Veleno si mangia! Veleno si beve! Veleno si respira!

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Veleno si mangia! Veleno si beve! Veleno si respira!
OBIETTIVO
AMBIENTE: TERRA
,
ACQUA
,
ARIA
Laura Conti
Veleno si mangia! Veleno si beve!
Veleno si respira!
TEMI
Il 10 luglio 1976 da una fabbrica di prodotti chimici di Seveso, un paese
in provincia di Milano, si sprigiona una nube di diossina, una sostanza
tossica pericolosissima per la salute che contamina tutto il territorio
circostante, provocando un vero disastro ecologico.
Marco e Sara, i protagonisti del brano che stai per leggere, ben presto
si rendono conto della drammatica situazione: ai loro occhi infatti appare un terrificante scenario di morte e distruzione.
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1. ibisco: alberello impiegato per siepi ornamentali; ha foglie ovali
di color verde scuro e
fiori di color rosso vivo.
Avevamo appena spento la tele, eravamo appena andati a letto:
«Marco, Marco, vieni a vedere!»
Era la voce di Sara; tante volte, d’estate, mi chiama la sera tardi, così vado fuori nel giardino e parliamo, nell’angolo dietro il cespuglio
di ibisco1 dove c’è una sbarra rotta e c’è lo spazio per passarci le cose, le figurine eccetera. Io non posso uscire di sera, i miei non vogliono naturalmente, ma Sara viene su come una vagabonda, dice
mia madre, e critica la famiglia Di Pasqua: dice che è da criminali
mettere al mondo tanti figli e poi non occuparsene. Ma non è che la
madre di Sara se ne frega se Sara esce tardi, anzi se si accorge strilla
come una dannata: solo che non si accorge. Stanno in una casetta nel
quartiere degli immigrati, la porta di casa non la chiudono quasi mai
perché nessuno dei fratelli sa se è l’ultimo a tornare oppure no, così
nessuno chiude, perché ognuno ha paura di chiuder fuori qualcun
altro. Mia madre dice che Sara vien su come una vagabonda perché
la vede di giorno andar sempre in giro sporca e stracciata e tutti sanno che ogni tanto la mandano a casa da scuola perché ha i pidocchi
,ma se poi sa che d’estate gira anche di sera, allora dice che non può
venir su una ragazza perbene.
In genere è vero che le ragazze perbene non vanno fuori di sera, ma
Sara è diversa.
Mi sono affacciato alla finestra facendo segno di aspettarmi, mi sono infilato i calzoncini e sono scappato giù scalzo per non fare rumore, per non farmi sentire dai miei. Sara era là dietro il cespuglio
di ibisco dove c’è la sbarra rotta, e al lume del lampione ho visto che
aveva fra le braccia un fagottino nero. Lo ha fatto passare tra le sbarre, me lo ha dato, era la sua gatta.
«Tienila tu la mia Carmelina: è malata.»
«Malata? E io cosa ci posso fare se la gatta è malata?»
«Devi tenerla, se mio padre la trova l’ammazza. Su da noi stanno
ammazzando tutte le bestie, tutte quelle che non sono morte da sé.
Ha dato l’ordine il sindaco, ma io non voglio che ammazzano Carmelina, Carmelina è la mia sorellina piccola.»
Rosetta Zordan, Il Narratore, Fabbri Editori © 2008 RCS Libri S.p.A. - Divisione Education
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2. anfanava e gorgogliava: ansimava
ed
emetteva suoni indistinti.
3. dalla fabbrica: si
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riferisce alla fabbrica di
prodotti chimici, l’ICMESA, dalla quale il 10
luglio 1976 fuoriuscì
una nube di diossina,
un potentissimo veleno.
4. comò: mobile di le-
gno fornito di cassetti
per riporvi la biancheria.
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Nelle mie mani la gatta anfanava e gorgogliava2.
«Ma perché dici sempre che è la tua sorellina piccola?»
«Perché tutti i miei fratelli hanno una sorellina piccola, che sono io,
e io non ho sorelline piccole, allora ho Carmelina.»
«E cos’è sta storia delle bestie che sono morte da sé e quelle che non
sono morte da sé le ammazzano?»
«Ah già che sabato tu eri al campeggio. È uscita una nuvola fuori
dalla fabbrica3, e la sera hanno cominciato a morire i conigli, la domenica sono morti i polli, a noi sono morti ventidue conigli e diciassette polli, e gli altri sono malati, e se anche non sono malati il
sindaco dice che sono velenosi e bisogna ammazzarli. Per i polli
non me ne frega niente, non sono mica come noi, per i conigli mi
dispiace ma pazienza, ma Carmelina non voglio che la ammazzano.
Se deve morire muore da sé, ma forse se le dai del latte guarisce,
mio fratello Vito dice che nella sua fabbrica, nei reparti dove ci sono veleni, agli operai gli danno il latte tutti i giorni, il latte fa guarire dai veleni.»
Ho messo giù la bestia: era malferma sulle zampe, barcollava come
un ubriaco, e respirava male che pareva che soffocava:
«E se è contagiosa?»
