Titolo originale: The Best American Mystery Stories

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Titolo originale: The Best American Mystery Stories
Titolo originale: The Best American Mystery Stories
Copyright © 2008 by Houghton Mifflin Harcourt Publishing Company
Introduction copyright © 2010 by George Pelecanos
All rights reserved
Traduzioni dall’inglese di Antonio Bibbò e Pierluigi Cau
Prima edizione: maggio 2013
© 2013 Newton Compton editori s.r.l.
Roma, Casella postale 6214
ISBN 978-88-541-4312-8
www.newtoncompton.com
Realizzazione a cura di 8x8 s.r.l.
Stampato nel maggio 2013 da Puntoweb s.r.l., Ariccia (Roma)
su carta prodotta con cellulose senza cloro gas provenienti da foreste
controllate e certificate, nel rispetto delle normative ecologiche vigenti
Mist is reprinted with the permission of Simon & Schuster Adult Publishing Group from Jesus on to Sea:
Stories by James Lee Burke. Copyright © 2007 by James Lee Burke. Originally appeared in the «Southern
Review».
Michael Connelly, Mulholland Dive, from L.A. Noir, Akashic Books, 2007. Copyright © 2007 by Michael Connelly. Reprinted by permission oh Philip G. Spitzer Literary Agency, Inc.
Robert Ferrigno, The Hour When the Ship Comes In, from L.A. Noir, Akashic Books, 2007. Copyright ©
2007 by Robert Ferrigno. Reprinted by the permission of the author.
Chuck Hogan, One Good One, from «Ellery Queen’s Mystery Magazine», March/April 2007. Copyright
© 2007 by Chuck Hogan. Reprinted by permission of Multimedia Threat, Inc.
Rupert Holmes, The Monks of the Abbey Victoria, from Dead’s Man’s Hand, edited by Otto Penzler, 2007,
Harcourt. Copyright © 2007 by Rupert Holmes. Reprinted by permission of Rupert Holmes.
Holly Goddard Jones, Proof of Good, from Epoch, Vol. 56, no. 1, 2007. Copyright © 2007 by Holly
Goddard Jones. Reprinted by the permission of the author.
Peter LaSalle, Tunis and Time, from «Antioch Review», Winter 2007. Copyright © 2007 by Peter LaSalle. Reprinted by permission of Peter LaSalle.
Kyle Minor, A Day Meant to Do Less, from the «Gettysburg Review», Summer 2007. Copyright © 2008
by Kyle Minor. Reprinted by the permission of the author.
Alice Munro, Child’s Play, from «Harper’s Magazine», February 2007. Copyright © 2007 by Alice Munro. Reprinted by the permission of the author.
Thisbe Nissen, Win’s Girl, from «Cincinnati Review», Winter 2007. Copyright © 2007 by Thisbe Nissen. Reprinted by the permission of the author.
Joyce Carol Oates, The Blind Man’s Sighted Daughters, from Fiction, Fall/Winter 2007. Copyright ©
2008 by Joyce Carol Oates/Ontario Review, Inc. Reprinted by permission of Ontario Review, Inc.
Nathan Oates, The Empty House, from the «Antioch Review», Fall 2007. Copyright © 2007 by The
Antioch Review, Inc. Reprinted by permission of the Editors.
Jas. R. Petrin, Car Trouble, from «Alfred Hitchcock’s Mystery Magazine», December 2007. Copyright ©
2007 by Jas. R. Petrin. Reprinted by the permission of the author.
Scott Phillips, The Emerson 1950, from «Murdaland», Issue #2. Copyright © 2008 by Scott Phillips.
Reprinted by permission of the author.
Stephen Rhodes, At the Top of His Game, from Wall Street Noir, Akashic Books. Copyright © 2008 by
Tributary Intellectual Property Corp, LLC. Reprinted by permission of the author.
S.J. Rozan, Hothouse, from Bronx Noir. Copyright © 2007 by S.J. Rozan. Reprinted by the permission
of the author.
Hugh Sheely, The Invisibles, from «Kenyon Review», Vol. 29, no. 4. Copyright © 2007 by Hugh Sheely.
Reprinted by the permission of the author.
Elizabeth Strout, A Different Road, from Tin House, Vol. 8, no. 4. Copyright © 2007 by Elizabeth
Strout. Reprinted by permission of the author.
Melissa VanBeck, Given Her History, from «Porcupine Literary Arts Magazine», Vol. 10, no. 2. Copyright © 2007 by Melissa VanBeck. Reprinted by permission of the author.
Scott Wolven, St. Gabriel, from Expletive Deleted, Bleak House Books. Copyright © 2007 by Scott
Wolven. Reprinted by permission of the author.
Michael Connelly, Joyce Carol Oates, James Lee Burke,
Elizabeth Strout, Alice Munro, Holly Goddard Jones
e molti altri
I mille volti del giallo
a cura di
George Pelecanos e Otto Penzler
Newton Compton editori
nota
Pierluigi Cau ha tradotto Premessa; Introduzione; Foschia; Mulholland Dive; L’ora in cui
la nave rientra in porto; Quello buono; I Monaci dell’Abbey Victoria; La prova dell’esistenza di Dio; Tunisi e il Tempo; Il giorno del riposo; Un gioco da ragazze.
Antonio Bibbò ha tradotto La ragazza di Win; Le figlie del cieco; La casa vuota; Problemi
automobilistici; Una Emerson del 1950; Sul tetto del mondo; La serra; Gli invisibili; Una
strada diversa; La sua storia; San Gabriele.
Premessa
La Houghton Mifflin è una casa editrice indipendente fondata
nel xix secolo e da sempre interessata innanzitutto alla letteratura di qualità. Nel 1915 cominciò a pubblicare con cadenza
annuale una serie di volumi intitolati The Best American Short
Stories, per poi lanciare la serie The Best American Mystery Stories nel 1997. Per gli standard attuali, la si può definire una casa
editrice di piccole o medie dimensioni. Lo scorso anno la sua
società ha acquisito la società a capo della Harcourt, una casa
editrice di eguale pregio e altrettanto antica, dando luogo a una
fusione tra le due aziende. Ma anche così, esse non sono che
una formica, paragonate a giganti del calibro di Random House,
Viking, Hachette o Simon & Schuster. Ma a loro sembra andare
molto bene così; e per tutti quei lettori capaci di apprezzare i
buoni libri questa dovrebbe senz’altro essere una buona notizia.
Nessuno di questi due eleganti editori si è mai fatto notare
per un qualche anticipo multimilionario elargito a uno scrittore
famoso, o per una campagna pubblicitaria strabiliante per promuovere l’ultima uscita di moda in fatto di diete. Sono semplicemente riusciti a piazzare i loro libri in cima alle classifiche nazionali e estere come si faceva una volta, cioè pubblicando lavori
eccezionali e dando loro un supporto adeguato e realistico. In
questo modo sono riusciti a rimanere entrambi indipendenti e
a collezionare un successo dopo l’altro, e questa loro recente
unione dà motivo di sperare, e anzi di credere, che entrambi ne
usciranno rafforzati.
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Questo volume, che è la dodicesima edizione di The Best American Mystery Stories, è anche il primo a essere stato pubblicato
dopo la fusione; e fin qui niente da dire. Due case editrici che
hanno un certo fiuto per le storie e sono dotate di una notevole
integrità sono anche sagge abbastanza da sapere in che modo generare profitti (elemento indispensabile per qualunque attività
che voglia tenersi in piedi con le proprie gambe) in modo regolare. Nessun redattore o direttore è mai venuto a bussare alla mia
porta per darmi “suggerimenti” per una qualche modifica, né
ho mai trovato nella mia cassetta personale appunti con consigli
su come migliorare il “prodotto” (parola ripugnante che non ho
mai udito pronunciare da nessuno né alla Houghton Mifflin né
alla Harcourt, dove dirigo una collana di romanzi gialli). Perciò,
a meno che non avvenga un improvviso cambio di rotta o di
priorità, posso dire che lavoreremo insieme a lungo, e cercheremo di trovare i migliori racconti gialli di ogni anno e portarli ai
nostri lettori nel prossimo futuro.
