“Il maiale alato”

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“Il maiale alato”
“Il maiale alato”
Autore:
Giordano Segatta
Nato il:
27 / 12 / 79
Residente a:
Via Madonnina n. 8
38050 Povo (TN)
Telefono:
tel. 0461 / 810427
Scritto nell’anno 2000
Breve descrizione
Si tratta di un romanzo destinato ai giovani, che parte dalla quotidianità della vita universitaria per
assumere lentamente risvolti surreali. Si affrontano, con serietà ma anche ironia, i problemi della ricerca
d’una propria identità, del sapersi fare accettare, e di come spesso le apparenze possano nascondere
sorprese inaspettate.
Il protagonista è Simone, un ragazzo molto estroverso ma con qualche problema a socializzare. Grazie
ad un approccio decisamente insolito comincia a frequentarsi con una compagna di corso, Nicole, ma
alcune bizzarrie nel comportamento della ragazza finiscono più volte col metterlo in crisi. Scopre così che
l’amica è ben diversa da quello che sembra: una sorpresa che all’inizio lascerà Simone piacevolmente
stupito, per poi svelargli come quella che sembra la più grande delle fortune sia in realtà una pesante
catena.
indice
introduzione
prima settimana: “per gioco”
capitolo 1
seconda settimana: “sorprese”
capitolo 2
capitolo 3
terza settimana: “senza perché”
capitolo 4
capitolo 5
capitolo 6
epilogo
“Tu prova ad avere un mondo nel cuore
e non riesci ad esprimerlo con le parole,
e la luce del giorno si divide la piazza
tra un villaggio che ride e te, lo scemo che passa,
e neppure la notte ti lascia da solo:
gli altri sognan se stessi e tu sogni di loro.”
Fabrizio De André, “Un matto (dietro ogni scemo c’è un villaggio)”
introduzione
Il “maiale alato”, di Joseph Wu. Forse l’origami più bello mai creato, almeno secondo Simone.
Soggetto originale, una costruzione precisa ed elegante, proporzionato e ricco di dettaglio, con le sue
orecchie piatte, il muso suino, i glutei rotondeggianti e perfino il codino arrotolato. Di due colori, ben
divisi, a patto di usare un foglio adatto. Con le sue belle alette sulla schiena, che era possibile inarcare
soltanto o zigzagare tipo pipistrello. Semplicemente stupendo.
prima settimana: “per gioco”
capitolo 1
La lezione era di una noia mortale. Università tecnica, secondo anno. Lunedì mattina, ore otto e
mezza. Un docente che per metà mangiava le parole, e per metà non le diceva affatto. Una scrittura
indecifrabile già a due metri di distanza solcava la lavagna, riempiendola di calcoli innominabili sulla cui
reale utilità ci sarebbe stato parecchio da discutere. Ma Simone sarebbe rimasto al suo banco, a seguire,
imperterrito. Aveva già perso un anno, dei ventuno che aveva, per via della poca frequenza, e voleva
evitare di riprendere brutte abitudini.
Senza quasi accorgersene, aveva strappato un foglio dal quaderno, piegandolo lungo una rudimentale
diagonale e strappandone un pezzo per renderlo quadrato. Osservò il quarantacinquenne alla sua destra
mentre sbadigliava, la ragazza dall’altra parte che si controllava il trucco in un piccolo specchio, alzò le
spalle e si dedicò al suo passatempo. Almeno, non sarebbe stato il solo cui non importava nulla di dove si
trovava.
Gli origami erano la sua passione da moltissimo tempo. Aveva uno stile personalissimo, nel
manipolare la carta, preciso e veloce, tanto da rendere apprezzabili anche i lavori più banali. L’abilità
nelle pieghe di base, a monte o a valle che fossero, ad affondo o ad orecchio di coniglio, era tale da
rendere superfluo l’uso di un piano su cui appoggiarsi. Le dita solcavano il foglio, gli imprimevano forma
e volume.
Ricordava tutte le costruzioni, per quanto lunghe e laboriose potessero essere. Gli bastava leggerle un
paio di volte, provarle, e la sua memoria ben allenata non le avrebbe più abbandonate. Non semplici
uccellini che sbattono le ali se gli si tira la coda, quelli di Simone erano origami veri, giapponesi. Con i
contraccazzi, come aveva commentato Aldo.
“Chissà se sta dormendo anche lui, adesso?” si chiese a bassa voce, soprappensiero, cercando di
immaginare l’amico intento a seguire, gli occhi incollati alla lavagna e le orecchie un tutt’uno col
docente. No, Aldo non era il tipo da poltrire, di sicuro stava consumando la penna nello scrivere perfino
quando l’insegnate si puliva il naso.
Il suo amico, conosciuto quasi per sbaglio l’anno prima, e da allora inseparabile. Per una coincidenza
del cavolo, quando entrambi avevano perduto l’autobus che li avrebbe riportati a casa. La sola persona
con cui Simone era riuscito a legare, cosa che lo metteva non poco a disagio. Più di due anni passati in
mezzo a centinaia di sconosciuti, chissà quali interessanti caratteri, aneddoti, vite, abitudini, storie da
ascoltare, eppure tutti estranei, per una maledetta paura di presentarsi.
Una di quelle cose che si sanno di se stessi ma non si riesce comunque a combattere. Simone sapeva
come rendersi simpatico, coinvolgere gli altri, dare una mano quando poteva. Riusciva a strappare
consensi e confidenza, quando si decideva a lasciarsi andare e mettersi in gioco. Ma il punto era proprio
quello: la maledetta prima frase da dire, il discorso con cui decidere se far entrare nella propria vita un
estraneo, il punto in cui si passa da un saluto veloce di tanto in tanto alla confessione di una particolare
vicenda. Era difficile, troppo, faceva sembrare ridicoli e impacciati, tanto da convincersi che era meglio
lasciar perdere, accettare ciò che si era perso senza combattere e rimanere a piegare un pezzo di carta, tra
un nonno fuori corso che sbadiglia ed una ragazza il cui unico problema è se il trucco fa il suo dovere.
Dieci minuti, e tra le nocche sottili e agili di Simone prese forma il suo origami preferito. Un maiale
con le ali, buffo ma realistico, reso surreale dalle escrescenze cartacee che gli spuntavano dalla schiena
paffuta. Riusciva sempre a strappare un sorriso al suo creatore, che nel fargli gli occhi con la penna gli
chiese: “Perché non parli?”
Aldo era di media statura. Aveva una testa grande, rotonda, come gli occhi, che risaltavano ancora di
più grazie al colore ghiaccio dell’iride. Capelli tendenti al biondo, tagliati cortissimi, tanto da farlo
sembrare quasi pelato.
Aveva la mania degli slang americani, gli indovinelli impossibili, le canzoni il cui testo sfociasse nel
sociale. Vent’anni. Un ragazzo semplice, socievole, di gradevole compagnia. Molto attaccato al dovere,
sapeva passare giornate e nottate sugli appunti, ed il suo libretto degli esami straripava di trenta con lode,
comunque meritatissimi. Era ingenuo, a volte, ma stava allo scherzo, accettava le battute e, dopo qualche
minuto che impiegava per capirle, scoppiava a ridere fino a diventare rosso in viso, con gli occhi grandi
che si chiudevano e la bocca che sfuggiva al controllo. Uno spettacolo.
Simone era l’opposto. Alto, asciutto, viso allungato, carnagione quasi abbronzata nonostante fosse
appena cominciato l’autunno. Capelli corti, ma scuri, come la barba sottile ed i baffi ben curati che gli
incorniciavano la bocca. Aveva gli occhi piccoli e scattanti, nascosti da un paio di occhiali dalle lenti
larghe e strette. Amava vestire di colore scuro, ma senza particolare ricercatezza.
“Cosa hai li?” chiese Aldo, salutando l’amico che lo stava raggiungendo sul corridoio.
“Il solito.” Simone gli mostrò il maiale. “Com’è il corso?”
“Interessante. Stiamo studiando il flusso di un campo vettoriale attraverso una calotta sferica. Degli
integrali che non finiscono più.”
“Contenti voi. Io non capisco neanche di cosa sta parlando, il nostro docente.”
“Ancora un’ora, e poi siamo in corso assieme” tentò di consolarlo Aldo. “Economia… il mio
preferito!”
“Almeno è discorsivo.” Tirò un sospiro. “Che palle, non mi passa più! Non sto capendo un cavolo!”
“Vedo. Se continui a fare tutta la fattoria…”
“Quest’ora faccio il drago. Ne ho imparato uno nuovo: con la testa, la coda, le ali e tutte e quattro le
zampe.”
Sobbalzarono entrambi, quando Carla rivelò all’improvviso la propria presenza aggrappandosi al
braccio di Aldo. “Cosa fate, di bello?” chiese, con la solita voce squillante.
“Chiacchiere” tagliò corto Simone, voltandosi a guardare dall’altra parte.
Carla, soprannominata Charlie, o meglio ancora Ciarli, voce del verbo ciarlare. Piuttosto bassa, ben
proporzionata, un culetto da perderci ore a fissarlo, che però pagava con una piattezza di petto non certo
invidiabile. Capelli biondi, corti e quasi spettinati. Viso rotondo, sorridente, che esprimeva entusiasmo e
gioia di vivere, ma anche un antipatico: “so tutto io.” Una secchiona di prim’ordine, amica di tutti e di
nessuno, l’unica ragazza della facoltà che parlava ai due amici. O meglio, solo ad Aldo. Quando le
serviva qualcosa.
“Tu, tutto bene? E’ un po’ che non ti si vede.” Il biondo era sempre imbarazzato in presenza di Carla,
anche se lo nascondeva benissimo dietro un apparente distacco.
“Solite cose, un po’ qui e un po’ li. Senti un po’… analisi due la stai seguendo?”
“Si. Voglio dire, sono ancora alle basi, e qualche esercizio di tanto in tanto.”
“Che libro hai preso?”
“Quello… non mi ricordo il nome dell’autore, comunque quello che ci ha consigliato il docente. L’ho
dovuto comperare nuovo, perché non ho trovato nessuno che lo vendeva, ed in copisteria non l’hanno
ancora disponibile.”
Carla si strinse di più al braccio, con fare confidenziale. “Mi sa che lo dovrò comprare anch’io… è che
non so se ne vale davvero la pena, dopotutto costa parecchio. Dovrei vederlo, per decidere.”
“Se vuoi ti posso prestare il mio” si offrì Aldo, sapendo che la ragazza non aspettava altro.
“Sul serio? Mi faresti un favore!” Si staccò. “Ci vediamo dopo, a Economia! Tienimi un posto, se ti
siedi in prima fila.” In un attimo sparì nel corridoio.
“Non capisco perché non la mandi a quel paese” commentò Simone, seccato, tornando a guardare
verso l’amico.
“Dai, lo sai com’è fatta!”
“Si, una che tutte le mattine mi passa a due metri senza salutarmi, e poi si prostituisce davanti a me
per farsi prestare un libro!”
“Esagerato!”
Simone lo prese a braccetto, come Carla aveva fatto poco prima, e fece finta di strofinarsi su di lui.
Imitò la vocina squillante della ragazza: “Oh, sei il mio migliore amico! Se ti passo una mano nei
pantaloni mi regali anche l’eserciziario?”
“Basta!” si staccò Aldo, un po’ seccato. “Lascia stare” aggiunse, con una smorfia. Carla doveva
piacergli ancora, e Simone decise di non infierire.
“Ricominciano. Ci vediamo tra un’ora” lo salutò, e cominciò ad incamminarsi verso la sua aula.
Ripensò ad alcuni mesi prima, all’amico che aveva una mezza storia con la ragazza, ma sul più bello
lei lo rifiutava, si allontanava prima che Aldo avesse il tempo di dichiararsi. L’aveva forse giudicato
troppo ingenuo, o non aveva tempo per fermarsi da una sola persona, fatto sta che aveva perfino smesso
di salutare. Finché, con l’arrivo del secondo anno e degli esami più difficili, si era ricordata del ragazzo
studioso, che ancora poteva fargli qualche favore, e così di tanto in tanto si faceva viva.
Un giorno devo parlare seriamente ad Aldo si ripromise. Si potrebbe fare una cosa di questo tipo: la
prossima volta che ci capita a tiro, prima ancora di salutarla, le si chiede: “cosa ti serve, stavolta?”
Ottimo, direi.
Raggiunta l’aula, mentre si dirigeva al suo posto, si accorse di avere ancora il maiale alato fra le mani.
Intravide sul banco vicino al quale stava per passare l’astuccio abbandonato della Gatta. Lo avrebbe
riconosciuto tra mille, variopinto, con tutte le penne colorate, le matite che scappavano da ogni parte, e il
topolino sorridente stampato sulla stoffa.
Origami. Banco della Gatta. Maiale alato. Posto deserto. Un, due, tre, via. Collegò le parole in un
istante e, prima ancora di rendersi conto di cosa stava per fare, raccogliendo l’incosciente coraggio di
un’idea appena nata, lasciò scivolare il piccolo regalo vicino all’astuccio. Si lasciò poi condurre dalla
massa degli studenti che prendeva posto, ritrovandosi alla sua posizione, un paio di file avanti.
Il professore raggiunse il suo palco, si sistemò il microfono sulla camicia e riprese il suo masticare
parole, impastando cifre e simboli matematici su una lavagna che ben presto assomigliò ad un ornatissimo
tappeto persiano. Simone si sforzava di stare attento, ma la sua testa non poteva fare a meno di
fantasticare come, alle sue spalle, la Gatta avrebbe raggiunto la seggiola, trovando il maiale. I suoi occhi
piccoli e ingenui lo avrebbero dapprima preso con stupore, che poi si sarebbe mutato in curiosità, mentre
riconosceva la sagoma e la sua splendida bocca si inarcava in un sorriso divertito.
Come no, al massimo lo appallottola e lo tira addosso a qualcuno! Non voleva abbandonarsi alle
fantasticherie, o nell’incrociare la Gatta sul corridoio avrebbe potuto arrossire, se ci avesse pensato
troppo, e lei lo avrebbe scoperto. Troppe imbarazzanti spiegazioni, le famose dieci parole che faticavano
ad arrivare, e figure del cavolo in rapida successione. Lo scherno di lei, che chissà come lo avrebbe deriso
con le amiche. Il coglione del maiale alato. Perfetto, sembrava il titolo d’un film.
La lezione passò con una lentezza infinita, mentre Simone ricopiava dalla lavagna geroglifici che mai
avrebbe riletto e già si pentiva della sua alzata di testa. Basta! aveva provato a dirsi, più d’una volta. Hai
ventun anni, non puoi andare in paranoia così per una cazzata del genere. Quando il docente annunciò
che si sarebbero rivisti domani, il ragazzo dovette sforzarsi di non alzarsi di scatto, per aspettare che la
Gatta fosse uscita prima di lui, non doverla incrociare alla porta, o farsi magari beccare a fissare il suo
banco con troppo interesse.
Fu uno degli ultimi ad uscire, quando il cambio degli alunni si fece meno denso. Per la lezione di
economia sarebbero rimasti nella stessa aula, ed in più Aldo lo avrebbe raggiunto, prendendo posto
accanto a lui, mentre altri ragazzi se ne sarebbero andati, diretti a casa o ad altri corsi.
Nel passare accanto al posto della Gatta non riuscì a trattenere un’occhiata furtiva. Scorse l’astuccio
verde, un paio di penne, i fogli ad anelli degli ultimi appunti, presi con ordine, colore ed una scrittura
decisamente gradevole e rotonda, ed il suo maiale. In piedi sulle zampe, al centro del posto, il muso
schiacciato diretto verso la seggiola dove la nuova padrona era stata seduta.
Simone sorrise, con un rilassamento che era comunque emozione, e raggiunse il bagno ripetendosi che
era un imbecille ma che, cavolo, era esaltato da matti. Un bambino che aveva ancora tanta, tanta voglia di
giocare.
“Cos’hai da ridacchiare?” lo salutò Aldo, mentre si stava lavando le mani, raggiungendolo e notando
subito il suo umore.
“Niente. Ho solo trovato un nuovo passatempo.”
“Oddio, lo sapevo che non sarebbe durata” sbuffò Aldo, alludendo all’attenzione di Simone verso i
corsi. Ma l’amico non lo ascoltò neppure, troppo impegnato a trovare nei ricordi le istruzioni per
l’origami del drago.
Ci sono varie tipologie di donna. Perfino una facoltà prettamente maschile come quella che Simone
aveva scelto, e gli esemplari femminili si contavano sulle dita d’una mano anche in aule di trecento posti,
vi si potevano ritrovare tutte. C’erano le manze, quelle cioè grasse, antipatiche e sempre sudate. Le
scimmiette, piccoline e dal viso scavato, magari con un accenno di baffi. La tettona di turno, cioè la
centrale del latte ballonzolante. Una che aveva le labbra troppo da pompini per non ridacchiare quando la
si incrociava sui corridoi. Senza contare quella che si riempiva di trucco e si vestiva da modella per
seguire due ore di corso ed arrapare chi le stava vicino. Ma si, proprio quella che si metteva un reggiseno
che le alzava le tette ad angolo retto, e delle brache tanto sottili e attillate che era come non ci fossero. Un
vestito nuovo ogni giorno. Ma lo faceva per se stessa, diceva, per principio. Certo, il principio di far
arrapare la gente. Neanche a dirlo se la tirava come un elastico, snobbava tutti a destra e a manca, e se
qualcuno indugiava troppo lo sguardo sulla bella merce che con tanta premura metteva in mostra, lo
guardava in cagnesco e si lasciava sfuggire un: “Il solito porco!”
C’era quella dalla maglietta mega attillata che non perdeva occasione, a fine lezione, per avvicinarsi al
docente di turno e fare qualche domanda, dando sfogo nel frattempo delle rotondità del proprio corpo,
magari appoggiandole al ripiano della cattedra. C’era poi quella che giocava al: “guardate che io la do” e
si gonglava nel vedersi ronzare attorno una decina di maschi vogliosi pronti ad assecondarla. Quella che
aveva trovato il ragazzo e se lo strofinava ad ogni momento per provocare invidia a chiunque la
guardasse. Infine l’antiviagra, la ragazza cioè così brutta da far sospettare che, contro di lei, neppure il
potente farmaco ce l’avrebbe potuta fare.
Ed in mezzo a tanta fauna non poteva mancare la bella del secondo anno. Quella perla finita lì per
caso, la ragazzina acqua e sapone truccata e vestita con gusto, che su un calendario non avrebbe sfigurato,
sempre sorridente e vivace, e magari anche diligente e impegnata. Anche perché, per strane questioni non
meglio appurate, il voto degli esami orali sembrava dipendere in piccola parte anche dalla prestanza fisica
dell’interpellata.
Quella era la Gatta, così battezzata a sua insaputa da Simone, per via dello sguardo suadente e felino.
Aveva gli occhi piccoli ma, dall’azzurro chiaro ed intenso che erano, risaltavano quasi brillassero, come
quelli d’un micio al buio.
“Non posso crederci che l’hai fatto!” si lasciò sfuggire Aldo, smettendo per un istante di trascrivere la
spiegazione del docente sui ricavi marginali decrescenti.
“Zitto e prendi appunti. Che poi me li devi passare” si limitò a rispondere Simone, troppo assorto nella
realizzazione del drago per curarsi del mondo esterno. Gli origami erano forse l’unica cosa, a parte le
canzoni anni ottanta ed i fumetti, a saper catturare per intero la sua attenzione.
“Sei pazzo.”
“Esageri. L’ho pensato anch’io, prima, ma poi mi sono detto: è simpatico, non da fastidio, che male
può fare?”
“Non lo so, ma per me perdi tempo. Tanto è una snobbona!”
“Non è una snobbona!”
“Si? Allora perché è sempre da sola, e non parla con nessuno? Non mi dire che una così non attira
l’attenzione!”
“Va bene, allora lo scoprirò da me” concluse Simone, aggiustando le zampe della sua creatura.
“Comunque vada, non troverò mai il coraggio di parlarle. Tanto vale farsi due risate, e sognare un po’,
giusto?”
“Tutto bene, se ti va di vivere di sogni, basta che non ti faccia prendere troppo.” Non c’era traccia di
rimprovero o critica nella voce di Aldo, semplicemente diceva tutto ciò che gli passava per la testa, in
modo semplice e sincero. Per questo Simone si fidava di lui, e trovava gradevole la sua compagnia.
Un sogno, proprio quello che la Gatta era diventata per il ragazzo degli origami, dalla prima volta che
l’aveva vista. Ricordava quegli istanti in modo confuso, sbiadito, ma distingueva perfettamente le
sensazioni che aveva provato.
Viso giovane, da ragazzina, allungato e sottile. Pelle chiara, appena scurita dal fondotinta con cui si
ostinava a ricoprirsi. Naso piccolo, rotondo, labbro superiore un po’ alzato, alla francese. Occhi che
sembravano a volte sparire tra gli zigomi appena accennati e le ciglia nerissime, incavati ma in modo
armonioso, che le conferivano un’aria esotica e raffinata. Ma anche ingenua, con l’espressione spaesata e
il sorriso privo di malizia, stupito nella disinvoltura.
Capelli biondo scuro, appena striati di fili argentei o di rame, raccolti in una coda con un lungo ciuffo
ribelle lungo tutto il volto, o sciolti fino alle spalle, mossi e con un frangetta che le copriva la fronte.
Il fisico, poi, era qualcosa da vedere. Sottile, filiforme, in un modo che avrebbe potuto addirittura
sembrare caricaturale, anche perché era piuttosto bassa, ma che una proporzione più che perfetta rendeva
uno splendore. Completava l’opera un paio di seni inaspettatamente tondi per quella longilineità,
abbastanza grandi ma soprattutto alti e sodi.
Simone era solo, la prima volta che l’aveva vista. Stava commentando con feroce ironia il triste
campionario di femmine con cui avrebbe condiviso il prossimo anno di corso, quando l’aveva vista
arrivare. Un gioiello, nel suo vestito nero attillato, senza alcun fronzolo se non un fiore bianco stampato
sulla maglia, all’altezza del seno. Da non crederci, e ricordare. Quella sarebbe stata la bella del corso,
punto e basta, la ragazza da spiare alle spalle e che costringe ad abbassare gli occhi quando la si incrocia.
“Mi piacerebbe coccolarla. Solo quello. Tenermela li, addosso, abbracciata, e farle le coccole come ad
un gatto vero” bisbigliò, per stuzzicare Aldo. “Da piccolo avevo un gatto, e la mamma lo lasciava dormire
con me.”
“Spero che ti passi presto.”
“Fa un certo effetto, comunque. Fino ad un giorno la spii in silenzio, ti ripeti che è merce per altri, e
che certe donne non dovrebbero nascere, per non creare troppa invidia. E, di punto in bianco, ci cominci a
giocare, le lasci di nascosto regali sui banchi, come i romantici d’altri tempi.”
“Si, delle elementari!”
Simone si rigirò tra le mani il drago, la pelle di bianca carta a quadretti, il muso feroce nella sua
triangolare semplicità, la posa minacciosa. Non vedeva l’ora che la lezione finisse, per approfittare della
pausa fra le due ore per lasciare anche quel regalo sul banco della Gatta. Decise poi di rimandare
all’indomani, per evitare di stufarla troppo presto, e prolungare il divertimento. Alla fine riuscì perfino a
concentrarsi sul docente e prendere qualche appunto.
Il giorno seguente, martedì, la lezione cominciava di mattina presto. Essendo quello che abitava più
vicino alla facoltà, toccava a Simone il compito di arrivare a un quarto d’ora prima per prendere i posti,
abbastanza vicini da poter leggere agevolmente la lavagna, ma non troppo per non regalare al docente la
visione gratuita del suoi sbadigli. Quel giorno, però, era arrivato con almeno mezz’ora d’anticipo. Voleva
essere sicuro di trovare posto subito dietro alla Gatta, in modo da studiarne di nascosto la reazione
quando, poco più d’un ora dopo, avrebbe trovato il drago.
La trovò nell’aula, sola, già intenta a rileggere gli appunti ordinati del giorno prima, e pensò che
avrebbe dato non so cosa per poter avere anche lui una frazione dell’impegno che certa gente dedicava
allo studio. Era a metà circa delle cinquanta file di lunghi tavoli che presto si sarebbero riempite di
studenti, su un posto esterno. Senza far rumore, e con apparente disinvoltura, lasciò cadere giacca e
cartella dietro di lei, prenotando così due seggiole.
Si diresse poi al bar interno dell’istituto, per assecondare un’improvvisa voglia di caffè con brioche,
nell’attesa dell’arrivo di Aldo.
Nell’ora di lezione che seguì Simone fu più che mai attento e silenzioso. Non voleva dare nell’occhio,
o passare per troppo distratto agli occhi della Gatta. Era impegnato a fissarle la schiena ed i capelli,
assorto nel tentare di percepire il suo profumo, riflettere che era la prima volta che si trovava così vicino a
lei, e che non era possibile, a ventun anni, emozionarsi a tal punto per così poco.
“A vederti così silenzioso, direi che ti fa bene la vicinanza d’una ragazza. Se non sapessi che non sai
neppure di cosa sta parlando il docente” lo stuzzicava Aldo, a bassa voce, perché la Gatta non lo potesse
sentire.
Simone fissava la forma ovale della testa, le spalle strette, che scendevano stringendosi ancora di più
nel raggiungere la vita. Osservava le braccia sottili, il colore grigio scuro della tuta che si era messa quel
giorno, tutta l’attenzione che stava mettendo nel seguire la lezione. Si trovò a desiderare di allungare le
braccia, circondarle la vita, e rimanere, abbracciato a lei, senza bisogno d’altro, finché il tempo lo avesse
permesso.
“Sei proprio arrapato!” commentò Aldo, attirando la sua attenzione con una piccola gomitata. “Stai
attento! Se continui a fissarla così intensamente le farai un buco nella schiena!”
Simone non rispondeva, si limitava a ridacchiare in silenzio, nascondendosi con una mano alle
occhiate che il docente, di tanto in tanto, lasciava scorrere sulle bancate di alunni. Annuì, anche se ciò che
Aldo aveva detto non era del tutto vero. Arrapato era inesatto, non riusciva a rivolgere alla ragazza i
pensieri che erano rito per le altre: tastare i loro bei culi sodi, infilare loro la lingua dove era possibile,
appoggiarle nude ad un muro e sfogarsi come gli suggeriva il lato più animale della fantasia. La Gatta gli
ispirava invece tenerezza, affetto, calore, non riusciva ad immaginare di possederla e basta, magari farle
del male, sottometterla ai suo desideri. Un abbraccio, due parole, fissarla in quel volto così esotico e
affascinante, non serviva altro.
“Promettimi una cosa, Aldo” sussurrò d’un tratto all’amico, quasi spaventato dall’ultimo pensiero. “Se
per caso vedi che mi innamoro troppo… fermami!”
“Una parola! Come devo fare?”
“Usa la fantasia. Che ne so… comincia a provarci tu con me e convincimi che sono meglio i
maschietti…”
“Ma va!”
La prima pausa della mattina era quasi finita. Simone stava al suo posto, voltato verso Aldo ed intento
a sottoporlo agli ultimi indovinelli trovati navigando su internet. Non si fidava a guardare verso la fila
davanti, dove il suo drago feroce minacciava le penne colorate della Gatta. Faceva finta di nulla,
attendendo il suo arrivo, per studiarne la reazione.
Aveva aspettato che lei si fosse alzata, diretta come sempre al bagno o ad una qualsiasi destinazione a
lui sconosciuta, attendendo con pazienza che anche i posti vicini fossero vuoti, e che nessuno lo potesse
guardare. Si era alzato in piedi, aveva disteso le braccia, facendo finta di stiracchiarsi, si era piegato un
po’ più avanti del necessario ed aveva fatto scivolare l’origami in posizione. Per poi tornare a sedersi,
senza neppure guardarsi intorno, come nulla fosse successo.
“Io non lo avrei, tutto questo coraggio” ammise Aldo, intuendo i pensieri dell’amico.
“Non è coraggio. E’ incoscienza. Tu stai serio e non farmi scoprire.”
Gli studenti raggiunsero i loro posti, ed anche Simone si girò verso la lavagna, la testa appoggiata tra
le mani, i gomiti puntati sul banco. Proprio mentre la Gatta lo raggiungeva da dietro, si infilava al posto e
si sedeva. Per un attimo gli occhi del ragazzo si trovarono a meno di dieci centimetri dalla silhouette della
morbida rotondità del seno di lei, e temette per un istante che sarebbe arrossito, facendosi scoprire.
Osservò la Gatta sedersi, prendere la penna, accorgersi all’improvviso del regalo. Lo prese tra le dita,
con delicatezza, per non rovinarlo, e si voltò da un lato, quasi lo volesse mostrare ad un ipotetica amica
immaginaria. Simone la vide così di profilo, il sorriso che prendeva forma, la bocca che da piccola e
sempre socchiusa si allargava fino alle guance. Per un attimo gli mancò il respiro, da quanto era
incantevole quello spettacolo, e pensando che era stato lui a renderla felice.
Ma durò soltanto un istante. Il docente riprese a parlare, e la Gatta si voltò verso la lavagna.
“Che bocca. Guarda come si allarga, da un buco di mezzo centimetro quando è seria arriva a farle il
giro della testa! Fa impressione” fu l’impassibile commento di Aldo.
“Devo picchiarti? Che fine ha fatto il mio drago?” Simone era seduto subito dietro la ragazza, mentre
l’amico era un po’ a lato, poteva quindi scorgere cosa faceva.
“Niente. L’ha messo sopra il foglio degli appunti. In piedi.”
“Ottimo!”
Mercoledì fu la volta dell’unicorno. Solito piano di battaglia: sedersi in prossimità della Gatta,
aspettare che se ne fosse andata, osservare la sua reazione nel trovare l’inaspettato regalo sul banco. Due
secondi di gioia nello spiarne il sorriso innocente.
“Ha gradito anche oggi. Curiosità femminile” commentò Simone con Aldo, sul corridoio, durante la
pausa successiva a quella in cui l’origami del giorno aveva conosciuto la nuova padrona.
“Basta che non si stufi. Io continuo a dire che è una cagona.”
“Non ci voglio credere.”
“Tu come la giudichi, una che si mette il fondotinta anche sulle mani?”
Simone sgranò gli occhi, stupito anche dalla naturalezza con cui Aldo gli confessava una cosa tanto
assurda. “Sei sicuro?”
“Ma si, l’ho visto ieri, quando ero seduto dietro di lei, a lato. Lascia qualche macchia di fondotinta sui
fogli. Anche il tuo draghetto aveva l’ala un po’ sporca, dopo che lei l’aveva toccato.”
“Che si metta sempre fondotinta l’avevo notato… anche se per me starebbe meglio senza… dopotutto
lo mette di un colore chiaro, e non mi pare che abbia brufoli da nascondere o lineamenti particolarmente
marcati. Però sulle mani… è la prima volta che sento una cosa del genere.”
“Perché è una cagona. Una di quelle che si truccano per venire al corso, e far arrapare la gente. Come
la Diva. Sei stato tu a farlo notare per primo.” La ragazza in questione scambiava quotidianamente le aule
della facoltà per la passerella d’una sfilata di moda, vista la cura con cui si vestiva, pettinava a truccava.
Era piuttosto carina, a dire il vero, nonostante lo sguardo perso ed il modo cinematografico di fumare le
sigarette lasciassero intuire che se la tirava non poco. Da qui il soprannome.
“Non è vero. L’hai mai vista scollata, con la minigonna, o soltanto il maniche corte?” Il look della
Gatta non lasciava mai intravedere un solo centimetro di carne più del necessario. Perfino le maglie che
portava, benché giovanili, avevano tutte il collo stretto.
“Avrà freddo. Chissà, magari si sarebbe messa il fondotinta anche sulle braccia e sulle gambe!” Aldo
scoppiò a ridere, e l’amico decise di lasciar perdere il discorso, anche se lo convinceva poco.
“Comunque oggi, appena finita l’ora, si è precipitata fuori. Ed è ritornata a fine pausa, un po’ in
ritardo. Si vede che il gioco la intriga.”
Simone vide Paffuto che si avvicinava e lasciò cadere il discorso. Il ragazzo cominciò a chiedere se
stavano capendo qualcosa di analisi due, senza neppure salutare.
Che tipo assurdo pensava Simone ogni volta che se lo trovava davanti. Non ricordava neppure il suo
nome, ma era bello starlo ad ascoltare. Basso, grassoccio, la pelle chiara e le guance rotonde che facevano
venir voglia di morderlo. Capelli ricci, nerissimi, occhi piccoli. Tenero quanto un orsacchiotto. Sempre
incazzato, pieno di lamentele, con un gergo da scaricatore di porto.
“Ogni volta che provo a fare un esercizio sono sacramenti che volano e cazzi per aria! Non capisco
neanche cosa c’è da fare e su questi puttana di libri, cazzo, neanche una puttana di soluzione o solo il
risultato ma non ti spiega come fare” stava commentando ad Aldo, mentre Simone evitava di guardarlo
negli occhi per non ridergli in faccia.
“Guarda nelle ultime pagine… o alla fine di ogni capitolo” cercava di calmarlo il biondo, che mal
nascondeva un certo divertimento.
“Per me, cazzo, è turco, ti fanno di quelle soluzioni che sono tanto che un esercizio e continuano: vedi
esercizio tre capitolo cazzo ne so, e di qua e di la e non si capisce una puttana!” Paffuto se ne andò
semplicemente via, continuando a imprecare tra se, in cerca di qualcun altro che lo ascolti.
“Non so come hai fatto a non ridergli in faccia” commentò Simone, osservandolo camminare come un
pinguino.
“Più che altro, faccio una fatica enorme a capire cosa dice. Sembra che dica parole a caso, e ogni frase
sono tre imprecazioni.”
“Un personaggio che farà storia. Tornando alla Gatta, dici che mi convenga continuare a giocare e
aspettare che mi scopra, o andare subito allo sbaraglio?”
“Vai subito. Altrimenti penserà che sei solo un bambinone, ma che non hai coraggio. E così, quando ti
avrà mandato a quel paese, potrai tornare a dedicare la tua attenzione alle lezioni.”
“Più che altro, è il solito problema. Quello di come attaccare discorso. Anche se con il fatto che le
sono piaciuti gli origami, dovrebbe essere più semplice.”
“Guarda, io il coraggio che hai tu me lo sogno… però dovresti tenerti sul simpatico. Che ne so,
presentati davanti a lei con un cioccolatino in mano. O una caramella.”
“E’ assurdo! E poi lei non mangia.” Alludeva ovviamente alla magrezza della ragazza. Più volte lui e
Aldo avevano scherzato sul fatto che non ingurgitasse cibo, ma si nutrisse per via flebo. Sempre
dissacrare un po’ i propri miti, la regola prima di Simone. “Voglio dire, io mi presento davanti a lei, e le
faccio: vuoi una caramella? E lei: cos’è? E io: una caramella, la mangi ed ha un buon sapore. E lei:
mangiare? Che vuol dire? E io: la metti in bocca e la succhi. E lei, guardandomi con sorpresa: no, non
sono fatti così!”
Aldo scoppiò a ridere, fino a diventare rosso in faccia: “Ma dai, sei cattivissimo!”
La fonte prima di ispirazione per la comicità di Simone erano i pompini. Una cosa che al biondo
faceva abbastanza senso, il che rendeva più divertente spiazzarlo con una battuta inaspettata e improvvisa.
“Comunque, non so se lo hai notato, ha sempre nello zaino una bottiglietta d’acqua. Di quelle da tre
quarti di litro, di plastica. Ogni tanto la tira fuori, e beve. Come un cammello. Non ho mai visto una
persona bere così tanto. O davvero si nutre soltanto d’acqua, cosa che spiegherebbe il suo principio di
anoressia, o ha una deformazione da pompino mai vista: se non succhia qualcosa di vagamente fallico
ogni venti minuti muore.”
“E tu, poi, gli mandi gli origami di draghetti e maialini!”
Simone ritornò serio: “Ho deciso. Domani comincio a farle capire chi sono. Non mi presento
direttamente, mi limito a farmi scoprire. E vedo lei che fa.”
“Sei pazzo. Dai, ritorniamo ai nostri posti. Ma quanto dura, questa pausa?”
Giovedì mattina Simone era nuovamente arrivato alla facoltà con mezz’ora buona di anticipo. Aveva
trovato la Gatta in aula, al suo posto. Sempre verso metà delle file, all’esterno. Aveva lanciato giacca e
cartella con noncuranza, stavolta per prenotare i due posti davanti a lei, ed era uscito per dirigersi al bar.
Qui aveva dato l’assalto al tavolino dei depliant, dove aveva prelevato un pacchetto di “Studente oggi.”
Si trattava di una pubblicazione bimensile della provincia. Un paio di fogli A4, quattro facciate di
foto, articoli privi di interesse e avvisi di borse di studio e progetti Erasmus all’estero che mai lo
avrebbero riguardato. Era carta sottile, di seconda scelta, e per plasmare qualche animaletto andava più
che bene. Quel giorno sarebbe toccato al pegaso, un cavallo alato non particolarmente difficile ma
davvero spettacolare da vedere, specie per via della coda, realizzata increspando la carta in modo solo
apparentemente casuale.
La prime due ore di corso Aldo non sarebbe stato con lui, e forse era meglio così, perché preferiva non
coinvolgerlo in ciò che stava per fare. Senza contare che, se lo avesse avuto vicino, magari incredulo e
imbarazzato, e per sbaglio lo avesse guardato in faccia, sarebbe sicuramente scoppiato a ridere. Il che, a
lezione, davanti al docente, alla Gatta ed altre duecento persone, sarebbe stato abbastanza sconveniente.
Aveva comunque prenotato un posto, per le due ore successive, ma anche per non avere nessuno vicino
che lo potesse disturbare.
Lordandosi viso e maglietta con lo zucchero d’una brioches alla crema, per poi pulirsi la barba
rigorosamente con la manica, aveva aspettato che l’aula cominciasse a popolarsi, ed aveva raggiunto la
sua posizione. Il plico degli “Studente oggi” finì al suo fianco, sul pezzo di banco destinato ad Aldo. La
Gatta era rimasta seduta al suo posto, intenta a rivedere i vecchi appunti, completamente incurante del
mondo che la circondava.
