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lAVORO “USA E GETTA”, DISOCCUPAZIONE E INOCCUPAZIONE. NOVITA’ IMPORTANTI DAI DATI WHIP 1 Bruno Contini, Università di Torino e Collegio Carlo Alberto con Elisa Grand, Collegio Carlo Alberto Luglio 2012 Abstract Il lavoro “usa e getta” - di cui oggi abbiamo una nozione molto più chiara di qualche anno fa spiega almeno tre fenomeni che hanno grosse implicazioni per la politica economica e per il progetto di riforma del mercato del lavoro recentemente approvato dal Parlamento. Il primo è il più drammatico: molti giovani che entrano nel mercato del lavoro in modo ufficiale, ne escono dopo breve tempo per non rientrarvi mai più. Il secondo riguarda la crescita nell’ultimo decennio del numero di inoccupati che non sono alla ricerca attiva di lavoro, ma che si dichiarano disposti a lavorare qualora fosse loro offerto. Agli effetti di un realistico confronto con altri paesi europei, la maggiore parte di questi dovrebbe essere conteggiato come disoccupato, portando così il tasso di disoccupazione effettivo oltre il 15%. Il terzo ha un effetto dirompente su un luogo comune della stampa giornalistica, ma anche della pubblicistica accademica. I contratti a tempo indeterminato, declamati per essere iper-protetti specialmente sotto il profilo del licenziamento, sembrano esserlo assai meno di quanto si sostiene. 1 Introduzione Con questo articolo intendo presentare alcuni dati, per ora largamente sconosciuti, che fanno luce su alcuni fenomeni che sarebbe stato opportuno non trascurare nella messa a punto della riforma del mercato del lavoro. Il lavoro “usa e getta” - di cui oggi abbiamo una nozione molto più chiara di qualche anno fa - spiega almeno tre di questi fenomeni. Il primo è il più drammatico: al di là della frammentazione delle carriere lavorative, molti giovani che entrano nel mercato del lavoro in modo ufficiale, ne escono dopo breve tempo per non rientrarvi mai più. Lavoro “usa e getta” (bisognerebbe forse parlare di “lavoro usa e getta definitivamente”) riflette bene questa caratteristica. Il secondo riguarda la crescita nell’ultimo decennio del numero di inoccupati che non sono alla ricerca attiva di lavoro, ma che si dichiarano disposti a lavorare qualora fosse loro offerto. Secondo l’ISTAT se ne contavano 2.8 milioni nel 2010; oggi sono sicuramente intorno a 3 milioni. Numeri che sono oltre tre volte la media europea. E che nascondono, per motivi sui quali tornerò tra breve, un tasso di disoccupazione reale, più confrontabile di quello ufficiale con i tassi europei, che sicuramente supera il 15%. Il terzo ha un effetto dirompente su un luogo comune della stampa giornalistica, ma anche della pubblicistica accademica. I contratti a tempo indeterminato, declamati per essere iper-protetti specialmente sotto il profilo del licenziamento, non sembrano esserlo affatto. Quasi due terzi delle assunzioni a tempo indeterminato danno luogo a distacchi involontari dal posto di lavoro entro due anni dall’inizio del rapporto. 1 Questo lavoro è stato sviluppato nel quadro del progetto “Problems of youth employment” finanziato dal Collegio Carlo Alberto. Siamo grati a un referee per le numerose osservazioni che hanno permesso di migliorare il testo e di emendarlo da alcuni errori. La responsabilità dello scritto è solo degli autori. 1 Le informazioni contenute in questo articolo susciteranno inevitabilmente perplessità. Invitiamo caldamente tutti coloro che le condividono a approfondire le esplorazioni che ci hanno portato fino a qui. I dati sono a disposizione degli interessati per qualsiasi replica. 2 Lavoro “usa e getta”: l’utilizzo dei giovani (ma anche dei meno giovani) nel mercato del lavoro italiano Lavoro “usa e getta”? Se ne parlava già più di venti anni fa in alcune sedi sindacali, ma molti pensavano che fosse uno slogan di lotta politica, e comunque non c’erano gli strumenti per analizzarne cause e dimensioni. Oggi ne riparliamo con gli strumenti adatti. Il lavoro “usa e getta” ci sembra la chiave per studiare dimensioni, cause e conseguenze del dilagante precariato, ma anche per capire come ha origine la drammatica crescita dell’esercito degli inattivi. I dati che forniscono la maggior parte delle indicazioni di questo studio sono quelli WHIP, un grande campione longitudinale di carriere lavorative di tutti coloro i cui contributi previdenziali sono versati all’INPS dagli anni Ottanta in avanti (il rapporto campione-universo è di 1:90), frutto della collaborazione tra INPS, l’Università di Torino e il Collegio Carlo Alberto. Poiché il lavoro “usa e getta” è particolarmente rilevante per i giovani, conviene osservare (fig. 1) che le assunzioni dei dipendenti - indipendentemente dalla modalità contrattuale - sono state assai più numerose tra i giovanissimi (19-22) rispetto alle classi di età 22-25 e i più maturi (25-30). Il calo osservabile tra il 1987 e il 1993-94 è drammatico, oltre il 50% per tutte le classi di età, ma ancora più forte tra i giovanissimi. Poi le assunzioni riprendono con fasi alterne, senza mai, però, avvicinare i livelli di fine anni Ottanta. Questi sviluppi appaiono sostanzialmente indipendenti dalla dinamica demografica. I dati WHIP non consentono di arrivare agli anni più recenti, né il Rapporto ISTAT-INPS sulla Coesione Sociale 2012 fornisce dati sui nuovi assunti. Indica però che la numerosità dello stock di lavoratori dipendenti sotto i 40 anni continua a ridursi, mentre aumenta quella degli ultra-quarantenni, una chiara conseguenza della flessione delle assunzioni dei giovani. 