Relazione di Cristina Mecenero - Autoriforma gentile della scuola

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Relazione di Cristina Mecenero - Autoriforma gentile della scuola
Incantesimi e veri cambiamenti
di Cristina Mecenero
1. Punto e a capo
Sono dell’idea che il titolo del convegno sia molto sollecitante: quando è troppo, è
troppo. Io voglio fare diventare questo troppo che ha invaso e inquinato la scuola – un
troppo di leggi, norme, emozioni e sentimenti difficili e precari - un punto e a capo,
quindi ridurlo, prima di tutto dentro di me, fare qualcosa per collaborare a che diventi
meno troppo anche al di fuori di me, e andare a capo in due sensi: a capo della sua origine
e del suo provocare quelli che chiamo incantesimi dannati o incantesimi con maleficio e a
capo nel senso di aprire un altro periodo. Un periodo di nuovo governo della scuola. Qui
intendo di nostro nuovo governo, sperando che ci si ritrovi a parlare anche di un nuovo
governo scolastico pensato a livello istituzionale. E metterci in questo nuovo periodo
pensiero e azione. E un po’ di magia e di sinergia creativa.
2. Meteoriti e osservazioni della volta celeste
Parto con un esempio che riguarda il troppo delle leggi e le ripercussioni che ne derivano
nel desiderio di partecipazione e azione a scuola. Negli ultimi anni siamo state e stati
chiamati a prepararci e poi a tradurre in pratica i cambiamenti organizzativi che
continuamente dall’alto ci richiedevano e che corrispondevano a diverse concezioni della
scuola e del fare scuola. Per un po’ io ho risposto interiormente avendo come prima
disposizione quella di prendere sul serio le proposte, dedicando tempo a leggerle, per
esempio i nuovi programmi dell’85, la riforma Berlinguer e la legge sull’autonomia
scolastica del 1997, le indicazioni nazionali del 2002, e ricordo precisamente corsi di
aggiornamento e riunioni - molte più di una - ovvero ore e ore di gruppi di studio nella
scuola in cui sono stata per vent’anni, in cui con le mie colleghe si leggeva, si parlava, si
riadattavano o modificavano tout court le frasi che avevamo usato fino a quel punto nei
nostri piani di lavoro. Se anche accadeva che poche erano quelle che si preparavano a
casa, e io ero sempre tra quelle, che si leggevano i materiali di compito, tutte si stava lì
intorno a quell’oggetto, il cambiamento, per un certo tempo e con una certa spesa di
energia. Per me non finiva lì. Legge della sicurezza (del 1994 ma introdotta nella scuola
da Berlinguer nel 1998), legge della privacy (1996), concorsone (1999), funzioni
obiettivo (1999) poi diventate funzioni strumentali (nel 2002), tutor, portfolio, i test
Invalsi avviati in via sperimentale nel 2002 e istituiti con decreto legislativo nel 2004,
sono tutte questioni che ho valutato anche insieme ad altre/i, negli incontri pubblici,
politici e a volte erano valutazioni che ci trovavamo tutti d’accordo, o quasi, a
considerare assurde pensate come quella del concorsone. Tonnellate di energia pura di
pensiero e di vita emozionale imbrigliate in questioni organizzative, meritocratiche,
gerarchiche, di pseudo scientismo didattico, di politically correct. Una vera emorragia a
cui tornerò nella seconda parte del mio intervento.
A un certo punto è arrivato il quando è troppo è troppo…. E io ho iniziato a fare
resistenza, a non essere più precipitosamente scrupolosa, a fare mosse in modo da
mettermi al riparo, cioè in modo di far passare del tempo. Sì, a un certo punto avevo
capito che era buono che io facessi così: prendessi tempo per vedere di che cosa si
trattava in realtà… una meteora? Sembrano stelle cadenti, sembrano vere questioni che
ci stravolgeranno la vita lavorativa e invece sono pezzi di roccia che bucano l’atmosfera
e si disintegrano in un puf qualunque?.... è chiaro che in questa immagine non so dove
mettere, io, la bellezza dell’effetto, quello appunto per cui si parla di stelle… forse lo sa
chi si è sentito attratto da quei presupposti cambiamenti, chi ci ha creduto e ci crede
ancora….
