Fòbal Flavio Firmo Ero euforico, con poche speranze, ma eccitato

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Fòbal Flavio Firmo Ero euforico, con poche speranze, ma eccitato
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Flavio Firmo
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Ero euforico, con poche speranze, ma eccitato.
Parcheggiai con due ruote sul marciapiede e ripiegai lo specchietto.
Un ragazzo con la tuta rossa e la borsa in spalla si avvicinò. Guardò la
mia automobile e alzò gli occhi verso il cartello che vietava il
parcheggio. Azionai la chiusura centralizzata e guardai lo stesso
cartello. Attraversai il parcheggio in cemento e mi trovai davanti a un
cancello di ferro dipinto di verde. Una donna con le braccia incrociate
stava parlando con l'amica. Non c'era spazio tra i due corpi, diedi un
colpo di tosse e le donne si scostarono per farmi passare.
Il campo era ancora verde nonostante la stagione. Alcune zone
erano consumate e spelacchiate, terra rossa e ghiaia si mescolavano
sulla fascia destra. Un gruppo di bambini si accalcavano dietro alla
porta con le dita avvinghiate alla rete metallica.
La partita era undici contro undici, ma le squadre non avevano delle
vere e proprie divise. Alzai la cerniera del maglione e cercai un posto
dove sedermi. La panchine ai lati del campo erano occupate da ragazzi
che alternavano lo sguardo alla partita con quello al display del
telefono.
Undici giocatori avevano magliette tendenti al rosso: granata
Torino, rosa Palermo, rosso Liverpool. Gli avversari svariavano sul
blu: azzurro Brescia, molto Inter, qualche Napoli.
«I bambini hanno già giocato, questi sono i genitori,» disse una
voce stridula alle mie spalle. Mi voltai e il ragazzino che aveva parlato
si stava già allontanando in direzione di una panchina. Tornai a seguire
la partita.
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Un giocatore dei rossi ricevette la palla con le spalle alla porta. Si
appoggiò con la schiena al difensore. Fintò verso destra e subito ruoto
a sinistra. Il difensore rimase immobile e venne superato. L'attaccante
lo sovrastava si almeno dieci centimetri e dieci chilogrammi, nel calcio
le dimensioni contano. Le scarpe del gigante sollevarono il gesso dal
dischetto del rigore, la palla venne spostata con l'esterno e piazzata
all'angolino destro. Il portiere non tentò di buttarsi, troppo rapida e
troppo precisa l'azione per poterla contrastare.
L'attaccante strinse il pugno sinistro e tornò verso il centro del
campo. I compagni lo festeggiarono con pacche sulle spalle e sorrisi,
ma per il gigante sembrava trattarsi di ordinaria amministrazione. Si
tolse l'elastico dai capelli, lo arrotolò sul polso e si sistemò la coda.
Sputò per terra e mostrò la pelle del cranio coperta da pochi ciuffi
disordinati.
Guardai il difensore che cercava si scusarsi con i compagni. Il
portiere disse qualcosa e tutta la difesa scoppiò a ridere. Il difensore
abbassò lo sguardo e scalciò a vuoto sollevando una nuvola di polvere.
Avevo visto quella finta migliaia di volte e, come sempre, la palla
finiva in rete. Il gigante segnò altre sette volte, due di testa. Uno degli
azzurri disse che mancavano cinque minuti e la notizia galvanizzò i
giocatori. Guardai l'orologio del campanile e appoggiai la scarpa sulla
staccionata di legno.
Il gigante ricevette nuovamente la palla con le spalle alla porta.
Solita finta e tiro. Un difensore si trovava sulla traiettoria e si voltò per
non farsi colpire in viso. La palla rimbalzò sul braccio e uscì di lato.
Rigore, anche senza arbitro era rigore.
Uno dei rossi prese la palla e la mise sul dischetto, si grattò la testa
calva e fischiò in direzione del gigante. I compagni annuirono e il
giocatore indicò la palla. Il portiere si sputò sui guanti e allargò le
gambe. Tutti reclamavano la sfida finale tra il gigante e la porta,
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l'ultimo atto della partita. Non avevo tenuto conto delle reti, ma
dall'atmosfera in campo sembrava un rigore decisivo.
Il gigante si tolse l'elastico dai capelli, scosse la testa e si avviò
verso il centro del campo. Gli si avvicinò un giocatore basso e secco,
aveva la maglia del Liverpool con i calzettoni verdi. Dalla mia
posizione non potevo sentire le parole, ma il piccoletto lo incalzava
mentre il gigante scuoteva la testa. Dopo pochi secondi il giocatore
basso urlò in direzione del dischetto del rigore.