Arrivò il docente, sistemò il microfono, intimò agli studenti di cessare il loro brusio. Cominciò la
lezione, e la lavagna non fu avida di nomi impronunziabili che spaziavano da Gauss a Weierstrass, da
Taylor a Cramer, e via dicendo. Si vede che, per scoprire qualcosa riguardo alla matematica, bisogna
avere un nome stupido rifletté Simone, sforzandosi di strappare a se stesso almeno mezz’ora di
attenzione. Cioè il massimo che il docente sarebbe riuscito ad ottenere dagli studenti, come dimostravano
le lezioni dei giorni precedenti.
Simone osservò il ragazzo davanti a lui, riconoscendolo anche di schiena. Scarabocchio. Non era un
soprannome, stavolta, si chiamava proprio così. O “Scarabacchio”, come spesso scappava ai docenti
quando facevano gli appelli prima degli esami. Un ragazzo molto particolare, sia nel viso da perfetto
imbecille che negli atteggiamenti. Si era da poco tagliato i capelli, riuscendo a diventare ancora più
brutto.
Scarabocchio era solito mettersi vicino a due che parlavano degli affari loro, origliando
spudoratamente i discorsi. Appena i malcapitati tiravano in ballo qualcosa di anche lontanamente
scolastico lui si buttava, intromettendosi senza tanti perché nella discussione, ovviando ai loro dubbi e
fornendo spiegazioni. Anche se non ne imbroccava una. Faceva di tutto per essere simpatico, attaccare
bottone, ma proprio per questo risultava spesso innaturale, sforzato, quasi ripetesse soltanto un copione
già collaudato invece che pensare a ciò che diceva. Simone sperò di non apparire mai così alla Gatta.
Arrivò il tanto atteso momento, con il brusio che cominciava a salire, qualche sbuffo che si alzava
mentre le mani alzavano la manica in cerca dell’orologio, e le penne smettevano di scorrere. “Tanto c’è
sul libro” disse qualcuno, chissà dove.
Simone si distese sulla seggiola, gambe distese, praticamente sdraiato. Mise mano al primo degli
“Studente oggi”, e cominciò a piegare. Diagonale, strappa a forma di quadrato, diagonale, volta, metà,
metà, apri, richiudi. Orecchio di coniglio, apri, rovescia, richiudi invertendo la piega. Affondo alla punta,
volta, ripeti. Incastra, increspa, scava. Due zampe. Quattro. Una coda. Una testa. Dieci minuti scarsi e
l’unicorno era pronto. Lo osservò con compiacimento e lo appoggiò al suo fianco, in cima al plico di carta
che erano stati i suo fratelli, in modo che la Gatta lo potesse vedere. Aspettò quindi la pausa, in silenzio,
resistendo alla tentazione di voltarsi e spiare se la sua bella aveva ricevuto il messaggio.
Arrivò la fine dell’ora. Simone rimase al proprio posto, sguardo in avanti, finché non la sentì alzarsi
ed andarsene. Aspettò come al solito qualche minuto, quindi si guardò attorno, fece scivolare l’unicorno
sugli appunti della Gatta ed uscì in direzione del bar.
Dieci minuti dopo si ripeté il copione dei giorni precedenti, con Simone che aspettava in silenzio
fingendo indifferenza, lei che arrivava in ritardo, e si lasciava sfuggire un’esclamazione soffocata nel
trovare l’inaspettato regalo. Anche se l’aveva dietro le spalle, il ragazzo degli origami fu sicuro che si
fosse messa a sorridere.
Esaltato, prese un secondo foglio dalla sua biblioteca personale di “Studiare oggi”, e cominciò a
plasmare il maiale con le ali, cavallo di battaglia. “Dov’è che l’ho già visto?” si lasciò scappare, a voce
alta, mentre lo appoggiava al suo fianco, e trasformava un terzo pezzo di carta, stavolta ritagliato in modo
da formare un quadrato più piccolo, nel figlio della sua creatura prediletta. Entro la fine dell’ora avrebbe
completato la famiglia, il suo recinto personale di cinque porcelli pennuti di grandezza decrescente. Era
impossibile che la Gatta non l’avesse scoperto.
Aldo salutò Simone con un sorriso a trentadue denti.
“Beato te che puoi dormire due ore di più, il giovedì mattina!” rispose al saluto Simone, indicandogli
dall’entrata dell’aula dov’era il suo posto.
“Non credo sia stato troppo sveglio neppure tu.”
“Come no? Guarda li, il mio piccolo cortile!”
Aldo portò la cartella al suo posto, osservò per un attimo la bizzarra cucciolata che si rincorreva sulla
torre di “Studiare oggi”, e ritornò da Simone. “Caffè?” chiese, indicando la strada per il bar.
“L’ho già preso, ma ti faccio compagnia.”
“Ho visto Carla, stamattina” riprese Aldo, cercando nelle tasche qualche moneta da infilare nella
macchina.
Simone gli porse il suo portafoglio, teatralmente. “Tieni pure. Se è passata lei, ne hai proprio
bisogno!”
“Tu ci scherzi.” Aldo era stranamente serio.
Simone lo osservò inserire le monete, prendere il caffè e mescolarlo, prima di chiedergli spiegazioni.
“Niente. L’ho incontrata all’ingresso, per caso. Cinque minuti in tutto” cominciò Aldo, sorseggiando
nel frattempo la bevanda scura. “Cosa hai fatto ieri, io ho visto un film del cavolo, e le solite cose che non
interessano a nessuno, ma che fa sempre piacere sentirsi dire. Poi mi chiede se sono usciti in copisteria gli
ultimi temi di analisi due.”
“Certo che sono usciti. E’ da dieci anni che li raccolgono di volta in volta.”
“Me l’ha comunque chiesto, e voleva sapere anche se io li ho già presi.”
“Naturalmente voleva farseli prestare” lo anticipò Simone. “Con la scusa che la copisteria è sempre
piena di gente, sono tanti e li vuole vedere prima di ordinarli, e…”
“Peggio! E’ arrivata a chiedermi se glieli posso fotocopiare io!”
Simone trattenne una risata per rispetto ad Aldo. “L’hai mandata a cagare, ovviamente.”
“Non proprio.”
“Ho capito. E dopo che le hai detto di si, che anzi è per te una gioia poterle fare un favore, lei cos’ha
fatto?”
“Ha detto di aspettare un attimo, che correva in aula a prendersi un posto, e non è più tornata.”
“Le hai fatto notare, vero, che anche tu stavi andando verso la stessa sua aula?”
Aldo fece un gesto di stizza: “Non è questo!”
“No? Non è fatto che continua a fregarti… è che lo fa sempre con lo stesso modo?”
“Ma no… è che ieri, sull’autobus, ho visto lo Sbanfa. Sai, quello che ogni tanto è con lei e non si fa
mai i cazzi suoi. Mi ha detto che ha il ragazzo.”
“Ti dispiace sapere che quel mezzo gay dello sbanfa è assieme ad un uomo?”
“No, è Carla che ha trovato il ragazzo!”
“Lo so, era una battuta. E tu sei un po’ geloso.”
“Si, e soprattutto mi incazzo a vedere che non mi è ancora passata. Dovrei fregarmene, penso che alla
fine non mi importa nulla, ma certe cose fanno ancora stare male. Almeno se ne andasse una volta per
tutte, e invece torna a infierire, scroccare, non so neanche se se ne accorge di come si comporta! Eppure
non riesco a togliermela dalla testa, e allora mi incazzo più con me stesso che con lei.”
“Sei sicuro che abbia il ragazzo? Se così fosse, sarebbe certo uno della facoltà, e non l’ho mai vista
abbracciata o in tenero atteggiamento con un uomo, anche perché te l’avrei detto. Per me è lo Sbanfa che
non smentisce la sua fama.”
“Dai, anche l’altro giorno, quando siamo passati vicino al suo banco, e aveva un cioccolatino sopra.
Avrà un ammiratore, come fai tu con i maialini, o gliel’ha regalato qualcuno.”
“Un cioccolatino!”
“Ma si! Di quella marca da innamorati, che fanno sempre la pubblicità.”
Simone tentò di sdrammatizzare quella situazione, che rischiava di cadere nel ridicolo. Aldo era un
ragazzo molto maturo per la sua età, postato e cauto nei giudizi, ma quando si trattava di Carla era in balia
di se stesso. “Se lo sarà comprata da sola, per fare un po’ di scena. O gliel’ha regalato qualcuno per il
fatto che quel tipo di cioccolatini, a campana e con la nocciolina sopra, hanno la forma di una tetta. Così
si deciderà a farsi il silicone e diventare finalmente una donna normale.”
Aldo scoppiò a ridere. Quel genere di battuta faceva sempre effetto, specie nei momenti di tensione.
“Così va bene. Ma è ora di pensare seriamente a cosa fare.” Osservò gli studenti del bar che, visto
arrivare il docente, si avviavano verso l’aula. “Io faccio un salto al distributore delle caramelle, a
prendermi un pezzo di cioccolata. Tu, intanto, fai una corsa, preleva la mia giacca e le nostre cartelle, e
raggiungimi in biblioteca.”
“Per fare cosa?” Aldo era stupito.
“Per decidere del tuo futuro. Ci sono un paio di cose ancora poco chiare, sulla tua storia, che non ho
mai avuto il coraggio di chiederti… ma adesso mi è venuta una certa curiosità.”
“Ma c’è lezione!”
Simone lo zittì con un gesto della mano e si allontanò a passo veloce. Non ammetteva repliche. Era
arrivato il momento di farsi raccontare da Aldo come aveva conosciuto Carla, perché provava per lei una
tale attrazione, e se c’era verso di levargliela dalla testa. L’aver saltato un paio d’ore di lezione l’avrebbe
messo un po’ nel panico, giusto lo stato d’animo adatto per cavargli le parole di bocca.
La cioccolata andava sempre bene, da tenere in tasca, per addolcire i momenti tristi e da offrire per
rompere gli attimi di silenzio. Per sicurezza, ne prese ben quattro piccole sbarrette. Fondente, il gusto
preferito dell’amico. E poi non era vero che faceva venire i brufoli.
Raggiunse la sala sopra la biblioteca, quella dove si ritrovavano i ragazzi a studiare durante le ore
buche, ma era possibile conversare e fare tutto il casino che si voleva. Trovò perfino un tavolino libero
con due posti, su cui si lanciò all’istante. Aldo comparve poco dopo.
“Mi ha parlato la Gatta” disse, tutto sorridente, lasciando cadere a terra tutto il suo ingombrante carico
di giacche e cartelle.
“Cosa?”
“Ero li che raccattavo i tuoi porcellini, quando mi ha fatto un: “Ehi!” per chiamarmi.”
Simone sobbalzò dalla sorpresa: “No! E cosa ti ha detto?”
“Di dire al mio amico che si presenti. Penso si riferisse a te.”
“Guarda un po’! Ma come lo ha detto?”
“Come vuoi che lo abbia detto?” Aldo faceva un resoconto dei fatti impassibile, come si fosse trattato
della cosa più naturale del mondo. Simone avrebbe scommesso che, trovandosi la Gatta davanti, sarebbe
arrossito e scappato via, specie sapendo la storia degli origami. Sei un grande pensò, piacevolmente
sorpreso. Solo che capisco ancora meno come mai non riesci a sputare in faccia a Carla quello che pensi.
“Ci sono mille modi per dire una cosa del genere! Digli che si presenti che gli voglio fare un pompino.
Digli che si presenti così la smette una volta per tutte. Digli che gli presenti che lo faccio conoscere a mio
fratello di tre anni e mezzo così giocano assieme. Digli che si presenti che mi sembra un ragazzo dolce e
magari desidera essere allattato da me. Insomma, come?”
Aldo alzò le sopracciglia e fece un’espressione che significava che non ne aveva idea. “Sorrideva”
aggiunse, forse per fare felice Simone.
“Allora domani mi presento. Ma ritorniamo a te…”
Il venerdì Simone aveva lezione di pomeriggio. Quattro ore, tutte in compagnia di Aldo. Tre pause fra
una e l’altra, quindi altrettante occasioni per andare dalla Gatta, porgerle la mano e dirle: “Ehi, sono io
che ti regalavo gli origami. Ti sono piaciuti? Mi chiamo Simone, e trovo che tu sia stupenda.”
Semplice, diretto, sincero. Naturalmente non ci credeva nessuno. Tutto era cominciato per gioco, uno
scatto di follia, ma ora lasciar perdere tutto sarebbe voluto dire che aveva si il coraggio di fare delle
cazzate da bambino dell’asilo, ma non per guardare in faccia una ragazza e dirle una frase. Non gli
importava cosa potesse pensare la Gatta, ma ciò lo riportava alla questione che tanto lo aveva fatto star
male in passato e che ancora non finiva di tormentarlo: quelle prime, stramaledette dieci parole.
Il ghiaccio era in parte rotto, visto che lei stessa desiderava parlargli ed aveva sempre accettato di
buon grado i regali, e sarebbe stato un argomento cui aggrapparsi nel caso di improvvisi silenzi. Bastava
soltanto salutarla e lasciare che il discorso facesse il resto, come succedeva ogni giorno con Aldo, senza
bisogno di dover pensare le parole, preoccuparsi di dire troppo su se stessi o commettere gaffe. La Gatta
poteva essere una rompiballe di prima categoria, come il suo carattere di donna ideale, c’era un solo modo
di saperlo, togliersi quel dubbio per sempre. Eppure non era del tutto convinto.
Ho ventun anni anni, cavolo pensò per l’ennesima volta in quella settimana, mentre portava giacca e
cartella ai soliti posti. Non aveva neppure il coraggio di rivelare ad Aldo le menate che si stava facendo su
una cosa così apparentemente da nulla. Vide la Gatta, al solito seduta al suo posto. Sola, intenta sugli
appunti. L’occasione ideale, un quarto d’ora almeno per conversare in tranquillità. Invece niente,
appoggiò la cartella e la giacca dietro di lei, senza fare alcun rumore, e se ne andò al bar.
Il bel gioco dura poco, una ragazza si stufa in fretta di un giocattolo che non la fa più divertire. Se non
l’avesse fatto entro quel giorno, non ci sarebbe più riuscito, perché oltre al coraggio sarebbero finite le
occasioni. Tre pause, si ricordò, mentre sorseggiava il caffè preso dalla macchinetta. O lo faccio o mi farò
menate per tutto sabato e domenica.
Arrivò la prima pausa, e non successe nulla. Simone stava facendosi spiegare da Aldo l’ultima
incomprensibile frase del docente, e la Gatta arrivò a scappare, come tutti i giorni, verso una meta
sconosciuta al mondo. Il ragazzo aveva sperato che si fermasse almeno un istante, dopotutto era stata lei a
richiedere quella presentazione, già l’aveva individuato fra la folla. Quella fuga lo lasciò un po’ perplesso.
Arrivò la seconda pausa, e Simone era pronto a lanciarsi. Senza dire nulla ad Aldo, d’improvviso, la
prima cazzata che gli fosse venuta in mente, perché una sola parola non ha importanza, fra i mille discorsi
che si possono fare con una persona, spesso non ci si ricorda neppure di come nasce un dialogo. Bastava
rompere il ghiaccio.
Stava seduto, aspettando che lei si alzasse, quando si ritrovò ad una spanna dal naso il sedere di lei. Le
brache di tuta grigio scuro, attillate ed un po’ trasparenti, che lasciavano intravedere non solo le mutande,
ma anche il ricamo di pizzo sui bordi di queste. Di colpo decise di rimandare una seconda volta, troppo
imbarazzato e preso a fantasticare sulla morbida rotondità di quei glutei per fare qualcosa che le
impedisse di scappare.
Mancava una sola occasione, e Simone decise che l’avrebbe fatto punto e basta, per terminare
quell’ossessione assurda fine a se stessa, farla finita una volta per tutte con il suo problema.
Nei cinque minuti precedenti la pausa, Simone non fece altro che ripetersi mentalmente il: “Ciao, io
sono quello degli origami” che le avrebbe detto. Immaginò nei dettagli scena, situazioni e possibili
risposte di lei. Ci pensò così tanto da non vedere l’ora che arrivasse la pausa e, come è classico in questi
casi, quando il docente l’annunciò desiderò avere ancora un po’ di tempo per prepararsi.
Aspettò che lei si fosse alzata, e si mise in piedi a sua volta. Osservò le spalle strette e la schiena
sottile della gatta, l’ondeggiare dei capelli sciolti mentre si voltava. Si guardarono negli occhi, Simone
aprì la bocca per parlare, ma non ne uscì alcun suono. Rimase impalato, mentre lei lo oltrepassava, quasi
senza accorgersi di quello che sarebbe potuto succedere. Evidentemente, non gli importava nulla di lui.
Si sedette nuovamente al suo posto, lasciando cadere la testa sul quaderno.
“A proposito, quand’è che ti presenti alla Gatta?” chiese Aldo, come gli fosse venuto in mente solo in
quel momento.
“Non infierire su questo cadavere” rispose Simone, con fare drammatico.
“Cosa dici?”
“Dico che sto per morire di crepacuore.”
Aldo lo scavalcò per passare sul corridoio esterno alla fila di banchi: “Dai, vieni al bar.”
“Lasciami qui. Da solo. Devo auto punirmi.”
Aldo alzò le spalle e se ne andò, probabilmente senza capire cosa fosse successo. Simone strappò un
foglio di carta dal quaderno, lo piegò, lo strappò nuovamente per farlo quadrato, e cominciò a modellare il
suo maiale. Tanto per rilassarsi.
Arrivò a realizzarne uno nei cinque minuti scarsi della pausa, un record di velocità, anche se venuto
non perfetto come al solito. Aveva il muso un po’ troppo allungato, quindi decise di approfittarne per
sperimentare una variante: trasformò il piatto nasone in un corno, e fece il rinoceronte alato. Spettacolare.
Arrivò il docente, e quindi Aldo, che tornò al suo posto scavalcando. Alcuni alunni si gettarono
sull’insegnante come un branco di lupi sulla preda, e la cattedra fu sommersa di quaderni che volavano,
fogli di appunti, mentre un vociare scomposto faceva domande e pretendeva spiegazioni. Meglio così, un
po’ più di pausa per tutti.
Arrivò la Gatta, che silenziosamente scivolò al suo posto, inosservata a tutti tranne che a Simone. Ma
si, dai! si disse, quando la ragazza fu seduta davanti a lui, e le picchettò delicatamente col dito sulla
spalla. Cos’altro ho da perdere, ormai?
Lei si voltò, sorpresa ma non stupita. Per un attimo a Simone mancò il respiro. Non l’aveva mai vista
completamente frontale, il più delle volte l’aveva soltanto sbirciata di profilo, di spalle, o di tre quarti nei
casi più fortunati. In quel momento, invece, si voltò completamente verso di lui, il viso vicino come non
l’aveva mai avuto, lasciandosi ammirare in tutta la sua esotica bellezza.
Il volto era davvero lungo e sottile, addirittura troppo stretto per non parere strano. Gli zigomi erano
assenti, e non solo per via del fondotinta. Ma erano gli occhi ciò che più colpiva. Quelle piccole macchie
chiare che sembravano così ingenue, spaesate, quando la si incrociava nei corridoi, gli occhi di una
bambina che guarda con la curiosità e spavento un mondo troppo adulto. Le iridi erano al tempo stesso
d’ebano come le pupille, e tuttavia trasparenti, azzurro che affoga nel bianco, ed ora erano serie, adulte,
che fissavano con intensità quasi riuscissero a vedere oltre ciò che solitamente appare.
Simone si sentì osservare nel profondo, ed il suo senso di disagio aumentò, ma ora che si era girata
doveva dire qualcosa. “Io sono quello…” cominciò, e le mostrò il rinoceronte alato.
“Nicole” rispose lei, allungando la mano. Più che una voce, il suo era uno scampanellio sordo, il
rimbalzare dolce del suono sull’acqua. Il ragazzo sorrise, divertito da quell’ennesima bizzarria, e ricambiò
il gesto. “Simone. Non ti sei incazzata, vero?”
“No, anzi. Sono molto belli. Li hai fatti tutti tu?” Era spontanea, sincera.
Il docente, che nel frattempo si era liberato in qualche modo dell’orda di studenti, aveva ricominciato
la lezione. Simone non seppe più che dire. Imbarazzo, ma anche per il rendersi conto della stranezza della
circostanza, un istante che nelle ore prima si era immaginato in mille modi, tanto da farlo apparire solo
uno sbiadito deja vu. Abbassò lo sguardo, per nascondersi agli occhi puntati di Nicole, che lo
squadravano amichevolmente ma in un modo troppo profondo per non metterlo a disagio. “Si, li ho fatti
io. Questo è l’ultimo” concluse, allungandole il rinoceronte con le ali.
Lei ringraziò con un sorriso tranquillo, lo stesso su cui aveva fantasticato nei giorni precedenti,
scorgendolo appena. Davvero, come diceva Aldo, la bocca della ragazza si deformava in modo strano
quando la muoveva, ma malgrado questo, gli occhi quasi ai lati di quella testa così stretta, nonostante
tutto era stupenda, certo la più bella creatura che Simone avesse mai avuto occasione di vedere.
Nicole si voltò, sparendo nella tradizionale vista di spalle, troppo veloce per fermarla, così come breve
era stato l’attimo in cui Simone era riuscito a parlarle, e di sicuro in seguito si sarebbe rimproverato di
non essere stato più loquace. Il ghiaccio non era ancora rotto, ma almeno aveva fatto il primo passo per
conoscerla, aveva trovato il coraggio di farsi avanti, ciò che più gli importava.
Aldo gli tirò una debole gomitata, e ridacchiò tra se, mostrandogli il pollice alzato.
Simone trascorse il resto dell’ora fingendosi attento, ma pensando nel frattempo a cosa dire a Nicole
appena giunto il termine delle lezioni, per catturarne ancora un momento l’attenzione. Avrebbe aspettato
seduto, mimando disinteresse, preparando nel frattempo lo zaino. Quando anche la ragazza fosse stata
pronta, e si fosse alzata, per poi voltarsi a salutarlo, lui avrebbe fatto altrettanto, si sarebbe accostato, e
l’avrebbe accompagnata all’uscita. Le parole sarebbero arrivate, in qualche modo, se riusciva a starle
insieme più di quindici secondi poi non avrebbe più avuto problemi, un po’ come era successo con Aldo.
Arrivò la fine di quell’ora maledetta, in cui sembrò che l’orologio si fosse fermato. Simone rispettò
appieno il copione che si era imposto, a fare completamente di testa sua fu la ragazza. Invece che voltarsi,
anche solo per accennare un saluto, si limitò a sgattaiolare via col solito fare furtivo, sparendo nella folla,
e lasciando Simone con un palmo di naso.
“Te l’ho detto che è una cagona” tentò di consolarlo Aldo.
“Non ne sono ancora convinto” rispose Simone, serio, avviandosi verso l’uscita a fianco dell’amico.
Ripensava alla tranquilla spontaneità di lei mentre gli diceva che gli origami erano molto belli, che non
era affatto arrabbiata di quegli inaspettati regali. Per quel poco che era capace di giudicare le persone a
prima vista, non era facile crederla scorbutica, antipatica, una che se la tira quando Diva.
Ma aveva pensato alla Gatta anche troppo, per quel giorno. La settimana era finita, poteva finalmente
concedersi due giorni di riposo.
seconda settimana: “sorprese”
capitolo 2
Quel fine settimana il gruppo di Simone era disperso per le più svariate questioni. Il ragazzo avrebbe
avuto voglia di uscire, prendere aria, svagarsi un po’, magari in compagnia di qualche bel boccale di birra.
Invece niente, passò il sabato sera chiuso in casa, a rivedere per la sesta volta la videocassetta di “Clerks”,
il suo film preferito. Aldo aveva anche lui il suo giro di conoscenze, e i due ragazzi si vedevano raramente
fuori dall’orario dell’università, a parte varie occasioni in cui, l’estate passata, erano andati insieme a fare
delle gite in montagna.
Il ragazzo degli origami ne approfittò allora per studiare, trascorrendo due lunghi pomeriggi sui libri.
Era abbastanza soddisfatto, la domenica sera, quando il sonno lo convinse ad andare a letto nonostante
l’orologio segnasse appena le nove. Era riuscito a mettersi in pari con le lezioni, recuperando il tempo
perso a pensare come abbordare Nicole, allenandosi soprattutto nei complicati esercizi di analisi due.
Proprio la delusione per la ragazza lo aiutò ad impegnarsi. Aveva avuto ciò che desiderava, si era
presentato, aveva visto che non era impossibile arrivare a stringere la mano alla più bella donna di un’aula
di cinquecento persone. Però lei se n’era andata via senza salutarlo, inspiegabilmente, non aveva
permesso a Simone di capire se fosse davvero una cagona, come diceva l’amico, o se avessero potuto
andare d’accordo.
Il sabato sera davanti alla televisione, dopo un pomeriggio di studio, sapendo che il giorno dopo
sarebbe stato altrettanto, non era certo il massimo. Da qualche parte, nel mondo, ci sarebbe pur stata una
donna disposta a volergli bene, a scambiare con lui un po’ d’affetto, o semplicemente a passare una serata
insieme in allegria. Chi poteva dire che non fosse la più gran tettona del mondo? Però non si conoscevano
neppure, lei era magari a casa sua, sola, già a dormire, sognando un ragazzo con cui gingillarsi, intenta a
rodersi con lo stesso pensiero di Simone. Perché succedevano cose di questo tipo? Si addormentò al
pensiero degli scherzi che avrebbe potuto fare alla sua compagnia, il fine settimana successivo, per
vendicarsi d’essere stato lasciato solo in balia delle sue menate.
Il sonno in cui cadde la sera prima fu così riposante e profondo che, lunedì, Simone non sentì neppure
la sveglia, e si ritrovò in piedi con quaranta minuti di ritardo. Si rassegnò, tra l’altro senza neppure troppo
dispiacere, a saltare le prime due ore di lezione, in cui avrebbe comunque finito per dormire. Proprio un
bel modo di cominciare la settimana, rifletté, subito dopo l’essersi ripromesso per la centesima volta di
mettersi finalmente d’impegno a seguire, arrivando perfino a sacrificare la domenica.
Incontrò Aldo sul corridoio, nella pausa fra le due lezioni, ed insieme recuperarono un paio di posti
quasi sul fondo dell’aula.
“Ti prometto che domani mattina saremo davanti” cercò di scusarsi Simone, benché Aldo non lo
avesse minimamente rimproverato.
“Meglio così. Senza la Gatta davanti può darsi che tu capisca qualcosa.” Come se ne fosse ricordato
all’improvviso, tirò fuori un piccolo libro dalla cartella, appoggiandolo al banco. “Te lo ricordi?”
L’anno prima, all’avvicinarsi delle vacanze di Natale, Simone aveva fatto una bella sorpresa ad Aldo,
porgendogli inaspettatamente un pacchetto colorato con il classico biglietto d’auguri.
“Per me? Non dovevi!” si era stupito l’amico. “Io non ti ho preso niente.”
“E’ per questo che li chiamano regali e non scambi” era stata la replica.
Aldo aveva allora scartato il pacco, trovando un piccolo libro simpaticamente illustrato. Si intitolava:
“L’arte di abbordare una ragazza.”
“Volevo cercare qualcosa del tipo: tutti i proverbi Italiani ed Americani a confronto” aveva allora
spiegato Simone. “Però non l’ho trovato. Così ho ripiegato su questo. Può darsi che sia utile ad entrambi.
Dai un’occhiata alla dedica.”
Aldo aveva aperto la prima pagina, e cominciato a leggere a voce alta: “Non ti ho regalato questo libro
perché io ritenga che tu ne abbia bisogno, ma solo perché anche tu abbia qualcosa da fare mentre i tuoi
amici andranno a donne!” Era scoppiato a ridere, rosso in viso, con gli occhi stretti.
“Si, me lo ricordo” rispose Simone, prendendolo in mano e sfogliando velocemente le pagine. “Non
mi aspettavo che lo avessi ancora.”
“E’ una cosa comica, ma c’è anche qualcosa di vero. Nel pensare a cosa stavi facendo con la Gatta mi
è ritornato in mente.”
“Ora come ora, sarei io ad averne bisogno. Anche se mi sa che è già ora di lasciar perdere.”
“Perché?”
“Perché ho pensato che lei è una gran figa, come comunemente il gergo giovanile definisce la specie
cui appartiene, sicuramente abituata ad accoppiarsi con gente della sua razza, o presunti tali, e non ha
tempo per certe sciocchezze.”
Aldo non era convinto. “Per lo meno, fra i mille che le corrono dietro e la assecondano, tu sei stato il
più originale.”
“Si, ma ho ripensato a come mi ha ringraziato. Sembrava parlasse ad un bambino. Bello, bellino,
bravo il mio piccolino, ma adesso basta giocare che devo occuparmi di cose da grandi. E’ così, la solita
legge dell’inseguitore!”
“La… cosa?”
“Ragazzo A insegue ragazza B, morendole dietro e facendo regali, gentilezze e simpatie. Ragazzo A è
di solito sentimentale, dolce e sensibile, ragazza B brava ragazza con la testa a posto che, in circostanze
particolari, non è escluso si metta a fare la puttana. Arriva ragazzo C, come “Cafone”, che incontra
ragazza B, come “Bel paio di tette”, magari le da uno spintone, e invece che chiederle scusa le dice di
mettersi gli occhiali nel culo.”
Aldo ridacchiava, ma non osava interrompere Simone. Arrivò nel frattempo il docente, ma il ragazzo
era troppo intento nell’esporre la sua teoria per badarci: “Così ragazzo C insulta ragazza B che,
ovviamente, si innamora di lui. E che ci do che ci do, perché di solito ragazzo C è anche molto porco,
rozzo da far paura e possibilmente puzzolente. E mentre B e C disfano le molle dei letti a suon di sesso,
tipo A, come “Adesso mi sparo”, continua a morire e scrivere letterine d’amore.”
“Non ho ben capito perché alla ragazza dovrebbe piacere il tipo che la prende in giro.”
“Neanch’io. Ma credo sia una cosa di questo tipo: la ragazza ha due pensieri fissi. Il primo è: “Come
sono?” Hai mai incontrato una ragazza del tutto felice del suo aspetto, una che non si lamenti di questo o
di quello?”
“Non ho incontrato molte ragazze, a dire il vero. Carla però non si lamenta mai.”
“Perché lei è una sbanfona! Ma non è che non si lamenti, solo ha paura di dirlo. Ti pare che un
ragazza con le tette come le sue non si debba fare problemi?”
“Ma tu da che parte stai, allora?”
“Va bene, lasciamo stare. Allora, il secondo chiodo fisso è: “Gli piacerò?”. In fondo, cos’è la vera
ricchezza d’una ragazza? Arrapare il maschio pieno di soldi, essere inseguita, ricercata, desiderata. Una
ragazza bella si sceglie il ragazzo, magari fa anche carriera in modo più spedito. Vuoi seminare zizzania
fra due amiche? Mettici in mezzo un uomo! Le ragazze non conoscono l’amicizia, fanno solo branco.”
Aldo era sconvolto. Simone sapeva di esagerare, ma il vedere gli occhi sgranati dell’amico era troppo
divertente per non continuare per quella strada, calcando sempre più la mano: “Insomma, questa è la loro
fortuna. Se tu le metti in crisi, fai quell’atteggiamento scazzato da: “Ma si, saresti anche carina, ma a me
interessano prede migliori” ecco che le colpisci nel profondo, conquistarti diventa più che una sfida, e per
motivi non ancora chiari finisci per essere l’idolo.”
“Assurdo!”
“Lo so. Ma come lo spieghi, allora, che più fai il gentile con una donna, più lei ti rifila tutte quelle
boiate del buon amico e la devi rincorrere per anni, salvo poi vederla morire ai piedi del solito bestione
che sembra appena uscito di galera, e che neanche a dirlo la fa soffrire da matti? Per fortuna ci sei sempre
tu, il buon amico, quello cui può tirare le menate!”
“In effetti… però, sei esperto, per uno che non combina nulla!”
“E’ perché questo che ti ho appena detto lo so per sentito dire, ma non sono riuscito a condividerlo del
tutto.” Scosse la testa. “Cosa vuoi, non è che puoi trovarti davanti ad una ragazza e comportarti secondo
una scaletta già fatta, o ti riduci ad una specie di Scarabocchio. Non puoi neanche pensare che quella che
ti sta davanti sia un’animale, una preda da assecondare con la psicologia… insomma, io le donne le
considero ancora persone.”
“Anch’io la penso così. Credo che chiunque abbia un minimo di maturità lo condivida.” Prese in mano
il libro che gli aveva regalato Simone. “Certo che, se dovessi scegliere fra essere una persona matura…
che però per questo motivo non combina mai nulla… ed un mezzo Orsetto sempre in mezzo alle
donne…”
Orsetto era uno degli studenti più conosciuti del primo anno. Un piccolo mago dell’approccio, che
difficilmente sarebbe riuscito a formulare un pensiero più complesso di: “Ehi, che figa questa qui!” Il suo
modo di operare era quasi automatico: vedeva una ragazza da sola, le si avvicinava con la scusa di:
“Avresti mica una sigaretta?” e via, fiumi di cazzate senza senso, atteggiamenti da mito erotico e maschio
vissuto. Ci aveva provato con tutte le donne degne di tale nome della facoltà, più un paio di manze, tanto
per rimarcare il fatto che era disperato. Quasi sempre veniva snobbato subito dopo la richiesta della
sigaretta, perché pochi desiderano fare amicizia con uno scroccone, ma secondo voci non confermate un
paio di occasioni dovevano essersi concluse positivamente.
Robusto, barba incolta, capelli spettinati, mento quadrato da camionista e linguaggio da vecchio
ubriacone lo avevano reso una specie di simbolo del: “Finché non sono così va ancora tutto bene”, ma più
d’una volta Simone aveva desiderato una frazione di quella spudoratezza, per imparare a lanciarsi,
conoscere le persone, andare avanti sfondando gli ostacoli.
“Forse con Nicole dovrei fare proprio come Orsetto” pensò a voce alta Simone.
“Con chi?”
“Nicole. La Gatta.”
“Ma va! La chiami già per nome?”
Il docente, accorgendosi che nelle ultime file qualcuno era interessato a tutto fuorché a lui, intimò il
silenzio, minacciando di mandare a farsi un giro gli elementi più disturbatori. Aldo, un imbarazzato e
rosso in viso, non staccò gli occhi dal quaderno per tutta la durata della lezione, e Simone si sforzò di fare
altrettanto.
Finita la lezione, Simone salutò Aldo e fece un salto in aula Internet. Voleva cominciare la settimana
in allegria, scaricando da qualche sito dei nuovi origami. La rete era una manna per chi sapeva utilizzare i
motori di ricerca, e l’ora giornaliera concessa ad ogni studente per utilizzare i computer della facoltà
avrebbe dato modo al ragazzo di fare caccia grossa. Certo, c’erano siti bastardi che facevano vedere foto
interessanti senza dare il diagramma di come realizzarli, consigliando invece di comperare dei libri,
oppure pagine web di bambini idioti che ancora mostravano farfalle e uccellini. Ma ormai aveva imparato
a riconoscerle con un colpo d’occhio ed evitarle.
Neanche a dirlo, l’aula Internet era piena. Quindici computer, tutti occupati, più una fila di almeno
otto persone in attesa, in piedi. Simone rimandò. Non che gli mancasse il tempo da perdere, ma
aggiungersi alla coda dei maniaci del computer era tutt’altro che gratificante. L’aula veniva infatti usata
per tutto tranne che per scopi didattici, come raccomandava il regolamento. Caselle di posta elettronica,
chat line, siti musicali o di motori, dischetti che si riempivano di pornografia assortita, e molto altro
ancora. In fondo, la vera essenza dell’esistere della grande rete.
Guardò l’orologio, accorgendosi che aveva appena perso l’autobus. Si incamminò in tutta calma verso
la fermata, subito dietro la facoltà, visto che aveva più di venti minuti di tempo prima che arrivasse il
successivo. Almeno, avrebbe viaggiato più comodo: il mezzo dell’una meno cinque era molto meno
affollato del precedente, dato che lo prendevano soltanto gli studenti che uscivano in ritardo dalla quarta
ora di corso.
Alla fermata trovò infatti solo tre persone. La prima era uno stangone che doveva essere già al quarto
o quinto anno, la seconda un ragazzino che aveva la faccia da: “Io studio finché la mia pelle non cambia
colore”. L’ultima era Nicole. Simone si avvicinò a passi lenti, guardandola di striscio. Lei sembrò
accorgersene.
“Ciao” la salutò, sforzandosi di sembrare disinvolto.
Nicole rispose con un sorriso.
Aspettava l’autobus, non quello di Simone, ma avrebbe avuto almeno dieci minuti di tempo prima che
quello di lei arrivasse. Chissà se prendeva sempre quello dopo, per evitare la calca di studenti? Visto
come tendeva ad isolarsi, era possibile. Fatto sta che era sola, senza nessuno con cui parlare per ingannare
l’attesa, e magari ne aveva voglia. Si erano salutati, e lei aveva risposto sorridendo. Nessuno li avrebbe
disturbati. Un’occasione favorevolissima per parlare, che forse non si sarebbe più ripetuta.
No che non si ripeterà. E’ la legge dei tre giorni si ricordò Simone. Se si saluta una persona per tre
giorni di fila, ma non le si parla mai, il quarto si smetterà anche di salutarla.
Sapeva questo, era contrario al ragionamento fatto quella mattina con Aldo sul fatto che, con le donne,
bisogna farsi rincorrere. Moriva dalla voglia di scambiare due parole con lei. Tuttavia rimase immobile,
fissando il vuoto lontano da Nicole, maledicendo se stesso e l’autobus che non arrivava a toglierlo da
quella situazione imbarazzante. Stette in disparte, aspettando che il grosso mezzo arancione gliela
portasse via, pregustando già con ironia le menate che si sarebbe tirato di li a poco.
Meglio così decise infine. Non ci può essere una storia senza dialogo. Se faccio così fatica solo a
parlarci, è inutile che mi faccia tanti problemi. Lascio perdere e me la tolgo dalla testa una volta per
tutte.
Martedì mattina, arrivando in aula con il consueto anticipo, Simone non vide Nicole. Strano, ma
meglio così, evitando l’imbarazzo della scelta: sedersi dietro a lei e non parlarne neppure, o prendere
posto dall’altra parte dell’aula per farle capire che tutto era finito. Prese possesso di due seggiole esterne,
come era ormai tradizione, verso metà della stanza. Lasciò giacca e cartella e si diresse al bar, per
rispettare la buona abitudine della brioche.