140000 120000 100000 80000 60000 40000 20000 0 1987 1988 1989 1990 1991 1992 1993 età 19-22 1994 1995 età 22-25 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 età 25-30 Figura 1. Entrate di uomini nel lavoro dipendente per classe di età: la crescita del 2002 è attribuibile quasi interamente al provvedimento di regolarizzazione degli extra-comunitari di quell’anno. Fonte: Elaborazioni su WHIP Ecco quello che rivelano i dati sui processi “usa e getta”. In primo luogo ci mostrano l’enorme e crescente frequenza di carriere intermittenti, con lunghi periodi in disoccupazione tra un impiego e l’altro, quasi indipendentemente dal tipo di contratto con cui si viene assunti. In secondo luogo 2 evidenziano che molti, troppi giovani che entrano nel mercato del lavoro alle dipendenze in modo ufficiale (e cioè a libro paga con regolare contratto di lavoro e versamento contributivi) ne escono, spesso dopo breve tempo, per non rientrarvi mai più. Non sorprendono (ma preoccupano) le carriere intermittenti. Né sorprende che questa modalità di turnover elevato perduri per lunghissimi anni prima di approdare a una occupazione relativamente più (ma quanto?) stabile. Dopotutto così ormai vanno le cose da venti anni nella maggior parte dei paesi occidentali: nel 2008, secondo l’OECD, solo metà dei giovani europei fino a 29 anni aveva un contratto di lavoro stabile: tutti gli altri lavoravano sulla base di contratti variamente atipici che notoriamente compromettono seriamente le condizioni di vita, e hanno spesso effetti molto negativi sulla progettualità individuale, nonché sull’accumulazione di capitale umano. La patologia italiana consiste nel fatto che un numero drammaticamente alto di giovani che hanno avuto un periodo di lavoro alle dipendenze perfettamente in regola, dopo la prima dismissione spariscono dal mercato del lavoro, non solo come lavoratori dipendenti, ma anche come autonomi, professionisti, impiegati nel settore pubblico, né risultano disoccupati (i lavoratori in Cassa Integrazione restano sul libro-paga del datore di lavoro, e quindi vengono conteggiati come attivi) o pensionati. 2 Per alcuni di questi è plausibile che la destinazione finale sia l’economia sommersa, per sua natura non osservabile; per molti altri uno stato di disoccupazione permanente senza indennità che si trasforma presto in inattività da scoraggiamento tout court. Per pochi ha senso pensare a scelte di inattività volontaria. Le fonti statistiche ufficiali, basate sulle Indagini Trimestrali sulle Forze di Lavoro, non consentono, peraltro, questi approfondimenti che richiedono l’osservabilità delle carriere individuali su periodi molto lunghi e non interrotti. E’ comunque opportuno notare che i dati sugli stock di inattivi forniti dall’ISTAT sono quasi in linea con quanto emerge da WHIP, come vedremo di seguito. La maggiore parte dei nostri approfondimenti si ferma al 2003, e riguarda i lavoratori maschi, proprio per eliminare i problemi che si frappongono nelle analisi dei percorsi lavorativi delle donne (maternità, cure domestiche, ecc.). Per le donne, che saranno oggetto di approfondimenti nel prossimo futuro, ci limitiamo a evidenziare qualche risultato generale (fig. 5). Il limite dell’analisi al 2003 è grave, ma non drammatico agli effetti delle considerazioni di politica economica che se ne possono trarre. La maggior parte delle tendenze osservabili a quella data hanno storie lunghe, che sicuramente non si sono rovesciate negli ultimi anni, e che invece, molto probabilmente, si sono accentuate. 2 L’assenza del settore pubblico e delle professioni con proprie casse previdenziali dagli archivi gestionali INPS non costituisce più un grave problema da quando esiste il Casellario degli Attivi (un altro prodotto INPS). Per WHIP è stata fornita un’esplorazione ad hoc che consente di osservare le carriere dei lavoratori anche dopo eventuali uscite dagli archivi gestionali dell’istituto, qualsiasi sia la loro destinazione, ivi incluso il pensionamento. 3 1.00 0.95 0.90 0.85 0.81 0.80 0.73 0.75 0.70 0.65 0.60 0.55 0.50 1987 1988 1989 1990 1991 1992 1993 1994 1995 Sopra vvi venza WHIP (da ta ba s e ori gi na l e ) 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 Sopra vvi venza WHIP (corre tta da Ca s el l a ri o Atti vi ) Figura 2. Sopravvivenza degli uomini entrati nel lavoro dipendente in età 19-30 nei settori dell’industria o dei servizi, al Nord oppure al Sud Fonte: E. Grand, R. Quaranta. Completamento delle carriere lavorative WHIP con i dati del Casellario degli Attivi INPS, WHIP Technical Report no. 3/2011. 1.00 0.95 0.90 0.85 0.80 0.77 0.75 0.69 0.70 0.65 0.60 0.55 0.50 t t+1 t+2 t+3 t+4 t+5 t+6 t+7 t+8 Entra ti ne l 1987 t+9 t+10 t+11 t+12 t+13 t+14 t+15 t+16 Entra ti nel 1992 Figura 3. Sopravvivenza WHIP degli uomini entrati nel lavoro dipendente in età 19-30 in tutti i settori e in tutta Italia Fonte: Elaborazioni su WHIP 4 1.00 0.95 0.90 0.85 0.82 0.80 0.75 0.70 0.67 0.65 0.60 0.55 0.50 1987 1988 1989 1990 1991 1992 1993 1994 1995 i mpres e con 0-19 di pendenti 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 i mpres e con 200+ di pendenti Figura 4. Sopravvivenza WHIP degli uomini entrati nel lavoro dipendente nel 1987 in età 19-30 in tutti settori e in tutta Italia, per dimensione di impresa Fonte: Elaborazioni su WHIP I numeri sono drammatici (fig. 2). Su 100 maschi entrati per la prima volta nel lavoro regolare alla fine degli anni Ottanta in età 19-30, solo 81 sono ancora al lavoro nel 2002 (qualsiasi lavoro, alle dipendenze o autonomo, esclusa naturalmente l’attività nell’economia sommersa). I restanti 19 sono scomparsi nel corso del tempo.3 Per le donne, non sorprendentemente, la sopravvivenza nel mercato del lavoro è decisamente più bassa, restando al di sotto del 65% anche tra le coorti più giovani (fig. 5). 1 0.9 0.8 0.7 0.6 0.5 0.4 1987 1988 1989 1990 1991 1992 1993 1994 1995 età 19-22 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 e tà 25-30 Figura 5. Sopravvivenza WHIP delle donne entrate nel lavoro dipendente nel 1987 per età. Fonte: Elaborazioni su WHIP La fig. 3 esemplifica la sopravvivenza al 2002 dei maschi entrati nel 1987 e nel 1992. Il 1987 era un anno di espansione produttiva; il 1992 l’inizio di una grave recessione. Non sorprendentemente, chi inizia la carriera nella fase espansiva del ciclo economico (t = 1987) sopravvive più a lungo di chi entra durante una fase recessiva (t = 1992): 10 anni dopo l’inizio della carriera sono ancora al lavoro 77 individui tra i primi (nel 1997) e solo 69 tra i secondi (nel 2003). L’analisi rivela altre importanti differenze a seconda di una ampia tipologia di caratteristiche. Ecco quelle più importanti, 3 Si fa riferimento alla sopravvivenza corretta WHIP-Casellario, che è, naturalmente, più elevata di quella riscontrabile nei dati WHIP originali perché tiene conto dei rientri nel settore pubblico, nelle altre casse previdenziali e delle uscite per pensionamento. Le entrate nel settore pubblico a seguito di uscite definitive dagli archivi gestionali INPS sono il 14% del totale. 