Per esempio circa il portfolio, sono stata tentata di mettermi nella commissione che
avrebbe dovuto elaborarne uno, ma poi mi sono tolta. Non ho voluto occuparmi
dell’ipotesi del portfolio per due motivi:
1) io non condividevo l’idea di base di certificare in quel modo il percorso delle bambine
e dei bambini e come era stata pensato in pratica fino a quel punto era per me orribile
(esempi di portfolio includevano domande tipo: Guarda giornali o libri che circolano per
casa e sono dei grandi?);
2) ero arrivata a questa nuova consapevolezza: chi l’ha detto che il portfolio si realizzerà
veramente? Chi l’ha detto che devo con il mio zelo far andare le cose in tempi efficienti?
Anche se fosse solo per agire nel senso del male minore - e quindi elaborare un portfolio
meno aggressivo, meno invadente, meno legato alla valutazione per obiettivi – io
parteciperei comunque a reificarlo un po’ di più. Quando ancora viene detto che è
sperimentale, quando ancora viene spiegato che bisogna lavorarci a quest’idea e
quest’idea è contenuta neanche in una legge, ma in un’indicazione per una futura
disposizione di legge, e quando soprattutto io intuisco che ci immette su una strada
sbagliata. E ho preso consapevolmente distanza, togliendomi e rimanendo a guardare
quel che succedeva. Nel fare questo ho dovuto fare i conti con un alcuni ostacoli interiori:
soprassedere sull’ansia che provavo perché, lasciando fare alle colleghe, che un po’ ci
credevano, avrebbe potuto derivarne un portfolio dei più tremendi, e infatti le ho trovate
un giorno a confabulare intorno a portfogli scaricati da internet e ho pensato che si
sarebbe messa male, ma nell’eventualità che ne fosse derivato qualcosa di raccapricciante
allora avrei cercato una soluzione, solo allora, anche se tutta la scuola avesse votato a
favore di quella proposta…. E come è andata a finire? che quel loro lavorio – delle due
colleghe della mini commissione - non è approdato a nulla, perché nel frattempo erano
partite alcune denunce e interrogazioni su quanto il portfolio entrasse in conflitto con la
legge della privacy per l’illegittimità di alcune richieste di informazioni alle famiglie. E
quando le colleghe, tutte quante, hanno capito che si trattava di una presunta innovazione
che avrebbe comportato una maggiorazione del lavoro di documentazione formale, c’è
stato uno sgonfiamento, un accantonamento dell’idea. Un altro ostacolo interiore è stato
lo sbandamento che mi derivava dal sottrarmi all’azione: ho sentito che è sottile il confine
tra sottrarsi per non reificare le cose e il lasciare andare, la deresponsabilizzazione, e ho
avuto timore di diventare un’altra. Su questo crinale, in molte si sono trovate. Scivolare
nell’indifferenza o rimanere in attesa, chiedendosi quando osare un’azione, quando stare
ferme, risparmiando energia ma senza tenere la testa sotto la sabbia… Difficile.
