P A R A G R A F O

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P A R A G R A F O
§
PARAGRAFO
RIVISTA DI LETTERATURA & IMMAGINARI
Paragrafo
Rivista di Letteratura & Immaginari
pubblicazione semestrale
Redazione
FABIO CLETO, DANIELE GIGLIOLI, MERCEDES GONZÁLEZ DE SANDE,
FRANCESCO LO MONACO, FRANCESCA PASQUALI, VALENTINA PISANTY,
LUCA CARLO ROSSI, STEFANO ROSSO, AMELIA VALTOLINA
Segreteria di Redazione
STEFANIA CONSONNI
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Università degli Studi di Bergamo
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è dei singoli collaboratori e non impegna la Redazione
Questo numero è pubblicato con il contributo del Dipartimento di Lettere,
Arti e Multimedialità e del Dottorato di Ricerca in Teoria e Analisi del Testo
© Università degli Studi di Bergamo
ISBN – 978-88-95184-50-0
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Stampato da Stamperia Stefanoni - Bergamo
Paragrafo
III (2007)
Sommario
QUESTIONI
§1. FRANCESCO GHELLI, Il potere del consumo fra storia e immaginario. Note in margine a L’impero irresistibile di Victoria de Grazia
7
§2. NUNZIA PALMIERI, L’epistolario di Umberto Saba. Storia di un’edizione mancata
29
§3. MARCO TOMASSINI, Il viaggio dell’eroe. Luther Blissett e le epifanie del molteplice
47
FORME
§4. FRANCESCA CAMURATI, Quando la tradizione è più forte della realtà.
Il modello ariostesco nella Araucana di Alonso de Ercilla
69
§5. GIULIANA ZEPPEGNO, Sergio Toppi illustra Friedrich Dürrenmatt
91
LETTURE
§6. ANTONELLA AMATO, Rilke, Nietzsche, e il Compimento dell’amore
di Musil
119
§7. SUYENNE FORLANI, Per un’analisi del messaggio pubblicitario russo
141
§8. SARA PANAZZA, Zoomorfismi dell’anima. Epifanie di decentramento
in Argo e il suo padrone di Svevo
157
I COLLABORATORI DI QUESTO NUMERO
175
NUMERI ARRETRATI
177
§
PARAGRAFO
III
questioni
§
1
Francesco Ghelli
Il potere del consumo fra storia e immaginario
Note in margine a L’impero irresistibile di Victoria de Grazia
1. Negli ultimi anni c’è stata un’indubbia crescita di interesse da parte del
mondo accademico per il tema del consumo. Sociologi, antropologi, semiologi hanno affiancato economisti e teorici del marketing, studiando il
consumo non solo come una parte del ciclo economico altrettanto importante della produzione, ma come un agire dotato di senso da interpretare e descrivere accantonando riserve critiche del recente passato. In questo panorama gli storici hanno giocato un ruolo di primo piano ricostruendo la complessa genesi del fenomeno. La storia dei consumi è ormai una branca disciplinare affermata con una serie di fortunati filoni:
dalla storia dei luoghi di consumo – grandi magazzini ottocenteschi, supermarket novecenteschi, shopping malls e ‘non luoghi’ postmoderni –, allo studio del rapporto fra consumi e generi e ruoli sessuali, fra modelli di
consumo e classi sociali, fra consumi, urbanizzazione e stati nazionali, per
non parlare delle intersezioni fra il fenomeno e una delle parole chiave
dei nostri giorni: l’identità.1
Rispetto a questa tendenza il libro di Victoria de Grazia L’impero irresistibile, tradotto da Einaudi a un solo anno dalla sua pubblicazione negli
Stati Uniti, rappresenta un ideale coronamento e al tempo stesso un deciso passo in avanti. Nonostante la sua fortuna, infatti, il consumo corre
tuttora il rischio di essere confinato in un’area di minor interesse degli
1
Esemplare la presenza di titoli come La Rinascente, La pasta e la pizza, L’autostrada del
sole, Carosello, Il fotoromanzo nella collana del Mulino “L’identità italiana”. Sul consumo
come risposta all’odierno disagio identitario, alle “crescenti difficoltà a definirsi sul piano
sociale impiegando le elementari variabili sociologiche di tipo tradizionale (sesso, età, reddito, ecc.)”, cfr. Vanni Codeluppi, Il potere del consumo, Torino: Bollati Boringhieri, 2003,
p. 10 e passim.
PARAGRAFO III (2007), pp. 7-27
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FRANCESCO GHELLI
studi: troppo forti restano infatti, fra gli storici come fra altri intellettuali,
pregiudizi moralistici che tendono a liquidare il consumo come un tema
frivolo e poco serio. E, in effetti, al di là della loro vitalità, i molti filoni
della storia dei consumi tendono a collocarsi in un ambito ‘periferico’
della disciplina: dalla storia culturale o sociale, alla storia delle donne, dalla storia della mentalità, a quella della vita quotidiana e della cultura materiale. Al contrario, nel libro di de Grazia il consumo entra a far parte
ufficialmente della storiografia mainstream: diviene una lente per leggere
la grande storia del Novecento: un Novecento ‘secolo americano’ e ‘secolo
dei consumi di massa’, due qualifiche inestricabilmente legate.
Non a caso il libro si apre con le parole di un presidente degli Stati
Uniti, il discorso di Woodrow Wilson il 10 luglio del 1916 al World’s Salesmanship Congress di Detroit. Mentre infuria la prima guerra mondiale,
Wilson addita alla sua platea di commercianti la missione che dovrebbe affratellare politici e imprenditori: una conquista pacifica del mondo attraverso la diffusione dei beni di consumo americani e soprattutto grazie alla
capacità, sviluppata in modo pionieristico negli States, di comprendere i
bisogni dei consumatori. A dividere gli uomini, ad allontanare le classi e le
nazioni, sono infatti più le differenze di “gusti” che quelle di “principi”,2
perciò nulla quanto la diffusione di un comune e alto tenore di vita potrebbe contribuire al progresso della democrazia e della pace nel mondo:
Fate in modo che le vostre idee e la vostra fantasia si diffondano per il
mondo intero e, forti della convinzione che gli Americani siano chiamati
a portare libertà, giustizia e umanità ovunque vadano, andate all’estero a
vendere beni che giovino alla comodità e alla felicità degli altri popoli,
convertendoli ai principi sui quali si fonda l’America (p. xiv).
È solo la prima espressione – certo una delle più autorevoli – di una vulgata ideologica che identifica gli ideali di democrazia e libertà con l’obiettivo materiale dell’espansione capitalistica. Tale visione – spesso ingenua
o interessata agli occhi degli europei – accomuna molti protagonisti
dell’“impero del mercato”: imprenditori e politici, diplomatici e attaché
commerciali, magnati della grande distribuzione e dirigenti delle major
hollywoodiane, attivisti del Rotary e pubblicitari. I discorsi pubblici, i
2
Victoria de Grazia, Irresistible Empire: America’s Advance through Twentieth-Century
Europe (2005), trad. it. di Andrea Mazza e Luca Lamberti, L’impero irresistibile. La società
dei consumi americana alla conquista del mondo, Torino: Einaudi, 2006, p. xiv. D’ora in
poi numeri di pagina indicati fra parentesi nel testo.
IL POTERE DEL CONSUMO FRA STORIA E IMMAGINARIO
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memorandum riservati, l’attività di lobbying, l’instancabile proselitismo di
questa nutrita galleria di personaggi ci fanno pensare che l’espansione del
modello di consumo americano sia stata qualcosa di ben diverso da un
mero prodotto dell’inerzia del mercato. Sviluppatosi in un contesto lontano dall’odierno liberismo, l’‘impero del mercato’ è il frutto di una convergenza perfetta fra interessi pubblici e privati, fra politica e imprenditoria; per usare un linguaggio quasi confindustriale, gli Stati Uniti fin dagli
anni Venti hanno saputo ‘fare sistema’ di contro a un’Europa economicamente e politicamente frammentata (anzi, sono stati fra i primi a pensare
all’Europa come un unico mercato). Quella raccontata da de Grazia è così una storia che riguarda le dinamiche del potere, più che spontanee tendenze culturali ed economiche, nella quale il consumo diviene la chiave
dell’egemonia americana.
2. Consumo e potere: il binomio oltre che in controtendenza rispetto agli
studi recenti, può apparire a prima vista quasi un ossimoro. Il consumo,
in effetti, appartiene a una sfera privata, domestica, spesso ludica, ancor
più spesso connotata in senso ‘femminile’, apparentemente lontana quindi dalle manovre (e dalla conflittualità) del potere e della politica; ricorrendo all’opposizione quasi cosmologica del capolavoro di Tolstoj si potrebbe dire che esso si situa sul versante della pace, non su quello della
guerra. Non è un caso che i regimi totalitari sorti in Italia e Germania,
imbevuti com’erano di valori militari, si compiacessero di contrapporre la
propria cultura di ‘eroi’ all’incultura dei ‘mercanti’ americani, mentre il
fascismo avversava la ‘vita comoda’ così come la ‘barbarie del comfort’
americana. E in modo non dissimile la morale ascetica – nonché, ricorda
de Grazia, la forte componente maschilista – dei partiti e dei regimi socialisti e comunisti li portò a una duratura diffidenza verso il consumo,
visto come fucina di bisogni ‘inautentici’ e come tentazione al disimpegno. Esemplare uno dei molti episodi simbolo raccontati dall’autrice: la
Fiera internazionale di Mosca del 1959, che vide le due superpotenze
esporre in vetrina i loro progressi. Di contro agli Sputnik, ai macchinari
industriali e ai trattori sovietici, gli americani optarono per una scelta apparentemente dimessa: allestirono una “casa dei beni di consumo” con le
tipiche cucine americane piene di elettrodomestici che nel frattempo stavano rivoluzionando la vita delle donne europee. “Non sarebbe meglio
farsi concorrenza con le lavatrici anziché con i razzi?” (p. 482), chiese maliziosamente Nixon al suo ospite Chruščëv.
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FRANCESCO GHELLI
L’impero del consumo americano è in effetti il primo grande impero
della storia non costruito “manu militari” (p. xv), anzi contrapposto apertamente alla tradizione di militarismo delle potenze europee: un impero
fondato su un inedito soft power, “impero a richiesta”, “impero basato sul
consenso”, “impero dello svago” (p. xix), per citare alcune etichette con
cui si è provato a definire il paradosso del potere americano. Non che la
guerra perda importanza, come testimoniano decine di interventi militari, un terrificante arsenale nucleare, le basi e le truppe presenti sul territorio europeo, decenni di pressioni e ingerenze dei servizi segreti statunitensi. Né va trascurato – avverte l’autrice – che proprio i due conflitti mondiali, per l’impatto distruttivo che ebbero sull’economia e sul modello di
consumo europeo, hanno impresso un’accelerazione decisiva all’avanzata
dell’“impero del mercato”. Però sarebbe errato fare della forza l’elemento
chiave del potere americano, tant’è che il ricorso alla ‘guerra preventiva’
testimonierebbe più la crisi che la vitalità odierna dell’impero, minandone inesorabilmente il consenso. Per render conto della vicenda di questo
singolare potere, e quindi della storia stessa del Novecento e in particolare
del lungo e pacifico dopoguerra, occorrono così una sensibilità e strumenti particolari – de Grazia evoca la microfisica del potere di Foucault e
l’analisi gramsciana dell’egemonia –, ma anche un aggiornamento dei nostri strumenti di rappresentazione, di metafore e stereotipi radicati. È
questo l’aspetto del libro più interessante per chi voglia intraprendere
un’indagine sulle rappresentazioni (letterarie e non solo) di un fenomeno
tuttora sfuggente come il consumo.
A dispetto di quanto detto, non bisogna infatti dimenticare che in una
tradizione assai influente, specie in ambito letterario e artistico, il consumo è stato rappresentato proprio come un implacabile strumento di potere. Si pensi alla fantascienza antiutopica, a partire da Brave New World di
Huxley, alla critica apocalittica di stampo francofortese, alla denuncia dei
‘persuasori occulti’, all’immagine onnipresente di un consumatore (più
spesso di una consumatrice) manipolato, eterodiretto, schiavo di ‘falsi bisogni’. Si tratta di una critica tuttora assai influente, a dispetto dei cambiamenti di paradigma in seno alle scienze sociali, al punto da essersi trasformata in senso comune, fino a penetrare addirittura nella pubblicità e nella
stessa cultura dei consumi. Secondo questa vulgata, l’‘innocenza’ del consumo e dell’intrattenimento sarebbe il volto ingannevole di un potere repressivo. L’arte – che vive della necessità di drammatizzare i conflitti, di accostamenti bruschi e paradossali – è maestra nel proporre tale immagine:
IL POTERE DEL CONSUMO FRA STORIA E IMMAGINARIO
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dai soldati americani di Kubrick che, in una scena memorabile di Full Metal Jacket, marciano al ritmo di Mickey Mouse, agli agenti schierati in assetto antisommossa davanti a Nike Town in un quadro di Julien Michel assorto a manifesto no global, fino a un pezzo rap italiano che poco prima
delle elezioni del 1994 ironizzava in chiave antiberlusconiana sulla “polizia
del Mulino Bianco”, ecc.3 Se ci pensiamo bene, non si discostano da questa vulgata nemmeno le acclamate interpretazioni del boom dei consumi
da parte di alcuni scrittori italiani: da Bianciardi per cui la frenesia del miracolo economico, con il suo corollario di frustrazione sessuale, era ciò che
“vogliono sindaco, vescovo e padrone, questurino, sociologo e onorevole”,
a Parise che parla di “lobotomia”, di una “lebbra degenerativa dei caratteri
nazionali”, fino, ovviamente, a Pasolini per cui quello diffuso in Italia è un
“fascismo consumistico”, un “totalitarismo” più efficace dei molti totalitarismi nella storia del Novecento.4 Proprio l’equazione fra fascismo e consumismo nel segno dell’indottrinamento delle masse, con il corto circuito fra
pubblicità e propaganda, fra Goebbels e Madison Avenue, è uno dei topoi
più fortunati della critica alla civiltà dei consumi, in particolare all’interno
della controcultura americana (ed è curioso che questa linea sia stata inaugurata da filosofi come Adorno e Marcuse che proprio negli States avevano trovato rifugio dal nazismo).5
Difficile districare le radici di una corrente culturale in cui siamo tuttora immersi. Certo, tanto lo specifico dei linguaggi artistici, quanto il
3
A questa tradizione non sfugge la copertina del libro: una fotografia di moda degli anni Cinquanta che ritrae una modella sorridente in tailleur rosa con cappello da cowboy a
cavallo di un simbolo della potenza americana, il reattore di un Boeing. Presentando il volume all’università di Bologna (5 dicembre 2006), de Grazia ha dichiarato che la copertina è una scelta dell’editore in parte fuorviante. In effetti è uno di quei corto circuiti fra
consumo, moda, pubblicità, da un lato, e potere (tecnologico-militare), dall’altro, fra gli
aspetti ‘femminili’ e quelli ‘maschili’ dell’egemonia americana, fra i quali invece il volume
tenta di articolare una serie di complesse distinzioni. Ma proprio perché fa riferimento a
una vulgata ben presente in letteratura, cinema e cultura di massa l’efficacia promozionale
dell’immagine è fuori discussione.
4
Luciano Bianciardi, La vita agra (1963), Milano: Bompiani, 2001, p. 64; Goffredo
Parise, New York (1976), ora in Opere, a cura di Bruno Callegher e Mauro Portello, Milano: Mondadori, 1989, vol. II, pp. 1037-38; Pier Paolo Pasolini, Scritti corsari (1974), ora
in Saggi sulla politica e sulla società, a cura di Walter Siti e Silvia de Laude, Milano: Mondadori, 1999, p. 334.
5
Cfr. Joseph Heath e Andrew Potter, Nation of Rebels: Why Counterculture Became Consumer Culture, New York: HarperBusinness, 2004, pp. 49-54, 319-20. Un esempio italiano di questa linea è Gabriele Frasca, La scimmia di Dio. L’emozione della guerra mediale,
Genova: Costa & Nolan, 1996.
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FRANCESCO GHELLI
clima della guerra fredda favorivano le semplificazioni e i corto circuiti
simbolici di contro alle mediazioni, ai distinguo, alle ricostruzioni spassionate. L’ostilità degli intellettuali verso la cultura dei consumi aveva ragioni profonde e non sempre limpide, poiché vi si fondevano il timore
per la perdita del proprio prestigio di custodi della tradizione umanistica
e un’avversione talvolta elitaria verso fenomeni di democratizzazione del
benessere. Gli apocalittici, poi, avevano piena ragione nel fare del consumo un fenomeno storicamente determinante, tutt’altro che estemporaneo
come volevano le sue apparenze. Questo nucleo di verità non deve però
far dimenticare che per varie ragioni – dal fascino delle spiegazioni complottistiche, all’incapacità di comprendere un fenomeno inedito come il
benessere diffuso e soprattutto il suo potenziale disciplinante – gli intellettuali finirono spesso per applicare ai consumi di massa un modello tanto inadeguato quanto anacronistico quale il potere totalitario, i cui tratti
di coercizione violenta e sorveglianza ‘panottica’ trovavano pochi riscontri
nell’Europa capitalista del secondo dopoguerra.
3. In campo artistico è ancora difficile sottrarsi a questa vulgata (se non
per capovolgerla in modo euforico o ambiguo dalla Pop Art al postmoderno). Ci è forse riuscito DeLillo con il suo Underworld (1997), un romanzo che è una rilettura del ‘secolo americano’ per certi versi accostabile alla
ricostruzione di de Grazia. Come de Grazia racconta il Novecento americano a partire dalle cose, dalle merci – innovazioni influenti come i prodotti di marca, le ricerche di mercato, gli elettrodomestici, i supermercati,
i detersivi, il fast food –, così DeLillo privilegia una prospettiva dal basso,
quotidiana e antieroica. È la “storia della gente” contrapposta alla “storia
segreta” della guerra fredda, perfettamente esemplificata dalla leggendaria
partita di baseball fra i Giants e i Dodgers del 3 ottobre 1951 su cui si
apre il romanzo. Un evento di cui si dice: “è possibile […] che ci entri
nella pelle in modo più durevole che non le strategie di controllo di eminenti leader, generali d’acciaio con i loro occhiali da sole”.6 In una scena
allegorica, dalle tribune esultanti dello stadio piovono frammenti di giornali e annunci pubblicitari:
Alimenti per neonati e caffè solubile, enciclopedie, automobili e tostapane, shampoo e whiskey al malto. Tempi d’oro, un’ottimistica sovrabbon6
Don DeLillo, Underworld (1997), trad. it. di Delfina Vezzoli, Einaudi, Torino, 1999,
p. 58. D’ora in poi, U seguito dal numero di pagina.
IL POTERE DEL CONSUMO FRA STORIA E IMMAGINARIO
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danza […]. In un paese che ha fretta di creare il futuro, i nomi legati ai
prodotti costituiscono una durevole rassicurazione. Johnson & Johnson,
e Quaker State, e Rca Victor, e Burlington Myers e General Motors.
Questi sono i venerati emblemi di un’economia fiorente, più facili da
identificare dei nomi di battaglie e di presidenti morti (U, p. 36).
È una sorta di epocale passaggio del testimone: da una storia di guerre e
politica a una storia di pace e prosperità, in pratica il lungo cinquantennio che abbiamo alle spalle. E sembra riecheggiare le parole di quell’ufficiale americano di stanza in Italia che sosteneva che il nostro Paese non
avrebbe mai raggiunto “uno stato di prosperità o di calma” finché gli italiani sarebbero stati capaci di dire “il nome dei ministri del governo ma
non il nome dei prodotti preferiti dalle celebrità del loro paese”, e finché i
muri sarebbero stati “riempiti più di slogan politici che di slogan commerciali”; questo perché “la libertà democratica consiste in buona parte
nell’ignorare la politica e nel preoccuparsi invece dei sistemi per sconfiggere l’odore delle ascelle, la forfora, i peli delle gambe, il colorito pallido,
i capelli fuori posto”.7 In realtà la ‘storia segreta’, la guerra fredda con le
sue minacce apocalittiche, resta onnipresente nel romanzo, a cominciare
proprio dalla sinistra coincidenza del prologo. Mentre Thomson batte lo
storico fuoricampo che decide la partita, i sovietici compiono dall’altra
parte del globo il loro primo test atomico. Il titolo del New York Times
che saluta l’exploit sportivo si adatta alla perfezione anche all’evento militare: “il Botto che ha Fatto il Giro del Mondo” (U, p. 714). Ma è solo la
prima di una lunga serie di echi e sconfinamenti fra le due storie parallele, esemplari le confezioni dei prodotti o gli elettrodomestici di una famiglia suburbana degli anni Sessanta che ricordano missili e testate atomiche, oppure le pubblicità di quegli anni che alludevano spesso allo scontro fra USA e URSS, per non parlare delle esercitazioni antiatomiche nelle
scuole elementari o dell’apocalittico blackout di New York. La paranoia,
tema chiave del romanzo e dell’intera opera di DeLillo, è il vero trait d’union fra la storia privata e quella pubblica, fra teorie della cospirazione,
spionaggio e doppio gioco, da una parte, timori di manipolazioni chimiche, pubblicitarie o di contagi, dall’altra. Infine, negli anni Novanta del
dopo guerra fredda, il protagonista Nick Shay, manager nel trattamento
dei rifiuti, troverà nella steppa radioattiva del Kazakistan degli interni do7
Cit. in Stephen Gundle, “L’americanizzazione del quotidiano”, Quaderni storici, 21:
62, 1986, p. 579.
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FRANCESCO GHELLI
mestici americani perfettamente ricostruiti dal KGB per dare maggiore verosimiglianza ai test atomici: “dentro le case ancora in piedi, Old Dutch
Cleanser e Rinso White, tutte quelle icone semiperdute della vita di un
tempo, Ipana e Oxidol e Chase & Sanborn ancora intatte quaggiù in
mezzo a questo nulla vicino alla Mongolia” (U, p. 843). Packaged goods tipicamente americani oppure cimeli della popular culture come la palla di
baseball al centro della trama sono fianco a fianco con le scorie radioattive della guerra fredda in una storia che prende l’aspetto di un’enorme discarica. Sono questi gli ‘inferi’, il ‘mondo sotterraneo’ (underworld) del titolo: “l’immondizia è la gemella del diavolo. Perché l’immondizia è la storia che sta di sotto, il modo in cui l’archeologo dissotterra la storia delle
culture precedenti, ogni mucchio d’ossa e strumento rotto, letteralmente
dissotterrato” (U, p. 841).