5 relative agli entrati nel 1987 (negli anni successivi le differenze relative si mantengono quasi inalterate): (i) età: coloro che entrano in carriera giovanissimi (19-22) sono quelli che sopravvivono più a lungo: 81% presenti nel 2002, contro 74% per quelli della fascia 25-30; (ii) geografia: la sopravvivenza nel Nord Italia raggiunge l’83%; al Sud il 73%; (iii) settore di attività: nell’industria manifatturiera la sopravvivenza è di poco più elevata che nei servizi, esclusi gli esercizi commerciali. Qui la sopravvivenza è inferiore di circa 4 p.p. Nelle costruzioni, non sorprendentemente, di quasi 10 p.p. (iv) dimensione dell’impresa in cui ha inizio il rapporto di lavoro (fig. 3): la sopravvivenza per chi inizia il lavoro in imprese piccole (0-19 dip.) è del 73% ; di poco più bassa rispetto a quelli provenienti da imprese medie (20-199) del 75%, ma notevolmente al di sotto a quelli in uscita dalle grandi (200 +) che raggiunge l’ 86%; (v) lunghezza del primo rapporto di lavoro: se è relativamente lungo (12 mesi +) dopo 16 anni ne sopravvivono il 89%; se è molto breve (fino a 3 mesi) solo il 72%. Si noti che tra i più giovani (19-22) la percentuale di rapporti di lavoro iniziali < 3 mesi e 12+ mesi mediamente si equivalgono (circa 37%), mentre tra i 25-30-enni i rapporti brevi sono la metà di quelli relativamente lunghi (27% contro 51%); (vi) paga iniziale: le persone che percepiscono uno stipendio di entrata particolarmente basso (primo quartile della distribuzione salariale) hanno una probabilità di trovarsi esclusi dal mercato del lavoro tre volte più alta di coloro che hanno uno stipendio iniziale relativamente alto (quarto quartile della distribuzione); (vii) anni trascorsi dall’inizio dell’osservazione: nei primi due anni dal momento dell’assunzione si distaccano dal proprio posto di lavoro quasi il 70% degli individui, quasi indipendentemente da quando tale periodo ha inizio (negli anni Ottanta tale percentuale era più bassa, ma pur sempre superiore al 50%). L’80% di queste persone dismesse quasi subito dopo la prima assunzione rientra nel lavoro in tempi più o meno lunghi, ma un drammatico 20% ne esce definitivamente. Negli anni successivi al secondo l’emorragia si fa più lenta, ma continua ininterrotta. Le fig. 2, 3, 4 mostrano la netta caduta della sopravvivenza negli anni (t) e (t+1) dopo l’inizio dell’attività lavorativa, e poi il successivo rallentamento. A prima vista, non sembra che questa caduta si riscontri anche tra le donne (fig. 5): approfondimenti futuri dovranno chiarire anche questo punto. Queste osservazioni riguardano le sopravvivenze medie rispetto a una serie di attributi dei lavoratori (età, caratteristiche del primo episodio lavorativo, settore e posizione geografica, retribuzione, etc.) che, presumibilmente, interagiscono tra loro. Vengono, tuttavia, confermate anche al di là delle nostre aspettative dalle analisi di sopravvivenza sulle carriere lavorative basate su micro-dati (Contini e Grand, 2010), alle quali rimandiamo per approfondimenti. Si evince - punti (v) e (vi) - che una carriera che comincia male - con contratto di brevissima durata e pessima paga - si porta dietro un persistente effetto negativo di stigma su tutta la carriera futura, le cui conseguenze sono evidenti anche a distanza di quasi 20 anni. Il calcolo delle sopravvivenze di tutti gli entrati nel mercato del lavoro regolare in giovane età (1930) dalla metà degli anni Settanta al 20114 indica che vi sono oggi quasi due milioni di uomini 4 La stima al 2011 è stata fatta nell’ipotesi che i processi di sopravvivenza mantengano le stesse caratteristiche non solo dopo il 2003, ultimo anno del database WHIP, ma anche sulla base delle integrazioni con il Casellario degli Attivi che, 6 “gettati via” dal mercato del lavoro dopo un primo periodo di occupazione regolare (tab. 1): la durata media di questa inattività, certamente involontaria per quasi tutti, è di oltre 9 anni. Il che implica che all’incirca mezzo milione di persone siano in questa condizione da più di 15 anni, quasi una vita. Tabella 1. Lavoratori che risultano “gettati via” nel 2011 dopo un primo periodo di occupazione regolare. Gruppi di età Lavoratori “gettati via” osservabili nel 2011 a partire dall’ultima separazione (000) 57-60 52-57 48-52 43-51 41-47 38-43 35-40 31-37 28-34 25-31 24-28 22-26 19-23 ALL 46 91 325 237 361 220 127 153 187 73 50 34 27 1931 Durata media del periodo fuori dal mercato del lavoro (in anni) 18 17 15 13 10 8 7 6 4 3 2 1 0,5 9.6 Ns. elaborazioni su WHIP La tab. 2 illustra un altro aspetto dello spezzettamento delle carriere lavorative: la durata media calcolata al 2004 (in mesi) dei periodi trascorsi in disoccupazione (non-occupazione) per ogni individuo entrato nel lavoro dipendente dal 1987 in poi, calcolata su tutti gli individui, compresi coloro che non hanno mai conosciuto episodi di disoccupazione. Tale durata può considerarsi una proxy della capacità lavorativa inutilizzata del paese, riferita, peraltro, solo alle persone che sono o sono state attive nel settore privato dell’economia (tab.2). Età al momento della prima entrata nel MdL 19-22 22-25 25-30 1987 11,3 12,4 12,0 1988 12,5 12,7 12,5 1989 12,3 14,0 13,4 1990 12,4 11,7 10,8 1991 13,8 12,8 11,2 1992 13,0 12,7 13,3 1993 11,5 12,2 11,1 1994 8,9 10,4 9,4 1995 10,0 9,5 9,4 1996 8,9 8,4 7,6 1997 8,6 8,2 6,3 1998 8,5 7,9 6,4 1999 7,7 7,4 5,8 2000 7,5 6,7 5,8 2001 7,0 6,1 6,3 2002 5,7 4,7 4,3 in larga misura le conferma fino al 2009. L’estrapolazione al 2011 è frutto di nostre supposizioni, sicuramente poco scientifiche, ma, a nostro avviso, non infondate poiché si basano su ipotesi fin troppo ottimistiche sull’andamento economico nel biennio 2010-2011. 