Ed essere in anticipo sui tempi, come ci faceva trovare il mio ex direttore con la sua
solerzia, non portava però a farci trovare pronte al cambiamento, e ad averne un
guadagno, perché spesso accadeva di passare ad altro - altre contingenze, altre
disposizioni - senza che tutto il movimento di discussione e elaborazione intorno
all’oggetto precedente fosse nella realtà utilizzato e spesso anche noi, molte di
noi…vogliamo fare le brave scolare, che eseguono la consegna senza alcuna presa di
distanza dalla cosa. E il nostro atteggiamento nei confronti delle disposizioni di leggi
scolastiche è pervaso dalla credulità, che quella cosa andrà fatta, che quella cosa sia
sufficientemente buona se è stata pensata o dal dare per scontato che per via della nostra
posizione, esecutrici del rapporto di insegnamento-apprendimento, dovremo mettere in
atto le varie disposizioni di legge senza possibilità di scampo. E a fianco di questo però
io sono riuscita in questi anni a stare in due scuole in cui niente portfolio, niente tutor, credibile e vero - niente attività facoltative… niente cambiamenti? no, questo non posso
dirlo, ma di certo niente di quei cambiamenti. E questo io credo anche grazie al fatto che
non immettevo energie in quelle cose, io in quel modo, altre mie colleghe
disinteressandosi, altre lottando con prese di posizione pubbliche. Il 17/7 di quest’anno è
stato disapplicata la funzione di tutor e per una direttiva del 25 agosto la
somministrazione delle prove Invalsi verrà effettuata da quest’anno scolastico solo su un
campione di istituti, ed è di queste settimane l’abrogazione dell’anticipo alla scuola di
infanzia: altre meteore che vanno a scomparire!
La strategia del prendere tempo io ho iniziato a praticarla da un po’ per vedere se
effettivamente i cambiamenti supposti e paventati avrebbero preso forma, e quindi mi
avrebbero veramente chiamato in causa, perché, quando viene introdotto un
cambiamento, sei chiamata a dare una risposta, di modificazione o di rifiuto alla
modificazione o di adattamento, insomma sei chiamata a investire parte del tuo pensiero,
delle tue emozioni, a quella cosa lì e quando ti viene richiesto a getto continuo per anni e
di vere buone modificazioni ne vedi pochissime… allora è un movimento di libertà e di
forza iniziare a dare più credito alla tua stanchezza e a quel senso di dignità un po’
calpestata che ti fa dire: adesso calma, vediamo se davvero ci credete voi che proponete.
Vediamo se non si disfa tutto da solo perché contiene il virus tipico delle politiche delle
grandi organizzazioni, ovvero quello per cui le cose sono pensate a tavolino avendo come
mito di fondo quello della modernità, cioè del mercato, dell’adeguamento all’Europa.
Anche altre insegnanti e intere scuole hanno adottato questa strategia: finti movimenti,
finti aggiustamenti di pof ma di fatto radici ben piantate in quello che c’era prima e che
funzionava e attesa… E qui voglio mettere in risalto che molti dei cambiamenti avviati e
poi lasciati cadere avevano questa caratteristica: non erano veramente strutturati, erano
precariamente messi in azione senza disponibilità finanziarie che li sostenessero, senza
un’analisi di fondo e un pensiero ben elaborato – pensate ai test Invalsi che furono
sperimentati per ben tre anni, dal 2002 al 2004 e per i quali, come si legge nel rapporto
finale del presidente stesso dell’Invalsi, Giacomo Elias, sui dati nazionali relativi alle
prove del 2005 “rimane aperto il problema della significatività delle prove in mancanza
di standard nazionali su cui dovrebbero essere costruite e tarate”: che significa che quei
primi tre anni sono trascorsi senza nessuna reale sperimentazione! E di questo miscuglio
piuttosto maleodorante di poca serietà, tendenza a una politica dirigenziale, e al
pressappochismo cosa farcene? Un’occasione per fare un passaggio più consapevole
verso un atteggiamento consistente di diffidenza benevola (la chiamo così, ispirandomi a
Marianella Sclavi) verso le richieste dall’alto, e di autodiffidenza verso le nostre pronte
risposte a tradurre in pratica i cambiamenti previsti nelle riforme e nelle nuove leggi.
Diffidenza ma non malevolenza. Di sentimenti negativi infatti la scuola si è un po’
riempita in questi anni e sarebbe altamente pericoloso (lo è sempre) scegliere posizioni
interiori e esteriori che li alimentino. Ricordo Simone Weil che tra le tentazioni della vita
interiore metteva: non rispondere al male con azioni atte ad accrescerlo.
E se anche ci disincantiamo un po’ per via del fatto che le meteore non sono stelle cadenti
e meno male che sono passeggere, non smettere di guardare la volta celeste. Questi
processi in corso hanno di essere depotenzianti, sfibranti. Di farci sentire imbrigliate nel
nostro contesto e in un presente normativo e per niente fantasioso.