«Battetelo voi, lui non vuole.»
Uno dei rossi realizzò la rete della vittoria. Il piccoletto del
Liverpool abbracciò il gigante e insieme uscirono dal campo. Gli
spogliatoi erano una costruzione in cemento con le porte in ferro. Le
squadre entrarono nella stessa stanza. Qualcuno si tolse le scarpe e le
sbattè contro un palo di ferro per togliere il fango, altri entrarono senza
badare allo sporco.
«Da quanto è finita?»
Mi voltai. Ero l'unica persona rimasta al bordo del campo e la
domanda era sicuramente rivolta a me. La donna mi guardava con le
labbra increspate, risposi balbettando.
«Dieci minuti?» guardò l'orologio e cercò con lo sguardo tra i
ragazzi sulla panchina. «Ci vorrà ancora mezz'ora prima che se ne
vengono fuori. Stanno sempre a parlare delle azioni. Di come Paolo ha
tirato fuori e come uno ha parato bene. Bambinoni, ecco cosa sono, dei
bambinoni.»
Fischiò talmente forte che ancora oggi, se sento un uomo fischiare,
devo collegarlo alla figura di quella donna ossuta e con i riccioli neri.
Dalla panchina si alzarono due ragazzi, salutarono e vennero verso di
noi.
«Poi tocca sempre a me pulire le scarpe, fare la lavatrice, stendere.
Che palle con questo calcio, possibile che non ci sia un divertimento
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più pulito. Qualcosa da fare al chiuso e senza sporcarsi, tipo gli
scacchi. A parte che per giocare a scacchi serve cervello e mio marito
proprio non ci arriva. Tutti gli vogliono bene, dicono che ha un cuore
d'oro, ma io cosa me ne faccio di un cuore d'oro. Sarebbe meglio uno
con il cervello, almeno con quello si può fare strada.»
Ero con le spalle al muro, bombardato dal fiume di parole della
donna. I ragazzi ci raggiunsero e mi diedero tregua. Cercai di
allontanarmi approfittando della discussione tra la madre e il figlio
maggiore. Non mi seguirono.
Dalla costruzione in cemento uscirono i primi giocatori. L'uomo
che aveva segnato il rigore finale si accese una sigaretta e appoggiò la
borsa a terra, mi voltai verso il campo per non incrociare il suo
sguardo. Non conoscevo nessuno e non volevo parlare con nessuno.
Attesi che alle mie spalle il brusio aumentasse prima di avere la
certezza che un gruppo corposo di persone potesse contenere il mio
bersaglio.
Il tono di voce aumentò, mi voltai lentamente tenendo lo sguardo
verso il terreno e quando alzai gli occhi vidi due uomini che si
urlavano addosso e il gigante che li teneva a distanza. Con una mano
bloccava il petto di un rosso dal viso segnato dall'acne, questi tentava
di avanzare con i pugni stretti e un rivolo di bava che usciva dalla
bocca. Diceva vaffanculo e pezzo di merda senza togliere gli occhi dal
suo avversario. Il gigante teneva a distanza un piccoletto dai capelli
biondi pettinati con la riga in mezzo, lo spingeva con lievi manate e
questi non sembrava fare caso alle urla del rosso. Si limitava a ridere
istericamente e rispondeva che la mamma del rosso poteva andare a
farsi fottere.
«Adesso mi avete rotto,» disse il gigante lasciando la presa del
rosso e spingendo forte il piccoletto biondo. «Già è stata una rottura di
palle giocare con voi che non riuscite a mettere in piedi due azioni, se
poi mi tocca stare a vedere che litigate come dei bambini, ecchecazzo.»
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Lasciati liberi di sbranarsi i due avversari rimasero immobili. La
piccola folla che si era messa a sostenere l'uno o l'altro di sciolse e si
diresse verso il bar oltre la strada. Il gigante si pettinò i capelli con i
palmi delle mani, guardò i due e li abbandonò sulla porta dello
spogliatoio.
Mi mossi per intercettare i suoi passi verso il bar, ma venni
anticipato. La donna con i due ragazzini si avvicinò all'uomo, gli si
piantò davanti con i pugni sui fianchi e inclinò la testa.