7 Tab. 2 - Durata media (mesi) degli episodi di disoccupazione (non-occupazione) nelle carriere lavorative di tutti i lavoratori, compresi coloro che non hanno mai avuto episodi di non-occupazione. Ns. elaborazioni su WHIP. La durata media è di 12-13 mesi per coloro che hanno iniziato a lavorare tra la fine anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta. La stima si riduce fisiologicamente per chi ha iniziato in anni successivi. Ma una media di 5 mesi “persi” a fine 2004 per chi è entrato nel lavoro nel 2002, significa all’incirca un sesto (= 5 mesi su 2,5 anni disponibili) di capacità lavorativa inutilizzata. Merita notare che i mesi “persi” fuori dall’occupazione pesano di più tra chi ha iniziato molto giovane rispetto a chi ha iniziato più tardi, presumibilmente quelli che hanno titoli di studio superiori. 3 L’esercito degli inoccupati e una stima più realistica della disoccupazione Si può elaborare, a questo punto, sul collegamento tra la modalità “usa e getta” di utilizzo di forzalavoro giovanile - quanto meno giovanile all’inizio di carriera, poi il tempo passa per tutti e i ventenni di fine anni Ottanta oggi sono ultra-quarantenni - e la crescita a dismisura dei tassi di inattività, nonché l’entrata nell’economia sommersa. Ma anche la durata della disoccupazione reale stessa, perché, come è stato argomentato prima, non vi è dubbio che il tasso di inattività maschile in età di lavoro - da tre a cinque volte superiore a quello di qualsiasi altro paese europeo - nasconda disoccupazione tout-court, o nella migliore delle ipotesi, sottoccupazione e/o attività marginali nel sommerso. Come si è già detto, secondo l’ISTAT nel 2010 c’erano in Italia 2.8 milioni di persone che, pur dichiarandosi disponibili a lavorare, non cercavano lavoro (gli “inattivi disposti a lavorare”): 1.1 milioni maschi, 1.7 milioni femmine, oltre tre volte la media europea, dieci volte quella francese. Nessun altro paese si avvicina a questi numeri. In Francia gli inattivi sono 309 mila, in Germania 530 mila, in Spagna 973 mila, nel Regno Unito 837, in Grecia 55 mila. Oggi - inizio 2012 - sono sicuramente più di 3 milioni (tab.3). L’ISTAT calcola che il numero degli inattivi disposti a lavorare è cresciuto di quasi 200 mila unità all’anno a partire dal 2004 e che nel 2004 la percentuale di inattivi con queste caratteristiche sulla forza lavoro potenziale fosse del 4.6% tra gli uomini e del 15.3% tra le donne. Nel 2010 tali percentuali salgono al 7.2% e 16.6% rispettivamente. E la crescita è avvenuta soprattutto nelle classi di età 15-34, mentre è stata più modesta tra le persone relativamente più anziane 35-64 (tab. 4). E’ presumibile che nei prossimi cinque anni - stante le condizioni dell’economia - questa crescita non si arresti. Tabella 3. Confronti con paesi dell’Unione Europea Disoccupati Italia 2102 8.4 Inattivi, disponibili al lavoro, ma NON alla ricerca attiva 2764 Francia 2653 9.4 Germania 2946 UK Spagna UE Tasso di disoccupazione Tasso di inattività Tasso di occupazione (M+F) Tasso di occupazione (F) Tasso di occupazione giovanile (15-24) 11.6 56.9 46.1 27.9 309 1.1 64 59.9 22.5 7.1 530 1.3 71.2 66.1 9.7 2440 7.8 837 2.7 70.3 65.3 19.1 4632 20.1 973 4.2 59.4 53 41.6 22906 9.6 8250 3.5 Fonte: Istat, Occupati, disoccupati, inoccupati 2010, 10.11.2011. 8 Tabella 4. Dati italiani Classe di età 15-24 25-34 35-54 55-74 % inattivi che NON cercano lavoro (su totale inattivi), 2010 19.3 24.9 45.9 9.9 % inattivi sulle forze di lavoro, 2004 21.6 8.5 7 8.9 % inattivi sulle forze di lavoro, 2010 30.9 12.1 8.8 8.8 Tasso di occupazione (M) 24.3 75.4 87.1 47.6 Tasso di occupazione (F) 16.5 55.4 60.1 26.2 Tasso di disoccupazione (M) 26.8 10.4 5.1 3.9 Tasso di disoccupazione (F) 29.4 14 6.3 3 Tasso di partecipazione alla forzalavoro (M) 33.2 84.2 91.5 59.4 Tasso di partecipazione alla forzalavoro (F) 23.4 64.4 64.2 38.2 Fonte: Istat, Occupati, disoccupati, inoccupati 2010, 10.11.2011. Siamo di fronte a una vera patologia nazionale: si tratta di persone quasi tutte sane e abili al lavoro, che rinunciano a compiere azioni di ricerca attiva. Perché sono tanto più numerosi dei coetanei francesi, tedeschi, spagnoli, ecc.? Una risposta c’è, se pure forse non l’unica. Moltissimi italiani che si ritrovano disoccupati da anni (senza percepire alcuna indennità di disoccupazione né di Cassa Integrazione, ambedue, soit disant, privilegio di pochi), ma anche altrettanti giovani che, lasciata la scuola o l’università, si trovano a lungo alla ricerca di un lavoro mai trovato, diventano lavoratori “scoraggiati”. Nei paesi dove esistono sussidi di disoccupazione generalizzati, ancorché modesti e temporanei (come in Spagna, dove sono differenziati anche territorialmente), tutti coloro che sono senza lavoro ne possono fruire, proprio in quanto si dichiarano disoccupati e alla ricerca di lavoro. Non conviene rendersi “inattivi”, perché ciò pregiudicherebbe il titolo al sussidio. In Italia le cose stanno diversamente: il Rapporto di Coesione Sociale 2012 ci dice che nel 2010 i disoccupati che percepivano l’assegno erano 466 mila su oltre 2 milioni di persone ufficialmente disoccupate, ma, come si vedrà in seguito, erano solo la metà negli anni precedenti. E quindi, quell’esercito di inattivi è privo dei buoni motivi per dichiararsi disoccupato. Ciò spiega perché - nonostante i tempi orribili - la disoccupazione italiana sia sì cresciuta, ma si è però mantenuta a livelli relativamente modesti (9.3% contro 10.3% nella EU nel 2012) rispetto agli stessi paesi (Spagna esclusa) che hanno un numero di inattivi assai inferiore. Non vi dubbio che una larga parte degli inattivi disposti a lavorare sarebbero da contare come disoccupati a tutti gli effetti: se questa parte fosse solo la metà di quell’esercito (circa 1,5 milioni tra uomini e donne) il tasso reale di disoccupazione italiana sarebbe più confrontabile con quello degli altri paesi europei e si collocherebbe ben oltre il 15%. Concorre a questa spiegazione un problema di classificazione statistica. Le rilevazioni che forniscono le stime degli occupati, disoccupati e inattivi sono basate sulle auto-dichiarazioni degli intervistati (l'indagine sulle forze di lavoro, Labour Force Survey, è standardizzata in tutti i paesi UE). E il confine tra occupati, disoccupati e inattivi, labile ovunque, lo è in modo particolare dove vi è molta economia sommersa o semi-sommersa: anche qui l’Italia è in prima fila. Tra i