Una visione ‘archeologica’ della storia recente che torna anche nell’eloquente finale del libro di de Grazia:
Tra non molto tempo solo l’occhio di un archeologo riuscirà a distinguere le tracce lasciate dall’Impero del Mercato nelle stratificazioni della cultura materiale depositatesi in Europa nel corso del Novecento. E si scoprirà che dagli strati più antichi delle rovine, risalenti al 1900-15, emergono manufatti estremamente pregiati. La loro varietà, quantità e mirabile fattura suggeriranno uno straordinario processo di affinamento negli
stili di vita, ma anche l’esistenza di rigide differenze di tipo castale nella
popolazione. Gli strati del periodo intermedio, risalenti al 1915-45, riveleranno grandi vortici conflittuali. Pezzi di stagno e cocci di vetro verde,
pizze ammaccate di film e frammenti di riviste popolari, soprattutto nei
siti che dall’Europa nordoccidentale si estendono a quella centrale e meridionale, suggeriranno un contatto sempre più intenso con le coste occidentali dell’Atlantico, anche se le forze della guerra l’avrebbero prima interrotto, poi riallacciato. Solo un decennio e mezzo dopo l’area centrosettentrionale apparirà invasa da manufatti ed edifici di influenza transatlantica. […] Quando si scaverà nel centro di Parigi, i resti delle drogherie
sembreranno offrire la prova schiacciante del trionfo di una nuova civiltà
materiale sincretica, che lega la Zenith, la ‘capitale dei mari di acqua dolce’ alla Ville lumière […] nell’arco di un solo secolo l’egemonia americana
ha lasciato tracce altrettanto precise di quelle lasciate in quattrocento anni
dall’Impero romano. (pp. 511-12)
Con strumenti diversi ma anche in parte convergenti – poiché c’è una
componente documentaria nel romanzo di DeLillo, così come c’è un’indubbia qualità ‘letteraria’ in diversi momenti del saggio di de Grazia –,
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entrambi i libri sono un tentativo di mettere insieme la grande storia dei
conflitti mondiali e la piccola storia dei consumi. E soprattutto di conferire a questa sfera quotidiana e ‘banale’ lo spessore epico (nel caso del romanzo), l’importanza decisiva (nel caso del saggio) solitamente conferita
alla vicende politiche e militari internazionali.8 Tutto ciò cercando di evitare gli eccessi della vulgata apocalittica sulla civiltà dei consumi o del suo
frettoloso rovesciamento. I consumatori non sono i ‘polli d’allevamento’
totalmente manipolati delle teorie cospiratorie in voga negli anni Sessanta, ma nemmeno i bricoleur, i liberi collezionisti di esperienze di molti
studi sul postmoderno.
4. Una delle più significative debolezze della critica apocalittica è la sottovalutazione delle attrattive dei beni di consumo. Troppo spesso chi tuona
contro i ‘falsi bisogni’ dimentica il profondo impatto – in termini di miglioramento della qualità della vita – che hanno avuto molte innovazioni
della civiltà dei consumi al centro del volume di de Grazia: da una dieta
più ricca e varia resa possibile dall’industria alimentare e dalla grande distribuzione, agli indiscutibili benefici degli elettrodomestici e dalla moderna stanza da bagno, alla disponibilità di abiti a buon mercato, senza
trascurare le vacanze di massa e la maggiore mobilità. Fare del consumo
lo strumento dell’egemonia americana, ricostruire le strategie dell’élite
statunitense, documentare la lunga serie di resistenze europee – dai nazisti che difendono con le armi lo ‘spazio vitale’ della loro industria cinematografica e manifatturiera fino ai piccoli commercianti francesi e italiani stritolati dai supermercati – non significa per de Grazia misconoscere il
potenziale liberatorio e democratizzante dell’avvento dei consumi di massa. Il fascino del modello americano risiedeva nella promessa di un libero
accesso ai beni di consumo che prescindesse del tutto dalle antiche divisioni di censo dei paesi europei. Gli Stati Uniti, nell’immagine popolare
che in parte corrispondeva al ‘consumismo populista’ diffuso negli USA
fin dall’inizio del Novecento, erano un paese dove anche gli operai, le cameriere e le commesse facevano una vita da ‘signori’ o da ‘signore’, avevano l’automobile, una cucina piena di elettrodomestici, vestivano alla mo8
Sulla dimensione epica di Underworld, cfr. Massimo Fusillo, “Fra epica e romanzo”
(in Il romanzo, a cura di Franco Moretti, vol. II. Le forme, Torino: Einaudi, 2003, pp. 3133), che definisce l’epica nella modernità (da Guerra e pace in poi) in opposizione al militarismo celebrativo (e alla chiusura narrativa) di quella antica e cinquecentesca: un’epica
quindi più vicina alla storia dei fenomeni di massa che alla storia ‘evenemenziale’.
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FRANCESCO GHELLI
da, andavano al cinema e a teatro. A dare sostanza alla democrazia e alla
libertà sbandierate nella propaganda americana erano i carrelli colmi delle
famiglie che uscivano dai supermercati o gli immensi parcheggi delle fabbriche americane con le automobili di operai e impiegati. Il ‘pacchetto
standard’ al centro del boom dei consumi di massa – frigorifero, cucina,
lavatrice, televisione, automobile – era costituito non da status symbol, da
prodotti che indicavano l’appartenenza a una minoranza privilegiata,
bensì da ‘beni di cittadinanza’, che simboleggiavano l’ingresso in una società moderna e maggiormente egualitaria.
Uno dei meriti del volume di de Grazia è infatti l’identificazione di un
ancien regime dei consumi europeo, profondamente diverso dal “modello
dei consumi di massa” d’importazione americana che l’avrebbe soppiantato dopo la decisiva crisi della seconda guerra mondiale. L’Europa possedeva ben prima dell’arrivo dell’“impero del mercato” una propria raffinata e
prestigiosa cultura dei consumi: il che è scontato per gli storici del settore, ma è spesso dimenticato in un dibattito intellettuale che tende, ora
come mezzo secolo fa, a identificare il vecchio mondo con la Kultur, i valori immateriali minacciati dalle bieche ragioni commerciali degli Stati
Uniti. La cultura dei consumi europea era simboleggiata dal centro storico di Dresda, con le sue facciate sontuose e le sue vetrine eleganti, enormemente distante da quella rozza Duluth, la città di Babbitt, che de Grazia sceglie di contrapporgli come emblema del paesaggio urbano americano all’inizio del secolo. Ma essa era testimoniata anche dai grandi magazzini frequentati da una clientela altolocata nelle principali metropoli europee, che presto avrebbero visto la concorrenza plebea dei bazar a prezzo
fisso d’origine americana; oppure dalle gigantesche fiere campionarie –
esemplare ancora quella di Dresda – che radunavano migliaia di prodotti
e di commercianti del vecchio mondo superate nel giro di un paio di decenni dall’arrivo del marketing americano e soprattutto di prodotti di
marca che trasformavano il mercato in uno spazio astratto quasi del tutto
indipendente dagli accidenti della geografia; per non parlare dell’elegante
pubblicità europea, le affiches liberty o moderniste, le immagini variopinte dallo splendore ‘pagano’ gradualmente soppiantate dalla pubblicità
‘scientifica’ americana, più dimessa, ‘puritana’, piena di argomentazioni
utilitaristiche, legata alla stampa e alla parola scritta; e ancora, ben prima
di Hollywood, si debbono ricordare le fiorenti industrie cinematografiche
francesi e italiane, oltre ovviamente alla berlinese UFA, fucina di talenti
ma anche creatrice di blockbusters storico-mitologici nel segno della tradi-
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zione europea, che sarebbe caduta in disgrazia insieme ad Hitler, vittima
della fuga di artisti oltre Oceano (Marlene Dietrich, Fritz Lang, il produttore Pommer).
Ebbene, gran parte di questa cultura del consumo era intimamente elitaria, specchio di una società in cui i differenti stili di consumo, così come
l’ineguale distribuzione del gusto o di quel che Bourdieu ha denominato
“capitale culturale” riproducevano fedelmente gerarchie sociali preesistenti. Il consumo in Europa aveva ancora tratti ‘suntuari’, era uno dei principali indicatori della ‘distinzione’, di quegli steccati sociali che fino al boom
degli anni Sessanta facevano di contadini, operai e borghesi, delle cameriere e delle signore di cui erano al servizio, quasi delle specie antropologiche
separate. La sola idea di estendere la base dei consumi con l’aumento dei
salari e la ridistribuzione dell’incremento della produttività nella prima
metà del secolo incontrava in Europa ostacoli insuperabili. Per le élite europee gli alti salari di Ford avrebbero minato inesorabilmente la debole etica del lavoro delle classi inferiori.9 D’altro canto riformatori socialisti e comunisti consideravano la povertà della classe operaia il prezzo da pagare
per l’uguaglianza e un virtuoso antidoto agli eccessi della borghesia. Di
contro alla ‘sensibilità femminile’ dimostrata dalla cultura del consumo
americano – soprattutto nel secondo dopoguerra quando creerà la figura
della “Signora consumatrice modello”, amministratrice della casa e destinataria delle pubblicità di detersivi ed elettrodomestici –, i socialisti mostravano i segni di un ritardo culturale dagli evidenti tratti di genere: “Le
molteplici comodità che sarebbero facilmente venute in mente anche a
una casalinga della classe operaia – dalle pentole di alluminio, all’acqua
calda, ai guanciali in piume, a una rudimentale lavatrice, senza andare a tirare in ballo le calze di seta, i vasi da fiori o i sottobicchieri di pizzo – non
sfioravano neppure la loro immaginazione di maschi socialisti duri e puri”
(p. 117). Sarebbe impossibile, senza tener conto di questi antecedenti,
spiegare il successo e soprattutto il diffuso consenso del modello di consumo americano nell’Europa degli anni Cinquanta e Sessanta, con la sua
tendenza ad “abbattere le barriere, uniformare le differenze” (p. 387),
smussare nel nome di un mercato “monoclasse”, o tutt’al più segnato da
semplici stratificazioni di reddito, “quelle gerarchie simili a caste tipiche
dell’epoca precedente alla Seconda guerra mondiale” (p. 388).
9
Cfr. Gary Cross, Time & Money: The Making of Consumer Culture (1993), trad. it. di
Valeria Ottonelli, Tempo e denaro. La nascita della cultura del consumo, Il Mulino: Bologna, 1998, capp. 1-2.
18 /
FRANCESCO GHELLI
Sarebbe altrettanto difficile immaginare i movimenti degli anni Sessanta senza l’effetto dirompente che il consumo di massa ebbe sulle strutture gerarchiche tradizionali, tanto in seno alla famiglia che in seno alla
società. C’è un’analogia che salta subito agli occhi fra la promessa del benessere consumista e alcune rivendicazioni di quegli anni – ‘vogliamo tutto!’ – che sembrano volgere contro il ‘sistema’ i desideri da lui scatenati.
Ed è stato spesso notato come contrariamente a tutte le previsioni, la prima generazione di figli della TV, di coloro che più dovevano essere istupiditi dai ‘persuasori occulti’, sia stata anche la più combattiva sul piano sociale, spesso usando in funzione critica lo stesso linguaggio e gli stessi
simboli della pubblicità, come testimoniano le vignette détournées dei Situazionisti o molti slogan del ’68 e del ’77. È una storia che resta ancora
da scrivere – de Grazia ne analizza l’importante componente femminile,
altri studi si soffermano invece sul nesso fra consumi e l’ascesa di un nuovo protagonista socio-politico: la gioventù. Si può ipotizzare che almeno
in Italia, la duratura incomprensione della civiltà dei consumi da parte
della sinistra, la persistenza di atteggiamenti austeri o apocalittici, abbia
contribuito alla lunga a quel distacco fra il Partito comunista e l’onda
lunga dei movimenti degli anni Sessanta. Ed è qui che forse si possono ricercare alcune radici di quell’anomalia tutta italiana chiamata Berlusconi.
Un partito elaborato a tavolino in base a strategie di marketing ha ottenuto un consenso che per diffusione e stabilità eccede di gran lunga il pur
forte blocco sociale che difende, e tutto ciò grazie a un linguaggio e ad un
immaginario legato in gran parte alla civiltà dei consumi, di cui il proprio
leader è divenuto una sorta di incarnazione messianica. Ma perché in Italia – e ripeto solo in Italia – è stato possibile fare di qualcosa abitualmente ‘traversale’ come la cultura dei consumi un fattore di forte polarizzazione politica?10 Per uno strano paradosso che avrebbe forse sorpreso il già
citato ufficiale americano, gli italiani non sono diventati dei quieti consu-
10
Sulle radici socio-economiche delle utopie politiche degli anni Sessanta resta essenziale il saggio di Fredric Jameson, “Periodizing the 60s”, in Sohnya Sayres et alii (a cura di),
The 60s Without Apology, Minneapolis: University of Minnesota Press, 1984, pp. 178209. Sul ’68 e i ‘figli della TV’ classiche le osservazioni di Umberto Eco in Sette anni di desiderio, Milano: Bompiani, 1983. Per il nesso fra consumi e movimenti giovanili si veda
Paolo Capuzzo (a cura di), Generi, generazioni e consumi, Roma: Carocci, 2003. Sui limiti
della sinistra italiana di fronte ai consumi e l’avvento di Berlusconi seguo Adam Arvidsson, Marketing Modernity: Italian Advertising from Fascism to Postmodernity, New York:
Routledge, 2003.
IL POTERE DEL CONSUMO FRA STORIA E IMMAGINARIO
/ 19
matori abbandonando la passione politica, ma piuttosto sono diventati
dei consumatori anche di politica.11
5. Questo sguardo d’insieme sulla storia del Novecento è possibile solo
perché siamo fuori dall’epoca descritta, situati su un punto di osservazione ormai altro. Il ‘secolo americano’ si è concluso e l’“impero del mercato” ha mostrato vistose crepe fin da quel lontano 1989 che avrebbe dovuto consacrarne il definitivo trionfo. Certo, alcuni colossi statunitensi –
McDonald’s e Wal-Mart in testa – hanno sposato con successo la vecchia
ricetta fordista (economie di scala, prodotti standardizzati e a basso costo)
alle nuove opportunità offerte dalla globalizzazione (apertura di nuovi
mercati e manodopera a prezzi stracciati). La nuova economia, sviluppatasi dopo il boom dell’informatica, vede uno schiacciante predominio
americano, così come non appare scalfito il primato di Hollywood e dell’industria televisiva statunitense. De Grazia, ricorda tuttavia la significativa inversione di tendenza nel settore più americano che si possa immaginare: quello della grande distribuzione, con imprese europee come Carrefour, Aldi, Ikea, Benetton, Zara che dopo una forte espansione nel vecchio mondo sono andate alla conquista degli Stati Uniti, di quello che è e
resta il mercato più difficile (e protetto, a dispetto delle professioni di liberismo). Ciò è stato possibile grazie a innovazioni della cultura e dei
luoghi di consumo fiorite, per la prima volta dopo anni, nel brodo di coltura di un’Europa occidentale ormai altrettanto opulenta degli States. È il
caso della “boutiquizzazione” (p. 490) dei supermercati introdotta da
Carrefour: l’ibridazione del self-service americano e del paesaggio di negozi – il panificio, il macellaio, il fruttivendolo – familiare a ogni europeo; oppure della singolare formula dei punti vendita Ikea che sembrano
riassumere i luoghi caratteristici dei diversi regimi di consumo dall’Ottocento ai giorni nostri: il grande magazzino nella ‘mostra’ di arredamento e
design, il supermercato ‘fordista’ nel ‘negozio’, fino al discount senza
fronzoli del magazzino di mobili con i suoi scatoloni.12
Ma più di ogni altra cosa pesa sull’impero il fatto che, almeno dagli anni Settanta, gli Stati Uniti non possono più essere considerati “i principali
11
Ma sulle analogie fra politica e consumo cfr. Richard Sennett, The Culture of New
Capitalism (2006), trad. it. di Carlo Sandrelli, La cultura del nuovo capitalismo, Il Mulino:
Bologna, 2006, cap. 3.
12
Cfr. Rachel Bowlby, Carried Away: The Invention of Modern Shopping, New York: Columbia University Press, 2001, cap. 1.
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FRANCESCO GHELLI
difensori del diritto universale a godere di un tenore di vita dignitoso […]
negli anni Ottanta, per quanto concerneva la salute, il tempo libero, le abitudini alimentari, la sicurezza sociale e numerosi altri indicatori, l’Europeo
occidentale medio giunse a godere di uno standard di vita più elevato dell’Americano medio” (pp. 492-93). L’Europa è divenuta il vero “paradiso
del consumatore” (p. 490), sposando i consumi di massa d’origine americana alle perduranti garanzie di un Welfare State non ancora del tutto liquidato. Ma soprattutto potendosi giovare di una ricchezza di modelli culturali,
di un “caleidoscopio di ‘eurostili’”, di una “miriade di culture regionali”, di
“identità di nicchia, oltre ad attingere alla rinascita e alla ricombinazione di
status symbol ereditati dal regime borghese di consumo” (p. 495) che nel
nuovo contesto più che un freno rappresentano un’opportunità. In qualche
modo la storia si è capovolta. Il primato della civiltà dei consumi americani
ha avuto una decisiva premessa nella dimensione geografica del Paese, nella
presenza di un enorme mercato precocemente unificato, nel quale è stato
possibile sperimentare innovative strategie commerciali e decisive economie di scala; tutto ciò mentre l’Europa viveva ancora in una dimensione
nazionale, se non locale. L’attuale gioco economico sembra premiare al
tempo stesso un ulteriore giro di vite in direzione della standardizzazione,
dell’uniformità, delle economie di scala (modello McDonald’s), ma anche
la valorizzazione delle nicchie, la segmentazione esasperata del mercato, la
ricerca della qualità, il sovrainvestimento culturale di prodotti e marchi,
tutte ricette per le quali il mosaico europeo può essere un vantaggio.
Sarebbe assurdo tuttavia pensare che l’Europa abbia già in tasca il modello alternativo all’impero americano, del resto la debolezza politica dell’Unione è sotto gli occhi di tutti. Non è un caso che de Grazia dopo aver
raccontato l’ascesa di decisive invenzioni americane come il marchio o i
supermercati, simboleggi con voluta ironia la riscossa dell’Europa con un
fenomeno tutt’altro che determinante sebbene sintomatico, ossia il movimento Slow Food. Con Slow Food per la prima volta l’opposizione di sinistra al capitalismo della Fast Food Nation assume un volto edonista, anziché austero, una rivolta in nome della qualità e del piacere oltre che dell’equità e della giustizia. Una strategia soft che grazie al suo internazionalismo e al suo rifiuto di ogni protezionismo ha riscosso notevoli successi.
Molti dei tratti di Slow Food – la difesa delle produzioni territoriali e
di nicchia, la riscoperta del tipico, del tradizionale, dell’artigianale, il forte investimento sul valore storico, culturale e simbolico dei prodotti (e si
tratta del cibo, la cosa più deperibile e di rapido consumo che esista) –
IL POTERE DEL CONSUMO FRA STORIA E IMMAGINARIO
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sono in sintonia con l’odierna cultura dei consumi che sembra caratterizzata da un rifiuto di molti valori guida del regime dei consumi di massa.
Ho qualche dubbio semmai sul carattere solo e tipicamente europeo di
queste tendenze. Thomas Frank, ad esempio, descrive l’avvento negli Stati Uniti, a partire dai primi anni Sessanta del cosiddetto hip consumerism,
una nuova cultura del consumo che sceglie come bersagli polemici l’uniformità, il conformismo, la standardizzazione del consumismo anni
Cinquanta, perfettamente simboleggiati dall’organization man, l’impiegato in completo grigio, o dalla famigliola suburbana al centro di molte
pubblicità. C’è così una perfetta convergenza e un rapido interscambio
fra l’industria della moda, fra la pubblicità – che vive in quegli anni la sua
‘rivoluzione creativa’ – e la nascente controcultura. Il ribelle, l’anticonformista, il bohemien diviene lo “stile ufficiale del capitalismo”; l’opposizione fra il conformismo e il suo rovesciamento, le maggioranze ottuse e le
minoranze consapevoli di trend setters è la chiave per un avvicendamento
sempre più rapido delle mode (e per la proliferazione della logica della
moda in ambiti diversi dall’abbigliamento). Il cool, questa fantomatica
qualità divulgata negli anni Cinquanta dai jazzisti neri e dalle nuove star
maschili di Hollywood – sia esso stile, individualismo e freddezza –, diviene la ricetta per il lancio pubblicitario di marche e prodotti, nonché
l’aspirazione di una fetta sempre più ampia di consumatori.13
Non c’è dubbio che in questo ulteriore mutamento del modello dei
consumi gli Stati Uniti abbiano giocato ancora un ruolo tutt’altro che secondario potendo mettere a frutto tanto la singolarità dei loro Sixties,
quanto la perdurante egemonia della loro industria culturale. Da un lato,
una controcultura meno politicizzata in senso tradizionale rispetto al ’68
europeo, che invocava la liberazione dell’individuo e del desiderio dalle
pastoie sociali e dal patriarcato, si è rivelata assai appetibile per il mercato,
penetrando nella mentalità di una nuova classe dirigente (esemplare l’icona del manager-guru della new economy in jeans e maglietta).14 Dall’altro,
13
Cfr. Thomas Frank, The Conquest of Cool: Business Culture, Counterculture, and the
Rise of Hip Consumerism, Chicago: University of Chicago Press, 1997; Joseph Heath e
Andrew Potter, op. cit.; Dick Pountain e David Robins, Cool Rules: Anatomy of an Attitude,
London: Reaktion, 2000.
14
Una prova a contrario è la scarsità di elementi controculturali nella pubblicità europea
fra anni Sessanta e Settanta rispetto a quella americana. Di contro al profluvio di esempi
di Frank si possono ricordare le campagne vagamente ‘hippie’ dell’inizio degli anni Settanta con cui Piaggio tramuta lo scooter da un’alternativa economica all’auto a un prodotto per giovani, cfr. Adam Arvidsson, “From Counterculture to Consumer Culture: Vespa
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in una temperie che registra un’implosione degli ambiti un tempo delimitati dell’economia e della cultura, della produzione di merci e di quella di
significati e immagini – per cui ogni consumo assume tratti culturali –, il
primato americano nell’industria dello spettacolo e dell’intrattenimento
diviene ora più che mai un vantaggio strategico.15 Certo, l’Europa ha dimostrato di sapersi adattare al nuovo contesto, mettendo a frutto le sue
risorse secolari di produzione e valorizzazione di status symbol: esemplare
la trasformazione del comparto un tempo elitario dell’alta moda in un sistema di marche globali capaci di conquistare mercati e pubblici di consumatori impensabili fino a qualche decennio fa. Se gli americani hanno
inventato il marchio, come garanzia della qualità standard dei prodotti,
come volto riconoscibile e quasi personale dell’industria fordista, la griffe
europea, con la sua aura di originalità e creatività, è forse il modello del
logo postmoderno; un marchio sempre più svincolato dai prodotti – e anche dai produttori reali: gli Sweatshops invisibili del Terzo mondo – al
punto da trasformarsi in “allucinazione collettiva”, in “uno stile di vita,
un modo di pensare, una gamma di valori, un look, un’idea”.16
6. La mia impressione allora è che il declino dell’impero americano sia
solo uno dei molti volti di un nuovo regime dei consumi che presenta
tratti inediti rispetto al regime dei consumi di massa, ma che, per la vicinanza storica e per la presenza di tendenze contraddittorie, è ancora difficile da descrivere e etichettare nel suo complesso (lo stesso termine postmoderno non gode ormai di buona stampa). Il boom dei consumi estetici
e culturali, lo hip consumerism col suo rovesciamento dei valori patriarcali,
and the Italian Youth Market, 1958-78”, Journal of Consumer Culture, 1:1, 2001, pp. 4771. Sulla continuità fra controcultura e new economy in California, cfr. Mark Dery, Escape
Velocità: Cyberculture at the End of the Century (1996), trad. it. di Mirko Tavosanis, Velocità di fuga. Cyberculture di fine millennio, Milano: Feltrinelli, 1997, cap. 1.
