Marsiglia, ultima fermata

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Marsiglia, ultima fermata
Figli dei rospi
Trattamento
Trop souvent nous n’osons pas aller
jusqu’au fond de nous-mêmes…
nous restons toujours sur le quai.
Parce que le quai c’est toujours la
chose la plus sure qu’existe, n’estce pas? La terre ferme.
J. C. Izzo
Marsiglia 2008
Marsiglia è un porto senza attrazioni. Dopo che le rotte commerciali hanno cambiato le loro traiettorie, il
Porto Autonomo di Marsiglia ha perso sempre più importanza fino a diventare un semplice scalo. Da questa
città sono passate tutte le popolazioni del Mediterraneo.
Una piccola imbarcazione si avvicina alla città dal mare; si intuiscono soltanto i contorni della barca che
galleggia placidamente, in totale assenza di vento e onde, e una vela bianca. La città all’orizzonte resta
indistinta.
Una voce comincia la narrazione, in lingua italiana, una delle tante storie d’emigrazione. Non c’è nessun
cartello o sottotitolo che dichiari la sua identità:
«Un proverbio marsigliese recita “c’è sempre l’arabo di qualcuno”. S’intende che ognuno ha sempre un altro
in serbo da odiare.
Ho scoperto che una volta sarebbe stato più giusto dire “c’è sempre l’italiano di qualcuno”».
Scorrono le immagini del paesaggio dal finestrino di un treno; una corsa dall’Italia alla Francia. Lungo la
costa; il treno passa per Sanremo e si avvicina alla stazione di Ventimiglia. È vuoto, tranne per qualche
anima, immigrati non europei: orientali, nordafricani, magrebini.
Ecco Marsiglia: il porto commerciale da dietro una grata che vieta l’accesso ai non addetti, il Vieux Port, con
le sue barche a vela, e il Panier, arroccato sopra il porto, le stradelline strette, le macchine costrette a
improbabili manovre per districarsi.
Un tassista intervistato rivela che non vuole portare nessuno al Panier, perché è un quartiere poco sicuro.
Tra i vicoli, in Place des Pistoles, l’arrivo sferragliante di un treno, completamente fuori contesto; qualche
secondo e si svela il trucco, è un piccolo treno per turisti, le loro facce scorrono mute e rapite, tra l’estasi e la
noia. Il trenino scompare dietro Rue du Refuge e il quartiere torna silenzioso.
Su un muro, sotto la scritta “Defense d’afficher!1”, sventaglia un manifesto che sembra di un’altra epoca:
“Babi!”, c’è scritto, ed è fatta mostra di una faccia, un tizio poco raccomandabile, con barba, orbite scure e
tratti mediterranei.
Tra i suoni dei vicoli riecheggia una voce profonda ed elegante, in buon italiano, appena segnata da una
cadenza francese. Un uomo dalla corporatura massiccia e il passo fermo si inerpica sulla Montée des
Accoules, una scalinata ripida che, partendo dal porto di Marsiglia, sale verso la sommità del Panier.
1
“Divieto d’affissione” Sono scritte risalenti al periodo delle due guerre, secondo una legge pubblicata nel 1923, ancora
oggi in vigore.
1
L’uomo si chiama Jean Pierre Cassely, di professione fa il conteur de rue2, figlio di immigrati italiani della
provincia di Lucca; il suo repertorio conta soprattutto vecchie storie del Panier, che fu un tempo il quartiere
degli italiani; esercita il suo mestiere per i turisti, ma in questo caso passeggia solitario raccontando, come si
fa nelle favole, un passato trascorso tanto tempo fa.
“Marsiglia non è una città per turisti… Anche per perdere bisogna battersi…3”. Il Panier è stato un
catalizzatore di speranze e traiettorie, vi transitavano migliaia di emigranti, in cerca di lavori stagionali,
insicuri e malpagati. Qualcuno sperava da lì di partire per l’America, ma si è giocato i soldi in qualche café. I
soldi di Euroméditerranée4 hanno cambiato il vecchio quartiere, lo hanno imbellettato; sono serviti a pagare
gli antichi abitanti perché se ne andassero. Quelli che non se ne sono andati hanno ricevuto intimidazioni.
Qualche anno fa nessuno avrebbe messo piede al Panier… Data la sua posizione, subito sopra il porto, il
quartiere è stato la casseruola dove si sono gettati tutti i miserabili, una “bouillabbaisse5 di pesci poveri”.
Negli anni Sessanta sono arrivati gli arabi, prima degli armeni e dei portoghesi, prima ancora dei còrsi… ma
“gli italiani sono arrivati prima di tutti!”
Le foto d’epoca delle famiglie degli immigrati sono riprese dalla camera a mano, tutte esposte nella
medesima stanza buia e polverosa, appartenenti ad un’unica grande famiglia. Da quella stessa stanza arriva
una musica gracchiante, che sentiamo riverberare nelle strade del Panier, su cui sta calando la notte. È
Enea, nella Didone Abbandonata di Pietro Metastasio, I atto, scena XVIII:
«Se resto sul lido,
se sciolgo le vele,
infido, crudele
mi sento chiamar.
E intanto, confuso
nel dubbio funesto,
non parto, non resto,
ma provo il martire,
che avrei nel partire,
che avrei nel restar.»
Alcune immagini d’archivio descrivono la città agli inizi del secolo: il Porto di Marsiglia, il lavoro febbrile dei
dockers che caricano e scaricano casse di merce, la vita della città lungo la Canebière, una nave che arriva
2
Letteralmente “narratore di strada”, figura risalente a tradizioni popolari remote, a metà tra l’aedo dell’antica Grecia e
il banditore da fiera. Il conteur è una figura ricorrente in molte tradizioni, anche non occidentali, nate in situazioni
sociali nelle quali la trasmissione orale della conoscenza è ancora un importante strumento di informazione. J. P.
Cassely fa di questa forma letteraria atipica una professione, raccontando le storie degli italiani di Marsiglia ai turisti.
3
Si citano le parole dello scrittore e sceneggiatore J. C. Izzo (1945-2000), in Casino totale, il primo romanzo della
trilogia di Marsilia pubblicato nel 1995.
4
Euroméditerranée è una iniziativa di finanziamento europeo concessa nel 2001 a una cordata di imprenditori che si
impegneranno a investire sulla zona del porto commerciale di Marsiglia, La Joliette e il Panier, afflitte da grande
povertà, da quando le attività del porto sono state ridotte. Purtroppo i finanziamenti hanno attirato soggetti
completamente estranei al delicato contesto sociale di questi quartieri, pregiudicando le buone premesse dell’intervento.
5
Ipse dixit, le parole di J.P. Cassely sono state registrate durante i sopralluoghi avvenuti nella regione nel corso del
2007. La bouillabaisse è un piatto della cucina povera francese, all’origine inventato dai pescatori per sfruttare anche il
piccolo pescato non vendibile.