disoccupati e gli inattivi che si dichiarano tali nell’indagine ISTAT vi sono certamente persone che lavorano “in nero” e che sono restii a rivelare la loro attività per timore di essere individuati, tassati, o comunque di perdere benefici che vanno alle loro famiglie (esenzioni che vanno dalle mense e rette scolastiche, ai sussidi di povertà nelle poche regioni che se li possono permettere, ecc.). Così come è sicuro che vi sono anche lavoratori in nero che si dichiarano occupati, come effettivamente sono (ma nessuno sa quali e quanti sono). E indubbiamente molti altri si dichiarano “inattivi”.5 Ne consegue che anche il tasso di occupazione rilevato dall’ISTAT (rapporto tra occupati e popolazione) è notevolmente al di sotto di quelli di quasi tutti i paesi occidentali: in Italia si pone al 57% , in Francia al 64%, In Germania e Regno Unito supera il 70%. In tutti i paesi, specialmente in quelli scandinavi e anglo-sassoni, dove l’economia sommersa non manca, ma è meno presente che da noi - e in genere riguarda secondi lavori non dichiarati, più che lavori totalmente sommersi - i 5 Per esempio, la Campania è tra le regioni italiane quella in cui sono tra i più alti sia il tasso di disoccupazione che quello di inattività. E lo stesso vale, stando alle stime fornite dall’ISTAT, per l’estensione dell’economia sommersa (Battistin e Rettore, 2008). 9 problemi di classificazione che forniscono una immagine falsata del mercato del lavoro italiano si presentano meno gravi. I tassi di occupazione italiani sarebbero più allineati a quelli di tali paesi se si riuscisse a contare correttamente coloro che lavorano completamente in nero. Anche perché quello che diventa lavoro nero in Italia, non è affatto detto che lo sia altrove. La stretta (nonché, come vedremo, facilmente eludibile) regolamentazione del mercato del lavoro italiano favorisce l’immersione di molte occupazioni perché si verifica un connubio di interessi tra datore di lavoro e lavoratore al fine di eludere tasse e contribuzioni previdenziali. Si pensi - ad esempio - al settore delle costruzioni dove molti lavori vengono affidati a piccole ditte artigiane con pochi dipendenti saltuari: è noto che in larga maggioranza costoro lavorano in nero. In alcuni altri paesi, al di là della maggiore fiducia che viene riposta nelle istituzioni e quindi della più elevata disponibilità a pagare le tasse, non sono previsti contributi sociali obbligatori se la paga è al di sotto di certe soglie e l’occupazione è saltuaria. Vi è quindi, anche tra i lavoratori più precari, che non sono una caratteristica solo italiana, un minore incentivo a nascondere il proprio status lavorativo al momento della intervista. E’ qui il momento di chiedersi fino a che punto la stima di 1.9 milioni di uomini “usati e gettati” al 2011 (da WHIP) sia confrontabile con la stima ISTAT di 1.7 milioni di inattivi maschi disposti a lavorare: tra gli 1.9 milioni di lavoratori “usati e gettati” ve ne sono sicuramente un congruo numero che lavorano nell’economia completamente sommersa (i semi-sommersi / doppio-lavoristi dovrebbero comparire nei dati WHIP). Quanti è molto difficile dire. Se fossero vicini alla metà numero plausibile, ma privo di affidabilità statistica - ne restano circa 1 milione; in buona parte questi potrebbero risultare tra gli 1.7 milioni di inattivi nelle indagini ISTAT sulle forze di lavoro. Dal lato della stima ISTAT degli inattivi, vi compaiono quasi tutti i cosiddetti NEET (giovani “notin-employment, education or training”) che lo stesso Istituto di Statistica stima intorno a 800 mila uomini (nonché 1.2 milioni di donne) in età 15-29. Di costoro, quelli che hanno avuto episodi di lavoro prima di diventare NEET sono compresi tra gli “usati e gettati” nella fascia di età 15-29: dalla tab. 1 ne contiamo 150 mila circa. I restanti 650 mila (800 - 150 = 650) dovrebbero essere ricompresi tra gli inattivi, ma non possono essere presi in considerazione per il confronto con le stime WHIP perché non hanno mai lavorato prima. Gli inattivi ISTAT confrontabili con gli “usati e gettati” WHIP sono quindi 1.7 milioni - 650 mila = 1.050.000 individui. La differenza tra 1.050.000 inattivi ISTAT rilevanti per il confronto e 1.000.000 ex-lavoratori “usati e gettati” (presumibilmente) inattivi WHIP è contenuta, a condizione che l’ipotesi sul numero di inattivisommersi non sia campata in aria (ma quando c’è di mezzo il sommerso, si può parlare di numeri senza punti interrogativi?). E la stima di una durata media del periodo in condizione di nonoccupazione che noi calcoliamo in 9,6 anni (WHIP, tab. 1) non è lontana dalla durata media dei periodi in inoccupazione per scoraggiamento stimabile dai dati ISTAT. 6 Questa prossimità non è casuale, e rafforza l’idea che le stime che si ricavano dalla fonte WHIP siano affidabili. 4 Quanti sono i precari al lavoro? Il Rapporto di Coesione Sociale 2012 presenta un rapido conto dei lavoratori che a vario titolo possono essere considerati i “precari” dell’economia italiana: tra i lavoratori dipendenti ve ne sono 2.182.000 con contratto a termine, di cui 1.850.000 nel settore privato e 332.000 nel pubblico; tra 6 Il Rapporto Coesione Sociale 2012 fornisce le seguenti stime sulle transizioni verso la disoccupazione per l’anno 2010 (in 000): ProvenienzaTotaleMaschiEx-occupati (t-1)1077679Ex-inattivi486201In cerca di prima occupazione592284Totale21551164 Se consideriamo il flusso di 201 mila disoccupati maschi provenienti dalla condizione di inattività, possiamo stimare la probabilità della transizione inattività/disoccupazione come rapporto tra il flusso e lo stock di maschi inattivi ma disponibili a lavorare (circa 1.7 milioni, dalla stessa fonte). La probabilità di transizione è data da 201 mila / 1700 mila = 0,12. Sotto ipotesi statistiche affatto restrittive si può calcolare la durata media del periodo trascorso prima della transizione nella condizione di inattività, come 1/0,12 = 8,5 anni. Questa stima si discosta poco dai 9,6 anni di durata media di non-occupazione, che si ottiene dalle nostre elaborazioni sulle sopravvivenze da WHIP. 1 gli autonomi vi sono 1.400.000 parasubordinati con qualifica di collaboratori. In tutto fanno 3.582.000 lavoratori precari nel mercato del lavoro regolare7. A questi bisogna poi aggiungere tutti quelli che non si vedono nei dati ufficiali, e in primo luogo la maggioranza di coloro che fanno parte dell’economia sommersa: l’ordine di grandezza potrebbe essere due milioni di persone, che, aggiunti a quelli “regolari” fanno un esercito di oltre 5.5 milioni di persone, un quinto di tutta l’occupazione italiana. E con ciò il calcolo potrebbe non essere completo perché, come vedremo qui di seguito, anche tra le persone generalmente considerate iper-protette - i fortunati detentori di contratti a tempo indeterminato - il numero di dismissioni a breve distanza dall’inizio di carriera a cui fanno seguito periodi di disoccupazione tutt’altro che brevi, è molto più elevato di quanto si potrebbe immaginare. 