Fu uno degli ultimi ad entrare in aula. Aveva sperato di incontrare Aldo sul corridoio, ma l’amico non
era ancora arrivato. Doveva essere la giornata dei ritardi, forse per via della pioggia, dato che anche
l’autobus di Simone aveva infranto la tabella di marcia di qualche minuto. Si sedette al suo posto, prese il
quaderno dallo zaino, lo aprì sull’ultima pagina di lezione, stappò la penna, scrisse la data. In tutta
tranquillità, psicologicamente pronto a donare al docente la propria attenzione.
“Scusa, è libero quel posto?” gli chiese una voce simile ad uno scampanellio sordo, che riconobbe
prima ancora di essersi voltato. Era Nicole, zainetto in mano, sorridente. Vestita con una maglietta non
eccessivamente attillata, color rosso sbiadito, ed un paio di jeans bianchi. Stava dicendo proprio a lui,
indicando con lo sguardo la seggiola riservata ad Aldo.
Simone rimase a bocca aperta. Esitò, ma poi fece segno di si con la testa, e si alzò per farla entrare. La
sorpresa era grande, ma più che altro lo imbarazzava il non sapere come comportarsi. Poteva essere la
volta buona per attaccare bottone con la ragazza, ma ormai aveva deciso di rassegnarsi, e sarebbe stato
davvero imbarazzante se lei, completamente dedita alla lezione, avesse dimostrato di non gradire
distrazioni alzandosi ed andandosene via davanti a tutti. Non sembrava poter essere così cafona, ma non
si poteva mai sapere.
Cominciò la predica, e Simone si sforzò di fissare con intensità la lavagna, nel tentativo di ricopiare,
magari capendo, ciò che il docente tentava di spiegare. Ma era zero assoluto, leggeva senza comprendere,
chiedendosi cosa Nicole stesse facendo al suo fianco, ma senza il coraggio di gettare su di lei una sola
occhiata.
Ecco, prima origami per poterle parlare, ed ora magari ci faccio la figura di quello che la snobba
rifletté, così come si rese conto che, pur imbarazzandosi molto in simili situazioni, in quel momento stava
decisamente passando il limite. La vicinanza di Nicole, il parlarle, il solo guardarla, era quasi un esame,
ed arrivò a pensare che la causa di tutto fosse proprio lei, con la sua bellezza esotica e tutte le sue
stranezze. Non era del tutto convinto, ma per lo meno servì a farlo sentire meno colpevole ed impacciato.
Arrivò un piccolo gruppo di studenti tra cui Aldo, rosso in viso per l’imbarazzo d’aver tardato, d’avere
ancora addosso l’impermeabile fradicio di pioggia e del dover cercare posto a lezione iniziata. Raggiunse
Simone a passi svelti e silenziosi, certo di trovare la solita seggiola prenotato. Il ragazzo degli origami lo
salutò con un gesto della mano, ed una scossa di capo assieme ad una smorfia per far capire all’amico che
non avrebbe trovato da sedere. Aldo vide la Gatta, spalancò gli occhi come in preda ad un’improvvisa
illuminazione, e se ne andò sorridendo verso le ultime file, non senza aver dato a Simone una pacca sulla
spalla d’incoraggiamento.
Chissà cosa doveva aver pensato. Comunque, ora non poteva deluderlo, sapendo che avrebbe passato
il resto della mattinata a cavarsi gli occhi da un angolo buio. Il brutto di portare le lenti a contatto. Fatto
sta che non avrebbe voluto trovarselo davanti sul corridoio, la faccia rotonda per metà riempita da un
sorriso a trentadue denti che sembra voler dire: “Allora, com’è andata, furbacchione!” e dover rispondere:
“Niente da fare, sono troppo timido.”
La prima cazzata che ti viene in mente rifletté, pensando al libro che l’amico aveva portato il giorno
prima, che lui stesso gli aveva regalato. Sincero, spontaneo, educato. Rompi il ghiaccio e via, il passato è
passato, sguardo avanti o al limite all’altezza delle tette. Se non sai cosa fare ascolta cosa dice il tuo
cazzo: sempre dritto!
La sentì muoversi al suo fianco, e si voltò appena, per spiarla prendere la bottiglietta da mezzo litro
d’acqua minerale dallo zaino, e scolarne quasi la metà in una serie di piccoli sorsi. Si che la lezione era
cominciata da neanche venti minuti.
Aspettò che avesse finito. “Fa caldo, eh?” In realtà, a causa della pioggia, era più fresco del solito.
“Scusa?” chiese lei, cadendo dalle nuvole. Però sorrideva.
“Niente, pensavo alla pioggia. Una bella seccatura. Ma ci pensi, al bello che sarebbe se non piovesse
mai?” Gli venne in mente Aldo, e la sua mania per i modi di dire americani, e fece un bizzarro
collegamento: “Sai che in Inghilterra sono capaci di stare ore a parlare di che tempo fa e se verrà il sole o
meno?”
Nicole smise di sorridere, fissando Simone con aria perplessa. L’ho detta troppo grossa temette,
sostenendo lo sguardo. Lei aveva davvero dei begli occhi, le iridi azzurre li facevano sembrare grandi e
luminosi nonostante la forma stretta e allungata.
Simone non era mai stato particolarmente attento agli sguardi, le forme particolari del viso, il trucco.
Studiava piuttosto gli zigomi, le pieghe inspiegabili che può assumere un volto quando cambia
espressione, come le labbra si assottigliavano mentre la bocca si allarga per sorridere, o come spariscono
nel rosa pallido della carne nei momenti di riflessione. Quello era per lui il metro di bellezza, gli occhi
erano solo uno dei particolari, ma per Nicole era diverso.
Gli sembrò che quell’azzurro quasi bianco gli entrasse nella testa, scavasse, volesse leggere dai suoi
pensieri più di quanto non intendesse dire. Anche se era assurdo, smise del tutto di pensare, come per
difendere la propria privacy, e rimase imbambolato a fissare lo sguardo curioso e indagatore della
ragazza. Arrivò l’imbarazzo, poi un senso di allontanamento, fuga, desiderio di nascondersi, ma non da
parte di Simone, lo percepiva senza riuscire a farlo suo. Infine un rilassamento amichevole, la sensazione
di stanco entusiasmo di chi, giunto in cima alla montagna, vede che la strada che lo attende è solo in
discesa.
“L’ho sentito anch’io” disse d’un tratto Nicole, e ritornò a sorridere, quasi si complimentasse con
Simone per l’esame che aveva appena passato. Il ragazzo si stupì di quel pensiero, come lo gettarono nel
panico tutte le riflessioni fatte in quel momento, fino quasi a fargli desiderare di alzarsi ed andarsene. Ma
era assurdo, non poteva abbandonarsi agli scherzi che la fantasia fa in combutta con l’agitazione.
“Sei più vecchio di me, vero?” riprese Nicole, confidenziale. Parlava sottovoce, voltata per lo più
verso la lavagna, quasi avesse paura di farsi scoprire distratta dal docente.
“Si, ma un anno soltanto.” Simone pensò alla strana fisionomia della ragazza, agli occhi tendenti ai
lati della testa stretta, ed immaginò di poterle parlare anche quando lei gli rivolgeva il profilo, tanto era
esagerata quella caratteristica. Un po’ come i disegni stile egiziano che si trovano nelle piramidi. “Ho
perso un anno perché non frequentavo molto. Ho fatto giusto un esame per il rinvio militare, poi ho
ripetuto il primo anno ed è andata bene, e adesso sono al secondo. In pari con gli esami.”
“Una delle tante vittime delle stragi del primo anno!”
“E’ un po’ il passaggio da superiori a università. Ci si gestisce il tempo. C’è chi si fa prendere
dall’ansia di non fare abbastanza e diventa pazzo, e chi invece se la prende comoda, come me. Per fortuna
non sono qui in appartamento, altrimenti i miei mi avrebbero già messo a fare il muratore.”
Ormai la barriera era caduta. Simone aveva riso mentalmente della ragazza per via dei suoi occhi, gli
stessi che poco prima lo avevano quasi spaventato. Riusciva ora a discutere come faceva con Aldo, senza
pensare la parole, lasciando scappare tutto ciò che arrivava, non facendosi problemi a dire più del dovuto.
Raccontava di se stesso con tranquillità, anche ironia, perché Nicole ascoltava tutto con interesse,
commentava con qualche battuta, ma in modo confidenziale, amichevole. Era finalmente entrato nella
vita di lei, e già si stupiva d’essersi fatto tanti problemi nel parlarle.
“Scusa la domanda stupida” scattò Simone, appena il docente annunciò la pausa. “Cosa ne pensi della
televisione?”
“Perché una domanda stupida?” chiese Nicole, a sua volta.
Lui si alzò, sgranchì le braccia, e si sedette sul banco, sopra al proprio quaderno. Era un tentativo per
impedire che la ragazza se ne andasse, come era solita fare durante le pause, lasciandolo solo. Un pretesto
per cominciare un discorso qualsiasi, trattenendola. “L’ho detto tanto per dire. Non centra nulla con la
lezione, è un concetto ampio e vago e tuttavia alcuni potrebbero non avere pareri precisi in proposito. Mi
scusavo nell’eventualità che questo dovesse succedere e tu ti dovessi imbarazzare.”
“Mi fai una domanda pensando nel frattempo a come comportarti alla mia risposta. E se ti avessi
spiazzato del tutto, rispondendoti qualcosa cui non avresti mai pensato?” Nicole chiuse il quaderno, fece
scivolare con un gesto veloce le penne nell’astuccio, e si sedette sul banco, nella stessa posizione di
Simone. L’idea di andarsene non doveva averla neppure sfiorata.
Felice di questo, il ragazzo si trovò completamente a proprio agio. “Impossibile. Reputo di avere
molta fantasia.”
Nicole nascose il sorriso dietro la mano. L’aveva già fatto una volta, ma poi aveva smesso,
abbandonandosi a ridere senza problemi in presenza di Simone. “Stiamo parlando troppo complicato.”
“Allora dimmi cosa ne pensi e basta!”
“Perché lo vuoi sapere? Devi tenerci davvero tanto se sei arrivato a prepararti un discorso così per
dovermelo chiedere. Tutto all’improvviso, così, quasi per caso… e invece chissà cosa c’è sotto!”
Se non avesse saputo che stava scherzando, Simone l’avrebbe presa per matta. “Non me ne frega
niente. Volevo soltanto aprire il discorso.”
“Un discorso su cosa?”
“Un discorso su cosa ne pensi della televisione.”
Nicole si voltò del tutto verso di lui. La testa un po’ protesa in avanti, le mani bene in vista,
appoggiate alle ginocchia. Tutti segni di apertura al dialogo. Simone non disdegnò una rapida occhiata
alle sue gambe, che jeans bianchi leggermente attillati permettevano di ammirare in tutta la loro snellezza.
“Non è che ne guardi poi così tanta. Anzi, sarà un mese che non l’accendo neppure. Una volta
guardavo molti film, anche impegnati, ma poi ho lasciato perdere. Più che altro videocassette, perché se
mi capita di girare per i canali e trovare qualche cartone animato o telefilm magari mi metto a guardarlo.
Sono curiosa, voglio vedere come va a finire, e magari per una settimana mi appassiono alla trama.” Alzò
le spalle, facendo nel frattempo una smorfia piuttosto buffa. “Così ho deciso di lasciar perdere la
televisione e di dedicarmi ai libri. Non credere che lo faccia perché sono una ragazza più matura o abbia
chissà che interessi letterari… si, anche quello, però se mi capita tra le mani un libro magari non tanto
bello, ma che riesce a incuriosirmi, posso leggere direttamente la fine senza perdere due ore di tempo. O
dover aspettare il giorno dopo per la prossima puntata.”
“Che genere leggi?”
“Quando ho voglia di imparare qualcosa, mi piace moltissimo Fromm. Quando invece voglio leggere
solo per divertimento, cioè la maggior parte delle volte, passo in biblioteca e comincio a spulciare i
riassunti sulle copertine. Di solito non guardo neanche l’autore, solo alla fine, se mi è piaciuto quello che
ha scritto. Così me lo ricordo. Anche se non si dovrebbe giudicare uno scrittore per una singola opera.”
Ridacchiò fra se. “Pensa che una volta ho trovato un gruppetto di non so che cosa, fuori dalla biblioteca,
che voleva farmi un’intervista. Mi ha chiesto cosa ne pensavo del più grande libro mai scritto…
intendevano la Bibbia, però io credevo parlassero de “Il signore degli anelli” di Tolkyen. Immagina la
figura che ho fatto!”
“Hai appena nominato uno dei miei libri preferiti! Leggi anche romanzi fantasy? Non per fare le solite
generalizzazioni, però mi aspettavo che una ragazza stesse su altri generi.”
“Cosa, quei polpettoni sentimentali? Sono cose assurde, menate e intrighi che non succederanno mai
nella vita reale! Sdolcinature da pelle d’oca… le trovo esagerate. Così non sono realistici né romantici.
L’unico che mi sia veramente piaciuto è “Estate”, perché almeno era originale. Però non mi ricordo chi è
l’autore.” Fissò Simone negli occhi, scrutandolo per un istante. “Abbiamo cambiato discorso e ancora non
mi hai detto cosa ne pensi tu della televisione?”
“Quando posso ci sto sempre davanti.”
Incredula e sorpresa, Nicole sgranò gli occhi, per quanto la strana fisionomia glielo permetteva.
“E’ perché stando dietro non vedo niente” s’affrettò a spiegare Simone.
Raggiunse in fretta Aldo, che già stava recuperando la giacca per dirigersi alla fermata dell’autobus.
Come aveva sospettato, lo trovò sorridente e un po’ rosso in viso, con gli occhi pieni di curiosità.
“Allora, com’è andata?” chiese il biondo, con la consueta gomitata, incurante del fatto che Nicole o un
suo amico potessero essere nei paraggi e sentirlo.
“Ottimamente, direi” rispose Simone, trattenendo a stento l’entusiasmo. “Altro che cagona! E’ vivace,
allegra, gli puoi fare battute anche stupide e ride, però lei è tutto fuorché stupida… Insomma, un po’ come
te, l’intelligente che ama scherzare.”
“Vi ho visti chiacchierare allegramente. Alle pause non vi siete neanche mossi dal posto.”
“Si. A dire il vero, a parte la prima ora, durante la lezione non è che abbiamo conversato poi molto.
Volevo lasciarla seguire, almeno un po’. Però di tanto in tanto la battuta ci scappava, e alle pause, invece
di sparire come al solito, è stata li con me.”
Aldo era stupito, ma sinceramente contento, anche se quella fortuna era capitata ad un suo amico
invece che a lui direttamente. Davvero una persona squisita. “Ma di cosa avete parlato?”
“Non mi ricordo.” Simone fece una smorfia, pensoso. “Davvero, non mi ricordo come cominciava il
discorso. Tutto e niente, hai presente quelle persone con cui ti trovi bene e ti sembra di conoscerle da una
vita, eppure trovi sempre qualcosa da dire? Ecco, fai conto. Io le accennavo un po’ di me, e sembrava che
le interessasse. Lei mi ha raccontato di un libro che ha letto, cosa le piace della letteratura… cavolo, mi ha
tirato fuori autori di libri fantasy che non ho neanche mai sentito nominare!”
“Non sono tante, qui in facoltà, le persone che leggono per svago. Ma perché non l’hai accompagnata
alla fermata dell’autobus?”
“Non volevo risultare troppo invadente. Mi basta che mi abbia detto: “Ciao, a domani!” Un po’ per
volta. Anzi, domani te la presento.”
Aldo scosse la testa: “Guarda, ancora per domani è meglio se me ne sto nelle retrovie.”
“Ma dai, non sarai mica geloso?”
“Già che hai iniziato bene… continua così, un po’ in privato.”
“Forse hai ragione.” Simone lo abbracciò ironicamente. “Sei un amico!”
Aldo si staccò, un po’ imbarazzato. Avevano raggiunto l’uscita, e videro che stava ancora piovendo.
Ombrelli aperti, si diressero verso la fermata.
“Ma se è così simpatica” riprese Aldo, pensoso. “Perché è sempre da sola?”
“Non lo so. Si vede che non ha mai incontrato un ragazzo come me. Forse si è già innamorata.”
Simone scoppiò a ridere. Non ci credeva nemmeno lui.
“Hai visto se aveva anche oggi il fondotinta sulle mani?”
Il ragazzo degli origami restò di stucco. Chissà come mai Aldo se ne ricordava ancora. “Ebbene si,
anche sul collo. Appena un velo, ma c’era. Ho anche ripensato a quello che ti ho detto l’altro giorno, che
non l’ho neanche mai vista in maniche corte.”
“Accidenti. E’ strana forte.”
“Ne vuoi sentire una di veramente strana? Sai le bottigliette, quelle da mezzo litro che dici si porta
sempre nello zaino? Indovina quante ne ha bevute oggi.”
“Non so… non credo se ne porti dietro chissà quante.”
“Otto.”
Aldo scoppiò a ridere: “Mi prendi in giro!”
“No, ti giuro. Pensa te, in quello zaino si porta dietro quattro chili d’acqua. Un cammello!”
“Ma dai, non potevi trovarne una un po’ più normale? Ci credo che è mezza anoressica, probabilmente
beve e basta.”
Simone alzò le spalle, ma quel discorso gli riportò alla mente il pensiero fatto all’inizio della mattina.
Tutto l’imbarazzo provato nel parlare alla ragazza, la paura di avvicinarla, davvero cominciava a credere
non fosse dovuta a se stesso, ma a tutte quelle stranezze. Chissà quante ancora ce n’erano di cui non si era
esplicitamente accorto, ma che percepiva. Piccolezze, ma tante, e soprattutto di una bizzarria che, nella
banalità, andava oltre l’eccentrico. Il fondotinta sul collo l’aveva visto ancora, ma sulle mani! Si che
sembrava una ragazza semplice, alla mano, per niente una di quelle che “a forza di tirarsela così tanto le
arriverà il buco del culo dietro a un orecchio”. Cioè praticamente tutte le ragazze della facoltà che si
salvavano dall’essere manze o scimmiette.
Ognuno aveva le sue manie, più o meno particolari, e ciò che per qualcuno poteva sembrare assurdo
per altri era quotidianità. Un po’ come Aldo che ascoltava solo musica americana, traduceva i testi delle
canzoni più stupide per poterle canticchiare con più gusto, e si era fatto tre settimane di paranoia per
decidere se andare o no al concerto di Steve Vai, che purtroppo si teneva proprio il giorno d’un esame
importante. O il modo in cui l’amico mangiava la cioccolata, rigorosamente fondente al 70% di cacao: un
quadretto per volta, lasciandola sciogliere senza masticarla, sorseggiando un mezzo bicchiere d’acqua tra
un assaggio e l’altro, quasi un arcaico rituale da buongustaio.
Simone decise allora di abbandonare quei pensieri, e di accettare Nicole così com’era, non solo la
ragazza più bella che avesse mai incontrato, ma anche una di quelle con cui più si trovava nel dialogo.
Non diede più peso neppure al ricordo di ciò che aveva provato quando, incrociando per la prima volta
della mattina i suoi occhi, ne era rimasto come stordito, e gli era sembrato d’essere studiato più a fondo di
quanto non avesse voluto.
“Vuoi una caramella?” chiese Aldo, strappandolo alle sue riflessioni, e porgendogli la scatola colorata.
“Per festeggiare?”
“Oddio! Anche le caramelline colorate! Non so più cosa pensare.”
“Le ho viste al bar. Non se ne vedevano da anni, allora ne ho presa una scatola. In ricordo della mia
infanzia.”
“Cosa centra?”
“Una volta, quando ero piccolo e i miei genitori mi portavano in montagna, mi lasciavano correre
dove volevo. Appena mi allontanavo troppo, tiravano fuori la scatola delle caramelle e la scuotevano, così
io sentivo il rumore e ritornavo.”
“Quando hai detto “una volta”… intendevi domenica scorsa, vero?”
“Ma va!”
Mercoledì Simone attese le lezioni del pomeriggio con inaspettato buonumore. Sebbene fosse arrivato
in anticipo, Nicole era già lì quando raggiunse la stanza dove si sarebbero tenute. Sulla seggiola più
esterna, vestita come il giorno prima, curva sul quaderno. Il ragazzo la raggiunse cercando di non far
rumore, avvicinò la bocca al suo orecchio e si lasciò sfuggire un improvviso: “Bu!”
Lei si voltò, riconoscendolo e salutandolo con un sorriso. Batté velocemente la mano sul posto a
fianco, invitandolo a sedersi. Simone non se lo fece ripetere, scavalcandola e accomodandosi sulla
seggiola a lui destinata.
“Sei di buon umore?” chiese la ragazza, chiudendo il quaderno e voltandosi verso di lui.
“Si vede?”
“Lo sai che è maleducazione rispondere con una domanda?”
“Chi te l’ha detto?”
Lei si lasciò scappare una risatina, il gradevole suono d’una pioggia di monete su una piastrella. Con
una mano, lentamente, si tolse la ciocca di capelli che le copriva parte del viso, accomodandola dietro
l’orecchio. Simone notò i tre orecchini, due piccoli e d’argento, uno più grande che scendeva a treccia,
terminando con una piccola stella. Quel gesto, alcune caratteristiche dell’abbigliamento, le espressioni, il
disegno sull’astuccio… sembrava davvero più giovane di quanto non fosse in realtà, e faceva una
tenerezza da matti. Ma quando la si fissava negli occhi, smetteva per un attimo di sorridere, ecco che di
colpo era adulta, sensuale, ed era impossibile non fare su di lei qualche pensiero un po’ spinto.
Simone la fissò, immaginandola stesa sul suo letto, sorridere piena di malizia mentre lui le si sdraiava
sopra, avvolgerlo con le braccia, regalargli quel corpo morbido e sottile tutto da tastare.
Nicole arrossì d’un tratto, quasi fosse avesse letto nei pensieri di Simone, e abbassò lo sguardo. Non
sembrava comunque dispiaciuta.
“Scusa” scappò a Simone, d’istinto, prima ancora di rendersi conto che era impossibile che avesse
potuto capire a cosa pensava: anche se la stava fissando in silenzio, il ragazzo era abile nel nascondere
dietro ad un’espressione disinteressata tutte le sue riflessioni.
“Fa niente” rispose lei, che doveva aver capito tutto, alzando nuovamente la testa. Poi, nuovamente in
tono scherzoso: “Ehi, il maialino che mi hai regalato vuole una compagna!”
“Vuoi che ne faccia un altro?”
“Un’altra, per la precisione. Se non ti dispiace. Così magari ti vedo all’opera.”
“In che senso?”
“Ho provato ancora a fare qualche origami, ma non sono mai arrivata oltre alla barchetta. Le cose che
fai tu mi hanno lasciata a bocca aperta. Voglio vedere come prendi il foglio, lo pieghi e lo pieghi e lo
pieghi ancora, come muovi le dita, gli dai forma.” Mosse le mani, mimando la lavorazione in un gesto di
enfasi. “Lo so, sembra strano, ma a me piace vedere le dita delle persone che si muovono, veloci, che
sembra vadano a caso invece è tutto studiato. Hai presente i chitarristi? A me non stupisce tanto la
musica, quanto vedere come muovono le dita sul manico della chitarra, cambiano posizione con gran
velocità, eppure prendono sempre quella giusta. E’ una cosa… espressiva.”
Simone rimase stupito, non tanto per la bizzarria in se, ma per la naturalezza con cui Nicole rivelava
ad un quasi estraneo quel particolare di cui molte persone si sarebbero vergognate.
“Alla pausa mi procuro un paio di “Studente oggi”. E ti faccio vedere” promise. “Basta che non ne
approfitti per carpire la mia tecnica.”
“E’ un rischio che devi correre, se vuoi fare bella figura.”
Cominciò la lezione, interrompendo quel discorso, ma non l’entusiasmo di Simone. Pensare che fino a
due giorni prima si vergognava a dirle una parola.
“Aldo!” Simone raggiunse l’amico sul corridoio, durante la pausa, e lo abbracciò con un tale slancio
che lo fece quasi cadere.
“Accidenti!” sorrise lui. “Ma non dovresti essere a braccare la tua preda?”
“E’ andata non so dove… mi pare dovesse riempire la sua bottiglietta. Oggi ha fatto il record: un litro
e mezzo in un’ora!” Decise di andare subito al dunque: la pausa si annunciava corposa, visto che il
docente era stato assalito dal solito gruppo di studenti ruffiani e desiderosi di spiegazioni extra, ma il
discorso da affrontare sarebbe potuto risultare ancora più lungo. “A forza di pensare alla mia storia con
Nicole, non ti ho più chiesto cosa hai deciso per la tua.”
“La tua storia! Accidenti, viva la modestia!” Si fece più serio. “Intenti dire io e Carla? Il discorso di
giovedì?”
“Si, cos’hai deciso?”
Trovarono un tavolino vuoto in un angolo del bar, e si affrettarono ad occuparlo. Una fortuna
insperata. C’era perfino un piccolo plico di “Studente Oggi” a portata di mano, ma Simone non voleva
risultare maleducato, mettendosi a modellare la carta mentre l’amico si confidava.
“Ancora niente” Aldo sbuffò. “Non è che ci abbia pensato molto, a dire il vero, il che è anche buona
cosa. Credo che farò come abbiamo deciso, di buttarla sul ridere, provare a parlarle in tono scherzoso ma
anche serio. Così che, se si può salvare qualcosa, magari ci chiariamo pure, e se è soltanto un stronza ho
fatto la mia battuta e via, ognuno per la sua strada.”
Il biondo era a disagio, e finì con l’abbassare gli occhi nel fare quel discorso. Simone non aggiunse
altro: dopotutto non ne sapeva molto di più, in fatto di rapporti con le ragazze, e non voleva fare la figura
del so tutto io, aspetta che mi faccio i cazzi tuoi e ti dico come comportarti. Però era contento nel sentire
che Aldo seguiva i suoi consigli, e soprattutto che, se lo faceva, era perché davvero ne era convinto. Per il
momento tutto ciò che poteva fare per l’amico era sdrammatizzare, fargli fare una bella risata per farsi
perdonare di averlo messo a disagio tirando in ballo il discorso in un momento forse sbagliato.
Parlò lentamente, mimando un’aria perfida: “Sai cosa dovresti fare, secondo me? Una bella dedica nei
bagni. Su una delle pareti, magari proprio davanti alla tazza.”
“Una dedica?”
“Ma si, qualcosa di leggero, ironico e non troppo offensivo. Del tipo: “Carla ha un cazzo di ventotto
centimetri. Uomini, non vi sentiate sminuiti, avete più tette di lei.””
Aldo sembrò sconvolgersi. “Cosa? E perché dovrebbe avere il cazzo?”
“Perché, perché… cosa dici di un uomo che ti sta sulle scatole? Che è effemminato. Di una donna
troppo intraprendente dici che ha il cazzo.”
“Dove l’hai sentita?”
“Me la sono inventata al momento.”
“Ottimo.” Aldo scoppiò a ridere. “Mi viene in mente Picasso!” balbettò, tra le risate, cui si unì
immediatamente anche l’amico.
Il ragazzo di cui stavano parlando era una specie di figura leggendaria all’università. Aveva fatto il
primo anno assieme a Simone, ma si era poi ritirato, forse per dedicarsi ad una facoltà più adatta alla sua
indole. Nella matematica era un quasi idiota, ma nel disegno lo si sarebbe potuto paragonare ad un artista
del calibro di Picasso, cosa che gli era valsa il soprannome, anche per via del pizzetto appuntito e
disordinato. Passava le lezioni a fare schizzi sui banchi, a penna, ad una velocità pazzesca, perlopiù
caricature di chi gli stava vicino. Tratti semplici, veloci, ma espressivi, dinamici, i soggetti si
riconoscevano all’istante, e allo stesso tempo erano se stessi e le loro caricature.
Una lezione Simone se lo era trovato a fianco, e ne era rimasto affascinato. Lo aveva visto impegnato
in una posa femminile di raffinata bellezza, perfetta nella proporzione e nella prospettiva benché la stesse
disegnando svogliatamente, e senza neppure una traccia a matita. Con una penna biro di seconda scelta
comperata in un tabacchino. Ad un certo punto, per sbaglio Picasso ci aveva appoggiato sopra la mano,
sbavando un angolo del disegno. Aveva allora sbuffato, si era grattato il mento alla base del pizzo, aveva
cominciato a passarsi la punta della penna sui polpastrelli, ed aveva colorato la sua opera con le
sbavature, dipingendola direttamente con le dita. Una tecnica che per Simone era nuova, e che lo lasciò
stupefatto.
Si era allora informato su chi fosse la ragazza del disegno, ed aveva allora scoperto che il piccolo
artista aveva una mezza cotta per una tal Manuela, del secondo anno. Davvero carina, benché avesse il
viso forse un po’ troppo quadrato. Sexy, snella, seno da paura ed un culo che stava su che era una
bellezza: insomma, si notava parecchio. Una preda ambita, troppo forse per un ragazzo più giovane che
perdeva tempo impiastricciando i banchi. Così che, quando Picasso aveva trovato il coraggio di attaccare
bottone, lei lo aveva liquidato senza troppe cerimonie.
L’avventura era poi continuata per il fatto che, quando una ragazza trova un nuovo amore, deve per
forza mostrarlo a tutti quelli che le sono venuti dietro fino a quel momento. Una regola nata da chissà chi,
ma che molto spesso si era dimostrata esatta. Come un altro dei luoghi comuni giovanili, e cioè che il
fidanzatino in questione deve per forza essere un nonno ultra fuori corso, un vitellone dalla faccia
deforme e vissuta, avere un’espressione da vero rompiscatole ed una sana indole ad ubriacarsi e trascurare
la propria igiene intima. Insomma, il prototipo del principe azzurro che ogni ragazzina vorrebbe accanto.
Manuela e la sua bestia da compagnia avevano trovato divertente dare sfogo della loro abilità nel
pomiciare sui corridoi, proprio davanti a Picasso, che si era rivelato non troppo contento della cosa. Prima
di ritirarsi, aveva fatto un disegno in un bagno, con un grosso pennarello nero indelebile, che venne a
ragione considerato il suo capolavoro. Proprio davanti alla tazza, un ritratto di Manuela nuda,
riconoscibilissimo, sensuale e perverso nella sua semplicità. Sotto, la dedica: “Chi si è fatto una sega
davanti a questo disegno faccia una riga.” In poco tempo le pareti del bagno erano divenute una ragnatela.
“E’ il mio idolo! Non riuscirei mai a fare tanto!” balbettò Aldo, quando si fu calmato.
“Ma è un’idea!”
“Perché no? Quasi quasi… disegnare non sono capace, ma la storia della donna col cazzo…” e
scoppiò nuovamente a ridere.
“Invece del nome, potresti usare uno pseudonimo, qualcosa che capisca solo lei…”
“Se si fa qualcosa, bisogna farla bene! Nome, cognome, e numero di matricola.”
“E se riesci, anche una fototessera!”
“Di lei o del suo cazzo?” Aldo era proprio andato. “Forse è per questo che non riesco a togliermela
dalla testa. E’ veramente una donna con i contraccazzi!”
Rispettando il più banale dei copioni, in quel momento Carla si avvicinò al tavolo, saltellando
allegramente e finendo con le braccia attorno al collo del biondo. “Ciao!” lo salutò, tutta contenta.
“Ciao” rispose Aldo, imbarazzato e un po’ colpevole.
“Tutto bene? Mi sembri un po’ rosso.”
“E’ per via del caldo.”
Lo abbracciò un po’ più forte. “Senti, le fotocopie che ti avevo chiesto, di analisi due… non è che le
avresti fatte?”
“Si, le ho in aula.”
Cose dell’altro mondo. Simone non ce la fece proprio a stare zitto: “Ma no, Aldo, quelle le hai
promesse a me. Lei ti abbraccia e basta, io prima di scroccartele ti ho anche palpato il culo.”
Il viso dell’amico passò dal rosa al rosso acceso, e quindi al bianco. Carla fece la stupita, quasi non
avesse capito a cosa Simone si riferisse. Con un gesto di stizza, si staccò dal biondo, strinse i denti in
segno di offesa e disprezzo, e se ne andò via, senza saltellare ma comunque sculettando.
“Sei pazzo” bisbigliò Aldo, appena fu in grado di parlare.
Simone era abbastanza stupito: “Andiamo, non dirmi che le fotocopie gliele avevi fatte davvero! Non
eri d’accordo anche tu, a fare così?”
“No!” s’arrabbiò.
“Come, no?” Anche Simone alzò un po’ il tono di voce. “Mi puoi dire che ho fatto una cazzata, perché
dovevi farlo tu e non io, ma proprio non ce l’ho fatta a stare zitto… dai, quando è arrivata la stavamo
offendendo tutti e due, senza tanti problemi.”
“Si, ma tra il dire e il fare… un conto è scherzare, per fare i problemi meno grossi, un altro è essere
apertamente dei maleducati.” Stava per aggiungere qualcos’altro, ma si bloccò. Avrebbe potuto dare
all’amico dell’idiota, del pazzo che agisce senza pensare, perché no?, dopotutto aveva perso chissà quante
ore di lezione piegando carta. Uno dei tanti lati positivi di Aldo era proprio quello di non rivangare mai il
passato: se si discuteva di qualcosa, si aveva una critica da fare, la si faceva subito, e solo quella.
Simone si morse le labbra. Era in torto, e se n’era reso conto. Preso dall’euforia del momento si era
lasciato sfuggire un po’ troppo, senza pensare alle conseguenze. Specie perché non era lui il diretto
interessato. Più di tutto gli dispiaceva di aver ferito Aldo per la dimostrazione d’amicizia che gli aveva
dato confidandosi con lui, utilizzando un gesto di fiducia per metterlo in imbarazzo. Avrebbe voluto
sprofondare.
“Va beh, la lezione comincia” disse il biondo, sottovoce, alzandosi.
Si diressero in aula, in silenzio, l’uno dietro l’altro, annegando nel flusso degli studenti.
Simone si sedette al suo posto, tentando di nascondere a Nicole il proprio stato d’animo. Non sarebbe
stato un problema. Gli riusciva bene, di mascherare agli altri il proprio umore, perfino agli amici che lo
conoscevano da molto tempo.
“Cavolo! Ho dimenticato di fare il rifornimento della carta.”
“Cos’hai?” chiese la ragazza, con un sorriso materno.
“In che senso?”
“Sei triste. Quasi angosciato…” Simone doveva aver fatto involontariamente una faccia stupita,
perché si affrettò a rimediare: “Scusa, non volevo farmi gli affari tuoi.”
“No, non preoccuparti. Sono solo sorpreso. Non è che mi leggi nel pensiero?”
“Forse” rispose lei con un sorriso rilassante. I suoi occhi azzurro bianchi davano una sensazione di
pace e serenità. “Ho una certa sensibilità per gli stati d’animo, tutto qui.”
“Che sbanfona!” le stuzzicò Simone, ammettendo però che quella di Nicole era forse di più di una
certa sensibilità. Era comunque riuscita a restituirgli il buonumore, anche con quelle semplici parole.
“Io?” fece finta di offendersi la ragazza. “Dovresti sentirti quando parli di origami! Altro che
sbanfone!”
capitolo 3
Alla fine della seconda ora di lezione, Aldo non c’era. Forse era andato a fare un giro in aula Internet,
o semplicemente era a studiare da qualche parte, fatto sta che Simone non lo trovò neppure alla fermata
dell’autobus.
Il ragazzo non aveva paura di litigare o discutere, aveva sempre preferito far valere le proprie idee che
assecondare le persone dicendo “si” anche quando non lo pensava, ma quello che era successo con Aldo
non era un vero disaccordo. Era una buffonata, un errore solo di Simone che, preso dall’enfasi, aveva
detto oltre il dovuto in un momento sbagliato, facendo più danni di quanti non avesse potuto sospettare.
All’inizio avrebbe potuto stupirlo anche la reazione di Aldo, esagerata non tanto per la situazione,
tanto per il carattere mite del biondo, ma a pensarci bene ne aveva tutto il diritto: era stato colpito nel suo
punto debole, per di più da un amico con cui aveva deciso di confidarsi, chiedere consiglio.
Quella sera, in camera sua, Simone rimase disteso sul letto a lungo prima di addormentarsi, ascoltando
la cassetta di Steve Vai che l’amico gli aveva prestato, e succhiando alcuni quadretti di cioccolato super
fondente, settanta per cento di cacao. Ripensava al lungo discorso fatto con Aldo il giovedì prima, al
posto di quella che avrebbe dovuto essere un’ora di lezione. Il confuso racconto dell’amico su come
avesse conosciuto Carla.
Il biondo, in quel periodo, non era ancora riuscito a stringere amicizia all’interno della facoltà. Non gli
era mai dispiaciuta eccessivamente la solitudine, almeno a scuola, dove compagnie sbagliate avrebbero
potuto distoglierlo dall’apprendimento. Anche con le donne era così, accortosi di non avere particolare
successo con il gentil sesso, che spesso e volentieri di gentile aveva ben poco, se n’era fatto in fretta una
ragione, limitandosi a pensare che, se proprio doveva succedere, avrebbe incontrato la donna adatta al
momento giusto.
Era accaduto tutto durante una lezione di disegno tecnico. Aldo stava prendendo i suoi appunti,
sbuffava di tanto in tanto, succhiava quadretti di cioccolato, si chiedeva ancora se avesse fatto la scelta
giusta nell’iscriversi a quella facoltà. Ma si, dopotutto l’esserci portati o meno era un fattore secondario,
se ci si impegna con costanza si può fare tutto. All’improvviso, davanti a lui, una testa piccola e bionda,
addobbata con ridicole mollette colorate, si era voltata, sorridendogli e porgendogli la mano. Senza
motivo.
“Io sono Carla.”
“Aldo” aveva risposto lui, pensando nel frattempo: ma quanto brutta è? Così la ragazza era entrata
nella sua vita.
L’aveva poi rivista nei corridoi, aveva scambiato con lei qualche parola di sfuggita, cominciando a
notare che, a dire il vero, non era poi malaccio. Il viso aveva dei lineamenti delicati, esprimeva allegria, il
corpo era sottile e proporzionato, il sedere sodo come se ne vedono pochi. Si, aveva meno tette d’una
bambina dell’asilo, ma in compenso era simpatica. E davvero lo era, fu la seconda scoperta di Aldo,
quando il salutarsi di tanto in tanto divenne un sedersi vicini a lezione, ed i “come stai?” si trasformarono
in argomenti di conversazione più complessi.
