reciproche esse hanno fra di loro, per poi, in
una fase successiva, esercitare il nostro
influsso, guidandole – prendendole in
mano. La presenza autonoma dell’Io nell’anima è, detto in altri termini, presenza
di spirito. Lo scopo dell’esercizio che segue
è il risveglio e il rafforzamento di questa
presenza di spirito.
E’ importante che, nel riguardare all’indietro, ci si limiti solo alla percezione; giudizi
sulla percezione - ho fatto bene, male, avrei
potuto fare ecc.- possono farsi avanti rapidamente, ma qui è importante evitarli.
Facilmente si è tentati di rivivere il vissuto.
Oppure affluiscono molte associazioni.
Tutto questo deve essere impedito coscientemente, poiché questo esercizio è un esercizio di percezione nel quale voi stessi siete
l’oggetto della percezione. Esso rafforza la
differenza fra il vero Io e l’ego quotidiano.
Se si esegue questo esercizio regolarmente
per un tempo prolungato, sorge per così
dire un “secondo uomo in sé”. Questi è una
specie di saggio che in tutto quello che si fa,
ci guarda al di sopra delle spalle. Esso ci dà
la possibilità di non farci travolgere dagli
eventi e di non lasciarci trascinare dal flusso, ma di distinguere che cosa sta succedendo. In questo modo si acquisisce la libertà e
la possibilità di prendere decisioni, che
altrimenti ci sono strappate di mano dal
flusso degli eventi. Sono due gli aspetti di
questo esercizio: svegliare e rafforzare la
presenza dello spirito. Questo avviene attraverso la concentrazione sulla percezione e
attraverso il controllo dei propri giudizi e
sentimenti. Dopo un certo tempo, vi accorgerete che questa forza diventa più viva
negli eventi quotidiani. Possono così esserci momenti che vi coinvolgono, vi toccano
molto e che di solito suscitano in voi spontaneamente una certa reazione. In quei
momenti prenderete coscienza del “secondo uomo” e riconoscerete presto che è
Esercizio: uno sguardo indietro
Iniziate a concentrarvi per percepire voi
stessi. Scegliete un’immagine di ricordo,
presa dal passato. Può essere un evento dei
giorni appena trascorsi oppure che risale
più indietro. Poiché si tratta di un esercizio
di percezione, non c’è bisogno che sia qualcosa di speciale. Può, per esempio, essere
banale come il momento in cui stavate alla
cassa del supermercato. Riguardate indietro
per percepire l’ambiente circostante e per
porre voi stessi in una relazione. Com’era la
stanza, in che punto stavo, c’erano altre
persone? Poi si osserva la propria interiorità: cosa ho fatto? Che cosa ho detto? Potete
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meglio rinunciare ad una reazione immediata.
Il secondo aspetto consiste nel fatto che le
immagini del ricordo col tempo diventano
più chiare, precise. La capacità di ricordo è
sviluppata con intensità diversa in ogni
individuo: una persona si ricorda in modo
più variopinto e ricco di dettagli di un’altra.
Questo è da un lato questione d’esercizio,
dall’altro però anche questione di predisposizione personale.
E’ difficile evocare dinnanzi agli occhi una
precisa immagine di ricordo quando si è
stanchi e dopo un po’ si rischia di tralasciare questo esercizio. Rimanete saldi: vi
accorgerete presto, che proprio lo sforzo
favorisce il potenziamento della forza di
poter prendere le distanze da se stessi.
Questo “secondo uomo” che voi create
in voi stessi per mezzo di questo esercizio é qualcosa di
totalmente diverso dal così
detto “critico interiore”.
Molti conoscono il “critico interiore”, che ci osserva da sopra le spalle e sussurra continuamente all’orecchio che non ne facciamo una
giusta e che dovremmo fare
tutto diversamente. Si tratta di
una forza che agisce più opponendosi allo sviluppo che favorendolo; essa
non si trova “al di sopra” dell’anima
come invece è l’Io. Questo “critico interiore” è una parte dell’anima ed è il rappresentante inconscio di valori ed opinioni introiettati. Una piacevole azione
collaterale del nostro esercizio è il fatto
di imparare a relazionarsi in modo più
cosciente con queste opinioni. Ora ci si
può chiedere se il continuo consultarsi
con questo secondo uomo non conduce
a perdere ogni spontaneità. La risposta è
un netto no. Spesso si sperimenta il contrario. Impulsi che affiorano all’improvviso
non sono seguiti, perché le nostre norme
spesso vi si oppongono. In altri casi è la
paura che ci conduce a pensare che la spontaneità potrebbe portarci in situazioni pericolose ed insicure. Allora vi è troppo poca
spontaneità e proprio in questi momenti la
presenza di spirito può condurci a riconoscere l’elemento frenante e a farci decidere
di non assecondarlo.