Ed è per questo che quando Vita Cosentino, in uno degli incontri di preparazione a questo
convegno, ha parlato di chiedere a questo nuovo governo di togliere, togliere tutto quanto
si può e pesa sulla scuola a me si è accesa una lampadina. E chiedere, chiedere di fare
uno stop di un anno, di due anni, rispetto a eventuali nuovi progetti istituzionali,
invitando chi si trova nelle commissioni delle istituzioni a girare per le scuole, per
guardare, osservare, rendersi conto. E anche per noi ci sono mosse possibili per
alimentarsi: andare in altre scuole a vedere, a sentire che aria tira, a vedere che lì l’ansia è
stata arginata, che ci sono spazi e tempi inventati e vitali. Io continuo a farlo: sono andata
nella scuola di Clara Bianchi l’anno scorso e ho fatto un bel respiro in quel suo contesto,
in corridoi pieni di tavoli che raccoglievano oggetti dei percorsi dei bambini e delle
bambine e mi sono fatta mostrare alcune pratiche che lei ha messo a punto per
l’insegnamento delle scienze e della matematica. Anche se insegno italiano. Anche se
nella mia scuola non ci sono le stesse condizioni strutturali. Ma a questo punto è per me
vitale aprire nuove strade che ci riportino a questioni essenziali, quelle questioni che sono
state messe tra parentesi in questi anni. Una questione essenziale è per me stare vicino a
situazioni buone, a maestre che fanno il mestiere ancora con piacere e senso, a scuole che
non sono segnate troppo da paure, tendenza al controllo o al lasciarsi andare. Un’altra
questione essenziale l’ha sollevata Bardo, il maestro romano che interverrà domani
mattina, in uno degli incontri preparatori per questo nostro appuntamento: non si parte
più dalle bambine e dai bambini, da che cosa hanno bisogno adesso, si parla solo di
organizzazione, di acquisti, di soldi che non ci sono, viene definita solo la cornice, cosa ci
mettiamo dentro non è più in discussione. Ripensare con fantasia all’infanzia e a noi, a
partire dall’infanzia, e con amicizia e aiuto, come dice Anna Maria Ortese, alla vita che
trascorriamo lì dentro, e invitando anche chi è nelle alte sfere a farlo, con parole nuove
che noi proponiamo. Perché a naso io dico che siamo proprio in un’altra fase rispetto a
quella che era tenuta su dall’illusione che fosse un atteggiamento tecnico e pseudo
scientifico quello di cui avevamo bisogno per uscire da questo empasse, da questo
incantesimo. Siamo in un momento di sprofondamento. Bisogna ricucire e rinarrare i
fatti, le situazioni, i vissuti e i cambiamenti reali che stanno avvenendo. E provare a
mettere in campo idee di facile realizzazione – per esempio quella di andare in altre
scuole a osservare altre maestre o insegnanti anche di altro ordine – pensandoli come
momenti di nutrimento della mente e del cuore e che si possono sostituire a una parte di
programmazione. Perché il cuore e il sentimento se ne vanno altrove quando il presente ti
“cade addosso” (espressione questa che riprendo da Chiara Zamboni).