2
da Gibuti, carica di giovani facce nere. A colori le immagini di un TG italiano, dettagli ingranditi che
presentano le tracce della grana del video: l’arrivo dei clandestini sulle coste meridionali, alcune immagini
girate in un C.P.T. L’alternanza delle immagini deve comporre un’unica partitura del dramma del partire e
dell’arrivare.
Parla Robert Catella, un signore colto, di origini piemontesi, di oltre sessant’anni. Lui e suo fratello gemello
Giorgio, furono portati a Marsiglia dalla madre, appena finita la guerra: avevano otto anni. Il padre, cuoco in
un ristorante italiano era già a Marsiglia da alcuni anni. Robert ci racconta un tentativo di fuga dal treno, a
Ventimiglia, quando i due fratelli realizzarono che avrebbero vissuto per il resto della vita in un Paese
straniero.
Questo racconto accompagna un altro viaggio in treno: la vettura lascia Ventimiglia e prosegue verso
Mentone, nella Francia di oggi. È un pomeriggio di fine estate, il treno è vuoto. Alla stazione di Mentone sale
la guardia di frontiera, per un’ispezione di routine. Gendarmi francesi in divisa che cercano qualcosa negli
scompartimenti assolati.
In uno scompartimento due uomini, seduti uno di fronte all’altro, aspettano che il treno riparta. Sono vestiti
con abiti vecchi e lisi, cappelli con le tese deformate dall’acqua, camicie a quadretti di flanella. Ai loro piedi
hanno appoggiato un ingombrante bagaglio, una cassa di legno con maniglie in cuoio, una valigia di cartone
tenuta insieme dallo spago e la custodia di uno strumento in pelle consunta. Sembrano fuori dal tempo.
Lo strano duo scende dal treno e si dirige verso la spiaggia. Lì i due disfano i loro bagagli. Dalla cassa di
legno vengono estratti elementi di una rozza scenografia. Si tratta di due marionettisti ambulanti dell’Opera
delle Marionette di Genova6, Marco e Momo7. Il puparo, e il parlatore8. Il loro bagaglio è un piccolo teatrino di
marionette portatile; dalla valigia in cartone estraggono le marionette e un vecchio organetto a molla. Mentre
i due artisti montano il loro apparato si assembra una folla di grandi e piccoli curiosi. I bambini li strattonano,
Momo parla con loro in francese. È marocchino ma dice di essere italiano: e in fondo poi che differenza fa,
“c’è sempre l’arabo di qualcuno”. È il primo spettacolo di una serie che i due allestiranno lungo le strade del
sud della Francia, le stesse percorse dai primi immigrati italiani.
Il palcoscenico9 mascherato da due panneggi di velluto rosso, a rigore stracci tirati con lo spago, si mostra
come uno strano ritrovato, aggiustato con qualche resto di vecchia cassa da imballaggio, un telo bianco
come fondale. Gli elementi della scenografia prendono posto sulla scena autonomamente, come animati da
una meccanica fantasmagorica. Si tratta di sagome di carta, vecchi giornali, frammenti di vecchie fotografie,
volumi di cartone da imballaggio. Dalla sommità del teatrino scende un burattino, che si libera dai suoi fili
appena calato sul palcoscenico; è vestito con un costume tardo- ottocentesco. La testa del burattino è
rozzamente intagliata nel legno, gli danno carattere una nera barba caprina di stoppa e due pezzi di vetro
scuro, incastonati in un circuito di filo di ferro, a rappresentare un paio di occhiali. La marionetta descrive i
6
Lo spettacolo allestito dalla Compagnia viene portato in Francia lungo un percorso che batte una per una le piazze dei
villaggi con una forte comunità italiana. Da anni questa compagnia propone progetti che rileggono la storia d’Italia
attraverso lo stile del teatro di figura, con marionette e burattini.
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Momo è il soprannome di Mohamed, un ragazzo algerino che da anni vive tra la Francia e l’Italia. Attore di
professione, è un girovago e un esule per vocazione. È scritturato dal Teatro delle Marionette solo per questo spettacolo
e lo accompagna come voce narrante, conoscendo molto bene Marsiglia e i suoi abitanti.
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Puparo e parlatore sono le due figure principali del teatro dei pupi siciliano. Uno manovra le marionette, spesso con
l’aiuto di un assistente, e l’altro dà loro la voce e narra gli eventi. Anche se lo spettacolo dell’Opera delle Marionette,
non è uno spettacolo di pupi, ma di semplici marionette, abbiamo usato questa dicotomia per chiarire più direttamente i
ruoli di Marco e di Momo.
9
Questo palcoscenico è una doppia realtà. Tutto ciò che si riferisce alla scena è sia la documentazione fedele dello
spettacolo di Marco e Momo, sia una ricostruzione in studio, in animazione Passo Uno, di uno spettacolo “altro”, cioè la
messa in fila dei documenti e dei materiali visivi rinvenuti.
3
tratti tipici dell’immigrato italiano: fronte bassa, mascella quadrata e sporgente; la sua debolezza morale “è
dovuta alla ferocia della razza italiana”, sono le parole dell’illustre studioso Cesare Lombroso.
Sulla scena sono affissi alcuni titoli del Petit Provençale del 1897: “L’invasione italiana: più di 250.000 italiani
nella regione”.
Momo, il parlatore, racconta di come alla fine del secolo Decimo Nono un esodo di italiani, soprattutto dal
nord dell’Italia (Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna), avesse investito la costa meridionale della
Francia; spinti dalla miseria, e dalle persecuzioni, a torto o a ragione, della Polizia di Stato. Intere famiglie
cercavano casa e lavoro: lavori stagionali, a salari minimi, senza regole, svilenti e pericolosi.
E poi una gran quantità di accattoni professionisti, ambulanti con la scimmietta e ladruncoli, gli italiani
trovavano lavoro nelle vetrerie, nelle saline, nelle miniere di carbone e di zolfo o come scaricatori nel porto di
Marsiglia,. Tutti quei generi di lavori che i francesi rifiutavano di fare. C’erano più di 300.000 italiani in
Provenza, il 95% dei furti erano a loro imputati, “l’assassino e il furto erano il loro sport nazionale, più del
calcio.”10
La voce di Catella racconta la difficile integrazione nella società francese, la necessità di doversi appoggiare
alle associazioni cattoliche per trovare un po’ di conforto, il razzismo dei francesi verso gli italiani: per loro
eravamo tutti “ladri, fascisti e krumiri”.
Gli fa eco la voce di Momo: “Mangiano e dormono per terra, non si svestono per delle settimane intere,
puzzano!”. Robert Catella spiega il senso del termine “babis”, che in piemontese significa “rospi”, un insulto
comunemente rivolto gli italiani. Gli italiani venivano anche chiamati “Christi” per la profonda dedizione,
sospetta agli occhi dei francesi giacobini, al cattolicesimo. Anche i piccoli Robert e George vengono spediti
dal padre alla scuola dei preti, per preservarli dai guai.