C’è una scultura greca che porta ad espressione il risultato di questo esercizio: è il
famoso auriga del tempio di Delfi. Il motto
di questo tempio era “ Uomo, conosci te
stesso.” Lo scopo della scuola esoterica di
Delfi era lo sviluppo dell’auto-conoscenza.
L’auriga tiene in una mano le
redini, l’altro braccio della
statua manca. E’ possibile che
tenesse nell’altra mano la frusta. Dinnanzi al carro mi
rappresento
quattro
grandi e forti cavalli che
nella scultura mancano.
L’auriga può con una
mano tenere le redini,
trattenendo o lasciando
correre i cavalli; con l’altra
mano, li può aizzare
schioccando la frusta. Egli
stesso sta in piedi, ritto
nella verticale ed è simbolo dell’Io dell’uomo. I
cavalli corrono veloci, ma
è lui che li guida, cosicché
essi, assieme, trainano il
carro in modo equilibrato.
L’auriga deve far sì che i
quattro cavalli: il pensare,
il sentire, l’agire e la costituzione fisica siano un
buon traino. Perché sia
così, egli deve sviluppare
una coscienza per le loro
forze e caratteristiche e prestare
attenzione che essi si adeguino,
al massimo, l’un l’altro. Per questo egli
deve tener conto delle qualità d’ogni singolo cavallo. Nel film Ben Hur ho visto in
scena ognuno di questi processi in modo
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meraviglioso. All’auriga, eroe protagonista,
è messa a disposizione un’intera squadra di
cavalli. Egli la osserva, la soppesa, la riconosce e dà ad ognuno il giusto posto dinnanzi al carro: il cavallo più lento all’interno, quello più selvaggio spostato verso l’esterno, ma collocato in modo tale che possa
essere tenuto a bada da un cavallo più
calmo e con grande resistenza, che galoppa
esternamente a lui. Così compone un traino che lavora assieme in modo ottimo.
L’immagine dell’auriga serviva ai greci come
stimolo per continuare a sviluppare l’io e diventare guida delle proprie forze dell’anima. Proprio questo è lo scopo del nostro esercizio.
“Le costellazioni e la ginnastica dell’anima”
nello sperimentare l’arte dei percorsi di vita
Parlare del lavoro sulle
Costellazioni non è facile.
Tutti dicono “Non si può raccontare. E’ un’esperienza
molto particolare. Bisogna
provare...”. Sicuramente non
è facile tradurre in parole
un’esperienza spirituale, cionondimeno credo che si possa
parlare del proprio vissuto in
questi percorsi, di ciò che ci
ha toccati nel profondo.
Parlerò dunque di quello
che ho sentito io, anche se
poi, scambiando le impressioni con altri, ho notato che
ognuno trae da queste esperienze benefici assolutamente diversi.
Lo scorso ottobre ho partecipato al seminario di tre
giorni sulle Costellazioni proposto
dall’Associazione
Michael di Trento guidato da
Delf Alex Banz. Naturalmente, come sempre accade
quando si va in terreni sconosciuti, si alternavano nel mio
animo curiosità mista a
paura. Nella sala eravamo
una ventina. Gente di ogni
età, uomini, donne, nulla che
ci accomununasse, salvo l’imbarazzo di trovarsi lì a non
sapere cosa si sarebbe fatto.
Qualcuno era tranquillo, e al
giro di presentazioni si scopriva che era un habituè, contento di tornare ogni volta.
Chissà perchè, mi chiedevo.
Il conduttore è tedesco,
ha una voce piena e profonda,
parla pacatamente, è molto
concentrato, lavora in questo
campo da dieci anni, presenta
in breve la sua biografia: sposato, con figli, psicoterapeuta,
abita a Stoccarda, antroposofo.... Elena Nardini traduce,
potrebbe sembrare faticoso
ascoltare, invece è bello avere
il tempo di riflettere tra una
traduzione e l’altra. Siamo
seduti in cerchio.
Si comincia con il primo
volontario. Presenta il suo
problema e da lì partirà il
lavoro collettivo. Ha una questione particolare che vorrebbe vedere sotto altra luce, ma
in quei tre giorni altri volontari avranno altri quesiti: chi
un evento lavorativo, chi una
situazione matrimoniale, altri
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vorrebbero riorientarsi in un
momento di silenzio interiore
e così via. La cosa curiosa però
è che praticamente nessuno
formula la domanda in modo
tradizionale “Mi è successo
questo o quest’altro, voglio
sapere cosa devo fare....”. No.
Ogni volta si parla col cuore
aperto, con le corde dell’emozione a nudo, con le incertezze, le difficoltà che subito
ritrovo in ognuno dei miei
compagni di strada. Strano,
ogni storia che narrano me li
fa sentire più vicini.
Subito, fin da quel primo
volontario, mi colpisce il
modo in cui Delf mette a
fuoco la domanda, facendo
altre domande, in un colloquio fitto e aperto a tutti noi
che ascoltiamo: pian piano si
disvela un panorama sempre
più ampio e profondo. Una
rete di persone, di fatti, che
stanno intorno a quella
domanda.