Andando anche a riprendere chi nel passato si è speso con generosità e amore nei
confronti dell’infanzia, andare a rifrequentare chi ci ha messo il cuore perché con
l’infanzia si fa sempre fatica e tutto è già di per sé a rischio. Ispirandoci a ipotesi molto
diverse da quelle che sono in azione, per esempio nel campo della formazione, e non per
arrivare a sistematizzare nuovi modelli sostitutivi, ma per far lievitare una nuova fase, nel
tempo. Prendendoci con consapevolezza un po’ di tempo di ascolto e di osservazione
della realtà di oggi e fermandoci dalla coazione a reagire. Nel campo della psicoanalisi,
abbiamo tesori a cui attingere, in un momento questo in cui sembra che i guadagni che ci
sono derivati da quell’esperienza culturale siano dimenticati. Francoise Dolto diceva nel
1973: “Non bisognerebbe più imporre diplomi ma molto semplicemente accogliere nelle
scuole gli aspiranti e bisognerebbe giudicarli secondo questo criterio: osservare i loro
risultati coi bambini, la loro capacità di interessarsi agli allievi, di sostenerne gli sforzi,
nel lavoro personale, nelle materie e nelle attività che li appassionano. Aprire la
possibilità di insegnare e di curare, di educare con contratti a tempo rinnovabili, a tutti
coloro che sono dotati per queste attività, dargli un salario onesto, perché l’educazione
della gioventù è il mestiere più difficile e più importante, impiegarli soltanto per un
periodo, con anni intercalati per rinnovarsi, e non a vita: sarebbe in realtà una rivoluzione
enorme, lo so. Ma a mio avviso indispensabile.” Nell’idea della Dolto, come anche in
quella di andare a osservare altre insegnanti e di lasciare cadere e smontare la legge della
sicurezza (di cui parlerò tra poco) la direzione è quella di aprire le scuole con fiducia e
libertà verso altre, altri che portano e prendono il meglio che si può.
3. Le leggi della trasparenza e della sicurezza: incantesimi con maleficio
Quell’atteggiamento di ubbidienza, di zelo, l’ho ritrovato dentro di me anche nei
confronti della legge della sicurezza, in me che non sono di primo pelo nel rapporto con
le questioni normative scolastiche e in rapporto con questioni come libertà e
disubbidienza, conflitto… dunque arrivo in questa scuola nuova l’anno scorso e trovo che
per via della legge della sicurezza, così mi viene spiegato dalle colleghe, in quella scuola
non si possono più fare portare i classici dolci per festeggiare i compleanni dei bambini in
classe… niente più torte! Che significa niente più di quella dolcezza nelle aule, una
sottrazione di dolcezza nelle scuole. Perché se poi sta male qualcuno di chi è la
responsabilità? Della mamma che ha portato la torta, della preside e della maestra che ha
permesso alla torta di entrare, della casa produttrice che la torta l’ha fatta uscire
difettata… la prima mia reazione dentro è stata: è giusto! Mi adeguo, e il primo mio
pensiero è andato alle bambine e ai bambini che avrebbero potuto stare male… è giusto
prevenire, è giusto evitare situazioni rischiose… e questo l’ho pensato anche se io venivo
da una scuola in cui le cose erano andate per vent’anni molto diversamente: non solo
festeggiavamo, ma anche alla grande, Quindi prima reazione mi adeguo. Seconda
reazione: non sono convinta di quello che sta succedendo, sento la disarmonia tra ciò che
sperimento lì al presente e un dolce passato, è proprio il caso di dirlo, e inizio a
investigare per sapere da dove viene esattamente l’interdizione…. Durante quell’anno
scolastico io non avevo letto circolari della dirigente che vietavano dolci… dunque?
Dunque scopro che l’anno prima una comunicazione di Milano ristorazione, l’ente che si
occupa delle mense scolastiche, vietava il consumo di cibi portati dall’esterno, cioè dalle
famiglie, o dalle maestre, che non fossero quelli da tale ente cucinati… perché? perché se
qualcuno fosse stato male a chi imputare la responsabilità? Al cibo mangiato durante il
pasto a mensa o al dolce gustato durante l’intervallo della mattina? Ma il passaggio
decisivo era stato determinato da un tandem tra la preside e le mie colleghe. La preside
aveva colto la palla al balzo (in effetti se fosse per lei la palla, dato lo stato di tensione in
cui si trova e l’hanno messa le nuove leggi, oltre che colta, sarebbe imprigionata da
qualche parte e là dimenticata, perché anch’essa decisamente pericolosa) e a partire da
quella circolare aveva reiterato la cosa dicendola a voce, e solo a voce, alle colleghe che
durante i collegi le chiedevano, ma allora preside non si possono più far portare i dolci? E
la maggior parte delle colleghe si sono a messe a rispettare quella disposizione per paura.