La marionetta Lombroso estrae dalle quinte del teatrino un rospo in formalina, uno di quelli che si usano per
gli esperimenti biologici, e con un bisturi luccicante ne apre il ventre. Ne escono spaghetti intorcolati, che
portano tra le loro spire santini, cuori trafitti e un rosario.
Su alcune immagini d’archivio la Cattedrale de La Major, una chiesa ottocentesca che sorge proprio a
ridosso del porto: esce la processione di Sant’Antonio. I primi emigrati italiani portarono a Marsiglia una sua
reliquia da un villaggio di pescatori; su un muro della chiesa un graffito: “Prete! Suona pura le tue campane:
questo resterà un Paese laico!”; un lunga fila di arabi dalle lunghe barbe di fronte alla moschea della Joliette,
portano i figli alla scuola coranica.
Vincent Musso è un anziano signore elegante, una voce profonda da baritono e un accento del sud-est
molto marcato. Piemontese, nato nei pressi di Cuneo, dopo essere scappato dall’esercito italiano in rotta
dopo l’armistizio11, parte per la Francia senza documenti, in cerca di uno zio che pare faccia il panettiere a
Marsiglia. Il suo racconto accompagna Marco e Momo lungo il clivo scosceso che sale dalla costa ligure su
un colle al confine con la Francia, a tutti noto come il Passo del Diavolo. Vediamo Mentone e Ventimiglia
illuminarsi nella luce del tramonto, la Francia stendersi oltre il ciglio del sentiero, il precipizio che confina con
il tracciato della ferrovia.
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Estratti dai manifesti e dai volantini della Ligue de la Patrie Française, 1903
Si fa riferimento all’armistizio di Cassibile, del 3 Settembre 1943, con il quale il Regno d'Italia cessò le ostilità contro
le forze britanniche e statunitensi nell'ambito della seconda guerra mondiale. Reso noto l’8 Settembre, causò la fuga di
molti ufficiali e la dispersione delle truppe lasciate a loro stesse, sotto la minaccia dei nazisti.
11
4
Per non essere fermato dai gendarmi, Musso prese la via della montagna, affidandosi a un passeur12, un
avanzo di galera che lo portò fino alla sommità del passo, indicandogli soltanto la luce lontana di Mentone e
raccomandandosi di fare attenzione alle mine, di cui era disseminato il percorso.
I due marionettisti dalla cima del burrone fanno cadere un burattino, che precipita verso il basso, sbattendo
violentemente sulla roccia. Sulla scena del teatro vuota, la marionetta atterra, lacera, con un tonfo sordo. Sul
palco scende la neve: fecola di patate attraverso un colino. Sul fondale l’immagine di archivio di un
“cammino della speranza”: clandestini italiani cercano di passare il confine attraverso il passo del Piccolo
San Bernardo13, sferzati da una bufera.
Lo spettacolo itinerante viene allestito sulla Canébière, l’arteria principale di Marsiglia, che taglia in due la
città, come una specie di spaccanapoli, dalla Eglise des Réformés al Vieux Port. Anche Jean Pierre Cassely
si trova spesso sulla Canebière. Ai ragazzini di svariate origini che si fermano a osservare la scena racconta
il significato di Avenue de la Canebière. Questa strada ha la funzione di un confine: da un lato la Marsiglia
alta, borghese e ordinata, dall’altro la Marsiglia bassa, operaia e accattona. Le due realtà si mescolano
davanti alla scena del teatrino.
Sulla Cenebière convivono da sempre le due città: nel Dopoguerra vi passeggiavano la Domenica
pomeriggio i figli degli italiani, con i calzini puliti e il vestito “buono”, accanto ai figli della Marsiglia bene.
Scorrono le foto dei fratelli Frassanito14, immortalati in impermeabile e scarpe lucide, una camminata e uno
sguardo fiero alla Jean Gabin e sullo sfondo il selciato della Canebière.
Il parlatore, con l’organetto, suona un vecchio motivo:
«D’où vient tu gitan?/
Je viens de bohème…
d’où vient tu gitan?
Je viens d’Italie…»15
Sul fondale si proiettano le immagini d’epoca: 1893, una folla festante attende sulla Canébière l’arrivo di
François Sadi Carnot, presidente della IV Repubblica Francese. Momo racconta che il presidente non
arriverà mai a Marsiglia dove era atteso come ultima meta del suo viaggio. A Lione cadrà vittima del
“meschino attentato” per mano dell’anarchico italiano Sante Caserio. La sagoma di una carrozza scoperta
entra nella scena; il presidente e il suo convoglio sono rappresentati come delle ombre cinesi che si
ritagliano sulle immagini del fondale. Il parlatore fa schioccare con forza la sua cintura di cuoio, producendo
un piccolo sparo truccato. La sagoma di Carnot è abbattuta come al tirassegno. In primo piano entra in
scena una marionetta che si muove artificiosamente trascinata dai fili a cui è legata, indossa un costume
rattoppato, simile a quello dell’Arlecchino. Un'altra marionetta vestita da gendarme dell’epoca compare
dall’altro lato della scena. Ne segue un buffo dialogo sulle rime di un vecchio stornello dell’anarchia:
12
I “passeurs” erano gli scafisti del tempo. Si trattava quasi sempre di italiani che conoscevano bene le montagne lungo
il confine franco-italiano, in virtù della loro professione: spesso erano pastori inguaiati con la legge, che per sbarcare il
lunario accompagnavano i loro connazionali fino al confine, mostrando loro la via più sicura per sfuggire alla Polizia di
Frontiera.
13
Il Passo del Piccolo San Bernardo è un valico tra Italia e Francia, a poco meno di 3000 m sul livello del mare, vicino a
La Thuile in Valle d’Aosta.
14
La famiglia Frassanito è immigrata da Gallipoli, in Puglia, negli anni Trenta. Negli anni Cinquanta, raggiunta la
maggiore età, i figli maschi posavano per questa foto di rito sulla Canebière.
15
È un testo della canzone Les gitans del 1958, di Dalida, al secolo Iolanda Cristina Gigliotti, cantante italo francese,
nata al Cairo, che si è tolta la vita nel 1987.
5
«“Lo conoscete voi questo pugnale?”
“Sì che lo conosco c’ha il manico arrotondo.
Nel petto di Carnet l’ho penetrato a fondo!”
“Li conoscete voi i vostri compagni?”
“Sì che li conosco. Ma son de l’anarchia.
Caserio fa il fornaio e non la spia!”»
La scenetta finisce a bastonate, come nel canovaccio classico della commedia dell’arte.
Sui muri scrostati vediamo altri affiche che recano scritte anti-italiane: “Abbasso Crispi! Morte agli
assassini!”, “Arrestiamo questa marmaglia anti-nazionalista! Liga Patriottica!”