15
Sul postmoderno come congiuntura “marcata da una de-differenziazione di ambiti,
così che l’economia ha finito per sovrapporsi alla cultura: tutto, compresi la produzione di
merci e la speculazione finanziaria, è diventato cultura; e la cultura in ugual modo è divenuta profondamente economica o orientata alla merce”, si vedano Fredric Jameson, The
Cultural Turn: Selected Writings on the Postmodern, 1983-1998, New York: Verso, 1998, p.
73 e passim; e Id., Postmodernism, or the Cultural Logic of Late Capitalism (1991), trad. it.
di Massimo Manganelli, Postmodernismo, ovvero La logica culturale del tardo capitalismo,
Roma: Fazi, 2007, cap. 1.
16
Naomi Klein, No Logo (2000), trad. it. di Equa Trading e Serena Borgo, No Logo.
Economia globale e nuova contestazione, Milano: Baldini&Castoldi, 2001, cap. 1.
IL POTERE DEL CONSUMO FRA STORIA E IMMAGINARIO
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l’onnipresenza della moda e l’ipertrofia del cool – tutti tratti che fanno
parlare Zygmunt Bauman di una sorta di deregulation esistenziale, un
crollo della “gabbia d’acciaio” della modernità –,17 sono infatti solo una
faccia della medaglia. Il cui rovescio può essere rappresentato dal fenomeno low cost, dalla formula hard discount con la riduzione dei servizi al minimo che, grazie allo spostamento della produzione nei paesi in via di sviluppo, abbatte i costi di molti prodotti e consumi. I protagonisti di questa rivoluzione sono marchi di successo planetario: Ikea per l’arredamento, Ryanair per il turismo, Skype e Google per la comunicazione e l’informazione, Zara per la moda, ai quali bisogna aggiungere però, per avere
una panoramica del fenomeno, anche i discount alimentari, le innumerevoli varianti etniche del fast food per la ristorazione, nonché la galassia
della pirateria informatica per i consumi musicali e cinematografici, senza
trascurare il mare magnum della contraffazione.18 Difficile dire se si tratti
di un’ulteriore democratizzazione dei consumi rispetto agli anni Cinquanta-Sessanta. In effetti, parte del nuovo scenario è anche l’affacciarsi
di interi paesi e continenti – le centinaia di milioni di nuovi ricchi di India e Cina in testa – al banchetto dei consumi: un fenomeno che può farci sentire, noi occidentali opulenti, altrettanto ‘declassati’ e minacciati nel
nostro privilegio di quanto lo fosse la borghesia europea di fronte all’avanzata del consumismo americano più di mezzo secolo fa. È stato osservato che le imprese low cost sono la risposta del mercato al tramonto del
ceto medio nei paesi occidentali, sostituito da una “classe della massa”
impoverita in una società che vede aumentare la forbice dei redditi, resa
più precaria dai mutamenti del mercato del lavoro e dall’erosione del Welfare State, ma ugualmente vogliosa di continuare a consumare, e anzi di
farlo senza le remore e i calcoli a lungo termine delle passate generazioni.
In effetti – e qui le due facce si toccano –, se i consumi low cost sono ‘poveri’ per la ‘proletarizzazione’ del loro scenario (prendere un aereo come
se fosse un autobus, comprare mobili in scatoloni di cartone…), oltre che
per la qualità medio-bassa e la scarsa durevolezza dei beni, tutt’altro che
primari sono invece i bisogni che soddisfano: intrattenimento, viaggi e
tempo libero, stile, cura del sé e della casa, ecc.
17
Zygmunt Bauman, “Consuming Life”, Journal of Consumer Culture, 1:1, 2001, pp. 9-29.
Qui e più avanti seguo Massimo Gaggi e Eduardo Narduzzi, La fine del ceto medio e
la nascita della società low cost, Torino: Einaudi, 2006. Sulla contraffazione come paradossale volano del successo delle griffes, vd. Roberto Saviano, Gomorra, Milano: Mondadori,
2006, pp. 49 e segg.
18
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FRANCESCO GHELLI
Si potrebbero attribuire le due facce del nuovo regime di consumo ai
due segmenti sociali che sembrano profilarsi sempre più nei paesi occidentali: da un lato, il consumismo hip e un mercato del lusso fiorente come non mai per le nuove minoranze privilegiate, le “classi creative” e i
bourgeois bohemien della finanza, dell’hi-tech e dell’industria culturale,
dall’altro il surrogato low cost per le masse precarie e impoverite. Difficile
pensare però che da questa polarizzazione possa rinascere una qualche
forma di coscienza di classe con le conseguenze politiche del caso. Come
de Grazia dimostra, il modello di consumo di massa ha eroso le antiche
divisioni di casta, creando alla lunga una società più interclassista. Pierre
Bourdieu aveva elaborato la sua teoria della ‘distinzione’, del valore socialmente discriminante dell’esperienza estetica e delle scelte di gusto osservando quel che restava, nella Francia dell’inizio degli anni Settanta, dell’ancien regime dei consumi.19 L’espansione della classe media fino ad assorbire ampi strati della classe operaia avrebbe reso di lì a poco del tutto
anacronistico il valore distintivo di contrassegni borghesi come l’educazione liceale umanistica o la predilezione per la musica classica documentate da Bourdieu. Un’industria culturale ormai trasversale e capace di offrire ogni sorta di prodotti – dall’accademia all’avanguardia, dal trash fino
ai complessi ibridi postmoderni – avrebbe abbattuto le divisioni dei livelli
– highbrow, midbrow, lowbrow – e soprattutto il loro sottinteso classista.20
Eppure, nel nuovo regime dei consumi, la lezione di Bourdieu, se si prescinde dai tratti desueti del paesaggio sociale analizzato, resta di straordinaria attualità. Come osservano Potter e Heath, il bisogno di ‘distinzione’
è il vero e proprio movente primario del consumatore contemporaneo.
Più che ‘di massa’, come vuole la vulgata apocalittica, quello odierno è un
consumo “competitivo”: “le persone comprano qualcosa che le faccia sentire in qualche modo superiori, sia per mostrare che sono più cool (le scarpe Nike), meglio introdotte (i sigari cubani), più esperte (lo Scotch al puro malto), di miglior gusto (l’espresso di Starbucks), moralmente superiori (i cosmetici del Body Shop), o semplicemente più ricche (le borse di
Louis Vuitton)”. Distinguersi, in questo nuovo contesto, non significa solo “essere differenti”, bensì esserlo “in un modo che ci renda riconoscibili
19
Pierre Bourdieu, La distinction (1979), trad. it. di Guido Viale, La distinzione. Critica
sociale del gusto, Il Mulino: Bologna, 2001.
20
Una recente analisi sull’erosione di “distinzioni di gusto” che erano “distinzioni di casta” limitata al contesto americano è contenuta in John Seabrook, Nobrow: The Culture of
Marketing and the Marketing of Culture, New York: Vintage, 2001.
IL POTERE DEL CONSUMO FRA STORIA E IMMAGINARIO
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come parte di un club esclusivo”.21 Si tratta, tuttavia, di un collettivo artificioso e temporaneo che quasi mai coincide con le consolidate classi di
un tempo, sia esso un gruppo di pari adolescenti, la conventicola dedita a
un particolare street style, gli appassionati di un hobby o di uno sport, i
devoti di una marca o una di quelle effimere ‘tribù’ di cui parlano sovente
gli esperti di marketing e pubblicità. Affiliazione e disaffiliazione, attrazioni e insofferenze si contendono continuamente la psiche di un consumatore attanagliato sempre più dal doppio legame familiare a tutti i lettori di René Girard: l’imitazione di un modello e il desiderio di soppiantarlo, di negare la dipendenza, il carattere ‘mimetico’, non originale del proprio desiderio.22
La letteratura degli ultimi anni ci ha dato alcune illuminanti rappresentazioni del nuovo ethos del consumo competitivo. Dal paesaggio
darwiniano presente nei primi due romanzi di Michel Houellebecq,
quell’“estensione del dominio della lotta” che vede gli individui impegnati
in una contesa per l’affermazione individuale perfettamente simile alla
competizione sessuale degli altri mammiferi, fino all’ironia di Labranca sul
“neoproletariato” nostrano: “essere popolo significa essere massa, compatta, unita. Nessuno vuole più esserlo […]. Il sistema industriale produce
oggetti di massa, ma li riveste di sogni individualizzanti. […] ‘Neoproletari di tutto il mondo, separatevi, individualizzatevi, opprimete il vostro simile con la vostra carica di eleghanzia superiore’”.23 Ma il romanzo più
esemplare è probabilmente Le correzioni (2001) di Jonathan Franzen, dove
i due diversi regimi di consumo – di massa e postmoderno – si incarnano
nei padri e nei figli di una famiglia americana, i Lambert. A confronto due
varietà storiche di infelicità: la vita di frustrazioni, inibizioni e ‘correzioni’
dei due anziani coniugi, vissuta interamente nella provincia del Midwest,
dall’altro il nuovo disagio della libertà dei figli che hanno cercato sulla costa metropolitana quella realizzazione personale impensabile per i genitori.
Se Chip e Denise – aspirante accademico l’uno, chef sofisticata l’altra – sono vittime di picaresche disavventure sessuali, Gary, un uomo sposato con
un lavoro di successo, non dovrebbe incontrare ostacoli sulla via della felicità e dell’integrazione. Eppure anch’egli sprofonda nella depressione, vit21
Joseph Heath e Andrew Potter, op. cit., pp. 103, 214-15.
Cfr. per es. René Girard, La violence et le sacré (1972), trad. it. di Ottavio Fatica e Eva
Czerkl, La violenza e il sacro, Milano: Adelphi, 1992.
23
Tommaso Labranca, Neoproletariato. La sconfitta del popolo e il trionfo dell’eleghanzia,
Roma: Castelvecchi, 2000, pp. 43, 48-49.
22
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tima di una civiltà dei consumi di cui ha provato, con il suo gusto esigente
e aggiornato, a giocare sul serio la partita:
Quel giorno indossava una giacca sportiva misto seta verde cappero, una
camicia button-down di lino écru e pantaloni neri senza piega […] esaminò la sala da ballo per avere la conferma di essere davvero l’unico maschio senza cravatta, ma quel giorno il contrasto fra sé e la folla lasciava
molto a desiderare. Solo pochi anni prima la sala sarebbe stata una giungla di gessati blu, abiti da mafioso, camicie tono su tono e mocassini con
nappetta. Ma adesso, nella tarda maturità del lunghissimo boom economico, persino i giovani zoticoni del New Jersey compravano abiti italiani
su misura e occhiali sofisticati. […] Oh misantropia e frustrazione! Gary
voleva godersi la ricchezza e gli agi, ma il suo paese glielo stava rendendo
difficile. Intorno a lui, milioni di miliardari americani di fresca data si davano da fare per sentirsi straordinari, per acquistare la perfetta casa vittoriana, per sciare su montagne incontaminate, per conoscere di persona lo
chef, per trovare la spiaggia mai calpestata da piedi umani. C’erano altre
decine di milioni di giovani americani che non avevano un soldo ma che
tuttavia inseguivano il Perfetto Cool. E intanto la triste verità era che non
tutti potevano essere straordinari, non tutti potevano essere estremamente
cool; perché in questo modo non ci sarebbero più state persone comuni.
Chi avrebbe sostenuto il ruolo ingrato di essere relativamente non-cool?24
Come spiegano ancora Potter e Heath, riprendendo le teorie di Fred
Hirsh sui “limiti sociali dello sviluppo”, nel cuore dell’opulenza c’è un’inesorabile fonte di penuria. Il gusto, la distinzione, il cool sono ‘beni posizionali’, per loro natura scarsi, un po’ come i terreni appetibili di una
città o i posti di una facoltà a numero chiuso. Quando certi prodotti di
moda si diffondono fra un pubblico più vasto semplicemente perdono il
loro valore distintivo: la competizione non si quieta, si sposta su altre poste in gioco, a loro volta scarse. Gli attacchi, più o meno motivati, radicali o estetizzanti, al gregge dei consumisti, lungi dal disinnescarlo hanno
contribuito a inasprire e quasi a stabilizzare l’intero processo.
L’odierna società occidentale, di cui de Grazia ha tracciato un’esemplare genealogia, è un’evidente dimostrazione del potere del consumo. Sarebbe sbagliato tuttavia rappresentare questo potere come un monolite
schiacciante e compatto, un principio d’ordine anziché di anarchia. Se le
teorie e l’immaginario degli apocalittici appaiono in parte superati, l’o24
Jonathan Franzen, The Corrections (2001), trad. it. di Silvia Pareschi, Le correzioni,
Einaudi: Torino, 2002, p. 206.
IL POTERE DEL CONSUMO FRA STORIA E IMMAGINARIO
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dierno consumo competitivo è una clamorosa smentita anche delle profezie degli ‘integrati’ di un tempo, di chi come Francesco Alberoni negli anni Sessanta salutava il consumo di massa come un nuovo cemento sociale,
capace di traghettare la società italiana verso la modernità, senza le divisioni, i risentimenti, le invidie del passato. Com’è lontana quella pace sociale, quel melting pot dall’odierno scenario competitivo!25 Ma le nuove
folle di consumatori con la loro debole coesione sociale, minata dalla competizione per effimeri status symbol, sensibili in modo allarmante alle sirene del populismo, della xenofobia, di una politica spettacolo tanto da evocare gli spettri di un passato non tanto remoto, rischiano di farci guardare
con rimpianto proprio l’epoca aurea dell’impero americano. In effetti c’è
una sottile, sorprendente nota di nostalgia tanto nei quaranta anni di segreti e paranoia narrati da DeLillo, quanto nella vicenda di potere ricostruita da de Grazia: il rimpianto della guerra fredda e del fordismo come
di sistemi capaci, pur con tutte le loro storture, di garantire quella stabilità
che appare minacciata nell’odierno scenario di incertezza. Ritrovarci a
rimpiangere quella breve stagione di pax americana e consumista per gli
scettici antiamericani che siamo non sarebbe certo una beffa da poco.
25
Cfr. Francesco Alberoni, Consumi e società, Il Mulino: Bologna, 1967.
§
2
Nunzia Palmieri
L’epistolario di Umberto Saba
Storia di un’edizione mancata
Quando ci si accosta per la prima volta all’epistolario di un poeta, soprattutto quando si ha a disposizione un materiale ricco, eterogeneo, distribuito lungo un arco cronologico ampio, è inevitabile che le attese siano
alte.1 È così anche nel caso dell’epistolario di Umberto Saba, e il lettore
che abbia avuto occasione di sfogliare le migliaia di pagine che la figlia
Linuccia aveva preparato per un’edizione mai portata a termine non potrà
certo dirsi deluso: la varietà e la rilevanza dei temi trattati, la statura intellettuale dei destinatari, gli eventi storici rievocati attraverso l’esperienza
vissuta, il laboratorio di scrittura, le notizie sulla gestazione dei testi poetici e delle opere in prosa, le prospettive sul mondo degli affetti, lo stile
tenuto in miracoloso equilibrio fra semplicità, esattezza e sapienza profonda della lingua fanno delle lettere di Saba una via privilegiata per accedere al laboratorio dello scrittore e osservare, non in prospettiva aerea, ma
con l’impressione di avanzare cautamente in territori sconosciuti, cinquant’anni di storia culturale italiana.
L’epistolario di Saba, tuttavia, riserva al lettore tentato dal demone della curiosità archeologica un’ulteriore, sconcertante sorpresa: le lettere di
Saba sono state, nell’arco di un quarantennio, il motore di una prodigiosa
macchina paratestuale che ha prodotto migliaia di pagine scritte a margine
per raccogliere, ordinare, commentare, ridurre, preparare, correggere, au1
Desidero ringraziare Luisa Finocchi e Annalisa Cavazzuti della Fondazione Arnoldo e
Alberto Mondadori, Renzo Cremante, direttore del Centro manoscritti di autori moderni
e contemporanei dell’Università di Pavia, Raffaella Acetoso, erede e custode delle carte sabiane, per la gentilezza, la sollecitudine e l’attenzione verso il mio lavoro. Un ringraziamento particolare va a Mario Lavagetto, per la pazienza e la generosità con cui ha messo a
mia disposizione le sue competenze e la sua sensibilità di lettore.
PARAGRAFO III (2007), pp. 29-45
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scultare, respingere, sezionare, riassemblare, licenziare per frammenti quell’organismo gigantesco e apparentemente ingestibile. Le avventure esterne
del testo, tormentate, amare, per alcuni versi romanzesche, oltre a restituire un consistente spaccato di storia dell’editoria italiana, presentano numerosi tratti di interesse non comune.
La vicenda dell’epistolario sabiano ha inizio quando Linuccia, all’indomani dei funerali di suo padre, si impegna in un minuzioso e accanito
lavoro di raccolta delle carte, con l’intenzione di dare alle stampe, entro
un breve periodo di tempo, il materiale di cui veniva progressivamente in
possesso. Sui quotidiani e sulle riviste culturali dell’epoca, già nell’agosto
del 1957, compaiono in calce ai ‘coccodrilli’ brevi annunci o piccoli articoli in cui si invitano tutti coloro che siano in possesso di documenti a
inviarli in Via Due Macelli 97, a Roma, dove Linuccia risiedeva. Un’intervista rilasciata alla fine del 1958 ci informa sullo stato dei lavori:
È passato più di un anno da quando ho cominciato a raccogliere le lettere
di mio Padre, tutto un tempo durante il quale non ho pensato, si può dire, ad altro. Eppure ricordo tanto bene come sia nata l’idea di questa raccolta, di questo lavoro: come sia nato l’Epistolario di Umberto Saba. Era la
sera più brutta. Nel pomeriggio avevo accompagnato mio padre al cimitero. Ero nella mia stanza, e con me c’erano pochi amici, c’era Quarantotti
Gambini. Fu lui che per primo disse: le lettere di Saba sono tanto belle. Io
ne ho molte, ricevute nei tanti anni della nostra amicizia, si potrebbero
raccogliere. L’idea è entrata subito in me, l’ho fatta mia, ed ho cominciato
subito, la sera stessa. Vedevo in quella ricerca un modo di restare intimamente, quotidianamente legata a mio Padre. Oggi ne ho più di duemila.
Duemila lettere e, aveva ragione Quarantotti Gambini, quasi tutte bellissime, e non solo bellissime, ma tali da essere, anche per me, sua figlia, una
sorpresa […]. Ma oggi, che sto per finire questa parte del mio lavoro, quasi mi dispiace. In tutti questi mesi cercando, ricevendo, ricopiando, riordinando le tante lettere scritte da mio Padre, spesso scritte a mano con la sua
meravigliosa calligrafia, mi sentivo sempre in sua compagnia, per mesi attraverso le lettere, ho rivissuto la sua vita con Lui, e vorrei continuare, trovare ancora e non interrompere questo mio ascoltarlo.2
Il proposito espresso con tanto accorato affetto diventa, da quel momento in poi, una sorta di missione: Linuccia scrive centinaia di lettere agli
amici, ai familiari, alle personalità del mondo culturale che avevano avuto
2
Linuccia Saba, “L’epistolario di Saba”, Corriere di Trieste, 8 dicembre 1958.
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rapporti epistolari con il padre, e continua, parallelamente, il lavoro di
copiatura. Sappiamo, soprattutto attraverso il carteggio con Carlo Levi,
che aveva cominciato anche a scrivere delle annotazioni in margine ai testi, delle “schedine”, così le definisce, che avrebbero dovuto chiarire le circostanze esterne, fornire notizie di carattere biografico sui destinatari, fare
da contrappunto ai documenti, costituendo un libro parallelo di memorie familiari. Insieme alle note, si preparavano gli indici, che non si limitavano, nelle intenzioni, a registrare luoghi e date, ma che avrebbero dovuto fornire brevi sintesi di ognuna delle lettere scelte per la pubblicazione. Alla fine del 1958 Linuccia dichiara di avere quasi terminato le ricerche e di augurarsi che l’epistolario possa uscire entro pochi mesi.3 Avrebbe nel frattempo lavorato alla realizzazione di altri due progetti: l’edizione
critica del Canzoniere e la pubblicazione di tutte le prose. Un’edizione
delle prose esce a sua cura nel 1964, da Mondadori, ma non comprende
la totalità dei testi che sono poi stati raccolti nel volume dei Meridiani;4
mancano, ancora oggi, l’edizione critica di tutto il Canzoniere e l’edizione
dell’epistolario completo, tanto che la chiusa dell’intervista rilasciata al
Corriere di Trieste risulta, a posteriori, quasi una triste profezia.
Esistono numerose testimonianze che rivelano quante energie Linuccia abbia dedicato al lavoro di raccolta, copiatura e annotazione delle carte, destinate a uscire in un primo momento presso Einaudi. Il valore altissimo attribuito alla ‘missione’ finisce tuttavia per costituire il principale
ostacolo alla riuscita dell’impresa: Linuccia non vuole infatti rinunciare
alla possibilità di nuove inclusioni, pur rendendosi progressivamente conto di non poter fare affidamento solo sulle sue forze. Tuttavia, nonostante
le difficoltà, nel 1960 i materiali sembrerebbero pronti per la pubblicazione da Einaudi. Nessuno conosce esattamente, a quell’altezza, l’entità
delle carte, né Linuccia può prevedere gli esiti che l’operazione di raccolta
avrebbe avuto. L’archivio della Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori
di Milano conserva i documenti del carteggio fra Einaudi e Mondadori
per porre le basi di una coedizione. Nei primi mesi del 1959, i due edito3
“Ora sto per chiudere questo periodo di ricerca, per dare una forma all’epistolario, ma
rimando di giorno in giorno sperando che ancora qualche amico mi mandi le sue lettere,
lettere che come lei sa, appena ricopiate rimando a chi è stato così gentile da darmele. Ma
comunque spero che nella prima metà del prossimo anno l’Epistolario, finito, potrà uscire”. Ibidem.