5 Lavoratori a tempo indeterminato iper-protetti ? Molta cautela e qualche precisazione. Dal 1998 sono disponibili i dati sulle tipologie contrattuali delle carriere a partire dalla prima assunzione. E’ interessante notare che le assunzioni con contratto a tempo indeterminato sono state molto più frequenti tra le imprese piccole che tra le grandi (tab. 5), e che la tendenza continua a perdurare (Rapporto Coesione Sociale 2012, e Indagine ISTAT 2011 sui flussi occupazionali delle grandi aziende). Tra le imprese minori superano i due terzi di tutte le tipologie di entrata; tra le maggiori non raggiungono un terzo, e negli ultimi anni osservabili si riducono al 20% del totale. La preferenza (relativa) delle piccole imprese per i contratti a tempo indeterminato è in linea con quanto il buon senso suggerisce: i licenziamenti – anche degli assunti a tempo indeterminato - sono di gran lunga più facili tra le piccole imprese che non tra le grandi. E quindi, a parità di altre condizioni, non sorprende che le piccole imprese abbiano fatto relativamente più uso di contratti standard a tempo indeterminato delle aziende maggiori. Quello che colpisce, piuttosto, - e con buona pace dell’art.18 - è che anche tra le imprese medie (20-199 dipendenti) le quote di contratti a tempo indeterminato non si discostino molto da quelle delle imprese minori. Tab. 5 - Quota di contratti a tempo indeterminato su tutte le tipologie di entrata per dimensione di impresa Anno 1998 0-19 68 20-199 60 200 + 35 1999 72 57 32 2000 75 61 23 2001 77 61 20 Fonte: ns.elaborazioni su WHIP. Un fragile indizio della maggiore tenuta delle grandi imprese – correlato alla più lunga sopravvivenza segnalata al punto (iv) nel par.2 di questo scrittto - è fornito dalla tab. 6 che evidenzia la durata dei periodi di occupazione ininterrotta: il 28% delle persone assunte con contratto a tempo indeterminato nelle imprese con 200+ addetti avevano periodi di lavoro continuativo superiori a 4 anni, mentre tra le imprese piccole questa percentuale scendeva al 16%. Le prospettive sembravano migliori per gli assunti con CFL (contratti aboliti dal 2004) in virtù del fatto che la metà dei CFL veniva trasformato alla scadenza in contratto a tempo indeterminato. D’altra parte è anche vero che per quasi la metà (44%) dei contratti a tempo indeterminato, la continuità dell’impiego non raggiunge sei mesi. Tab. 6 Durata degli spells di occupazione ininterrotti per tipo di contratto Tipologia Contrattuale Anno di inizio lavoro % durate < 6 mesi % durate > 4 anni imprese con % durate > 4 anni imprese con < 20 7 Tra gli 1.850.000 lavoratori del settore privato con contratto a termine vi sono tutti gli interinali che sono alle dipendenze delle Agenzie. 1 200+ addetti addetti Tempo indeterminato 1998 2000 44 44 28 n.d. 16 n.d. CFL (inclusi quelli trasformati alla scadenza) Tempo determinato 1998 2000 19 22 55 n.d. 24 n.d. 1998 2000 61 63 18 n.d. 7 n.d. TUTTI (inclusi stagionali e interinali) 1998 2000 43 50 31 n.d. 16 n.d. Conviene approfondire qui un aspetto cui si è accennato nel par. 2: si notava che un gran numero di lavoratori si distaccano dal posto in cui iniziano la carriera entro due anni dalla prima assunzione. A questo riguardo, ci sono differenze sostanziali tra gli assunti a tempo indeterminato - così come logica imporrebbe - e gli assunti con varie tipologie atipiche? E, come corollario della domanda precedente, - tra coloro che vengono dismessi entro due anni - la quota di individui usciti definitivamente dal mercato del lavoro è minore tra gli assunti a tempo indeterminato rispetto alle altre tipologie contrattuali? Tab. 7 Distacchi nei primi due anni dall’entrata nel MdL e uscite definitive (in % sulle uscite nei primi due anni) Ann o Dimensione impresa Tipologia di contratto 0-19 % distacchi nei primi 2 anni 20-199 % uscite definitive su distacchi nei primi 2 anni % distacchi nei primi 2 anni 200 + % uscite definitive su distacchi nei primi 2 anni % distacchi nei primi 2 anni % uscite definitive su distacchi nei primi 2 anni 1998 1998 Tutti T. indeterminato 65 65 19 21 64 67 18 23 51 52 11 8 1999 1999 Tutti T. indeterminato 67 65 25 23 67 66 22 21 66 58 19 23 2000 2000 Tutti T. indeterminato 70 67 24 26 71 69 15 14 71 53 22 19 2001 2001 Tutti T. indeterminato 64 62 41 45 68 65 36 38 74 57 28 28 Fonte: ns. elaborazioni su WHIP. Le risposte le troviamo nella tab. 7, e sono ancora una volta sorprendenti. Per quanto concerne le separazioni entro 2 anni dalla prima assunzione, la tipologia di contratto di entrata fa poca differenza, quasi indipendentemente dalla dimensione dell’impresa in cui si è stati assunti. E’ quasi identica tra le imprese 0-19 e le 20-199 (salvo l’anno 2000), e di poco inferiore tra le maggiori 200+. Questo è decisamente un risultato inatteso: è pur vero che i dati non permettono di sapere se i 1 distacchi avvengono per licenziamento o dimissioni volontarie.8 Ma non vi è dubbio che, almeno per quanto riguarda gli assunti con contratti standard a tempo indeterminato, è impensabile che due terzi dei neo-assunti decidano di lasciare un posto teoricamente al riparo dalla perdita di lavoro verso altra destinazione in anni in cui di precariato si parlava già da tempo. E questo è vero anche se molti di costoro erano stati assunti con salari di ingresso al di sotto di quelli medi (tab. 8). I dati sembrano raccontare una storia