E questa è anche una cosa utile, dal momento che mai come
quest’anno abbiamo ricevuto e scoperto tanti racconti tutti insieme. Moltissimi sono apparsi su riviste digitali; molti altri li
abbiamo ricevuti da redattori di riviste letterarie, che ci inviano
sempre più testi; altrettanti sono stati pubblicati in raccolte di
racconti e antologie ricche di storie mystery. Tutti insieme formano una straordinaria messe di narrativa, a partire dalla quale
è stato tuttavia necessario compiere una difficile scelta, al fine di
decidere quali di essi sarebbero stati inclusi fra queste pagine, e
quali no.
Come i nostri più assidui lettori già sapranno, un volume con
scadenza annuale come questo richiederebbe, ne sono certo, almeno tre anni per essere redatto, se solo non fosse per l’incredibile talento della mia collega Michele Slung, capace di leggere,
immagazzinare e valutare migliaia di pagine in poco più di un
nanosecondo. Dopo aver scartato tutto ciò che non rientrava nel
genere mystery, insieme a quei polizieschi perpetrati da scrittori
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che farebbero meglio a pensare di intraprendere una carriera
da carpentieri o magari di specializzarsi nel lavoro a maglia, invece di sprecare preziosi alberi con i loro inutili sforzi, ho letto tonnellate di racconti, per poi finalmente arrivare ai migliori
cinquanta (o per lo meno, i miei cinquanta preferiti) che ho poi
affidato all’enorme talento del nostro guest editor, che quest’anno è, per mia somma gioia, George Pelecanos.
Autore di più di dieci romanzi gialli, fra cui Drama City (Il
guardiano del buio), candidato all’Edgar Allan Poe Award, Pelecanos ha scritto e prodotto numerosi episodi della serie The
Wire per la hbo, grazie ai quali ha vinto un premio Edgar e ha
ricevuto una nomination agli Emmy. La dedizione con cui questo egregio autore ha letto i testi finalisti, per arrivare infine a
selezionare i migliori venti, non può essere celebrata a sufficienza; e allo stesso modo mi sento in debito di riconoscenza verso
i nostri precedenti guest editor: Robert B. Parker (1997), Sue
Grafton (1998), Evan Hunter/Ed McBain (1999), Donald E.
Westlake (2000), Lawrence Block (2001), James Ellroy (2002),
Michael Connelly (2003), Nelson DeMille (2004), Joyce Carol
Oates (2005), Scott Turow (2006) e Carl Hiaasen (2007).
Otto Penzler
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Introduzione
Di recente sono stato invitato da Otto Penzler, curatore di questa collana, a fare un reading nella sua libreria The Mysterious
Bookshop che si trova a Manhattan, nel quartiere di Tribeca.
Quell’evento era finalizzato alla promozione di una voluminosa
raccolta di classici della letteratura pulp curata da Otto in persona, con lavori del periodo di Black Mask firmati da autori del
calibro di Dashiell Hammett, Cornell Woolrich, James M. Cain,
Erle Stanley Gardner, Horace McCoy e molti altri. All’inizio
avevo pensato di leggere qualcosa di poco noto e cercare di dare
così spazio a uno scrittore che ritenevo sottovalutato; ma alla fine
ho scelto un brano tratto da Vento rosso di Raymond Chandler,
forse il suo racconto più amato. Poter leggere Chandler di fronte
a un pubblico a New York era per me un’occasione unica, che
non potevo lasciarmi scappare.
Questo è il celebre primo paragrafo di Vento rosso:
Quella sera soffiava un vento del deserto. Era uno di quei torridi e
asciutti venti di Santa Ana che scendono giù dai passi di montagna e
che ti fanno arricciare i capelli in testa e saltare i nervi, lasciandoti un
forte prurito sulla pelle. In serate come quella, ogni sbronza finisce
a pugni. E docili mogliettine passano il dito sulla lama di un coltello
affilato e iniziano a studiare con attenzione il collo del marito. Tutto
può succedere. Puoi persino ritrovarti davanti a un bicchiere pieno di
birra in una cocktail lounge.
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Non lo trovate bellissimo?
Dopo il reading mi sono fermato a parlare con alcuni di coloro
che avevano partecipato all’evento. Uno di essi riteneva che Vento rosso fosse la cosa migliore che Chandler avesse mai scritto,
poiché la forma breve del racconto l’aveva costretto a concentrare la sua attenzione e a evitare così di distrarsi e di perdere la
presa sulla trama, una delle poche critiche negative che venivano
solitamente attribuite ai suoi romanzi. Vento rosso è un racconto
davvero splendido, sebbene le sue cinquantasette pagine (almeno nella mia edizione tascabile Ballantine del 1977) forzino un
po’ la definizione stessa di “racconto breve”. Non so se si possa
parlare del miglior lavoro di Chandler in assoluto (che per me
rimane senza dubbio Il lungo addio), ma in fondo il concetto
di “migliore” è sempre dettato da un punto di vista soggettivo;
e questo vale anche per il libro che avete fra le mani in questo
momento.
Non è certo questa la sede più opportuna per elencare le ragioni che hanno portato alla scelta dei racconti pubblicati in questo
volume. Ma in linea di massima le cose sono andate così: Otto
Penzler e la sua egregia complice hanno setacciato centinaia
di racconti gialli e mystery pubblicati nell’arco dell’anno, per
poi arrivare a cinquanta candidati considerati di ottima qualità.
Questi mi sono poi stati spediti dentro una scatola di cartone,
e io li ho letti tutti. Di quei cinquanta, ne ho scelti venti. Non
c’erano schede biografiche allegate. Sono amico di un paio di
questi autori, e diversi altri li conosco, ma non avevo mai sentito
parlare prima della maggior parte degli scrittori che ho scelto.
Non ne conosco l’etnia, né le opinioni politiche, o la misura delle scarpe, e in alcuni casi non sapevo nemmeno dire quale fosse
il loro sesso. Ho scelto i racconti che mi sono piaciuti più di tutti
e che ritenevo sarebbero piaciuti anche ai lettori.
Detto questo, mi è stato domandato di essere il curatore di
questa raccolta, e avendo accettato questo compito con molta
serietà è ovvio che i racconti da me scelti rappresentino il tipo
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di prosa che in genere preferisco leggere. Ciò che troverete fra
queste pagine sarà anche un certo grado di realismo. Mi sono
piaciuti molto i personaggi di queste storie perché li ho trovati
verosimili. Si tratta di testi ben costruiti e molto intelligenti, vi
do la mia parola.
Il che mi porta al punto successivo. C’è un altro libro in giro,
pubblicato da questo stesso editore, dal titolo The Best American Short Stories. Sono del parere che alcuni fra questi racconti
sono annoverabili tra i migliori racconti americani dell’anno. E
allora perché due libri diversi? La risposta breve è: marketing.
Ci sono persone che si considerano troppo erudite per cimentarsi con una raccolta di racconti gialli. Credono che essa non sia
altro che semplice intrattenimento, mentre il resto sia letteratura
“alta”. Io sono del parere che qualunque lettura sia “alta”; ma
piuttosto che rivangare nel verminaio della disputa fra letteratura alta e di genere, mi rifugerò di nuovo fra le parole di Raymond
Chandler, tratte da un brano del suo fondamentale saggio La
semplice arte del delitto:
Per quanto riguarda la differenza fra “letteratura espressiva” e “letteratura di evasione”, non si tratta nient’altro che di un gergo inventato
dalla critica, un utilizzo di parole astratte come se avessero significato
assoluto. Qualsiasi cosa scritta con vitalità esprimerà quella vitalità:
non esistono argomenti sciocchi, ma solo menti sciocche. Chiunque
legga evade da qualcosa e si ritrova immerso in ciò che si estende
dietro la pagina scritta; si può certo discutere sulla qualità del sogno,
ma questa fuga è divenuta una vera e propria necessità funzionale.
Tutti hanno bisogno ogni tanto di fuggire dalla mortale routine della
propria esistenza privata. Fa parte dello stesso processo vitale degli
esseri pensanti. È una delle cose che ci distingue dal bradipo a tre
dita; sembra infatti (non si può esserne certi) che lui possa starsene
beato e soddisfatto con la testa in giù appeso a un ramo senza avere
mai il bisogno di leggere Walter Lippmann. Non ritengo affatto che
un poliziesco rappresenti una fuga ideale. Dico solo che qualunque
lettura fatta con piacere è una evasione, sia che essa sia scritta in greco,
o che tratti di matematica, astronomia, di Benedetto Croce o del Dia-
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rio dell’Uomo Dimenticato. Sostenere il contrario significa essere un
intellettuale snob, e un immaturo nell’arte del saper vivere.