Questa indagine è preziosa per ognuno che voglia
chiedere qualcosa: chiarisce,
dipana.
Noi intanto siamo come
un coro silente, partecipante,
pulsante. Nessuno si muove.
l’ascolto è totale, con il cuore
e con la testa. La com-passione, un sentire comune.
All’improvviso Delf tace.
Ha scritto fitto fitto su un
taccuino. Pensa. Propone i
soggetti che si rappresenteranno: in questo caso la
madre, il padre, il fratello, le
sorelle, i figli...Ma durante
quei tre giorni di volta in
volta, ad ogni proposta di
storia, potranno essere
anche messi in azione soggetti non propriamente fisici, come ad esempio la Sfortuna e la Fortuna, la Morte,
la Depressione...
E’ sempre il maestro che
propone i personaggi ma il
protagonista deve sempre
dire se è d’accordo. Scelti i
soggetti, occorre scegliere gli
“attori” che li impersoneranno. E da questo punto preciso inizia un’esperienza spirituale unica. Stranamente
“oltre” noi.
Il protagonista, accompagnato da Delf, chiama
uno ad uno gli attori della
sua storia. Allora ecco che si
può essere chiamati ad essere di volta in volta la madre,
o la moglie, o l’amante del
padre, o la sorella più grande
e così via.
Si viene posizionati nella
sala in un modo liberamente
scelto dal protagonista. Che
alla fine si siede e guarda.
Guarda la SUA COSTELLAZIONE.
A quel punto Delf inizia
ad avvicinarsi a qualcuno
degli “attori”. Nulla è lasciato al caso o all’improvvisazione, nulla è recitato.
Domanda in tono calmo e
profondo, come in una rappresentazione sacra, come si
senta questo o quel protagonista della costellazione.
All’inizio, guardando dall’esterno, pensavo che gli
“attori” stessero interpretando il ruolo affidato loro, fossero più o meno bravi o che,
avendo ascoltato la storia
raccontata dal protagonista,
si fossero immedesimati.
Invece tutto questo non
c’entra niente. Succede qualcos’altro.
Quando ho iniziato a
costellare io stessa, chiamata
come “attrice”, ho sentito
quanto io fossi semplice strumento di qualcosa di incomprensibile. Ricordo che ero la
primogenita di cinque figli.
Un’esperienza che non potrei
neppure comprendere con la
testa perchè sono figlia unica.
Ebbene ora so per esperienza,
cosa si prova ad essere la più
grande dei fratelli, quale rapporto si ha con i genitori...
Ora posso capire altri in questa situazione. Ma so anche
per esperienza cosa significa
condividere il peso in una
situazione famigliare difficile,
cosa significa amarsi e rispettarsi perchè sono stata scelta
in altre costellazioni come
moglie, o come madre...
Stranamente tutte quelle
esperienze animiche avevano
10
da dire qualcosa anche a me,
al mio presente. Ogni volta
capivo con l’anima e non con
la testa!
Delf sempre concentrato, lento, attento, rispettoso,
mi ha insegnato a vedere che
ogni figura delle costellazioni è degna di essere ringraziata, qualsiasi cosa abbia
fatto, qualsiasi azione, anche
la più riprovevole, abbia
compiuto. Ognuno ha la sua
strada, ogni figura ha una
posizione e via via viene
ricollocata, in un mettere
ordine che è quasi un pareggiare karmico.
In questa accezione il
lavoro di Delf è veramente
antroposofico: tutto torna
ad essere al suo vero posto, si
liberano nodi aggrovigliati
di cui s’era perso il bandolo,
ogni evento ha la grandezza
dell’evento spirituale che
non si conclude mai solo
sulla Terra.
In quella stanza si sente
che non si è soli ad agire. E i
miei compagni mi sono
molto cari, sento di doverli
ringraziare tutti perchè mi
hanno permesso di sperimentare sentimenti sconosciuti.
Torno a casa con un’anima piena, allenata in una
palestra speciale. E ho già
voglia di tornare a costellare.
Non chiederò niente, spero
solo mi scelgano in tanti.
Una palestra dell’anima non
si trova facilmente.
PAOLA LAZZAROTTO
11
Nutrire l’anima
I bambini ci chiedono
spesso: come si chiama questo fiore? Qual è il nome di
quella stella? Che animale è?
Il bambino non è in
grado di esprimere altrimenti le sue domande. Ma chi
cerca veramente di ascoltare
la richiesta che vive dietro
tali domande, direbbe
che in realtà i bambini ci chiedono:
puoi raccontarmi
qualcosa di questa
pietra, di quest’animale, di quella stella?
Come vivono? In che
relazione sono con il
mondo? E con me? Qual è il
senso del mio rapporto con
il mondo e con tutti gli esseri che mi circondano?
Sappiamo che il bambino, in risposta a tali domande, non cerca pensieri, ma
racconti, che noi possiamo
narrargli a tale proposito.