Da una cosa il biondo era rimasto colpito: dalla loro diversità, nonostante fossero simili. Anche Carla
era studiosa, impegnata, metteva l’università davanti a tutto. Però era allegra, estroversa, aveva bisogno di
compagnia ad ogni costo, anche se non c’era vera affinità, e non sembrava voler stringere legami
profondi. Girava per i corridoi salutando quasi tutti quelli che incontrava, si fermava un po’ qui un po’ li,
raccontava a tutti fatti della propria vita privi di interesse, ma che era bello ascoltare, perché faceva venire
voglia di dire qualcosa anche di se stessi, fare partecipi gli altri anche di avvenimenti che altrimenti
sarebbero passati inosservati. Sul più bello, scappava via, da tutti, senza farsi legare, concedersi più del
dovuto.
Così, neanche due mesi dopo, Aldo si trovò innamorato di Carla. Mentre l’interesse per la ragazza
cresceva, più difficile diventava però parlarle, si faceva problemi per le figure barbine, magari credendo
di averne fatte anche quando non era vero. Bizzarrie del comportamento umano. Nel frattempo la ragazza
aveva attaccato bottone con una discreta compagnia, che neanche a dirlo al biondo stavano tutti sulle
scatole. Il capo di tutti era un ragazzone subito battezzato Koala, per via della mania di aggrapparsi
sempre alle ragazze, trovare mille pretesti per mettere loro le mani addosso, gratuitamente e senza
pretesto.
La gelosia è una brutta bestia, e Aldo l’aveva imparato. E’ come un amico che sfotte dietro le spalle,
cui più si da confidenza, più la rivolta contro. Non valeva la pena di abbandonarsi a tale sentimento,
faceva star male anche quando non ce n’era motivo.
Almeno, questa era la teoria, ma saperla applicare era un altro discorso. Stare solo con Carla era
divenuta una gara, ed ogni volta che riusciva a parlarle gli sembrava di non aver detto abbastanza,
sprecando un’occasione che chissà quando si sarebbe ripresentata. La ragazza doveva aver inoltre capito
della simpatia che il biondo provava per lei, e si stava lentamente allontanando: un modo di fare
tipicamente femminile, poco diretto o sincero, ma che tutto sommato evita forti delusioni in un unico
colpo.
Si fosse conclusa li, ad Aldo sarebbe andata anche bene, era cominciata la prima sessione d’esami e, la
testa impegnata nell’analisi uno, nella chimica, nel disegno e nella geometria, l’avrebbe presto
dimenticata.
Destino vuole che Carla, avendo osservato a lungo i risultati degli scritti, esposti nella bacheca che
molti studenti avevano battezzato “il muro del pianto”, fosse rimasta impressionata dalla fila di trenta che
Aldo aveva saputo strappare ai docenti. Era perfino più bravo di lei. In fatto di studio, essendo il Koala ed
il resto della compagnia della ragazza non esattamente delle cime, ed avendo spesso Carla bisogno
d’aiuto nella ricerca di appunti, temi d’esame, spiegazione di argomenti più complessi, e tutto ciò che
poteva rendere più agevole l’apprendimento, aveva cominciato a salutare nuovamente Aldo.
Il ragazzo aveva capito da subito il vero motivo per cui lei lo avvicinava, dapprima nascondendo le
sue richieste dietro mille discorsi, diventando via via più spudorata quando lui, ripreso coraggio, aveva
fatto un ultimo tentativo per risaldare il loro rapporto. Era poi arrivato Simone, la loro amicizia, e così il
biondo era stato in grado di allontanare Carla, rendersi conto di come non avesse nulla da spartire con una
simile persona, finendo addirittura con lo smettere di rivolgerle la parola.
Venuto a conoscenza dell’intera faccenda, il ragazzo degli origami si era sorpreso di come l’amico
ancora stesse male per la ragazza, sebbene avesse smesso d’inseguirla, riuscendo ancora una volta ad
aggrapparsi alla realtà per sfuggire da sogni che lo avrebbero soltanto illuso. Stupore, ma solo all’inizio,
perché non era poi così strano.
Non è facile dimenticare una persona dall’oggi al domani. E’ come una spina che si infila sotto la
pelle: si rimuove la parte più grossa, ma la punta rimane. Ci si convive bene, aspettando che venga
assorbita, ma se per sbaglio ci si appoggia sopra qualcosa può ancora fare male.
L’aveva provato in prima persona, neanche tanto tempo prima. Il giorno che, per caso, alla fermata
dell’autobus, aveva incrociato la sua Katia, intenta a chiacchierare con le amiche. Era più di un anno che
non se la trovava davanti, e l’inaspettata sorpresa l’aveva costretto a limitarsi a passarle a fianco,
lasciandole soltanto un’occhiata veloce. Era sempre lei, coi capelli neri e la pelle chiara, gli occhi grandi,
le guance pronunciate che facevano risaltare ancora di più l’arco accentuato del sorriso. Ancora più carina
di quanto osasse ricordarla, non la bomba sexy dietro cui molti perdono la testa, ma una ragazza acqua e
sapone come si vorrebbe averla accanto per molto tempo, espressiva, dolce, tenera.
Si era accorto che, pur avendola lasciata scappare, pur volendo seppellire sotto terra per chilometri i
momenti imbarazzanti e le incomprensioni che avevano impedito alla loro storia di prendere vita, ed il
modo squallido con cui l’aveva lasciata andare per evitarne degli altri, nonostante tutto non gli sarebbe
dispiaciuto scambiare con lei ancora una parola. Chissà cosa stava facendo, se aveva finalmente
incontrato questo benedetto principe azzurro, se aveva risolto i problemi con le amiche, solo questo,
anche senza tanti romanticismi o tentativi di sbrogliare l’intricata matassa che si era creata sulle intenzioni
di entrambi.
Ma Katia non l’aveva neppure riconosciuto. O aveva soltanto fatto finta. Semplicemente, poteva non
aver badato a lui. Certo, ora non aveva più i capelli lunghi, aveva messo gli occhiali invece delle lenti,
stava cominciando a far crescere la barba. Ma non poteva credere di essere sparito del tutto dai ricordi di
lei, perché era troppo triste pensare a quanto a lungo l’aveva ricordata, e rendersi conti di essere stato
dimenticato, messo da parte come un paio di scarpe scomode, che non si vede l’ora di rimpiazzare con
delle nuove.
Anche se il sentimento che aveva provato per la ragazza era da tempo sfumato, la delusione e la
tristezza lo avevano accompagnato fino a sera. Non poteva quindi biasimare Aldo, scherzare su quel
comportamento così difficile da capire ma allo stesso tempo naturale, perché cosa si desidera non lo si
può decidere, lo si sa e basta, e molto spesso neppure con certezza.
Ma Simone non voleva abbandonarsi troppo ai ricordi. Era uno di quei momenti tristi in cui non si
riesce a pensare ad altro che come il mondo ci si accanisce contro, e sembra d’un tratto che tutto cominci
ad andare storto, che le anche piccole sventure si cumulino troppo sapientemente per non far supporre
l’esistenza d’un destino scherzoso. L’indomani avrebbe fatto pace con Aldo, di sicuro, perché è così che
va.
Le persone hanno carattere, umore, che dipendono dallo stato d’animo e dall’ambiente. Nessuno va
giudicato per una parola, un momento, una situazione. Non bisogna avere paura di litigare, lasciarsi
andare, sbagliare, perché i rapporti nascono con un sorriso, e si rafforzano con una lacrima. Se si discute,
magari ci si offende anche, si capiscono i difetti l’uno dell’altro, e nonostante tutto si sta ancora insieme,
perché è bello, e si ha voglia di farlo, allora è amicizia. Che non finisce certo per una cazzata del genere.
Giovedì mattina, durante le prime due ore di lezione, Simone era ancora piuttosto agitato. Aspettava
impaziente Aldo, che sarebbe arrivato soltanto alle dieci e mezza, per porgergli le sue scuse e tornare a
scherzare con lui come ogni giorno.
Nicole si era accorta anche stavolta dello stato d’animo del ragazzo, dimostrandosi più che mai calma
e cordiale. Anche un po’ demenziale, a tratti, tanto che Simone rimase più d’una volta sorpreso per alcune
inaspettate battute della ragazza ai danni del docente. La ammirava tantissimo, si rese conto, per quella
sua capacità di scherzare senza paura di risultare ridicola, perché pur essendo la ragazza più bella che
avesse mai visto non si preoccupava di apparire e basta, curare il piedistallo su cui farsi ammirare,
timorosa di dare troppa confidenza ai comuni mortali che la adulavano. Non solo: l’umorismo di Nicole
faceva ridere davvero, di gusto, pur senza essere volgare o eccessivamente ricercato.
Molte ragazze avrebbero da imparare da lei rifletté Simone, in silenzio, pensando a Diva e a tutte le
coetanee che magari avrebbero voluto lasciarsi andare di più, ed invece avevano una reputazione da
difendere, dovevano fare a tutti i costi le fighe fumando sigarette come nei film e snobbando i bambinoni
che dimostravano di sapersi divertire con poco.
Si accorse di un’altra cosa ancora: quella mattina aveva raggiunto il posto che la ragazza gli aveva
tenuto, quasi per abitudine, ma non era cambiata per niente l’attrazione esotica che provava per lei, il
nodo che gli saliva dalla gola nel soffermarsi ad osservare quella bellezza stravagante ma gradevole. Però
era allo stesso tempo diverso, era aumentato il senso di paterna tenerezza che la ragazza gli ispirava, non
si sarebbe più accontentato di spiarla ed immaginarla su un letto assieme a lui a sfogare la propria
fantasia, ora desiderava parlarle, averla vicina, che sorridesse alle sue domande come faceva nel trovare
sul banco gli inaspettati regali della settimana prima.
Simone intravide Aldo sul corridoio, mentre si dirigeva all’aula subito dopo aver appeso la giacca
all’attaccapanni. Lo raggiunse quasi correndo, serio ma non eccessivamente.
“Ciao!” lo salutò il biondo, sforzandosi di sembrare naturale. Poi sorrise. “Senti, non ce la faccio a
tenerti il muso. Me l’hai preso un posto?”
“Non mi lasci neanche farti le mie scuse?” chiese Simone, stupito, che in quel momento avrebbe
potuto anche commuoversi.
“Non mi piace che la gente si scusi con me. Fammi una battuta volgare su Carla e siamo pari.” Con
questa frase Aldo aveva chiuso il loro litigio. Era davvero una persona stupenda.
Simone fece segno di fermarsi ancora un attimo sul corridoio. “Senti… non è che mi vengono, su
richiesta… comunque, l’idea che avevo avuto della scritta nel bagno è una cazzata immensa. L’avrebbero
letta tutti tranne lei.”
“Perché?” Aldo era sorpreso. Non capiva se l’amico stesse scherzando o parlasse seriamente.
“Dai, non essere ingenuo! Vuoi che una ragazza entri in un bagno? Lo sai che le ragazze non fanno la
cacca!”
“Cosa stai dicendo?”
“Ascolta, ti pare possibile che una ragazza faccia la cacca? E’ assurdo! Te la vedi Diva sul water, che
legge fumetti, strabuzza gli occhi, spinge e fa un rotolone da un chilo, magari mollandoci dietro un paio di
scorregge?”
“Fai schifo!” Aldo scoppiò a ridere, divertito.
“Ti giuro… Diva ha fatto la cacca si e no una volta in vita sua… di sicuro, quella volta era colorata e
profumata!”
“E a forma di meringa!”
“Bravo! Lo vedi che lo sai? L’anoressia, da cosa credi che nasca? Sono le donne che, per non fare la
cacca, non mangiano.”
“Mi piace di te che sai andare a fondo nei problemi. E la bulimia?”
“Sono quelle donne che non vogliono fare la cacca, come le anoressiche, però non rinunciano a
mangiare.”
Aldo fece segno di muoversi verso l’aula. “Prima di sentire questi tuoi vaneggiamenti, sai che mi ero
spaventato… cominciavo a temere che quelle storia delle donne col cazzo fosse vera!”
Raggiunsero i loro posti, continuando a scherzare. Simone si guardò bene dal tirare in ballo Carla,
anche se le occasioni per fare delle belle battute non sarebbero mancate. Si era ripromesso di non
interferire più nella storia dell’amico, a meno che questo non gliel’avesse esplicitamente richiesto. Visto
il rapporto che aveva da sempre con la ragazza, e da quello che poteva aver pensato dalla gaffe del giorno
prima, la cosa migliore che potesse fare era starsene il più in disparte possibile.
Arrivò il docente, pronto per la dose quotidiana di nozioni, e quindi Nicole. Simone era seduto fra lei
ed Aldo, e li fece presentare l’uno all’altra.
“Finalmente ti conosco” sorrise la ragazza, in modo dolce e rassicurante. Nonostante questo, Aldo
arrossì.
“Con la testa tonda e il colore che hai ti si potrebbe scambiare per un semaforo” gli bisbigliò Simone
all’orecchio. L’amico gli mollò la consueta gomitata.
“Che male! Mi hai colpito a tradimento” cominciò a lamentarsi il ragazzo degli origami, teatralmente.
“Nicole, digli qualcosa. Mi picchia.”
“Ha fatto bene” rispose lei, fingendosi seria, anche se in modo poco credibile. E gli tirò una gomitata a
sua volta.
“Ma sei violenta!”
“Sei tu che sei debole.”
“E tu sei fortunata che non picchio le donne.”
“Perché? Non ce la fai?”
Allora Simone la colpì col gomito, nel modo più leggero che gli era possibile. Rifletté con un sorriso
che sarebbe stato imbarazzante se, nel gioco, avesse finito per tastare il seno della ragazza, come sempre
alto, sodo e rotondo. Mentre fantasticava su quel particolare dell’anatomia femminile, Nicole restituì la
gomitata, senza però curarsi troppo di moderare le forze. Non era molto robusta, ma colpì il nervo, ed il
braccio di Simone fu investito da una breve scarica.
Aldo, che stava ridacchiando di gusto, cominciò ad attaccare Simone dall’altro lato.
“Che cavolo ti lamenti di avere problemi confidenza?” chiese Aldo, scherzosamente, mentre
aspettavano insieme l’autobus.
Simone, le braccia doloranti, si stava massaggiando il collo. Alla fine delle due ore, che i tre avevano
passato praticamente picchiandosi, arrivando perfino a farsi richiamare dal docente per via del baccano,
Nicole gli aveva mollato un gran “coppino”. Stavano discutendo sul fatto che la ragazza avesse o no il
coraggio di tirargli una sberla: lei diceva di si, lui di no, e alla fine l’aveva sfidata. Così la Gatta aveva
ammesso di non essere in grado di colpirlo sul volto, e gli aveva tirato una manata sul collo da far paura.
“Forse ho capito perché è sempre da sola” continuò Aldo, per stuzzicare l’amico.
“Ti dirò, a me come carattere piace. Non fanno per me, tutte quelle ragazzine che sono si dolci,
simpatiche, materne, eccetera eccetera, ma che vanno bene solo per scambiarsi tenerezze. A me piacciono
così, che non si facciano problemi a farsi valere, che amino giocare.”
“Proprio una Gatta. Con tanto d’artigli.”
“Adesso ci hai visti scherzare, però… dovresti conoscerla meglio. Sta al gioco, ma sa anche essere
seria. E quando siamo soli, io e lei, e parliamo di qualcosa… non so, a volte dice le stesse cose che direi
io, con le stesse parole, magari, che sembra me le rubi di bocca. A volte invece mi dice di no, che sto
dicendo delle cavolate immense, o lo faccio io, e discutiamo, e anche se non mi da ragione mi ascolta
comunque, e pensa a quello che dico. Almeno, così mi sembra.”
“Certo che vi vedo davvero bene assieme. E’ l’unica persona che conosco in grado di tenerti testa
quando fai l’idiota. Avreste dovuto incontrarvi ai tempi dell’asilo.”
“Oggi sei più cattivo del solito. Per me non mi hai perdonato del tutto.” Gli tirò una gomitata, come
piccola vendetta della mattina. “In meno di una settimana guarda come sono riuscito a farmela amica… se
l’avessi conosciuta ai tempi dell’asilo a quest’ora saremo già sposati.”
“Allora cosa sono, i problemi di confidenza di cui continui a lamentarti?”
Simone guardò l’orologio, assicurandosi di avere abbastanza tempo per raccontare all’amico le sue
riflessioni. Contando l’immancabile ritardo dei mezzi pubblici, poteva permettersi di parlare con
sufficiente calma. “Nicole è una gran chiacchierona, te lo assicuro. Perfino più di me, quando si è nel vivo
di una discussione.”
“Accidenti!” Il ragazzo degli origami non riuscì a capire se quello di Aldo era reale stupore o
semplicemente continuava a sfotterlo.
“Non mi fa domande troppo dirette su me stesso, in questo è anche discreta, però si mette in gioco…
c’è una parte di lei di cui, ormai, so praticamente tutto: il suo modo di ragionare, la maniera con cui si
rapporta alle persone, i suoi hobby, i pregiudizi, cosa le piace oppure no, il suo parere sui film e sui libri,
che musica ascolta, il suo carattere nei dettagli, le sue manie, fin dove si può scherzare e quando potrebbe
dargli fastidio… insomma, si potrebbe dire che la conosco davvero, come persona, e per il poco tempo
che ci parliamo è una cosa quasi incredibile, specie per me. Da questo punto di vista, posso anche
considerarla una vecchia amica d’infanzia.”
“Non ho ancora capito il problema. A me sembra fantastico.”
“Lo è, infatti. Hai presente quando ti trovi davanti qualcuno, e ti sembra di poter intuire cosa pensa, e
che questo possa fare altrettanto? Ecco, è quello che succede. E qui c’è il mio dubbio, che magari ti
sembrerà assurdo, però…”
“Vieni al dunque. Mi stai facendo morire dalla curiosità.”
“Ecco, c’è una parte di lei di cui Nicole non parla: la sua vita privata. Non so dove abiti, che scuole
abbia fatto, se abbia fratelli o meno, se ha una compagnia, e tutte quelle domande del cazzo che la gente si
fa per prendere confidenza. Non che mi interessi granché sapere se è figlia unica o meno, o come si
chiami il suo eventuale cagnolino, ma ho come il sospetto che finché siamo all’università, bene, rapporto
stupendo, ma se si esce dalle mura della facoltà stop, tu per la tua strada e io per la mia.”
Aldo ricominciò a comportarsi da persona seria. “Non è una cosa stupida. E’ un po’ quello che
succedeva a me con Carla: se davvero si va d’accordo, perché lo si deve fare solo in un posto, e non si
può essere amici anche fuori? Altrimenti si rischia di fare la figura del collega e basta, quello che ti aiuta a
passare il tempo mentre si è li, ma di cui non ti importa niente.”
“Vista così è ancora peggio di quello che avevo in mente, ma rende bene l’idea.” Sbuffò. “Forse è che
non mi voglio accontentare. Ho fatto più di quanto non osassi sperare, e ancora non mi basta, vorrei fare
di più. Probabilmente Nicole non se n’è neppure resa conto.”
Rimasero qualche secondo in silenzio, poi Aldo se ne saltò fuori con una domanda del tutto
inaspettata: “Le hai chiesto perché si mette il fondotinta sulle mani?”
“Perché ti è venuto in mente?”
“Quando mi raccontavi di quanto beve, credevo mi prendessi in giro… invece è vero!”
“Perché avrei dovuto prenderti in giro? Si, lo faccio sempre, ma su quello in particolare?”
“Scusa, ti sembra normale che una persona beva un litro d’acqua ogni ora? Io ero sconvolto, tu ne
parlavi in un modo troppo normale.”
Si avvicinò un autobus, quello di Aldo. Non era neppure troppo in ritardo.
“A domani, allora!” lo salutò Simone.
“A domani. E non innamorarti troppo!”
Aldo scomparve alla vista dietro la porta, quasi il pesante mezzo arancione l’avesse ingoiato. Le
ultime parole che aveva detto, confuse dal rumore della strada, erano solo per gioco, uno scherzo
amichevole, eppure Simone non poté fare a meno di pensarci per tutto il viaggio di ritorno a casa. Poco
prima Nicole era la bella irraggiungibile del corso, il sogno erotico proibito, ora già la considerava
un’amica, la piacevole compagna delle sue giornate. Tutte le menate che si stava facendo sulla
confidenza… era possibile che si stesse innamorando? O peggio ancora, che già lo fosse?
Venerdì successe una di quelle che Simone amava definire “grandi botte di culo”. O era
semplicemente una coincidenza capitata in un momento particolare. Più volte, in seguito, il ragazzo si
domandò come sarebbe andata se, arrivando quella mattina, non avesse trovato il cartello appeso alla
porta dell’aula, e se magari gli eventi avrebbero potuto prendere un’altra piega.
“Le ultime due ore festa!” bisbigliò, mentre un sorriso gli si allargava sul volto. Il docente era ad un
convegno, l’esercitatore non era stato disponibile ad effettuare un cambio di orario, e così quella
settimana gli studenti avrebbero cominciato la vacanza in anticipo.
La prima parte della mattina passò in tranquillità, con i tre burloni che riuscivano a prestare attenzione
al docente per cinquanta minuti di fila, per poi sfogarsi nella pausa in tutta la loro confidenziale
demenzialità. Anche Aldo era lanciato, si lasciava andare in presenza di Nicole senza troppi problemi sul
fatto di non saper assolutamente raccontare barzellette, o scoppiando a ridere all’improvviso senza
vergogna, afferrando il lato comico della situazione soprattutto quando non c’era.
Arrivata la seconda pausa, Nicole e Simone si guardarono come per decidere cosa fare. Aldo sarebbe
tornato a casa a studiare, non si sa bene cosa, ma forse era un modo per lasciare che l’amico stesse da solo
con la ragazza.
“Se ti va, possiamo fare qualche esercizio di analisi insieme” propose timidamente Simone. Nicole
non doveva certo avere bisogno d’aiuto nello studio, visto come strappava voti alti ad ogni esame.
“Oggi è una bella giornata. Perché non andiamo sul terrazzo a prendere il sole?” rispose lei, la voce
più squillante del solito.
Il ragazzo, piacevolmente sorpreso, accettò di buon grado. Raggiunsero il secondo piano, quindi
presero posto sul largo tratto ricoperto d’erba e piastrelle che raggiungeva il posteggio esterno grazie ad
una scalinata. C’erano poi delle piccole costruzioni di vetro a forma di piramide, che servivano per
portare la luce nelle aule sottostanti. Si sedettero sulla parte di prato, assaporando sulla pelle un sole caldo
e rassicurante, ma la cui luce non dava fastidio. L’ultimo assaggio dell’autunno che stava ormai finendo.
“Strano che siamo da soli” constatò Simone. “Forse perché è venerdì, e tutti quelli che sono qui in
appartamento tornano a casa.”
“Qui è sempre vuoto” lo corresse Nicole, pensosa.
Simone era incerto. Avrebbe voluto farle qualche domanda, magari cominciare a parlare della propria
vita privata per vedere se lei avrebbe fatto altrettanto, o addirittura invitarla fuori quella sera. Temeva
però di risultare invadente, abusare della confidenza che lei gli aveva dato. C’era però il rischio inverso,
cioè di dare lui l’impressione di quello che vuole fare soltanto in collega.
Andiamo, basta menate si decise. Mi butto e basta, mica posso pensare di importunarla ogni volta che
le parlo.
“E’ qui che vieni alle pause?”
Lei sembrò sorpresa, ma non scocciata. Annuì.
Simone si era seduto a gambe incrociate, e lei copiò la posizione, mettendosi perfettamente in fronte al
ragazzo.
“O qui, o nell’aula lettura quotidiani, se piove” cominciò a spiegare. “E’ molto tranquillo, e
soprattutto c’è silenzio. Nelle aule c’è sempre brusio, un mare di studenti che parlano e si muovono, una
folla… ogni tanto mi sento oppressa, ho bisogno di scappare un po’.” Alzò le spalle, con quel suo modo
di fare che a Simone cominciava a piacere. “Non per niente, quando posso mi siedo sempre in una fila
esterna. Mi da un senso di tranquillità, penso che male che vada ho sempre una via di fuga libera.”
“E’ per questo che prendi l’autobus dopo… o prima, la mattina presto?”
Nicole sorrise di gusto. “Accidenti, ma sei peggio di una spia!”
Il ragazzo si accorse di aver detto più del dovuto, e s’affrettò a rimediare: “Scusami, non volevo farmi
i fatti tuoi. E’ che il discorso mi interessa parecchio. Anch’io mi trovo a disagio quando sono nella folla,
anche se forse non per i tuoi stessi motivi. Mi angoscia, se mi passi il termine, stare in mezzo agli
sconosciuti.”
“Forse sei un po’ egocentrico, e hai paura di passare inosservato” lo interruppe Nicole. “Sto
scherzando, ovviamente” specificò, e tornò a fissarlo con i suoi occhi quasi trasparenti, attenta, curiosa.
“Il fatto è questo: io mi reputo una persona socievole. Un po’ impicciona, che scherza magari più del
dovuto, e con una sana propensione ad occuparmi dei fatti degli altri, o a rimpinzare la loro testa coi miei.
Tutto sommato, però, con la gente ci vado d’accordo.” La fissò, inumidendosi le labbra. Si sarebbe
aspettato che gli desse ancora una volta dello sbanfone. “Penso a tutta la gente che incontro, che magari
qui ai corsi vedo tutti i giorni, cui ho dato anche un soprannome, e di cui so poco o nulla. Prendi Aldo, il
mio amico, ci vado d’accordissimo, ho di lui una stima immensa… eppure l’ho conosciuto per caso. E
devo dire che l’ambiente in cui si sta, il venire a lezione e trovare un amico, il dover fare sacrifici per
questi maledetti esami in compagnia di qualcuno non è cosa da poco. E’ la differenza fra il fare una cosa
soltanto perché ti sarà utile, oppure anche un po’ con gusto.”
“In effetti, la facoltà che abbiamo scelto non è molto interessante dal punto di vista umanistico.”
“Si, ma poi anche l’aiutarsi a vicenda, dal passarsi gli appunti all’ ”in bocca al lupo” prima
dell’esame… comunque non è questo che volevo dire. La mia fissazione è che sono sicuro ci siano un
sacco di persone stupende, attorno a me, storie interessanti da ascoltare, eppure mi passano accanto senza
il tempo di conoscerle. La timidezza, il timore di sporgersi troppo, il fatto che alcuni bastardi ti usino
contro ciò che fai per loro, mi hanno fatto sprecare un sacco di occasioni, in passato, ma veramente tante.
Io sono per il “pochi ma buoni”, nei gruppi, ma se penso a tutta la gente in gamba che avrei potuto
conoscere, e tutti i momenti passati in solitudine…”
“A chi lo dici!” Nicole sembrò rattristarsi. Distolse lo sguardo da Simone, e per un momento una
sensazione di profonda angoscia invase il ragazzo, come se d’improvviso il terrazzo con l’erba avesse
perso il suo colore, divenendo vuoto e opaco.
Durò poco più di un secondo, ma bastò per fargli capire che non era reale, e che forse proprio Nicole
era la causa di tutto, per quanto assurdo potesse apparire. Si trovò madido si sudore, e non solo a causa
del sole.
Per mascherare il proprio imbarazzo, si sfilò la maglietta. Sotto aveva soltanto una canottiera di
cotone leggera, senza maniche, abbastanza aderente. “Ti da fastidio?” chiese, un po’ imbarazzato, quando
Nicole tornò a posare gli occhi su di lui.
“No, tranquillo. Fa veramente caldo, anch’io sto sudando.”
Simone aspettò che si togliesse anche lei la maglietta, per svelare finalmente il mistero di che
miracolo della biancheria intima potesse mai tenere il seno della ragazza così alto e sodo. Lei però si
limitò a prendere una delle sue bottigliette, scolandola in un solo sorso.
Doveva avere parecchio caldo, specie con le maniche lunghe e sotto il fondotinta con cui si
cospargeva, e considerando anche la quantità di liquidi che era solita ingerire e la carnagione chiara non
doveva essere troppo abituata alle alte temperature. Chissà se ad impedirle di denudarsi c’era soltanto il
senso del pudore, oppure centrava anche il fatto che non amasse mostrare la propria pelle. Forse c’era
qualche affinità col fatto che amasse stare tanto isolata.
“Devi rispiegarmi una cosa” riprese Simone, in tono allegro. “Come hai fatto ad allontanare Orsetto e
quelli come lui?”
“Orsetto?”
“Quello che scrocca le sigarette. O Scarabocchio, non so se lo conosci.”
“Scarabocchio si. L’altro… credo di aver capito. Lo scroccone, quello con la faccia quadrata che fa
l’uomo vissuto?”
“Si. Ci scommetto quello che vuoi che un tentativo d’approccio l’hanno fatto anche loro. Come hai
fatto a toglierteli di torno? Specie Orsetto, mi ricordo che quando aveva puntato una del corso… non so
come si chiami, io e Aldo l’abbiamo battezzata Diva… ecco, anche se lei faceva di tutto per snobbarlo, ha
continuato a perseguitarla per settimane. Non giorni, proprio settimane!”
Nicole alzò le spalle, ma senza la solita allegria. “Che vuoi che ti dica: so essere bastarda. Il fatto è
che se una persona non mi sta simpatica, preferisco allontanarla subito, senza neppure salutarla. Un po’ da
cafoni, forse, ma evita tanti momenti imbarazzanti, e soprattutto di trovarsi attorno persone sbagliate.” Si
passò dietro l’orecchio la ciocca di capelli che le era caduta sul volto. “Per me è stupido rendersi simpatici
ad ogni costo. Se ad una persona si va bene come si è ci si andrò d’accordo, ma per piacere a qualcuno
non per quello che si è, ma per ciò che si fa finta di essere… chi me lo fa fare?” Sorrise, per
sdrammatizzare un po’ il tono serio del discorso.
Simone la fissò in silenzio. Condivideva in pieno quelle parole, ma si stupiva del fatto che Nicole, fra
tutti gli studenti del corso, non avesse trovato nessuno che incontrasse i suoi gusti. E quando si è come lei,
tanto più in un simile ambiente, non sono pochi i maschi che vorrebbero fare amicizia. Strano addirittura
che non avesse amiche, visto che di solito le ragazze tendono a fare branco. Se da un lato questo avrebbe
dovuto fargli piacere, dimostrazione che, in mezzo a duecento persone lui era stato il favorito, dall’altro lo
metteva a disagio.
Anche Nicole sembrava poco felice di quei discorsi, e Simone si chiese di cosa avrebbe dovuto parlare
per evitare di farle, una terza volta, una domanda sconveniente. Tutto l’entusiasmo sul rapporto che si era
creato fra loro cominciò ad abbandonarlo, e la sensazione di essere sotto esame tornò a contribuire al suo
disagio. Tanto più che la ragazza sapeva accorgersi subito del suo stato d’animo, e se avesse chiesto una
spiegazione a quell’imbarazzo non avrebbe saputo cosa rispondere.
Si nascose tuffando le braccia nello zaino, voltandole la schiena per un momento. Prese un paio di
fogli ad anelli, che solitamente usava per gli appunti, ed il libro più pesante che avesse con se, porgendolo
alla ragazza.
“Pensavo che fossimo qui per prendere il sole” si stupì lei.
“Usalo come piano d’appoggio” spiegò Simone, dandole uno dei fogli. “Ti insegno come realizzare un
suino pennuto.”
“E’ molto complicato?”
“Visto che te ne ho regalato uno, e che mi reputo uno dei maestri primi di quest’arte, mi verrebbe da
risponderti di si. Ma si impara piuttosto in fretta. Le prime volte non è mai perfetto, ma se hai un po’ di
entusiasmo…”
“Cominciamo!”
Passarono così un’ora, Simone che le illustrava le basi delle pieghe, mostrandole ed aspettando che lei
le ripetesse, insegnandole i trucchi che aveva scoperto per rendere più semplice la manipolazione. Non
c’era un vero e proprio discorso, e questo sarebbe potuto sembrare una zappata sui piedi da parte del
ragazzo, che stava sprecando un’occasione ghiottissima per conoscerla meglio, ma la tensione era del
tutto sparita. Qualche parola di tanto in tanto, una battuta su ciò che facevano, lo stuzzicarla per gli errori
più grossolani, le repliche di lei che gli dava dello sbanfone, tutto rendeva piacevole quella tranquillità,
senza il bisogno di dire chissà cosa, fare ad ogni costo colpo, stupire con una parola. Simone riuscì a
rilassarsi e scacciare la spiacevole sensazione di poco prima.
Aveva anche modo di osservarla, attenta sul suo pezzo di carta sempre più piccolo e ingarbugliato, ne
studiava il viso e il mutare delle espressioni, da quando la concentrazione la portava a inumidirsi le labbra
al momento in cui, poco convinta, mostrava al maestro il suo lavoro. La pettinatura scomposta ma
ordinata, il labbro superiore un po’ alzato, le sopracciglia chiare che continuavano ad inarcarsi e piegarsi
seguendo il corso dei suoi pensieri. Stupenda, perfetta, ed era li con lui. Non pretendeva che la sapesse
intrattenere come troppi ragazzi sono convinti di dover fare, trasformandosi il più delle volte in autisti,
ciceroni o conduttori da show televisivo, a lei bastava stare seduta fra l’erba, in compagnia di Simone,
imparare da lui qualcosa di anche inutile ma divertente, ed in cambio gli donava tutte quelle sensazioni.
Certo questo stonava molto col fatto che la ragazza fosse tanto selettiva, e rendeva difficile credere
che sapesse rendersi insopportabile al punto da tenere lontano perfino Orsetto, che nel giudicare piacevole
o meno la compagnia d’una donna anteponeva certo al carattere le misure della poveretta. Chissà come
faceva. Simone si augurò di non scoprirlo mai.
Cosa proverà ad essere donna fra gli uomini, per di più così bella? si domandò, ma tenne per se quel
pensiero, concentrandosi sulle dita della ragazza, sottili come il resto del corpo, anche se non agilissime.
Ripensò a quanto lei gli aveva confidato riguardo a come le piacesse lo spettacolo di falangi che si
muovono veloci e sicure, e cercò di immaginare cosa lei potesse trovarvi. Arrivò a desiderare di prenderle
le mani, magari con la scusa d’insegnarle una delle pieghe più difficili, guidarla nel lavoro e sfiorare la
sua pelle, intrecciare le dita della ragazza alle sue, costruire insieme il loro giocattolo. Però non trovò il
coraggio.
Passò più di un’ora, durante la quale Nicole riuscì a realizzare una barchetta, una ranocchia ed un
rudimentale maiale con le ali, riconoscibile nella forma sebbene molto lontano dalla perfezione.
“Gli manca quasi una zampa!” sbuffò la ragazza, consegnando a Simone la sua opera.
“Non ti è venuto affatto male. Specie il muso, è parecchio difficile. Per aver imparato soltanto oggi…”
“Lo pensi sul serio o mi stai solo assecondando?”
“Ti sto soltanto assecondando.”
Lei gli tirò una debole sberla, scherzosa, che a Simone parve una veloce carezza. Poi cercò nella borsa
dell’acqua, ma ne trovò poco più d’un sorso. Forse a causa del caldo e del continuo parlare aveva dato
fondo alle scorte ancor più velocemente del solito, e si era ritrovata a secco prima del previsto.
“Vado a fare il pieno. Tu dai un occhio agli zaini” disse, prendendo sotto braccio le otto bottigliette di
plastica da mezzo litro, e alzandosi in piedi. Una le sfuggì di mano, cadendo nell’erba.
“Non vuoi che ti aiuti?” chiese Simone, che avrebbe invece preferito domandarle se aveva davvero
intenzione di riempirle tutte. Certo, ciò significava che Nicole sarebbe stata con lui ancora un bel pezzo,
ma la trovava del tutto esagerata.
“Grazie” rispose lei, un po’ in imbarazzo, passandogli quattro bottiglie. “Ti faccio impressione, vero?”
“Non capisco” mentì Simone.
“A bere così. Un’altra delle mie paranoie.” Alzò le spalle. “Non spaventarti, ma io devo avere sempre
dell’acqua sottomano, altrimenti impazzisco.”
“Non l’avevo neanche notato. Anch’io d’estate bevo come un cammello.”
Si diressero al bagno. Nicole camminava decisamente veloce, addirittura correndo, quasi la fretta di
raggiungere il rubinetto si fosse tramutata in ansia. Simone si chiese se davvero la mancanza di acqua
avrebbe portato la ragazza alla pazzia, abbracciando l’idea di sperimentare la cosa nei prossimi giorni. La
immaginò con lui, sola in mezzo al deserto sotto il sole cocente, nel pieno d’una crisi: doveva bere ad
ogni costo, ma il solo modo per dissetarsi… era fargli un bel pompino. Ridacchiò fra se.
Raggiunsero il primo bagno, ma lo trovarono chiuso, per via delle pulizie.
“Andiamo al piano di sopra!” disse Nicole, cominciando a correre, tanto che Simone fece fatica a
starle dietro, e per poco non lasciò cadere un paio di bottiglie. Immaginò cosa avrebbe potuto pensare
qualcuno che li avesse visti, certo la sete della ragazza doveva essere forte. Tornò a fantasticare sul suo
deserto assolato.
Arrivarono al secondo bagno, fortunatamente deserto. Nicole, senza tanti problemi, appoggiò in fretta
le bottiglie sul pavimento, aprì a getto il rubinetto, e si piegò a bere direttamente dalla spina.
Simone puntò istintivamente gli occhi al sedere della ragazza, che la tuta scura che indossava quel
giorno faceva risaltare in tutta la sua morbida rotondità. Forse non l’ideale a mandolino che aveva sempre
sognato, ma un paio di chiappette mica male. Con i contraccazzi, avrebbe aggiunto Aldo. Per fortuna
aveva le bottiglie a tenergli le mani occupate, altrimenti una bella pacca ci sarebbe scappata di sicuro.
Lo sguardo si mosse pochi centimetri più sopra, sul sottile tratto di carne nuda che la posa della
ragazza lasciava intravedere fra la fine della maglietta e l’inizio delle brache. Una pelle chiara, tanto che
per un istante Simone la scambiò per un pezzo di canottiera.
Si avvicinò, senza farsi notare, per spiare meglio. Era proprio carne, ma bianca al punto di sembrare
innaturale, e in qualche modo luminosa. Già, non si trattava soltanto del contrasto con gli abiti scuri, era
proprio luccicante.