assai diversa da quanto ci si aspetta, e cioè che queste separazioni siano in larga misura dei licenziamenti belli e buoni. I dati WHIP consentono inoltre di verificare se questi distacchi siano conseguenza della chiusura di aziende o di forti ridimensionamenti di personale in corso: ambedue tali ipotesi sembrano potersi escludere. La tab. 7 mostra anche la frazione di persone definitivamente escluse dal mercato del lavoro (lavoratori “gettati via”), tra quelle dismesse nei primi due anni dall’entrata. Anche queste percentuali variano assai meno del previsto tra i contratti standard a tempo indeterminato e le altre tipologie: tra il 18 e il 25% di quelli che si separano nei primi due anni nelle imprese piccole e medie (l’aumento di questa frazione via via che ci si avvicina al 2003 dipende dal troncamento del periodo di osservazione)9. Sono inizialmente più basse per le imprese grandi, ma poi tornano a livelli comparabili con le quelle di dimensioni inferiori. La tab. 8 conferma inoltre quanto già menzionato in relazione al rischio di uscita definitiva dall’occupazione: le persone a elevato rischio di separazione nei primi due anni dall’inizio dell’attività lavorativa, si trovano prevalentemente nei primi decili della distribuzione salariale. A questo non corrisponde però, a differenza di quanto ci si potrebbe attendere, una maggiore propensione alla espulsione definitiva dal mercato del lavoro: tra i decili nella coda sinistra e decili nella coda destra della distribuzione salariale le differenze sono piccole. Settore e qualifica Manifattura – operai Terziario – impiegati Costruzioni - operai % distacchi nei primi due anni dall’entrata nel mercato del lavoro X decili nella distribuzione delle retribuzioni all’inizio di carriera decili 1-3 decili 8-10 83 56 74 48 90 59 % di uscite definitive (“gettati fuori dal lavoro”) tra i distacchi nei primi due anni dall’entrata X decili nella distribuzione delle retribuzioni all’inizio di carriera decili 1-3 decili 8-10 22 20 27 16 27 30 Tab. 8 - Distacchi nei primi due anni dall’entrata nel MdL e uscite definitive per posizione nella distribuzione delle retribuzioni all’inizio di carriera. Elaborazioni su WHIP. La tab. 9/A illustra le durate dei periodi in disoccupazione che si risolvono con un rientro al lavoro. La frequenza dei passaggi diretti (rilevabili come una separazione a cui segue un’assunzione nello stesso mese) è minima. I tempi di rientro per chi ha avuto il primo distacco nei due anni dall’inizio di carriera sono più lunghi rispetto a coloro che lo hanno avuto nei due anni successivi, un risultato non inatteso. Un rientro al lavoro entro 3 mesi è osservabile nel 34% dei casi per i primi e nel 57% dei casi per i secondi (da notare, però, che i primi sono tre volte più numerosi dei secondi). Anche per i rientri dopo 2 anni, le frequenze osservate sono il 20% e il 13% rispettivamente. Tutto 8 A fronte di dimissioni volontarie a seguito di un’offerta di lavoro più vantaggiosa, si dovrebbe osservare un passaggio diretto job-to-job o comunque un periodo di disoccupazione molto breve tra un job e l’altro. Non è così: (tab. 9): i passaggi diretti sono solo 1% dei casi, quelli inferiori a 3 mesi il 34% per chi si distacca dal primo lavoro entro i primi due anni. Per quelli – molto meno numerosi - che si separano nel terzo e quarto anno dal primo lavoro la presunzione di dimissioni volontarie è sempre modestissima, ma un po’ meno infondata: 3% di passaggi diretti e 57% di periodi di disoccupazione di durata inferiore a 3 mesi. 9 Si consideri un entrato nel 2000: uno spell di disoccupazione sufficientemente lungo – per es. 4 anni – non è osservabile perché i dati arrivano solo fino al 2003. Viene perciò considerato un caso di “lavoratore gettato via” quando in realtà non lo è. Aumenta quindi la frazione di spells di disoccupazione che si concludono in tempi brevi, in questo caso entro 6 mesi, rispetto a tutti gli spells di disoccupazione conclusi prima della fine del periodo di osservazione. 1 considerato, i rientri entro sei mesi dall’inizio dell’episodio di disoccupazione non raggiungono il 50% per chi vi è entrato nei primi due anni dall’inizio del lavoro, ma restano al di sotto del 70% anche per quelli che vi sono entrati nei due anni successivi. Il Rapporto sulla Coesione Sociale 2012 fornisce stime quasi identiche per gli anni più vicini al presente: vi si legge che a sei mesi dall’entrata in disoccupazione un disoccupato su due si rioccupa, e a dodici mesi questa percentuale sale al 68%. 10 DURATE (A) Passaggio diretto 0-3 mesi t e t+1 1 34 4-6 mesi 6-12 mesi 1- 2 anni 11 18 16 oltre 2 anni Totale 20 100 DESTINAZIONI AL t+2 e t+3 RIENTRO (B) t e t+1 | t+2 e t+3 3 57LAV. AUTONOMO 5 9 INDENNITA’ DI 9DISOCC / MOBILITA’ 1 7 10PARASUBORDINATO 4 4 8PENSIONE 0 1 LAVORO 13DIPENDENTE. 89 80 100Totale 100 100 Tab. 9 - Episodi di disoccupazione (non-occupazione) nei quattro anni successivi all’entrata nel MdL: frequenze % delle durate e destinazioni alla fine degli episodi. Elaborazioni su WHIP. La tab. 9/B rileva invece le destinazioni di chi rientra al lavoro: nella stragrande maggioranza dei casi i rientri avvengono nel lavoro alle dipendenze (89 e 80% nelle due fattispecie), ma non sono trascurabili le riprese con lavoro autonomo e/o parasubordinato. Gli episodi che danno titolo all’indennizzo di disoccupazione vengono osservati separatamente nella stessa tab. 9/B: come è noto, e ampiamente discusso in altre sedi (R. Leombruni e U. Trivellato, 2012; F. Berton, M. Richiardi e S. Sacchi, 2010), gli episodi di disoccupazione che davano diritto a indennità erano assai pochi secondo la normativa vigente fino all’inizio degli anni Duemila, e solo recentemente modificata: WHIP indica che la percentuale di episodi indennizzati era inferiore al 3% fino al 1999; cresce lentamente fino all’ 11% nel 2003, e sembrerebbe attestarsi al 18% nel 2004, ultimo anno disponibile nella base-dati. WHIP consente inoltre di osservare la dinamica salariale prima e dopo gli episodi indennizzati a vario titolo. La tab. 10 riporta dati riferiti a coloro che avevano un contratto standard a tempo indeterminato prima del periodo in disoccupazione, e lo hanno