Diavolo, se ha ragione.
Ho fatto abbondante ricorso a Raymond Chandler per questa introduzione, ma con un buon motivo. Chandler, insieme al
professore che mi ha fatto scoprire i suoi libri, ha cambiato il
corso della mia vita.
Ero ormai un laureando alla University of Maryland quando
mi iscrissi a un corso dal titolo Hardboiled Detective Fiction:
un corso facoltativo, che inserii nel piano di studi per ottenere
quei tre facili crediti che mi mancavano per arrivare alla laurea. Ricordo ancora la descrizione del programma: “Lettura e
analisi di alcuni romanzi tascabili”; sembrava alla mia portata,
nonostante in quel periodo non fossi affatto un grande lettore
di romanzi.
Il professore era un tizio barbuto e dai modi sgarbati, si chiamava Charles C. Mish ed era un uomo intelligente e di successo, che non trattava la propria materia guardando dall’alto in
basso ma che invece si sforzava di farci apprezzare quella che
considerava un’arte importantissima e tutta americana. Due
volte la settimana se ne andava girando fra le file dei banchi
della nostra classe, con un romanzo stretto fra quelle sue grandi
mani, convertendoci tutti con il suo entusiasmo e la sua energia.
Venni a sapere solo molto tempo dopo che era disprezzato dai
suoi colleghi accademici perché trattava i romanzi gialli con la
stessa deferenza che in genere si ha per i classici. E questo me
lo fece apprezzare ancora di più.
Fra i libri che leggemmo quel semestre c’erano Il raccolto rosso di Hammett, Ti ucciderò di Mickey Spillane, Una tragedia
tutta azzurra di John D. MacDonald (con la prima apparizione
di Travis McGee) e Il martello azzurro di Ross Macdonald (uno
degli ultimi con Lew Archer). Nonostante si trattasse di un romanzo di spionaggio, leggemmo anche Chiamata per il morto
di John le Carré, probabilmente per il semplice motivo che al
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professor Mish quel libro piaceva. In quella lista c’era anche La
signora nel lago di Chandler.
Fui immediatamente colpito, anzi fui come investito in pieno
da una cannonata, quando scoprii la forza evocativa della scrittura di Chandler, e di come riuscisse a parlare della condizione
umana in un modo così preciso, nonostante ambientasse le sue
storie in un mondo dal quale gli scrittori “seri” si tenevano bene
alla larga (all’epoca non avevo ancora letto Steinbeck, Edward
Anderson, Upton Sinclair, A.I. Bezzerides o John Fante, né tantomeno gli altri scrittori realisti che avrei divorato negli anni
a seguire). Ciò che mi impressionava di più era la limpidezza
della sua prosa, chiaramente scritta per essere letta e capita da
tutti, non solo dagli iniziati. Era letteratura popolare, e volevo
entrarne a far parte anch’io.
Questo è il modo in cui viene introdotto il personaggio femminile principale nelle primissime pagine di La signora nel lago:
Seduta a una scrivania piatta e abbinata alle porte se ne stava una
bellezza alta, magra e con i capelli scuri, il cui nome, stando a quanto
c’era scritto sulla targa incisa poggiata sul tavolo, era Miss Adrienne
Fromsette. Indossava un tailleur grigio acciaio e sotto la giacca aveva
una camicia blu scuro e una cravatta da uomo di un tono più chiaro.
La piega del fazzoletto dentro al taschino era così affilata da poterci
tagliare il pane a fette. Portava solamente un bracciale a treccia e
nessun altro gioiello. I suoi capelli scuri erano divisi da una riga, e
creavano delle onde sciolte ma non casuali. La pelle era liscia come
l’avorio, e le sopracciglia severe incorniciavano due grandi occhi neri
che al momento e al posto giusto sembrava avrebbero potuto infiammarsi.
Quelle sopracciglia e le onde “non casuali” dei suoi capelli non sono altro che delle agili scorciatoie per capire la vera
natura del carattere di Miss Fromsette. Lei, insieme al tenente
Degarmo, un rozzo sbirro, sono due fra le più grandi creazioni
di Chandler. Il romanzo termina, in modo scioccante, nel seguente modo:
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Una trentina di metri più in giù, nel canyon, una piccola coupé se
ne stava schiacciata contro un enorme macigno di granito. Era quasi
capovolta, un po’ inclinata. C’erano tre uomini laggiù. Erano riusciti
ad alzare l’auto quel tanto che bastava per tirarne fuori qualcosa. Un
qualcosa che una volta era un uomo.
Quella visione clinica e per nulla romantica della morte e un
senso di sfiducia nei confronti delle figure autoritarie e della politica, tratti tipici di questo genere, combaciavano perfettamente
con la visione del mondo di una larga fetta della mia generazione, che aveva rifiutato lo stile di vita degli hippy diventati yuppie che stava emergendo in quegli anni, alla fine del decennio
e poco prima che cominciasse l’era di Reagan. Era il momento
adatto per molti di noi di scoprirsi collegati o ricollegati con il
giallo. Scrittori come Elmore Leonard, James Crumley, Newton
Thornburg e Kem Nunn stavano mettendo il genere giallo sottosopra, dichiarando in maniera implicita a noi giovani speranzosi
pieni di ambizioni che le regole del gioco erano finalmente cambiate. Molti dei miei compagni di classe erano arrivati al genere
hard-boiled passando per il punk e la musica new wave. Diversi
musicisti proto-punk come Warren Zevon avevano scritto testi di canzoni ispirandosi ai gialli californiani fin dai primi anni
Settanta. I gruppi ska e reggae si buttavano su James Bond e
sugli spaghetti western, mentre le band che avevano rilanciato
il sound della chitarra come i Dream Syndicate o artisti come
Stan Ridgway creavano racconti sonori che erano dichiarazioni
d’amore a Ross Macdonald e Jim Thompson. Quello che la filosofia punk significava per me e per le mie prospettive lavorative
era che non avevo certo bisogno di un diploma di un qualche
corso avanzato di scrittura per provare, per lo meno, a dare un
contributo al genere di qualche valore. Se anche uno che non
aveva mai studiato chitarra poteva imbracciarne una e tirarne
fuori qualcosa, allora anch’io avrei potuto provare a fare lo stesso armandomi di carta e penna. Il fatto che non avessi la minima
idea né del mestiere né del business editoriale giocò a mio favo16
re. Se non fossi stato così ingenuo forse non ci avrei nemmeno
provato.
So di non essere certo l’unico. Se tirassi un sasso dentro a
una stanza piena di scrittori di gialli contemporanei avrei ottime probabilità di colpire qualcuno che ha cominciato a scrivere
proprio dopo aver letto il suo primo Chandler. O magari Hammett, Macdonald, Patricia Highsmith, Robert Parker, Lawrence
Block, Leonard, Crumley… e via dicendo. Per non parlare dei
professori. Sono pronto a scommettere che per ognuno di noi
c’è stato un ottimo insegnante che a un certo punto delle nostre
vite ha saputo incoraggiarci.
Eppure, non c’è un collegamento diretto tra i nonni o i padri
del romanzo giallo e i racconti presenti in questa antologia. Non
credo affatto che troverete qualcuno fra questi autori che cerchi
volontariamente di scrivere alla Chandler. E nemmeno che provi
a scrivere in un posticcio stile hard-boiled. Sebbene non manchino svolte impreviste e complicate, nessuno di questi racconti
è un puzzle, o un mistero blindato o un racconto di detective
privati. Non ho deliberatamente escluso i racconti tradizionali. Ho semplicemente selezionato questi autori perché le loro
voci sono originali e uniche. Ma non fraintendetemi; siamo tutti
poggiati sulle spalle degli scrittori che ci hanno preceduto e che
hanno lasciato il loro segno indelebile nella letteratura, con mestiere, cura e la voglia di lasciare dietro di sé qualcosa di valore.
Spero che apprezzerete questi splendidi racconti.