Senza rendersi conto di ciò che stava facendo, mosse la mano verso la ragazza, afferrandole il bordo
inferiore della maglietta e sollevandola, spogliandole così metà schiena. Vide la pelle, bianchissima,
splendere come fosse fluorescente, ma durò soltanto un istante, perché lei si voltò di scatto, coprirsi
frettolosamente.
“Che fai?” esclamò, e la sua voce lasciò trasparire più spavento che sorpresa.
Lui avrebbe voluto scusarsi, ma non riusciva a parlare. A lato della bocca della ragazza, per via che si
era chinata a bere sul lavandino, il fondotinta era colato, lasciando intravedere una striscia di pelle della
stessa bianca luminosità della schiena. Nicole se ne accorse, e si coprì il volto con una mano, mentre
un’improvvisa sensazione di angoscia e paura invase il corpo di Simone, al punto da fargli scendere un
brivido freddo lungo la schiena. Stavolta era sicuro del fatto che quell’emozione veniva direttamente dalla
ragazza.
“Che cazzo sei?” riuscì a balbettare, e la paura si tramutò in dolore, una lama rovente che gli
attraversava i polmoni, sgonfiandoli d’aria.
Sempre con la bocca coperta dalla mano, Nicole socchiuse gli occhi, quasi facesse fatica a trattenere le
lacrime. Senza dire una parola gli scivolò a fianco, uscendo alle sue spalle senza far rumore. Quando
chiuse la porta Simone fu libero dalla spiacevole sensazione che lo aveva colpito, ma gli rimase
comunque addosso una grande tristezza, perfino superiore all’incredulità.
Raccolse le bottiglie di plastica, che senza accorgersene aveva lasciato cadere a terra, e anche quelle di
Nicole che stavano vicino al lavandino. Le prese con se e si chiuse in un bagno, si sedette sulla tazza
lercia senza tanto preoccuparsi per i pantaloni, e tirò il fiato. Gli occhi stretti, la testa nelle mani, il vuoto
nei pensieri, si sforzò di calmarsi.
Non aveva senso. Assolutamente no.
Andò a recuperare lo zaino, che trovò abbandonato sul prato. Nicole se n’era andata, ma prima di farlo
vi aveva messo dentro il libro usato come appoggio per gli origami e lo aveva chiuso. Simone fece un po’
di posto fra i quaderni per farci stare tutte e otto le bottiglie, che contava di restituirle appena l’avesse
rivista. La settimana successiva, ormai. Avrebbe almeno avuto una scusa per riavvicinarla.
Gli ritornò alla mente del libro che aveva regalato ad Aldo, “L’arte di abbordare una ragazza”. In uno
dei primi capitoli, quando si discutevano le motivazioni per cui tentare sempre e comunque l’approccio,
c’erano un sacco di frasi cretine che avevano il compito di fare coraggio all’ingenuo lettore,
sdrammatizzando eventuali reazioni negative delle prede. Fra di queste vi era anche: “Andiamo, che
volete che vi faccia, non è mica un alieno!”
Vatti a fidare dei libri.
terza settimana: “senza perché”
capitolo 4
Quel sabato l’intera compagnia di Simone era riuscita a liberarsi dagli impegni e si era accordata per
un’uscita come ormai da più d’un mese non riuscivano ad organizzare. Sei ragazzi, due auto, una pizzeria,
una strada da percorrere parlando a voce alta, godendo la temperatura mite che da un paio di giorni
rendeva piacevoli le giornate.
Tra gli scherzi e le ultime novità saltavano fuori i problemi di ognuno, che subito qualche amico
provvedeva a liquidare con: “Ma va! Che menate ti fai?”, ed era in qualche modo tranquillizzante sapere
che ci sarebbe sempre stato uno di loro a ricordare agli altri che certe preoccupazioni si potevano per
qualche istante dimenticare il sabato sera in compagnia.
Simone non fece però parola della sua storia con Nicole. La settimana precedente non aveva detto
nulla, per via del fatto che non si erano visti, e quella sera non avrebbe neppure saputo da che parte
cominciare. Come spiegare dei ricordi confusi, cui stentava lui stesso a credere, ed in cui era davvero
difficile distinguere la realtà da quella che pareva al ragazzo, con le sue illusioni e la speranza d’aver
trovato una ragazza che gli piacesse.
Lei era sempre stata la Gatta, classica bella irraggiungibile, che per un caso era divenuta il suo gioco,
quindi angoscia nel vedere che non aveva il coraggio di parlarle. Per poi essere una piacevole sorpresa,
quasi un’amica, forse un amore. Adesso, cos’era?
Simone si tenne tutto dentro, perché in fondo non ci credeva neppure lui. Troppo assurdo per esistere,
figurarsi parlarne! Divorava letteratura fantastica, era patito di film di fantascienza, non c’era videogioco
o fumetto ambientato nello spazio lontano o nel medioevo popolato da elfi e draghi di cui non conoscesse
i nomi di tutti i personaggi. Ma un conto è il sogno, un altro la vita reale, dove le ragazze non si
accorgono neppure di come si è dietro l’apparenza di un bel giubbotto o un nuovo paio di jeans, non
muoiono disidratate dopo mezz’ora e di notte non le si può usare al posto delle lampadine.
Dopo la passeggiata, la pizza, la seconda passeggiata, l’aver importunato un paio di sconosciute molto
più giovani di loro, ripetendo che erano ragazzi dolci e che, se non ci credevano, potevano assaggiare,
arrivò l’immancabile momento del bar. Seduti al tavolo, i sei ragazzi dedicarono tutta l’attenzione alla
birra o alla vodka, facendo così il loro ingresso in un mondo senza problemi, dove si è gli assoluti
padroni, e che si estende all’infinito pur avendo ragione d’esistere soltanto nella propria testa. Un
universo d’ebbrezza dove si comandano non solo le azioni, le parole, ciò che all’esterno si da, ma anche
ciò che si riceve, le percezioni, i sensi. Dove la realtà non esiste che per come la si intende, e ci si può
mescolare ad essa, divenendo il tutto assieme al niente, annullando la propria essenza.
Almeno, questo è quanto parve a Simone, mentre faceva a gara con un amico a chi per primo avrebbe
finito il boccale. Una riflessione che avrebbe potuto evolversi come tra la più raffinate di quelle che
avesse mai concepito, ma che si perse a metà strada, annegando nella schiuma che gli si formava in gola.
“In culo anche la Gatta! E che se la scopi qualcuno!” aveva esclamato, e gli amici avevano riso, forse
già ubriachi anche loro, capendo chissà cosa e portandogli altra birra.
“Ma si! In culo anche alla Cagna e a tutti gli animali della vecchia fattoria!” fece eco un piccolo coro.
“In culo la mucca… mu… la mucca… mu… la la mucca… mu… nella vecchia fattoria…”
Simone prese una delle sbornie più forti degli ultimi tempi, e solo per abitudine e resistenza all’alcool
riuscì a non vomitare tutto per terra, mentre l’unico della banda ancora in possesso di una parte della
naturale lucidità riaccompagnava tutti a casa.
La domenica pomeriggio, quando finalmente si sarebbe ripreso, gli avrebbero raccontato di come in
strada, usciti dal locale, avessero incrociato le due ragazzine di poco prima, e di come Simone si fosse
tolto jeans e mutande davanti a loro, facendole fuggire. Un atto di certo esagerato, perfino per il ragazzo
più pazzo di quella banda di eterni bambini.
“Non ricordo nulla!” avrebbe commentato lui, assolutamente incredulo ma per nulla imbarazzato.
“Peccato.”
Le prime due ore del lunedì mattina non ci sarebbe stato Aldo. La solita lezione incomprensibile, col
docente che sapeva rendere gli argomenti ancor più complessi di quanto in realtà non fossero. Senza
l’amico, né la minima idea di come comportarsi con Nicole, Simone si sentiva solo. Anzi, era strano che
la ragazza non fosse già arrivata.
Non aveva neppure voglia di prendere la solita brioche al bar, ma alla fine la forza dell’abitudine ebbe
il sopravvento, e neppure la maglietta nuova si salvò dalla pioggia di zucchero.
Era ritornato al posto, e stava modellando un foglio a quadretti per farne emergere le sembianze d’un
panda, quando sentì qualcuno sedersi al suo fianco.
“Ciao!” lo salutò una voce squillante, allegra, ma poteva esserlo soltanto in apparenza.
“Ciao, Nicole” rispose lui, involontariamente senza espressione, cercando di non staccare gli occhi dal
suo lavoro.
“Come sei serio. Non ti si riconosce.”
Simone non rispose. Troppo concentrato nel suo lavoro, finì con lo sbagliare una piega banale,
creando un solco nella carta dove non avrebbe dovuto esserci, e rovinando il tutto. Appallottolò il panda e
lo gettò semplicemente per terra. Nicole non disse una parola, ma il ragazzo sentiva i suoi occhi fissarlo.
Erano quasi soli, nell’aula, ed il docente non sarebbe arrivato in meno di dieci minuti. Venti, se se la
fosse presa comoda.
“Cos’è successo?” trovò il coraggio di chiederle, ma non di guardarla in faccia.
Nicole non rispose. Allungò la mano sul banco, e prese quella di Simone. Con dolcezza, in un gesto
che il ragazzo fece fatica ad interpretare.
“Cosa è successo, venerdì, nel bagno?” insistette, freddo.
“L’hai detto a qualcuno?” chiese a sua volta Nicole, tradendo una traccia di agitazione nella voce.
“Solo questo ti interessa?” Finalmente si voltò verso di lei. Nel suo viso trovò stanchezza, ma anche la
consueta tranquillità.
Non l’aveva raccontato a nessuno, neppure ad Aldo. Cosa avrebbe dovuto dire, del resto? Non sapeva
neppure cosa era successo, tutto era stato così astratto e veloce che aveva cominciato a crederlo soltanto
un sogno, un inganno. I suoi ricordi si erano confusi al punto, durante la domenica, da impedirgli di
pensarci, e la sera se n’era già dimenticato. Una strana reazione del suo cervello, chissà come l’avrebbe
spiegata uno psicologo? Però il trovarsi davanti la ragazza, capire che quel sogno forse era reale, che
qualcosa non quadrava, e soprattutto il sesto senso a far intuire che avrebbe passato dei guai, tutto questo
lo gettò nel panico. Non potendo sopportare di stare immobile a difendersi, era passato inconsciamente
all’attacco.
Nicole si sforzò di sorridere, ma non ci riuscì. “E’ la cosa più urgente” spiegò. “E la più facile da
chiedere.”
“Non l’ho detto a nessuno. E non lo farò. Qualsiasi cosa sia successo. Se è successo.”
La ragazza strinse più forte la mano di Simone. “Non ci credi, vero?”
“Forse, o semplicemente non lo capisco. Perché sei scappata?”
“Tu cosa avresti fatto se, in imbarazzo, colto sul vivo, ti fossi sentito dire: “Che cazzo sei?””
Simone sentì un nodo in gola, e di colpo ricordò. Tutto quanto, con lucidità, nei dettagli. “Scusami”
bisbigliò. Si sentì impotente, nuovamente in balia della situazione, e tornò all’attacco: “E’ come se mi
avessi ingannato!”
“Stai dicendo una cosa senza senso.” Anche la ragazza alzò il tono di voce.
“Dimmi solo questo: tu leggi nel pensiero?”
“Si, e ti brucio il cervello con uno sguardo! Perché mi tratti come un…” Non terminò la frase. Forse
aveva paura di dire a cosa, o semplicemente non trovava termini di paragone. Si voltò di lato.
Simone sentì la tristezza della ragazza sulla pelle, entrargli dentro, farlo partecipe di quel sentimento.
Non era lacerante come l’ultima volta, tuttavia conservava la sua intensità. Capì che era sincera.
Le prese la mano, e la strinse fra le sue. “Scusami di nuovo. Non capivo, ed ho dato a te tutta la colpa.
Forse ho esagerato, ho troppa fantasia, o è qualche film idiota che mi ha condizionato…” La fissava,
cercando di tradurre con le parole ciò che sentiva, ma era difficile, con lei voltata di lato che rifiutava di
guardarlo. “Se non mi vuoi dire nulla, hai ragione, la tua vita privata non centra coi miei affari.
Dimentichiamo tutto e basta ma, per favore, non mandiamo a quel paese l’amicizia che sarebbe potuta
nascere fra di noi.”
“Dimentichiamo?” fece il verso lei, con ironia, ma senza cattiveria. “Facciamo finta che io non sia
quello che sono, e amici come prima?” Sorrise, e tornò a fissare il ragazzo. “Anch’io devo farti le mie
scuse. Ti starai chiedendo che cosa diavolo voglio, immagino. No ho pensato che anche per te non
dev’essere una cosa di tutti i giorni.”
Di un azzurro che il quel momento era bianco, trasparente, gli occhi della ragazza passarono dalla
tristezza ad una più soffice malinconia.
“Ho sentito… paura, venerdì. Eri terrorizzata.”
Nicole strinse le labbra, pensosa, forse decidendo se fidarsi o meno di Simone. Alla fine cominciò a
parlare: “Non leggo il pensiero, come tu forse credi. Però riesco a percepire le emozioni, gli stati d’animo,
gli umori del momento, a volte perfino il carattere delle persone. Li sento addosso, nitidi come colori… e
involontariamente lascio scappare i miei. Mi sforzo di trattenerli, ma in certi momenti è difficile, e alcune
persone riescono a sentirli, più o meno intensi.”
“Vuoi dire che quello che ho sentito io…”
“Era il mio stato d’animo, un’emozione così forte ed inaspettata da non riuscire a trattenerla del tutto.
Quello che hai provato è ciò che io, ogni giorno, percepisco da ogni persona che mi sta vicina. Il mio
modo di vedere, se vuoi metterla così, di cui però io non posso fare a meno, come anche tu non puoi
evitare di sentire un forte odore sgradevole.”
Simone rimase a bocca aperta. “Le emozioni… il carattere… un modo di vedere le cose… ma è
stupendo!”
Nicole si fece ancora più seria. “Lo vuoi provare, quanto è stupendo?”
“Me lo chiedi? Dev’essere fantastico!”
La ragazza si alzò dal posto, indicandogli l’uscita. “Allora esci un attimo, prima che arrivi il docente.”
“Dove vuoi andare?”
“Alla fermata dell’autobus, e poi qui, ed il percorso che faccio io ogni mattina. Voglio farti vedere la
mia giornata attraverso i miei occhi.”
“Voi perdere un’ora di lezione?” si sorprese Simone. La domanda più fuori luogo che potesse fare sul
momento.
“Tu la chiami ancora lezione?”
“Qualcuno diceva che è maleducazione rispondere con una domanda.”
Nicole alzò le spalle, in un modo che fece capire a Simone che aveva riacquistato l’allegria di sempre,
anche nella serietà di ciò che voleva convincerlo a fare. Inaspettatamente, la ragazza lo prese per mano,
invitandolo ad alzarsi e seguirla.
Che fortuna! pensò lui, mentre raggiungevano i corridoio a passo spedito ma non troppo veloce.
Aveva davvero la pelle morbida, tiepida, ed il fondotinta che aveva sul palmo non dava affatto fastidio.
Intrecciarono le dita come due fidanzati, ed uscirono in strada.
Raggiunsero la fermata dell’autobus, dove un ragazzo dall’aria svogliata stava appoggiato al palo
dedicandosi al Walkman, forse aspettando l’ispirazione che lo convincesse ad entrare in facoltà. Simone
si chiese cosa avrebbe pensato quello, vedendolo a passeggio mano nella mano con una simile bellezza, e
non trattenne un risolino.
“Qui comincia la mia giornata” annunciò Nicole, a bassa voce. “Cerca di non pensare a niente, attento
a ciò che ti circonda, alle sensazioni… come stessi camminando in un bosco.”
Simone annuì.
“Cerca di sentire attraverso di me ciò che provo a contatto con le persone. Sarà come se tu stessi
vedendo attraverso i miei occhi, anche se molto meno intenso.”
“Sembra una pazzia… ti costa molta fatica lasciar sentire agli altri i tuoi stati d’animo?”
“Mi cosa fatica trattenerli.”
Nicole si fece più seria, attenta, e Simone seguì il suo esempio. Sentì la mano della ragazza stringere
maggiormente, sebbene quelle dita sottili avessero davvero poca forza. Fece un paio di respiri profondi,
concentrandosi soltanto sul lavoro dei propri polmoni, sforzandosi di cacciare dalla mente qualsiasi altro
pensiero.
Tornò a posare lo sguardo sul giovane col Walkman, e gli sembrò che fosse diverso. Sentiva
stanchezza, una svogliata apatia. Gli sembrò perfino di poter udire la musica che usciva dalle cuffie al
posto del ragazzo, un inconcepibile accozzaglia di suoni nervosi e del tutto scordinati.
Nicole cominciò a camminare, e Simone si lasciò guidare da lei. Attraversarono il parcheggio, sempre
affollato d’auto che cercavano posto nei modi più assurdi e fantasiosi, i motori ancora caldi degli ultimi
arrivati. Ogni tanto si vedeva girare un gatto, un orribile bestia senza padrone, di pelo nero sporco, la coda
tagliata, ed un canino inferiore sporgente. Il mostro del parcheggio, come Aldo l’aveva chiamato, che
chissà come si procurava il cibo, e non trovava di meglio da fare che mettersi in pericolo nel luogo più
trafficato dalle auto dei dintorni.
Raggiunsero l’atrio, la porta di ferro, vetro e plastica, e la segreteria. Dalla donna dietro lo sportello
arrivò un’intensa sensazione di noia, disgusto, quasi odio per gli studenti. Forse un velo d’invidia, per
quei giovani che avevano un futuro davanti, e magari sprecavano oziando la loro occasione, mentre lei era
costretta per sempre a quella vita da schifo. Simone si spiegò così i modi staccati della segretaria, che con
un sorriso plastico riusciva a rispondere alle domande dei ragazzi in modo esauriente e tuttavia senza
togliere i loro dubbi.
“Capisco tutto…” bisbigliò Simone. “Cosa sentono, come sono. Non è normale, affatto, come se fosse
la realtà di sempre ma allo stesso momento diversa. Una specie di dormiveglia, dove si assiste al sogno
ma si controlla involontariamente ogni sfumatura.”
“Passiamo per il bar” si limitò a rispondere Nicole, assorta.
Sulle scale che dirigevano al piano sottostante incrociarono Paffuto.
“Come va?” lo salutò Simone.
“Va male, va, cazzo, quel cazzo di prof che non si capisce un cazzo della puttana di lezione che fa che
io me ne vado a casa sul mio puttana di libro…” farfugliò lo strano ometto, quasi fra se, senza neppure
fermarsi. Oltrepassò i ragazzi continuando la sua incomprensibile predica.
Simone rimase scioccato sentendo la rabbia, la cattiveria di Paffuto. Una vita da inferiore, in un corpo
buffo, a cercare di essere simpatico come gli altri, bravo nello studio quanto loro, non riuscendoci quasi
mai. Risentimento fine a se stesso, che si trasformava in un odio senza bersaglio, pronto a sfogarsi contro
la prima cosa che gliene desse la possibilità. Ne ebbe quasi paura.
“Non so se voglio andare al bar” tentò di dire, ma Nicole continuò a tirarlo.
“Non ti sembrava tanto stupendo?” ironizzò, con una punta di sarcasmo.
Passarono vicino ad una coppia di studenti del primo anno, che sorseggiavano un caffè aspettando con
calma la lezione, tra poco meno di un ora. Alle loro spalle, appostato, Scarabocchio, che ne ascoltava i
discorsi. Uno dei due ragazzi era calmo, menefreghista, aveva in se l’entusiasmo di chi si lancia in una
nuova avventura, sicuro di farcela. L’altro era titubante, voleva aspettare i primi esami, e la minaccia
d’una scelta forse sbagliata lo avrebbe gettato nel panico. Un tipo ansioso, che odia aspettare, e che
preferirebbe morire piuttosto che affrontare un docente con il compito di giudicarlo.
Scarabocchio era concentrato, attento come un cecchino, teso come una molla pronta a scattare.
Sicurezza di se, spudoratezza, nessuna vergogna. Quelle sarebbero arrivare dopo, quando si sarebbe
sforzato di apparire ciò che non era, scegliendosi una maschera, dimostrandosi degno di simpatia e
rispetto.
Anche con quelli del primo anno, e per di più uomini! commentò mentalmente Simone, incerto se ciò
che stava facendo era giusto, o piuttosto non stesse violando la privacy un po’ di tutti. Si sentiva a
disagio, non solo per la novità di quelle sensazioni, ma soprattutto perché il mettere a nudo le persone che
incontrava ne esaltava troppo il carattere, gli faceva provare addosso i loro sentimenti negativi,
dall’invidia alla rabbia. Un’intensa doccia gelata per chi, come lui, aveva sempre predicato l’ottimismo,
perdendo innumerevoli serate a fantasticare sulla ricchezza di esperienze e carattere degli sconosciuti.
Sarebbe stato un potere stupendo, se avesse avuto l’occasione di provarlo tra degli amici, in un gruppo
tranquillo, sincero, fondamentalmente buono. Ma li, in quel luogo dove i rapporti tra le persone erano
nella maggioranza dei casi quelli di colleghi d’ufficio, dove comunque era forte la competitività, mentre
noia e frustrazione nascevano naturali da una serie di corsi davvero troppo selettivi, in quella folla era
come annegare nel sale, tapparsi inutilmente le orecchie davanti ad una cassa che emette musica
assordante. Capì il bisogno di Nicole di fuggire durante le pause, avere sempre un posto libero al suo
fianco. Pregò di non incrociare anche Orsetto.
Raggiunsero il bar, più che mai affollato. I tavoli con studenti già stanchi intenti a maledire la
settimana appena iniziata, un paio di ragazzi arrivati troppo tardi che, in piedi, maledicevano i disgraziati
che occupavano sedie con le cartelle, la fila alla cassa vociante e scomposta, con il solito furbo che passa
davanti. Almeno una trentina di persone, tutte diverse, eppure accomunate da una fretta nervosa.
La sensazione di quella massa informe raggiunse Simone di botto, facendolo restare per qualche
istante senza respiro, arrivando perfino a farlo sudare. Disorientato, non sapeva che fare, come muoversi,
pregava soltanto che Nicole lo trascinasse via da li, magari sul terrazzo, fra l’erba, e che lo lasciasse da
solo per un momento.
“Ascolta meglio” bisbigliò la ragazza, indicando con un cenno del capo uno dei tavoli più lontani.
Simone scorse quattro ragazzi. Uno, dai capelli lunghi, si lamentava comicamente di come il balsamo
che cambiava ogni giorno glieli rendesse fragili, un secondo commentava con lui l’ultima puntata di
“Dave’s Crack”, telefilm di successo per adolescienti frustrati. Gli altri due si tiravano alternativamente
deboli pugni, come i bimbi dell’asilo, accompagnandoli coi rispettivi soprannomi.
Il ragazzo degli origami si accorse di riuscire a percepire anche il loro legame, qualcosa di indefinibile
ma semplice, spontaneo, ed in qualche modo piacevole. Senza motivo si erano conosciuti, scambiavano
confidenza, si aiutavano a vicenda. Scherzavano gli uni degli altri, di se stessi, anche dei propri difetti.
Davano a loro modo colore all’altrimenti piatta vita universitaria. Erano come uno nitido disegno su un
foglio di confusi scarabocchi.
“Lo senti?” chiese Nicole, tranquilla.
Simone annuì, concentrato su quella sensazione per non perderla, aggrappandosi disperato per non
rimanere sommerso dalle altre che lo circondavano.
“Fra te ed Aldo è molto simile” sorrise la ragazza, e lo giudò verso il corridoio. “Chissà cosa avranno
pensato, a vederci immobili in mezzo al bar? Con la faccia che hai fatto!”
Che sono uno sbanfone che vuole farsi vedere assieme alla sua ragazza più che bella rifletté Simone,
non senza una punta di autocompiacimento. Lo aiutò a staccarsi un attimo dal ricordo di quanto era
appena successo. “Che pensino quello che vogliono. Dal mio punto di vista non ci hanno certo fatto una
figura migliore.”
Raggiunsero camminando il corridoio che portava all’aula, dove il docente stava facendo lezione. O,
conoscendolo, perlomeno ci provava. Si sedettero sulle sedie nere poco distanti dalla porta, da dove
potevano sbirciare gli sbadigli annoiati di alcuni studenti delle ultime file.
“Assurdo!” commentò Simone, fra se.
“Cosa c’è di assurdo?”
“Niente. Mi ha ricordato un vecchio pensiero. Non tanto vecchio, a dire il vero. Senti, non è che
possiamo smettere con…” indicò con lo sguardo le loro mani.
“Non lo trovavi così eccitante, prima?” scherzò Nicole.
“Mi riferivo al tenerti per mano.”
“O tutto o niente.” La ragazza lasciò la stretta, incrociando le dita sulle proprie ginocchia. Sembrava
comunque felice del complimento.
“Grazie” disse Simone, più tranquillo. Sentiva il palmo unto, forse per via del fondotinta che Nicole
aveva sulle mani. Non si fidava ancora a chiedere spiegazioni su quello, preferiva procedere un po’ per
volta. “Se me l’avessi fatto sentire in aula, durante la lezione… non so, credo sarei impazzito. Mi chiedo
come faccia tu… non solo a sopportarlo, ma sforzandoti perfino di trattenere ciò che senti…”
“Abitudine” alzò le spalle. “A dirla tutta, sono abituata fino ad un certo punto. Ma si sopravvive. Ho
imparato a concentrarmi sullo studio, come una matta, in questo modo mi da un attimo di tregua. E mi fa
andare avanti spedita.”
“Perché me l’hai mostrato?” trovò il coraggio di chiedere, fissandola con serietà.
Nicole sembrò sorpresa.
“Sono stato scortese, con te” cominciò a spiegare Simone. “Ho pensato chissà cosa, quasi tu fossi un
mostro. Non ti ho dimostrato di meritarmi fiducia. E poi, non è una cosa che si fa a cuor leggero… se si
venisse a sapere in giro… insomma, io sono pur sempre un chiacchierone!”
“Non mandiamo a quel paese l’amicizia che sarebbe potuta nascere fra di noi. Almeno, questo è
quanto ha detto poco fa qualcuno di mia conoscenza.” Gli strizzò l’occhio, e sorrise.
In quel momento Simone l’avrebbe abbracciata volentieri, accorgendosi che il miscuglio di desiderio e
tenerezza che provava nei confronti della ragazza non era stato scalfito dalla bizzarria degli ultimi
avvenimenti. Avrebbe voluto ringraziarla, ma se davvero lei riusciva a capire il suo umore quel pensiero
l’avrebbe comunque raggiunta. Vedendo che abbassava per un istante gli occhi, timida, capì di aver
indovinato.
“Ciao, ragazzi!” salutò Aldo, comparendo all’improvviso, e prendendo posto accanto a Simone.
Sfoggiava un sorriso raggiante.
“Ciao” rispose la ragazza.
“Cos’è tutta questa allegria?” chiese Simone.
“Indovina un po’? Stamattina ho ricevuto il solito attacco… e le ho risposto per le rime.” Alludeva
ovviamente a Carla, ed era così ansioso di parlarne da non preoccuparsi della presenza di Nicole e della
consueta riservatezza sull’argomento.
“Racconta, dai!” lo esortò Simone.
“Niente, abbiamo finito la lezione prima… un accordo con il docente, in cambio dei dieci minuti di
intervallo un’ora e mezza filata. Così vado subito al bar per prendermi un caffè, quando Carla si avvicina.
Mi saluta, mi chiede se va tutto bene, come sto, e solite cazzate. Da vero cafone non le ho quasi risposto,
e ho preso dallo zaino le fotocopie di analisi che le avevo fatto. Gliele ho date e le ho detto quanto mi
sono costate.”
“Grande!” si stupì Simone. “E lei?”
“Ha detto che va bene, e che mi darà i soldi appena mi vede. C’è rimasta di un male che non ti dico!”
Aldo continuava a sorridere, in modo forse eccessivo, tanto da far supporre che fosse forzato,
innaturale. Doveva essersene accorta anche Nicole, perché Simone la sentì alle sue spalle, riprendere
silenziosamente a fargli sentire le proprie sensazioni. Il ragazzo capì allora il vero stato d’animo del
biondo: poca convinzione, imbarazzo, forse pentimento. Non avrebbe voluto farla star male, per niente al
mondo, ci era stato costretto, per convincere se stesso più che lei, ma se avesse potuto sarebbe tornato
indietro in quello stesso istante. Cercava in Simone approvazione, per convincersi d’aver fatto la cosa
giusta.
Il ragazzo cercò il piede di Nicole col proprio, per ringraziarla senza farsi notare, e tirò ad Aldo una
gran pacca sulla spalla, congratulandosi con lui quanto più sinceramente gli riusciva: “Grande,
grandissimo! Ora il bambino sta diventando ometto!”
Aldo si fece rosso in viso, addirittura quanto un peperone, ma sembrava più tranquillo. “Ma va!”
esclamò, restituendo la pacca.
Lui lo colpì a sua volta. Nicole fece lo stesso con il ragazzo degli origami. In breve tempo, incuranti
del fatto che a meno di cinque metri c’era un aula di duecento studenti che seguivano la lezione, si
stavano picchiando con grande allegria, e neanche a dirlo Simone era il bersaglio preferito.
Finita la lezione di economia, Simone si offrì di accompagnare Nicole all’autobus, aspettando con lei
il successivo.
“Ti ringrazio” sorrise la ragazza. “Ma non voglio farti fare tardi. Magari la mammina ti aspetta con il
pranzo già fatto.”
“Nessun disturbo, credimi.”
“Piuttosto… domani, dopo lezione, che ne dici di fermarci a mangiare in mensa e tornare a prendere il
sole sul terrazzo?”
Simone non riusciva a crederci. “Me lo domandi?” esclamò. “Certo, per me va bene” si corresse,
moderando l’eccessivo entusiasmo. Avrebbe voluto fare una battuta sul fatto che avrebbero potuto
mettere entrambi il costume da bagno, ma conoscendo i problemi di Nicole non era il caso.
“Ottimo, allora. Così approfitteremo dell’ultimo sole che queste stagioni balorde ci concedono.” Poi,
più seria: “E così potrò spiegarti con calma…” e mostrò la mano, strofinando i polpastrelli per
sottintendere il motivo che la costringeva a ricoprirsi di fondotinta, ed il segreto della pelle luminosa.
“Va bene” rispose Simone, con tranquillità, felice dell’ennesima dimostrazione della fiducia che la
ragazza gli concedeva.
La salutò con un cenno della mano, e ritornò da Aldo, che lo aspettava in compagnia di una nuova
scatoletta di caramelle che gli ricordava episodi dell’infanzia.
Martedì la mattina passò tranquilla. I tre amici trascorsero quattro ore di lezione con impegno e
serenità, riuscendo a prestare attenzione al docente senza cadere preda della noia. Era piacevole, nel vero
senso della parola: più calmo del divertimento, ma più divertente della calma.
Nicole prendeva appunti con un ordine tipicamente femminile, in modo completo, preciso e colorato.
Aldo aveva decisamente meno assetto, ma la velocità gli era indispensabile visto che scriveva qualsiasi
monosillabo uscisse dalla bocca dei docenti, con tanto di spiegazione. Gli appunti di Simone, poi, erano
una cosa da vedere: sparsi apparentemente senza ordine sulla pagina stavano gli argomenti principali
della lezione, a lato le didascalie e, con una serie di fumetti, riquadri, numeri di collegamento, frecce
colorate e quant’altro la fantasia potesse suggerirgli, metteva le precisazioni, la dettagliata spiegazione dei
passaggi, da dove veniva quel segno meno e perché non era la stessa cosa elevare al cubo o al quadrato il
logaritmo al denominatore. Lui soltanto riusciva a capirci qualcosa, ma c’era tutto, e ciò che sembrava più
importante veniva messo nel giusto risalto.
Arrivato il momento del pranzo Nicole e Simone si diressero alla mensa universitaria, poco distante
dalla facoltà. La trovarono affollatissima, come sempre. Conoscendo la propensione dell’amica ad evitare
i luoghi affollati, il ragazzo propose di prendere un paio di panini al bar, una o due bottiglie grandi di the,
e di pranzare direttamente sul terrazzo. Lei accettò con sollievo.
“Non avrei mai detto che la mesa potesse essere così piena!” commentò la ragazza, durante il tragitto
di ritorno alla facoltà.
“Non ci sei mai andata?”
“Mai. E’ sempre così?”
“Spesso. Io ci sono andato qualche volta, il primo semestre degli anni scorsi, quando avevamo lezione
sia la mattina che il pomeriggio, e non arrivavo ad andare a casa e tornare. Tantissimi si lamentano, ma il
cibo non è così male, specie per quello che costa.” Gli venne in mente che, non essendo mai andata in una
mensa, di certo la ragazza non era alloggiata in un convitto, come moltissimi studenti della facoltà
provenienti da altre regioni. Praticamente solo un decimo degli iscritti raggiungeva i corsi da casa propria
con un autobus o in auto. “Tu non sei di fuori, vero?”
“No, sono qui della città” rispose lei, e nominò uno dei sobborghi.
Che fortuna! rifletté Simone, pensando che così, se fra loro fosse andata bene, avrebbero potuto
vedersi senza problemi anche nei fine settimana e durante le vacanze estive. Voli della fantasia.
Accarezzò l’idea di trovare una scusa per invitarla da qualche parte il sabato sera successivo.
Anche al bar c’era un po’ di coda, ma in un quarto d’ora scarso avevano già preso i panini e trovato
posto sull’erba del terrazzo, naturalmente deserto. Forse più tardi sarebbe arrivato qualcuno, per prendere
l’ultimo sole in attesa della fine della pausa per il pranzo, ma per il momento potevano godere in pace la
loro tranquillità. Si sedettero sull’erba, gambe incrociate, l’uno di fronte all’altra. Simone avrebbe voluto
togliersi la maglietta, ma abbandonò l’idea sapendo che la ragazza non poteva fare altrettanto.
“Ieri mattina mi hai accennato di un vecchio pensiero, ma poi non mi hai detto nulla” accennò Nicole,
infilandosi in bocca il panino senza tanti complimenti. “Non è che ti scoccia se parlo con la bocca piena,
vero?”
“Figurati!” rispose Simone, che naturalmente la stava immaginando riempirsi le mandibole con
qualcos’altro di più goloso, tanto per non smentire la solita fissazione. “Un vecchio pensiero… certo che
ne hai di memoria. Ah, si, è sulla gente e quanto è idiota.”
“Racconta!” lo esortò Nicole, masticando un grosso pezzo di pane e prosciutto.
“Insomma, non so se l’hai notato, ma qui in facoltà ci sono alcune persone che, non so, si vestono
come yuppie in carriera, oppure scambiano i corsi per una spiaggia. Magari sembra normale, che in ogni
gruppo ci sia sempre il fighetto esaltato, è come una specie di immancabile figura retorica, un po’ come il
secchione in ogni classe o la bella in ogni discoteca. Che mi preoccupa… è che questi fighetti esaltati
stanno diventando la maggioranza.”
“Anch’io continuo a vedere ragazzi super tirati, il sabato sera. Non credo che si sia poi nulla di male, a
farsi un po’ belli.” Alzò le spalle. “Vanità femminile.”
“Va bene, farsi belli è anche segno di auto stima. Non uscire di casa se non si è perfetti è paura di
mostrarsi a se stessi. Voglio dire, se sono simpatico o no sono cazzi miei, ci devo lavorare, devo rivedere
me stesso… o forse è una cosa innata o meno, ma per certi versi sono convinto ci sia un margine che
dipende dalla volontà. Non so di preciso, il discorso è che saper ascoltare, meritare fiducia, capire le
persone, questo è ciò che conta, e per cui bisognerebbe essere giudicati. Invece conta soltanto l’aspetto, la
prima impressione e, se me lo permetti, non credo sia una gran fatica chiedere i soldi al babbo e prendersi
il vestito più elegante del negozio.”
“E’ anche un fatto di abbinamenti, gusto estetico” replicò Nicole, che si era fatta più attenta. “Però ti
do ragione. Purtroppo è così: la gente non ha più tanta voglia di pensare, riflettere, andare nel profondo, e
così si ferma all’aspetto. Sei figo? Bene, mi piace come ragioni. Sei sfigato? Sei noioso, non me ne frega
niente. Lo ammetto, vale tantissimo anche per noi ragazze.”
“E allora si pensa che si debba colpire dal primo istante, stupire, divertire. Neanche stessimo dando
spettacolo! Che me ne frega, se la gente non si diverte, ha bisogno di essere perennemente intrattenuta?
Che si prendano un televisore, l’importante è che mi diverta io. Se poi loro lo sanno fare con me, magari
ci nascerà anche un amicizia.” Sorrise. “Un po’ come quello che avevi detto tu riguardo a Orsetto.”
Nicole annuì, dando grosso morso al panino.
Era uno dei punti di riferimento fissi di Simone, quello di non mostrarsi mai diverso da se stesso.
Piacere a persone non per quello che si è, ma perché si sa recitare bene, è sconveniente e basta, l’aveva
imparato, così come aveva capito che era inutile e spesso impossibile andare del tutto d’accordo con chi
non sapeva accettarlo per ciò che era.
Si rifletteva però sul suo solito problema del dare confidenza agli estranei, e soprattutto riceverne.
Incontrando per la prima volta qualcuno, per essere sicuro di meritare la sua attenzione, incoraggiarlo al
dialogo e a conoscersi, era sufficiente la simpatia che Simone reputava di avere? Moltissime volte no, in
modo particolare con le ragazze, che lo snobbavano al primo sguardo, preferendo concentrare la loro
attenzione su qualcuno di meno noioso e più interessante. Cioè il figo del bar. Quanto davano fastidio,
quelle strette di mano senza forza, quello sguardo indifferente come potesse vedere attraverso, e il
sorrisino beffardo di chi già sa tutto e non ha tempo per i bambini!
“La gente non vuole altro che metterti un’etichetta” commentò Nicole, dopo aver riflettuto un
momento. “Così poi è più facile giudicarti, capirti, catalogarti come positivo o negativo.”
“Lo so bene, purtroppo. E questa etichetta uno se la può creare da solo, oppure aspettare che lo
facciano gli altri. Io sono nettamente per la seconda possibilità.”
“Non mi sembri il tipo che si lascia stereotipare.”