mantenuto dopo la conclusione. Nel 40% dei casi la variazione è negativa, sia per chi è rientrato nella stessa azienda che lo aveva sospeso (recall), sia per chi ha trovato lavoro altrove. Si tratta, quindi, di rientri molto penalizzanti che testimoniano della pesante congiuntura in cui avvengono. Nel 50% dei recalls si riscontrano aumenti fino al 20% rispetto alla retribuzione di uscita, contro un più modesto 35% per chi trova posto in altre imprese. Sono assai modeste le frequenze di aumenti retributivi consistenti tra i recalls (oltre il 20% del salario di uscita), e invece più numerose per chi trova soluzioni alternative. WAGE CHANGE BEFORE/AFTER REENTRY Negative + 0 // 20 % RECALL employer) (to same TO DIFFERENT EMPLOYER 40 50 40 35 10 Le stime che noi avevamo ottenuto su dati WHIP per gli anni Novanta fornivano risultati meno confortanti. Nel triennio 1986-88 (espansivo) e nel biennio 1993-94 (recessivo) – ma è del tutto improbabile che la situazione si sia evoluta positivamente da allora. Un dato paragonabile a quello fornito dal Rapporto sulla Coesione Sociale si riscontra solo per individui al di sotto dei 45 anni nel triennio espansivo 1986-88; nel biennio recessivo 1993-94 la frequenza dei rientri entro 12 mesi scende al 62%. Le cose si presentavano assai peggio per le persone in età 45-50 e ancora più per gli ultra 50-enni. Tra i primi la frequenza dei tempi di rientro a 12 mesi erano di circa il 60% per i licenziati nel 198688 e del 55% nel 1993-94. Tra gli ultra 50-enni la frequenza dei rientri entro 12 mesi si aggirava intorno al 35%. 1 + 20 // 50 % 10 17 > + 50% 0 8 Total 100 100 Tab. 10 Quota di periodi di disoccupazione indennizzati (*) e dinamica salariale osservabile prima/dopo il rientro nell’occupazione. (*) Indennizzi con IDO (ind. disoccupazione ordinaria), IRS (ind. requisiti speciali), ICE (ind. cassa edile) e MOB (mobilità). Gli indennizzi con IDO sono circa la metà tra tutti quelli osservati. 6 Conclusione Che il tasso di turnover dei posti di lavoro fosse sempre stato molto più alto del comune sentire è noto da molto tempo, anche se per molti anni ha riscosso critiche da parte di moltissimi, accademici e non, i quali sostenevano che in Italia la flessibilità in uscita era scarsissima (non credo che questa posizione riscuoterebbe oggi altrettanti consensi).11 Quello che si sapeva poco, e che ora sembra osservarsi disponendo dei dati sulle tipologie contrattuali, è che: (i) per lo meno fino ai primi anni Duemila la maggior parte dei nuovi entrati nel mercato del lavoro veniva assunto con contratti standard a tempo indeterminato, anche se, a partire dalla Legge Treu (1996), erano state introdotte modalità contrattuali molto più flessibili; (ii) che il tasso di disoccupazione confrontabile con quelli di altri paesi dell’Unione Europea è molto più alto di quello ufficiale e probabilmente si aggira intorno al 15%; (iii) che i contratti standard non offrono particolari garanzie per quanto riguarda la flessibilità in uscita anche tra le imprese con oltre 20 dipendenti, con buona pace dell’art. 18. Già alcuni anni fa si suggeriva che le piccole imprese non hanno mai avuto particolari problemi con i licenziamenti perché le scappatoie per aggirare la normativa erano facilmente accessibili. Oggi si direbbe che ragionamenti analoghi possano applicarsi anche alle imprese maggiori, al di là dei casi di licenziamento collettivo che pur essendo oggetto di negoziato tra le parti sociali, in pratica non sono mai stati difficili da ottenere. 12 Qualche anno fa, in risposta alle critiche che venivano mosse, argomentavamo sulla fondamentale differenza tra la “law in the books” e la “law in action”. 13 I nuovi dati sembrano darci ragione su un terreno ancora più ostico. Bibliografia Battistin, E. Rettore, E. “Ineligibles and eligible non-participants as a double comparison group in regression-discontinuity designs”, Journal of Econometrics (2008), n. 142. Bertola G. e Ichino A. (1995), “Crossing the river: a comparative perspective on the Italian employment dynamics”, Economic Policy, n.21 11 B. Contini e R. Revelli (1987) è il primo scritto in cui si è sostenuta questa posizione. A volte fraintesa come una dimostrazione della elevata mobilità anche in entrata - ad esempio, quella dei giovani che escono dal sistema scolastico. Il chè non segue affatto. Si veda, ad esempio, G. Bertola e A. Ichino (1995). 12 L’indagine ISTAT 2012 sulle grandi imprese (250 + dipendenti) riporta le cause di uscita di personale riferite dalle aziende industriali: il 26% risultano uscite spontanee e il 7% per raggiunta età pensionabile. Per le altre (67%) si tratta quindi di licenziamenti o chiusure di contratti a termine, che – come abbiamo visto – costituiscono il grosso delle assunzioni da dieci anni a questa parte. 13 “Law in Action vs. Law in the Books”: un colloquio tra economisti, e giuslavoristi” Workshop LABORatorio R. Revelli, Centro Studi sul Lavoro (2006). 1 Berton F., Richiardi M., Sacchi S. (2009), Flexinsecurity: perché in Italia la flessibilità diventa precarietà, Il Mulino. Contini B. e Revelli R. (1987), "Job creation and job destruction in the Italian economy" Labour, vol. 3. Contini B. e Revelli R. (1996), “Gross and net flows in the labor market. What is there to be learned?”, Labour Economics, vol.3 Contini B., Trivellato U. (eds. 2005), Eppur si muove. Dinamiche e persistenze nel mercato nel mercato del lavoro italiano, Il Mulino Contini, B. e E. Grand (2010), “Young worker disposal and long-term unemployment in Italy”, W.P. LABORatorio R. Revelli, W.P. IZA n. Freeman, R.W. (2006), “Internet Surveys to Determine Workplace Institutions and Practices: Labor in Action vs. Labor in the Books” Grand, E. e Quaranta, R. “Completamento delle carriere lavorative WHIP con i dati del Casellario degli Attivi INPS”, WHIP Technical Report no. 3/2011 Leombruni, R., Paggiaro A. e Trivellato U. (2012), “Per un pugno di euro. Storie di ordinaria disoccupazione”, IRVAPP W.P. (in corso di pubblicazione). R. Leombruni e R. Quaranta (2011), “La codifica di settore in WHIP. Problemi correnti e studio di un algoritmo di ricostruzione della codifica Ateco 2002”, WHIP Technical Report n. 2/2010. 1