Egli ha bisogno di racconti
veritieri e pieni di fantasia;
le immagini sono nutrimento per la sua anima.
R. Steiner ha parlato in
modo significativo dell’importanza di tali racconti:
“Sarà importante offrire
un’osservazione amorevole
della vita degli animali, dei
loro specifici modi di vivere, in modo ricco di immagini veritiere: cosa fa il
leone, la volpe, la formica.
L’importante di questi rac-
conti è che essi siano significativi.
… Sarà particolarmente
importante osservare in tale
modo anche la vita delle
piante, saper raccontare la
relazione tra la rosa e la violetta, il rapporto fra gli arbusti e le erbacce che crescono
attorno a loro…”
Tali racconti si
rivolgono in primo
luogo ai bambini
fino agli otto nove anni. Il
momento migliore
per raccontarli è quando il bambino ha visto qualcosa e pone domande in
proposito. Oppure guideremo noi il bambino alla
gioiosa osservazione di
quanto raccontato. Questo
suscita nei bambini devozione e venerazione nell’osservare il mondo.
Allora, per dare
solo alcuni esempi, i bambini possono ammirare i
bordi ben dentellati delle foglie
delle piante, e nel fare
questo, percepire l’azione
dei “piccoli maestri sarti con
le forbici dorate” di cui si
parla nella storia della sorgente. La lucciola nelle serate di giugno incanta ogni
bambino. Sarebbe importante riuscire a mostrare al
bambino anche la figura
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non appariscente di quell’insetto così come appare di
giorno, dato che se ne parla
nel racconto.
Il bambino impara così
ad osservare in modo simbolicamente vero. Lombrichi
ce ne sono dappertutto. Non
di rado sono maltrattati dai
bambini, che, dopo aver sentito la storia, li tratteranno in
modo amorevole. Le nocciole, con le loro gonnelline a
frange verdi, si possono
incontrare ovunque nel
bosco. E’ così stimolata nel
modo più bello, fin dall’età
dell’infanzia, la capacità di
osservare con amore.
Almeno una volta, possiamo fermarci a guardare
con i bambini anche la mercorella, di sapore salato e
amaro, così poco appariscente o la camomilla,
delle quali hanno
sperimentato l’azione risanatrice
in tempi di
malattia, quando
le piccole ferite
sono state curate
con la crema “mercurialis annua” oppure il mal
di pancia è stato calmato
con una tazza di camomilla.
I bambini saranno affascinati, se noi li aiutiamo ad
osservare correttamente il
cestino verde del girasole con
gli innumerevoli grandi e
piccoli fiori allineati nel cesto
composito e ben
sistemati
in forma
di spirale.
Anche
le
stelle cadenti hanno il loro
fascino e si possono osserva-
re nel silenzio della notte.
I racconti sono correlati
anche con le stagioni. Così
osservare e sperimentare
possono unirsi e suscitare
nella coscienza sognante del
bambino il delicato sentimento del legame dell’uo-
Nutrire l’anima
Il bambino Gesù amava
le piante. Gli piaceva molto
stare nel giardino, che era
accanto alla falegnameria
del padre e parlava con gli
animali e con le piante. Un
giorno la madre di Gesù gli
chiese di portale fiori per
adornare la casa e carote e
ravanelli per il pranzo. Gesù
ubbidì e corse subito fra i
fiori; per ognuno di loro
aveva una parola gentile.
“Siete felici ora?” chiese
alle rose. “Si” risposero le
rose “perché non dovremmo essere felici?” “Voglio
raccontarvi quello che voi
avete dimenticato” rispose
loro il bambino Gesù. “Un
tempo non eravate felici.
Voi, figlie del sole, stavate
presso il Padre, tutte assieme. Poi siete state inviate
sulla terra e ognuna di voi,
improvvisamente, si trovò
sola e legata alla terra.”
“Che cosa avvenne allora?”
chiese una rosa. “Il Padre
nel cielo, che fa il mondo
sempre più bello e buono,
cercò degli aiutanti, affinché voi non foste sole. Fra i
tanti esseri di luce alati, uno
mo con il mondo e degli
esseri viventi fra di loro.
Tratto liberamente da:
Von Pfanzen und Tieren
Steinen und Sternen
di ELISABETH KLEIN
(Prefazione)
Elisabeth Klein, IL LOMBRICO
si offrì per diventare amico
e aiutante dei fiori. Dovette
allora rimpicciolire il suo
corpo di luce; mantenne
però il color dell’oro e le ali.
Nacquero così le api, che
volano come messaggere da
un fiore all’altro.”
“Ah, è così che avvenne”
disse la rosa pensierosa.
“Non è ancora tutto ”
proseguì il bambino Gesù “il
Creatore aveva fatto sì che
alcune di voi rimanessero sul
sole. Le fece volare poi sulla
terra; esse non divennero
fiori legati con le radici alla
terra, ma fiori che volano
tutt’intorno e che vanno a
trovare altri fiori: furono farfalle. E tutti gli esseri del
cielo e della terra si rallegrarono per le splendide farfalle.