«Per oggi hai finito? Guarda che i tuoi figli si sono quasi congelati e
alla tua età sarebbe anche ora di smetterla con queste cose. Trovati un
gioco meno sporco e rumoroso o almeno cerca di tenere i tuoi figli a
casa, al caldo. Per fortuna che c'era la Sandra a guardarli, altrimenti
sarebbero già a fumare gli spinelli insieme al figlio di quel cretino del
tuo amico Gianni.»
Il gigante appoggiò la borsa a terra, il più piccolo dei figli gli corse
incontro e lo abbracciò al fianco. Ricevette una grattata ai capelli con
le nocche del pugno. Il secondo figlio si avvicinò lentamente, la madre
fulminò il terzetto con lo sguardo.
«Sette,» disse il figlio maggiore del gigante che alzò le spalle. «Non
li conto mai, si gioca e basta.» Il minore chiese perchè non aveva tirato
il rigore, lo chiese pettinandosi i capelli.
«I rigori non li tiro mai perchè è troppo facile, non mi diverto a fare
gol al portiere fermo sulla riga. Non c'è gusto, ma ora andate con la
mamma e comportatevi bene che stasera ci guardiamo il derby.»
La donna rilasciò i pugni lungo i fianchi. Non poteva cambiare lo
stato delle cose. Sorrise storto e venne verso di me, i figli la seguirono
e il gigante si rimise la sacca in spalla. In quel giro di sguardi mi
aspettavo di essere riconosciuto, se non dal gigante almeno dalla donna
o da uno dei ragazzi. Non successe.
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Il gigante arrivò sul bordo della strada. Nel bar di fronte uno dei
due litiganti stava bevendo una birra seduto al tavolino esterno, fissava
la Gazzetta e borbottava qualcosa senza nessuno attorno. Al bancone,
l'altro litigante, mescolava un caffè scuotendo la testa come a seguire il
percorso del cucchiaino. Arrivai alle spalle del gigante prima che
attraversasse la strada.
«Ti rifiuti ancora di tirare i rigori?»
L'uomo mi guardò le scarpe, poi i pantaloni e infine gli occhi.
Sporse il labbro inferiore e si portò le dita alla guancia. Non mi aveva
riconosciuto, ma potevo quasi vedere nel suo cervello le immagini che
si accatastavano alla ricerca di un nome.
«Non mi aspetto gli abbracci, ma che neppure mi riconosci.» dissi
lasciando in sospeso la frase.
«Scusa, ma non mi ricordo.»
Spianai un sorriso sincero. Averlo davanti a me, invecchiato ma
sempre roccioso, mi riempiva di gioia. Come se tutti questi anni non
fossero passati invano e la vita non ci avesse preso e sbattuto sugli
scogli come un polpo morto. Scandii la parola “Bomber” con lentezza
a aprendo la bocca per ogni lettera che mi usciva senza suono.
«Sono Sandro. Abbiamo giocato a calcio insieme.»
«Porca,» mi strinse forte. Odorava di balsamo e i capelli mi si
infilarono nelle orecchie. Bomber era la parola d'ordine per rivolgersi
al gigante. Tutti in campo lo chiamavano in quel modo. Lasciò la presa
e il mio corpo si riprese dalla stretta.
«Cosa hai fatto tutto questo tempo? Non ti ho più visto nei campi,
te la cavavi bene con il pallone. Mi ricordo che non eri uno che si
sacrificava molto per la squadra, ma al momento giusto sapevi fare il
passaggio filtrante.»
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Scrollai le spalle e gli guardai la punta degli stivali. Dal bordo dei
jeans sdruciti spuntava un ricamo rosso fuoco, la lingua di un drago.
«Tu invece sei sempre lo stesso, possibile che ancora non hanno
capito come si anticipa quel tuo movimento? Però anche tu, giochi con
dei pivelli.»
Indicai il bar con il pollice. Bomber rise. Mimò l'azione picchiando
il tacco dello stivale contro il bordo del marciapiede.
«Che vuoi farci, è l'unico modo per tenermi in forma. Alleno anche
i piccoli all'oratorio, ma il parroco mi ha detto che se continuo così mi
esonera.»
Prese la borsa e attraversò la strada. Entrò nel bar, ordinò due birre
e le portò al tavolino appoggiato alla vetrina. Mi era rimasta nelle
orecchie la frase sul parroco e i piccoli dell'oratorio. Bomber mi vide di
ghiaccio e cercò di spiegarsi meglio.