4
Umberto Saba, Tutte le prose, a cura di Arrigo Stara, con un saggio introduttivo di
Mario Lavagetto, Milano: Mondadori, 2001.
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ri di Saba, rappresentati in quell’occasione da Vittorio Sereni e Luciano
Foà, preparano una bozza di accordo: Einaudi avrebbe avuto le lettere
raccolte da Linuccia entro l’anno successivo, mentre Mondadori si riservava il diritto di pubblicare altri carteggi e di collocare, trascorsi quattro
anni, il materiale già edito nella collezione dei Classici Contemporanei
Italiani. L’edizione Einaudi avrebbe dovuto avere un doppio frontespizio;
le spese di curatela sarebbero state divise fra le due aziende, mentre i diritti sarebbero andati a Einaudi. Nel frattempo, Arnoldo Mondadori chiede
a Linuccia di leggere il carteggio con Nora Baldi, per l’approvazione,
mentre da Einaudi si prepara la raccolta di lettere Saba – Quarantotti
Gambini.5
I due campioni in possesso degli editori consentono già di prevedere il
valore dell’opera completa: si percepisce con evidenza che le lettere sono
interessantissime, nonostante ancora manchino alcune sezioni cruciali,
come le lettere a Palazzeschi, a Moretti, a Sereni, a Arnoldo e Alberto
Mondadori, ancora non disponibili. Il grosso del materiale è costituito,
com’è facile intuire, dalle familiari a Lina e a Linuccia, ma già circolano
voci su un nucleo consistente di lettere a un giovane poeta che Saba considerava come il suo capolavoro.6 Viene sollecitata a più riprese la ricerca
di sezioni mancanti del carteggio, tanto che Linuccia si rivolge ad alcuni
amici, perché si mettano sulle tracce delle carte perdute. Ma quali sono i
“nuclei importantissimi” senza i quali Einaudi non vorrebbe pubblicare e
che Sereni definisce “le lettere che stanno a cuore a tutti noi”?7
5
Gli editori si scambieranno, in seguito, i due carteggi: Umberto Saba - Pier Antonio
Quarantotti Gambini, Il vecchio e il giovane, a cura di Linuccia Saba, Milano: Mondadori,
1965; Umberto Saba, Lettere a un’amica. Settantacinque lettere a Nora Baldi, Torino: Einaudi, 1966.
6
Sono le lettere a Federico Almansi, su cui avremo occasione di soffermarci in seguito.
7
Vittorio Sereni a Linuccia Saba, 5 ottobre 1959 (inedita), Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Archivio storico Ame, sezione Segreteria editoriale autori italiani, fascicolo Saba Linuccia (1); da ora in poi, i fascicoli relativi a questo fondo verranno citati in
forma abbreviata come Ame autori (1) e (2) e gli inediti come (i). I primi tempi dell’amicizia fra Saba e Sereni risalgono al 1939, quando si conobbero in casa di Giansiro Ferrata;
si incontrarono ancora e cominciarono a frequentarsi assiduamente dopo la gurerra,
quando Sereni si stabilì a Milano in Via Scarlatti, a poca distanza da casa Almansi, e intrattennero, da allora, una corrispondenza epistolare di cui si conservano numerose carte.
L’archivio di Pavia conserva 19 lettere di Sereni a Saba, parzialmente pubblicate (Gianfranca Lavezzi, “Lettere di Vittorio Sereni a Umberto Saba, 1946-1953”, Autografo, 4:11,
giugno 1987), mentre il nucleo consistente delle lettere di Saba a Sereni, quasi completamente inedito, è conservato nell’archivio privato di Raffaella Acetoso.
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Per scoprirlo bisogna entrare nell’epistolario di Saba ‘quasi pronto’ per
la pubblicazione, oggi conservato nell’archivio privato di Raffaella Acetoso, unica erede delle carte di Saba, e corredato, seppure in minima parte,
delle ‘schedine’ di Linuccia. Il mistero è svelato da una lettera a Lina,
scritta da Milano il 3 marzo 1946:
Questa notte, malgrado la tua lettera, non ho potuto dormire; ho passata
quasi tutta la notte in cucina, dove ho rilette quasi tutte le vecchie lettere
che scrivevo negli anni terribili a Federico… di quante cose mi sono ricordato, leggendole! C’è in quelle lettere, oltre il resto, tutta la nostra casa
di allora, con te, Linuccia, il cane Fido. Credo che quelle lettere sieno il
mio capolavoro. Ho detto a Federico che, subito dopo la mia morte, egli
dovrebbe pubblicarle; ma non vuole. Sapessi come le tiene; tutte numerate, in tante grandi buste. Purtroppo parte di esse sono andate perdute nel
trambusto; c’è ancora qualche speranza di trovarle ad Albino, ma poca.
Questo mi fa ricordare le lettere che ho lasciate a Carletto; ti prego, se
non l’hai già fatto, di fartele consegnare (devono essere due o tre buste
suggellate). Poi me le porterai a Milano.8
Gli anni terribili, a cui si allude, sono ovviamente gli anni della guerra,
quando, dopo l’8 settembre, Saba, con la moglie e la figlia, si rifugia a Firenze, dove vive uno dei periodi più tragici della sua vita, come ci testimoniano le lettere e i ricordi degli amici che allora lo frequentarono, da
Montale a Ottavio Cecchi, da Carlo Levi a Mario Spinella. Per sfuggire
alle persecuzioni razziali, Saba si era nascosto con la famiglia in una casa
affittata a nome di Spinella, dove visse per qualche tempo con Ottavio
Cecchi,9 poi, dopo l’arresto di Spinella, in una casa “ariosa” in Piazza Pitti, vivendo in estrema povertà e in condizioni di autentica disperazione.
Lo testimonia una lettera sconcertante e crudele alla figlia Linuccia, in
cui Saba chiede un paradossale consenso preventivo al proprio suicidio:
Ora io ho un modo di mettere una fine a questa atrocità del destino. Ed è
un modo (almeno si dice) non doloroso né impressionante per gli altri;
ma disgraziatamente è lento, e non si sa quanto possa tardare la fine. E,
per di più, sono in casa d’altri. Mamma tua è d’accordo a non svegliarmi,
a trovare una scusa per gli altri; ma tu Linuccia? Questo è il punto che mi
8
Umberto Saba a Lina Saba, Milano, 3 marzo 1946, pubblicata, senza le note di Linuccia, in Umberto Saba, La spada d’amore. Lettere scelte (1902-1957), a cura di Aldo
Marcovecchio, con una presentazione di Giovanni Giudici, Milano: Mondadori, 1983,
pp. 150-51.
9
Ottavio Cecchi, L’aspro vino di Saba, Roma: Editori Riuniti, 1988.
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angoscia. Pensa se tu dovessi svegliarmi, se dovessi vivere avanti intossicato
e senza più nemmeno quella speranza, che si concreta in alcune polverine,
che spese una volta, è quasi impossibile, oggi, procurarsele una seconda
volta. Linuccia mia, tu che fino a ieri tante cose hai capito, devi capire anche questa. È inutile dirmi ‘aspetta’ quando il pericolo mi fosse addosso,
non sarei più in tempo a morire. E non sarei, anche per voi due, altro che
un imbarazzo. Forse non accadrà nulla; quello che è certo è che, in questa
maledetta angoscia, io non posso più tirare avanti né mesi né settimane.10
Il consenso, com’era prevedibile, non venne accordato, ma non per questo Saba trovò pace alle angosce di quegli anni, in cui la presenza costante
degli amici fiorentini e la dedizione della moglie Lina e della figlia non gli
impedirono di vivere nel costante pensiero della morte, allontanato con il
ricorso ai sonniferi e alla morfina. Federico Almansi si trovava allora in
Svizzera, come partigiano. Di famiglia ebraica, nel 1938 si era avventurato con Saba e i genitori fino ad Albino, paese natale della madre, in cerca
di un rifugio sicuro, dopo i bombardamenti di Milano del ’43, come testimonia una lunga lettera a Linuccia.11 Sappiamo che nel 1959 Linuccia
si rivolse a Sereni per avere notizie del ragazzo e per chiedergli di intercedere presso il padre, perché si convincesse a consegnare le lettere.12 Benché l’intercessione di Sereni non abbia avuto esito positivo, la coedizione
sembra sul punto di essere consegnata ai lettori: in un articolo del 1961,
uscito in Terzo Programma, Aldo Marcovecchio, collaboratore di Linuccia, annuncia che il ricchissimo epistolario di Umberto Saba vedrà presto
la luce; ne fa un’ampia rassegna corredata di una piccola scelta antologica
e ne sottolinea l’importanza per “un’attendibile ricostruzione biografica di
10
Ivi, pp. 88-89.
Da Umberto Saba a Linuccia Saba, Albino [primi di agosto del 1943], in Umberto Saba, La spada d’amore, cit., pp. 117-19. Nella nota si legge: “Federico Almansi, il giovane che
ebbe una parte di grande rilievo nella vita affettiva del poeta e anche nell’opera […]. S. lo
conobbe a Padova fanciullo (era nato nel ’24), legato com’era da rapporti di amicizia e di affari con il padre di lui, Emanuele Almansi, piemontese, di famiglia ebrea, libraio antiquario.
[…] S. lo iniziò alla poesia, presto divenendo il suo <buon maestro>. Al ragazzo era riservata sorte amara. Nel ’49 si manifestò in lui una irreversibile malattia mentale che lo cancellò
progressivamente dalla vita: una tragedia che non investì soltanto la famiglia Almansi […],
ma dolorosamente S., il quale alluse a questo evento come a un <colpo mortale>. Federico
si è spento nel 1979 a Milano. Le lettere a lui del poeta comprese nell’Epistolario sono
quelle scritte quando il ragazzo era psichicamente compromesso. Tutto il carteggio, invece,
degli anni anteguerra, è risultato introvabile, benché il poeta (secondo la testimonianza della figlia Linuccia) lo custodisse presso di sé fino ai suoi ultimi giorni” (op. cit., p. 308).
12
Linuccia Saba a Vittorio Sereni, Roma, 12 settembre 1959 (i) e 26 settembre 1959
(i), Ame, autori (1).
11
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Saba”: l’arco temporale coperto dalle carte va dal 1902, l’anno delle lettere ad Amedeo Tedeschi, al 1957, l’anno della morte.13 Ma si presentano
sempre nuove difficoltà, nuove richieste di proroga. Nonostante nel dicembre del 1961 il Corriere d’informazione riporti la notizia che l’epistolario di Saba sarebbe uscito entro la fine dell’anno, tutto si ferma: Linuccia
è alle prese con ulteriori acquisizioni, fra le quali figurano certamente le
lettere di Alberto Mondadori, per l’invio delle quali ringrazia il 20 gennaio 1962.14 Giulio Bollati comprensibilmente preme perché le lacune
vengano colmate in tempi ragionevoli: “Mio carissimo”, scrive Linuccia a
Carlo Levi il 21 settembre 1962 da Cortina,
mi sono presa una grossa arrabbiatura con Bollati. Ho ricevuto una sua
lunga lettera nella quale mi dice che sta per partire per Francoforte e che
hanno capito che i gruppi di lettere che mancano dell’Epistolario sono
importantissimi, e quindi di cercarli […] e che non possono stampare
con queste lacune.15
Da qui in avanti, per molto tempo, tutto viene sospeso. Linuccia va a
Trieste per curare uno zio malato e fare visita alla tomba dei genitori, senza interrompere il suo paziente lavoro di annotazione: “Posseggo 32 denti
e 887 care schedine”,16 scrive a Levi nel giugno dell’anno successivo; tuttavia, al momento di chiudere il lavoro, di copiare le note a macchina e di
consegnarle all’editore, ha dei dubbi, teme di non riuscire a sobbarcarsi
un lavoro che si presenta sempre più oneroso, quindi si rivolge a Marcovecchio per avere un aiuto. Ma la collaborazione, invece di accelerare i
tempi di consegna, complica ulteriormente le cose, alimentando equivoci
e reciproche diffidenze.17
Nell’estate del 1963 i medici consigliano a Linuccia e al marito, Lionello Giorni, una vacanza in montagna, per risolvere alcuni problemi di
13
Aldo Marcovecchio, “L’epistolario di Saba”, Terzo programma, 2, 1961, pp. 125-47.
“Grazie infinite. Lei ha capito quanto piacere mi faccia ogni pietra che si aggiunge alla costruzione dell’Epistolario, e come mi abbia rallegrato in questi anni vederlo crescere,
si può dire, ogni giorno. Per fortuna ho fatto in tempo a inserire le lettere che mi ha mandato: sto facendo ancora l’ultima fatica, la toilette tipografica”. Linuccia Saba ad Alberto
Mondadori, Roma, 20 gennaio 1962 (i), Ame, autori (1).
15
Linuccia Saba a Carlo Levi, Cortina d’Ampezzo, 21 settembre 1962, in Carissimo
Puck. Lettere d’amore e di vita (1945-1969), Carlo Mancosu, Roma 1996, pp. 468-69.
16
Linuccia Saba a Carlo Levi, Roma, 28 giugno 1963, ivi, p. 476.
17
Si vedano, a questo proposito, le lettere che risalgono all’agosto del 1963, in ivi, pp.
478 sgg.
14
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salute. I coniugi trascorrono l’estate a Cortina, senza trascurare l’epistolario. Da questo momento, tuttavia, il lavoro subisce un’ulteriore battuta
d’arresto. L’editore mostra oramai grande impazienza, tanto che Linuccia,
per poter disporre di altro tempo, lascia capire a Mondadori che vorrebbe
liberarsi dall’impegno con Einaudi e dare le lettere alla sua casa editrice.
Grazie a un documento del 6 ottobre 1964 siamo minuziosamente informati sulle sorti del progetto a quella data: Marcovecchio si dichiara non
disponibile ad assumersi i ritmi decisamente impegnativi richiesti da Linuccia (“Mi è assolutamente impossibile venire da lei tutti i giorni per alcuni mesi […] dalle 18 alle 22-23”) e prende apertamente le distanze dai
criteri di edizione adottati fino a quel momento: non è necessario “l’orecchio fine” che Linuccia chiede a Levi di adoperare nella lettura di quelle
pagine per cogliere i “veleni” che vi si insinuano (“D’altronde, lei non deve impressionarsi. Lei, ormai, è ben in grado, per il resto del lavoro da
compiere, di camminare con le sue gambe. Specialmente dopo aver dato
all’Epistolario un’impronta tanto profondamente ‘linucciana’, nelle note,
nell’impianto, in tutto. Il mio occhio di ‘pedante’ può anche limitarsi a
talune indispensabili presenze”).18
Dopo la parziale defezione di Marcovecchio, Linuccia scrive a Carlo
Levi una lettera disperata:
Carissimo,
ti mando la lettera che ho ricevuta da Marcovecchio. Da quando l’ho
avuta sono piombata nella disperazione più nera. Mi pare uno spaventoso
incubo […]. Con quella lettera, ricca solo di sotterranei rancori, a me del
tutto inaspettati, ho perso insieme la possibilità di finire l’Epistolario, con
il suo bell’indice analitico, ecc. (e tu sai quello che quel libro vuol dire per
me) ma anche un amico che consideravo un fratello miracolosamente
piovuto dal cielo. Nello è stanco di vedermi piangere.19
I ritardi nella consegna esasperano, dall’altro lato, Einaudi, tanto che Linuccia si rivoge in prima persona ad Alberto Mondadori in cerca di nuove alleanze:
Caro Alberto,
l’Epistolario è davvero alla sua conclusione e mi piange il cuore pensare di
darlo a chi non credo, purtroppo, lo ami. È stato un lavoro enorme, fatto
18
19
Aldo Marcovecchio a Linuccia Saba, Roma, 6 ottobre 1964, ivi, pp. 543-44.
Linuccia Saba a Carlo Levi, Cortina d’Ampezzo, 13 ottobre 1964, ivi, p. 542.
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con tanto entusiasmo, vorrei vederlo accettato con altrettanto interesse.
Anche perché ora devo decidere tanti ‘piccoli’ ma importanti particolari,
come la scelta dei documenti fotografici, i fac-simili, e la collocazione
delle note e delle testimonianze.20
Carlo Levi intercede perché le lettere passino a Mondadori, che si offre di
pubblicare subito Il vecchio e il giovane, carteggio con Antonio Quarantotti Gambini. Nel marzo del 1964 vengono inserite nell’epistolario le
lettere a Sereni.21 Nel settembre del ’65 Linuccia riceve da Giulio Bollati
la copia del volume destinato a Mondadori. Il 23 giugno 1966, con una
lettera amichevole e molto franca, Giulio Einaudi fa sapere a Linuccia
che non intende accettare nuove dilazioni, liberando entrambi da ogni
impegno riguardante l’epistolario.22 A un anno di distanza, dopo un’interruzione del lavoro di sei-sette mesi per una caduta (nel giugno ’66) che
le aveva provocato la frattura del femore, Linuccia chiede altro tempo. Alberto, a questo punto, è costretto a dare una sorta di ultimatum, per impedire altre dilazioni. Scrive infatti a Marcovecchio: “Lei saprà che Linuccia mi ha scritto per chiedermi di spostare a metà agosto la consegna del
manoscritto dell’Epistolario. / Ho risposto affermativamente nella convinzione che non saremo costretti ad altri rinvii: non appena l’Epistolario
sarà in mie mani passeremo alle elaborazioni redazionali, così che le fasi
di composizione, impaginazione e stampa possano susseguirsi con regolarità e celerità. / Naturalmente con l’agosto cesseranno i compensi per l’Epistolario”.23 La ‘minaccia’ resterà nei fatti lettera morta: il carteggio testimonia come Alberto Mondadori abbia sempre trattato la questione con
la massima delicatezza e comprensione umana.
Il 25 agosto 1967, in occasione delle celebrazioni per il decennale della morte di Saba, Linuccia scrive di aver finito il lavoro, ma di non poterlo consegnare, perché mancano diverse note e perché alcune lettere vanno
riscritte: “sono tutte cincischiate e illeggibili”.24 Nel gennaio successivo
l’epistolario viene acquisito dalla casa editrice e sottoposto a un consulen20
Linuccia Saba a Alberto Mondadori, Roma, 5 marzo 1965 (i), Ame, autori (1).
Vittorio Sereni a Linuccia Saba: “Cara Linuccia, che cosa succede? Mi chiede di mandarle le lettere di Saba per la revisione, io le rispondo che la revisione posso farla io stesso
se lei mi mada la parte di bozze che mi riguarda (e relative note), mi metto cioè a sua disposizione, e lei non mi dice più niente”, Milano, 12 marzo 1964 (i), Ame, autori (1).
22
Giulio Einaudi a Linuccia Saba, Torino, 23 giugno 1966 (i), Ame, autori (1).
23
Da Alberto Mondadori a Linuccia Saba, Milano 20 giugno 1967 (i), Ame, autori (1).
24
Linuccia Saba a Alberto Mondadori, Roma, 25 agosto 1967 (i), Ame, autori (1).
21
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te. La lunga e dettagliata relazione, scrupolosamente stilata da Dante Isella e consegnata il 12 febbraio 1968, contiene un parere molto positivo.
Vale la pena riportarne un ampio stralcio per il valore critico, oltre che
documentario, di cui è portatrice.
Si tratta senza dubbio di una delle più ricche raccolte di lettere di uno
scrittore italiano del Novecento: ricchezza in senso del numero, ma anche
e soprattutto del mondo interiore e fantastico di un poeta tra i più significativi del primo mezzo secolo. Col che intendo rilevare subito che l’interesse di queste lettere non sta, come ci si può attendere dagli epistolari
di altri scrittori, nella somma di elementi che un protagonista della civiltà
letteraria offre, sulla base del suo commercio epistolare, alla curiosità o all’interesse di chi abbia l’occhio al tessuto storico di una certa epoca, di
una certa cultura: dalle lettere di Saba si arriva anche a ricostruire intorno
a lui una zolla della cultura letteraria italiana del suo tempo, ma solo indirettamente e nella misura in cui ogni documento privato dice pure
qualcosa degli altri; però le lettere portano soprattutto a Saba, alla conoscenza della sua storia di uomo e di poeta (come la Storia del Canzoniere
ecc.) in quella forma di autobiografismo superiore, nei momenti più intensi, che è la prospettiva particolare di tutta la sua opera, versi compresi,
anzi soprattutto. E a convalidare questa sostanziale identità tra le lettere
dell’uomo e i versi del poeta concorre anche la qualità della prosa, che
dalla poesia di Saba si differenzia soltanto per un meno di canto, ma già
segnata del suo individualissimo accento, nobile e insieme parlata: certo
uno degli esempi di prosa tra i più difficilmente equilibrati tra antico e
nuovo, la prosa di un grande scrittore.
Da queste premesse il parere che sono chiamato a dare non può essere
che di pieno consenso alla pubblicazione integrale dell’epistolario, anche
per la persuasione mia personale, ma non solo mia, che gli epistolari, se si
pubblicano, hanno da essere i più completi possibili. Farei però eccezione
(tralasciandole affatto o trasponendole, in corpo minore, in una sezione
di lettere d’affari) per le lettere scritte da Saba come libraio antiquario.25
Dopo una riunione a Roma con Carlo Levi, Linuccia Saba e Aldo Marcovecchio, il 13 dicembre 1968, Glauco Arneri presenta alla casa editrice
una relazione di una decina di cartelle sui criteri di edizione, sulla collocazione delle note, degli indici, delle testimonianze.26 Fornisce un dettagliato piano dell’opera, che avrebbe dovuto, nelle intenzioni degli eredi,
25
Dante Isella, Le lettere di Umberto Saba, 12 febbraio 1968 (i), Ame, autori (2). Ringrazio l’autore per avere autorizzato la pubblicazione del testo inedito.
26
Sede, 13 dicembre 1968 (i), Ame, autori (2).
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essere costituita da tre volumi di un’edizione di lusso, oltre a un volume
di guida alla lettura che contenesse l’indice dei corrispondenti, una cronologia di Saba, un indice delle persone, un indice delle opere, un indice
degli argomenti e dei temi, oltre a un’appendice con alcune testimonianze. In una lettera successiva, Linuccia chiede di inserire materiale fotografico. Valutata l’enorme quantità di documenti (5.500.000 battute, quindi
3 volumi di 900 pagine l’uno tipo Pléiade o 2 volumi di 1400 a testa,
esclusi gli apparati)27 e dopo aver constatato che, al tempo in cui il contratto della coedizione Einaudi era stato stipulato (10 settembre 1959) simili proporzioni non erano prevedibili, Sereni parte per Roma nel febbraio del 1969, e porta in dono Il viaggio in Italia di Guido Piovene nei
Quality Paperbacks, per convincere Linuccia a collocare le lettere del padre, almeno in prima battuta, in quella collana, riservandosi di farne
un’edizione di lusso, magari in forma ridotta, in un secondo momento.