Pura paura.
Quindi la legge della sicurezza aveva reso quelle donne – la preside e quel gruppo di
maestre – più insicure. Un paradosso! E la preside, interrogata da me sul contraccolpo
che tali leggi – quella della sicurezza e quella della privacy – avevano avuto su di lei ha
ammesso che le producevano più ansia, più incertezza, più paura. E sappiamo che un
dirigente scolastico influenza l’atmosfera educativa di una scuola. Ha detto precisamente:
“hanno prodotto più insicurezza nel trattare con le persone. Occorre chiedere molte più
autorizzazioni di prima, come dire: non ci fidiamo più di nessuno”. “E non tutti
acconsentono a darle”, non tutti i genitori intendeva, perché secondo lei alcune madri e
alcuni padri “comprendono” l’importanza del passaggio di informazioni (qui apro una
parentesi perché non so cosa intendesse con il dire i genitori comprendono l’importanza
del passaggio di informazioni, io direi che i genitori che hanno “problemi” sono tentati
dalla legge a nasconderli: per senso di dignità, per tentazione alla rimozione, per paure di
reazioni spiacevoli da parte delle insegnanti?). I cosiddetti dati sensibili – se i genitori di
una creatura sono separati, se la bambina o il bambino è stato spesso malato durante la
sua esperienza alla scuola materna, che tipo di malattie ha avuto – non sono più dati che
possono circolare tra noi insegnanti della scuola primaria e della scuola dell’infanzia
direttamente, ma solo dopo aver ricevuto l’autorizzazione dei genitori. Questo influisce
in due modi: se la bambina o il bambino viene da una scuola di un’altra zona, noi non
abbiamo davvero la possibilità di sapere queste cose col rischio di essere poco sensibili a
situazioni, parole e gesti legati a quel bambino; se la bambina o il bambino proviene dalla
scuola materna dei dintorni è facile che la segretezza di quei dati sensibili si risolva nel
famoso segreto di Pulcinella, per cui tutti in realtà sanno già tutto, le maestre, le mamme
dei compagni, anzi a volte sono proprio loro a farli circolare questi dati sensibili, ma noi
insegnanti non abbiamo il diritto di parlarne. Tutti, per via di una legge, ci ritroviamo
come in mezzo a un incantesimo, lo chiamerei l’incantesimo dell’ipocrisia, per metà già
rotto dal controincantesimo della realtà stessa, e per metà ancora aleggiante nell’aria con
quell’effetto di irrigidire i movimenti di parole e corpi di adulte e adulti che si incontrano
a parlare di creature piccole.
Sono incantesimi che chiamerei anche incantesimi dannati, perché ci fanno dannare con
disposizioni al limite della paranoia. Torno con un altro esempio alla legge della
sicurezza. E’ interessante mettere a fuoco che la legge della sicurezza non è declinata in
particolari specifici, ma è interpretata da colei o colui che diventa il responsabile della
sicurezza di un certo luogo a seconda della personalità di lui o di lei, personalità che per
il ruolo di cui viene rivestita è intaccata nel suo equilibrio dal timore di incorrere in
denunce. Chiunque umano sia messo nella condizione di temere denunce, di temere
accuse, metterà in campo la parte più debole di sé, a meno che non assuma la posizione
dell’indifferenza inconsapevole (non si pone il problema dei rischi che corre lui per via di
quella legge e della posizione in cui è venuto a trovarsi diventando responsabile della
sicurezza) o della signoria consapevole (sa di correre dei rischi ma mette al primo posto il
buon senso e non la paura). Nella nuova scuola la responsabile è una donna che l’anno
prossimo andrà in pensione, zelante nei confronti delle leggi, autoritaria nei confronti
delle colleghe, per cui noi non possiamo tenere nei vasti corridoi e atri della nostra scuola
né tavoli né tavolini, e quindi niente mostre con oggetti tridimensionali, certo appesi alla
parete possiamo ancora mettere i tradizionali cartelloni (ma quando si accorgeranno che
sono fatti di materiale infiammabile, allora niente più anche di quelli?), ma gli arredi che
“ingombrano” no, perché i bambini potrebbero sbatterci addosso. E allora altro che
occupazione creativa degli spazi: la nostra scuola appare come un vuoto spazio pieno di
insicurezza. Educativo? Certo a qualcosa stiamo educando, grazie a questa legge e agli
effetti che ha sulle persone stiamo educando probabilmente i bambini e le bambine a non
cavarsela bene nello spazio, nel tempo e nelle emozioni.
