Le grandi guide turistiche di “Rolling Stone”: Genova – parte 1

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Le grandi guide turistiche di “Rolling Stone”: Genova – parte 1
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Le grandi guide turistiche di “Rolling Stone”:
Genova – parte 1
Abbiamo fatto un giro nei vicoli della città patria di De André, Beppe Grillo e Don Gallo. In questa
prima puntata però la prendiamo alla lontana: da Niccolò Paganini alla Boccadasse di Gino Paoli
20 dicembre 2013
Genova: la “Superba” vista dall’alto. (Foto Enrico Monaci/Comune di Genova)
Di Paolo Madeddu
Che città strana. E d’accordo: tutte le città italiane sono strane, trovatene una che non sia da
mandare in terapia. Però.
“Genova”, dice Paolo Conte, “ha i giorni tutti uguali”. Col cavolo, dico io a Paolo Conte, a rischio
di essere incenerito. Io l’ho vista sotto la neve più furibonda, un blizzard in piena regola. L’ho vista
sotto un sole punitivo un giorno in cui i poliziotti spaccavano le teste, invece di fare gli amiconi
della gente forcona. L’ho vista sotto una pioggia che il giorno dopo avrebbe cominciato a portarsi
via le macchine. L’ho vista sotto nuvole “Finte, che si mettono lì tra noi e il cielo per lasciarci
soltanto una voglia di pioggia”.
…Genova, dicevo. Caruggi. Lanterna, Marassi. Acquario, Staglieno, il Carlo Felice, “il biscione”,
“il matitone”, Renzopianorenzopianorenzopiano. E Cristoforo Colombo e Andrea Doria e
Garibaldi e Mazzini e Montale e Paolo Villaggio e i cantautori e Beppe Grillo e Don Gallo e
Siri e Bagnasco e Crozza e Luca&Paolo. E un quantitativo pressoché farsesco di figure-chiave qui
a Rolling Stone. E Renzo Piano, sì.
Genova ha un modo di occupare le nostre vite che ha qualcosa di abnorme.
Insomma, cosa vuole Genova da noi? Loro dicono: “Niente, lasciateci stare, non rompete il belino,
foresti”. Pochi, come i genovesi, hanno lavorato assiduamente per essere catalogati come: “Labili,
irascibili, caratterizzati da stati d’animo incostanti, spesso inclini all’aggressione passiva, gratificati
dal demoralizzare gli altri e diminuirne la soddisfazione, si percepiscono insoddisfatti, si sentono
spesso incompresi, non apprezzati dagli altri, sono pessimisti e di cattivo umore” (cfr. Theodore
Millon, MCMI-III, Lo stile passivo-aggressivo).
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Sapete una cosa? Questa attitude qui, in musica, di solito porta dei risultati enormi.
E infatti a un certo punto Genova diventa il posto dove la canzone italiana batte un colpo. Non è
rock, non lo sarà quasi mai, nonostante qualche tentativo di Luigi Tenco (genovese acquisito). Ma
non è nemmeno un sagace mash-up tra tradizione e sound americano, come lo sono Carosone,
Buscaglione, Celentano, Mina. È più una roba che guarda alla Francia. E certo Paoli, De André, i
New Trolls, i Matia Bazar non sono mai stati rock&roll quanto l’uomo che li ha preceduti un bel
po’ di tempo fa. E quindi cominciamo il giro da lui.
Prima tappa: il cannone di Paganini
“Finalmente sul palco comparve una figura scura che sembrava sorta dall’inferno. Era Paganini nel
suo abito nero: la marsina nera e il panciotto nero, di un taglio atroce, come forse l’etichetta
infernale li prescrive; i pantaloni neri ciondolavano paurosamente attorno alle sue gambe stecchite.
Le lunghe braccia parevano allungarsi quando teneva in una mano il violino e nell’altra l’archetto,
così in basso che quasi toccavano terra, mentre sciorinava al pubblico i suoi inchini incredibili. O
era un morto venuto fuori dalla tomba, un vampiro con il violino…” (Heinrich Heine, poeta
tedesco dell’epoca)
Il “Cannone” dentro la sua avveniristica teca.
A Palazzo Tursi è custodito il violino costruito nel 1743 dal liutaio Guarneri del Gesù: l’altro
grande liutaio cremonese. Se vogliamo, i Guarneri erano Fender, gli Stradivari erano Gibson
(…Paganini era anche chitarrista, lui capirebbe. E comunque suonò tutti e due).
È il violino più famoso del mondo. Ma potremmo anche dire: lo strumento più famoso del mondo.
Il suo suono è limpido e tonante, di qui il soprannome. Il suo valore economico esce dal
ragionevole.
È conservato con cura religiosa, e ogni tanto per tenerlo in forma qualcuno che ne è degno per stile
e per tocco – l’ultimo è stato Salvatore Accardo due anni fa – ha l’onore di far suonare il Cannone
di Paganini.
“His extreme personal magnetism coupled with truly mind-boggling technique made Paganini the
world’s first bona fide rock star. He mesmerized audiences and critics alike with his charismatic
stage presence, otherworldly chops and flamboyant showmanship”. (Yngwie Malmsteen)
Arrestato dopo aver messa incinta una minorenne, pagò il padre perché ritirasse la denuncia.