George Pelecanos
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I mille volti del giallo
James Lee Burke
foschia
Da «The Southern Review»
James Lee Burke è nato nel 1936 a Houston, Texas, ed è cresciuto
sulla costa al confine fra la Louisiana e il Texas. Ha frequentato prima
il Southwestern Louisiana Institute (ora University of Louisiana at Lafayette) e poi la University of Missouri at Columbia, dove si è laureato
in Letteratura inglese.
Nel corso degli anni ha pubblicato ventisei romanzi e due raccolte di
racconti, che sono stati apparsi su pubblicazioni come «The Atlantic
Monthly», The Best American Short Stories, New Stories from the South,
«The Southern Review», «The Antioch Review» e «Kenyon Review». I
suoi romanzi Heaven’s Prisoners e Two for Texas sono stati adattati per
lo schermo.
Burke si è aggiudicato due volte l’Edgar Awards per il miglior romanzo dell’anno. È anche membro della conferenza Breadloaf e ha ricevuto
il premio Guggenheim Fellowship, oltre ad aver ricevuto una borsa dal
Fondo nazionale per le arti, il nea. Lui e la moglie Pearl Burke, sposata
quarantotto anni fa, hanno avuto quattro figli e ora trascorrono il loro
tempo fra Missoula nel Montana e New Iberia, in Louisiana.
«Ho scritto due racconti subito dopo l’uragano Katrina. Il primo si
intitola Jesus Out to Sea. Parla degli eventi che hanno portato alla tempesta e della catastrofe avvenuta quando si sono rotti gli argini. Poi mi
sono messo a raccontare degli sfollati che hanno dovuto andarsene dal
Lower Ninth Ward e che sono andati a finire in luoghi come la città
natale della mia famiglia, New Iberia, a due ore da New Orleans verso
ovest. Ma mentre lavoravo al secondo racconto mi sono reso conto che
non avrei dovuto concentrarmi solo sulla tempesta.
In un solo giorno sei soldati con l’uniforme della National Guard
locale sono stati uccisi in Iraq. Arrivai a credere che gli eventi di New
Orleans e gli eventi in Iraq fossero collegati, che fossero due lati della
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stessa medaglia, e che coinvolgevano gli stessi protagonisti. I politici
che non erano a New Orleans mentre i loro connazionali affogavano
erano gli stessi che avevano scaraventato la propria nazione in quella
guerra nel Medio Oriente. Credo che le vittime degli argini sfondati
siano per molti versi simili a quelle della guerra. La protagonista di
Foschia è due volte vittima, e si ritrova a dover sopportare un peso che
nessun essere umano dovrebbe mai avere sulle proprie spalle. Credo
che quella del Golgota sia una storia che si ripete, e credo che si verifichi ogni giorno in qualche parte del mondo, nel deserto o in uno dei
quartieri che un tempo erano principalmente abitati da afroamericani
prima di finire sott’acqua.
Nel racconto, New Orleans diventa un calice di peltro colmo d’acqua
scura, e la lucentezza delle ostie della Comunione spezzate rappresenta
coloro che vengono spezzati e rifiutati dalla società. Sono convinto che
quanto è accaduto a New Orleans resterà per sempre la più grande
vergogna e il peggior scandalo di tutta la nostra storia. È questo ciò che
ho tentato di comunicare con Foschia».
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I sogni di Lisa Guillory sono sempre indistinti e privi delle
immagini normalmente associate agli incubi. E inoltre né l’alba
né la nebbia mattutina fra i rami degli alberi sono per lei motivo
di sollievo o di speranza. I suoi sogni sono anzi del tutto privi
di spigoli, come il dolore sordo di un dente storto che si insinua
ogni notte nel suo sonno, privandola del riposo ma senza provocarle spavento o risvegli bruschi e affannati, come invece accade
a molte di quelle persone conosciute agli incontri che ha iniziato
a frequentare.
Questi incontri si tengono in una chiesa pentecostale di legno
situata proprio dietro un campo di canna da zucchero attraversato da filari di stoppie che vengono bruciate ogni notte dai contadini. Al mattino, quando esce dalla casetta di legno in quello
che oggi chiamano il “quartiere” di Loreauville, dove ora vive,
e va in macchina agli incontri, la strada a due corsie è invasa
dal fumo dei roghi delle stoppie e dalla nebbia che si alza sul
Bayou Teche. Sente l’odore della cenere e del terreno bruciato
misto al pesante e fecondo odore del bayou1 nella nebbia, ma è
la nebbia stessa a darle fastidio, non quell’odore, perché per la
verità non vorrebbe mai uscirne e abbandonare quel suo senso
di protezione.
Si accosta al margine della strada, si accende una sigaretta e
aspira a fondo nei polmoni, come se una sigaretta potesse aiu1
Il bayou è la parte paludosa dell’immissario di un lago (n.d.t.).
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tarla a tenere a freno i desideri, o meglio le passioni che durante
il giorno la travolgono, finché non arriva a sentire la testa come
avvolta da una corda di pianoforte che le stia avvitando il capo
sul collo.
La madrina di Lisa è Tookie Goula. È lì ad aspettarla come
un gargoyle in piedi sulle assi di legno all’ingresso della chiesa.
Tookie lancia un’occhiata verso Lisa e le dice che deve una volta
per tutte aprirsi al gruppo, che il tempo della partecipazione
silenziosa è finito, che la sua è una malattia grave e che deve
smetterla di sentirsi in imbarazzo e ammettere finalmente che si
sta preparando per una ricaduta.
Lisa finge indifferenza e noia. Ha già sentito tutto ciò un milione di volte. «Parlare all’incontro mi toglierà dalla testa quel
rumore martellante?»
«Che cosa significa questo rumore, Lisa?»
«Significa che mentre lo portavano al cimitero lui bussava da
dentro la bara. L’ho sentito. Era come un barile pieno di sassi».
Tookie è una donnona del Cajun dalle ossa robuste con addosso una specie di divisa da carcerato e uno sguardo duro come
uno schiaffo. Non è solo abituata alle avversità economiche e
agli uomini che non valgono niente, ma ha addirittura prestato
servizio come prostituta a una catena di stazioni per camionisti
dall’altro lato dell’Upper South. Non si mette mai il trucco, si
mangia le unghie quando è arrabbiata, e non fa nulla per nascondere il fatto che probabilmente preferisce le donne agli uomini. In questo momento si sta mangiando un’unghia, e i suoi
occhi sono come cuscinetti a sfera roventi. «Basta menzogne»,
le dice.
Lisa sente una vampata di calore accendersi nel petto. Cerca
subito di infilarsi nei panni della vittima. «Perché vuoi farmi del
male?»
«Perché racconti balle. Perché non guarirai mai se non te la
pianti di prenderti per il culo da sola», le risponde Tookie.
«L’esercito non voleva che vedessi com’era ridotto. Non c’è
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entrato intero dentro a quella bara. Forse non era nemmeno lui,
quello», dice Lisa.
«Ti piace farti del male da sola?».
Lisa si rende conto che sta per scoppiare. Vuole spaccare i
pugni contro la faccia di Tookie.
«Ti stai proprio cacciando nei guai, bella mia», dice Tookie.
«Vuoi tornare da Herman Stanga. Ti leggo nei pensieri prima
ancora che tu li abbia».
«Almeno io non devo farmi i tatuaggi per coprirmi le cicatrici
sulle braccia», risponde Lisa. «Almeno io non mi sveglio la mattina senza sapere di che sesso sono».
Durante l’incontro Tookie continua a posare i suoi occhi scuri
su Lisa, mangiandosi le unghie e strofinandosi i muscoli delle
braccia. Il suo respiro fa un suono simile alla sabbia che scende
dentro a una grondaia. Lisa non ne può più. «Mio marito è stato ammazzato a nord di Baghdad. So che dovrei cercare di accettarlo, ma è difficile», sputa fuori quelle parole confuse senza
dire il suo nome o presentarsi come alcolista o drogata. «Sono
pulita da ventisette giorni oggi. Ma poi inizio a pensare a Gerald
e a come è morto e a come doveva sembrare quando l’hanno
spedito a casa, e allora mi vengono dei pensieri brutti. Sul farmi
una botta, magari, non tanto, solo un assaggio. Magari la posso
reggere ancora. Vi dico queste cose perché la mia madrina mi ha
detto che devo essere onesta».