E l’incantesimo si estende anche sul parco della nostra scuola, e lì diventa vero e proprio
incantesimo con maleficio, un vero bel parco che per essere a Milano c’è da leccarsi le
dita, in cui:
1) è fatto divieto ai bambini di giocare con pezzetti di legno: è pericoloso e fonte di
incidenti
2) è fatto divieto di giocare con la palla, che non sia di spugna… ma poi qualcuno
racconta che proprio da una palla di spugna un sassolino si è staccato ed è finito
nell’occhio di un bambino… e allora le cose vengono lasciate a mezz’aria, palla di
spugna o palla di gomma o non palla?
La questione dei pezzetti di legno l’ha smontata una mia collega quando ha detto: è
contro natura. Ed è proprio così: è contro natura dire a una bambina o a un bambino di
non giocare con i legnetti, di non giocare con i sassi, di non salire sugli alberi. Emmi
Pikler, una pediatra che ha lavorato nel pronto soccorso delle periferia e del centro di
Vienna prima di diventare direttrice di un orfanotrofio a Budapest, aveva verificato un
particolare fenomeno: al pronto soccorso della periferia a cui si riferivano famiglie
relativamente povere, i cui bambini passavano molto tempo a girare o giocare per strada
senza sorveglianza, arrivavano bambini incidentati seriamente in proporzione assai
minore rispetto alla quantità di casi analoghi registrati in ospedali o cliniche che
servivano famiglie benestanti i cui bambini erano costantemente sotto l’attenzione di
mamme o balie. Sapete lei cosa fece di questa osservazione? Un sapere di cui si servì per
arrivare a gestire l’istituto che le affidarono nel 1947 basandosi tra l’altro su questa
conclusione: i bambini abituati a muoversi liberamente, senza restrizioni, sono bambini
più prudenti, sanno muoversi e cadere meglio dei bambini limitati e protetti da adulti
anche del tutto ben disposti. Lei ha scelto per la fiducia e la sperimentazione del corpo,
del movimento e dello spazio. Molte maestre non se la sentono più di fare questa scelta.
La legge sulla sicurezza deve essere lasciata cadere. Abbiamo bisogno di spazio per il
pensiero e il cuore, non per la diffidenza.
I miei passaggi interiori mi hanno portata a scegliere di non avere paura: scelgo di non
voler essere dominata dal timore che possano succedere incidenti irreparabili, di guardare
ai movimenti dei bambini fuori e dentro la scuola come ad azioni naturali, tengo ben
presente che di guai seri ne capitano pochissimi. Scelgo di valutare le situazioni secondo
il mio senso di donna adulta che vive su questo pianeta e ne ha esperienza da più di
quarant’anni: le torte le abbiamo riprese a mangiare, senza più chiedere permessi o no, i
legnetti si usano per giocare e anche la palla, e non di spugna. A volte tentenno, e allora
ripercorro da capo la strada che mi ha portato a non provare l’ansia e la paura. So che
potrebbe succedere non tanto un incidente quanto, molto più probabile, un guasto con una
mamma o un papà che potrebbero montare un caso intorno a un piccolo evento: c’è una
cultura, televisiva e di comportamento sociale, che è molto ricca in materia, per cui la
tentazione di denunciare per i genitori è più forte di prima. Ma io scelgo di rischiare, non
intensificando il controllo in modo irrazionale o stonato. E se andrà storto qualcosa, a me
o a qualcun altra, possiamo sempre fare delle gran collette! E’ bene dirci che nessuna
denuncia può toccare quella parte intima di noi che si dà anima e corpo al nostro
mestiere, con tutte le imperfezioni-disattenzioni-incomprensioni-cattive valutazioni che la
nostra umanità comporta. Ovvero è bene dirci che questo è vero se si è all’interno di reti
di scambio di forza e pensiero con altre e altri, di confronto e sostegno con le colleghe, i
colleghi e i genitori. E a patto che i dirigenti facciano la loro parte, assicurando in questo
modo il non dilagare o amplificarsi del disordine simbolico.