L’organetto continua a suonare Les gitans, intanto scorrono le immagini d’archivio: una folla che si
sparpaglia in preda al terrore nel reticolo di strade attorno al porto di Marsiglia, due notabili in rendigote che
si stringono la mano in un arringa pubblica, Osama Bin Laden in uno dei suoi video-messaggi, Borghezio,
portavoce della Lega Nord, mette in guardia il Popolo Padano contro le conseguenze disastrose
dell’immeticciamento culturale.
Momo legge alcuni articoli di giornale, cronaca dell’ondata di violenza anti-italiana che seguì all’assassinio di
Carnot. Sulla scena del teatrino resta solo una marionetta abbandonata, i fili allentati poggiano per terra.
Alcune carte di giornale si accartocciano e vengono spazzate via da un vento invisibile, mentre sul fondale
continuano a alternarsi le immagini d’archivio. Improvvisamente i fili vengono tirati con violenza in direzioni
opposte. La marionetta si lacera facendo uscire l’imbottitura di cotone candido che le dava forma e sostanza.
Pierre Boudoin è un immigrato italiano che vive à Aix en Provence, a trenta chilometri da Marsiglia. La sua
voce è spessa e secca. È nato in Francia, poco prima della seconda guerra mondiale. Racconta delle
umiliazioni subite dagli italiani dopo il famoso “colpo di pugnale alla schiena”16. Boudoin si batteva per
difendere il buon nome della sua famiglia, in particolare di sua madre, che pure la suocera chiamava con
disprezzo “l’italiana”. Per i francesi loro erano tutti “fascisti” o “Mussolini”. Le storie del suo “tonton” Basso17
sono rocambolesche come quelle di un partigiano di Fenoglio, o di un personaggio da feuilleton d’avventura.
Sulla piazza a Aix ricomincia lo spettacolo dei due pupari. In una scenografia che illustra una foresta di
cartone, entra in scena una marionetta più piccola delle altre: rappresenta un bambino, al collo ha un vistoso
fazzoletto rosso, e attaccato al braccino un panierino coperto da un tessuto a quadretti. Da dietro un grosso
albero in cartone, compare un’altra marionetta, sproporzionatamente alta e dinoccolata, il volto di un lupo
feroce, in camicia nera.
Sul fondale si proiettano le immagini di rassembramenti fascisti, il volto di Mussolini che urla a un comizio, gli
accordi franco-italiani siglati a Cannes nel 1935.
Tonton Basso, friulano, ancora molto giovane è costretto a rubare dai carretti della frutta per sfamare la
famiglia orfana del padre. Venuto in Francia per lavorare da muratore, nel 1940 alla dichiarazione di guerra
di Mussolini alla Francia, come molti altri italiani è costretto a lasciare la Francia con la moglie. Pierre se li
ricorda mentre partono, le loro poche cose caricate su un carretto. Essendo comunista iscritto al Partito,
16
Nel 1940 Mussolini, forte della sua alleanza con la Germania di Hitler, e della sua vittoriosa avanzata in territorio
francese, noncurante della neutralità proclamata tra Italia e Francia, sferra un attacco a quest’ultima lungo il fronte delle
Alpi, avanzando rapidamente fino a Nizza. L’azione è nota come “coup de poignard dans le dos” ed è considerata nella
storiografia francese come un atto di insopportabile illiceità.
17
Tonton è la parola che i bambini francesi usano per chiamare lo zio.
6
incontra molte difficoltà nell’Italia di Mussolini. Partecipa alla Resistenza, rientra in Francia dal Passo del
Piccolo San Bernardo, rischia di essere imprigionato a Grenoble, ma riesce a fuggire. Fa avanti e indietro
sulla frontiera fino al 1945.
La marionetta-partigiano spara al lupo. Un uccellino rosso di carta cinguetta allegramente l’Internazionale.
Robert Rocchi vive a Fontvieille, nella vecchia fattoria che un tempo fu dei padroni della sua famiglia. È un
ex-professore di lettere al liceo; parla un francese forbito e senza accento. Emigrato molto piccolo da un
paesino della Toscana, vive gli anni della guerra assieme ai suoi genitori in Francia. Robert racconta di suo
padre che è stato nella Resistenza francese: nel granaio di casa sua avevano allestito una stamperia
clandestina e un giorno il piccolo Robert, inconsapevole, fera sceso a chiedere di poter disegnare su alcuni
volantini, proprio mentre in famiglia ricevevano una visita inaspettata dalla Gestapo.
Il padre di Robert rimase profondamente deluso dall’atteggiamento di molti suoi connazionali, che finirono
per collaborare con i fascisti.
Sul palco una marionetta vestita di un lungo pastrano, con un paio di occhiali luccicanti dalla montatura
tonda in metallo e una massa di capelli ricci scossi da un continuo fremito, si alza su un piccolo scranno.
Sulla tela di fondo appare un’immagine del volto di Gramsci con la sua data di nascita e di morte. Il parlatore
declama il discorso di Gramsci del 16 Novembre 1925 alla Camera dei Deputati, secondo il quale il
fascismo, la massoneria e la borghesia industriale in Italia hanno instaurato un regime di sfruttamento della
classe lavoratrice, che ha causato la dispersione delle fasce più povere della popolazione all’estero,
costringendole a emigrare, indebolendo irreversibilmente la stessa struttura capitalistica. Una gabbia per
uccelli cade dall’alto imprigionando la marionetta-Gramsci.
Robert Catella emette un giudizio grave sull’Italia di oggi: spesso tornando dalla sua famiglia in Piemonte
nutre un sentimento ambiguo, di gioia e delusione. Per lui è impossibile sentirsi a casa. “In Francia io sono
l’Italiano, fascista e ladro, e in Italia resterò sempre il Francese: i miei parenti non hanno mai capito cos’è
stato il fascismo vero, e oggi hanno un’idea molto confusa di cosa sia la Padania!”
I due marionettisti percorrono a piedi una lunga strada in campagna, vicino ad Arles. Si fermano solo
qualche minuto ai lati della strada: scavano una piccola fossa e seppelliscono la marionetta Gramsci nella
nuda terra, levandosi il cappello. Sono su una provinciale che dalla città porta nell’entroterra provenzale,
verso Fontvieille, un piccolo paese, abitato da un centinaio di famiglie italiane, tutti provenienti dai dintorni di
Santa Maria a Monte, un paese dell’entroterra Toscano. La strada che porta a Fontvieille costeggia per
qualche chilometro il Canal du Midi, un manufatto di origine romana, che fu potenziato tra le due guerre
mondiali, con impiego massiccio di manodopera stagionale italiana. La famiglia di Rocchi venne in Francia,
come molte altre, per lavorare nei campi, nelle vicine saline, e sul canale. La sua famiglia lavorava per dei
latifondisti del posto. Rocchi racconta che giornalmente la padrona veniva a domandare a sua madre ogni
genere di pegno in natura, come in un sistema feudale.