In archivio si conservano due lunghissime, indignate risposte di Carlo Levi e di Linuccia,28 redatte a pochi giorni di distanza e coincidenti, in alcuni passaggi, quasi alla lettera. Scrive Levi:
quell’edizione è un orrore, e, nel nostro caso, anche un errore. A parte
che è stampato male, che ha un formato brutto, che basta sfogliarlo perché si sfasci, che la pagina è illeggibile (anche se resa più ariosa da uno
spazio maggiore) è insensata l’idea di far uscire un’opera, che potrà piacere oppure non piacere, ma che è certamente un’opera importante, inedita, in una collana quasi inesistente, valida solo per libri già sfruttati […].
La proposta è addirittura offensiva.
Sereni risponde a Levi con una lettera altrettanto lunga, ma molto pacata,
in cui spiega le motivazioni della proposta, tenendo conto delle richieste
non sempre coerenti pervenutegli fino a quel momento:
La soluzione Quality Paperback è apparsa a tutti più ragionevole e pratica, proprio in rapporto al vostro desiderio di far scendere nettamente il
prezzo di copertina […]. La collezione di tipo Pléiade è ancora da sperimentare. Non possiamo comprometterne il corso iniziale col grosso rischio rappresentato dai due o tre volumi di un Epistolario, anche se questo viene presentato secondo la tua formula, certamente felice, cioè come
“il più grande romanzo italiano moderno in forma epistolare”. Questa
27
Vittorio Sereni a Sergio Polillo, Milano, 18 aprile 1969 (i), Ame, autori (2).
Carlo Levi a Vittorio Sereni, Roma, 21 febbraio 1969 (i); Linuccia Saba a Vittorio
Sereni, Roma, 27 febbraio 1969 (i), Ame, autori (2).
28
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può essere una formula critica, da una parte, e una formula pubblicitaria
dall’altra. In mezzo c’è la realtà dell’opera per quello che essa appare a prima vista, e non si può pretendere di vincere la partita di una nuova, impegnativa e rischiosa collezione al primo colpo e proprio con un’opera in
più volumi che deve già vincere una partita difficile per proprio conto.29
Se la soluzione dei Quality è ritenuta improponibile, prosegue Sereni, che
si riduca allora il libro alle proporzioni di 300-350 pagine. Se l’operazione riesce, si procederà alla pubblicazione integrale. Nonostante la proposta possa apparire sconcentante dopo tutto il lavoro fatto, Sereni la vede
come “garanzia di una più lunga vita” dell’opera.
Linuccia non vuole assolutamente accettare soluzioni alternative, così
Sereni esce momentaneamente di scena. Alberto Mondadori si dedicava,
fin dal settembre del 1967, alla casa editrice Il Saggiatore, e la questione
viene quindi trattata da Giorgio Mondadori, che formalizza le richieste già
avanzate in forma amichevole da Sereni: propone un volume di 800 pagine
circa in edizione di lusso da fare subito, poi l’intero epistolario in una successiva edizione, oltre alla pubblicazione delle Poesie nella nuova collana di
classici che allora veniva provvisoriamente definita “Pléiade”. Chiede inoltre agli uffici amministrativi l’esatto conteggio delle spese sostenute dalla
casa editrice fino a quel momento per i lavori di curatela, a beneficio di Linuccia e Marcovecchio, compresi quelli per l’epistolario, e per gli anticipi
sui diritti dell’opera, fin dai tempi della coedizione. A metà aprile, dopo
aver ricevuto il resoconto, che risulta molto oneroso, cerca di riportare tutta la questione, come aveva fatto a suo tempo Einaudi, nei termini di un
rapporto formale fra editore e autore. Il 18 aprile 1969, Linuccia fa sapere
a Sereni di avere affidato i destini delle opere di Saba a Erich Linder.
Titolare dell’Agenzia Letteraria Internazionale che aveva ‘ereditato’ da
Luciano Foà, Linder era considerato, da oltre un decennio, il ‘principe’ degli agenti letterari, avendo al suo attivo un numero notevolissimo di autori
italiani e stranieri di cui curava gli interessi nei rapporti con gli editori.30
Amato e temuto, severo e infaticabile, si era presentato in una Conversazio29
Vittorio Sereni a Carlo Levi, Milano, 4 marzo 1969 (i), Ame, autori (2).
Fra gli autori, circa 8000, amministrati dall’Agenzia Letteraria Internazionale nell’epoca Linder (dal secondo dopoguerra al 1983), figuravano Brecht, Buzzati, Calvino,
Agatha Christie, Dürrenmatt, Eco, Fenoglio, Hammet, Kafka, Joyce, Mann, Marinetti,
Morante, Musil, Nabokov, Joseph Roth, Philp Roth, Salinger, Singer, Sciascia, Steinbeck,
Vittorini. Si veda, a questo proposito, Erich Linder. Autori, editori, librai, lettori, a cura di
Martino Marazzi, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano 2003, p. 62.
30
L’EPISTOLARIO DI UMBERTO SABA
/ 41
ne con “La Fiera Letteraria”, come una sorta di Robespierre del mercato
editoriale: alla domanda sulle motivazioni che lo avevano spinto a intraprendere il mestiere dell’agente letteraio aveva risposto: “Perché sono un
puritano. Odio l’ingiustizia, i soprusi. E credo che l’autore sia vittima dell’editore. Il mio scopo è difenderne gli interessi”.31 Ricevuto l’incarico di
occuparsi della questione Saba, Linder chiede un rapporto sulla necessità
di un’edizione ridotta. Sereni affida a Edmondo Airoldi, ex collaboratore
del Saggiatore, l’incarico di rivedere tutto il lavoro e di valutare la possibilità di ridurre i materiali esplicitando i criteri. Si produce l’ennesimo documento:32 Airoldi, senza nascondere le difficoltà, consiglia di tagliare le lettere d’affari, le lettere editoriali, quelle a destinatari ‘minori’, le ripetizioni e
le ridondanze, le lettere di ‘routine’, e segnala, a margine, le numerose ingenuità “di tipo sconcertante” nella redazione delle note. In una lunga lettera,33 Linder contesta punto per punto il rapporto Airoldi, chiede che gli
venga inviata una copia dei materiali e anticipa la sua intenzione di chiedere che l’epistolario venga pubblicato nella sua integrità. Dopo aver vagliato
attentamente le migliaia di pagine e le relazioni prodotte nel corso dell’ultimo anno, Linder delinea lo stato delle cose con straordinaria lucidità e finezza di giudizio, tracciando le linee di un possibile accordo:34 i tagli non
sembrano giustificati se non dalla necessità dell’editore di ridurre le pagine
e nessuno dei criteri proposti da Airoldi è dettato da motivazioni intrinseche; nota come le omissioni avrebbero creato problemi nella comprensione
dei rimandi interni, sottolinea il valore delle lettere che riguardano l’attività
della libreria antiquaria e l’edizione dei testi, considerando come improponibile una riduzione del cinquanta per cento e una revisione completa delle note. I rapporti con Linuccia si sarebbero, peraltro, inevitabilmente deteriorati e avrebbero compromesso il buon esito dell’operazione che stava a
cuore a tutti. Si decide, infine, su consiglio dello stesso Linder, per la pubblicazione integrale in due volumi di tutto il materiale, nella collana di cui
si stava mettendo a punto il progetto,35 creando un’apposita sezione, “I
31
Madamina il catalgo è questo. Conversazione con “La Fiera Letteraria” (14 novembre
1968), in Erich Linder. Autori, editori, librai, lettori, cit., p. 27.
32
Si conserva anche una relazione di Giansiro Ferrata, per il Comitato di Lettura, del
13 maggio 1969 (i), favorevole a una pubblicazione in forma ridotta, e se ne cita una, non
presente in archivio, di Fertonani. Ame, autori (2).
33
Erich Linder a Vittorio Sereni, Milano, 22 settembre 1969 (i), Ame, autori (2).
34
Erich Linder a Vittorio Sereni, Milano, 26 novembre 1969 (i), Ame, autori (2).
35
La collana “I Meridiani”, voluta da Arnolodo Mondadori e affidata, per la direzione e
la cura, a Giansiro Ferrata, Sergio Polillo e Vittorio Sereni, nasce in quell’anno.
42 /
NUNZIA PALMIERI
Meridiani - Epistolari, diari e documenti”, che diventerà poi “I Meridiani Diari, memorie e lettere”, nella quale sarebbero uscite, fra le altre cose, anche le Lettere di Joyce. Si prepara un contratto e si sollecita la chiusura dei
progetti rimasti in sospeso: l’edizione critica del Canzoniere,36 un’antologia
di testi poetici destinata agli Oscar e una silloge per le scuole. Viene dunque consegnata a Linuccia la copia di tutto il materiale37 per l’ultima revisione, da ultimarsi entro l’autunno del 1970. Da questo momento in poi
la corrispondenza si dirada fino quasi ad esaurirsi. Nel 1975 muore Carlo
Levi, all’inizio dell’anno successivo Alberto Mondadori. Nell’ottobre del
1976, Linuccia chiede a Giorgio Mondadori di occuparsi personalmente
delle lettere di Saba.38 Le ragioni ‘del cuore’, la grandezza dell’opera, il rispetto per la memoria di Saba sembrano prendere ancora una volta il sopravvento sulle questioni puramente economiche, se si arriva alla decisione
di dare comunque alle stampe, nonstante il mancato rispetto dei termini
contrattuali, un’edizione così difficile e onerosa, preparandone una parte in
bozze. Le difficoltà, legate soprattutto alle cattive condizioni di salute di
Linuccia, furono tuttavia tali anche a quell’altezza che si dovette rinviare a
tempo indefinito la realizzazione del progetto.39
Dopo la morte di Linuccia, avvenuta nel 1980, si è arrivati a un progressivo smembramento del primitivo organismo in una sequenza di frammenti sparsi, alcuni curati con scrupolo e competenza, altri assemblati con
discutibili criteri di edizione. Le scelte antologiche uscite fino ad oggi coprono grosso modo un quarto del materiale originariamente preparato da
Linuccia, e hanno dunque colmato il vuoto solo parzialmente.40 Fra le rac36
L’edizione critica del Canzoniere 1921 uscirà solo nel 1981, dopo la morte di Linuccia, nelle edizioni della Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, a cura di Giordano
Castellani.
37
Da Marco Forti a Linuccia, Saba, Milano, 24 dicembre 1969 (i), Ame, autori (2). Gli
originali restano in casa editrice.
38
Linuccia Saba a Giorgio Mondadori, Roma, 20 ottobre 1975 (i), Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Archivio Storico Ame, Presidenza Giorgio Mondadori, Autori,
Saba, Linuccia.
39
Nel dicembre del 1983, recensendo La spada d’amore, che raccoglie cento lettere selezionate lungo tutto l’arco cronologico coperto dall’epistolario, Giordano Castellani dà ancora una volta come imminente l’edizione, poi più nulla (G. Castellani, “2400 lettere”,
alfabeta, 55, dicembre 1983).
40
Oltre alle raccolte già citate, si possono leggere, in volume: Saba, Svevo e Comisso,
Lettere inedite, a cura di Mario Sutor, Padova: Gruppo di Lettere Moderne (STA, Vicenza), 1968; Umberto Saba, Lettere a un amico vescovo (carteggio con Giovanni Fallani), a cura di Rienzo Colla, Vicenza: La Locusta, s.d. [ma 1980]; Umberto Saba, Atroce paese che
amo. Lettere famigliari (1945-1953), a cura di Gianfranca Lavezzi e Rossana Saccani, Mi-
L’EPISTOLARIO DI UMBERTO SABA
/ 43
colte che hanno catalizzato per ragioni evidenti gli interessi degli studiosi
di Saba ci sono i carteggi con Giacomo Debenedetti, con Sandro Penna,
con Giovanni Comisso, con Antonio Quarantotti Gambini, con Ettore
Serra, con Eugenio Montale, con Aldo Palazzeschi e con Carlo Levi.41
Quasi tutte appartenenti agli anni Cinquanta sono le lettere indirizzate a
Nora Baldi e a Giovanni Fallani.42 Più esili, ma non privi di interesse, i
carteggi con Vladimiro Arangio-Ruiz, Alfredo Rizzardi, Giuseppe Guido
Ferrero, Alberto Carocci, Umberto Fracchia e Francesco Meriano.43
Gianfranca Lavezzi e Rosanna Saccani hanno proposto, nel volume
Atroce paese che amo,44 un nucleo consistente di lettere familiari: sessanta
lano: Fabbri-Bompiani-Sonzogno, 1987; Umberto Saba, Lettere sulla psicoanalisi. Carteggio con Joachim Flescher (1946-1949), a cura di Arrigo Stara, Milano: Studio Editoriale,
1991; Umberto Saba, Lettere a Sandro Penna (1929-1940), a cura di Roberto Deidier,
Milano: Rosellina Archinto, 1997; Umberto Saba, Quante rose a nascondere un abisso.
Carteggio con la moglie (1905-1956), a cura di Raffaella Acetoso, introduzione di Antonio
Debenedetti, Lecce: Manni, 2004.
41
Giacomo Debenedetti, “Lettere di Umberto Saba”, Nuovi Argomenti, 41, novembredicembre 1959, pp. 1-32; R. Tordi, “Lettere inedite di Umberto Saba a Giacomo Debenedetti”, in Il diadema di Toth, Roma: Edizioni dell’Ateneo, 1981; Aglaia Paoletti, “Gli anni
del Canzoniere (1922-1924: Lettere a Piero Gobetti, Giacomo Debenedetti, Giovanni Papini)”, Nuova Antologia, 126, 1991, pp. 203-41; Aglaia Paoletti, “La crisi di una generazione nel carteggio di Saba (1925-1926: Lettere inedite a Montale, Debenedetti, Prezzolini,
Ojetti)”, Nuova Antologia, 126, 1991, pp. 394-451; Umberto Saba, Lettere a Sandro Penna,
cit.; Saba, Svevo e Comisso, Lettere inedite, cit.; Umberto Saba e Pier Antonio Quarantotti
Gambini, Il vecchio e il giovane, cit.; E. Serra, “Lettere di Umberto Saba a Ettore Serra e altre lettere di Saba a Serra”, in Il tascapane di Ungaretti. Il mio vero Saba e altri saggi, Roma:
Edizioni di Storia e Letteratura, 1983, pp. 68-101 e 199-207; Maria Antonietta Grignani,
“Lettere di Umberto Saba a Eugenio Montale”, Autografo, 1:3, ottobre 1984, pp. 57-73;
Adele Dei, “Saba a Palazzeschi. Lettere 1911-1934”, Studi italiani, 6:2, luglio-dicembre
1994, pp. 147-67. Una scelta delle lettere a Carlo Levi si trova nel volume di Silvana
Ghiazza, Carlo Levi e Umberto Saba. Storia di un’amicizia, Bari: Dedalo, 2002.
42
Umberto Saba, Lettere a un’amica, cit.; Id., Lettere a un amico vescovo, cit.
43
Antonio Pinchera, “Carteggio Saba-Arangio Ruiz (1948)”, Il Bimestre, 14, maggioagosto 1971, pp. 18-26; Alfredo Rizzardi, “Palinsesti sabiani: alcuni (pre)giudizi di Umberto Saba su poeti stranieri”, Spicilegio Moderno, 8, 1977, pp. 65-86; Elvira Favretti, “Diciannove lettere inedite di U. Saba (carteggio con Giuseppe Guido Ferrero)”, Giornale
Storico della Letteratura Italiana, 94:154, 1977, pp. 428-45; G. Manacorda (a cura di),
Lettere a Solaria (carteggio Umberto Saba-Alberto Carocci), Roma: Editori Riuniti, 1979;
Ernesto Citro, Saba e i contrastati rapporti con la “Fiera” di Fracchia (carteggio inedito con
Umberto Fracchia), Nuova Rivista Europea, 4:19-20, ottobre-dicembre 1980; Francesco
Meriano, Con Saba (1914-1926), in Gloria Manghetti, Carlo Ernesto Meriano e Vanni
Scheiwiller (a cura di), Arte e Vita, con tre carteggi di Umberto Saba, Eugenio Montale,
Gabriele D’Annunzio, Introduzione di Giorgio Luti, Milano: Scheiwiller, 1982.
44
Umberto Saba, Atroce paese che amo, cit.
44 /
NUNZIA PALMIERI
epistole alle ‘Line’, scelte fra le trecentocinquanta unità conservate dal
Centro Manoscritti di Autori Antichi e Moderni di Pavia, in un’edizione
rigorosamente condotta sugli autografi. Non si deve pensare che le familiari siano meno interessanti, sul piano culturale, delle lettere agli scrittori, perché Saba ha considerato prima la moglie, poi, a partire dal secondo
dopoguerra, la figlia (dal ’46 in avanti sua infermiera, segretaria, editor,
correttrice di bozze, addetta stampa) le sue prime lettrici e ‘biografe’. Alle
preoccupazioni per il quotidiano vivere, al racconto dei malanni e dei
guai economici si affiancano, nelle lettere a Lina, progetti di scrittura,
prime stesure di materiali poi corretti e pubblicati con varianti. Attraverso le familiari conosciamo letture, passioni, amicizie: grazie al carteggio
edito da Raffaella Acetoso in Quante rose a nascondere un abisso,45 che include per la prima volta le lettere di Lina a Saba, è possibile ricostruire alcuni frammenti dell’amicizia con Federico Almansi.
Un discorso a parte meritano le Lettere sulla psicoanalisi, a cura di Arrigo Stara,46 che costituiscono una scelta coerente, con una fisionomia riconoscibile e un interesse scientifico indiscusso. Il carteggio con Flescher,
a cui si aggiungono alcune lettere di e a Weiss, permette infatti di ricostruire l’itinerario di avvicinamento alla psicoanalisi e i suoi riflessi nella
scrittura. Com’è noto Saba riponeva grandi speranze nella cura con
Weiss, del quale ebbe subito una stima profonda che conservò per tutta la
vita. Anche se l’analisi non si poté considerare riuscita, Saba affermò in
più occasioni di avere ricavato da quelle sedute, oltre a una riconosciuta
“chiarificazione interna”, uno strumento privilegiato per rileggere la propria storia personale e il lungo percorso poetico, che si aprirà a nuovi spazi espressivi con soluzioni stilistiche inattese:47 Saba parlerà di un “illimpidimento della forma”, sfociato nel miracolo delle nuove poesie, da Parole
ai versi di Uccelli. Quasi un racconto, e affiderà a Freud e a Nietzsche il
ruolo padri elettivi nelle prose delle Scorciatoie.
Possiamo infine provare ad immaginare di mettere idealmente in sequenza, ordinandole cronologicamente, tutte le lettere che fino ad oggi
sono state pubblicate in volume, in rivista o in sedi occasionali: ci troveremo di fronte senza dubbio a una straordinaria raccolta di documenti,
45
Umberto Saba, Quante rose a nascondere un abisso, cit.
Umberto Saba, Lettere sulla psicoanalisi, cit.
47
Per una lettura delle opere di Saba alla luce della psicoanalisi si rimanda a Mario Lavagetto, La gallina di Saba, Torino: Einaudi, 1974 (nuova edizione ampliata, 1989).
46
L’EPISTOLARIO DI UMBERTO SABA
/ 45
che tuttavia, per motivi ovvi, non possono restituire la fisionomia di un
corpo nella sua integrità. Lo stesso materiale preparato da Linuccia può
funzionare come bussola per muoversi fra le carte di Saba, ma non potrebbe, di per sé, fornire testi completamente attendibili per una pubblicazione integrale delle lettere. Oltre alle omissioni di cui si è detto, vanno
considerati i tagli a volte minimi a volte consistenti di Linuccia, giustificati dal desiderio di consegnare ai lettori un ritratto del padre privo di
ombre.
Per un autore che ha fatto del rapporto fra poesia e biografia un coefficiente della sua poetica, l’edizione dell’epistolario resta un nodo difficilmente eludibile. Perché il progetto di Linuccia possa essere realizzato non
si può dunque che ripartire da un lavoro preliminare di ricerca, schedatura e trascrizione dei materiali autografi, in attesa di un coraggioso quanto
necessario progetto editoriale.
§
3
Marco Tomassini
Il viaggio dell’eroe
Luther Blissett e le epifanie del molteplice
Innervato da una fluidità che ne ha caratterizzato l’agire e al tempo stesso
ha frustrato i tentativi di determinarne l’identità, nel quinquennio tra il
1994 e il 1999 Luther Blissett è stato un enigma, sospeso tra vero e falso,
reale e simulacrale. Alla sua base la prassi del nome multiplo ereditata da
una tradizione di movimenti ‘anti-artistici’,1 della quale si possono rintracciare precedenti illustri che vanno da Spartaco a Ermete Trismegisto,
da Christian Rosenkreuz a Fulcanelli fino a Buddha.2 Si tratta della creazione di un’identità collettiva, una metaforica maschera liberamente indossabile e generatrice di un duplice effetto: impedire l’individuabilità di
chi la veste e permettere a chiunque di inscriversi nella fama del personaggio sovra-individuale, che a sua volta non risulta quindi identificabile
con nessuno di coloro che ne condividono le ‘fattezze’.
Luther Blissett, già calciatore inglese di origini giamaicane noto per la
sua sfortunatissima esperienza italiana nella stagione 1983-84,3 è dunque
la firma posta in calce alle eterogenee esperienze vissute da chi ne ha condiviso negli anni il progetto, che prevedeva il lancio nel mainstream di un
1
Si fa riferimento ai quei movimenti (Dada, Lettrismo, Situazionismo, Mail Art, Neoismo e altri ancora) di cui Stewart Home parla nel suo The Assault on Culture: Utopian
Currents from Lettrisme to Class War (1991), trad. it. Assalto alla cultura. Correnti utopistiche dal lettrismo a class war, a cura di Luther Blissett, Bertiolo: AAA, 1993. Movimenti che,
nel corso del ventesimo secolo, rifiutando qualsiasi specializzazione si muovono liberamente tra arte, politica, architettura e urbanistica.
2
È lo stesso Luther Blissett a passare in rassegna i precedenti leggendari del ‘nome multiplo’ in Totò, Peppino e la guerra psichica 2.0, Torino: Einaudi, 2000, pp. 12-13. D’ora innanzi, la sigla TP farà riferimento a questo volume.
3
La scelta sarebbe caduta sul nome di Luther Blissett proprio per le caratteristiche ‘sovversive’ del calciatore (che nella sua proverbiale incapacità sembrava, volendo, giocare per
gli avversari), ma anche per l’assonanza con l’inglese looter bliss, razziatore, plagiario felice.
PARAGRAFO III (2007), pp. 47-65
48 /
MARCO TOMASSINI
misterioso personaggio nato ‘dal basso’, da un network di “‘artisti’ senza
opere, attivisti post-politici, operatori di media indipendenti come radio,
BBS, ecc.” (TP, p. 11), ma disponibile a essere ‘incarnato’ da chiunque.