Spendeva cifre enormi in donne e gioco d’azzardo. Poteva permetterselo: già a 20 anni prendeva
200 lire a sera: un musicista medio ne prendeva 15. I suoi tour europei erano never ending, una
media di 150 date l’anno. Amoreggiava con principesse e baronesse, ebbe un figlio dalla “contessa
pazza”, Antonia Bianchi. Pagò per tenerselo (vi ricorda qualcuno?). Fu praticamente ucciso dai
medici dell’epoca (di nuovo: vi ricorda qualcuno?). Dava concerti di beneficenza per i poveri. Fu
attaccato dai media (Le Figaro) perché non dava ABBASTANZA concerti per i poveri. Era deriso
per l’abbigliamento. Finché nelle capitali europee non si diffuse la moda: cappelli alla Paganini,
scialli alla Paganini, scarpe alla Paganini. Il merchandising non ufficiale tirava parecchio: dopo il
suo passaggio, a Vienna la gente poteva comprare fazzoletti alla Paganini e bistecche alla Paganini.
In punto di morte fu maledetto dal vescovo di Nizza, monsignor Galvani, e gli furono negati sia il
funerale che la sepoltura in cimitero.
“Mi rincresce che in tutte le classi si propaghi l’opinione ch’io abbia il Diavolo addosso. I giornali
s’intrattengono troppo sulla mia figura”. (Niccolò Paganini)
…Forse era perché il suo pezzo forte si chiamava Le streghe.
Forse era perché a Venezia fu visto più volte suonare al buio tra le tombe. Forse perché da bambino
fu dato per morto dopo un morbillo particolarmente virulento e prima della sepoltura, nel sudario
ebbe un piccolo sussulto che lo salvò. Forse era perché suonava a occhi chiusi. O perché le sue dita
si piegavano in modo innaturale, sembravano senza ossa, si dice a causa della sindrome di Marfan.
Forse perché lui stesso si piegava in modo innaturale mentre suonava, in una specie di inchino col
violino tenuto in basso, staccato dal corpo. Forse perché fumava oppio. Aveva iniziato su
suggerimento dei medici. In effetti il loro suggerimento migliore, rispetto a quelli che per anni lo
devastarono col mercurio, lo subissarono di salassi con le sanguisughe, gli cavarono i denti “con
temperino e forbici”, lo stordirono di lassativi. Il risultato fu che a incontrarlo per strada, la gente
rideva del suo aspetto. Ma quando saliva sul palco certamente no. Lizst, Schubert, Chopin,
Schumann, si inchinavano al suo genio. Joseph Böhm, virtuoso ungherese, disse che con Paganini
in giro per lui non aveva più senso suonare e si ritirò. Ma c’è una frase, citata da Filippo Facci nel
libro Misteri per orchestra, che più di altre rende l’idea della paganinimania, antesignana degli
entusiasmi per Elvis e i Beatles. La scrisse il compositore Giacomo Meyerbeer: “Dove terminano
le nostre facoltà razionali, incomincia Paganini”.
“È vero che quando le donne sentono il mio linguaggio musicale, l’oscillazione delle mie note le fa
tutte piangere. Ma io non sono più giovane, né sono più bello; anzi sono diventato bruttissimo”.
(Niccolò Paganini)
A fare sensazione quanto i suoi assoli, c’era il fatto che prima di Mozart (e – purtroppo per Mozart
– anche durante Mozart), il musicista non era – rullo di tamburi – l’Artista. Era un artigiano che
vendeva il suo lavoro come meglio poteva, su incarico di chi poteva permettersi la musica. L’arte
come necessità di esprimersi, come ispirazione eccetera, è una tarantella che abbiamo messo su
dopo. E fu lui, Paganini, a dare una forte svolta all’idea di artista unico e irripetibile, di virtuoso con
uno strumento formidabile. È lui, emblema del “genio” romantico, a polarizzare sull’esecutore le
emozioni violente di una folla solitamente azzimata.
“Le signore si sporsero dalla galleria, gli uomini montarono sulle sedie per vederlo e invocarlo. Non
ho mai visto i berlinesi comportarsi così. L’impressione che mi ha fatto non è stata comunque
benefica: vi è qualcosa di demoniaco, il Mefisto di Goethe avrebbe potuto suonare il violino come
lui. Tutti i grandi violinisti che avevo ascoltato in precedenza possiedono uno stile personale che
può essere individuato, ma Paganini è un’altra cosa: è l’incarnazione del desiderio, dello sdegno,
della pazzia e del dolore. (Ludwig Rellstab, critico musicale, racconta un concerto del 1829 a
Berlino)
Non aveva una grande istruzione, non era di famiglia ricca, e musicalmente era in gran parte
autodidatta. Era avido e ruvido, in gran parte a causa delle cure mediche. Il biglietto del suo
concerto costava il quintuplo dei concorrenti. Suonava pezzi propri perché – pur amando Berlioz e
Beethoven – nessuno poteva esprimere quello che lui aveva dentro. Solo ogni tanto prendeva
composizioni altrui: ma improvvisandovi sopra, variando sul momento. Infilandoci temi popolari da
osteria genovese. Non di rado si scatenava con brani complessi su una corda sola. Se voleva, con
due dita intonava una melodia e con le altre la accompagnava, dando la sensazione di un trio
d’archi. Alcuni musicologi dicono che le sue cognizioni di chitarra contribuirono a fargli
rivoluzionare la tecnica violinistica. L’orchestra spesso si fermava e scoppiava in applausi
spontanei. In ogni caso, solo una parte delle sue composizioni è arrivata a noi: quelle cui teneva di
più non le trascrisse, per essere sicuro che nessun altro le eseguisse mai. Quanto alla famosa frase
“Paganini non ripete” la fece scrivere in una lettera al manager del Teatro Carignano di Torino.