Proprio in quel momento, una farfalla si posò sul
fiore che il bambino stava
per cogliere. Poco dopo
un’ape andò a far visita alla
rosa che aveva parlato con il
bambino Gesù.
“Buon giorno” disse l’ape
“ho qui per te un piccolo
granello di sole, come dono e
saluto da parte del fiore che
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ti sta accanto. Rimarrei
volentieri più a lungo nella
tua casetta fiorita, ma devo
proseguire. Voglio andare a
trovare ancora molte rose.”
“Prendi rugiada e nettare
dal mio piccolo calice e portali con te nella tua casetta”
disse la rosa all’ape “affinché
possiate fare del buon miele.
Prendi anche tutto il polline
dorato che vuoi.”
Con devozione il bambino Gesù aveva osservato
l’ape volare nell’aria colma di
sole e posarsi sulla rosa, radicata saldamente alla terra.
“Ti ringraziamo per
quello che ci hai raccontato.
Ora comprendo perché le
api e le farfalle ci rendono
tanto felici” disse la rosa.
Gesù poi andò nell’orto,
dove crescevano carote e
ravanelli. Voleva raccogliere,
per il pranzo, anche la radice
del prezzemolo. Estrasse le
carote ed i ravanelli dalla
terra, poi li sciacquò per
pulirli ben bene. Allora la
radice del prezzemolo disse:
“Abbiamo ascoltato quello
che hai detto ai fiori, che si
sentono così felici fra api e
farfalle. Noi non siamo
altrettanto felici. Dobbiamo
far molta fatica per crescere
nel regno della terra. Lì è
molto buio e la terra è dura”.
“Scava tu stesso nella terra”
gridò con aria furba il ravanello, “te ne accorgerai.”
Il bambino provò, ma
soltanto con il dito non ci
riuscì. Prese allora un
bastoncino per aiutarsi e fece
molti piccoli forellini nella
terra, per renderla più morbida. “Quello che fai, farà
del bene alle radici” disse
con riconoscenza la radice
del prezzemolo “Giù da noi,
nella terra arrivano poca
luce, aria e calore; nessuno ci
parla delle altre radici e, se
Madre Terra non fosse così
buona con noi, non potremmo proprio resistere.”
Il bambino Gesù fu
molto dispiaciuto. “Voglio
partecipare al vostro dolore”
disse “forse posso aiutarvi.”
Pensò fra sé: “Non può essere una farfalla che vola di
fiore in fiore; dovrebbe essere un messaggero che gira
qua e là fra le radici e che
rende il terreno più soffice.”
Prima di lasciare il giardino e di portare a sua
madre i fiori e le radici, il
bambino Gesù disse, prendendo congedo: “Voglio
domandare aiuto per voi a
mio Padre, che è in cielo.
Aspettate e guardate cosa
accadrà.” Tutte le radici
delle piante lo udirono.
Il Padre in cielo, che
tutto conosce, rispose alla
sua preghiera: “Sii tranquillo. Io voglio inviare alle
radici un messaggero che
giri qua e là in mezzo a loro,
così come le farfalle e le api
volano fra i fiori. Infila un
pezzettino di radice nei piccoli fori che, oggi, hai scavato nella terra con il tuo ditino.” Non era un compito
difficile e fu presto fatto.
Il giorno dopo, quando
le radici del sedano ripresero
a crescere nel terreno del
giardino, videro uno strano
compagno che vagava nella
terra qua e là. Aveva un
aspetto molto strano. Le
radici si spaventarono quasi
al vederlo e gli chiesero: “Chi
sei? Non ti abbiamo mai
visto. Che cosa fai qui?” “Io
sono il vostro servitore, il
verme delle radici” rispose.
Devo scuotere sempre i
vostri lettini, mantenerli ben
morbidi e perfino dar aria
alle tende, affinché luce e
calore penetrino nelle vostre
stanzette.” “Come puoi essere nostro servitore, non hai
occhi?” chiesero le radici.
“Per vivere qui non posso
avere occhi. Ma posso sentire tutto ciò che avviene sotto
terra e anche quello che
avviene sopra la superficie
della terra. “Dove sono le tue
orecchie?” chiesero le piante,
osservando il verme. “Non
ho orecchie, ma sento tutto”
rispose. “Posso addirittura
sentire quello che dice e che
pensa il contadino, al quale
appartiene il campo che è
accanto al giardino.”
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“Ecco il messaggero di
cui ci ha parlato il bambino
Gesù” gridò il ravanello.
“Presto saremo felici anche
noi” aggiunsero tutte le altre
radici, piene di gioia. “Io
sono il messaggero delle radici. E ora devo proseguire”
soggiunse solerte il buon animaletto, “per rendere la terra
soffice ovunque, anche per
tutti i semi che presto
cadranno nella terra e che
devono avere un morbido
lettino.”