Abbiamo bisogno di un’atmosfera di base pregna di sentimenti e emozioni di fiducia,
abbiamo bisogno di governare gli spazi - reali e simbolici – con il buon senso, quello che
prima della legge della sicurezza era all’opera e ci faceva predisporre gli arredi in modo
sano. Insicurezza, timore e controllo se sono così pervasivi intaccano anche il nostro
rapporto con l’infanzia in senso più generale, non si sa più cosa è meglio fare, non si sa
più come trattare disciplina-discipline e vissuti. Il buon senso è abbastanza se riiniziamo
a pensare che siamo comunità educanti di viventi, con storie e sensibilità
sufficientemente sane e strutturate da reggere agli imprevisti da valutare man mano, alla
quotidianità con il suo margine di rischio positivo e negativo, e se facciamo del buon
senso delle cose e delle buone risposte (come le chiama Anna Maria Ortese) una traccia
da seguire nei prossimi anni in cui, invece che cambiamenti, introduciamo spazi pubblici
allargati e locali di riflessione e ricostruzione di un discorso sulle vite educative delle
bambine e dei bambini delle nostre città, sulle vite educative delle maestre e sulla storia
educativa delle mamme e dei papà.
Partendo dal nostro troppo – di vita piena, di stanchezze accumulate, di timori cresciuti,
di tendenza alla passività e alla deresponsabilizzazione – vissuti questi che hanno una
cornice contestuale epocale da guardare quindi non come a insufficienze individuali, ma
come tendenze collettive uniformanti. Partendo dal troppo che le condizioni istituzionali
producono perché quando si aggiunge o si toglie qualcosa dalla scuola si deve pensare a
quale sarà il contraccolpo:
- è stato tolto l’esame di quinta elementare: è venuta a mancare la cornice simbolica di
un’elaborazione di un passaggio a un altro ordine; in molti casi questo ha significato
meno cura nell’accompagnamento alla conclusione di un percorso; molte maestre hanno
dismesso la pratica delle ricerche finali (una tradizione della scuola elementare italiana),
hanno disinvestito sull’uso della biblioteca scientifica e storica sia perché non c’è più
l’esame sia perché la storia da trattare secondo le indicazioni nazionali della Moratti era
solo fino al medioevo; il livello della qualità dell’esperienza umana ed educativa così si
abbassa velocemente e sono le stesse maestre più esperte a lasciarlo andare senza
vergogna…
Abbiamo bisogno di individuare le soglie al di là delle quali l’istituzione produce
frustrazione, come ci indica Ivan Illich, e di far circolare altre parole e altri discorsi nelle
nostre esperienze di insegnanti e di donne e uomini che stanno nell’istituzione scolastica
che ha aspetti oggi più di ieri decisamente ingombranti e ambigui. Io ne ho trovate alcune
da Anna Maria Ortese, che voglio condividere con voi, lasciando che siano queste ad
aleggiare come chiusura nell’aria:
la vita è più grande di tutto, ed è in ogni luogo, e da tutte le parti – proprio da tutte le
parti – chiede amicizia e aiuto. Non chiede che questo e il valore di ogni buona risposta è
immenso, se anche non dimostrabile. Amate e difendete il libero respiro di ogni paese e
di ogni vita vivente. (…) E’ tutto il respiro. E’ Dio stesso; ed è la cultura quando non fine
a se stessa; quando d’un tratto – voi non lo sapevate che era anche questo – solleva e
trasporta i popoli, come fa a volte, con le confuse onde del mare, un gran vento celeste”.