«Sai come sono i preti, vogliono che uno vada a messa tutte le
Domeniche e che si comporti bene. Dice che non devo indugiare nei
piaceri della carne.»
Si toccò il ventre. Me l'ero figurato grasso e sfasciato dalla vita e
invece lo trovai in perfetta forma. Tolse la camicia dai jeans e lasciò
penzolare i lembi.
«Ma io come faccio a rinunciare alla birra, allo spiedo del Giovedì,
allo stinco. Ho un certo fisico da mantenere e una compagnia. Senza di
me i ragazzi del bar sarebbero perduti. Chi troverebbero che li bastona
a scopa?»
Carte, birra e stinco. Carezzai il boccale e sorrisi.
«Guarda che a volte perdo di proposito per non farli scoraggiare.»
Cialtrone come sempre. Mi venne in mente di quella volta che per
scommessa dovette portare a spalle il nostro portiere per due giri di
campo. Stavo per ricordargli l'aneddotto quando mi chiese.
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«Cosa mi dici di te?»
Gli raccontai della mia vita da meccanico, di un paio di storie finite
male e di come stavo sostanzialmente a galla. Mi ero avvicinato per
convincerlo a far parte della squadra, ero certo che le parole mi sarebbe
ro uscite senza fatica e invece. Avevo come un groppo in gola,
qualcosa che lasciava filtrare solo idiozie e non faceva passare i
messaggi importanti.
«Tutto qui? Arrivi al campo, ti guardi tutta la partita e mi aspetti
fuori per dirmi solo questo. Scusa, ma non ci credo. Sarò un bomber
dalla testa matta, ma capisco quando uno ha qualcosa da dire e non lo
dice.»
Presi la birra tra le mani. Avevo di che raccontare per più di due ore,
ma quello che mancava era il coraggio. Più di tutti era Bomber quello
che aveva subito la sconfitta, si era trovato con le gomme bucate
proprio nel momento in cui serviva una spinta. Lo guardai e lui mi
invitò a parlare.
«Ti ricordi la nostra stagione?»
Gettò la testa all'indietro e sbuffò. «Vieni al dunque.»
Raccontai tutto. Ormai la storia aveva un filo logico e sembrava
scritta al computer. Da Franceschetti all'incontro con il giornalista.
Tralasciai l'episodio di Mauro, forse per pudore o vergogna per le
nostre vite quasi normali.
«Tu sei fuori e ancora di più quelli che ti seguono.» Ruttò senza
portarsi il pugno alla bocca. Il barista, riflesso nella vetrina, fece uno
sguardo come a complimentarsi.
«Non mi dire che nessuno ti ha detto che è una follia? Certo che te
l'hanno detto, ma poi si sono tutti uniti. Allora c'è qualcosa che mi
nascondi, dimmi la verità bastardello. Ci sono sotto dei soldi? C'è la
scommessa?»
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Feci di no con la testa, volevo ridere e invece rimasi serio.
«C'è la scommessona, ho capito. Tu volevi nascondermelo e magari
ti metti in tasca il cinquanta, il sessanta. Cosa fanno? Vittoria, pari,
sconfitta? Quanto ci danno? Noi contro i campioni saremo almeno a
venti. Ti sei quotato anche la differenza?»
Gli appoggiai la mano sul braccio e Bomber si calmò. Era in preda
a una specie di esaltazione, come un drogato che cerca la dose
quotidiana nelle tasche di una giacca appesa al muro.
«Calmo Bomber. Non c'è nessuna scommessa, non ci sono soldi.
Siamo noi contro di loro, la stessa partita, solo più vecchi. Sarà su un
campo come questo, forse in qualche orarorio. Lontano da tutto e da
tutti. Solo calcio.»
Alzò il braccio e il barista ci raggiunse con due nuove birre.
Bomber prese un sacchetto di patatine dalla mensola a fianco del
flipper e lo aprì sul tavolo. Ne presi un paio e le masticai facendo
rumore appositamente.
«Mi sono lasciato prendere, ma sai come sono queste cose. Con una
moglie e due figli il mio lavoro non basta mai. Scommetto poco e ogni
tanto vinco, ma non è questo il punto. Sono stato un somaro.»
Ruttai e rise. Inspirò, si concentrò e ricambiò con più vigore.
«Comunque non gioco, non me la sento. Sai come sono andate le
nostre vite e se pensi che sia colpa di quella partita ti sbagli. Saremmo
finiti in questo modo lo stesso. Tu con i tuoi motori e io con le mie
partite di feriferia.»