Così ha avuto origine il
verme delle radici. Lombrico
fu chiamato questo animaletto benefico. Si può vederlo solo quando piove. Solo
allora, infatti, esce dal terreno che é troppo pieno d’acqua perché possa rimanervi!
Le piante amano i lombrichi altrettanto come
amano le api e le farfalle. I
lombrichi, che vivono nel
terreno fra le radici, non
possono naturalmente preparare assieme alle piante il
miele dal sapore dolce e dal
colore dorato, come invece
possono fare i fiori.
Anche i lombrichi possono però preparare qualcosa
di molto prezioso. Preparano
la scura, profumata, fertile
terra di campo, nella quale
essi si sentono bene come si
sentono i fiori nella luce del
sole. Solo dove ci sono lombrichi vi è buona terra!
Tratto liberamente da:
Von Pfanzen und Tieren
Steinen und Sternen
Pensieri dal cuore
“Io piango!”
“Perché piangi?”
“Sono solo nella vita”
“Siamo tutti soli, diventare grandi vuol anche dire sentirsi soli…”
Lo sguardo sconsolato sembra dirmi tristemente: “Nemmeno tu mi capisci, nemmeno tu mi
prendi sul serio…”.
E’ proprio così: la persona portatrice di handicap è profondamente sola.
Incontrare la difficoltà mette in crisi.
Pensiamo generosamente di fare loro spazio “integrandoli” in un mondo che è a nostra misura, in un continuo, esasperato e scientifico confronto con la “normalità”. E noi, “normodotati”,
siamo in grado di dimenticare per un momento noi stessi e i nostri parametri per aprirci in
modo vero alle qualità dell’altro, qualità che non corrispondono necessariamente a canoni preconfezionati?
Un piccolo esempio di quotidiana “presunta integrazione”: spesso ci si rivolge al portatore di
handicap in modo innaturale; si pensa di doversi abbassare ad un livello di banalità, di luoghi comuni, far uso di un linguaggio puerile …. e non ci accorgiamo di ridicolizzare noi stessi e il nostro interlocutore. Come può mantenere la sua dignità, manifestare la sua interiorità, il suo vero essere integro e profondo, se noi non lo facciamo a nostra volta?
Ogni rapporto interpersonale avrebbe bisogno di qualità. Nei confronti del disagio, moralità e
qualità sono elementi determinanti per creare lo spazio per un vero incontro e scambio.
ELENA NARDINI
Nel bosco
Lina Schwarz
Nel bosco ogni vecchio gigante,
sia abete, sia quercia, sia pino,
ha intorno, ai suoi piedi, un giardino
di piccole piante.
Son muschi, son felci, son fiori,
e fragole rosse e lichene
cui l’albero antico vuol bene,
suoi teneri amori.
Mentre le fronde superbe
protende più su verso i cieli,
ei pensa a quegli umili steli
nell’ombra, tra l’erbe.
15
e
Musicosophia: un metodo per l’ascolto cosci n
t
“La musica è difficile. Non è semplice ascoltare
attentamente un brano, riconoscere e sentire che
cosa accada realmente in esso. Per molte persone
un’opera può essere leggera e piacevole da ascoltare;
essa può richiamare immagini fantasiose o suscitare piacere, agitare, calmare o altro ancora. Ma
nulla di tutto ciò può essere definito <ascoltare>”.
LEONARD BERNSTEIN
e
d
a
ell
nostro essere musicale è molto sfaccettato e le nostre possibilità di affrontare ed incontrare la musica sono inesauribili.
Attraverso il metodo elaborato da Musicosophia, una disciplina per l’ascolto cosciente della
musica, viene sviluppato il senso musicale che
si nasconde in ciascuno di noi e che costituisce una parte importante del nostro essere.
Ai bambini viene aperta una via per imparare ad ascoltare la musica in modo gioioso,
sviluppare le loro forze di fantasia e rafforzare il loro equilibrio interiore.
musica classica
L’ascolto cosciente della musica è un’arte che
può essere appresa da tutti coloro che sono disposti, attraverso esperienze guidate, ad allenare
il proprio ascolto e la propria percezione.
Musicosophia è l’unica scuola che si occupa
specificamente dell’”ascoltatore” fornendogli,
senza ricorrere a conoscenze tecniche (note,
accordi ecc), gli strumenti adatti ad individuare
le forze musicali (melodie, temi ecc.), il loro
ordine, il cammino compiuto dalle idee musicali, le loro trasformazioni, le strutture ecc. Lo
scopo dell’analisi dei diversi gradi di comprensione è l’“entrare” nella musica o meglio il farla
vivere ed agire interiormente. A tal fine un
aiuto prezioso sarà la “meloritmia”, una forma
di movimento delle braccia basato sull’architettura e sulla melodia del pezzo musicale.
Va in particolar modo sottolineato l’aspetto
“formativo” di tale disciplina che potrà essere
esercitata quotidianamente in campo educativo.
.