«Ma non è contagiosa, ti ho detto che ha preso il veleno della nuvola. Uno che si avvelena non è mica contagioso.»
«Figurati se ci credo, a questa storia della nuvola velenosa. Avranno
avuto una malattia, i tuoi conigli.»
«La malattia dei conigli non fa ammalare i polli e i gatti. Guarda la
mia gatta, poverina: non è nemmeno capace di alzarsi dal punto dove l’hai buttata.»
Era vero: si alzava, barcollava, cadeva a terra, e respirava malamente. Alla fine mi sono deciso a raccoglierla e portarla in camera con
me, e l’indomani dovevo andare da Sara a dirle come stava. In camera le ho preparato una cuccia con un vecchio golf di lana, vicino
al mio letto. Ma dopo che avevo spento la luce ho sentito che la gatta si trascinava, e andava a nascondersi sotto il comò4. Ha respirato
male tutta la notte, gorgogliando come uno che affoga, e ho fatto dei
brutti sogni. Mi sognavo che era una bambina, la sorellina piccola di
Sara, e che affogava.
La mattina ho provato a chiamarla ma non rispondeva, ho tirato il
comò lontano dal muro e l’ho trovata nell’angolo che pareva quasi
morta se non era per quel respiro gorgogliante: aveva il pelo sporco,
non il solito pelo morbido e brillante ma delle ciocche impastate. Se
mia madre la trovava dovevo confessare che mi ero alzato di notte e
avevo incontrato Sara, chissà che scenata. E mia madre la trovava senz’altro quando veniva su a fare il letto; a sentire quel respiro
soffocato certamente si metteva a cercare dappertutto. Erano le sei:
mi sono fatto il segno della croce e ho pregato che moriva prima delle otto. Ma alle otto respirava ancora, sempre più in fretta.
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5. messo comunale:
impiegato del Comune
incaricato di consegnare o riferire comunicazioni ufficiali o di una
certa importanza.
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Per fortuna mia madre ha gridato che andava al mercato con la Tina e ho sentito sbattere la porta mentre uscivano, mio padre era già
uscito per andare al suo laboratorio che sta dietro l’orto e dietro il
pollaio e la conigliera. Sono sceso con la gatta avvolta nel giornale,
dovevo portarla via prima che mia madre e la Tina tornavano, se no
sentivano il respiro. Mi sono infilato la gatta, nel suo giornale, sotto
la camicia, però si vedeva il gonfio. Per non far vedere il gonfio ho
messo la giacca a vento, anche se era una giornata molto calda; avevo una gran fretta e non avevo il tempo di mangiare il panino che era
sulla tavola vicino alla tazza del caffelatte, volevo bere soltanto il caffelatte, però ho pensato che mia madre poteva sospettare qualcosa,
perciò ho spezzato il panino, ho sparso le briciole sulla tovaglia prima di mettermi i pezzi in tasca, ho spostato la sedia e ho lasciato la
cucina in disordine come al solito.
Con la gatta sotto la camicia e con la giacca a vento che mi faceva
caldo ho preso la bicicletta e sono andato da Sara. Nel quartiere di
Sara, dove abitano quasi soltanto meridionali, e qualche veneto, si
capiva proprio che doveva essere successo qualcosa. C’era gente che
discuteva, c’era gente col naso in aria che guardava gli alberi per vedere se le foglie erano bruciate dal veleno. Un uomo col sacco in
spalla ha fermato il messo comunale5:
«Qui ho venti bestie morte, cos’è che devo fare?»
Il messo era arrabbiato:
«Cosa ne so io delle tue venti bestie morte, c’è l’ordine di ammazzarle tutte, le bestie. Solo nel nostro comune ce ne saranno ventimila, mica solo venti».
Una cagnara d’inferno: ho visto Sara che correva verso casa scalza,
correva davanti a tutti coi capelli che le saltellavano sulla schiena, ma
non è che aveva più paura degli altri, è solo che le piace correre. Mia
madre dice che è antigienico per le bambine portare i capelli così lunghi e sciolti, soprattutto se giocano nei campi e per le strade come Sara: ma le bambine meridionali ci tengono, ai loro capelli lunghi.
Con la bici l’ho raggiunta e le sono passato davanti. Mentre la aspettavo guardavo intorno…
C’era silenzio, era strano: non si sentivano le galline, non si sentivano cinguettare i passeri che gli rubano il grano e loro protestano,
non c’erano più né polli né passeri. Non c’erano più nemmeno i piccioni, che di solito quando si fa cigolare la porticina volano via battendo le ali. Il pollaio e le gabbia dei conigli puzzavano come sempre, ma non c’erano le solite mosche che sempre ronzano in quell’orto sporco e disordinato. Era come guardare la tele quando il sonoro è guasto.
È arrivata Sara, l’ho sentita che respirava con un po’ d’affanno, dietro le mie spalle.
«Guardi il disordine? Non ti abbiamo mica domandato di mettere a
posto, e se la mia casa è disordinata non ci venire, ecco!»
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«Scema, cosa vuoi che guardo il tuo disordine. Guardo che non ci
sono più animali.»