Un personaggio che, facendo leva sull’elusività garantita dal nome multiplo, avrebbe potuto costruire la propria reputazione scavalcando i recinti
rappresentati dai marchi, dai diritti d’autore e più in generale da tutto ciò
che impediva la libera circolazione di idee e conoscenze. Colossale ‘scatola
vuota’, Luther Blissett avrebbe infatti potuto riempirsi illimitatamente,
plagiando, contaminando e rimettendo in circolo storie e saperi, moderno Robin Hood della comunicazione. Ma il progetto prevedeva anche
che un simile personaggio, dapprima virtuale, divenisse a poco a poco
sempre più reale, guadagnandosi un ‘peso specifico’ crescente nel panorama culturale italiano e internazionale. L’obiettivo era infatti quello di far
sì che Blissett, al termine del quinquennio, acquisisse una fama tale da
potervisi insediare stabilmente, avendo così la possibilità di introdurvi
elementi di novità che contribuissero col tempo a modificarlo.
A questo scopo, evadendo i fisiologici limiti di una cultura underground
e rifiutando la coagulazione entro i confini dell’arte, Luther adotta uno stile
‘tattico’,4 diffondendosi tra le maglie di quell’overground dei media e della
cultura pop da cui desidera essere ‘recuperato’, e del quale si studiano tutte
le possibili ‘falle’ da sfruttare a proprio vantaggio. In quella che si configura
come una vera e propria “guerriglia mediatica”,5 fatta di beffe clamorose e
azioni eclatanti, i mezzi di comunicazione vengono così cooptati in un gioco che ha come obiettivo proprio la diffusione e il propagarsi della fama di
Luther Blissett. Ma negli anni nessuna lettura del progetto sembra in grado
di esaurirne i contenuti, e nel momento in cui si suppone di averne definito la ‘fisionomia’, il suo ‘volto’ e la sua firma riappaiono sotto altre vesti.
La difficoltà di risalire a un’identità, fisica o teorica, del progetto, non
4
Si fa riferimento alla definizione di ‘tattica’ come “azione calcolata che determina l’assenza di un luogo proprio”, formulata da Michel De Certeau in L’invention du quotidien
(1974), trad. it. di Mario Baccianini, L’invenzione del quotidiano, Roma: Edizioni Lavoro,
2001, pp. 73-75. D’ora innanzi la sigla IQ rinvia a questo volume.
5
Luther Blissett la definisce “metodo omeopatico di difesa dall’ingerenza/presenza dei
media nell’immaginario collettivo e nella nostra vita. Rivoltando contro i media le loro
stesse armi […] si pubblicizza un nuovo modo di fruire i media, interattivo e paritario, in
cui la potenza dei grandi mezzi di comunicazione di massa viene ridimensionata” (TP, pp.
29-32). Gli operatori di stampa e tv vengono beffati di continuo, tanto che la reputazione
del ‘terrorista mediatico’ cresce al punto tale da vedersi attribuire azioni che non ha mai
effettivamente compiuto.
IL VIAGGIO DELL’EROE
/ 49
viene diminuita nemmeno dalla comunicazione ‘in positivo’ attuata dalla
strana creatura multipla, articolata anch’essa in una molteplicità di forme:
col suo nome vengono condotte campagne di controinformazione, pubblicati libri, fanzine e manifesti, realizzate trasmissioni radiofoniche e
performance teatrali.6 Ogni manifestazione contribuisce ad arricchire la
proteiforme fisionomia di Blissett, che a sua volta mette in pratica una
continua auto-storicizzazione in cui ‘lui stesso’ racconta le proprie multiformi epifanie, pubblicizzandole e invitando a prendere parte al progetto. Col tempo dunque la fama di Luther Blissett assume una ‘consistenza’
sempre maggiore, pronta, allo scadere del quinquennio previsto, a essere
definitivamente spesa per consentire a chi ha preso parte al progetto di fare il proprio ingresso nel mainstream.
L’occasione si presenta quando nel 1999 Einaudi gli offre la possibilità
di pubblicare un volume: contro ogni aspettativa, alla casa editrice viene
proposto Q, ponderoso romanzo storico ambientato nel sedicesimo secolo, la cui trama si offre anche come una sorta di allegoria delle esperienze
vissute all’insegna del nome multiplo. Grande successo editoriale, il volume come previsto segna anche la fine del progetto, che non avrebbe comportato la dissoluzione del personaggio Luther Blissett, quanto piuttosto
il metaforico suicidio7 dei suoi partecipanti ‘storici’, che avrebbero smesso
di utilizzarne la firma per avviare una nuova fase della ‘lotta’: non più dai
margini ma direttamente dal cuore dell’industria culturale.8
6
Per un quadro completo delle forme prese dal progetto si veda il sito-archivio
<www.lutherblissett.net>.
7
Luther Blissett lo definisce col termine giapponese seppuku, suicidio rituale in cui un
secondo officiante decapitava il primo dopo che questi si fosse già inferto una ferita mortale. Allo stesso modo, come spiega lui stesso, chi in futuro avesse adottato il nome multiplo, arricchendolo di nuove esperienze, avrebbe contribuito alla simbolica ‘decapitazione’
dei primi partecipanti al progetto (TP, pp. 7-9).
8
La fama di Luther Blissett è stata spesa in modi diversi, ma certamente l’esperienza
più nota è quella di Wu Ming, ‘atelier narrativo’ di cui fanno parte i quattro autori di Q e
un quinto membro. Il rifiuto dell’ideologia del genio autoriale, la prassi scrittoria di tipo
collettivo e ‘artigianale’, la continua presenza presso le comunità dei lettori, le tante iniziative a favore della libera circolazione dei saperi, i successi editoriali (per citarne solo due,
54 e l’ultimo Manituana, esperimento concreto di transmedia storytelling, narrazione al
cui ‘mosaico’ contribuiscono tanti diversi segmenti autonomi articolati su più piattaforme
mediali), oltre a tanti altri motivi, ne fanno uno dei ‘casi’ più rilevanti nel panorama culturale degli ultimi anni, esempio pratico di come l’esperienza del Luther Blissett Project,
una volta infiltratasi nel mainstream, abbia contribuito concretamente a modificarla. Per
ulteriori informazioni si veda il sito <www.wumingfoundation.com> e Wu Ming, giap!, a
cura di Tommaso De Lorenzis, Torino: Einaudi, 2003.
50 /
MARCO TOMASSINI
Questa, sommariamente, la parabola tracciata da Luther Blissett nella
seconda metà degli anni Novanta. Tuttavia, se si desidera analizzare più in
profondità il modo in cui il progetto è stato realizzato e come abbia avuto
successo, uno dei tanti percorsi che è possibile seguire conduce indietro
nel tempo, fino al sedicesimo secolo, e più precisamente al periodo compreso tra il 1556 e il 1558. In quegli anni si colloca infatti il viaggio di
Jean De Lery, descritto da Michel De Certeau come un precursore della
moderna etnologia, alla ricerca di una terra dove realizzare il “linguaggio
di una convinzione nuova (riformata)”,9 e prototipo di quella ‘operazione
scritturale’ che il filosofo francese colloca alla base della formazione del sistema moderno e occidentale.
L’invenzione dell’‘altro da sé’
Jean De Lery, scrive De Certeau, lascia la Francia alla volta del Brasile allo scopo di dare vita a un “rifugio calvinista” (EH, p. 219) nel Nuovo
Mondo, pellegrinaggio alla rovescia dal centro della nascente modernità
verso i suoi margini più estremi. Tornato in Francia, a poco più di venti
anni di distanza egli porta a termine la sua Histoire d’un voyage faict en la
terre du Brésil, allo stesso tempo racconto di viaggio e, come lo definisce
Lévy-Strauss, “breviario dell’etnologo”.10 La storia segue un andamento
circolare: a partire da una netta distinzione tra un ‘qui’ (la Francia, l’Occidente) e un ‘là’ (il Brasile, il Nuovo Mondo), che rimanda a una
profonda frattura tra il soggetto che scrive e l’oggetto della scrittura, “[i]l
racconto produce un ritorno da sé a sé attraverso la mediazione dell’altro” (p. 222). A permettere e a produrre tale separazione è proprio il possesso di uno strumento “che mette immediatamente in causa un rapporto di potere” (p. 225), ovvero la scrittura medesima, decisiva nel caratterizzare e distinguere chi ne fa uso (De Lery) da chi ne è privo (la tribù
Tupi con cui viene in contatto), chi osserva da chi è osservato, chi letteralmente ‘fa la storia’ da chi consente alla storia di ‘essere fatta’. De Certeau in particolare le attribuisce due proprietà: quella di conservare e
quella di superare le distanze. La prima, in virtù dell’isolamento dal reale
consentito dalla pagina bianca, preserva tanto l’identità del soggetto che
9
Michel De Certeau, L’Écriture de l’histoire (1975), trad. it. La scrittura della storia, a
cura di Silvano Facioni, Milano: JacaBook, 2006, p. 220. D’ora innanzi, EH.
10
Claude Lévi-Strauss, Tristes Tropiques (1955), trad. it. di Bianca Garufi, Tristi Tropici,
Milano: Il Saggiatore, 2004, p. 77.
IL VIAGGIO DELL’EROE
/ 51
scrive (che non si contamina, non partecipa dell’oggetto della propria
analisi), quanto la presunta verità dei contenuti. La seconda permette
una colonizzazione dello spazio, grazie alla capacità di raggiungere destinatari e obiettivi a prescindere dalla presenza fisica di chi scrive. La scrittura è “nella mano, […] ‘spada’ che prolunga il gesto ma non ne modifica il soggetto” (p. 226).
Di fronte allo sguardo e alla penna di De Lery si staglia dunque l’orizzonte del mondo Tupi, radicalmente ‘altro’ rispetto al suo osservatore, caratterizzato da un’oralità che inevitabilmente si colloca agli antipodi rispetto alla scrittura dell’occidentale: la parola né conserva, indissociabile
dall’atto della sua enunciazione e dunque destinata a perdersi non appena
pronunciata, né produce verità, essendo irriducibilmente molteplice e dinamica, contaminabile e non astraibile dal flusso in cui viene calata. De
Certeau racconta come tutti i primi capitoli dell’Histoire vengano impiegati proprio per rimarcare tale differenza, frattura apparentemente insanabile, “faglia tra il Vecchio e il Nuovo” (p. 229): dalle creature che ne
abitano la natura alle usanze che caratterizzano il vivere sociale della
tribù, ogni elemento rinvia a una diversità o a una dissomiglianza rispetto
al luogo di provenienza ‘civilizzato’ dello scrittore, organizzando così con
uno scavo del ‘solco’, una netta separazione tra sé e altro da sé, il movimento di andata del simbolico viaggio scritturale da lui riprodotto. Ma
viene messo in luce anche come “il lavoro di ricondurre la pluralità dei
percorsi all’unicità del centro produttore [sia] proprio quello che viene effettuato dal racconto di Jean De Lery” (p. 228). A poco a poco, ciò che a
un primo sguardo era avvertito e descritto come assoluta e irriducibile alterità viene riportato a una sostanziale uniformità: “Una parte del mondo
che sembrava radicalmente altro è ricondotta allo stesso attraverso l’effetto
di sfalsamento che disloca la diversità per farne un’esteriorità dietro cui si
può riconoscere un’interiorità, l’unica definizione dell’uomo” (p. 231). In
virtù della posizione esterna al proprio oggetto di studio consentitagli
dalla pratica stessa della scrittura, De Lery è in grado, capitolo dopo capitolo, di mettere ‘in piano’ l’universo Tupi, rendendolo visibile attraverso
la sua circoscrizione. L’osservazione e la penna dell’occidentale possono
così iniziarne un processo di segmentazione che ne frantuma la continuità e ne smembra l’armonia, cui fa seguito una classificazione di taglio
enciclopedico che minuziosamente ne elenca i singoli frammenti. L’autore sottopone ciascuna di queste sezioni prima a un’analisi e quindi a una
rigorosa traduzione, che ignora la relatività della propria operazione e
52 /
MARCO TOMASSINI
che, nel leggere il mondo dei Tupi, finisce in effetti col ri-scriverlo alla luce di una ‘verità’, quella occidentale, che non viene né contaminata né
messa in discussione dal contatto con l’altro. Tutte le differenze di cui De
Lery si era stupito e le meraviglie da cui era rimasto incantato svaniscono
di fronte all’insistenza di una ‘pulsione scopica’ che lo spinge a portare alla luce la ‘verità’ dietro le apparenze: la falsa natura in cui sono immersi i
Tupi viene valutata in base a quella che si ritiene la ‘vera natura’ dell’Uomo, la società civile (“Alla fine è la natura a essere l’altro, mentre l’uomo è
lo stesso”; p. 231); animali e piante vengono classificati in base a un criterio di utilità che ne giudica la commestibilità; i miti e più in generale l’intero sistema delle conoscenze Tupinamba diventano favole che necessitano di un’interpretazione senza la quale ‘non sanno ciò che dicono’. Nel
testo di De Lery la stessa iniziale alterità Tupi non esiste dunque più, e
con essa la sua dignità e la sua autonomia, poiché l’esito del viaggio scritturale non è l’incontro con un altro da sé, bensì la sua produzione: l’“invenzione del selvaggio” (p. 220).
Al riparo nell’isolamento della pagina bianca, fisicamente e cronologicamente distante dall’oggetto della sua scrittura, il viaggiatore, scrittore e
proto-etnologo De Lery porta dunque a termine il moto di ‘ritorno a se
stesso’ senza che l’esperienza vissuta sembri averlo scalfito minimamente,
irrimediabilmente estraneo a un altro ‘prodotto’ e quindi utilizzato al solo
fine di dare effettività al proprio linguaggio, ulteriore supporto e conferma della verità di chi scrive.
Il mito di Luther Blissett
La vicenda di Jean De Lery può essere rappresentativa della progressiva
affermazione di quanto che Michel De Certeau pone a fondamento della
modernità, ovvero il “mito della scrittura”,11 pratica in grado di riarticolare in base alle proprie procedure l’intera struttura della società occidentale, frantumando l’universalità di un discorso ‘ricevuto’ in una costellazione di ‘isole’ autonome. Entro i confini astratti garantitigli dalla pagina
bianca, l’individuo non condivide più il senso di un messaggio identifica11
“Intendo per mito un discorso frammentato che si articola sulle pratiche eterogenee
di una società e le articola simbolicamente. Nell’Occidente moderno questo ruolo non è
più svolto da un discorso ricevuto, bensì da un discorso che è una pratica: scrivere. L’origine non è più ciò che si racconta ma l’attività multiforme e mormorante che produce il
testo e crea la società come testo” (IQ, p. 198).
IL VIAGGIO DELL’EROE
/ 53
torio che lo armonizzi con la società e la natura,12 per trasformarsi in
creatore ex-nihilo di un linguaggio e di un testo ‘originali’. Testo che, per
essere credibile, deve parlare in nome del reale, ovvero deve incarnarsi, inscrivendosi su un corpo, su un altro da sé, che, diventandone “legge istoriata e storicizzata” (IQ, p. 214) e quindi ‘recitandolo’, ne renda immediatamente evidente la veridicità.
Il viaggio scritturale di De Lery era dunque destinato, con l’avanzare
della modernità, a essere replicato indefinitamente, riproducendone e al
contempo confermandone un modello leggibile in una pressoché inesauribile molteplicità di esperienze, e che risulta determinante anche per comprendere il modo in cui, a secoli di distanza, si sia sviluppato il Luther
Blissett Project. Una simile affermazione potrà essere forse più chiara dopo
averne analizzato una delle prime epifanie, che lo vede protagonista di una
beffa giocata nel 1994 ai danni de Il Resto del Carlino. Tra la primavera e
l’estate di quell’anno infatti la redazione del giornale emiliano si vide recapitare una grande quantità di lettere, scritte da cittadini bolognesi indignati per i continui ritrovamenti di interiora di animali in vari luoghi pubblici
della città. Altri asserivano di aver assistito alla truculenta performance di
un attore che, in pieno centro storico, fintosi preda di un attacco di convulsioni, aveva lasciato scivolare dalla camicia un sanguinolento intestino
di vitello. Pagine e pagine del giornale si riempirono così di ipotesi e interpretazioni, cui contribuirono anche storici dell’arte, sociologi e psicologi:
ne nacque un acceso dibattito che si concluse solo dopo qualche mese con
l’attribuzione dei macabri eventi a un oscuro ‘fenomeno’, espressione di
una nuova tendenza riconducibile all’alveo dell’arte contemporanea, battezzato col bizzarro nome di “orrorismo” (TP, pp. 24-25).
È facile individuare in questa vicenda analogie con quella che vede
protagonista De Lery. Vi compaiono infatti degli individui che producono un testo la cui verità si fonda sul (presunto) ‘corpo’ di un’alterità, cioè
su qualcosa di oscuro, di esorbitante rispetto al quotidiano, di non immediatamente traducibile nei termini di un linguaggio conosciuto, e che
proprio per questo è in grado di attirare l’attenzione dei mezzi di comunicazione, dando l’avvio a un contemporaneo ‘viaggio scritturale’. Viaggio al termine del quale, anche in questo caso, ciò che appare altro è pre12
Tra i tanti autori che hanno affrontato l’argomento, si fa riferimento in particolare a
quanto Joseph Campbell scrive a proposito della funzione del mito, capace di armonizzare
l’individuo nella società e questa nell’ambiente, in The Power of Myth (1988), trad. it. di
Agnese Grieco e Vittorio Lingiardi, Il potere del mito, Milano: TEA, 2000, pp. 61-96.
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MARCO TOMASSINI
sto tradotto alla luce della propria verità e delle proprie convinzioni: i resti e le performance vengono isolati, ricondotti e delimitati entro i confini rassicuranti dell’arte, e allo stesso tempo viene prodotto un fenomeno
‘orrorista’ la cui esistenza, al di fuori del linguaggio e del discorso che lo
partoriscono, è tutt’altro che certa, vero e reale per il solo fatto di essere
reso tale dalla parola. L’unica sostanziale differenza rispetto all’esperienza
di De Lery sembra essere la direzione presa dal ‘viaggio’, che non conduce
più verso un Nuovo Mondo da tradurre o civilizzare, ma si indirizza piuttosto verso i coni d’ombra, gli interstizi di un quotidiano sempre più pervaso dall’incessante attività di quella che in L’invention du quotidien De
Certeau definisce “economia scritturale”, resasi nel tempo indipendente
tanto dalla volontà dei singoli quanto da un effettivo rapporto con il reale, meccanismo celibe quanto i macchinari partoriti dall’immaginazione
di Marcel Duchamp o Franz Kafka.13 Se i suoi ingranaggi dunque si
estendono al punto da non lasciare più spazio a una terra nullius da colonizzare, il viaggio verso l’alterità si rivolge necessariamente a quei margini, a quelle fessure, a quegli spazi di gioco nel quotidiano dove una certa
libertà di movimento è ancora possibile. ‘Gioco’ inteso come “libertà all’interno del rigore stesso, affinché questo acquisisca o conservi la sua efficacia”,14 ma anche come assoluta, fisiologica improduttività, nettamente
disgiunta dal ‘resto’ della vita quotidiana.
L’Altro, ciò che è oscuro e che attira lo sguardo, trova dunque il proprio campo di azione proprio in quegli spazi, in quella penombra ineliminabile e comunque funzionale all’economia scritturale, assumendo al
contempo la fisionomia di un’attività inutile al lavoro che la caratterizza,
facilmente individuabile entro i confini di un ambito destinato a non incidere nel reale. Appunto, la fisionomia di un gioco. È d’altra parte lo
stesso De Certeau a scrivere di come il viaggio di De Lery produca, accanto a un’“invenzione del selvaggio” (EH, p. 220), una sua “estetizzazione” (EH, p. 240): esposti all’osservazione, i Tupi vengono ricodificati in
base a un discorso occidentale improntato alla produttività, anche se la
loro alterità non è del tutto traducibile: “Il profitto ‘riportato’ dalla scrit13
Il riferimento è a Le Grand Verre: la Marièe mise à nu par ses célibataires, même di Duchamp e alla ‘macchina’ descritta da Kafka nel racconto In Der Strafkolonie, “miti di una
reclusione nelle operazioni di una scrittura che si forgia indefinitamente e incontra sempre e soltanto se stessa” (IQ, p. 216).
14
Roger Caillois, Les jeux et les hommes (1967), trad. it. di Laura Guarino, I giochi e gli
uomini, Milano: Bompiani, 2004, p. 8.
IL VIAGGIO DELL’EROE
/ 55
tura sembra ritagliare un ‘resto’ che definirà anche il selvaggio e che non
si scrive. Il piacere è la traccia di questo resto, […] una ricaduta, un residuo che [la scrittura] produce con successo ma a cui non mirava. […] La
figura dell’altro, eliminata dal sapere oggettivo, ritorna sotto un’altra forma ai margini di questo sapere” (EH, pp. 238-39).
Il gioco, la festa, la favola, il canto, l’arte e più in generale l’oralità (nel
senso di ‘ciò che non è scritto’ e di conseguenza non ha né un’identità né
un ‘luogo’ definiti)15 rappresentano dunque “l’incredibile contrapposto
alla credenza religiosa, l’irrazionale in antitesi alla ragionevolezza, il selvaggio come rovescio del vivere civile”.16 Marcel Detienne scrive queste
parole in riferimento al mito, delineando un atteggiamento che considera
tipico di tutte le società in cui si sia passati da una cultura ‘tradizionale’,
ossia fondata su una memoria collettiva i cui saperi erano “tessuti tra la
bocca e l’orecchio”,17 a una ‘scritturale’, dove la molteplicità costitutiva
del mito, una volta messa in piano e resa visibile attraverso la scrittura,
non può che apparire incoerente, falsa e bisognosa di un’interpretazione
che ne porti alla luce il senso, l’unica verità possibile.
Ma, nel caso dell’‘orrorismo’ e in molti altri a venire, il vero e il falso
erano destinati a sovrapporsi, generando una confusione dietro cui si sarebbe delineata la fisionomia di Luther Blissett. Sua era infatti la firma
apposta alla rivendicazione giunta alla redazione de Il Resto del Carlino sul
finire dell’estate del 1994, in cui veniva resa disponibile la ricostruzione
dell’intera vicenda: l’orrorismo, a eccezione di un paio di performance,
non esisteva, era falso, in tutto e per tutto creatura della stampa, e le stesse lettere dei cittadini si rivelavano opera degli orroristi medesimi. Il risultato immediato della rivendicazione era evidentemente la messa a nudo
del funzionamento ‘celibe’ del meccanismo scritturale: senza il supporto
fornitogli dall’altro, il discorso scritto si mostrava in tutta la propria autoreferenzialità, pura produzione di linguaggio privo di qualsiasi aggancio al
reale. Il viaggio di chi scriveva non poteva quindi concludersi, ma proseguiva indefinitamente lungo una retta destinata a non uscire mai dalla
propria astrattezza, mentre ciò che era stato scritto e si era supposto ‘vero’
15
Il termine ‘luogo’ è utilizzato in quanto “ordine secondo il quale degli elementi vengono distribuiti entro rapporti di coesistenza […] gli uni a fianco degli altri, ciascuno situato in un luogo ‘autonomo’ e distinto” (IQ, p. 175).