Lui accompagnava il padre al lavoro, restando ai bordi del Rodano a pescare, fino a sera. Suo padre
scavava i fossati per l’irrigazione. Come molti suoi connazionali era cottimista pagato a metro scavato. “Le
condizioni erano come quelle degli immigrati di oggi: accettavano i lavori che i francesi rifiutavano, per dei
salari che i francesi non avrebbero mai accettato… ”.
Sulla piazza di Fontvieille i due artisti tengono il loro spettacolo per la comunità italiana. Sul palco una
marionetta vestita come un operaia, sporca di terra, una pala nella mano destra, recita la preghiera
dell’immigrato socialista18:
« N’aie pas autre Dieu que le travaille!
Aussitôt après avoir quitté la Patrie, cherche à t’employer sans avilir tes bras!
18
L’Emigrato Socialista, n°1, Janvier 1989
7
Ne te serve jamais du couteau!
Ne tends pas l’oreille à la voix du faux patriottisme
mais considère comme ta patrie la terre où tu vis!19»
Un’altra marionetta, vestita con un elegante pastrano dal collo di pelliccia e un cappello a cilindro, entra in
scena. Il parlatore da voce alla marionetta-padrone che spiega come “gli operai italiani siano molto più deboli
e manipolabili, e come si possa far fare loro ciò che si vuole. Abbassano la schiena e porgono la guancia per
ricevere un altro schiaffo.” Spiega anche che i lavoratori italiani sono malvisti dai lavoratori francesi, che li
considerano “briseur de salaires”, krumiri e ladri. Sui muri di Fontvieille un vecchio manifesto strappato,
preda del vento, mostra l’annuncio di uno sciopero indetto congiuntamente da operai francesi e italiani per il
1 maggio 1939, “Contro l’ingiustizia di una legge che difende i diritti patronali!”
Debolmente si comincia a sentire un suono frusciante: una sostanza bianca e polverosa comincia a cadere
sul palco come una pioggia. È sale.
Il paesaggio cambia radicalmente. Siamo nelle saline vicino ad Aigues Mortes. La luce del sole si riflette
abbagliante sulla distesa della salina di La Fangueuse. Lontanissime in controluce, soffuse nella vampa di
caldo che sale dal terreno, delle figure umane si muovono sulla distesa di sale. Lungo un camminamento in
terra battuta che costeggia la salina, Marco e Momo si dirigono verso le mura di Aigues Mortes. A Aigues
Mortes ci sono molti turisti. Chiediamo al centro di promozione turistica informazioni sul massacro, ma
nessuno sembra ricordare. Così anche chi cammina per le viuzze. Tutti sono completamente ignari.
Il parlatore comincia a declamare la storia di quello che è passato alla storia come il massacro di Aigues
Mortes.
Il 17 Agosto 1893 nella Salina di La Fangueuse a Aigues Mortes gli operai discutono banalmente su l’uso
dell’acqua potabile. Pare che alcuni operai italiani abbiano usato l’acqua in dotazione ai francesi per
sciacquare i loro vestiti. Ne è scaturito un breve alterco.
La situazione precipita e ne nasce una furiosa rissa. Una marionetta, vestita da gendarme, continua la
cronaca dei fatti con la voce del parlatore: nel pomeriggio una ciurma di francesi armata di forconi e bastoni
si dirige verso le capanne degli italiani. Ne segue per le successive dodici ore una ferocissima caccia
all’uomo; ogni italiano che non abbia trovato scampo in chiesa o in qualche fosso viene aggredito. Quando le
forze dell’ordine riescono a disperdere la folla, a terra restano venti morti. I feriti sono un centinaio. Sul palco
del teatro il sale ha formato dei piccoli tumuli, come unico indizio riconoscibile il braccio di una marionetta
sporge dalla superficie bianca.
Sul fondale del teatro appaiono proiettate alcune immagini di repertorio della televisione italiana: le immagini
di un telegiornale ripercorrono alcuni casi di cronaca recente, un rumeno ubriaco uccide due donne con la
sua auto, due ragazze rumene uccidono una ragazza trapassandogli il globo oculare con la punta di un
ombrello; alla messa funebre della ragazza la famiglia all’invito del prete al perdono urla un “No!” disperato; il
corpo di un albanese viene estratto dalle macerie di un capannone crollato, dove non avrebbe dovuto
lavorare.
Il parlatore cita le parole di un articolo di giornale dell’epoca20: “è ormai chiaro che la causa degli scontri è
stata la furfanteria degli italiani che si sono rifiutati di apporre la bandiera francese su un cumulo di sale in
formazione.”
19
“Non avere altro Dio che il lavoro! Non appena avrai lasciato la tua patria, cerca un lavoro senza avvilire le tue
braccia. Non servirti mai del coltello. Non tendere mai l’orecchio alla voce del falso patriottismo, ma considera come
patria la terra che ti ospita.”
20
Le Petit Provençal, 18 Aout 1983
8
La voce di Lisa Facchini ci fa uscire di colpo dalla tensione spessa della scena. Resta solo l’immagine
d’archivio in bianco e nero di una bandiera sventolante. Un tricolore di cui non si distinguono i colori. Lisa
Facchini è una signora arzilla di ottantacinque anni, dal linguaggio colorito; parla un francese perfetto che
risente ancora della cadenza italiana. La signora Facchini viene da Frassinoro, un paese dell’Appennino
modenese, nel bel mezzo della Linea Gotica.
La madre fuggì dall’Italia durante il fascismo, abbandonando una discreta rendita dovuta a un eredità
lasciata da parente prete. Lisa, “la petit fille du curé” ha lavorato e vissuto da sempre a Gardanne, un paese
poco sopra Marsiglia, creato attorno ad una delle più antiche e fruttuose miniere di carbone di Francia. Ha
sposato un minatore spagnolo. Con voce rotta Lisa ci racconta del giorno in cui la miniera ha chiuso, il 20
Febbraio del 1983. Nevicava quel giorno e Lisa pianse a lungo la fine dell’attività estrattiva di Gardanne,
perché la miniera per gli italiani come suo padre, suo nonno e suo zio era come una grande famiglia.
I due ambulanti si arrampicano lungo un pendio di colore fosco, di materia friabile, affondando ad ogni
passo. Solo quando sono giunti in cima è chiaro che si tratta di una montagna di carbone accumulato ai
piedi della centrale elettrica di Gardanne.
Lisa Facchini ci racconta che hanno deciso di chiudere la miniera molto prima del suo assoluto esaurimento,
perché ai proprietari conveniva di più importare il carbone dal Brasile, che non farlo estrarre ai minatori di
Gardanne. Lisa ci parla anche della guerra: per guadagnarsi almeno un pasto al giorno Lisa percorreva a
piedi la strada da Gardanne a Bouc-Bel-Air, che si trova dall’altro versante della collina; un giorno una
bomba cadde a pochi metri di distanza.