«Morti tutti, ti ho detto. Morti, o ammazzati: tutti i polli e tutti i
conigli.»
«E anche i passeri, i piccioni e le mosche. Morti tutti.»
«Le mosche le ha ammazzate la mamma con l’insetticida, cosa
credi.»
Quando se la prende così bisogna star zitti, ha sempre paura che dicono che i meridionali sono sporchi. Io poi non è che avevo voglia
di farla arrabbiare, quel silenzio mi faceva un po’ paura.
«Sono morte anche le cicale.»
«Tu non ci volevi credere, ma è il veleno. E la mia Carmelina come sta?»
Me ne sono ricordato solo in quel momento, e mi sono accorto che
quel respiro gorgogliante non lo sentivo più, e il corpo della gatta
che prima tremava era fermo. Oddio, non volevo che diceva che l’avevo soffocata io:
«Ce l’ho nella giacca a vento, sono andato via di casa che era viva,
ma adesso non la sento più: dev’essere morta».
Non ha fatto scene, povera Sara, pareva che ormai era abituata a tutto quel morire. Ma non voleva che mi toglievo la giacca a vento:
«Se te la levi mia madre si accorge che hai la gatta con te, e io ieri,
quando mio padre l’ha cercata per ammazzarla, ho detto che non la
trovavo più, che era scappata».
Siamo andati su in casa. La mamma di Sara lavava i piatti e si lamentava che la nuvola di veleno l’aveva rovinata: aveva perso tutte
quelle galline e tutti quei conigli, e con le uova a novanta lire e la carne a cinquemila lire come poteva far da mangiare.
«Quando mai venimmo quassù! Al paese nostro pane e cipolla si
mangiava, ma era roba sana: e qui invece, veleno si mangia! Veleno
si beve! Veleno si respira!»
Ha detto a Sara di andare a cogliere i pomodori per il sugo:
«Ma non sono avvelenati, i pomodori?»
«Figlio mio, che posso fare? Li lavo bene, li faccio cuocere tanto,
che posso fare di più? La povera gente, roba avvelenata deve mangiare! E poi, cosa vuoi che sia un pomodoro avvelenato quando tutto il mondo è avvelenato, l’acqua che si beve e l’aria che si respira!
Qua siamo venuti, errore nostro è stato, e qua dobbiamo restare…»
Sara ha messo una manciata di pomodori sotto il rubinetto, uno lo
ha lavato e mangiato subito, un altro ha fatto per darlo a me ma io
ho detto di no, che avevo mal di stomaco, e lei a ridere senza rumore come per prendermi in giro. Ho detto che era tardi, dovevo andare a casa, e mi ha accompagnato al cancelletto dell’orto dove avevo lasciato la bicicletta.
«Dove la metto questa gatta? Mi tolgo la giacca a vento e la gatta la
lascio qui, non voglio mica portarla a casa: questa giacca mi fa calRosetta Zordan, Il Narratore, Fabbri Editori © 2008 RCS Libri S.p.A. - Divisione Education
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do, voglio tenerla sulla canna.»
Mi ha trascinato in un angolo dove non si vedeva la finestra della
cucina.
«Fammela vedere, la mia Carmelina. Poi va’ a buttarla nel fiume, ma
prima voglio vederla.»
L’ho tolta dalla camicia e l’ho messa per terra. La accarezzava col
piede sporco e scalzo:
«Povera Carmelina com’è piccola. I gatti, da morti, sono più piccoli che da vivi. Chissà se anche le persone, da morte, si restringono.
Tu hai paura di morire?»
«Io no.»
«Però il pomodoro non l’hai mangiato, per paura del veleno.»
«Non è vero che avevo paura del veleno, avevo qualcosa sullo
stomaco.»
«Ma va! Sullo stomaco ci avevi la gatta. Non solo hai paura di morire tu, hai paura anche delle bestie morte. Non ti fanno niente, sai.
Cosa vuoi che ti fa una gatta morta, povera micina. Come si fa, ad
aver paura di una micina morta.»
Continuava ad accarezzarla e rivoltarla col piede, piano piano:
«Povera la mia Carmelina, povera la mia sorellina piccola».
Mi sono infilato di nuovo la gatta sotto la camicia, ma non potevo
salutare Sara e nemmeno guardarla in faccia. Se ne stava a testa bassa proprio per non farsi guardare, le braccia penzoloni come morte,
i capelli neri spettinati che le cadevano in avanti e le coprivano la
faccia. Se ne stava lì tutta sola, che non vedeva nessuno, e non sentiva nessuno. Con la gatta sotto la camicia e con la giacca a vento allacciata sono scappato via in bicicletta, e mentre non mi vedeva nessuno ho buttato la gatta nel fiume. È un fiume dove non ci sono più
pesci, avvelenati chissà da quanto tempo, i vecchi del paese dicono
che una volta c’erano le trote ma ormai il fiume è morto. Portava
gatti morti, cani morti, e un cane capitato in un vortice seguitava a
girare, girare, pareva che non voleva andar via, poi la corrente ha
portato via anche lui e io sono andato a casa.
(da Una lepre con la faccia da bambina, Editori Riuniti, Roma, rid.)
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