16
Marcel Detienne, L’invention de la mythologie (1981), trad. it. di Flavio Cuniberto,
L’invenzione della mitologia, Torino: Boringhieri, 1983, p. 34.
17
Ivi, p. 107.
56 /
MARCO TOMASSINI
assumeva una connotazione simulacrale. Si metteva insomma in luce il
potere dei media di istituire la realtà, “da[ndo] a vedere precisamente ciò
in cui bisogna[va] credere” (IQ, p. 263).18
A sua volta Luther Blissett, misterioso autore della beffa, attirava su di
sé l’attenzione, diventando oggetto di analisi e interpretazioni destinate,
col passare degli anni e con l’accumularsi delle sue manifestazioni, a moltiplicarsi esponenzialmente. Nel 1995, per esempio, fece in modo che la
nota trasmissione televisiva Chi l’ha visto? si interessasse a Harry Kipper,
fantomatico artista inglese misteriosamente scomparso nel nord Italia durante un giro in bicicletta. Coordinando diverse ‘sezioni’ del Luther Blissett Project (divise tra Bologna, Udine e Londra), fu fornito ai giornalisti
inviati dal programma un ritratto coerente e dettagliato del personaggio,
la cui eccentricità contribuì ad attirarne l’attenzione, coinvolgendoli per
settimane in un vorticoso gioco di indizi, segnalazioni e possibili piste.
Solo pochi giorni prima della messa in onda, la redazione della trasmissione venne informata che Harry Kipper di fatto non esisteva: si trattava
di un personaggio inventato da un gruppo di persone di diversa nazionalità, che agivano sotto la sigla comune ‘Luther Blissett’ e che, poco dopo,
avrebbero ricostruito l’intera vicenda attraverso un comunicato stampa
inviato a diversi quotidiani nazionali. Gli stessi che, a un anno di distanza, si videro recapitare la rivendicazione di una beffa ai danni di Mondadori. La casa editrice aveva appena dato alle stampe net.gener@tion, una
raccolta di saggi e di articoli attribuiti a Luther Blissett. Nel comunicato
firmato con il nome multiplo, inviato alla stampa in concomitanza con la
messa in vendita del libro, si leggeva che quanto pubblicato era il risultato del collage dei testi più banali e scadenti allora in circolazione sul web,
materiale di nessun valore raccolto con il preciso obiettivo di prendersi
gioco di Mondadori, dopo averne utilizzato il curatore come ‘cavallo di
Troia’. In questo modo il volume veniva irrimediabilmente ‘bruciato’ dalla stroncatura del suo stesso autore, destinato a vendere “non tanto come
testo di Blissett, quanto come esempio di beffa blissettiana” (TP, p. 28).
In queste e in molte altre ‘azioni’ firmate da Luther Blissett è possibile
individuare i contorni di un agire tattico determinante tanto per il successo della sua “guerriglia mediatica” (TP, p. 23) quanto, più in generale,
18
Il filosofo francese evidenzia come si sia verificato un ‘doppio ribaltamento’: se un
tempo a essere credibile era ‘l’invisibile’ (il mito, il ‘discorso ricevuto’ di ogni religione), la
modernità inverte i termini del rapporto rendendo credibile solo ciò che è ‘visibile’. Con
l’ultimo ‘ribaltamento’ invece ‘il credibile’ viene istituito, a prescindere dal referente reale.
IL VIAGGIO DELL’EROE
/ 57
dell’intero progetto quinquennale. Agire in modo ‘tattico’ vuol dire innanzi tutto rinunciare a quel ‘luogo’, a quei confini segnati dalla pagina
bianca assegnata a ciascuno nel contesto di un’economia scritturale nella
quale si sceglie piuttosto di diffondersi, in attesa del momento opportuno
da volgere in proprio favore. Un modo di ‘combattere’ proprio di chi non
ha potere, di chi ha tutto da perdere in un confronto a viso aperto, di chi
non elabora ‘strategie’19 ma basa le proprie azioni su una continua mobilità portata sul terreno dell’avversario. “Riempire i vuoti ed evitare i pieni” (TP, p. 23), calcolare attentamente pregi e difetti del ‘nemico’, essere
pronti a cogliere l’occasione, sotto qualunque forma si manifesti, farne tesoro e tornare quindi a vigilare in attesa del prossimo colpo da sferrare
con velocità e precisione. La chiave di tutto – “perno che consente, grazie
a una leggera spinta, di capovolgere i rapporti di forza precedenti” –20 è
dunque l’occasione, fianco lasciato scoperto su cui occorre puntare senza
esitazioni e che non può, evidentemente, essere ‘preparato’, ma che è l’avversario stesso a offrire: “la coincidenza fra la circonferenza indefinita delle esperienze e il momento puntuale della loro ricapitolazione sarebbe
dunque il momento teorico dell’occasione, [che] dà lo sgambetto a qualsiasi definizione, poiché non è isolabile da una contingenza né da un’operazione particolare. Non è un fatto dissociabile dallo stratagemma che lo
produce” (IQ, pp. 132-33).
In ogni ‘colpo’ si concentra dunque tutto il sapere, tutta l’esperienza
accumulata in precedenza allo scopo di modificare uno status quo nel minor tempo possibile, evitando qualunque capitalizzazione dei risultati:
per essere efficace, per poter essere adattato alle diverse contingenze, il sapere su cui si fonda ogni stratagemma deve mantenersi fluido e manifestarsi solo nell’atto stesso della propria esecuzione. Deve poter applicarsi
sull’intero ‘campo di gioco’, e non limitarsi a territori che, per quanto
ampi, risultino alla lunga individuabili, circoscrivibili e quindi ricodificabili come luoghi identitari nel contesto di un’economia scritturale: per
questo chi partecipa al Luther Blissett Project sceglie di ‘darsi alla macchia’ e, giovandosi anche delle precedenti esperienze di comunicazione19
Come per la definizione di ‘tattica’, si fa riferimento a quanto scritto da De Certeau,
che intende la ‘strategia’ come “il calcolo (o la manipolazione) dei rapporti di forza che divengono possibili dal momento in cui un soggetto dotato di una propria volontà e di un
proprio potere […] è isolabile” (IQ, p. 71).
20
Tang Zhen, “Il libro nascosto”, in Il libro dei trentasei stratagemmi, trad. it. di Anna
Pensante, Milano: Luni, 2004, p. 21.
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MARCO TOMASSINI
guerriglia,21 individuare nell’intero terreno dell’industria culturale quelle
falle sfruttando le quali la stessa forza dei media può essere utilizzata allo
scopo di diffondere la fama del nome multiplo. Tra i tanti punti deboli di
cui si è servito, quello che più di ogni altro ha permesso a Blissett di portare a segno i propri colpi è coinciso con l’irresistibile, fisiologica attrazione che una società ‘scritturale’ nutre per ciò che essa stessa produce come
altro da sé: “L’esteriorità ‘vocale’ è anche lo stimolo e la condizione di possibilità del suo opposto scritturale” (EH, pp. 251-52). L’altro, il gioco e
più in generale ciò che non ha un luogo e ne resta quindi ai margini, è anche ciò che rende possibile il funzionamento dei suoi meccanismi celibi,
rappresentando quel corpo e quella carne su cui l’incessante produzione di
linguaggio non cessa di aver bisogno di inscriversi per accreditarsi come
vera. E se con qualche lettera fasulla riesce a farsi gioco per mesi della
stampa locale bolognese, negli anni le vittime di Blissett crescono nel numero e nelle ‘dimensioni’, come dimostrano le beffe a Mondadori e a Chi
l’ha visto?, offrendogli nuove opportunità per arricchire i propri stratagemmi adeguandoli di volta in volta al momento e all’‘avversario’ di turno.
Solitamente chi partecipa al progetto agisce nel reale, disseminando
esche verosimili proprio in quegli spazi di gioco e in quella penombra del
quotidiano che concede qualche margine di movimento: “L’azione di
guerriglia mediatica deve sempre trovare spunti nella realtà, nell’accaduto;
[…] occorre modificare la realtà, ovvero in-formarla, ma senza che il cacciatore di notizie possa accorgersene” (TP, p. 30). In questo modo prende
il via il viaggio scritturale degli operatori dei media, alla fine del quale
vengono prodotti dei simulacri che, per essere distinguibili dal flusso di
notizie vere che li circonda, rendono necessaria, come si è visto, una rivendicazione da parte di Luther Blissett, che puntuale giunge dopo qualche tempo a firmare la beffa, mettendone a nudo i retroscena e irridendo
la superficialità con cui vengono vagliati indizi e fonti. Spesso inoltre nel
comunicato chi legge viene invitato a prendere parte al progetto, ovvero a
usare liberamente il nome di Luther Blissett, che esplicitamente chiarisce
21
Il riferimento va a quell’eterogeneo plesso di pratiche che, negli anni, sono state utilizzate al fine di produrre effetti sovversivi attraverso interventi nei processi comunicativi, e che
vanno dallo sniping al camouflage, dal détournement alle falsificazioni fino agli stessi nomi
multipli. Pratiche che Luther Blissett riattualizza e rinnova a propria volta, e di cui è possibile trovare degli esempi in AAVV, Handbuch der Kommunikationsguerrilla. Jetzt helfe ich mir
selbst (1997), trad. it. di Mirna Campanella e Elena Modolo, Comunicazione-guerriglia. Tattiche di agitazione gioiosa e resistenza ludica all’oppressione, Roma: DeriveApprodi, 2001.
IL VIAGGIO DELL’EROE
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la propria natura di ‘identità multipla’ nata proprio allo scopo di infiltrarsi nel mainstream. Ma i media, una volta beffati, quasi mai si accontentano di quanto Luther dice di sé, mettendosi ancora una volta a caccia dei
suoi ‘segreti’: dell’identità celata dalla maschera, dei ‘veri’ scopi, dei riferimenti teorici che si presumono ‘dietro’ il progetto, di un significato nascosto oltre il significante della firma. Vanno insomma alla ricerca di un
corpo che ne ripristini l’intelligibilità, indispensabile a una sua circoscrizione, senza cui il discorso, come nel caso ‘orrorista’, è destinato a slittare,
non potendo far presa su un referente che gli è necessario. Lo stesso De
Certeau mette in luce come siano proprio il corpo e dunque la visibilità
dei Tupi a rendere possibile la ‘produzione’ del selvaggio, sulla cui carne
De Lery può agire, dapprima osservando, quindi circoscrivendo, individuando e infine facendone un supporto per la propria verità: “la scienza
etnologica occidentale si scrive sullo spazio fornitole dal corpo dell’altro”
(IQ, p. 205). Un corpo che però, nel caso di Luther Blissett, è assente, o,
se si vuole, atomizzato, frantumato in un’infinità di manifestazioni tutte
al contempo ‘vere’ e ‘false’. La sua irriducibilità scaturisce infatti da una
natura concepita proprio per essere acefala, acentrica, fluida e polimorfa:
tutto ciò che viene detto di Luther Blissett diventa Luther Blissett. Ogni
parola, ogni discorso, ogni cosa su cui, a qualunque titolo, venga apposta
la sua firma, contribuisce ad arricchire di un ulteriore tratto la sua sfuggente fisionomia. Qualunque articolo, saggio, commento o definizione lo
abbia come oggetto, non può far altro che intorbidirne ulteriormente le
acque, fornendogli l’ennesimo specchio in cui riflettere un’immagine che
non sarà né più vera né più falsa di qualunque altra, mancando un originale sulla base del quale valutarne la maggiore o minore aderenza.22 Tutto
contribuisce ad arricchire di sfumature la natura duttile di un personaggio in cui confluiscono evidentemente comunicazione e metacomunicazione, sé e altro da sé, soggetto e oggetto, e che resta, inevitabilmente, voce invisibile e priva di corpo: “Tanto l’oggetto visto è scrivibile, omogeneo alla linearità del senso enunciato e dello spazio costruito, quanto la
voce crea uno scarto, apre una breccia nel testo, restaura un corpo a corpo” (EH, pp. 249). La scrittura, evidentemente, non può più essere spada
che preserva intatta l’identità di chi scrive, finendo piuttosto con l’essere
assorbita nel magma del proprio oggetto. Così, considerando per esempio
22
Questo stesso articolo, a propria volta un tentativo di interpretare il Luther Blissett
Project, non può che contribuire a una sua ulteriore espansione.
60 /
MARCO TOMASSINI
l’origine del Luther Blissett Project, alcuni vi hanno intravisto la mano di
Umberto Eco, altri una riattualizzazione del Situazionismo, altri ancora il
progetto di un illusionista inglese che, a sua volta, si sarebbe rivelato un’identità fittizia: tutte chiavi inscritte nell’unico flusso caleidoscopico di
narrazioni blissettiane. Ma oltre ad arricchirne le sfumature, le rappresentazioni che vengono date di Luther Blissett finiscono con l’attribuirgli
una ‘consistenza’ sempre maggiore: la verità prodotta dall’attività scritturale fa sì che un personaggio virtuale acquisisca una realtà, un peso specifico sempre più tangibile nel mainstream. Come per la Tlön immaginata
da Borges,23 il gorgo creato dal terrorista culturale è in grado di guadagnarsi uno spazio concreto nel tessuto del reale, arrivando, potenzialmente, a poterlo inglobare in ogni sua parte.
Ma nella reputazione di Blissett gioca un ruolo decisivo anche una comunicazione ‘in positivo’. Fin dall’inizio infatti alle azioni di guerriglia si
accompagna la produzione di libri, manifesti e fanzine, a cui più tardi si
aggiungerà uno sterminato sito-archivo, nei quali converge una grande
quantità di materiale eterogeneo, che accresce l’indeterminatezza del progetto, ne propaga ulteriormente il messaggio e, non ultimo, ne storicizza
le azioni, contestualizzate, commentate e raccontate ma mai ricondotte a
un nucleo centrale o a un asse teorico. Tutta questa produzione, rigorosamente priva di copyright,24 assume in questo modo la fisionomia di un’enorme memoria mitica, organizzata in una lunghissima sequenza di racconti che ricostruiscono le epifanie di Luther Blissett. L’uso dell’aggettivo
mitico non è affatto casuale, essendo lo stesso Luther a riferirsi alla propria genesi come a un processo di mitopoiesi,25 nascita di un ‘eroe popolare’ attorno alle cui gesta dare vita a una comunità che, servendosi anche
del potere deterritorializzante dei media, prescinda dalle tradizionali distinzioni nazionali o etniche. Quella col mito non si limita dunque a essere soltanto un’analogia: l’intero progetto viene infatti concepito per es23
Si fa riferimento al racconto “Tlön, Uqbar, Orbis Tertius”, in cui si narra di un mondo immaginario che a poco a poco si sostituisce a quello considerato ‘reale’, in una storia
che Luther Blissett medesimo utilizza per parlare del proprio progetto.
24
Lo stesso Q, primo volume pubblicato per una casa editrice mainstream, esce con licenza copyleft, che ne consente la riproduzione purché non a scopo di lucro. Si tratta della
prima, sostanziale novità introdotta da Luther Blissett una volta all’interno dell’industria
culturale. Per una panoramica sull’argomento si veda la cospicua serie di articoli all’indirizzo <http://www.wumingfoundation.com/italiano/outtakes/tematico_copyright.html>.
25
“La nostra immodesta opinione è che non si possa comprendere il ‘comunitarismo’ di
Blissett senza partire dal concetto di ‘mitopoiesi’, creazione di mito” (TP, p. 11).
IL VIAGGIO DELL’EROE
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sere la riattualizzazione di “un patrimonio antichissimo di miti e archetipi
comuni a tutte le società umane, poi rielaborato nell’arte e nella cultura
di massa” (TP, p. 12). Quando “genuino”,26 infatti, il mito non occupa
un settore specifico del vivere sociale, ma ne impregna piuttosto l’intera
quotidianità, essendo ciò che dà senso, armonizzando “l’individuo nella
sua società e la società nella natura”.27 La sua è una funzione pratica, fondando i gesti e le parole di chi, partecipandovi, lo riattualizza giorno dopo giorno,28 le cui azioni si collocano nel solco di quelle dei protagonisti
dei racconti archetipici. Perché ciò sia possibile, il suo linguaggio non
passa da un’astrazione rispetto alle pratiche che simbolizza, ma si esprime
tramite gesti altrettanto concreti: se una prassi, intesa come tekne, “al di
fuori del suo stesso esercizio è priva di enunciato, il linguaggio deve esserne anche la pratica. […] Se l’arte di dire è essa stessa un’arte di fare e di
pensare, può esserne al tempo stesso la pratica e la teoria. […] In altre parole, sarà un racconto” (IQ, p. 125). Racconti, ovvero “qualcosa cui non
si rende giustizia con interpretazioni e spiegazioni”,29 che per espletare la
propria funzione e restare disponibili a ogni attualizzazione vivono nel
non luogo di una memoria collettiva e invisibile, aperti a qualunque contaminazione, la loro fluidità a garantirne l’efficacia. Un dinamismo testimoniato dalla coesistenza all’interno di una stessa tradizione di molteplici
versioni di una medesima trama mitica, che a sua volta vive in un ciclo
continuo di ripetizioni e variazioni.30 La stessa organizzazione del mito di
26
Furio Jesi, Letteratura e mito, Torino: Einaudi, 1968, p. 17. Il mito “genuino” è, secondo l’autore, in “equilibrio aureo fra luce e buio”, espressione immediata di un senso
universale in grado di prescindere da qualunque, apparente distinzione tra sé e altro da sé,
argine contro l’irrazionalismo. Al suo opposto sta invece quello frutto di una “tecnicizzazione”, ovvero il mito “evocato deliberatamente per precisi scopi” dal passato, proiezione
delle proprie colpe attuali e indirizzato soltanto a un determinato gruppo sociale.
27
Joseph Campbell, Il potere del mito, cit., p. 80.
28
È questa, secondo Kerényi, la principale funzione della mitologia, che esprime col
termine tedesco begründen, ovvero “motivare, fondare, giustificare una cosa riportandola
al suo fondamento”. Ogni azione del singolo assume dunque senso proprio perché ricondotta alla sua arch, che la trascende ma al tempo stesso attraverso di essa si attualizza. Il
testo cui si fa riferimento è Carl Jung e Károly Kerényi, Einführung in das Wesen der
Mythologie (1941), trad. it. di Angelo Brelich, Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia, Torino: Boringhieri, 1972, pp. 1-43.
29
Ivi, p. 16.
30
La coesistenza non problematica di una molteplicità di varianti è testimoniata da un
vasto numero di studi, tra cui quelli riportati in Jack Goody, The Domestication of the Savage Mind (1977), trad. it. di Vito Messana, L’addomesticamento del pensiero selvaggio, Milano: Franco Angeli, 1987, pp. 29-46.
62 /
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Luther Blissett, i tanti racconti che lo vedono protagonista, parlano di un
eroe popolare o di un imbroglione mitologico, Waldgänger o trickster,31
tanto scaltro da muoversi tra le pieghe dell’industria culturale e giocarne i
meccanismi mettendo in pratica stratagemmi sempre differenti, che a loro volta confluiscono nell’alveo della memoria di chi ne condivide il progetto. Una memoria, appunto, invisibile e comune, dove le manifestazioni del nome multiplo si accumulano senza organizzarsi attorno a un corpo, a un asse teorico o a una identità data piuttosto dalla loro somma. Le
tante apparizioni del terrorista culturale assumono così la fisionomia di
differenti versioni di uno stesso, proteiforme mitologema, racconti che ne
esprimono i molteplici stratagemmi e che si rendono disponibili a venire
ricontestualizzati da chiunque in qualsiasi scenario. Più Luther Blissett
viene praticato, più si arricchisce di esperienze; più esperienze accumula,
più è pronto a cogliere nuove possibilità di azione, nuove falle da sfruttare
attraverso il suo agire tattico.
Il viaggio dell’eroe
Se è Michel De Certeau a fornire un modello della prassi scritturale che
presiede al Luther Blissett Project, è ancora alla sua opera che è possibile
rivolgersi per rintracciare un caso in cui il discorso prodotto dalle operazioni e dai viaggi scritturali viene giocato dagli stessi oggetti su cui pretende di fondarsi, ovvero Il giardino delle delizie di Hieronymus Bosch.32
Un quadro – scrive il filosofo francese – in qualche modo enciclopedico,
nel quale sembrano convergere a loro volta tutte le mappe, le grammatiche e i simboli esistenti, in una costante collusione di reale e fantastico da
cui l’occhio dell’osservatore viene irrimediabilmente attratto, poiché la seduzione esercitata da quei corpi, da quegli esseri fantastici, da quelle ibridazioni teratologiche è intensa, accresciuta dalla verosimiglianza di una
rappresentazione in cui abbondano significanti, dietro i quali è difficile
non scorgere mille possibili significati, disponibili ad altrettante interpretazioni. Interpretazioni che però, scrive ancora, non sono altro che “strade per nessun luogo […] erranze narrative”33 i cui sforzi di risalire a una
mappa del dipinto altro non sono che illusioni, giocate ripetutamente da
31
È lo stesso Luther Blissett a rintracciare in questi (e in altri) archetipi i propri precedenti (in TP, pp. 10-41).
32
Michel De Certeau, La fable mystique (1982), trad. it. di Rosanna Albertini, Fabula
mistica, Bologna: Il Mulino, 1987, pp. 91-117.
33
Ivi, pp. 100-02.