“Se posso evitarlo, no di certo. Ma quando è necessario, preferisco che lo facciano loro. Metti che io
sia giudicato come il simpatico, l’estroverso, l’allegro perditempo senza problemi. Un giorno, per umore,
situazione o quello che è ho voglia si stare serio, riflettere, parlare con serietà. Se sono stato io, a farmi
giudicare come brillante, sono fottuto: non sono più quello che diverte, ho perso tutto ciò che avevo da
dare. Se invece sono stati loro a giudicarmi così, tanto di guadagnato, li ho spiazzati, e semplicemente
essendo me stesso. E magari li incuriosisco pure.”
Nicole sgranò gli occhi. “Ci hai riflettuto su parecchio, vero?” Sorrise. “Comunque ti do nuovamente
ragione.”
“Quello che mi è tornato in mente ieri, comunque, è questo: più di un mese fa io e il mio gruppo
abbiamo deciso di fare un sabato sera più fuori di testa del solito, e siamo andati lontano, in una valle
d’alta montagna, tra i paesi. Per darti un’idea, abbiamo scovato la saga del vino, in una piazza, con tanto
di vecchi ubriaconi che cantavano a bestemmie.”
La ragazza ridacchiò. “Mi sarebbe piaciuto esserci.”
“Aspetta. Poco lontano abbiamo trovato un bar discoteca, uno di quei posti super moderni che ti
massacrano occhi e orecchie. Siamo entrati e… sembrava un altro pianeta! Pizzi ossigenati, giacche di
pelle, occhiali che servivano a tutto tranne che a vedere meglio, scarpe che sembravano scafandri da sub,
scollature da qui alla città, minigonne della lunghezza di un tanga… anche le pettinature, cose ultra
ricercate, molti di loro dovevano aver passato il pomeriggio dal parrucchiere, e sicuramente dopo una
notte di sonno non sarebbe rimasto che il ricordo dell’acconciatura. Tutti all’incirca miei coetanei.
Sembravano usciti dalle pagine d’un catalogo di moda. Non ce n’era uno di normale.”
“Accidenti!”
“Io e i miei amici eravamo tuta, felpa e pantaloni. Uno sguardo e ci avevano già snobbati. Dovunque
c’era noia, sex symbol tutti quanti ma seduti ad un tavolo, a scambiarsi occhiate con una ragazza che
senza trucco non sarebbe sembrata neanche lei, o a far finta di scatenarsi a ballare. Come una tribù, o sei
come loro o sei fuori. Uno dei momenti più imbarazzanti della mia vita. Siamo dovuti scappare.”
“Immagino. Ma sul serio ti ha scioccato così tanto?”
“Per un attimo ho avuto paura che sarebbe diventato così ovunque. Mi sono visto costretto ad essere
come loro anche solo per riuscire a scambiare due parole con un estraneo. Insomma, a forza di
fantasticare su quante persone in gamba potrei incontrare se avessi più coraggio, mi dimentico spesso che
gli imbecilli sono la stragrande maggioranza!”
“Se vai in posti del genere, di sicuro. Mi piace, come discorso, ma è un po’ complesso, e vorrei
ragionarci un po’ per conto mio prima di ribattere. Non sono così pessimista.” Nicole aveva appena finito
il panino. Si pulì in qualche modo con il tovagliolo per poi attaccarsi alla bottiglia del the. Non si faceva
problemi a mangiare come si fa tra amici, a passarsi le bevande bevendo entrambi senza bicchiere.
Bella come poche, intelligente, alla mano e capace di rendersi simpatica da subito, per di più in grado
di capire cosa pensa la gente e giudicarla… se non fosse stata così semplice, gentile, e avesse deciso di
usare a proprio favore quelle doti, chissà cosa avrebbe potuto fare.
“Comunque” riprese la ragazza, quando ebbe finito. “E’ vero che si incontra sempre più spesso gente
strana. Esaltati, rissosi, addirittura maniaci. Pensa che un paio ragazze che conosco di vista, questo sabato
sera, mentre passeggiavano per la città sono state tampinate da un gruppetto di affamati, e non riuscivano
più a liberarsene, non sanno neanche loro come ci sono riuscite. A fine serata li hanno rincontrati,
ubriachi marci, e uno di loro si è tolto le mutande, in mezzo alla strada, e si è messo a rincorrerle.”
“Quelli sono casi umani poco umani. Eccezioni” rispose Simone, cercando di soffocare nella mente un
leggero senso di deja vu. “Ne approfitto per farti una domanda. Conosci una ragazza della facoltà di nome
Carla?”
“La biondina? Quella bassa e sempre pimpante? Chi non la conosce?”
“Cosa ne pensi di lei?” Intendeva sapere il carattere della ragazza: grazie al suo sesto senso Nicole
sarebbe riuscita a capirlo con precisione.
“E’ per Aldo?”
“Hai indovinato” rispose Simone, un po’ sorpreso. Si ricordò della mattina precedente, quanto la
ragazza si era accorta del dubbio dell’amico, e lo aveva fatto percepire anche a lui.
Nicole si fece assorta, quasi cercasse nei propri ricordi, e cominciò a spiegare con calma: “Una
ragazza estroversa, allegra, piena di energia… ma anche molto insicura. Desiderosa di essere perfetta,
sempre pronta, scattante come una molla. Non può mostrare il fianco un minuto, deve essere sempre
sopra gli altri, nello studio come nelle amicizie. Un po’ come l’etichetta di cui parlavi tu poco fa.”
Simone annuì.
“Dimostrare di essere la meglio, soprattutto a se stessa. Il fatto che si circondi di persone, significa che
ha paura della solitudine. Ha bisogno continuo di gente con cui raffrontarsi, paragonarsi più o meno di
continuo, cercare certezza nelle proprie capacità, nel carattere. Il che la rende un po’ sbanfona con alcuni,
nettamente competitiva con altri, come ad esempio il tuo amico.”
“Nello studio è più bravo lui, anche se non c’è una differenza marcata. Dici che le bruci così tanto?”
“Se ti fidi della mia semplice opinione, perché questo non dipende dalla mia capacità, Aldo e Carla
insieme ce li vedrei bene davvero. Hanno molto in comune, sono impegnati e riflessivi, amano i viaggi e
la tranquillità. In più il tuo amico potrebbe insegnarle un po’ di umiltà, di riservatezza, mentre lei gli
potrebbe mostrare come essere più estroverso, pratico, forse addirittura meno ingenuo.”
Simone si chiese come avesse fatto la ragazza a capire anche che Aldo amasse viaggiare. Rimase in
silenzio, ripensando a quelle parole.
“Quindi, per te, c’è una possibilità?” chiese.
Nicole esitò. “Non al momento. Carla ha la necessità di rapportarsi con persone meno brave di lei, in
tutto, e francamente parlando penso che Aldo abbia molto più di lei da dare. E’ una persona migliore, in
moltissime cose, tu per primo credo te ne sia accorto. La bontà, quella spontanea, non la si può copiare.”
“Quindi è meglio lasciar perdere…”
“Te l’ho detto, è soltanto un mio parere. Tu non dire nulla ad Aldo.”
Si fissarono. Simone rifletté al senso del loro discorso, e sull’opportunità o meno di una possibile
storia fra lui e la ragazza che gli stava di fronte. Forse bastava continuare così come stava facendo,
entrando in confidenza sempre maggiore, perché di certo lei si era accorta di quali fossero le sue
intenzioni, se non altro per via della sua eccezionale percezione, e sembrava anzi cercarlo a sua volta.
Preferiva procedere con calma, per non rovinare tutto con una cazzata: la posta in gioco era troppo alta
per rischiare, anche se l’attesa ed il dubbio cominciavano a divenire un peso fastidioso. Stava tutto
sommato procedendo ad una velocità sorprendente.
Nicole bevve un lungo sorso dalla bottiglia di the. Si asciugò le labbra con il dorso della mano, senza
staccare per un momento gli occhi da Simone. Le iridi erano come sempre grandi, luminose,
bianchissime. Davano tranquillità.
“Ti starai chiedendo perché bevo così tanto.”
“In effetti me lo sono chiesto più di una volta. Ma, ti ripeto, non sei obbligata a dirmi cose che è
meglio io non sappia.”
“No, no, dopotutto siamo qui per questo.” Tirò un sospiro profondo, e per un attimo abbassò lo
sguardo. “Chi l’avrebbe mai detto? E’ cominciato tutto quando avevo quindici anni. Non so se hai
presente tutti i problemi che si fa una ragazza nel periodo dell’adolescenza, con il corpo che cambia e uno
strano senso di disagio, quasi si facesse fatica a credere di appartenere veramente al mondo. Il non
piacersi, e la paura di non essere accettati dagli altri. I dubbi, l’incertezza. Ecco, come non ne avessi avuti
già abbastanza, ho avuto questa bella sorpresa!” Ridacchiò, ma a Simone fu chiaro che, al momento, per
la ragazza fosse stato tutt’altro che divertente. Non disse nulla, per non interromperla o metterla
maggiormente a disagio.
“Per fortuna le mie amiche di allora, che sono anche quelle di adesso, le conoscevo dalle elementari.
Un bel gruppetto, affiatato, anche se siamo soltanto in tre. Degne di fiducia e disponibili, anche a
quell’età. Mi hanno aiutato loro a tenere il segreto. Peccato che non abbiano scelto la mia stessa facoltà.”
Si guardò intorno per assicurarsi che non ci fosse nessuno, quindi prese una manica della maglietta
che portava e la tirò su, fino oltre al gomito. La pelle era bianchissima, e luminosa, anche se in modo
appena percettibile. Sembrava perfino calda.
Allungò l’altra mano, per prendere quella di Simone e appoggiarla sul braccio. Il ragazzo la lasciò
fare, e sentì che quella carne realmente tiepida, un po’ più del normale, e soprattutto incredibilmente
morbida, benché Nicole non avesse molta carne attorno alle ossa. Sembrava di affondare le dita nel
velluto, ed era straordinariamente piacevole.
“Per stare a mio agio, ho bisogno di una temperatura lievemente più fredda dell’esterno” ricominciò
Nicole. “La mia pelle è poco isolante, a quanto vedi. Per evitare il caldo l’unica cosa che posso fare è
continuare a bere. Tieni anche presente cosa vuol dire passare la giornata coperta dal fondotinta, per di
più il modello più resistente.”
“Immagino” rispose Simone, che ormai si era abituato alle bizzarrie della ragazza, ed ascoltava con
più interesse che incredulità. Ripensò per un istante alla prima volta che le aveva parlato, le famose dieci
frasi per attaccare bottone ed aprire il discorso. Lanciati, non lasciarti fregare dalla timidezza si era detto
allora. Non hai idea di cosa possa succedere. Non avrebbe sul serio potuto immaginarlo, neppure
lontanamente.
“Se mi chiedi il perché, non lo so neanch’io. E’ una di quelle cose che succedono e basta, a dire il vero
non mi è chiaro neppure come possa avvenire.” L’accento di Nicole tradì un velo di malinconia. “Era già
successo ad una zia, dalla parte paterna. Dev’essere qualcosa di recessivo. La prima volta che sono andata
da un dottore l’ha scambiato per albinismo. Per fortuna è il medico di famiglia da molto, e non ha fatto
inutile pubblicità.”
Simone le accarezzò il braccio, con delicatezza. Il contatto era davvero piacevole, ed arrivò a chiedersi
fino a che punto centrassero i suoi sentimenti per la ragazza e la situazione che si era creata. Gli vennero
in mente all’improvviso Dante, la Divina Commedia, la tecnica del contrappasso e quello che aveva detto
ad Aldo riguardo a Carla, cioè che era una ragazza col cazzo. Gli sarebbe stato davvero bene se Nicole,
come confessione finale, si fosse calata i pantaloni e gli avesse mostrato che l’ultima delle sue bizzarrie
era un palo da mezzo metro.
Si morse le labbra con forza, per evitare di scoppiare a ridere a quel pensiero, cosa davvero poco
educata nei confronti della ragazza dopo quello che gli aveva confidato. Lei mosse la mano verso il suo
volto, e il ragazzo temette che gli sarebbe arrivata una sberla. Invece gli accarezzò i capelli.
“Avrei giurato che saresti rimasto impressionato. Schifato. Spaventato. Invece sembra che adesso ti
stupisca e basta.”
“Sono sorpreso. E molto. Ma non è una cosa che faccia paura, anzi, continua a sembrarmi stupendo,
anche ora che so cosa vuol dire conviverci tutti i giorni. Devi essere davvero in gamba.” Le fissò le
labbra, poi gli occhi, e di nuovo le labbra. “Tu che riesci a capire le persone soltanto passandoci vicina…
perché hai scelto di conoscermi?”
Nicole sorrise, in modo dolcissimo e materno. Sfiorò per un secondo ancora i capelli di Simone, e
ritirò la mano. “Adesso vuoi sapere troppo. Sono sempre una donna, dopotutto.” Gli strizzò l’occhio,
amichevole.
Simone rimase abbastanza soddisfatto della risposta, e rifletté sull’eventualità o meno di approfondire
il discorso che lei era una donna, lui un uomo, e tutto ciò che ne consegue. Aveva parlato di un gruppo di
due amiche, sole donne dunque, come le uniche persone con cui girasse e che conoscessero oltre a lui
quel segreto. Quindi non aveva un ragazzo. Ottimo. La fortuna sembrava essere particolarmente generosa
quel giorno.
Un paio di studenti raggiunsero il terrazzo, e Nicole si affrettò a coprirsi il braccio. Li osservarono
prendere posto sull’erba ad una decina di metri da loro, estrarre i libri dagli zaini e cominciare a studiare.
“Che gente” commentò Simone fra se. “Studiano anche qui, con questo bel sole!”
“Perché, tu cosa credevi di fare?” si sorprese Nicole, frugando a sua volta nella cartella.
“Non mi dirai che…”
“Siamo universitari, non è che possiamo perdere un pomeriggio intero così, senza fare nulla.”
“Hai vinto” si arrese Simone, abbassando la testa sotto la doccia gelata che aveva ricevuto. “Magari ne
approfitto per farmi dare qualche ripetizione da te.”
capitolo 5
“Com’è andato il tuo appuntamento?” chiese Aldo il pomeriggio successivo, attendendo la risposta
con gli occhi sgranati ed un sorriso che ormai era tradizione.
“Ottimamente. Ho imparato un nuovo sistema per svolgere gli integrali doppi a sostituzione di
variabile” rispose il ragazzo con svogliata ironia. Erano seduti ai loro posti nell’aula semideserta, e Nicole
non era ancora arrivata, poteva quindi parlare con tranquillità.
“Ma va! Mi prendi in giro?”
“E’ l’unica volta che non lo sto facendo. Sul serio, alla fine abbiamo finito per studiare insieme. Non è
stato neppure male, a dire il vero. Una cosa lenta, ma se andasse così non è da escludere che ce la possa
fare. Sempre che non perda prima la pazienza.” Fece segno all’amico di avvicinarsi, passando ad un tono
più complice: “Dimmi, ti piacerebbe far restare Carla veramente di merda?”
“In che senso?”
“L’altro ieri, con la storia delle fotocopie, l’hai fatta rimanere male, vero? Bene, forse ho capito il
modo di farla restare ancora peggio!”
Aldo piegò la bocca in un modo dubbioso, ma non obbiettò. Nicole aveva consigliato di lasciar
perdere, aspettare, ma Simone non amava stare con le mani in mano. Approfittando del momento in cui
l’amico era lanciato, poteva cogliere l’occasione per concludere definitivamente la vicenda, magari in
modo che il biondo ne uscisse ancora a testa alta. Non avrebbe insistito, era ancora valido quanto si era
ripromesso la settimana prima, dopo il loro litigio, ma perlomeno si sentiva in dovere di proporre l’idea.
“La devi colpire nel suo punto debole… dove fa più male.”
“Le palle?”
“Si, anche, ma stavo parlando in senso metaforico. Avvicinati quasi per scusarti, lasciala sbanfare un
po’, come fa sempre… e vai! Ribatti alle sue sbanfate, dove non può dimostrarti che ti può superare, dove
per quanto si impegni non ti può neppure raggiungere. Fallo con ingenuità, col tuo tono naturale, quasi ti
scappasse. Vedrai che la fai incazzare come non mai!”
Il viso di Aldo passò dal perplesso al curioso. “E cosa dovrei dirle?”
“I voti, per esempio. Tu sei sempre più alto di lei di un paio di punti… a parte quando prendete trenta
tutti e due. Ti tirerà sicuramente fuori qualche discorso sugli esami, lo fa di abitudine, se sei preparato o
meno, come studi, che libri hai. Fatti scappare una frase sui punteggi, sulle medie alte, l’importanza nel
voto finale delle valutazioni precedenti, e di… un certo tipo di libretto.” Schioccò le dita, raccogliendo
un’improvvisa illuminazione. “Parla di una borsa di studio. Anche a lei piace viaggiare, no? Inventati
qualcosa di un Erasmus per andare in America, un concorso a numero chiuso… insomma, vai di fantasia,
e soprattutto… sbanfa!”
“Dici che ci rimane male su serio?”
“Ti odierà a morte. Garantito. Però devi farlo bene.”
“Ottimo.” Aldo si limitò ad alzare le sopracciglia. Non era convinto, ma ci avrebbe pensato. “A
proposito” cominciò, cambiando tono di voce e discorso con una naturalezza sorprendente. “Cosa mi dici
della Gatta?”
“Ti ho già detto che abbiamo soltanto studiato analisi e fatto qualche esercizio.”
“Non dicevo di quello. Ti ha detto perché si mette il fondotinta sulle mani? O perché beve così tanto?”
“Cosa sono, i tuoi chiodi fissi? Me lo chiedi ogni volta!” Simone la buttò sul ridere, esagerando. Era
una situazione che avrebbe preferito evitare. Ad Aldo le stranezze di Nicole non erano passate
inosservate, ed era naturale volesse qualche spiegazione. Con lui Simone si sentiva in dovere di essere
sincero fino in fondo, perfino nelle confidenze. D’altra parte, Nicole si era fidata di lui, al punto di non
dovergli neppure raccomandare di mantenere il segreto, cosa che, in ogni modo, sembrava essere una
delle maggiori preoccupazioni della ragazza.
“Le avrai chiesto qualcosa, no?” insisté Aldo, con curiosità. “Se vuoi lo faccio io per te.”
I primi studenti cominciavano a popolare l’aula, presto sarebbero arrivati anche Nicole e il docente.
Doveva pensare qualcosa alla svelta, per chiudere il discorso una volta per tutte senza destare sospetti.
Non poteva pregare l’amico di stare zitto, non aveva senso, e nonostante la sua caratteristica ingenuità
avrebbe potuto intuire che qualcosa non andava. O semplicemente, spinto dalla curiosità, o
soprappensiero, avrebbe finito col rivolgere a Nicole qualche domanda che l’avrebbe messa in crisi.
Situazione da evitare ad ogni costo.
Prese finalmente una decisione.
“Va bene, ti dirò tutto” bisbigliò, pensoso. “Ma devi promettermi… giurarmi… che non ne farai
parola con nessuno, men che meno con lei.”
“Certo” rispose Aldo, sorpreso da tanta improvvisa serietà.
“E’ una cosa che, a prima vista potrebbe parerti bizzarra. Se non surreale. Non spaventarti.”
“Addirittura?”
“Avrai notato che, durante le pause, Nicole lascia sempre l’aula, diretta chissà dove.”
“Si, l’ho notato.”
“Ecco, devi sapere che…” Diede un ultima occhiata, per assicurarsi che la ragazza non fosse nei
paraggi. “Ricordati che è importante lo tenga per te!”
“A chi vuoi che lo dica, che non conosco quasi nessuno!” esclamò Aldo, ormai al limite della
curiosità.
“Devi sapere che Nicole non è una ragazza come noi. Lei è…” Deglutì, cercando le parole.
“Incontinente!”
“Cosa?” si stupì Aldo, sgranando tanto d’occhi.
“Si, ha problemi di vescica. Gravi, a quanto pare. Uno choc infantile, a soli tre anni il suo sedere nudo
è comparso in televisione per pubblicizzare una marca di pannolini. Un duro colpo. Allora è costretta a
bere come una spugna, per non morire disidratata. Guarda quanto è magra, poveretta.” Mimò un
singhiozzo, portando le dita agli occhi, come stesse per mettersi a piangere. “E’ a causa di questo suo
problema è anche piena di brufoli. Sulle braccia, sul collo, ovunque. Lo sai, vero, cosa questo può voler
dire per una donna? Il fondotinta le evita una snervante umiliazione ogni volta che sta in mezzo alla
gente.”
Aldo era perplesso. Non sapeva che dire. “Mi stai prendendo in giro, vero?” chiese, un po’ titubante.
“Adesso si” esclamò Simone, tornando di colpo allegro. Poi, più serio: “Ti prometto di chiederle tutto,
un giorno o l’altro, ma tu non fare niente. Sai come sono le donne, con la loro vanità e tutti quei problemi
assurdi. Ha incuriosito anche me, ti dico la verità, ma visto che ho una storia in ballo non voglio mandarla
all’aria ficcando il naso dove non devo.” Strizzò l’occhio, dandogli la consueta pacca sulla spalla. “Tanto
prima o poi la vedrò sicuramente nuda!”
“Ma va!” commentò Aldo, scoppiando a ridere. La questione si chiuse li.
Non ci furono novità per tutta la mattina. Alla fine della lezione Simone trovò il coraggio di proporre
a Nicole, per l’indomani pomeriggio, di ripetere ciò che avevano fatto il giorno prima: pranzo sul prato,
due chiacchiere e studio insieme. Lei accettò con entusiasmo, che era giusto godersi il sole finché c’era, e
anche perché, per gli esercizi, è meglio darsi una mano, e più si è meglio si è. Naturalmente entrambi si
guardarono bene dal proporre di invitare anche Aldo. Simone aveva già chiesto all’amico se ciò non lo
scocciasse, e lui aveva risposto di no, anche perché il biondo divorava gli scritti con velocità e precisione
impressionanti anche studiando da solo.
“Basta che il bel tempo duri” si augurò Nicole.
Così, sorridente e soddisfatto, Simone si diresse in aula Internet per fare caccia grossa, trovando
fortunatamente un computer libero. Era proprio la sua giornata, constatò, scovando su un sito uno degli
origami più stupendi, ma anche difficili, che gli fosse mai capitato di avere sottomano: la mantide
religiosa. Cento passaggi esatti. Sette fogli straripanti di disegni. Piccole zampe ed antenne che
probabilmente sarebbero risultate spesse come tronchi a forza di piegare la carta su se stessa. Insomma,
pane per i suoi denti.
Giovedì c’era effettivamente un bel sole, caldo ma non soffocante. Il cielo era azzurrissimo, sgombro
dalle nubi, e sarebbe stato così per altri due giorni almeno. Perfetto.
Le prime due ore della mattina trascorsero all’insegna dell’euforia, con il docente che si stava
rassegnando a parlare soltanto per i muri, Simone che dava sfoggio della sua abilità realizzando sotto gli
occhi di Nicole i cento complicati passaggi dell’origami della mantide, già imparati a memoria la sera
prima, e la ragazza che raccontava la trama dell’ultima stupidissima puntata di “Dave’s Crack”, senza
avidità di battute e divagazioni più o meno inventate. Li raggiunse poi anche Aldo, per due ore di lezione
più attente ma non meno vivaci.
Arrivato il momento del pranzo Simone e Nicole si lanciarono al bar, superando d’un pelo il gruppo di
studenti che, uscendo dall’aula, si dirigeva in massa alla ricerca di cibo, dolciumi o un caffè. Presero un
paio di panini a testa, rifornimento d’acqua e the a sufficienza, e si diressero al terrazzo.
Stavolta c’era già qualcuno, un paio di studenti più giovani che riposavano sdraiati sull’erba, ed una
ragazza decisamente fuori corso e dalle forme dannatamente generose che studiava sotto il sole,
sfoggiando soltanto una canottiera leggera che doveva faticare non poco a trattenere tutta quella ciccia.
“La latteria!” commentò Simone a bassa voce, sottintendendo i seni della ragazza, enormi benché
tutt’uno con la pancia.
“Uomini!” ribatté Nicole.
Scelsero il posto più isolato e si sedettero sull’erba, gambe incrociate, l’uno a fianco dell’altro, la
schiena rivolta al sole per evitarne i raggi più intensi del mezzogiorno. Simone prese dallo zaino un paio
di berretti con la visiera, per la verità non troppo nuovi, e ne porse uno alla ragazza.
“Sei un tesoro” commentò lei. “Ne hai uno anche per la latteria?”
“Si, ma non glielo posso dare. Lo uso come zaino.” Risero tutti e due. “Anche tu, comunque, sei
piuttosto bastarda!”
“Avrò preso da qualcuno di mia conoscenza.” Replicò, ma senza aria di critica. “Ci manca solo che
anch’io cominci a dare nomignoli a tutti quelli che incontro.”
“E’ un po’ il vezzo. Lo sfogo di un paio di studenti frustrati” cominciò a spiegare Simone, per nulla
imbarazzato. “O semplicemente, un modo per rendere familiari tutte le facce che ci girano attorno, ma di
cui conosciamo a malapena il nome perché l’abbiamo sentito chiamare agli appelli degli esami. Un
umorismo facile, se vuoi, da bastardi, ma non credo faccia male finché rimane fra noi, proprio per il fatto
che i nostri bersagli non li conosciamo.” Fece una smorfia, pensoso. “Anzi, non è che siamo proprio così
cattivi. Io al massimo battezzo con eufemismi, stereotipi, animali da fattoria o storpiature del cognome.
Chissà quante persone userebbero direttamente un: “Gran faccia da culo”.”
“Non fa una piega” sorrise la ragazza, mettendo mano al panino. Anche se erano a fianco, stavano
voltati l’uno verso l’altra.
“Allora non sono un piccolo bastardo?”
“No.”
“Peccato!”
Nicole si fece più seria: “Io una volta ero una piccola bastarda.”
“Non ci credo.”
“Dico sul serio. Una carognetta di prim’ordine!”
Simone si limitò ad esprimere con una smorfia la propria dubbiosità. Nicole lo studiò per un
momento, le iridi chiare e limpide, praticamente un grigio pallido. Si sistemò per stare seduta più comoda,
e riprese a raccontare con pazienza, ma anche ironia, del proprio passato: “Riguarda sempre la mia
adolescenza. Il periodo di cui ti ho parlato l’altro giorno. Un po’ stronzetta lo ero da prima: avevo capito
come stare simpatica alle persone, nei gruppi facevo quella che comandava, anche a scuola non ero una
cima ma diventavo la coccolina di ogni maestra. Insomma, avevo già capito di essere una ragazza
considerata carina, e che vantaggi ciò poteva dare.” Sorrise, un po’ vergognandosi. Anche se parlava con
naturalezza, non era un discorso di poca importanza, almeno per lei.
“E’ arrivata poi la… sorpresa, e tutti i problemi del caso.” Alludeva al proprio bizzarro potere.
“Nell’età dove le simpatie cominciano a diventare innamoramenti, portandosi appresso quei momenti di
dubbi, timidezza, e soprattutto illusioni, che la fanno sembrare un po’ magica. Io non l’ho avuto. Non mi
mancavano certo le certezze: capivo subito cosa la gente pensasse di me, se erano o no sinceri quei
ragazzini che mi dicevano i primi “ti voglio bene”, così finirono anche le illusioni. Giovani adolescenti
immaturi, d’accordo, ma il cui unico pensiero era competere nello sport, nei motorini, nel vestire… e con
le donne. Soprattutto questo io rappresentavo: la bella, quella da “ripassare” assolutamente, quella che se
eri veramente figo ci stava, altrimenti eri sfigato. Un traguardo, non una persona.”
“Mi immagino col passare degli anni…”
“Quando dalla competitività si passa al tentare di accontentare gli ormoni in subbuglio? Immagini
bene. Ma non c’ero ancora arrivata, per il momento avevo i primi problemi col dovermi coprire la pelle, e
magari il dovermi mettere dei vestiti larghi per nascondermi, farmi brutta, tentare di passare
semplicemente inosservata. Volevo starmene per conto mio, non avrei potuto comunque avere un
ragazzo, perché rischiare di affezionarmi a qualcuno? Non che si ponesse il problema, come ti ho già
detto, i miei coetanei maschi a malapena li sopportavo.”
Non avrei potuto comunque avere un ragazzo. Questa frase rimbombò nelle orecchie di Simone con
preoccupante insistenza. Non ci doveva pensare, Nicole se ne sarebbe accorta e, in quel momento,
ascoltando le sue confidenze, la preoccupazione per una cosa simile avrebbe potuto essere un duro colpo
per la ragazza.
Oddio, non è che sia neppure una cosa da poco ammise a se stesso, consolandosi però pensando che
quel “non avrei potuto” era un tempo passato, poteva forse riferirsi al fatto che Nicole volesse tenere il
segreto su quanto le stava succedendo. Si sa come sono i ragazzini di una certa età, sicuramente le
avrebbero dato un soprannome da alieno o mostro mitologico e chissà come l’avrebbero trattata. Ripensò
al fatto che Nicole avesse soltanto amiche donne.
“Con un’adolescenza del genere, se sei diventata bastarda soltanto un po’ sei anche troppo fortunata”
commentò Simone, che non avrebbe proprio saputo che altro dire.
“Era soprattutto l’invidia. Verso le mie coetanee, che non avevano tutti i miei problemi, vivevano il
loro periodo rosa di principi azzurri e bugie senza tanti pensieri. La loro magia da fiaba. Cosa c’era di
tanto particolare nel tenersi semplicemente per mano, in uno sguardo, in quello che gli scrittori
definiscono “capirsi senza parlare”? Io provavo qualcosa decine di volte più intenso con una persona
semplicemente standole vicino! Le guardavo allora senza capire, povere stupide, scoppiare il lacrime per
un culetto troppo bello ma anche maleducato, una mano allungata troppo presto o una parola dolce non
detta quando serviva. Più di una volta ho pensato che si divertissero addirittura, a inseguire i tipi sbagliati
per starci male e basta.” Ridacchiò, più sollevata. “Indovina allora cosa ho fatto?”
“Mal comune mezzo gaudio!”
“Esatto! Visto che non potevo avere io il mio bel ragazzone che mi desse una ripassata, perché
lasciare che gli altri si divertissero invece di approfittarne per sfogarmi un po’? Ho imparato a vestirmi
con un po’ di gusto, come capire veramente l’umore e gli stati d’animo delle persone, dove e come si
possono colpire cogliendo il momento giusto.” Assunse un tono comicamente teatrale: “Sono diventata
così la bella fatale che illude e non si da, stuzzica ma si tira indietro al momento giusto, la bastarda che
gioca coi sentimenti come un gatto col topo.”
O come una Gatta pensò Simone, ringraziando mentalmente che la ragazza avesse smesso quel modo
di fare. Si rese conto che sarebbe stata la vittima perfetta, e che ci sarebbe cascato in pieno. “Immagino
già che commenti ti sarai tirata addosso.”
“Non certo lusinghieri. L’hai mai notato quando possano essere volgari i ragazzini? Non ci si crede,
eppure vai ad ascoltare di nascosto degli scolaretti che giocano a palla. C’è da farsi accapponare la pelle.”
Si strinse nelle spalle, per enfatizzare quanto aveva appena detto. “Comunque mi stavo abituando a
sentire la cattiveria che la gente di solito nasconde, non mi pesava più di tanto quello che mi veniva detto
dietro le spalle. Andavo avanti, senza pensare a come sarei finita, dopotutto ero anch’io una ragazzina.
Finché cominciarono le superiori, e mi ritrovai in classe le vecchie amiche delle elementari. Le due di cui
ti parlavo, e che avevo finito col perdere un po’ di vista.”
“Loro come ti giudicavano?”
“Dire che avevano perso la stima di me è parecchio riduttivo. O cambiavo o con loro avevo chiuso.
Erano le uniche persone di cui mi fidavo, che mi avevano ascoltata. Avrebbero saputo mantenere il
segreto su quanto era successo e facendo di tutto per farmi sentire come loro. Mi ero scordata che ci sono
anche degli amici, presa com’ero a cercare il male in ognuno, la mia personale caccia alle streghe. Forse
lo vedevo anche dove non c’era. Nauseata dalle brutte impressioni che mi saltavano continuamente
addosso, mi ero dimenticata che ci sono anche persone splendide, e che le devo cercare, tenere vicine. In
un’età dove si scopre se stessi, io avevo imparato a conoscere gli altri più di quanto non potessero
sospettare, ma mi ero dimenticata di me.”
Simone davvero non sapeva che dire. Le confessioni di Nicole erano concentrate, comprendevano
discorsi e particolari che avrebbero meritato d’essere discussi ed ascoltati singolarmente, eppure aveva
saputo raccontare tutto in modo sintetico e con completezza, facendo soltanto intuire tutti i problemi che
quelle storia le aveva causato, perché voleva farsi ascoltare, non essere consolata. Ancora una volta
Simone si stupì della naturalezza con cui Nicole si apriva a lui, anche su argomenti che una ragazza
solitamente evita come la peste, facendolo da un punto di vista neutro, imparziale e quasi estraneo
all’intera vicenda. Per un istante prese in considerazione l’ipotesi di chiedere spiegazioni approfondite sul
fatto che lei potesse o meno, al momento, avere un ragazzo.
Lei lo guardò, forse interrogandosi su quel silenzio pensoso. “Insomma, questo è avanzato!” esclamò,
alzando le spalle.
“Digli poco!”
“Spero ora non comincerai a guardarmi con occhio diverso.”
“Un po’ si. Con maggiore ammirazione, forse.”
Nicole riprese la bottiglia e fece un altro paio di lunghi sorsi. Anche se lo nascondeva dietro quel
gesto, sembrava aver apprezzato il complimento.
“Anch’io devo farti una confessione” cominciò Simone, serio. “Non l’ho mai detto a nessuno. Forse
perché non ne avevo motivo, o perché temevo lo potessero usare contro di me.”
Nicole lo fissò con gli occhi sgranati, attenta e curiosa.
“Devi sapere che io…” Deglutì, incerto se continuare o meno. “Soffro il solletico.”
“Cosa?”
“Ecco, lo sapevo, adesso chissà cosa mi succederà.”
Nicole gli tirò una secca sberla sul collo, scoppiando a ridere. “Che idiota! E io che pensavo chissà
cosa.”
L’intervento di Simone, in nell’atmosfera che si era creata, poteva sembrare stupido. Ma era un modo
per evitare di fare domande: la ragazza non doveva essere abituata a parlare di se stessa, specie del
proprio passato, forse le era scappato più di quanto non avesse voluto. Se da una parte desiderava
conoscere tutto di lei, dall’altra temeva di toglierle il respiro, risultare invadente. Conoscendo il carattere
di Nicole preferiva evitarlo, a costo mostrare indifferenza. Oltretutto, era il modo migliore per evitare di
tirare in ballo quell’agglomerato di episodi pietosi che era la propria adolescenza.
“Allora… non lo userai contro di me?” riprese Simone, fingendosi spaventato.
“Chi? Io? Ma come ti viene in mente?” Nicole fece un sorriso perfido. Si mise in equilibrio sui piedi,
pur restando accovacciata, e si spostò esattamente davanti a Simone.
“Non so perché ma non ti credo.”
Nicole si guardò intorno, per accertarsi che la latteria e gli altri che erano sul terrazzo si stessero
occupando dei fatti loro. “Fai bene!” disse, e gli saltò addosso, le mani dirette ai reni.
“Ecco, lo sapevo!” piagnucolò Simone, tentando di difendersi serrando le braccia lungo i fianchi.
Inutilmente, perché le dita della ragazza erano sottili e veloci. Se la ritrovò sopra, il viso a pochi
centimetri, gli occhi grandi e limpidi che esprimevano tutta la giocosa allegria del momento, senza
vergogna o preoccupazioni. La sorpresa e quei pensieri lo distrassero, e perse l’equilibrio, cadendo
indietro.
Fu un momento. Un attimo prima era seduto che parlava, togliendosi dalle dita le briciole del panino
che aveva appena mangiato. Ora era disteso schiena in giù sull’erba, con Nicole sdraiata su di lui, le mani
sui suoi fianchi, il viso praticamente attaccato. Sentiva su di se la leggerezza e la forma del corpo della
ragazza, il seno morbidamente schiacciato, le cosce sottili. Mancò il respiro ad entrambi, mentre Simone
si concentrava sulla bocca di Nicole, socchiusa in un’espressione indecifrabile, le labbra carnose così
vicine che gli sarebbe bastato muoversi appena per baciarla.
Deglutì, accorgendosi che il disagio si stava trasformando in emozione, e finalmente riusciva a vedere
chiaro sui propri sentimenti verso la ragazza. Lei che gli strappava le parole di bocca, l’ultimo pensiero
prima di prendere sonno ed il primo che da la sveglia al mattino. Una persona squisita, nella vivacità
come nella dolcezza, che sapeva sorprenderlo e riempirlo d’ammirazione. Ed era anche materiale
desiderio, il corpo più sensuale che gli fosse mai capitato di vedere, un viso giovane dai lineamenti
espressivi e delicati. Ma questo non lo metteva più a disagio, era finita quella spiacevole sensazione di
essere sotto esame, ora poteva essere se stesso come gli piaceva essere, senza timore di dire una parola di
troppo o buttare via tutto in un momento.
O forse era soltanto un dare spiegazioni inutili, mentre ancora si faceva problemi se parlarle o meno,
pesava con attenzione le risposte da dare, si illudeva senza speranza, era imbarazzato come un ragazzino
per chiederle di trovarsi un pomeriggio insieme per studiare, eppure con lei stava bene davvero, troppo
per non pretendere qualcosa di più, gridarle in faccia ciò che provava, e aspettare con ansia la risposta di
lei.
Con uno sforzo immenso riuscì a muoversi, abbracciandola come volesse spingerla via,
mascherandolo come la continuazione del loro gioco. In realtà voleva trattenerla a se, stringerla più forte,
ma gli occhi della ragazza erano troppo vicini per riuscire a mentirle, e si ritrovò nel panico.
Fai qualcosa la pregò mentalmente. Baciami o allontanati, e dimmi cosa devo fare, perché tra un po’
impazzisco.