Era convinta che quella sua frase sulla perdita del marito
avrebbe risucchiato l’aria dalla stanza e avrebbe riempito i presenti di stupore e compassione, e che il silenzio che ne sarebbe
seguito avrebbe fatto pentire Tookie per la propria insensibilità. Ma l’unità locale della National Guard ha perso cinque dei
suoi soldati in un solo giorno in Iraq, e qui ormai nessuno ha
più l’esclusiva su storie di militari della Louisiana del Sud feriti,
mutilati o morti. In effetti, la confessione di Lisa sembra aver
provocato piuttosto risentimento, o al massimo noia fra quelli
che non se ne stanno con lo sguardo fisso fuori dalla finestra, in25
trappolati nella propria apatica disperazione. Poi si rende conto
di aver interrotto con la propria autocommiserazione una donna
che di recente ha subito uno stupro di gruppo dentro una casa
abbandonata. A un tratto le guance le bruciano dall’imbarazzo.
«Mi dispiace», aggiunge. «Mi chiamo Lisa. Sono un’alcolizzata e una tossicodipendente».
«Continua a venire qui, Lisa. I primi novanta giorni sono duri
per tutti. A volte bisogna anche fingere finché non si riesce a farcela davvero», dice il presidente dell’incontro, un uomo bianco.
Poi passa alla persona successiva, come se sfogliasse le pagine di
un libro.
Far finta finché non ci si riesce? Fingere cosa? Di star male
tutto il tempo?
Finito l’incontro, si dirige subito verso la macchina, non guarda né a destra né a sinistra, ma Tookie si intromette come un
cane da guardia davanti ai suoi passi. «Cos’era prima, una bella
scenetta di autocompassione?»
«Lo so, mi sono resa ridicola. Non serve che tu me lo venga a
dire», le risponde Lisa.
Gli occhi di Tookie cercano di scorticare la pelle dal viso di
Lisa. «Tu mi stai nascondendo qualcosa», dice.
«Mio marito è saltato in aria. Che altro vuoi che ti dica?»
«Sì, è vero, ma sono passati otto mesi. Che hai da nascondere?
Cos’è successo a New Orleans?».
Il sole ora è a picco sui campi di canne, la stoppia fuma ancora,
e la nebbia si alza in nuvole bianche sopra al Bayou Teche. Lisa
vorrebbe entrare dentro a quegli enormi cuscini di nebbia bianca e restarci per sempre.
«Sono a posto, Tookie. Non mi faccio, promesso», le risponde.
«Sai come si fa a capire quando un ubriacone o un drogato
stanno mentendo? Gli si muovono le labbra. Vieni a casa mia.
Ti preparo la colazione».
«Sono già in ritardo, ho un appuntamento all’ufficio di collocamento».
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Tookie le si fa vicino, con un’espressione improvvisamente
femminile, tenera, quasi fragile. Le sue dita si posano sul braccio di Lisa, e col pollice sfiora appena la pelle di Lisa. «Herman
proverà a farti ricadere in trappola. Ma non lo fa per entrarti nei
pantaloni. Vuole solo che tu rimanga attaccata alla pipetta e che
vada a battere per lui. Ci sono passata, Lisa. Herman Stanga è il
diavolo in persona».
Tookie forma un cerchio con l’indice e il pollice stretti attorno
al polso di Lisa, e la sua bocca si dischiude, rivelando quel suo
desiderio nascosto a fatica.
Herman Stanga ha la roba che ti fa viaggiare, ha quella roba
forte che spacca tutto e lui sì che sa come mettere un po’ di boom-boom nella miccetta, bella. O almeno è questo l’alone di mistero che ha messo in giro lui stesso e che lo accompagna mentre
vaga da un posto all’altro nel vecchio quartiere a luci rosse di
New Iberia, con la borsa di pelle tenuta da una cinghia sulla
spalla e quella espressione da folletto sul viso asciutto, segnato
da quei suoi baffetti che sembrano le ali di un merlo aperte e
posate sulla sua pelle dorata.
Le sue ragazze sono conosciute come le “ragazze bamba”, nonostante molte di esse abbiano cambiato marcia da un pezzo e
ora si facciano di cristalli perché fanno bruciare grassi e le tengono sul mercato, lì all’angolo della strada dove battono. Herman
preferisce le bianche per via del fatto che ci sono un sacco di
tizi neri disposti a pagare qualunque cifra per un tozzo di pane
bianco, a prescindere dalla confezione in cui viene venduto. Ma,
come ripete spesso, lui è «un datore di lavoro che crede nell’integrazione sociale. Non c’è niente di male nel far incontrare una
ragazza di campagna con un gentiluomo di città».
Lisa non ha mentito a Tookie a proposito dell’appuntamento all’ufficio di collocamento. Ma il problema sono le trecento
persone che ha davanti a sé quando arriva e quella corda di pianoforte che qualcuno le sta avvitando in testa con un cavatappi.
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Resiste per tre quarti d’ora nella sala d’aspetto, va in bagno a
vomitare e poi se ne va in macchina sulla Railroad Avenue fino al
primo negozio di alcolici che riesce a trovare. Si fa una trentatré
dal sapore a metà fra dopobarba e cherosene, ma che scende
giù dandole una scarica appena inferiore all’orgasmo che le ha
provocato la sua prima botta di forfora d’angelo.
Si scola la bottiglia sotto l’ombra di una grande quercia accanto a un piccolo alimentari. Dei tizi loschi con le bandane nere in
testa fanno a turno i pesi sotto l’albero, sollevando la barra sui
pettorali, e i loro muscoli pieni di steroidi sembrano quasi pronti
a esplodergli sotto la pelle. Lisa riavvita il tappo sulla bottiglia
ormai vuota con lo sguardo fisso nel vuoto, poi lentamente scende dalla macchina e va a buttare la bottiglia in un secchione.
Non ha alcun motivo per restarsene sotto un albero ricoperto di
muschio, nel quartiere del vecchio bordello di New Iberia, in un
giorno in cui dovrebbe cercare lavoro, proprio in quella mattina
che in qualche modo sembra uno spartiacque nel suo cammino.
Eppure si sta così bene sotto quell’ombra dove si affacciano di
tanto in tanto dei raggi di sole, con la porta dell’auto aperta al
vento, in quel giorno caldo e fresco allo stesso tempo, mentre
quei tipi sferragliano con gli attrezzi e le foglie cadono leggere
contro il parabrezza come tante monete d’oro.
Chiude gli occhi e nel respiro sente l’odore di quel vino corretto che le entra e le esce dai polmoni, e per un istante, come se
fosse uscita dal suo corpo, vede Gerald che le bacia la guancia e
le poggia una mano sul pancione.
Senza essere stato invitato, un uomo sorridente con indosso un
vestito a righe marroni e in testa uno Stetson bordeaux apre la
portiera del passeggero e si infila nella sua auto. Ha due lattine
umide di Budweiser nel palmo della sinistra e un bel sacchetto
di sanguinaccio caldo nell’altra. «Ciao bellezza, vuoi farmi compagnia per uno snack?», le chiede, mentre scarta il pacchetto del
macellaio sul sedile, riempendo l’auto del profumo delizioso di
salsiccia macinata mista a spezie e cipolla.
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«Non sono venuta qui per rimediare, Herman», gli risponde.
«Io rispetto le scelte degli altri. Quando si vogliono dare una
ripulita io sono il primo a fare il tifo per loro. Ma non per questo
smetto di essere loro amico».
Poi tira la linguetta di una lattina di birra e aspetta che la schiuma esca dal buco e salga fino al bordo e poi ci passa sopra il dorso della mano. «Ecco qua bella mia. Fatti un bel sorso mentre io
ti preparo un pezzo di sanguinaccio. Hai già trovato un lavoro?
Con tutti questi sfollati è successo un casino sul mercato del
lavoro, non è così?».