Ovviamente, non la disse più.
Genova: Boccadasse, la discesa al mare. (©genovacittàdigitale/Comune di Genova)
Seconda tappa: Boccadasse e qualche gatta
Il cielo in una stanza, dicono le istorie, nacque nel 1959 tra le pareti (e il soffitto viola) del bordello
Castagna, presso porta Soprana. Era il preferito dagli studenti, che aspettando il proprio turno si
preparavano agli esami sui divanetti. Un anno dopo, Paoli, andato ad abitare con la moglie Anna
Fabbri in una soffitta vicino al mare, ovvero una mansarda a Boccadasse, scrisse La gatta. Che
inizialmente vendette una miseria. Poi, è noto, diventò un enorme successo, cui alcuni (forse anche
lo stesso Paoli che in seguito l’ha riarrangiata più scarna) non hanno perdonato l’andamento lieve e
forse anche il cofirmatario, l’onnipresente Mogol.
Eppure in quel brano c’è parecchio struggimento, c’è il passaggio appunto dal soffitto viola alla
sensazione dell’ultima stagione prima dell’imborghesimento. Boccadasse, cui Paoli regalerà un
altro brano, forse il più bello di quelli dell’età matura (dedicato a un’altra delle sue gatte, Ornella
Vanoni) è un borgo che sa di Cinque Terre, con le case pastello e la piccola baia “a bocca d’asino”
(di qui il nome). È uno di quei posti rustici dove abita gente che sta bene. È il luogo in cui
probabilmente veniva Umberto Bindi vestito in modo elagantissimo e pacchiano, senza pensare
che di lì a poco l’avrebbe pagata, questa cosa di essere un po’ buliccio e non nasconderlo
abbastanza.
Boccadasse è il luogo in cui è lecito immaginare Ivano Fossati che gua-r-da-il…maa-re – e gli
vengono gli stranguglioni e scrive una-nuo-va-can-zo-ne-sul-gua-r-d-a-re-il…maa-re invece che
insistere coi Delirium o con la sua banda che suona il rock. Perché è davanti al mare, anzi, al maare, che si arena la propensione rock della citatissima “scuola genovese”. Con buona pace della band
I Diavoli del Rock, ovvero quattro-cinque amici al bar che volevano divertirsi: Luigi Tenco al sax,
Bruno Lauzi al basso (inserire lazzi ironici), Gino Paoli alla batteria (!), e che suonavano tutti i
sabati per gli amici con “Un altro, poi diventato chirurgo, che suonava con noi, poi c’era un
assicuratore”.
In una bella intervista fatta da Colapesce per Rockit, Paoli spiega: “Eravamo ragazzini a cui ci
piaceva suonare e poi per caso siamo finiti in questa storia, suonavamo perché ci piaceva, basta, non
avevamo pretese. Ciascuno di noi voleva fare delle altre cose, Luigi voleva fare l’ingegnere, Bruno
si è anche laureato, io facevo il pittore, non era la nostra vita quella, però la musica ci piaceva e
quindi si faceva, fai la musica e prima o poi succede qualcosa”. Ad esempio succedeva di incontrare
altra gente, tipo Gian Piero Reverberi, che sarebbe diventato – lui in persona – metà degli
arrangiamenti del pop italiano, o Giorgio Calabrese, che sarebbe diventato paroliere, o Riccardo
Mannerini, poeta, autore e influenza decisiva per Fabrizio De André e New Trolls. Ma forse quello
che sarebbe successo lì, è che il mare avrebbe portato tanta canzone francese, brezza struggente
piena di salsedine ed esistenzialismo a pacchi. E non c’è stato più niente da fare, sapete. Né Baccini
né i Sensasciou, né Sabrina Salerno (yeah) né i Blindosbarra hanno cercato di contrastare questa
cosa; forse solo i Matia Bazar avec Antonella Ruggiero. La malinconia dell’ex Superba
repubblica marinara che si sa in declino – e in un certo senso le piace esserlo – ha preso il
sopravvento, con lo stesso languore con cui si ripensa a una gatta “e ad una stellina che ora non
vedo più”. [continua]
→ La seconda e la terza parte del “viaggio a Genova” di Paolo Madeddu saranno online a
gennaio 2014 ←
Genova: Boccadasse, altre case. (©genovacittàdigitale/Comune di Genova)