Se tutti i suoi pensieri non erano durati più di un secondo, gli sembrò eterna l’attesa immobile e
silenziosa della risposta di Nicole. Le curve quasi assenti della guance, un ciuffo di capelli ribelle che le
era sceso sul viso, il labbro superiore della bocca così tipicamente francese, il seno abbondante per quella
longilineità, il corpo che si muoveva al ritmo del respiro di entrambi, e che sentiva tra le braccia in tutto il
suo tepore. Davvero era calda la schiena sotto il vestito, e solo l’imbarazzo impedì alla mano di Simone di
accarezzarla per scoprire la sensazione che poteva dare. Abbandonati sotto il cielo, circondati dall’erba,
insieme. In un istante l’eternità dell’attesa divenne forse troppo breve, e Simone tentò di non pensare che
avrebbe potuto perderla, che forse aveva appena fatto uno sbaglio immenso.
“Ops!” balbettò Nicole, con un sorriso ingenuo ed imbarazzato. Mostrò la punta della lingua e strizzò
un occhio, un modo di fare che il ragazzo non vedeva più da chissà quanto tempo. La sentì appoggiare le
mani a terra, a fianco di lui, e fece uno sforzo immenso per smettere di abbracciarla.
La osservò alzarsi, fissandola immobile, e gli sembrò che se ne stesse andando per sempre. Desiderò
averla fra le braccia ancora un istante, come quando la mattina la sveglia gli gridava di alzarsi, e lui
implorava un attimo ancora di sonno. Si sentì infatti stanco, apatico, avrebbe voluto rimanere li disteso.
Alla fine riuscì a rimettersi seduto.
Nicole continuò per qualche attimo con il suo sorriso ingenuo, ma alla fine l’imbarazzo la tradì.
“Scusa” disse in fretta, abbassando lo sguardo per la timidezza.
Spesso si crede che certe ragazze, così belle, intelligenti, fortunate, tanto da poterle quasi idealizzare,
debbano essere sempre perfette, con la parola giusta da dire e la cosa giusta da fare. Ideale non vuol dire
solo splendido, ma anche inesistente. Troppo presi dall’immagine che ci si fa, si dimentica che sono
anche loro esseri umani, provano emozioni come noi, e possono sentirsi a disagio. Vedere Nicole così
sembrava innaturale, Simone si sentì in dovere di consolarla, e il senso di colpa che provava aumentò.
“Scusami tu” bisbigliò. No, non era il modo giusto. Non era il suo stile. “Di cosa ti scusi a fare?”
esclamò, quanto più allegramente gli riusciva, allungandole una piccola pedata da seduto sulla caviglia.
Lei fece altrettanto, ma con poca convinzione, ancora imbarazzata. Simone rispose a sua volta, e
finalmente anche la ragazza si decise a reagire. In più si avvicinò e gli mollò una secca pacca sul collo,
che schioccò rumorosa.
“Mi hai fatto male!” si lamentò allora il ragazzo, e stavolta era vero. “Oddio, forse ne morirò.”
Si sarebbe aspettato una risata come tutta risposta, se non una frase del tipo: “E tu saresti un uomo?”.
Invece Nicole sembrò seriamente dispiaciuta. Si avvicinò un po’ di più, e gli passò una mano sul collo,
accarezzandolo.
“Non volevo” bisbigliò, e Simone non capì bene a cosa si stesse realmente riferendo. Ancora una volta
i loro visi si trovavano vicini, e la mano di Nicole attorno al collo si sarebbe potuta trasformare facilmente
in un abbraccio, ma la ragazza si limitò ad allontanarsi, la testa chinata in avanti con l’ombra della visiera
del berretto che ne nascondeva gli occhi.
“Dicevo per scherzare!” riprese Simone, imbarazzato a sua volta. Si vede che era il giorno delle scuse.
“Ma se, per farti perdonare, mi vuoi fare un massaggio alle spalle…”
“Dipende da come studi” rispose Nicole, un po’ staccata, ma aveva ripreso a sorridere. Svuotò lo
zaino dai libri, spargendoli sull’erba.
Perché quando arriviamo ad un certo punto scappa sempre dietro ai libri? si chiese Simone, che
cominciava a non capire davvero più nulla. Decise di concentrare allora i pensieri sullo studio per un paio
d’ore, o almeno finché quell’istante di smarrimento non fosse passato, o rischiava di farsi scappare
qualche cavolata delle sue.
Prese i libri a sua volta. Si ricordò di aver lasciato apposta a casa quello di teoria, in modo da poter
leggere quello della ragazza assieme a lei, magari stando belli vicini. Un’idea che la sera prima gli era
sembrata geniale, ma che ora l’avrebbe messo in imbarazzo.
“Senti, ti va di cominciare dalla teoria?” chiese Nicole, aprendo un quaderno. “Tanto per dare una
letta alle ultime cose fatte, prima di passare agli esercizi.”
“Va bene” rispose Simone. C’era da scommetterci.
Nicole sorrise: “Lo hai tu il libro?”
Ha pensato anche lei la stessa cosa! s’illuse Simone per un istante. Si ricordò poi della riserva idrica
che la ragazza era solita portare nello zaino, e che forse dipendeva da problemi di spazio. Fantasia
assurda. Non aveva importanza, era comunque fegato.
“No” ammise come una colpa.
“Allora continuiamo come ieri.” Un po’ delusa, Nicole prese un altro quaderno, il libro degli esercizi e
la penna.
“Sul serio se faccio il ragazzo studioso e impegnato mi fai un massaggio?” chiese Simone, ormai
rassegnato a quella situazione che stava naufragando nel ridicolo.
“Tutto quello che vuoi.”
“Anche un pom…” riuscì a bloccarsi in tempo. Era troppo abituato a parlare con Aldo, e alla comicità
che era solito usare in compagnia dell’amico. Ecco la famosa cavolata di cui si preoccupava poco prima.
“Un… cosa?” chiese Nicole, incuriosita da quel veloce rimangiarsi la parola.
“Un bacio con la lingua” mentì, mascherando così la gaffe.
“Pensa a studiare, va” disse la ragazza sorridendo, scuotendo leggermente il capo e posando gli occhi
sul libro. Ma lo fece con una tale espressione di malizia, allegro e spontaneo compiacimento, che Simone
non poté fare a meno di rimanerne affascinato.
Poteva voler dire tutto e niente, ma il ragazzo capì che per il resto del pomeriggio avrebbe davvero
fatto un gran fatica a concentrarsi sui libri.
Nonostante le previsioni, la sera era arrivata in tranquillità, quasi senza che se ne accorgesse. Si erano
esercitati con impegno, fino ai problemi più difficili del capitolo, soffermandosi a discutere con pazienza
sulle fantasiose ed intricate soluzioni che bisognava trovare per risolverli. Il ragazzo degli origami aveva
scoperto che, una volta capite con un po’ di sicurezza le basi, quella matematica teorica non gli era poi
così estranea, arrivando perfino a correggere gli Nicole in un paio di occasioni.
Così come c’erano stati i momenti intensi, non erano mancate neppure le pause, brevi attimi di riposo
in cui sfogarsi e scambiarsi qualche battuta allegra. Entrambi si erano però guardati bene dal tirare in
ballo argomenti più intimi, o parlare di ciò che era quasi successo fra loro, sempre che non fosse stato
Simone ad immaginarsi tutto, cosa che cominciava a temere.
L’ansia per il ragazzo minacciò di ricominciare verso le sei e mezza, quando il sole stava ormai
calando e si avvicinava il momento dei saluti. Avrebbe voluto invitarla fuori anche l’indomani, tempo
permettendo, per ripetere l’esperienza del pomeriggio. Per finire di studiare assieme, da bravi ed
impegnati compagni di corso, ed in questo non ci sarebbe stato nulla di più naturale. Lui però lo sapeva
che non era così: lasciarla andare significava che l’attimo in cui per poco non l’aveva baciata sarebbe
stato dimenticato, un incidente di percorso, tutto come prima. Sabato e domenica a farsi mille menate,
ripensare ai suoi dubbi senza trovarvi risposta, e tuttavia incapace di rassegnarsi. Invitarla ad uscire era
l’opposto, ma anche l’occasione di scoprire qualcosa di nuovo, e soprattutto di azzardare un invito fuori
per il sabato, anche di pomeriggio gli sarebbe andato bene.
Domandare è lecito, rispondere è cortesia. Al limite lei avrebbe rifiutato senza scene, non pensava le
sarebbe dispiaciuto. Perché, poi? All’università erano ormai attaccatissimi, non vedeva perché al di fuori
di quell’edificio dovesse essere diverso. Temeva forse di abusare della disponibilità di lei? Pura e
semplice menata, se davvero insieme stavano così bene era inutile porsi il problema di stufarla.
Ma davvero stavano così bene? Solo per convincersi a farle quella domanda era finito in paranoia.
“Basta!” esclamò soprappensiero, senza accorgersene, mentre controllava il risultato di un esercizio.
“Sei stufo?” chiese Nicole, fortunatamente fraintendendo il senso di quella parola.
“Stanco, a dire il vero. Questi esercizi ti friggono il cervello peggio di uno psicologo.”
Ecco, era fregato. Si sarebbero salutati, se non si sbrigava, e tutto sarebbe finito con una velocità ed
una naturalezza tali da lasciarlo di stucco. Non era la prima volta che gli capitava.
Voleva, doveva sapere la risposta di Nicole, che per quanto banale potesse sembrare poteva anche
indirizzarlo sul fatto di avere delle possibilità con lei oppure no. Dopo quello che era successo, sempre
che non si fosse inventato tutto, se avesse ancora accettato di vederlo, l’indomani, poteva essere davvero
buon segno.
Al diavolo, buttati e basta!
“Perché non ci fermiamo e andiamo avanti domani?”
“Forse è meglio. Anch’io sto cominciando ad andare fuori di testa.” La risposta di Nicole era stata
così naturale che lo lasciò sorpreso. Non solo aveva accettato senza neppure pensarci, ma sembrava quasi
fosse scontato che l’indomani sarebbero stati assieme.
“Tu mi sembri già sulla buona strada!” continuò la ragazza, commentando con un risolino
l’espressione che doveva essere sfuggita a Simone.
Il ragazzo era ormai diventato abile a cambiare in fretta discorso: “Allora, merito il premio perché ho
fatto il bravo bambino impegnato?”
“Non c’è male. Ti devo un massaggio a modo mio.”
“A modo tuo?”
Nicole gli mollò la consueta, rumorosa pacca sul collo.
capitolo 6
La mattina successiva, arrivando alla facoltà, Simone si sorprese di trovare Aldo già al bar, seduto ad
uno dei tavoli più nascosti e intento a bere a piccoli sorsi un cappuccino.
“Che ci fai qui?” gli chiese, salutandolo e sedendosi davanti a lui.
“Ho preso l’autobus prima” rispose il biondo, senza entusiasmo. “Quello che prende Carla il venerdì.”
“Impaziente di farti valere?”
“Taci va!” Aldo troncò il discorso tuffando con rabbia il cucchiaino nella tazza. Un paio di gocce di
caffelatte spruzzarono e gli finirono sulla manica. “Ma porca…” esclamò, affrettandosi a pulirle, ma
ormai la macchia c’era e ci sarebbe rimasta.
Simone non trattenne una risata, ed anche il biondo si lasciò sfuggire un sorriso stanco.
“Dai, non ti riconosco così avvilito. Dimmi cosa è successo.”
“E’ successo che non è successo niente! L’ho trovata subito, mi sono avvicinato e ho attaccato
bottone. Lei era tutta allegra, pimpante come al solito, quando poi ho buttato il discorso sugli esami era la
contentezza in persona.”
“Sbanfate?”
“Quasi subito, le è andata bene una provetta di quel corso sfigato che sta facendo, non so se è geologia
o topografia… uno dei voti più alti dell’intera sezione, a quanto diceva, e l’ha marcato con gusto. Mi
stava dando anche un po’ fastidio.”
“Un po’ soltanto? Vai avanti.”
“Riesco anche a buttare il discorso sulle borse di studio… e lei tira fuori dei viaggi. Perfetto, avevo già
preparato mentalmente le frasi da usare, tutto esaltato. Se non altro volevo lasciarla di merda per tutto
quello sbanfare. Apro bocca… e non mi esce niente. Comincio a pensare che sono un cane, che senso ha
fare apposta a farla star male, e tutti questi pensieri. Passo dall’entusiasta al depresso.”
“Non ho capito bene.”
“Ma si! Mi venivano quasi i sensi di colpa, a pensare che era veramente da stupidi stare li a prepararsi
i discorsi su come ferirla, farle provare invidia… in fondo lo so, non sarei mai capace di fare il bastardo
con lei fino in fondo, e senza convinzione non aveva senso fare neanche cominciare il tutto, o sarebbe
sembrata una buffonata.”
“Ho capito.”
Aldo rituffò il cucchiaino nella tazza, stando però attento a non ripetere l’episodio di poco prima. “Poi
non so, deve essermi scappato che ero un po’ di disagio, lei se n’è accorta e vedessi, ha cominciato a
sbanfare ancora con più gusto. Non ti ripeto i discorsi perché non ci crederesti, bisognava per forza
esserci! Ti dico solo che ha tirato fuori perfino i corsi di sci che farà quest’inverno, dell’istruttore che
conosce suo padre, di come ha intenzione di preparare gli esami in anticipo per godersi le vacanze
invernali e magari farsi una settimana in montagna con le amiche.” Scosse la testa, in modo nervoso. “E
io li ad ascoltare, come un idiota, e dirle di si, che faceva bene, quasi mi piacesse farla contenta. Che
idiota che sono!”
“Non si dice idiota” lo corresse Simone, in tono cordiale e sincero. “Si dice buono.”
Aldo non rispose.
“Guarda, se devi prendertela con qualcuno, insulta pure me, che ti ho messo in testa questa cosa
assurda, e a ripensarci adesso è davvero una cretinata. Tu sei te stesso, sei così, basta. Non occorre che
provi a cambiare, perché così va bene.”
“Anche se mi faccio prendere per il culo?”
“Non ti fai prendere per il culo. Tu lo capisci che vuole soltanto farti diventare invidioso, e non ci
caschi. Però riesci ugualmente a farla contenta, a modo tuo, assecondarla. Non è un discorso molto
sensato, me ne rendo conto, ma pensa questo: per essere bastardi, barare, e tutto quello che vuoi, si impara
subito. Si, essere bravi e riuscire a fregare qualcuno ci vuole un po’ di pratica… ma è una altro discorso,
io parlo dell’intenzione. Essere invece premurosi verso gli altri, specie in modo spontaneo, non pensare
soltanto a se stessi… insomma, devo proprio dirtele io, queste cose? Va a finire che pensi ci stia provando
con te!”
Aldo era più rilassato, ma non del tutto convinto: “Perché non riesco a togliermela dalla testa, questo
mi chiedo! Se non me ne fregasse più nulla morta li, ma adesso scopro di non sopportarla, e allo stesso
tempo di non riuscire a dirglielo, pensare di vederla star male.”
“Le storie d’amore non finiscono da un momento all’altro, specie quelle con un po’ di testa, come nel
tuo caso. Interrotte non per colpa propria, o per scelta. E’ l’istinto maschile, credo, che ti spinge a
desiderare la compagnia di una ragazza. Solo che qui l’ambiente è alquanto povero, e così ti trovi a
desiderare l’ultima che avevi in mente. Io credo sia così. Forse non è neppure lei che ti piace ancora, ma il
ricordo che hai. Ti basterà trovarne un’altra, e vedrai che farà presto a diventarti indifferente.”
“Quindi, secondo te, più che lei cerco l’immagine di una donna, una qualsiasi?”
“Non proprio una qualsiasi. Quello che in una donna vorresti trovare. L’allegria, il senso pratico,
l’amore per i viaggi… lo saprai tu perché ti sei preso una cotta!”
“Non proprio” ammise Aldo, finalmente sorridente. “Almeno mi consola il fatto che non dovrò
tenermela in testa per sempre. Basta solo che mi capiti in fretta di trovare un’altra ragazza come piace a
me.”
“Una con tutti i requisiti adatti a piacerti?”
“Cosa intendi?”
“Che respiri.”
“Ma va!”
Ormai il tono di conversazione aveva ritrovato l’allegria di sempre. Un clima cordiale in cui perfino i
problemi e le paure possono essere trattati con il sorriso sulle labbra, e non si ha paura di confidare nulla,
neppure se chi ascolta ha la battuta pronta.
“Vedrai che ragazze ne incontrerai molte” riprese Simone, tentando di rimanere serio.
“Si, dove?”
“Qui all’università, per esempio.”
“Scherzi?” Quello che i due amici avevano scelto era il ramo più tecnico della scuola più prettamente
maschile della regione. Inoltre, a partire dall’anno successivo, con la differenziazione specifica dei corsi
la penuria di ragazze sarebbe stata ancora più schiacciante. Al massimo sarebbero stati compagni di
qualche fuoricorso, ma provarci con una più vecchia era, per motivi ancora poco chiari, un fallimento in
partenza, specie in un ambiente dove il rapporto uomini donne si è ormai ridotto a cose del tipo uno sta
quaranta, cosa che provoca nel gentil sesso uno strano gusto nel tirarsela sempre più e fare le scroccone.
“Allora ne troverai, che ne so, nel lavoro, in un prossimo futuro.”
“Basta, dai, mi metti ancora più angoscia!” Non avrebbero lavorato prima di altri cinque anni, sempre
che fosse andata bene. Il destino che li avrebbe aspettati, poi, era probabilmente un laboratorio buio
sottoterra, dieci ore al giorno, in compagnia di qualche scienziato pazzo vecchio decrepito.
“O grazie alla tua compagnia.”
“Ti ho detto basta!” Gli amici di Aldo, soli maschi, avevano da tempo bandito le strade ed i bar,
preferendo passatempi più tranquilli ed in amicizia. Una cosa rara e preziosa, senza dubbio, che Simone a
volte si era quasi trovato ad invidiare, ma che chiudeva ogni strada alle nuove conoscenze. Se si
aggiungeva che il biondo odiava le feste, i ritrovi affollati di persone, il quadro generale non era certo
incoraggiante.
“E quando finalmente la troverai, saprai sicuramente cosa fare, perché nel frattempo avrai fatto molte
esperienze in fatto di ragazze. Ed avrai anche molto tempo a disposizione da dedicare al loro
corteggiamento.” Aldo aveva ritmi di studio che lui soltanto riusciva a sopportare, e pomeriggi da buttare
via erano l’ultima cosa che avrebbe potuto avere. Dopo l’esperienza in fatto di ragazze, beninteso, sopita
da una vita di digiuno.
Simone, ormai lanciato in quel sadico gioco, non risparmiò all’amico neppure l’ultimo colpo: “Ma ci
pensi che coi vent’anni il nostro picco sessuale massimo è finito? Pensa ai poveri idioti che hanno
sprecato la loro gioventù scopando come le bestie, mentre noi ci gustavamo il libri di fisica ed analisi!”
“Proprio degli idioti! Ma nessuno ha pensato di portarli sulla retta via?”
Risero entrambi, di gusto, in barba alle loro sfortune. Alcuni nel bar si voltarono verso di loro,
chiedendosi il motivo di tanta ironia.
“Tranquillo, quello che ho detto vale tale e quale per me” ammise Simone, senza perdere un briciolo
dell’euforia del momento. “Dopotutto se ogni volta che vedo una per strada penso ai pompini un motivo
ci sarà.”
“Bizzarra, la vita. A te danno spesso del porco, del perverso, dell’affamato. Eppure per ogni volta che
tu hai detto “pompino” c’è magari un nostro coetaneo che se ne è fatto fare uno. Per poi prendersi del
ragazzo dolce, e tutte le cazzate che seguono.”
“Non mi piace più questo discorso.” Simone fece finta di mettersi a piangere.
“L’hai tirato fuori tu!”
“Si, ma eri tu quello che mi ascoltava.” Roteò gli occhi con fare comico. “E’ perché ci sono ragazzi
che vengono chiamati “fighi”. Lo sai cosa vuol dire “figo”? No? Neanch’io. Non credo neppure che abbia
un qualsiasi significato. Bene, una donna per un “figo”, fa di tutto, ma proprio di tutto, basta usare la
frasetta magica: “Se mi vuoi bene allora…” Che poi non bisogna per forza dare per scontato che alle
donne dispiaccia. Però le ragazzine hanno bisogno di dimostrare, non si sa se a se stesse o agli altri, che
non sono così… facili, che lo fanno solo al loro “figo”. Così beccano un “non figo”, come me e te per
esempio, e gli danno del porco, se la tirano, fanno le romantiche.”
“Per me stai dicendo delle cazzate enormi.”
“Volevo interessarti al discorso per convincerti a non andare a lezione, quest’ora.”
“Qualcosa di importante?”
“Più o meno.”
“Mi hai convinto.” Dalla facilità con cui Aldo si arrese era evidente che neppure lui aveva molta
voglia di seguire, quella mattina. Certo era preferibile ascoltare i problemi e le cavolate di Simone, che
finivano sempre per rendere il discorso donne comico e quasi surreale, anche se a volte andava
pericolosamente vicino alla verità. L’ideale per togliersi un momento dalla testa Carla e il panico in cui
cadeva ogni volta che le si trovava davanti.
Scorsero il docente passare lungo il corridoio, subito seguito dalla mandria di studenti vocianti. Il bar
rimase comunque strapieno. Simone si decise ad affrontare la lunga coda pur di affondare i denti in una
succulenta brioche.
“Allora, dimmi tutto” lo esortò Aldo, dopo che l’amico ebbe finito di cospargersi la maglietta di
zucchero.
Simone raccontò allora cosa era successo il giorno prima con Nicole, sorvolando soltanto sul segreto
della ragazza. Accennò alla confidenza che questa gli aveva fatto parlandogli del suo passato, di cui
preferì però non dire una parola di più, per rispetto verso di lei, cosa che Aldo accettò senza repliche.
Parlò del solletico, di quando se l’era trovata sopra, confessando quali erano i suoi sentimenti, senza
vergogna di sembrare ancora, a ventun anni, un adolescente innamorato. Gli occhi grandi e curiosi del
biondo, l’attenzione di chi vorrebbe fare domande ma non osa interrompere, strapparono a Simone ogni
più piccolo dettaglio, tanto che, finito di parlare, si sentì molto più rilassato.
Aldo commentò quella narrazione con un’espressione serena e tranquilla: “Mi pare che ti vada bene.
Dico sul serio. Non solo hai trovato la tua donna ideale, ma anche lei…”
“Ecco! Esattamente il problema mio, se lei ci sta oppure no! Vedi, lei ha capito le mie intenzioni…”
“Sei sicuro?”
“Di questo si, fosse l’unica mia certezza.” Simone non poteva spiegare all’amico del perché, eppure
era palese che Nicole, con la sua particolare percezione, si fosse accorta di ciò che il ragazzo provasse per
lei, che non avesse nessuna intenzione di fare soltanto il buon amico e compagno di studi. Tutti i rossori e
l’abbassare degli occhi ne erano una conferma evidente. “Prendilo per vero: lei lo sa.”
“Non le da fastidio, mi pare.”
“Appunto. Continua a venirmi incontro, cercarmi. L’hai detto anche tu, no, che abbiamo un bel
rapporto? L’idea iniziale di trovarci insieme il pomeriggio era stata sua, così come accetta senza tanto
stare a pensare se io la invito a mia volta. Prendi ad esempio il modo di scherzare che ha: non si fa certo
problemi a mettermi le mani addosso, e sai bene come sono certe ragazze se per sbaglio appena le sfiori.
Si fida, chiacchiera di gusto, ora anche dei fatti più personali della sua vita…”
“Quello che ti premeva la settimana scorsa” lo interruppe Aldo.
“Si, insomma, hai capito. Ottimo, perfetto, forse la migliore occasione che mi sia mai capitata.
Aggiungi che abita qui in città, studiamo nello stesso edificio, ha una compagnia di sole donne. Tutto fila
liscio, la più bella ragazza che abbia mai incontrato, il mio mito erotico, e certamente anche la più
simpatica, quella che più stimo, e con cui mi trovo meglio. Sa che mi interessa e mi incoraggia. Allora,
dico io, perché non mi viene incontro di più, anche in quel senso, ma anzi fugge dietro i libri ogni volta
che il discorso si approfondisce? Ma se è così, allora dovrebbe allontanarmi subito, smorzarmi, come le
ragazze sono abituate a fare, anche se non condivido il loro modo. Non capisco proprio.”
“Forse ha paura di risultare troppo facile” azzardò Aldo, non molto convinto. “O magari, anche se a
guardarla c’è da dubitarne, non ha neppure lei queste grandi esperienze in fatto di ragazzi, e preferisce
andare con calma. Come fai tu.”
“Può essere. Come del resto può darsi che non voglia mettermi fretta lei.” Cretinate, Simone lo
sapeva. Avrebbe voluto spiegare ad Aldo dei poteri della ragazza, di come poteva leggergli dentro,
capirlo, scoprire con facilità quel dubbio, la necessità di una risposta. Ma aveva ragione ipotizzando
poche esperienze da parte di Nicole. Il tarlo che lei non potesse avere un ragazzo ritornò a rodere nei
pensieri di Simone.
“Innamorarsi… cose da letteratura ottocentesca” riprese, sviando un po’ il discorso. “Non riuscire a
togliersi una ragazza dalle testa, toccare il cielo quando la si ha a fianco e scoprire l’inferno nel vederla
andarsene. Nobile, d’accordo, profondo e tutto quello che si vuole, ma solo se si ha un minimo di certezza
che la bella in questione ricambi anche solo una frazione di questo sentimento. Altrimenti è inutile, se non
dannoso. Ci si trova ad essere in perenne attesa, misurare le parole, chiedersi se davvero ne valga la pena.
Se innamorarsi è davvero il paradiso che si da per scontato sia, o soltanto un’ennesima fortuna solo per
chi fortunato lo è già.”
“Non dirlo a me!”
“Scusa.” Simone non aveva pensato alla situazione dell’amico, i cui problemi erano certo maggiori.
“Tranquillo. Mal comune mezzo gaudio. Mi incoraggia sapere che non sono l’unico a questo mondo a
farmi queste menate.”
“Tu non ti fai menate.”
“Non quante te.”
“Sei un amico.” Si stiracchiò sulla sedia, sbadigliando senza alcun ritegno, guardandosi bene dal
coprirsi la bocca con una mano. “Stanotte non ho dormito granché. Però mi sono deciso: questo
pomeriggio mi butto, o la va o la spacca.”
“Sei sicuro? Con la fretta potresti mandare tutto all’aria… lo dicevi tu stesso.”
“La situazione rischia di cadere nel ridicolo. Se lascio passare è finita, il bacio che quasi le davo sarà
storia passata, io un ragazzo che non sa far valere le sue ragioni e lei la brava compagna di corso, che può
continuare con pazienza infinita a lasciarmi nel dubbio. Me ne pentirò, per quello che ho fatto in poco più
di due settimane dovrei abbassare la testa e ringraziare non so che santi, però devo prendere al volo
l’occasione che si sta creando in questi giorni, prima che diventi cosa di sempre, quotidiano, perda
valore.”
“O magari che diventi troppo amico.” Aldo mimò un fare stereotipato e tipicamente femminile: “Sai,
io ti vedo come amico e non vorrei che si modificasse il nostro rapporto, tengo troppo a te…””
“… e poi c’è quel bisteccone palestrato li in fondo, quello con la faccia da delinquente, gli occhiali da
sole da frocetto e il pizzo pitturato d’azzurro, che mi ispira un sesso da matti, e sento già che è l’uomo
della mia vita. Aldo, caro mio, hai toccato uno dei tasti dolenti!”
Risero assieme, di gusto. Era ora di chiudere il discorso, prima che cadesse nel ridicolo e si finisse nel
luogo comune. Simone era partito particolarmente poetico, quella mattina, ma anche come demenzialità
non era meno del solito.
“Guarda, un consiglio sentimentale da me è come chiedere un passaggio ad un kamikaze” concluse
Aldo. “Ma se devo prendere spunto dalle mie esperienze con Carla, allora è davvero azzeccata la frase:
“Meglio pentirsi di aver provato, che pentirsi di non aver provato!””
“Quindi ho la tua benedizione?”
“Un “in bocca al lupo” dovrebbe essere sufficiente. Ma dimmi… com’è avere sopra la Gatta?”
“Immaginati due budini grossi così” mimò con le mani il seno della ragazza. “Morbidi, sodi, dieci
chili ciascuno. Praticamente metà del peso di Nicole. L’esperienza più erotica della mia vita, una scarica
di ormoni dalla punta dei piedi alla testa passando per tu sai dove. Se mi fossi eccitato ancora un po’
probabilmente l’avrei perfino sollevata!”
“Ma va!”
“A proposito… lo sai come si fa a sapere se una donna ha realmente avuto un orgasmo, o ha soltanto
fatto finta?”
“No, dimmi.”
“Ma chi se ne frega!”
Aldo cominciò a ridere a crepapelle, fino a diventare rosso in viso, uno spettacolo imperdibile. Dopo
qualche istante riuscì a calmarsi, fissò Simone con aria perplessa, e ammise: “Non l’ho capita.”
“Temevo non saresti venuto!” Nicole salutò Simone con entusiasmo, quasi si fosse preoccupata di non
averlo visto arrivare. Un buon segno, ma l’ennesima conferma dei dubbi del ragazzo, cosa che gli diede la
giusta scintilla per lanciarsi.
Non era mai stato un grande play boy, ed ancora poco chiari gli erano gli atteggiamenti e le frasi da
usare quando si ha in testa il preciso obbiettivo di provarci con una ragazza, in modo visibile e spudorato.
Aveva sempre tentato di essere naturale, da cosa nasce cosa, fatti vedere come sei e spera di piacerle,
capirà come sei nel profondo ed insieme vi verrete incontro. Ovviamente non era mai successo, né
Simone si era abbassato a recitare un copione, abbindolare una bambina con vuota retorica ed incantarla
con mille balle chiamandole poesia. Il solito discorso sull’essere e l’apparire, e cosa davvero gli
importava. Fatto sta che non aveva proprio le basi, né l’esperienza, e forse neppure la faccia tosta per
cominciare un approccio diretto, fare colpo con gli sguardi e sedurre con le parole.
Lui per le ragazze era sempre stato l’amico, il confidente. Rapporti che però erano sempre destinati ad
infrangersi appena la bella in questione trovava il bisteccone, e si chiudeva con lui in un mondo da dove
gli altri erano esclusi. Certo, se serviva qualcuno disposto ad ascoltare c’era sempre Simone, cui tirare un
po’ di menate, farsi dare qualche consiglio, e magari lasciargli il contentino con: “Perché il mio Cicci non
è come te?” Finché, arrivato a diciassette anni, si era stancato, aveva mandato a quel paese le uniche due
amiche che gli erano rimaste, decidendo che era inutile aspettare la manna dal cielo, o un’improvvisa
botta di fortuna.
Con te sto bene, ma non mi piaci fisicamente. Che stronzata immensa, così come l’amicizia fra ragazzi
e ragazze. No, un momento, non per tutti, per alcuni coetanei una ragazza non andava bene neppure come
lontana amica, se non era una bomba sexy superdotata. Alcuni ragazzi tipo il Cicci di poco sopra, tanto
per intendersi, ma Simone aveva già troppi pensieri ed ideali per conto suo, inutile mettersi a predicare
l’assurdità di quel discorso, era una causa persa in partenza.
C’era stata Irene, una botta di fortuna esagerata per merito d’un amico, una storia di sei settimane
campata in aria e durata anche oltre le aspettative iniziali. Il sogno d’ogni coetaneo, ginnastica pura,
nient’altro. Non era male davvero, una ragazza nel senso più classico: bel musetto, allegra, vivace,
spensierata, buon gusto nel vestire, poco intelligente.
Subito dopo Chiara, grazie anche alla pubblicità che si era fatto mostrandosi a spasso con la
precedente fiamma. Quasi più di cinque mesi, un rapporto basato molto più sul dialogo e meno sul fare gli
animali, finto per un’incomprensione del cavolo e non il coraggio di chiarirla. A Simone era rimasta
soltanto una grandissima delusione, oltre alla mania dei pompini. La più bella invenzione del mondo dopo
il cesso murale a forma di culo, aveva commentato in quel periodo, scoprendo un nuovo filone della
comicità. Certo, se avesse evitato un certo tipo di battute in pubblico, ed avesse spiegato per tempo a
Chiara che non alludeva a lei e a ciò che facevano assieme, non sarebbe stato lasciato così presto.
Era arrivata poi Katia, dopo un lungo periodo di solitudine. D’improvviso come uno spavento e
profonda come una coltellata. Una passione naturale, intensa, ma troppo idealizzata per ascoltare ciò che
non si voleva sentire. Lo ricordava bene il suo primo appuntamento, il cercare di farsi avanti, provarci
come si dovrebbe fare, dirle con uno sguardo ciò che aveva dentro e decifrare nel suo volto la risposta che
cercava. Però vi trovava soltanto il vuoto, si sentiva ottuso, impacciato, legato, anche avesse voluto
lanciarsi sarebbe stato innaturale, un pazzo che si gioca la sua ultima possibilità.
Un pomeriggio patetico, squallido, insignificante. Simone ce l’aveva messa tutta per avvicinarsi senza
essere oppressivo, di meglio non avrebbe davvero potuto fare. Però lei era staccata, assente, spegneva sul
nascere il suo entusiasmo, rispondendo a monosillabi e fuggendo lo sguardo del ragazzo. Perché l’aveva
invitato fuori, allora? Era stata lei, a chiamarlo, proporre quell’uscita. Perché?
Si era ripromesso, dopo Irene e Chiara, di prendere tutto con serenità, entusiasmo, farlo solo per
divertirsi, senza che divenga un’ossessione. Ma con Katia era diverso, per la prima volta si era scoperto
innamorato veramente, in quel modo dolce e impacciato dei tardi adolescenti che hanno ancora da
prendere la grande mazzata, e convincersi che i sentimenti sono cosa da televisione. Per quanto tenesse
con tutto se stesso alla ragazza, era arrivato a chiedersi quanto davvero ne valesse la pena.
Era poi giunta la sera, una dichiarazione sputata in faccia quasi con fastidio e la tragica risposta.
L’uscita era stata organizzata dalla loro compagnia. A lei Simone non interessava per nulla, neppure come
amico, ed era meglio per entrambi se se la fosse levata dalla testa. Il pomeriggio sarebbe stata l’occasione
per dirglielo, se solo lui non avesse continuato a tentare goffamente di farsi avanti, tanto che la ragazza,
nella sua cortese dolcezza, aveva finito per assecondarlo pur senza dargli corda.
La grande mazzata. Ma il bello doveva ancora arrivare.
“Non sarai uno di quegli stronzi che appena vedono che non ce la fanno lasciano stare?” lo aveva
rimproverato la ragazza d’un amico, una specie di consulente sentimentale alquanto impicciona.
“No, sono uno di quelli che, capito che non ce la faranno mai con una, continua comunque a
tampinarla!” era stata la risposta di Simone. Stronzo perché non perdeva più tempo in qualcosa dall’esito
scontato, e per di più seccante per la ragazza? Per non aver capito quand’era il momento giusto per
ritirarsi?
Alla fine, comunque, tentò un’ultima volta, una seconda, facendosi stavolta aiutare da un amico, ed
un’altra ancora, scoprendo così quanto si può perdere ogni traccia di dignità in alcuni momenti, ed
arrivando a giurare: “Mai più!”
Se gli avessero chiesto la prima parola che gli veniva in mente a sentire il nome Katia, avrebbe
risposto: “Umiliante.” Questo era stato il vero pensiero che lo aveva tenuto sveglio la notte prima, e di cui
si era vergognato di fare parola perfino con Aldo. Un’improvvisa rivelazione, forte come la paura, che
improvvisamente aveva cambiato il suo modo di pensare, convincendolo a rinunciare alla sua avanzata
lenta e progressiva, mandando all’aria tutti i propositi che si era mentalmente fatto i giorni passati.
Doveva sapere. A costo di rovinare tutto. La storia ripete sempre se stessa, e questo lo gettava nel
panico: i dubbi, i sentimenti di mezzo che sfalsano le percezioni, la paura di non aver capito nulla, essersi
soltanto illuso, trovarsi di fronte una nuova Katia. Nell’università dove avrebbe passato i prossimi anni,
per giunta. Voleva una risposta, e la voleva subito, disposto a lasciar perdere all’istante nel caso non fosse
quella che tanto aveva sperato.
Ripensandoci in seguito, lo avrebbe forse sorpreso quell’improvviso cambiamento di idee, la paura
forse esagerata che gli era venuta per colpa d’un ricordo birichino. Ma non quella mattina, dove più che
naturale gli sembrava il corso dei suoi pensieri. A sorprenderlo seriamente, così come anche Aldo ci
rimase di stucco, è che riuscì a provarci davvero con Nicole, nel senso più giovanile del termine, con stile
e tutto, al punto di far dubitare che, fino a poco tempo prima, non gli fosse stato ben chiaro neppure cosa
volesse esattamente dire.
La mattina era passata come al solito scherzosa, ed era l’ideale, perché Simone si era reso conto che
l’ironia era la sua più grande arma. Era sempre stato bravo ad inventarsi un umorismo fatto di situazioni,
battute veloci come schegge ed apparentemente fuori luogo, che lasciavano tutti allibiti, spiazzati, a volte
addirittura perplessi. Bastava cambiare il chiodo fisso del sesso con velati complimenti, ed il gioco era
fatto: la sua comicità faceva largo uso di doppi sensi, allusioni, battute velate che sfuggono se le si ascolta
senza attenzione, prendendo spunto dalla quotidianità più piatta per parare dove interessava a lui.
Poteva dire quanto volesse, sporgersi, perché tanto era un gioco, se avesse esagerato l’avrebbe passato
per scherzo. Tuttavia non esagerò. I complimenti erano delicati, non continui o snervanti, i riferimenti a
quanto Nicole gli piacesse e come insieme sarebbero stati bene erano allo stesso modo chiari ma
sottintesi, nascosti nelle parole ma pronti a saltare fuori a chi le volesse capire fino in fondo.
Non fu neppure difficile, anzi, per Simone era più che mai naturale, tanto che, finita la mattina, non si
sarebbe ricordato quasi di tutto ciò che aveva detto. Con Nicole riusciva a stare bene sul serio, sembrava
che lo sguardo di lei gli strappasse le parole di bocca, allora approfittava di quella euforica tranquillità per
buttasi, senza paura, il sorriso sulle labbra.
Aveva colpito restando se stesso.