Anche lei è una sfollata, cacciata dal Lower Ninth Ward di Orleans Parish dall’alluvione provocata dall’uragano Katrina, per
essere poi caricata su un pullman e portata dal Superdome a un
rifugio al City Park di New Iberia. In effetti, starebbe ancora lì o
in una baraccopoli della protezione civile se sua zia non le avesse
dato le chiavi di quella casetta di legno a Loreauville. Ma Herman questo lo sa già. Herman sa come lisciarsi le persone che ha
di fronte, facendogli credere che loro sono diversi, speciali, che
non fanno parte di una categoria la cui presenza incomincia a
essere avvertita come un peso e con sospetto.
«Questa Budweiser bella fredda è proprio buona, non trovi?»,
dice. «Dai su, accompagnami a casa che devo fare delle telefonate. Di’ un po’, saresti in grado di fare da segretaria, rispondere
al telefono, magari far accomodare i clienti in un ristorante, cose
così?»
«Certo, Herman».
«E allora diamoci una mossa e andiamocene, bella mia», dice
alzando il mento, indicandole in quel modo di accendere il motore e di portarli alla sua casa in stile vittoriano a Bayou Teche.
Herman si è impossessato di quella casa da uno scienziato
nero, un fisico che, per ragioni sconosciute, ha firmato il passaggio di proprietà ed è scappato via dalla città. Nessuno ha mai
più saputo dove se ne siano andati il fisico e la sua famiglia, né
si hanno mai più avuto loro notizie. Le colonne di legno sono
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divorate dalle termiti, le persiane verdi sono uscite dai cardini
e le grondaie al secondo piano macchiano di ruggine i muri. Le
querce e gli alberi di noce sono così folti che la luce del sole non
entra mai in casa e nel cortile non cresce mai l’erba.
Ma a Herman non importa di certo la preservazione storica
dell’edificio. La piscina sul retro è una lacrima blu scintillante, coperta dal vapore, dove le sue ragazze se ne stanno a galla
su dei materassini gonfiabili, e dove la bouganville si arrampica
su una grata tingendola di un rosso sanguigno, dove piante di
lime e orchidee di Honk Kong fioriscono tutto l’anno dando agli
ospiti la certezza che la bella stagione non finisce mai.
«Siediti qui e rilassati, mentre vado a chiedere dei favori ad
alcuni soci in affari», dice sul terrazzo. «Mangia pure qualche
gamberetto se vuoi. Non fare caso alle ragazze in piscina. Sono
carine, ma non sono della tua stessa razza, capisci cosa intendo?
Ehi, se ti riesco a sistemare come segretaria stiamo parlando di
qualcosa come dodici o tredici dollari l’ora. Ti starebbe bene?».
Lisa siede al fresco, alla luce del sole, e prova a concentrarsi
su quello che sta facendo. Non è nemmeno mezzogiorno ed è
già passata dalla consolante nebbia dell’alba all’incontro in chiesa, poi all’ufficio di collocamento e al negozio di alcolici, infine
all’ombra della quercia dove quei tizi facevano i pesi e si ammiravano a vicenda, come se la loro perfezione anatomica fosse un
antidoto alla mortalità. Adesso si trova a casa di Herman Stanga,
dove vede ragazze sconosciute nuotare in una piscina blu cielo,
mentre Herman fa avanti e indietro attraverso la porta finestra
sempre al telefono, spogliandosi fino a rimanere con una specie
di perizoma, scalciando via i pantaloni con un suono di monetine per tutta la stanza.
Il bayou è di un marrone cioccolato, e il sole una palla di fuoco
giallo tremolante e intrappolato sotto la sua superficie. Il bayou
evoca immagini e ricordi a cui lei non vuole pensare. Nella sua
mente rivede gente immersa fino al torso nell’acqua, la superficie iridescente di una patina chimica, nuvole di feci alzarsi dal
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fondo, il tanfo che le si arrampica nelle narici facendola quasi
soffocare. Poi inizia a sentire quel rumore martellante in testa, e
deve stringersi con entrambi i pugni sulle tempie per farlo smettere.
Perché è venuta a casa di Herman? Crede davvero che la voglia aiutare? Cosa direbbe Tookie se lo venisse a sapere?
«Te lo dico io, questa è una per bene, amico», sente Herman
dire. «No, non prende l’assegno di disoccupazione. No, non ha
nessun problema personale né abitudini strane. Però ha la mia
raccomandazione. Non prendermi per il culo, Rodney. La faccio
venire da te. E trattala bene, fratello».
Herman riattacca la cornetta e si infila una vestaglia blu che gli
casca sulle spalle snelle come acqua gelida. Accompagna dentro
Lisa e le dice di sedersi su uno sgabello accanto a un bancone
che divide il salone dalla cucina. «Mio cugino Rodney gestisce
un paio di locali a Lafayette e si occupa del catering per feste e
banchetti di ricconi giù all’Oil Center. Non devi far altro che tenere d’occhio il buffet e la ciotola del punch e fare in modo che
tutti abbiano sempre da bere. Cercano qualcuno che si sappia
comportare. Ho detto a Rodney che sei quella giusta».
Parla troppo in fretta per lei. Le stanno scoppiando le orecchie
ed è convinta di sentire voci che gridano miste ai vuoti d’aria
delle pale di elicotteri. Si rende conto che Herman la guarda fisso, con un’espressione perplessa. «Mi vuoi dire che sei incazzata
con me?», le chiede.
«L’elicottero della guardia costiera mi ha tirato su dal tetto. Le
pale erano così rumorose che non si sentiva nient’altro. Gridavo
fortissimo ma non mi sentiva nessuno».
«Cosa stavi gridando?», chiede Herman. «Di che stai parlando?»
«Il tizio della guardia costiera mi ha afferrato per i fianchi e mi
ha tirato su con una fune. Non riuscivo a pensare. Vedevo i resti
e i corpi in acqua fino al punto in cui l’argine aveva ceduto. Non
riesco a togliermi quel rumore dalla testa».
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«Quale rumore?»
«Quel battito».
Herman si strofina una narice col pugno e soffia dal naso, con
gli occhi fissi, come se stesse analizzando dei pensieri che nessuno riuscirebbe a immaginare. Inizia a farle un massaggio ai tendini delle spalle. «Sei rigida come l’acciaio, Lisa. Non ti fa affatto
bene. Vieni di sopra».
«No».
Per un breve istante, della durata di un batter d’occhio, vede la
luce negli occhi di lui irrigidirsi. Poi si morde il labbro morbido
e le fa un sorriso. «Io ti rispetto, tesoro. Non vorrei che fosse
diversamente fra noi».
Adesso è tornato a essere nuovamente un folletto, con quel
suo sottile baffo che gli incornicia il sorriso. Appoggia uno specchietto in un angolo, in piano, e comincia a tagliare delle righe
con una lametta, scolpendo e dando forma a ogni striscia bianca
come fosse un’opera d’arte. «Ho ancora il miglior prodotto della
città. Non lo impongo a nessuno. A chi sta male e ha bisogno di
una medicina, io gli do una mano. Ma io non sono il padrone
dell’anima di nessuno».
«A me non serve, Herman», dice lei, con quelle parole che le
scivolano in gola come bolle d’acqua.
«Se riesci a svoltare con un mezzo litro e una birretta ogni tanto,
be’ io faccio il tifo per te, amica. Dico che sei una superwoman».
Poi tira fuori un bigliettone da cento dollari dalla tasca della
vestaglia, lo arrotola, facendolo diventare una cannuccia rigida,
e tira su una riga per narice, mentre le suole delle sue ciabatte
schiaffeggiano il pavimento. Si afferra fra le mani l’uccello nel
perizoma sotto la vestaglia aperta e lo smanetta un po’. «Queste
foglie di coca sono state raccolte dalle dee indiane».
«Devo andare, Herman», dice lei, perché è assolutamente certa
che il suono martellante che la ossessiona durante il sonno e che
a volte torna a farsi sentire anche nel bel mezzo di una conversazione stia per cominciare di nuovo.
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Davanti alla porta di ingresso lui le mette la banconota da cento in mano e le chiude il pugno. «Vatti a prendere degli stracci
nuovi. Hai un bell’aspetto, Lisa. Hai quella classe che fa girare
la testa a un uomo».
Poi le alza la mano, quella che tiene la banconota da cento dollari, e gliela bacia. Il residuo di cocaina sulla carta sembra bruciarle come una pallina di fuoco stretta nel palmo della mano.