“I bambini ascoltano musica classica”: un’esperienza guidata all’ascolto e alla scoperta dei capolavori dei grandi maestri.
Udire-ascoltare
Oggi i bambini sono più che mai ininterrottamente bombardati da ogni sorta di
impressioni che, ad un ritmo sempre più
veloce, investono i loro organi di senso
ancora in formazione. I bambini, non essendo in grado di difendersi da questa sproporzionata quantità di informazioni e di impressioni,
reagiscono spesso “chiudendosi” manifestando
così una grande difficoltà ad ascoltare e a riconoscere con esattezza ciò che odono. Le conseguenze possono essere disturbi psichici o anche
comportamenti sociali problematici.
Per conoscere le date e i temi dei seminari consultare il sito: www. musicosophia.it, e-mail:
[email protected], oppure tel.
0332-282831. Nel 2006 a Trento si realizzerà
un Corso intensivo di 5 Seminari nelle seguenti date: 27-29 gennaio; 24-26 marzo; 26-28
maggio; 15-17 settembre; 10-12 novembre
2006 Per ulteriori informazioni e per richiedere
materiale informativo rivolgersi a Teresa Anzelini Tel 0461- 910471; e-mail; [email protected]
Tutti i bambini sono musicali
Ogni bambino è musicale anche se non suona
alcuno strumento od è “stonato”nel cantare. Il
LA QUOTA ASSOCIATIVA DI EURO 50,00
ASSOCIARSI
È DA ACCREDITARE SUL CONTO CORRENTE
BANCARIO N. 25941503
INTESTATO A Associazione Michael
Grazie a tutti coloro che, attraverso
il loro associarsi, contribuiscono
a sostenere il nostro lavoro
e si uniscono a genitori e bambini…
in un grande girotondo di solidarietà.
presso la Unicredit Banca - Caritro,
ag. 2 di Trento (Abi 2008, Cab 1802).
16
Diego Valeri
o
n
i
l
l
e
n
a
Il camp
Ci fu nel tempo antico un pastorello
che aveva dieci pecore e un agnello.
Era povero molto, e inverno e estate
andava per montagne e per vallate.
Andava solo, senza pur un cane,
mangiando qualche frutto e un po’ di pane;
andava e andava tutto il dì; la notte,
dormiva negli stazzi o per le grotte.
Ecco che un giorno- un sabato d’agosto,
che s’era soffermato presso un bosco,
a pascer quelle sue pecore d’oro
e l’agnellino bianco come l’uovo,
gli arriva a orecchi un suono, un suono strano,
non sapea se vicino o se lontano.
Canto d’uccelli non era, né fronde
mosse dal vento, né ridere d’onde;
non era il bosco, né il ruscello in piena…
Era come una voce di Sirena!
Ascolta attento; e proprio gli sembrava
una donna che a nome lo chiamava;
ma lo chiamava così dolcemente
come sopra la terra non si sente.
Allora dice al suo piccolo armento:
Statevi quete, e torno in un momento.
Si reca in spalla l’agnellino bianco,
e va e cammina, e va verso quel canto.
Traversa tutto il bosco, e va e cammina,
in fin che arriva ad una porticina.
Entra, e si guarda intorno… e cosa vede!
Tutto oro, tutto argento, e fiori e stelle
1
Il campanellino
e perle, a cento, a mille… uno splendore!
Nel mezzo, una fanciulla occhio di sole
tesseva a un suo telaio che sonava
come un organo e il canto accompagnava:
Pastorello poveretto,
lascia il gregge e vieni a me;
se restar vorrai con meco
sarai ricco più di un re.Il pastore mirava sbigottito
quella gran festa, e non moveva dito;
e la bella, al telaio, sorrideva,
e il suo canto soave riprendeva:
Pastorello poverino,
tutto il bello che qui c’è,
gemme, perle ed oro fino,
se lo vuoi, tutto è per te.
Ora il pastore stava già per dire:
- Resto, son tanto stanco di patire quando sentì sul collo il buon tepore
dell’agnellino e il battito del cuore;
pensò la greggia, le vallate e i monti,
l’ombra dei boschi e il chioccolio dei fonti…
Si guardò intorno… Nulla più di bello!
nulla… oppure, ecco, ecco, solo il campanello:
un campanello piccolo di rame
entro un mucchio di gioie e di collane…
Si prese quello, ringraziò la fata
e tornò fuori, all’aria profumata…
Traversa tutto il bosco, e va e cammina,
e finalmente alla sua greggia arriva.
C’erano tutte… Un breve salutare;
e i dodici ripresero ad andare.
2
E innanzi a tutti andava l’agnellino,
scotendo al collo il suo campanellino.
Elisabeth Klein
e
l
o
Il giras
Molti alberi sono così alti, che possono
quasi toccare, con le loro chiome, le nuvole. E,
con le loro radici,alcuni si allungano quasi altrettanto, giù nella terra. Vi sono anche fiori ed erbe, che
si radicano profondamente nel terreno. E quasi tutti i fiori
hanno l’anelito di crescere il più possibile verso l’alto, incontro al cielo.