La ragazza era stata inizialmente sorpresa, quasi facesse fatica ad afferrare cosa non andava nella
quotidianità della mattina. Aveva poi capito, lo si notava dal leggero rossore che traspariva sotto al
fondotinta. Faceva finta di nulla, sorvolando le parole di Simone con un sorriso malizioso, senza risposte
dirette, ma quel modo di fare così compiaciuto, femminile, come il sorriso del pomeriggio precedente alla
richiesta d’un bacio, erano certamente un buon segno. Si faceva rincorrere, senza rallentare ma neppure
accelerare il passo, o pensare a cosa sarebbe successo una volta che lui l’avesse finalmente raggiunta: era
bello così, per quel momento, voleva gustarlo senza pensare ad altro.
Quando, finite le lezioni della mattina, Simone e Nicole si diressero al bar, la ragazza non tradì che un
risolino soddisfatto abbassando gli occhi, ma la gioia che stava provando era tale che faceva fatica a
trattenerla. Lui se la sentì addosso, sotto la pelle. Aveva fatto proprio bene a decidere di lanciarsi.
Il sole era meno caldo dei giorni passati, sottili alitate di vento rendevano la temperatura
particolarmente piacevole. Il cielo era sgombro, sereno, senza neppure una nuvola, d’un azzurro pastello
che col tramonto avrebbe raggiunto chissà quale particolare colorazione. Non c’era nessun altro oltre a
loro, un gruppetto di studenti si era avvicinato per poi allontanarsi, lasciandoli padroni dell’erba del
terrazzo.
Nicole era vestita in modo sobrio ma elegante: una maglietta bianca, piuttosto aderente, con alcune
sagome nere di fiori stampate all’altezza del seno, un paio di brache di tuta color rosso scuro e scarpe da
ginnastica. Portava i capelli sciolti, un ciuffo ribelle sugli occhi che non sembrava darle fastidio.
Consumarono il solito pasto di panini e the nel più completo silenzio, seduti l’uno in fronte all’altra, i
piedi che si toccavano, senza smettere per un momento di fissarsi gli occhi.
Era arrivato il momento di buttarsi, lanciarsi oltre le proprie capacità, e farlo oltretutto nel modo più
naturale possibile. Gli attimi in cui tutto si sarebbe deciso, in cui avrebbe saputo se davvero c’era una
possibilità con Nicole. Se non avesse avuto risposta, se avesse anche solo intuito che non c’era nulla da
fare, avrebbe lasciato perdere. O forse avrebbe deciso di fare il buon amico e basta, dopotutto con lei
stava bene, chiacchierava con gusto e per di più formavano una bella squadra di studio. L’importante era
chiarirsi, smettere di illudersi o vivere nell’ombra della paura di una seconda Katia.
Simone la studiò a lungo e con intensità, tanto da non accorgersi neppure del sapore che aveva il suo
panino. Quel silenzio complice non era spiacevole, dopotutto, non metteva fretta o ansia, e questo era
certo un buon segno. Se qualcuno si fosse sentito in dovere di dire al più presto qualcosa il loro rapporto
non sarebbe stato poi così profondo.
“Ti sei scaricato?” chiese la ragazza, quando ebbe finito di mangiare e di dare una lunga sorsata alla
bottiglia.
“Come?”
“Non hai detto una parola da quando ci siamo seduti. Stamattina non la finivi un momento, ho pensato
che magari stai riposando la lingua…”
Simone capì che doveva ribattere, ma non gli venne in mente nulla. Si sentì lievemente a disagio,
senza la minima idea di cosa fare. L’imbarazzo gli strappò un sorriso, che ben presto sfociò in una sonora
risata, senza mai smettere di fissare la ragazza.
“E adesso cos’hai?” chiese lei, sorpresa da quel comportamento.
“Scusa. E’ che oggi sono particolarmente felice.”
“Non si era notato” era ironica, ma non con cattiveria. Alludeva certo al comportamento del ragazzo
durante la mattina. “Dopo dovrai spiegarmi come mai.”
“Non riesci a indovinarlo?”
“Preferisco che me lo dica tu direttamente.”
Il gioco era cominciato, e con esso tutti i timori di Simone. Brutta arma, la scarsa esperienza! Non
solo era poco pratico su come muoversi, le frasi da usare, interpretare i gesti e gli sguardi, ma non sapeva
neppure fino a che punto poteva arrivare, quando era meglio fermarsi un attimo o quando approfittarne
per calcare la mano. Tranquillo, imparano tutti sul momento gli aveva assicurato una volta un amico.
Inutile preoccuparsi prima, ti verrà naturale. In effetti la mattina era stato così, ma ora?
“Sono felice perché oggi è quella che chiamo una gran bella giornata. Un tempo splendido, il panino
era buono, stanotte ho dormito bene, stamattina al tabacchino ho trovato il nuovo numero del mio fumetto
preferito, ed ora sono seduto fra l’erbetta insieme ad una gran bonazza.”
“Una cosa?”
A Simone non parve il caso di specificare che, in un gergo tecnico puramente maschile, bonazza
voleva dire “gran pezzo di figa” o altri coloriti sinonimi. Tagliò corto: “Dai che hai capito!” e dal sorriso
stretto fra le labbra della ragazza intuì che era così.
Si alzò per prendere la bottiglia dell’acqua, abbandonata a terra poco lontano da Nicole. Poteva
allungare il braccio e afferrarla, oppure farsela passare, invece si alzò. Fece un paio di piccoli sorsi, quindi
si sedette, stavolta a fianco della ragazza, vicino a lei.
“Sai cosa sto pensando?” cominciò in fretta. “Al tuo potere. Posso chiamarlo potere? Pensavo
all’effetto che avrebbe sulla nostra società se tutti fossimo così, avessimo questo particolare sesto senso…
questa percezione…”
Nicole era perplessa. “Un bel casino, suppongo.”
“Immaginalo… anche se credo tu l’abbia fatto già molte volte. Niente bugie, prima di tutto. Si, lo so
che ogni tanto serve qualche balla a fin di bene, ma vuoi mettere? Niente imbrogli, fregature. Neanche la
delinquenza, perché se qualcuno facesse qualcosa di sbagliato non riuscirebbe a nasconderlo. La gente
non avrebbe segreti, sarebbe più sincera, naturale. Ognuno verrebbe realmente giudicato per le proprie
capacità, e non per fortuna o spudoratezza.” La fissò negli occhi, così attenti e vicini, curiosi ma
indecifrabili. “Anche i rapporti fra le persone, sarebbero più diretti, immediati, forse addirittura più saldi.”
“Non sono convinta. Sarà che ho veramente poca fantasia, o che una cosa del genere non l’ho mai
pensata, che ti sembri strano o no, ma credo che si perderebbe un po’ il dubbio, e con questo il gusto. Tu
ti fidi di un amico, ma perché l’hai scelto tu, magari rischiando. Non ci vuole nulla a guadagnarsi la
fiducia di chi sa che non potremo comunque tradirlo.”
Simone rifletté sul punto di vista di Nicole, molto dissimile dal suo. Ciò che a lui pareva banale, per
nulla da rimpiangere, per la ragazza rappresentava a volte ciò che non aveva potuto avere. Non era il caso
di calcare troppo la mano sul discorso, avrebbe potuto fraintenderlo, sentirsi ai suoi occhi “diversa”, cosa
che in passato l’aveva molto turbata.
“E’ una fantasia ad occhi aperti. Fine a se stessa. Certo per molte cose sarebbe più semplice. Ad
esempio… quando si vuole dire ad una persona ciò che pensa di lei, ma non si riesce a decidere se sia il
caso o no… o non si sa come fare.”
L’aveva fatto. Senza riferimenti precisi a chi sottintendeva o ai sentimenti, ma con l’atmosfera che si
era creata sul momento era più compromettente quella frase che non tutte le mezze avance della mattina.
Nicole si tolse il ciuffo di capelli dagli occhi, sporgendo per un istante il viso in avanti, ancor più
vicino a quello di Simone. Appoggiò poi le mani a terra, dietro la schiena, le braccia distese. Abbassò lo
sguardo.
“Sarò testarda sulle mie idee, ma forse proprio il dubbio, la fatica, il bisogno di mettersi in gioco,
credo renda più bello il risultato quando si riesce. Magari non è giusto vedere le persone come prove da
superare, ma credo aiuti a crescere, capire se stessi.” Sorrise, mordicchiandosi leggermente il labbro
inferiore.
Simone si ritrovò pietrificato. Certo il discorso era coerente con il pensiero della ragazza, le sue
esperienze passate, ma poteva benissimo essere un invito a farsi avanti. Quei piccoli gesti, il tono della
voce, le parole che aveva usato, cosa volevano dire? Perché non si muoveva lei per prima, allora? Dubbi,
disagio, e allora pensò che non avrebbe avuto nulla da perdere, veramente male avrebbe fatto, se quello
fosse stato realmente un invito da parte della ragazza, a non approfittarne.
Mosse le mani dietro la schiena, nella stessa posizione di lei. Un piccolo gesto ancora, ed arrivò a
sfiorarle le dita. Non si muoveva, continuava a tenere lo sguardo abbassato, senza dire nulla. Panico.
Mosse il braccio, circondandole delicatamente i fianchi. Per tutto il tempo dell’operazione, si e no un paio
di secondi che sembrarono però eterni, si aspettò di vederla muoversi, scattare, chiedergli cosa stava
facendo.
Niente. Ma proprio nulla. Non lo fermò, ma neppure lo abbracciò a sua volta. Che diavolo voleva
dire? Non sapeva neppure se la stava abbracciando nel modo giusto, o se il suo era un movimento goffo e
patetico. Forse si aspettava di essere presa in un certo modo, che lui sapesse già come comportarsi,
sedurla, invece era imbranato come pochi. Con Chiara era stato diverso, bastava lasciar fare a lei. Irene,
poi, non perdeva certo tempo in simili sciocchezze. Ora era nel dubbio, senza che Nicole gli venisse in
aiuto, a rendersi conto che, purtroppo, più si tiene ad una persona e più e difficile scegliere come
comportarsi con lei.
Finalmente la ragazza tornò ad alzare gli occhi. Serenità, ecco cosa Simone lesse su quel volto così
giovane ed esotico. Una calma affettuosa e tenera, al punto che si trovò a desiderare di mordicchiarle la
pelle.
Naturalmente il pensiero non si fermò li. I fianchi della ragazza sulle dita, le loro spalle che quasi si
toccavano, il vestito elegante e un po’ aderente. Vicina, con quell’odore particolare che hanno soltanto le
ragazze, a portata di mano, forse disposta a lasciarsi andare assieme a lui. Senza volerlo, si ritrovò preda
dell’eccitazione. Non poté fare a meno di immaginarla nuda, con la pelle lucente e tutto, che lo invitava a
sdraiarsi su di lei. Le mani lungo il corpo, carezze sulla carne tiepida, ad esplorarne tutta la rotondità. Le
labbra ad assaggiarla, i denti che affondano dolcemente, la lingua che scorre dalle caviglie fin su alle
cosce, e quanto altro la fantasia potesse suggerirgli.
Effetto degli ormoni impazziti di un ragazzo di ventun anni che da troppo tempo non ha una ragazza
per le mani. Idee naturali, che vengono spontanee anche quando si vorrebbe pensare ad altro. Con la
saliva che si faceva densa in gola, Simone si sforzò di portare altrove la fantasia, ma non c’era nulla da
fare, l’immagine delle sue mani che tastavano il sedere di Nicole era troppo invitante, così come il
provare ad indovinare di che colore potessero essere i suoi peli più nascosti. Le sopracciglia erano di un
castano chiaro quasi biondo, ma era bello fantasticare, come testualmente riportava una scritta a
pennarello sul muro d’uno dei bagni, che: “La figa coi peli neri… è il sogno degli ingegneri!”
La ragazza sorrise, in modo largo ed elastico, mentre lo fissava.
Se n’è accorta. Cazzo, lei lo sa a cosa penso e mi ha beccato in pieno! L’eccitazione di Simone si
spense di colpo, lasciando il posto ad una vergogna imbarazzata. Non sapeva assolutamente che dire,
come giustificarsi. Era fregato, come gli era successo un anno prima sfasciando la fiancata dell’auto in un
posteggio affrettato: una manovra apparentemente da nulla, il rumore del disastro, solo qualche secondo
per rendersi conto di ciò che è successo, molti di più per capacitarsi che sia reale, che davvero in un
istante e per una disattenzione da nulla sia potuto accadere.
“E’ proprio strano” disse lei, quasi sussurrandolo.
“Che cosa?” chiese Simone, sforzandosi di fare il finto tonto.
“A come ci siamo conosciuti. Pensavo al giorno che ho trovato quel porcellino sul banco.”
“Il maiale alato. La mia creatura prediletta.”
“Già, aveva anche le ali. A dire il vero ci ho messo un po’ a capire cosa potesse essere, ma poi ho
visto il muso e il codino. Era troppo dolce!”
“In effetti è un approccio abbastanza insolito.” Simone si calmò. Non era stato scoperto, ma avrebbe
comunque fatto bene a fare più attenzione, in futuro. “A ricordarlo non so se considerarmi audace o
semplicemente idiota.”
“Diciamo simpatico. Al limite un po’ idiota.”
“Però non è che ti sia dispiaciuto, no?”
“All’inizio non sapevo cosa pensare. Mi piaceva l’idea di avere un ammiratore, ma non sapevo se
fidarmi o no. Potevi benissimo essere un grezzo di prim’ordine con la mania di piegare carta.”
“E’ per questo che sei scappata via la prima volta che ti ho parlato? Volevi prima capire com’ero?”
“Non proprio.” Il sorriso di Nicole era qualcosa di splendido, mentre parlava. Quasi fosse stato dipinto
sui lineamenti sottili e garbati del viso, un quadro d’altri tempi che meritava d’essere visto ed
immortalato. “Stavo ancora pensando se era il caso di conoscerti o no.”
“Per fortuna hai fatto la scelta giusta!”
“Ricominci con le sbanfate?”
“Dicevo riferendomi da un punto di vista prettamente personale. L’averti conosciuta è stata per me
una botta di fortuna che si è portata appresso grande entusiasmo e serenità.”
“Questa te la sei preparata!”
“Non sei felice? Perdo anche tempo per te!”
Nicole ritornò a farsi seria: “Ho visto che eri… calmo. Tranquillo. Affettuoso.” Si morse il labbro, pur
continuando a sorridere, quasi si fosse lasciata sfuggire qualcosa di troppo. “Tu perché hai deciso di
conoscermi?”
“Perché ti avevo guardata bene.”
Nicole chiuse gli occhi. Appoggiò la testa alla spalla di Simone, lasciandosi sorreggere.
Dall’espressione serena che aveva sul volto si sarebbe potuto dire che dormiva. Anche il respiro era lento,
appena percettibile.
Lui ci mise qualche istante per capacitarsi di quanto stesse succedendo. La strinse più forte, per averla
vicina, allungando anche l’altra mano sul fianco della ragazza, in modo da abbracciarla. Era ancora presto
per un bacio, ma era bello stare così, sentirsela addosso, piena di affetto e di fiducia.
Ancora una volta si sentì in imbarazzo, ma era successo così tante volte, in quegli ultimi minuti, che
ormai si stava abituando. Era passato dal momento in cui si è soltanto amici a quello in cui potrebbe
nascere qualcosa di più, ed era già bene, quella notte sarebbe comunque andato a dormire felice. Lei non
lo stava prendendo in giro, non stava vivendo di illusioni, le paure erano state infondate, ma gli avevano
dato il coraggio di farsi avanti. Ora però era il momento più delicato, quando dalle semplici parole si
passa all’azione. Gli istanti in cui, in fondo, non importa cosa si dice, perché se si parla lo stesso
linguaggio lo si fa con il tono di voce, l’atteggiamento, ed anche il più stupido dei discorsi ha un
significato tutto diverso, complice ed intimo.
“Ma la scintilla è stata un momento di pazzia” riprese Simone, faticando formulare le parole per via
dell’emozione. “Coincidenze. Se preferisci, puoi anche chiamarlo destino.”
“Tu credi nel destino?”
“Solo quando mi fa comodo.”
“Non credo sia eticamente corretto.”
“Mi piace pensare che niente di ciò che mi accadrà sia scritto senza scampo, che in ogni istante possa
indirizzare la mia vita, o quella di chi mi sta vicino. Però non è spiacevole supporre un disegno più vasto,
dove prima o poi la giustizia si farà sentire.”
“A sentirti parlare così fai quasi paura.”
“Se vuoi ti leggo la mano.”
“Sei capace?”
“Non lo so. Non ho mai provato. Credo basti cominciare consultando l’indice…”
Nicole ridacchiò fra se. “Leggi l’oroscopo?”
“Stamattina si. Diceva una cosa molto carina.”
“Cosa?”
“Sei proprio curiosa, oggi!”
“Sei tu che fai tanti misteri.”
Il ragazzo si fece più serio, pesando le parole: “Diceva che sarei andato dalla ragazza di cui mi sto
innamorando, ed avrei trovato il coraggio di dirglielo con un bacio.”
Nicole smise di respirare. Si irrigidì tra le braccia di Simone, come se l’avesse saputo, ma le giungesse
comunque inaspettato. Lui si sentì crollare, interpretando quel gesto poco convinto come un rifiuto.
Allentò la stretta sul corpo della ragazza, pronto a lasciarla andare.
Lei però lo abbracciò a sua volta, senza mai aprire gli occhi. Il respiro tornò a calmarsi, anche se il
disagio che provava non si era del tutto placato. Simone riusciva a percepirlo, probabilmente
quell’emozione le stava sfuggendo, come aveva detto succederle con quelle molto intense.
Al diavolo lo maledisse, avvicinando le labbra a quelle di Nicole, e chiudendo gli occhi.
Gli ritornò in mente una frase, sentita da un amico: “Cos’è un bacio? Niente. Cosa può essere? Tutto.”
Con Irene era soltanto uno stupido preliminare, con Chiara un momento di intimità ed un modo per farla
contenta quando si salutavano, ma senza l’importanza teatrale che poeti e scrittori sono soliti attribuirgli.
Quando lui e la ragazza riuscivano a stare per un momento soli, sentiva subito il bisogno di coinvolgere
perlomeno la lingua, dare il via libera alle mani, passare ad un qualcosa di più serio ed intenso.
In quel momento, però, mentre si avvicinava ad occhi chiusi alla bocca di Nicole, fu costretto a
ricredersi. Ora un bacio era una risposta alla sua dichiarazione, un segno d’affetto che era anche fiducia,
scambiato da abbracciati, i visi troppi vicini per poter mentire. Non sarebbe durato più che qualche
secondo, ma in quell’istante per Simone sarebbe stato tutto, nient’altro sarebbe esistito, e molti momenti a
seguire ne sarebbero stati influenzati. La prima pietra di un grande palazzo, il cui valore simbolico supera
di gran lunga quello effettivo.
Le sue labbra aderirono a quelle di Nicole, trovandole al tatto calde ed umide, sottili ma carnose.
Iniziò con lo sfiorare la parte superiore delle bocca di lei con la lingua, assaggiando il gusto amaro ma
non spiacevole di una traccia di rossetto, cominciando a succhiarlo delicatamente. Lei cominciò a fare
altrettanto, muovendo intanto le mani sulla schiena del ragazzo per accarezzarlo.
Simone ci aveva creduto davvero, al pensiero fatto poco prima di cominciare a baciarla, ma da quando
l’aveva sfiorata aveva cominciato a non capire più nulla, si era lasciato guidare dall’istinto, prendendo da
lei i tempi per non andare troppo veloce. Ben presto si trovarono sdraiati di fianco sull’erba, abbracciati
stretti con una mano, l’altra che accarezzava le cosce. Le lingue si cercavano, stuzzicandosi a vicenda e
rincorrendosi sul palato, intrecciandosi e sciogliendosi in una rincorsa senza prede o cacciatori.
Una cosa che il ragazzo percepiva con intensità era l’odore della ragazza, non il profumo delicato che
si era messa quel giorno, proprio quello di Nicole, della pelle che a stento tratteneva il calore. Le passò
una mano tra i capelli, per coglierne appieno la fragranza, e li sentì sciogliersi fra le dita come fossero
liquidi, lasciandogli soltanto la sensazione d’un debole solletico.
Istanti così intensi da non riuscire a capirli se non in un momento successivo, quando se ne conserva
addosso l’intensità ma già i ricordi li rimescolano, li rendono irreali. Attimi la cui ricerca diventa per un
ragazzo il senso della gioventù.
Sentì la mano di Nicole sbottonargli i jeans, ed infilarvisi dentro senza tanti complimenti. Fino a quel
momento non aveva avuto il coraggio di aprire gli occhi, ma quel gesto inaspettato lo costrinse a farlo,
per alzare la testa e controllare che fossero davvero soli. Tutto a posto, perfino le finestre dei piani più alti
erano deserte, il venerdì pomeriggio la maggioranza degli studenti prendeva il treno e tornava alla sua
vera casa. Non che gli desse fastidio, un po’ di pubblico mentre lavorava su una così bella ragazza, ma ne
era un po’ geloso, e soprattutto non voleva essere interrotto.
Rassicurato, tornò a concentrarsi su Nicole, che da come lo accarezzava si sarebbe potuta battezzare,
oltre che Gatta, Porcellina. Già, erano proprio una bella coppia di maiali, mancavano soltanto le ali. Non
gli serviva quindi il permesso per appurare la sua più grande fantasia, cioè quella di infilare la mano sotto
la maglia della ragazza, sfiorarle la pancia più che piatta e tastare la tiepida morbidezza del seno, che si
muoveva al ritmo sempre più affannoso del respiro. Era proprio frutto di madre natura, senza imbottiture
o altri artifizi che sorreggono l’impossibile. Passando una mano dietro la schiena le slacciò il reggiseno
per poter dedicarsi meglio alle gioie del tatto. Sotto la pelle si sentiva il pulsare frenetico del cuore.
Simone cominciò a sentire qualcosa di strano, estremamente piacevole ma insolito. Ci impiegò
qualche istante per rendersi conto di cosa fosse: Nicole non riusciva a trattenere ciò che provava, o forse
lo lasciava trasparire apposta, per farlo partecipe d’una sensazione che altrimenti lei sola avrebbe potuto
gustare. Sentì i sentimenti ed il piacere della ragazza mescolarsi al proprio, fondersi al punto di non
saperli più distinguere. Era d’un intensità tale da dare un brivido lungo la schiena, ma soprattutto era
senza paragone la gioia di Simone nella spontanea conferma di ciò che Nicole provava per lui.
L’emozione lo costrinse a fermarsi per riprendere fiato. Abbandonò il seno della ragazza per
accarezzarle il volto, trovandolo però umido. Aprì gli occhi. Nicole stava piangendo, le sue lacrime erano
calde, quasi scintillanti a giudicare da quanto risaltavano anche sulla carnagione chiarissima. Sotto le
palpebre il fondotinta aveva perso consistenza, ed il luccichio della pelle le trasformava il viso in una
maschera surreale.
“Perché?” chiese, senza rendersene conto, non riuscendo a trovare una spiegazione. Per gioia avrebbe
voluto illudersi, ma sapeva che non era così, qualcosa non andava come doveva, ed aveva paura che la
colpa fosse sua, della mano che aveva corso troppo.
“Scusami” bisbigliò Nicole in un singhiozzo, separandosi dal suo abbraccio e mettendosi seduta.
Nascose il volto fra le mani, cercando di calmarsi.
Simone fece per accarezzarle i capelli, volendola consolare, ma lei scansò la testa con un gesto brusco.
“Insomma, che ti prende?” chiese allora, stizzito da quel comportamento tanto scontroso quanto
improvviso.
“Non doveva succedere…” rispose la ragazza, tentando di calmarsi respirando a fondo e
profondamente. Simone la lasciò fare, limitandosi a fissarla in attesa di una risposta.
“E’ stato un errore” disse timidamente lei, quando fu di nuovo in grado di parlare, senza il coraggio di
guardarlo in faccia.
“Ci hai ripensato? Ti ho delusa? Non ho saputo prenderti come ti aspettavi? Volevi un vero uomo?”
ironizzò Simone, subito pentendosi di quelle parole. Ci era cascato di nuovo: non sapendo come reagire
alle stranezze di Nicole, sentendosi minacciato si difendeva attaccando, anche in modo esagerato.
“Ho capito ciò che provi per me. Che è qualcosa di sincero” continuò la ragazza, facendo finta di non
aver sentito. “E anch’io…”
“Allora non mi spiego perché fai così.”
“Noi non possiamo stare assieme.”
Simone non capì subito il senso di quelle parole. Dubitò perfino che ne avessero. “Mi stai prendendo
in giro?”
Nicole strinse i pugni, strappando alcuni fili d’erba. Alzò il volto, e sputò d’un fiato ciò che aveva in
gola: “Io ti voglio bene!”
“E’ per questo che non capisco!” rispose Simone, esasperato. Adesso era lui a non avere il coraggio di
fissarla, perché in quei pochi giorni aveva imparato che Nicole non poteva mentire, che se le guardava
quegli occhi bianchissimi avrebbe spergiurato sulla verità di tutto ciò che lei gli diceva.
“Se davvero tu… insomma, l’hai capito che anche per me è così… ti sei lasciata andare, ed era un
qualcosa di stupendo, per tutti e due, l’ho sentito, o sei tu che hai voluto farmelo sentire. E adesso, come ti
fosse venuto in mente all’improvviso, senza motivo, non si può, non possiamo, e scoppi il lacrime.” Si
avvicinò alla ragazza, mettendosi di fronte a lei. Le prese il viso tra le mani. “Vuoi dirmi almeno perché?”
“Perché…” esitò. “Perché è così e basta!”
“Perché mi stai prendendo i giro, e non hai il coraggio di dirmelo in faccia?” gridò allora Simone,
vittima d’un improvviso scatto di rabbia che non gli permetteva di pensare le parole.
“No. E’ perché…” ma ancora una volta Nicole non finì la frase. Si morse il labbro inferiore, con una
forza che soltanto la disperazione poteva darle, ed un rivolo di sangue le solcò il mento. Gli occhi si
fecero nuovamente lucidi di lacrime, non solo per il dolore della ferita.
Perché io sono diversa era ciò che la ragazza non riusciva a dire.
Simone non capiva, ma si rese conto che non poteva capire, perché Nicole non vedeva le cose al suo
stesso modo, e quel sesto senso maledetto che possedeva cambiava radicalmente il modo di decidere della
sua vita. Un potere che in apparenza poteva sembrare magnifico, ma che già al ragazzo era sembrato un
inferno dopo neanche una mattina che lo provava. L’amore, i sentimenti, chissà cosa diavolo potevano
significare in una simile condizione.
Io non potevo avere un ragazzo. Un avvertimento involontario di cui si era preoccupato ma,
evidentemente, non abbastanza.
“Va bene” si arrese. Una gran tristezza prese il posto della rabbia. “Non posso dire di condividere
questa tua scelta, ma la rispetto. Se non altro, per ciò che provo per te.” Le baciò delicatamente la fronte,
e lei lo lasciò fare. “Forse è stato meglio che tu me l’abbia detto subito. Già è difficile adesso… se
fossimo andati avanti ancora un po’… Col secondo semestre e la specializzazione non avremo neanche
corsi in comune, forse sarà più facile fare gli estranei.”
Erano parole dure, prive di sensibilità, ma se doveva tagliare era meglio farlo subito, senza mezzi
termini. Niente amicizia ormai, era troppo facile ricaderci. Il boccone amaro e via, neanche più una
parola, a stento un saluto strascicato se per caso ci si incontra. Insensibile forse, ma l’unico modo.
“Grazie” rispose la ragazza, condividendo con coraggio l’idea. Lo abbracciò, ma per un tempo così
breve che Simone non riuscì quasi ad accorgersene. “Non pensavo potesse succedere. Non sono mai stata
realmente innamorata di qualcuno, credevo fosse una cosa intensa, da film, che la notte non lascia
dormire, quasi distruttiva da quanto profonda. Invece con te è stata una cosa dolcissima, naturale. Non ci
ho pensato, e anche quando ho cominciato a capire non volevo arrendermi all’evidenza: era bello,
gradevole, tu mi piacevi davvero, sentivo che per te era altrettanto, e non perché per te ero un simbolo, ma
per come ero, anche nella mia diversità. Mi bastava seguire all’istante ciò che sentivo, senza
preoccuparmi del futuro, di quelle che sarebbero state le conseguenze. Desideravo ed ero desiderata, di
colpo potevo avere ciò che non ho mai provato, il mio sogno, troppo piacevole per fermarsi a riflettere,
avere il dubbio che ci sia qualcosa di sbagliato. Mi sono lasciata trascinare, senza rendermene conto, ed
ora è troppo tardi.”
“Sentirtelo dire mi fa più male che bene” rispose Simone, che ad ascoltare quelle parole sentiva una
fitta profonda scavargli il petto. Quanto aveva sognato che lei gli parlasse così, ma in quel momento era
tutto diverso, la situazione ne sconvolgeva il senso e l’effetto.
Era stato tutto perfetto, lei la ragazza dei suoi sogni, il loro rapporto qualcosa di splendido, ed ora, per
un qualcosa che stentava a capire, una buffonata tanto ridicola da sembrare una presa in giro, doveva
rinunciare a lei. Che senso aveva, ora, ascoltare in senso di scusa quanto lei gli aveva voluto bene?
La sua testa fu per un istante un veloce rifluire di pensieri, cui però non si volle abbandonare, perché
sarebbe stato un voler scappare dalla realtà ostile di quel momento, per rifugiarsi nella malinconia dei
sogni infranti. Una vita come tante, fatta di piccole gioie ma senza grandi obiettivi. Di colpo piove dal
cielo la fortuna, e con pochi accorgimenti fatti per conquistarla si matura, la si crede un merito. Felicità,
sogni, progetti. La fregatura finale. Neanche per colpa propria, che meglio non si sarebbe davvero
potuto fare. Ciò che è stato dato viene tolto, senza tanti perché. Si ritorna allora alla vita di sempre, che
però pare ancora più vuota, perché quando si era raggiunto un minimo di serenità qualcuno ci ha fatto
annusare una vita migliore, una gioia più intensa, per poi portarcela via prima ancora di concedercela.
Ci ha lasciati soli, a consolarsi con una morale che non sempre si trova di ciò che non possiamo avere, e
di cui si è ravvivato il desiderio.
“E’ il mio modo per scusarmi” spiegò la ragazza, con tono materno. “Per dirti che non volevo
illuderti. Questo assolutamente no, e credo sarà il mio rimorso più grande.”
Dirle “grazie” sarebbe suonato come una presa in giro. Simone si limitò ad annuire stancamente,
voltando il capo verso le finestre dei piani più alti dell’edificio. Voleva andarsene, fuggire via, senza
neppure voltarsi a guardarla. Si sentiva però apatico, un malato insonne che non ha la forza di uscire dal
letto.
Dimmi che è solo uno scherzo la pregò mentalmente. Gettami le braccia al collo e dimmi che stiamo
insieme, che quella che hai tirato fuori è soltanto una cazzata immensa cui non credi nemmeno tu, e
continuiamo da dove eravamo rimasti.
Aspettò alcuni minuti, ma non successe nulla.
“Adesso arriva la parte peggiore” bisbigliò. Alludeva ovviamente al doverla togliere dalla testa,
all’ipocrita far finta di niente per soffrire il meno possibile. “Forse sarebbe stato meglio se non fosse
successo.”
Sentì Nicole irrigidirsi. Si voltò verso di lei, e trovò il volto della ragazza attaccato al proprio, le punte
dei nasi che si sfioravano. “Ne sei sicuro?”
“Di cosa?”
“Che sarebbe stato meglio…”
“Mi è sfuggito. No, non lo penso davvero. Non so. Certo ci si mette un po’…”
“A dimenticare?”
Quando l’aveva già sentita usare quella parola? Si, era stato il lunedì della settimana prima, mentre lei
gli rivelava per la prima volta della sua particolare natura, e Simone rispondeva che non era importante.
“Dimentichiamo? Facciamo finta che io non sia quello che sono, e amici come prima?”
“No. Ci metterò un bel po’ a non pensare a te. Non come prima.”
Nicole riuscì a sorridere, anche in quella situazione, in un modo sollevato e sereno.
“Proprio non ti capisco” si sorprese Simone.
“Un’ultima cosa ti chiedo di promettermi. Per favore.”
“Dimmi.”
“Ricordati di me. Di quello che avrebbe potuto essere. Che io non sia soltanto lo spiacevole finale di
questo stupido pomeriggio.”
Simone non poté fare a meno di pensare a Katia, a quello che era successo fra lui e la ragazza che
faceva forse finta di non riconoscerlo, quasi lo considerasse un errore, un ricordo spiacevole da cui non si
è tratto altro che scocciature.
“Te lo prometto. Ma devi farlo anche tu.”
Si sfiorarono appena le labbra, in segno di addio. Nicole si alzò, prese lo zaino, un fazzoletto dalla
tasca, e si allontanò asciugandosi il viso. Probabilmente avrebbe pianto ancora. Simone rimase immobile
a fissarla, studiarne il sedere ricordandone al tatto la morbidezza.
Non una parola. Niente addii, “ti amo”, urla, rincorse, fiori o altro. Solo un bacio, per immaginare ciò
che per colpa di nessuno non poteva essere, ricordarsi la loro promessa. Un grande vuoto, d’improvviso,
come se di colpo mancasse il fiato, ed i polmoni fossero troppo vecchi per rubare all’aria un po’
d’ossigeno. Afflosciarsi e cadere come un sacco vuoto.
Ma più che per se stesso, Simone provava per Nicole una pena infinita, ma anche un’ammirazione
immensa, che più volte in quei pochi giorni la ragazza aveva dimostrato di meritare. Per il coraggio con
cui affrontava la diversità della propria vita, senza poterlo confidare a nessuno, arrivando perfino a
chiedere scusa a chi era più fortunato. Non doveva essere stata una scelta facile neppure per lei, eppure si
era preoccupata per Simone, forse solo per lui aveva interrotto così presto l’intimità che fra loro era nata,
prima che il legame si facesse troppo stretto e difficile da spezzare.
Un bacio, che davvero era un niente ma poteva essere tutto, come aveva segnato una svolta sigillava la
fine. Le ginocchia chiedono riposo, la schiena affonda nell’erba, che le mani strappano a piccoli ciuffi
perché incapaci di stare ferme. Solo gli occhi si chiudono, le orecchie ascoltano il suono fiacco del
respiro, i passi leggeri di un sogno che scappa.
Simone aspettò il sopraggiungere della sera sdraiato sul prato, gli occhi fissi al limpido azzurro del
cielo, che tendeva sempre più ad un rosa striato di sangue. Un paio di volte si asciugò gli occhi, sebbene
non riuscisse a pensare a nulla, nemmeno a ricordare. D’un tratto gli venne perfino da sorridere.
“Bella inculata davvero!” esclamò. “E adesso che cazzo dico ad Aldo?”
epilogo
“Ammessi all’orale!” esclamò Aldo il luglio successivo, osservano sulla bacheca i voti dello scritto
meccanica razionale. Un vero macello: dei più di centocinquanta iscritti, soltanto una ventina apparivano
sul foglietto che riportava i risultati.
“Allora la giustizia c’è!” aggiunse Simone, controllando per la terza volta che il numero di matricola
fosse proprio il suo, che il voto corrispondesse al venticinque che compariva nella seconda colonna.
“Complimenti! Visto che non è così impossibile come dicevi?” Aldo gli mollò una pacca sulla spalla.
“Taci, tu. Ventotto. L’ho sempre detto: non sei un essere umano, sei una bestia da studio!”
Sorrisero insieme. Erano due dei pochissimi studenti che avrebbero potuto finire gli esami del secondo
anno entro metà del mese successivo. Un risultato sorprendente per Simone, che ripensando alla
disarmante partenza della sua carriera universitaria stentava a crederci.
“Certo che se penso che tutti gli anni dovremo fare una tirata come questo periodo mi passa altro che
la voglia” aggiunse a bassa voce. Due mesi di studio giorno e notte, che solo l’aiuto e la compagnia di
Aldo gli avevano permesso di affrontare senza impazzire. Tornò a concentrarsi sul suo venticinque.
Ottimo davvero.
“La scuola te la sei scelta tu.”
“Vuoi farmi una colpa del mio masochismo?”
“Ciao!” li salutò una vocina squillante alle loro spalle. Quando si voltarono il sorriso allegro di Carla
li stava aspettando.
“Ciao!” la salutò Aldo, gentilmente.
“Oh, ma sono usciti i voti di meccanica!” esclamò lei, che di certo li doveva aver già osservati a
dovere, vista la precisione con cui indicò il proprio nome sul foglio ad una prima occhiata. Lanciò un
urletto compiaciuto: “Che fortuna! Trenta!”
“Appunto. Fortuna” ripeté Simone tra i denti. Era stupito per la capacità di attrice della ragazza, che
aveva saputo mimare alla perfezione lo stupore di chi vede quel numero per la prima volta, e non
vorrebbe farlo sapere agli altri, ma la gioia e la soddisfazione sono tali che proprio non le riesce di
trattenersi.
“Forse avrei fatto meglio a rimanere li fino alla fine. Avrei potuto puntare alla lode!” Carla aveva
l’abitudine di consegnare gli scritti un quarto d’ora prima, uscire dall’aula, e starsene a fissare con aria
divertita gli studenti che faticavano a rispettare i tempi.
I due amici rimasero senza parole. Che ci vuoi fare? Sei stupida le avrebbe volentieri risposto Simone.
“Che bello! E voi com’è andata?” riprese la ragazza, dopo un paio di demenziali saltelli. La domanda
era chiaramente rivolta ad Aldo.
“Ventotto.”
“Be, dai, c’è sempre l’orale.” Dopo averlo così smorzato, senza aspettare risposta saltellò via, diretta
chissà dove.
“Si, con l’orale puoi alzarti il voto anche di quattro punti. Sei, se ingoi lo sperma” commentò
ironicamente Simone.
“Non so, ma proprio non ha un limite, quella ragazza!” Aldo era caduto in uno stato misto di
incredulità e demoralizzazione. “Ma dico, ci gode, a fare così? A volte mi piacerebbe non averla mai
conosciuta!”
Simone non rispose. Un vago senso di deja vu gli portava alla memoria ricordi non del tutto
spiacevoli. Si limitò ad un’alzata di sopracciglia ed un sorriso, scoprendosi intento a fissare il foglio dei
voti con le mani che gli prudevano. Avrebbe dato chissà cosa per poter strappare quel pezzo di carta e
cominciare a piegarlo, modellando così chissà quale strano e fantasioso animale.
Fine