Sul teatro una fila di mortaretti a cui è legata una lunga miccia esplodono in serie, facendo un gran baccano.
Lo scoppiettio dei fuochi artificiali si trasforma nell’eco lontano di un bombardamento.
Sul fondale del teatro le immagini di Marsiglia distrutta dopo i bombardamenti del ‘45.
La voce di Vincent Musso prosegue nella narrazione del suo viaggio verso la fortuna. Scappato da
Draguignan a gambe levate, per sfuggire alla miseria, va in cerca di uno zio panettiere nella Marsiglia del
dopo bombe. Le immagini di repertorio di Marsiglia devastata, si susseguono quasi come la soggettiva di
Vincent. La sirena di un allarme aereo risuona cupamente.
Sul palco del teatrino c’è un burattino di legno che assomiglia a un Pinocchio di povera fattura, con occhiaie
profonde intagliate nel legno vivo e abiti di stracci.
Musso racconta il suo arrivo nella città distrutta: lo zio sembra essere sparito e la disperazione lo spinge al
suicidio: si dirige verso la stazione per buttarsi sotto il primo treno, contando sull’indifferenza generale. Un
buon uomo gli suggerisce invece di arruolarsi nella Legione Straniera.
Sul fondale le immagini di un filmato di propaganda che invita ad entrare nella Legione: la voce del Parlatore
descrive il servizio di leva come un improbabile “paese dei balocchi”, a vantaggio di una ciurma di diseredati,
fuorilegge e clandestini disperati come Vincent Musso.
Vincent in realtà non partì mai per le colonie. Finì, invece, anche lui a lavorare come minatore a Gardanne,
dove incontrò sua moglie, italiana, l’unico grande amore della sua vita.
Sui muri del Panier in preda al vento di Mistral21, sventaglia un altro manifesto: “Il faut les empecher de
devenir Français! LIGA PATRIOTTICA 190322”. Subito sotto qualcuno ha scritto: “Più francese dei francesi!”.
Alcune immagini di repertorio della televisione italiana: manifesti elettorali; uno in particolare mostra un cargo
commerciale colmo di gente, stretta sul ponte della nave, appesa alle paratie, persino sui tetti del vascello; in
basso una scritta cubitale: “L’orda no!”. Gianfranco Fini e Massimo d’Alema in un dibattito pubblico,
21
Il Mistral è un vento abbastanza tipico della costa Marsigliese, assimilabile al Maestrale italiano, molto freddo e
umido, cambia repentinamente le condizioni climatiche della costa, spesso rendendo impraticabile la navigazione.
22
“Bisogna impedire loro di diventare Francesi!”; è un volantino della Liga Patriottica, una frangia ultra-nazionalista
dell’associazionismo politico marsigliese, che pronunciava selvaggi anatemi contro gli italiani e la loro cultura,
considerandoli come la causa principale della crisi dei lavoratori italiani, e dei crimini nella regione.
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discutono le modalità restrittive per limitare l’ingresso in suolo italiano ai nuovi cittadini provenienti dai Paesi
entranti nella Comunità Europea. Sulle loro voci vediamo le file agli sportelli postali per la sanatoria degli
immigrati non regolari in Italia.
Sul palco, mentre sul fondo scorrono le immagini, un foglio di giornale spiegazzato si poggia abbandonato
sul palco, frusciando blandamente sotto il soffio del Mistral. Sulla pagina si legge bene il titolo di un articolo
“Depart d’Italiens!23”.
Momo legge l’articolo di giornale, a voce alta, come un editto rivolto ad un pubblico di facce di tutte le razze
sul porto di Marsiglia: a causa della tensione franco-italiana e del livello d’emergenza a cui è arrivata la
situazione degli immigrati italiani su territorio francese, le istituzioni marsigliesi, d’accordo con il Console
Italiano decidono di imbarcare e trasportare a Genova, a spese dell’amministrazione, tutti gli italiani che si
iscriveranno volontariamente alle liste. La comunità italiana non sembra disposta a rispondere all’appello del
Consolato.
Improvvisamente la pagina comincia a piegarsi come un origami e diventa una barchetta di carta, come
quelle che fanno i bambini e lentamente, spinta dal vento, esce di scena.
Paul Ingrassia, è il genero di Lisa Facchini. Vive a Gardanne da trent’anni. Siciliano, venne con il padre a
Marsiglia dall’Algeria per fare il muratore. I suoi genitori scapparono dalla Sicilia su una nave da pesca
perché le loro famiglie non volevano che si sposassero.
Paul ci racconta la storia di suo zio. Monsieur Igrassia andava sempre nello stesso bar e sopportava con
rassegnazione gli insulti dei francesi. “Sale Babi!”24 gli dicevano. Un giorno particolarmente sfortunato reagì
con forza, e mostrando a tutti la sua tessera di legionario disse “Io sono più francese di voi. Cosa avete fatto
voi per la Francia?”
I due attori, carichi dei loro bagagli, salgono attraverso le stradine di Belsunce, verso la Gare Saint Charles.
Belsunce è un quartiere che sorge ai piedi della Porte d’Aix, una copia piuttosto modesta dell’Arc de
Triomphe. Oggi il quartiere è punto di raccolta soprattutto della popolazione nordafricana, che l’ha
trasformato, assecondando i propri costumi, in qualcosa che ricorda un suk: stradine strette in cui è
perennemente allestito un mercato variegato e disordinato, fumerie, rosticcerie e macellerie hallal25.
Sulla strada si fermano come sperduti a chiedere un’informazione; casualmente incappano in un anziano
signore dall’aspetto distinto che come per eccesso di zelo spiega loro la storia del crocevia di Belsunce, un
tempo quartiere di italiani. L’uomo è Emile Temine, storico, scrittore e fondatore del Circolo Anarchico di
Marsiglia. Temine “intervistato” parla di come i flussi migratori si alternino progressivamente rinnovandosi
senza sosta: ogni ondata migratoria è la fortuna di quella che l’ha preceduta, rimpiazzando le dinamiche
xenofobe che ogni nuovo genere di ospite genera nella popolazione autoctona. L’“invasione italiana”26 fu
presto dimenticata quando, a causa della decolonizzazione voluta da De Gaulle, cominciarono ad arrivare
negli anni Sessanta i nordafricani e i pieds noirs27 dal Magreb. I babis gradualmente presero parte alla
23
Le Petit Provençale, 22 Juillet 1894
“Sporco Babi!”, insulto tipico e comunemente pronunciato contro gli italiani.
25
Hallal è l’unico modo di macellazione del bestiame consentito dalla religione musulmana, che consiste nello sgozzare
l’animale ancora vivo e lasciarlo dissanguare. Le macellerie arabe vendono solo carne macellata in questo modo.
26
Si tratta del titolo di un capitolo del libro di Temine, “Marseille transit: les passegers de Belsunce” del .1989. Emile
Temine è scrittore e direttore del EHESS (Scuola Superiore di Scienze Sociali) e autore di numerosi saggi sulla storia di
Marsiglia e delle migrazioni.