La sera stessa si trova a dare una mano al catering di un party
che si tiene dentro a una ghiacciaia ristrutturata sulla strada di
fronte al cimitero ebraico ricoperto di querce. Fuori piove, ma si
vede la luna piena spuntare fra le nuvole, e il parcheggio interno
è disseminato di pozzanghere. Un tetto di lamiera ricopre l’antico molo di scarico dove molti anni prima i blocchi di ghiaccio
venivano fatti scivolare su una rampa e messi dentro contenitori
di legno, e una volta lì venivano fatti a pezzi con delle piccozze
da uomini di colore sudati. Il ruggito della pioggia battente sulla
lamiera è quasi assordante, e Lisa fa una fatica pazzesca per concentrarsi sul lavoro. E quello non è il suo unico problema.
Rodney, l’addetto al catering, non smette di metterle le mani
addosso. Quando le spiega come sistemare e dare una rinfrescata alle insalate, le tiene il palmo della mano poggiato al centro
della schiena. Quando l’accompagna dall’altra parte del buffet,
le posa un braccio attorno alle sue spalle. E quando lei lo respinge, lui lascia scivolare le dita sul suo didietro.
«Herman mi ha detto che sei cresciuta da queste parti», dice
lui, facendo scivolare la propria mano attorno ai suoi tricipiti.
«Il papà di mio marito lavorava in questa ghiacciaia. Spaccava
il ghiaccio là fuori sul molo, dentro a quel contenitore di legno
lì», risponde lei.
Lui fa di sì col capo lentamente, come se ci stesse riflettendo
sopra. «Tuo marito è stato ucciso in Iraq?».
Lei sta per rispondere, ma poi si rende conto che lui non la sta
ascoltando, che sta guardando un altro cameriere mentre scalda
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un vassoio in acciaio inox di okra gumbo sul fuoco. Poi il suo
sguardo si interrompe e i suoi occhi tornano su di lei. «Finisci»,
dice.
«Finisci cosa?»
«Di dire quello che stavi dicendo».
«Posso avere i soldi a fine serata? Devo aiutare mia zia, ha il
mutuo da pagare».
«Non ci vedo proprio niente di male», dice.
Le si struscia contro per andare verso la cucina, puntandole
contro il sedere il bozzo del pene.
Il party si fa più rumoroso, cresce d’intensità, e la folla di soli
uomini è ringalluzzita dalla propria stessa presenza e dalla propria grettezza. Quattro donne a petto nudo con un tanga luccicante e tacchi a spillo ballano sul palco, e la loro pelle è sormontata da trame a rete fatte di luci e ombre. Fuori, la pioggia
continua a cadere, e Lisa guarda il verde scuro delle querce bagnate che circondano il cimitero ebraico, la tettoia che sibila al
cielo, e si domanda se sia vero che i non battezzati non possano
accedere al paradiso.
Perché ha questi strani pensieri? Prova a ricordarsi com’era
la sua vita a New Orleans prima dell’uragano, prima che l’unità
di riserva di Gerald fosse richiamata, prima che il suo Humvee
fosse fatto saltare in mille pezzi.
Per un periodo aveva fatto la cameriera in un ristorante a
Jackson Square, proprio di fronte al Café Du Monde. In piazza
c’erano sempre giocolieri, musicisti di strada ed equilibristi, e il
mirto crespo cresceva accanto ai banani dietro i recinti davanti
ai quali gli artisti di strada sistemavano i propri cavalletti. Sotto
i portici soffiava sempre un’aria fresca, e nei cortili e fra i vicoli
stretti c’erano un odore di pietra umida e un profumo di menta
verde mista a rose che fiorivano a dicembre. Le piaceva molto
starsene a guardare la gente che usciva dalla messa nella cattedrale di St Louis al sabato sera, e adorava servire loro quei vassoi fumanti di gamberoni di fiume, pannocchie di granturco alla griglia
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e carciofi che erano le specialità del ristorante. In effetti, amava
New Orleans, così come amava Gerald e la loro casetta col tetto
di lamiera nel Lower Ninth Ward.
Ma quei pensieri le fanno raddrizzare i capelli in testa, ed è convinta di sentire la grandine che sbatte sul molo di scarico, fuori.
«Che hai, ti è preso un colpo per caso?», le chiede Rodney.
«Perché?»
«Hai fatto cadere il mestolo nel gumbo», le dice.
Con lo sguardo inebetito lei fissa il mestolo che lentamente affonda nel calderone di ocra e gamberi.
«Fatti una pausa», dice Rodney.
Prova a difendersi, ma poi si arrende e va ad aspettare in una
stanzetta accanto alla cucina mentre Rodney trova un’altra ragazza che prende il suo posto. Poi lui si chiude la porta alle spalle
e osserva Lisa con un’espressione preoccupata, si siede su una
sedia di fronte a lei e si accende una canna. Si fa un tiro, lo tiene
a lungo nei polmoni, e poi la passa a lei mentre lentamente sputa
fuori il fumo, un po’ alla volta. La mano di lei si muove come
se fosse animata da una volontà propria. Si piega in avanti e si
porta lo spinello alle labbra, sentendo l’umidità della sua saliva
mischiarsi alla propria. Mentre tira sente la carta della sigaretta
incendiarsi e scoppiettare.
«Sono costretto a scaricarti, tesoro».
«Perché ho fatto cadere il mestolo?»
«Perché parlavi da sola lì al buffet. Perché sei su un altro pianeta».
Qualcuno, da fuori, gira la maniglia della porta e la fa sbattere
con forza sui cardini. Entra Tookie Goula, con la borsa a tracolla
legata intorno al polso e le braccia gonfie. «Mettiti un’altra volta
quella canna in bocca e giuro che ti spezzo le braccia. Poi prendo
questo pappone e lo ficco dentro alla tazza del cesso», dice.
Poco dopo, sedute al parcheggio nella macchina di Lisa, Tookie la guarda con un’intensità tale che lei inizia a credere che stia
per prenderla a schiaffi.
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«La prossima volta ti lascio annegare», dice Tookie.
Lisa posa lo sguardo sul cimitero ebraico e sulle querce che
sbattono contro il cielo, sulle pozzanghere di pioggia nel parcheggio. Quelle pozzanghere sono tagliate dai riflessi della luna,
e le ricordano le ostie della comunione dentro il calice in peltro,
ma non saprebbe dire perché.
«Cosa ne sai tu di cosa significhi davvero annegare, Tookie?».
Tookie sembra riflettere su quella domanda, come se la presunzione e la durezza della sua stessa retorica l’avessero infastidita. Ma quegli impulsi caritatevoli passano subito. «Tirati fuori
la testa dal culo. Se non mi vuoi più come madrina allora dimmelo subito».
Lisa ha ancora la banconota da cento dollari che Herman
Stanga le ha dato, più i soldi della paga che le ha dato suo cugino
Rodney. Con quelli potrebbe spararsi un po’ di coca o di cristalli
o magari una botta di eroina a North Lafayette, e starsene fatta
o ubriaca per almeno due giorni interi. Non deve far altro che
ringraziare Tookie per il suo aiuto e andarsene.
«Dove credi che si trovi il limbo?», le domanda.
«Cosa?»
«Il posto dove va a finire la gente che non è stata battezzata.
Come tutti gli ebrei di quel cimitero».
Il pallido sguardo di Tookie si ferma sul parcheggio, e il suo
volto è segnato da una triste consapevolezza della natura della
perdita e dell’inadeguatezza umana che probabilmente non ammetterà mai, nemmeno a se stessa.
Il mattino seguente Lisa è lì sul podio delle prediche all’incontro degli A.A. nella chiesa pentecostale, con gli occhi fissi sul
muro nero, e confessa il suo problema con l’alcol, con le droghe
e di come ha preso per il culo la sua madrina. Dice che vuole
provarci di nuovo e vivere seguendo i principi del programma.
Sia la brevità del suo discorso che la sincerità nella sua stessa
voce la sorprendono. Riceve un gettone da ventiquattro ore di
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sobrietà, e poi lo vede passare da una mano all’altra nella sala
così che tutti i presenti possano tenerlo fra le mani e dire una
preghiera in silenzio per lei. China il capo, cercando di nascondere gli occhi bagnati.