«Allora che ti frega, non ha nulla da dimostrare. Gioca.»
Strinse le labbra e fissò un punto oltre la vetrina. I compagni di
gioco si stavano allontanando. Chi a piedi, chi in moto. Qualcuno
suonava il clacson dell'automobile per salutare. Bomber aveva gli
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occhi lucidi, non era colpa della birra, ma di un ricordo che bussava e
non sentiva la porta aprirsi.
«Perdiamo solo tempo. Mi diverto a giocare con questi quattro
deficenti, ma non voglio rischiare una gamba per un sogno. Ho già
vissuto il mio momento ed è finito. Per me basta così.»
Mi alzai. Avevo ancora una carta, ma non la volevo giocare. Se
Bomber voleva essere della partita lo doveva fare con entusiasmo, non
perchè costretto da un ricordo. Stavo per salutare quando un ricordo
bussò alla mia porta.
Eravamo dalle parti di Salerno, pioveva a secchiate e stavamo
pareggiando uno a uno. Eravamo stanchi per il terreno pesante, per le
botte prese e per il viaggio in treno. Il nostro portiere aveva la visiera
del berretto che grondava come un pluviale rotto, appoggiò la palla a
Marelli che avanzò verso il centrocampo. I nostri avversari erano
chiusi in difesa, sapevano che se ci avessero portati ai supplementari
avrebbero vinto per sfinimento. Marelli passò a qualcuno del
centrocampo. Seduto in panchina non ricordo chi fosse, probabilmente
Leo. Il suo lancio andò a cadere sui piedi di Mauro che lasciò che la
palla gli passasse sotto le gambe sbilanciando il suo difensore.
Il fango rendeva tutto più difficile. I nostri avversari dovevano solo
controllare e se non lo facevano con le buone lo facevano con le
cattive. Un ragazzo entrò in scivolata su Mauro che lo evitò alzando la
palla. Ancora in volo la nostra ala colpì con forza e lanciò in mezzo
all'area avversaria.
Bomber diede un pestone al suo marcatore e si lanciò verso la palla.
Il libero venne travolto dalla spalla del nostro gigante che colpì di
testa. Due a uno. Ci furono proteste con l'arbitro. Il difensore pestato
fece vedere il livido, il libero mostrò dei graffi e il portiere chiamò
l'attenzione del guardalinee.
Mauro diede la mano al difensore per aiutarlo a rialzarsi, ma questi
lo strattonò e lo fece cadere. Arrivarono in quattro sulla piccola ala. Mi
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alzai dalla panchina e corsi per dare il mio contributo. Bomber
raggiunse il gruppo, ne spostò un paio e si mise sopra Mauro. Arrivai
dopo pochi secondi, fradicio dalle secchiate di pioggia, ma in tempo
per sentire la sua voce contro una città intera. Bomber alzò il mento e
alzò la mano contro l'arbitro che stava arrivando per placare la rissa.
«Facciamola fuori da uomini. Non sul campo che è troppo facile.»
I salernitani annuirono, il più piccolo dei quattro puntò il dito e lo
lasciò sospeso come una canna da pesca. La partita terminò con la
nostra vittoria. Fuori dagli spogliatoi ci aspettavamo l'assedio e invece
non trovammo nessuno. Andammo cauti verso il parcheggio, in ogni
angolo poteva nascondersi un agguato. La stazione era a meno di
cinquecento metri e la strada era sgombra. Mauro, Leo e Bomber
facevano strada come fossero state piccole vedette lombarde.
Nessuno ci fermò. Tornammo in treno con i capelli bagnati e la
paura di vedere spuntare dal bagno della carrozza un coltello
salernitano. Il ricordo si dissolse e rimasi impalato dando le spalle a
Bomber. Mi voltai, sapevo di sbagliare, ma tornai a sedermi.
«Senti. Non voglio che questo cambi qualcosa nella tua decisione,
ma c'è qualcuno che vuole vederti e ti vuole sul campo.»
Gli raccontai di Mauro, di come viveva da barbone e della mia
visita al centro di accoglienza. Le parole mi uscivano secche e senza
espressività, come da un servizio giornalistico.
«Ha detto che gioca se vieni anche tu.»
Bomber si alzò, prese il sacchetto di patatine e ne fece una palla. Si
leccò la punta delle dita e appoggiò il boccale sopra il sacchetto. Mi
guardò e sussurrò il nome del nostro amico.
«Se viene Mauro ci sono anch'io.»
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