27
Pieds Noirs è il nome con cui vengono chiamati dai francesi gli ex coloni del Magreb, ritornati sul territorio francese
dopo la decolonizzazione forzosa e la guerra d’Algeria. Il nome deriva dal fatto che i coloni sbarcavo spesso con le
scarpe “buone”, di cuoio nero, le scarpe più eleganti che avevano, lustrate per l’occasione. Questi coloni sono per la
maggior parte emigrati, italiani in gran numero, mai vissuti in Francia.
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civilizzazione e trovarono ben presto le loro ragioni per odiare i nuovi arrivati e unirsi al coro di “la Francia ai
francesi”.
La gente di Belsunce sale e scende lungo Boulevard d’Athens et Rue de Belsunce: barbe folte, papaline,
lunghe tonache, veli. Il via vai è accompagnato da un rumore innaturale, un strano rollio, come un rimestare
di oggetti.
Sulla scena del teatro il suono prende corpo in una macchina del Lotto. Il gabbiotto sferico gira mischiando
le sferette bianche contenenti i numeri vincenti. Una marionetta vestita in giacca e cravatta, come un
elegante businessman, con gli occhi cuciti con lo spago, aziona la manovella con entrambe le braccia. Una
voce chiama i numeri estratti. Ad ogni chiamata una marionetta si avvicina, prende una sferetta e esce di
scena, tirata dall’alto.
Pierre Leri racconta, come tanti, la sua esperienza: emigrato a sedici anni da Pesaro a Beurre l’Etang, a
ovest di Marsiglia, con una delle ultime ondate d’immigrazione italiana, quella degli anni sessanta, ora ha
cinquant’anni. Parla dei nuovi stranieri che si vedono girare per Beurre, degli arabi, che hanno avuto la vita
facile grazie agli italiani immigrati prima di loro. Dice di avere l’impressione di aver perso qualcosa per
sempre. Dice che l’ultima cosa che lo legava all’Italia ora sta al cimitero.
Momo e Marco camminano tra le tombe del cimitero di Beurre: i nomi sulle tombe sono quasi tutti italiani.
Momo si sofferma di fronte ad una tomba, una strana tomba con la luna dell’Islam e delle scritte in arabo.
Sulla lapide qualcuno ha scritto con uno spray, “Fuori!”
La barca che all’inizio galleggiava placidamente al largo della città, si allontana da Marsiglia, che diventa
progressivamente una striscia nera d’orizzonte.
Le note della Didone Abbandonata accompagnano la fine del viaggio.
Soggetto
Chi sono i rospi? Vengono da una terra povera, sono sporchi, puzzano, dormono in baracche l’uno sull’altro
come animali. Vengono in Francia con le loro famiglie, con i loro marmocchi, urlano, sputano, bestemmiano
e non rispettano nessuna regola! Vengono a rubare il lavoro, spezzano i salari, sono dei krumiri, e sono tutti
fascisti.
Babi in dialetto piemontese significa rospo, persona stupida e rozza. Così sono chiamati gli immigranti del
nord-Italia, che all’inizio del Novecento arrivano in massa in Francia, in fuga dalla legge, dal fascismo o dalla
miseria, portandosi dietro un po’ d’Italia.
Così comincia il Ventesimo secolo, così comincia anche la nostra storia: movimenti migratori di massa che
non cesseranno più, fino ad oggi. Superiori ragioni economiche aumentano indistintamente il divario tra
classi ricche e classi povere. Subito dopo la seconda guerra mondiale più di seicentomila italiani, regolari e
irregolari, vivono in Francia; la metà risiede nella regione attorno a Marsiglia.
Il film segue il viaggio di due marionettisti che portano in valigia le storie di questi italiani, montando il loro
teatrino portatile nei luoghi dove un secolo fa tutta una generazione ha trovato rancore e incomprensione,
ma anche la possibilità di avere poco, contro la certezza di non avere nulla. Ventimiglia, Mentone, Marsiglia,
Aix, Gardanne, Aigues Mortes, un viaggio nei luoghi dove ora arrivano nuovi immigrati, a prendere il posto
che fu degli italiani. Il teatrino è anche la cornice in cui si mettono in scena documenti, filmati, foto e
testimonianze della seconda e della terza generazione di questi immigrati, i figli dei rospi.
Partire, partire per tornare, non tornare mai più: questa è una storia sulla sorte delle famiglie immigrate qui,
dalle regioni che ora qualcuno raccoglie sotto il nome di Padania. Ma è anche la storia archetipica
dell’emigrante, un saggio sull’odio del diverso.
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Questo è un film che parla attraverso la voce dei figli dei rospi, che vennero qui per fuggire la fame, che non
sono francesi in Francia, né più italiani in Italia, che l’Italia non la capiscono più, perché si è dimenticata di
loro.
Intenzioni di regia
Il progetto nasce da un’esperienza personale. La nostra famiglia si è trasferita a Marsiglia, dove abbiamo
risieduto per motivi di lavoro durante alcuni mesi. Non è stata una migrazione coatta o dovuta
all’insostenibilità della nostra situazione economica, ma ha comunque fortemente suggestionato la nostra
percezione del contesto in cui ci trovavamo, portandoci ad una riflessione sul concetto di sradicamento e di
migrazione.
Marsiglia porta iscritte sulla pelle le tracce di successivi e massicci flussi di immigrazione. Per gli italiani,
soprattutto quelli del nord-ovest e del centro, agli inizi del secolo Marsiglia è stata porto franco. Piemontesi,
Liguri, Emiliani e Toscani, che per qualunque ragione dovessero lasciare il Paese, è qui che facevano scalo.
Colpisce vedere nomi italiani affiorare ovunque: sulle insegne, nei quotidiani; ogni citofono di Marsiglia
presenta di sicuro qualche nome italiano. Nei bar, per strada, al lavoro, sono tantissimi ad avere un cognome
italiano, tantissimi che hanno voglia di dirlo proprio a noi, che siamo “italiani veri”. Ma pochi conservano
davvero la memoria delle proprie origini.
Un’indagine sul territorio porta alla luce numerosi documenti cartacei, lettere, verbali di polizia, censimenti e
preziosissimi repertori iconografici di immagini di famiglia, che raccontano un periodo remoto della storia
d’Italia. Seguendo queste tracce fragili abbiamo cominciato ad immaginare il film. Pensando soprattutto a
come sviluppare una storia che trasmettesse la meraviglia di ritrovare un patrimonio di documenti,
testimonianze e immagini così vasto su una parte tanto negletta della nostra storia.
L’integrazione degli immigrati italiani fu talmente difficile e dolorosa che molti hanno volontariamente diluito
la propria cultura, per poter continuare a vivere. È sorprendente riscontrare che lo sfruttamento economico
delle risorse umane, l’atteggiamento territorialista, la psicosi xenofoba, la cattiva volontà da parte di tutti, che
porta a sclerotizzare, ma anche a strumentalizzare una situazione problematica come l’immigrazione, abbia
modalità e ragioni simili nell’Italia di oggi come nella Francia di allora.