«Facciamo colazione insieme. Andiamo al caffè», dice Tookie.
«Mi piacerebbe», risponde Lisa.
«Ce la farai, vedrai».
Lisa le crede. Per tutto il giorno, fino alle tre di pomeriggio,
quando Herman Stanga accosta davanti alla sua casetta di legno
e spegne il motore davanti al patio. Il cofano della macchina fa
un ticchettio come quello di un orologio rotto.
«Che fai, ti nascondi dietro la zanzariera?», le dice.
«Non abbiamo niente da dirci, Herman».
«Ma no, forse hai capito male, tesoro. Ho solo fatto una rapida ricerca sulla tua situazione finanziaria. Dovresti aver ricevuto
almeno centomila dollari quando tuo marito è stato ucciso. Non
ti hanno ancora pagato quelli del governo?».
Lisa deglutisce, e intorno a lei i tetti di lamiera e le casette a
forma di vagoni e gli alberi sulle rive del bayou si sfocano e brillano alla luce del sole invernale.
«Il divorzio non era ancora stato firmato», risponde.
«Che vuoi dire?»
«Sua madre e la sua prima moglie sono le beneficiarie dell’assicurazione. Non aveva ancora cambiato il contratto», aggiunge,
distogliendo lo sguardo dagli occhi di Herman, come se stesse
confessando un peccato e tradendo Gerald.
Herman si infila una gomma in bocca, la schiaccia fra i denti e
poi inarca le sopracciglia, come se stesse provando a sopprimere
la propria incredulità. «Fammi capire. Lui ti si sbatte alla grande
ma poi quando va in Iraq lascia le cose in modo da non farti vedere nemmeno l’ombra del risarcimento? Ed è per un tizio così
che te ne stai lì col muso?».
Prende a masticare la gomma rapidamente, e non aspetta la
sua risposta. «Allora, che vogliamo fare con quel tuo conto da
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ottomila dollari? E poi, come la mettiamo con i duemilatrecento
dollari che hai fregato dalla cassa di Rodney l’altra sera?»
«Quale cassa?».
La testa di Herman fa su e giù come fosse attaccata a un elastico. «Sì, la cassa, quella che stava sulla scrivania dell’ufficio in cui
Rodney dice di averti fatto parcheggiare quel tuo culo nevrotico
ad aspettarlo. Pensi di poter fregare uno come Rodney e fare le
tue scenate da malata di mente come se niente fosse?»
«Non ho rubato niente io. E se è per questo non ti devo affatto
ottomila dollari».
«Non ti ricordi nulla perché eri completamente fatta». Poi
comincia a imitarla. «Dammi una mano Herman! Dammi solo
un palloncino, Herman. Farò qualunque cosa, Herman. Farò la
brava, Herman. Ti pago domani, Herman».
Come fa a parlare con tanta autorità e certezza? Ha detto davvero quelle cose? È così che lei è realmente?
«Non ho rubato neanche un soldo da quell’ufficio».
«Vallo a raccontare allo sceriffo quando Rodney farà denuncia. Apri questa maledetta porta, stronza. Pagherai tutto».
Lei lo attacca al viso con le unghie, e lui la colpisce con un
pugno così forte da sembrarle incredibile.
Nelle successive sei settimane Lisa si rende conto che la persona che credeva fosse Lisa forse non è mai esistita. La nuova
Lisa ha capito inoltre che l’inferno è un luogo senza confini geografici, e che può seguire una persona dovunque vada. Lei lo
ritrova al suo risveglio all’alba, dolorante e disidratata, quando
il cielo le sembra come il fondo pallido e macchiato di ciliegia di
un bicchiere Collins. Sia che si tratti di andare a prendere un panetto di fumo afgano dentro a un armadietto alla stazione degli
autobus per Herman, o di farsi insieme a una delle sue puttane,
a volte perfino con lo stesso ago, Lisa passa dal giorno alla notte
senza mai guardare un orologio o un calendario, né la macabra
trasformazione sul suo viso che la spia dallo specchio.
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Ogni tanto va agli incontri, ma non fa altro che annuire di
continuo o mentire quando le viene chiesto di dire quanto tempo è trascorso dall’ultima volta che ha bevuto o che si è fatta.
Quando le chiedono di dire la verità su dove sia stata o cosa
abbia fatto, non riesce a rispondere oggettivamente. I sogni e le
allucinazioni si fondono a brevi ma intensi momenti di chiarezza, rendendo indistinguibili gli uni dagli altri. E l’ironia è che il
rumore martellante è finalmente cessato.
A volte Tookie Goula le prepara da mangiare, le tiene le mani,
la infila sotto la doccia quando sta troppo male per badare a
se stessa. Tookie ha ripreso a fumare, e in certi giorni sembra
smunta e in un terribile doposbornia. Alla luce del tramonto di
una sera di primavera, se ne stanno nella camera da letto di Lisa,
e le querce sulla sponda del bayou spiccano contro il cielo blu
lavanda con il loro verde scuro invaso dagli uccelli. Lisa non si
fa e non beve da ventiquattro ore. Ma è sicura di sentire odore
di alcol nel fiato di Tookie.
«È la codeina. Per la tosse», dice Tookie.
«È pur sempre una droga», dice Lisa. «Se ricominci a bere di
nuovo finisce che ti ammazzi, Tookie».
Tookie si sdraia accanto a Lisa, poi si gira verso di lei e l’abbraccia attorno al petto. Lisa non oppone resistenza ma neanche
risponde a quel gesto.
«Ti andrebbe di venire a vivere con me?», chiede Tookie. «Ti
aiuterò a scappare da Herman. Potremmo andarcene a Houston o verso nord, da qualche parte, magari potremmo aprire
un bar».
Ma Lisa non la sta a sentire. Passa le nocche delle dita su uno
dei tatuaggi sul braccio di Tookie.
«Mi ha punto una zanzara», dice Tookie.
«No, è che hai ripreso a bere».
Dà un bacio sulla bocca a Tookie e poi le stringe la testa contro il petto, una cosa che non ha mai fatto prima. «Mi spezzi il
cuore».
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«Ti sbagli, sono tre anni che ho smesso, io».
«Smettila, basta, basta bugie!», dice Lisa, mentre tiene Tookie stretta al seno, come se le sue braccia potessero stringersi
fino a far uscire il male dai loro corpi.
Inizia a piovere, e Lisa sente l’odore dei pesci che si riproducono nel bayou e la puzza di gas e foglie bagnate nel vento.
Sente le pale di un elicottero che falciano il cielo e vede dei
lampi balenare sui tetti di lamiera delle case dei suoi vicini.
Non appena chiude gli occhi, le sembra di venire trascinata in
alto dal suo letto, attraverso il soffitto, su nell’aria fresca e libera della sera. Le nuvole formano un’enorme cupola sopra di
lei, come quella di una cattedrale, e allora vede l’immensità del
creato: la terra zuppa di pioggia, una tempesta in lontananza
che sembra vetro filato, il mare diventato scuro come il vino
alla luce del tramonto.
Gerald mi amava. Un prete ci avrebbe sposato non appena il
suo divorzio fosse stato firmato, dice a Tookie.
Lo so, risponde Tookie.
È proprio lì che è successo.
Successo cosa?
Mia sorella stava cercando di alzare il bambino attraverso
il piccolo buco nel soffitto quando sono ricaduti in acqua. Li
sentivo bussare da dentro, ma non riuscivo a tirarli fuori. Il
mio bambino non era stato ancora battezzato.
Queste cose non sono colpa tua, Lisa. Non è colpa di nessuno. È per questo che è così difficile. Non l’hai ancora accettato?
Subito sotto di loro, Lisa vede il profilo sommerso della casa
in cui viveva insieme alla sua famiglia. Il sole è basso sull’orizzonte a occidente, sembra morto, come un pezzo di lamiera
che non emana alcun calore. Sotto la superficie dell’acqua Lisa
riesce a vedere delle piccole luci che le ricordano le ostie spezzate dentro il calice di peltro o forse le anime dei neonati che
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si sono ritrovate l’un l’altra e che sono state raccolte e messe
al sicuro da una mano enorme. Per ragioni che non saprebbe
spiegare, quell’immagine e la presenza di Tookie le donano un
istante di consolazione che non aveva previsto.
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