Un giorno un fiore divenne un po’ sfacciato. Disse: “Non voglio più
rimanere così piccolo. Voglio diventare grande come un albero. Voglio crescere, troverò ben qualcuno che mi aiuti in questo mio intento”.
Questo fiore non era soddisfatto dell’aspetto, che gli era stato assegnato. Iniziò con chiedere alla bella stella del mattino se voleva aiutarlo. Ma la
stella gli rispose: “ Tu vuoi disobbedire! Io non posso aiutarti in questo.”
Anche le altre stelle gli negarono il loro aiuto.
Alla fine, poiché il fiore non le lasciava pace, la luna si dichiarò disposta ad aiutarlo. Prese alcune grosse nuvole e…. avreste dovuto vedere
come la luna, la pianta e l’acqua lavorarono rapidamente insieme. Ogni
notte - poiché le piante crescono soprattutto di notte - il gambo cresceva,
assieme alle foglie, un bel pezzetto verso l’alto. Le foglie divennero grandi e larghe e i gambi grossi e forti, come un tronchetto di una betulla. La
piccola scala, sulla quale le foglie si innalzavano verso l’alto era già diventata molto lunga e schiere di piccoli bimbi-fiore aleggiavano attorno alla
pianta che cresceva. Ogni fiore deve infatti scegliersi una foglia e sedervisi sopra, come su di una seggiolina, ed ognuno di loro aveva già scelto
la propria foglia. In pochi giorni la pianta avrebbe raggiunto l’altezza di
un albero.
Tutto era avvenuto così rapidamente, che il sole, al quale il Creatore ha
affidato la tutela dell’ordine e la responsabilità dell’armonia di ogni pianta, non se n’era neppure accorto. Ma quando il sole scoprì come il fiore era
cresciuto e che era già diventato alto come mezzo albero, trasalì nel veder
infranto l’ ordinamento.
E trovò un rimedio. Prese un largo cestino verde, lo affidò agli esseri che
sono al servizio della creazione e comandò loro di sistemarvi tutti i bimbifiore. Gli esseri di luce presero il cestino e lo posarono sulla cima dello stelo,
e premettero dall’alto verso il basso; e così la pianta fu costretta a fermare la
sua crescita. Raccolsero poi tutti i bimbi-fiore che sciamavano alti nell’aria,
perché ognuno di loro voleva posarsi il più in alto possibile. Uno dopo l’altro, dovettero sedersi, ubbidienti, nel cestino. E quanti erano! E quanto sarebbe ancora cresciuto quel fiore, lo potete vedere se contate i piccoli fiori, e più
tardi i semi, che si trovano nel cestino. Come hanno fatto bene il loro lavoro
3
Il girasole
gli esseri del sole! Hanno posato un fiore dopo l’altro, in modo molto ordinato, formando una spirale, che da fuori si arrotola verso l’interno, come una
chiocciola.
Ma quando i fiori si schiusero, avevano proprio poco posto! Non come
quando un solo fiore sta su una foglia. Solo quelli più esterni, che erano al
bordo, poterono diventare petali grandi e belli; gli altri sono rimasti piccoli piccoli. Però il cestino era così piacevole e i fiori si sentivano così bene
l’uno vicino all’altro, che anche altri fiori desiderarono avere cestini simili: composti da tanti fiori; molti furono accontentati. Queste piante vengono chiamate “composite”.
Quando gli esseri del sole ebbero finito il loro lavoro e tutti i fiorellini
sbocciarono, oh! miracolo, quel grande fiore sembrava essere l’immagine
del sole. Ed è per questo che, da allora, viene chiamato girasole. Spesso
lassù, in quel grande cesto, fa molto caldo e allora diventa marrone.
E’ così che il girasole ha ottenuto di diventare il fiore più grande. Ma
ognuno può accorgersi che c’è qualcosa che non è in completa armonia:
nell’ anelito di crescere sempre più in alto, questo fiore ha esaurito tutta la
sua forza, dimenticandosi delle radici, che sono rimaste piccole. Quando
soffia un forte vento, il girasole non può sostenersi: viene sradicato; anche
il gambo è fragile e si spezza facilmente. Il girasole non è diventato un
albero; gli alberi hanno la forza di resistere al vento.
Quando i girasole si accorsero del pericolo che correvano nelle tempeste, dissero fra loro: “ E’ proprio un bene che non siamo diventati alberi!
Ogni soffio di vento ci farebbe dondolare paurosamente! Per fortuna il sole
ci ha aiutati.”
E il sole disse loro: “D’ora in poi rivolgetevi sempre verso di me, e guardate e ascoltare tutto quello che io dico.” Da allora, ogni girasole fa proprio così: guarda sempre verso il sole.
VON PFLANZEN UND TIEREN STEINEN UND STERNEN
ERZÄLUNGEN
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