Si è concretizzata così l’idea di utilizzare le storie degli immigrati italiani per creare un momento di riflessione
critica sulle politiche di controllo dell’immigrazione, una specie di parabola a-storica, o di apologo morale.
Facendo riferimento ad una certa letteratura scientifica, per mettere ordine su un plesso di storia poco
conosciuto, Voyage en Ritalie di Pierre Milza, Immigrances di Emile Temine, L’orda di Gian Antonio Stella,
La double absence di Abdelmalek Sayad, ma anche testi letterari come Les ritals di François Cavanna o
Aglio Menta e Basilico di Jean Claude Izzo, abbiamo iniziato la prima fase del progetto: la ricerca delle
testmonianze. Non volendo realizzare un semplice adattamento di queste opere letterarie, o un dispiego di
repertori di immagini ritrovate, abbiamo piuttosto imbastito una trama che usa i documenti come materia viva
e non come reperti in avanzato stato di decomposizione.
Abbiamo raccolto testimonianze orali dirette, della prima o della seconda generazione degli immigrati italiani
nella regione marsigliese. Alcuni discendenti conservano sia la vivacità di ricordi, tramandati oralmente dai
loro padri, sia oggetti materiali di un fascino sottile, che costituiscono la risorsa del film. Abbiamo quindi
pensato di valorizzare l’aspetto orale di questa ricostruzione storica, perché attraverso l’oralità essa è
sopravvissuta alla macina della storia istituzionale. Non c’è spazio per le epopee famigliari nella logica della
storia.
L’intenzione principale è dare visibilità a questo frammento di un’epoca. I materiali visivi che utilizzeremo
saranno tutti rigorosamente documenti originali, inediti: giornali dell’epoca, foto e oggetti di famiglia, verbali di
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polizia, trovati nei numerosi archivi pubblici della regione delle Bouches du Rhone, ma anche nei cassetti
delle famiglie che hanno collaborato al progetto. La messa in scena non sarà però un semplice elenco di
documenti commentati e di testimonianze. Vorremmo infatti restituire il fascino del racconto che abbiamo
provato noi per primi, ripercorrendo un viaggio a ritroso sul filo delle memorie.
I primi immigrati italiani in Francia sono stati i cosiddetti “birbanti”, ovvero coloro che chiedevano la “birba”,
una forma di elemosina che si concedeva in cambio di una performance artistica improvvisata e povera: i
birbanti spesso suonavano uno strumento come l’organetto, e si accompagnavano a bestie esotiche, come
scimmie e orsi; molti di loro erano marionettisti e burattinai.
Abbiamo quindi voluto utilizzare il teatro delle marionette come possibile cornice per la nostra storia. La
seconda fase del progetto è costituita pertanto dalla collaborazione con una compagnia di Teatro di Figura, a
cui abbiamo proposto di portare questa storia tra la gente. Due artisti partiranno con la valigia di cartone
piena di marionette, diretti al sud della Francia: un marionettista italiano e un attore di strada di origine
marocchina. Mohamed, noto come Momo, è stato scelto per creare un ulteriore cortocircuito tra storia
recente e passata, tra due momenti della storia dei migranti, simili e dissimili nel contempo; Momo è a sua
volta un immigrato, girovago da sempre, che partecipa pienamente di quel sentimento di sradicamento, e
conosce sorprendentemente bene il territorio.
Il film sarà quindi anche costruito come documento video di una tournée nella regione di Marsiglia, attraverso
i villaggi che furono meta d’immigrazione: si porta in scena uno spettacolo che racconta la storia degli
immigrati, in una forma di trasmissione diretta della memoria giocata attraverso le vicende di un gruppo di
marionette.
La tournée dei marionettisti, che sarà filmata lungo tutto il suo corso, ha varie funzioni narrative: raccontare
un viaggio, attraverso il quale mostrare i luoghi dell’immigrazione e la loro trasformazione; registrare quei
momenti di spontaneità, non prevedibili a priori, che il pubblico ha, oggi come allora, di fronte a uno
spettacolo di strada, al cospetto della tradizione orale; infine mettere in scena la storia ufficiale, quella dei
grandi avvenimenti, insieme alle storie private, dei tanti che vennero in questo nuovo mondo al di là delle
Alpi. Per questo abbiamo deciso di raccontare anche eventi critici come la “tuerie d’Aigues Mortes” o
l’assassinio del presidente Carnot, perché questi eventi pregiudicarono i rapporti tra Francia e Italia,
alimentando l’odio tra popolazioni, fomentando la ghettizzazione degli italiani e creando i presupposti per
l’apertura sanguinosa del fronte franco-italiano durante la seconda guerra mondiale.
La terza fase, quella di post-produzione, prevede la ricostruzione in studio del teatro. Un’animazione in
passo uno, darà modo di gestire i movimenti delle marionette come fossero attori e sarà uno strumento per
mettere in scena i materiali d’archivio, trasformandoli in materia viva. I filmati di repertorio entreranno nella
scena come fondale, attraverso un intervento di blue-screen.
In questo momento della narrazione verranno messi in scena i documenti, le fotografie, i filmati, gli oggetti
che abbiamo trovato nella nostra lunga ricerca. Accostare questo materiale a immagini televisive della
cronaca attuale sull’immigrazione è un modo per far risaltare la similitudine tra la storia di noi italiani
immigrati e degli emigranti di oggi in Italia. Sono cambiati gli obiettivi, ma l’ostilità, lo sfruttamento, la paura
della diversità culturale, ma anche la clandestinità come necessità economica sono meccanismi che si sono
ripetuti uguali nel corso dell’ultimo secolo.
Marsiglia mostra queste contraddizioni nel suo tessuto sociale, composto da francesi, italiani naturalizzati, e
nuovi immigrati.
Durante i sopralluoghi che hanno dato inizio a questo progetto, ci siamo accorti che esiste una cesura netta
tra gli italiani che sono partiti e quelli che sono rimasti; la relazione con la nostra gente all’estero è solo una
nostalgica romanza. Spesso la realtà è che chi è partito non ha più relazioni con l’Italia, e non ne capisce la
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mentalità. La temperatura del racconto è quella di un’aria da melodramma. Si è scelto precisamente di
accompagnare il film con le voci cantanti di alcune immigrate che riprendono motivetti che si cantavano
lavorando, o in compagnia nei ritrovi degli italiani. Un repertorio che spesso è il legame più forte con la
propria terra. Questi motivi evocano bene il sentimento di perdita, di “doppia assenza” che vivono gli
emigrati: doppiamente sradicati, dal Paese d’origine e nel Paese di accoglienza.
Questo film vuole raccontare di quando gli arabi, i rumeni, gli albanesi, eravamo noi.
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