IL VIAGGIO DELL’EROE
/ 63
un quadro che allude a un senso fingendo di proporre una grammatica,
ma che si rivela più “una glossolalia, i cui fenomeni potrebbero essere
scambiati per parole”.34
Analogamente, tutto ciò che Luther Blissett scriveva, così come le azioni che compiva, risultava sì comprensibile, al limite della auto-evidenza,
ma veniva per lo più avvertito come un velo dietro il quale doveva esserci
dell’altro: un’identità, una cospirazione o quanto meno un senso. Un senso che però, semplicemente, non esisteva, o meglio che era afferrabile soltanto attraverso una partecipazione attiva: solo scegliendo consapevolmente di servirsi della sua reputazione o della sua astuzia, riattualizzandola ai
propri scopi nel quotidiano, se ne sarebbe realizzata e colta la finalità pratica. Ulteriore testimonianza della ‘miticità’ di Luther Blissett: i miti ‘genuini’ sono infatti simboli che “riposano in se stessi”,35 esperienze ‘fuori linguaggio’ che rinviano soltanto “a se stesse e a un’oscurità della quale non si
deve dire nulla, perché non è nulla”.36 Come ha scritto Kerényi a proposito
dei miti e dei misteri nell’antica Grecia, in essi si celava un segreto, un significato, che tutti i partecipanti al culto conoscevano, ma che aveva il carattere dell’arreton, ovvero che non si doveva pronunciare, poiché la sua
espressione sarebbe stata inevitabilmente incapace di esaurirne il senso,
compromettendo di conseguenza la stessa utilità del mito.37 Non a caso lo
storico delle religioni sosteneva la necessità di una “partecipazione emotiva
e commossa”38 come unica via per eludere l’aporia dell’arreton, un porsi in
consonanza con l’archetipo incarnato dal mito, che cessava di essere oggetto passivo di osservazione per afferrare l’osservatore, che a sua volta non
poteva né doveva frapporre una distanza fra sé e ciò che studiava. È quanto fanno Marcel Detienne e Jean-Pierre Vernant nel saggio sulla metis,39
forma di intelligenza pratica dal carattere strumentale, indissociabile dal
contesto della sua stessa esecuzione, e dunque molteplice, adattabile e tra34
Ivi, p. 102.
Furio Jesi, op. cit., p. 17.
36
Ivi, p. 18.
37
Károly Kerényi, Miti e misteri, a cura di Angelo Brelich, Torino: Einaudi, 1950, pp.
143-51.
38
Corrado Bologna, “Introduzione: Kerényi nel labirinto”, in Károly Kerényi, Labyrinth-Studien (1941), trad. it., Nel labirinto, a cura di Corrado Bologna, Torino: Boringhieri, 1983, p. 24.
39
Marcel Detienne & Jean-Pierre Vernant, Les ruses de l’intelligence. La metis des Grecs
(1974), trad. it. di Andrea Giardina, Le astuzie dell’intelligenza nell’antica Grecia, Roma:
Laterza, 2005.
35
64 /
MARCO TOMASSINI
sversale a pratiche e discipline. Per trattare qualcosa di tanto mobile e indicibile, i due studiosi accettano di contaminarsi e mettersi in gioco, ricorrendo a gesti altrettanto ‘astuti’ in grado di esprimere a loro volta una
metis: rinunciando a ricondurne la molteplicità a un’inesistente unicità,
scelgono piuttosto di ri-narrarne le manifestazioni, attraverso una serie di
racconti che esprimono un’“arte di dire e […] di fare” (IQ, pp. 128) allo
stesso tempo. Se l’intera mitologia dunque è fatta per “venire danzata”,40
l’unico modo per coglierne il senso sarà allora danzare a propria volta: in
questo modo chi, a qualunque titolo, si ponga di fronte al mito ‘genuino’,
non sarà altro rispetto al proprio oggetto, ma ne costituirà, letteralmente,
l’eroe o l’eroina,41 e la sua esperienza ripercorrerà le stesse tappe lungo cui
si snoda il percorso del protagonista archetipico della vicenda mitica. Vicenda che a sua volta è ‘ricomposizione delle differenze’, in cui l’eroe, per
adempiere al proprio compito, deve passare attraverso l’esperienza della
massima alterità, ovvero dell’indeterminato, dell’anti-umano, o comunque
di qualcosa che ne incarni l’opposto. Entrarvi in contatto è terrificante ma
necessario, poiché in ciò che in un primo momento avverte come radicalmente altro, il protagonista finisce con il ritrovare se stesso, specchiandosi
nel proprio doppio: solo dopo questo incontro, passaggio obbligato del
percorso, sarà possibile imboccare la via del ritorno, non più uguali a se
stessi ma rinati a seguito dell’incontro con l’altro da sé.42 La stessa struttura
si può riscontrare nel ‘monomito’ individuato da Joseph Campbell, ciclo
di “separazione - iniziazione - ritorno”,43 che costituisce la parabola fondamentale di qualunque narrazione mitologica, nella quale l’eroe, per compiere la propria missione, deve passare attraverso un’inevitabile ‘morte a se
stesso’ che lo porta a identificarsi con l’alterità più assoluta. Chiunque pertanto si ponga di fronte al mito, esperienza viva e naturalmente moltepli40
Károly Kerényi, Nel labirinto, cit., p. 24 (ma si vedano anche le pp. 106-41).
Nel momento in cui lo studioso di mitologia coglie il senso di ciò che ha di fronte
giunge ‘al centro del labirinto’, e la sua identificazione con l’eroe (Teseo) non è metaforica
ma concreta. Corrado Bologna, op. cit., pp. 7-28.
42
In La mort dans les yeux (1985; trad. it di Caterina Saletti, La morte negli occhi, Bologna: Il Mulino, 1987), Jean-Pierre Vernant mette in luce come alcune divinità olimpiche
(tra tutte Artemide e Dioniso) incarnassero proprio la marginalità, l’altro di cui i giovani
erano chiamati a fare l’esperienza prima di essere accettati nella comunità degli adulti, indossandone la maschera o comunque partecipando a riti iniziatici in cui ne ripercorrevano la storia.
43
Joseph Campbell, The Hero with a Thousand Faces (1949), trad. it. di Franca Piazza,
L’eroe dai mille volti, Parma: Guanda, 2007, p. 33.
41
IL VIAGGIO DELL’EROE
/ 65
ce, è chiamato a esercitare la stessa metis, a essere altrettanto poliedrico e
molteplice rispetto a un oggetto che, concretamente, rivivrà nei suoi gesti
e nelle sue parole. Allo stesso modo, chi desidera cogliere il senso di
Luther Blissett deve rinunciare alla pretesa di leggervi o fondarvi una verità, affrontando piuttosto un percorso al culmine del quale viene chiamato a metterne in pratica la medesima tattica: sparire per indossare metaforicamente la maschera dell’imbroglione mitologico. Il quale, a sua volta, si
identificherà nelle sue azioni, salvo tornare nel non luogo della memoria
collettiva subito dopo aver portato a segno l’ennesimo ‘colpo’: “I due […],
colui che cerca e colui che è trovato – vengono così intesi come il volto
esterno e quello interiore di un unico mistero”.
44
Ivi, p. 42.
§
PARAGRAFO
III
FORME
§
4
Francesca Camurati
Quando la tradizione è più forte della realtà
Il modello ariostesco nella Araucana di Alonso de Ercilla
Scoprire non significa soltanto trovare cose nuove, ma in primo
luogo riconoscere nella realtà ciò che l’immaginazione e una fede
tradizionale davano per esistente. Veder realizzate queste meraviglie era una conquista dello spirito non meno importante dei successi utilitari delle imprese.
Leonardo Olschki, Storia letteraria delle scoperte geografiche, 1937
1. Dopo aver considerato per lungo tempo La Araucana come cronaca in
versi dell’impresa spagnola in Cile, la critica si è dedicata a studiare il
poema epico di Alonso de Ercilla (1533-1594) in quanto prodotto letterario.1 La focalizzazione dell’analisi si è quindi spostata dalla valutazione
del grado di aderenza della narrazione alla realtà storica allo studio delle
scelte estetiche adottate nella stesura del poema.
La Araucana è il primo grande testo letterario che racconta parte della
scoperta e della conquista e, come tale, si configura quale modello di lingua letteraria per la materia americana e ha profonda ripercussione sulla
poesia e il teatro del Siglo de Oro spagnolo. Poiché le cronache furono generalmente scritte con l’obiettivo di costituirsi in quanto discorso storico,
questo poema rappresenta il primo tentativo di finzionalizzare personaggi
indigeni. In effetti, sebbene Ercilla affermi di aver scritto parti del poema
1
Le edizioni dei poemi cui si fa riferimento sono Alonso de Ercilla y Zúñiga, La Araucana (1590), a cura di Marcos Morínigo e Isaías Lerner, Madrid: Castalia, 1979, e Ludovico Ariosto, Orlando Furioso (1532), a cura di Lanfranco Caretti, Torino: Loescher,
1960. In seguito si utilizzeranno le sigle LA e OF, seguite da numero di canto, ottava e
(dove necessario) verso. La Araucana è composta di tre parti pubblicate in tre momenti
differenti: I parte (canti I-XV), 1569; I e II (canti XVI-XXIX), 1578; III (canti XXX-XXXVII),
1589 e infine l’edizione completa integrale nel 1590. Il Furioso appare per la prima volta
nel 1516 ma l’edizione definitiva, completamente rivista e ampliata, è del 1532.
PARAGRAFO III (2007), pp. 69-90
70 /
FRANCESCA CAMURATI
sul campo di battaglia o nei riposi notturni, oggi sappiamo che La Araucana è “l’invenzione letteraria di una realtà fisica e di un avvenimento storico, che sostituisce i fatti stessi senza però snaturarli, e che fa di Ercilla
un vero e proprio fondatore della letteratura cilena e del linguaggio epico
ispano-americano”.2
Nato a Madrid da famiglia nobile, Ercilla arriva in Perù nel 1556, al seguito del Viceré Andrés Hurtado de Mendoza. L’anno seguente si unisce
alla spedizione che avrebbe dovuto sottomettere gli agguerriti araucani nel
sud del Cile, territorio di cui era stato nominato governatore García Hurtado de Mendoza, figlio di Andrés. I diciotto mesi passati sui campi di battaglia costituiscono la parte decisiva dell’esperienza americana di questo
soldato-poeta. Nonostante ciò, solo una parte del poema deriva dall’osservazione diretta dei fatti accaduti durante la campagna bellica: la prima parte dell’opera narra infatti gli avvenimenti antecedenti l’arrivo di Ercilla in
Cile e, nel corso di tutto il poema, episodi di carattere amoroso, leggendario, mitologico o favoloso si intercalano al tema centrale dell’opera. Così,
anche nei passi in cui il poeta sembra registrare in presa diretta quanto accade intorno a lui, operano – come si tenterà di dimostrare nelle prossime
pagine – non solo esigenze di tipo estetico, ma anche fantasia e invenzione
canalizzate da sovrastrutture culturali ed esigenze politiche. Nel poema di
Ercilla, infatti, la narrazione di fatti storici e di invenzione è modellata dalle convenzioni generiche e filtrata dalla posizione ideologica i cui ideali politici e principi etici sono identificabili con quelli del potere imperiale.3 Nei
2
José Miguel Oviedo, Historia de la literatura hispanoamericana, Vol. 1, De los orígenes
a la Emancipación, Madrid: Alianza, 1995, p. 162. Laddove non altrimenti indicato, la
traduzione è mia. Già i contemporanei di Ercilla sembrano aver considerato La Araucana
come fonte storica, sebbene Pierce e Dumas rifiutino questa idea dopo aver studiato approfonditamente le cronache contemporanee al poema. Dal canto loro, Menéndez Pidal
e Medina, facendo leva sulle dichiarazioni dello stesso autore circa l’autenticità della narrazione, sottolineano il carattere “estremamente realista” dell’opera. In particolare, Medina arriva ad affermare che le figure femminili indigene presenti nel poema sono solo parziale ricreazione letteraria di persone e fatti che l’autore conobbe durante la sua esperienza in terra americana. Cfr. Frank Pierce, La poesía épica del Siglo de Oro, Madrid: Gredos,
1961; Claude Dumas, “Reflexions sur quelques points d’histoire dans La Araucana”, Bulletin de la Faculté des Lettres de Strasbourg, 43, 1965, pp. 735-49; José Durand, “Caupolicán, clave historial y épica de La Araucana”, Revue de Littérature Comparée, 52:2-4,
1978, pp. 367-89; José Toribio Medina, La Araucana de don Alonso de Ercilla y Zúñiga,
Santiago: Edición del Centenario, 1918 e “Las mujeres de La Araucana de Ercilla”, Hispania, 11:1, 1928, pp. 1-12.
3
Il poema è dedicato a Filippo II e la conquista dei territori araucani fa parte di un di-
QUANDO LA TRADIZIONE È PIÙ FORTE DELLA REALTÀ
/ 71
venti anni impiegati per arrivare alla pubblicazione completa del poema,
l’autore ebbe occasione – e anche la necessità – di rivedere e cambiare il
piano originale dell’opera nata per dare testimonianza poetica della guerra
di conquista in quella regione che oggi è parte del territorio cileno.
La diffusa catalogazione dei personaggi della Araucana in personaggi
storici (gli spagnoli) e personaggi poetici (gli autoctoni)4 ha dato avvio a
una riflessione sulla costruzione dell’immagine dell’americano nel poema
di Ercilla, e in particolar modo della figura femminile. Se gli autoctoni,
in quanto personaggi esotici, selvaggi ma anche ‘inaspettatamente’ valorosi, assolvono nel poema alla funzione di stupire il lettore e di provocare
meraviglia, gli spagnoli si rivelano prevedibilmente prodi, instancabili e
ardimentosi poiché incarnano i valori della cavalleria e dell’eroismo secondo i canoni del tempo. Di Ercilla, Morínigo scrive: “Da poeta qual è,
gli risulta più facile immaginare che vedere. Racconta ciò che vede e canta ciò che immagina, ma è poco quello che può vedere e molto quello che
può immaginare. E così è La Araucana. Un poema storico con molto
poema e poca storia”.5
La distinzione operata da Morínigo è da leggersi alla luce del dibattito
teorico che si sviluppa in Italia e in Spagna negli anni in cui Ercilla scrive
le tre parti della sua opera. Si delineano in quel momento due tendenze
figlie di scuole e modi diversi di intendere la poesia: la linea ‘verista’, che
difende un’idea di poesia che deve trattare la materia storica con rigorosa
aderenza alla supposta verità, e la posizione ‘verosimilista’, che sostiene la
possibilità di allontanarsi dal ‘vero’ e difende la libertà di ricreare verosimilmente la storia.6 Si tratta di un dibattito sorto dal contrasto tra le
istanze culturali laiche dell’Umanesimo e le nuove necessità didattiche e
propagandistiche della chiesa controriformista. In questo clima, il nuovo
auge della Poetica di Aristotele dà origine a non poche polemiche sul concetto di poesia come imitatio e sul suo fine ultimo. In tale contesto, la
segno imperiale: “La Araucana è a uno dei suoi livelli di significazione più importanti
[…] un testo panegirico e anche apologetico, cioè politico”. Isaías Lerner, “América y la
poesía épica áurea: la versión de Ercilla”, Edad de Oro, 10, 1991, p. 127.
4
Marcos Morínigo, “Españoles e indios en La Araucana”, Filología, 15, 1971, pp. 205-13.
5
Marcos Morínigo, “Introduzione”, in LA, p. 38.
6
Le denominazioni di ‘verista’ e ‘verosimilista’ sono prese da José Durand, op. cit. Si
consideri inoltre che i limiti della nozione di verosimile erano una volta molto più flessibili di quanto non lo siano oggi, come, d’altra parte, le categorie di vero e obiettivo erano
più salde.
72 /
FRANCESCA CAMURATI
Gerusalemme Liberata del Tasso può essere considerato il più illustre tentativo di conciliare il platonismo umanistico con l’aristotelismo.7
2. Ercilla e la tradizione epica spagnola – che, come segnala Bataillon,8 è
sempre rimasta piuttosto fedele al vero e raramente si è lasciata trasportare
da fantasie e chimere – si discostano non poco dalla tradizione epica italiana, la cui massima espressione – l’Orlando Furioso – abbonda di elementi e
situazioni fantastiche quali incantesimi, pozioni, fonti dell’eterna giovinezza, ippogrifi e voli lunari.9 Tuttavia, l’opera dell’Ariosto è riconosciuta dalla critica come il principale modello adottato da Ercilla nella stesura della
sua opera. Il presente saggio si propone di offrire alcune riflessioni sul ruolo della tradizione letteraria codificata nella costruzione dei personaggi
femminili americani attraverso un’analisi comparata di alcuni passaggi dei
due poemi menzionati, in apparenza molto diversi tra loro. A questo sco7
La diffusione della Poetica, scarsa nel Medioevo e nell’Umanesimo, si incrementa notevolmente a partire da una nuova traduzione commentata dell’opera da parte del padovano Francesco Robortello (1548). Tuttavia, la questione era già stata oggetto di dibattito
nelle accademie e nei circoli culturali delle corti e aveva avuto risonanza internazionale.
L’elaborazione dei Discorsi dell’arte poetica del Tasso è testimonianza dell’evoluzione del
dibattito: quest’opera, infatti, composta tra il 1561 e il 1562, durante il primo soggiorno
padovano del giovane Tasso, è il frutto delle riflessioni provocate dalle lezioni tenute da
Carlo Signorelli sulla Poetica presso l’università di Padova. Tuttavia, la prima edizione della citata opera del Tasso è del 1578, posteriore alla Gerusalemme Liberata ma immediatamente precedente alla sua revisione. Nel 1594, a Napoli, il Tasso pubblica una nuova edizione, con cambiamenti profondi, di quest’opera teorica: il titolo diventa Discorsi del poema eroico e in essa si abbandona la tesi edonistica della poesia a favore della tesi didattica
poiché, nella rinnovata concezione del poeta, il fine dell’arte non è più il diletto – in adesione alle tesi dell’aristotelismo della scuola padovana – bensì l’educazione, d’accordo con
i dettami della Controriforma. Questa oscillazione tra posizioni così diverse ha originato
quello che la critica definisce il ‘bifrontismo’ della Gerusalemme Liberata, ossia la convivenza nel poema di concezioni teoriche opposte come la ‘verista’ e la ‘verosimilista’ – per
usare la terminologia di Durand – e la ‘fantastica’, il cui modello è Ludovico Ariosto.
8
Marcel Bataillon, “L’idée de la découverte de l’Amérique chez les espagnols du XVIe
siècle”, Bulletin Hispanique, 55:1, 1953, pp. 23-55.
9
L’entità del successo della formula dell’Ariosto è dimostrata non solo dal gran numero
di ristampe del Furioso, ma anche dall’abbondante numero di imitazioni – alcune delle
quali anticipano addirittura l’uscita dell’edizione definitiva –, di versioni dialettali, traduzioni in altre lingue (sia in verso che in prosa), riduzioni musicali e trasfigurazioni pittoriche apparse fin dalla prima edizione dell’opera. Si segnala inoltre che la prima traduzione
del Furioso è proprio quella castigliana (realizzata da Jerónimo de Urrea e pubblicata ad
Anversa nel 1549) ma è lecito supporre che negli ambienti spagnoli del tempo molti potessero avvicinarsi al testo nella sua versione originale poiché tra loro l’italiano era parlato
da soldati, letterati e uomini di governo.
QUANDO LA TRADIZIONE È PIÙ FORTE DELLA REALTÀ
/ 73
po, si offrono, tra i diversi confronti testuali, anche passi da leggersi in
funzione della condivisione di un determinato codice linguistico.
Le differenze tra le due opere sono in alcuni casi sostanziali: innanzitutto
Ercilla narra un episodio della storia contemporanea, mentre Ariosto introduce la distanza – temporale, spaziale e assiologica – necessaria a ogni evento narrato per acquisire dimensione epica.10 La geografia in cui si muovono
i personaggi dell’autore reggiano, sebbene siano identificabili in una regione
che comprende le penisole italiana e iberica, si sfuma, perde nitidezza e si
trasforma in uno spazio fantastico (l’isola di Alcina, il castello di Atlante).
Lo stesso si verifica con la dimensione temporale: l’epoca in cui si svolgono i
fatti è riconoscibile, ma il tempo dell’azione si dilata o si riduce in modo totalmente indipendente dalla scansione temporale reale. I personaggi sono
eroi, hanno o possono acquisire poteri soprannaturali e non hanno nulla in
comune con il lettore dell’epoca. Diversa – più moderna – è l’impostazione
dell’opera di Ercilla, il quale narra in tempo presente un’esperienza – una
guerra tra personaggi eccezionali che tuttavia sono, in ultima analisi, esseri
umani – della quale è testimone e a volte anche protagonista.
Risulta interessante vedere come la geografia americana, che costituisce
uno spazio fantastico nell’immaginario dell’uomo europeo, acquisisca in
questo poema caratteri familiari e appaia in molti casi più accessibile della
stessa geografia ariostesca. L’impressione che se ne riceve è che Ercilla non
necessiti di particolari mezzi retorici per infondere alla materia trattata dimensione epica, in quanto l’impresa spagnola nel Nuovo Mondo e il valore di molti conquistatori avevano già di per sé questo carattere.11 Molte
descrizioni di luoghi della Araucana presentano un alto grado di conven10
Michail Bachtin, “Epos e romanzo” (1938), in Id., Estetica e romanzo, Torino: Einaudi, 1979.
11
“L’espressione in versi sarebbe stata per Ercilla naturale per l’opera intrapresa perché
si trattava di una storia di fatti di guerra, cioè di una storia di respiro epico, di una storia
che confondeva i propri confini con quelli dell’epica. Nella concezione rinascimentale delle storie di guerra non era l’epica ad assumere carattere storico, come dice Pierce, bensì il
contrario: la storia assumeva carattere epico”. Marcos Morínigo, “Españoles e indios en
La Araucana”, cit., p. 207. Non va però dimenticato che la scarsa risonanza della scoperta
dell’America nelle lettere del tempo – soprattutto in relazione con la portata dell’evento –
era determinata anche dalla diffusione del pregiudizio che le arene in cui si distinguevano
i veri eroi e i grandi uomini erano quelle europee: combattere in America non conferiva lo
stesso prestigio, soprattutto finché l’immagine del nemico americano diffusa era quella dei
primi indigeni incontrati da Colombo. Nonostante ciò, la campagna di Arauco offre a Ercilla una materia degna di essere raccontata e capace di conferire all’impresa dei conquistatori spagnoli una dimensione epica.
74 /
FRANCESCA CAMURATI
zionalismo: il paesaggio è stereotipato fino al punto di riprodurre clichés
della tradizione cavalleresca e, negli episodi d’amore, della tradizione bucolico pastorale. Si comparino le seguenti ottave; la seconda, tratta dal
poema di Ercilla, presenta un paesaggio ancor più convenzionale di quello
offerto dai versi dell’Ariosto:
E come la via nostra e il duro e fello
Distin ci trasse, uscimmo una matina
Sopra la bella spiaggia, ove un castello
Siede sul mar, de la possente Alcina.
Trovammo lei ch’uscita era di quello,
E stava sola in ripa a la marina:
E senza rete e senza amo traea
Tutti li pesci al lito, che volea.
(OF, VI, 35)
Llegué por varios arcos donde estaba
Un bien compuesto y levantado asiento,
Hecho por tal manera que ayudaba
La maestra natura al ornamento;
El agua clara en torno murmuraba,
Los árboles movidos por el viento
Hacían un movimiento y un ruido
Que alegraban la vista y el oído.
(LA, XX, 42)
È significativo che il poeta spagnolo non riproduca la diversità del paesaggio americano, osservata durante i lunghi mesi del suo soggiorno cileno – incluso durante la stesura di molte ottave, redatte a suo dire in tempo reale, a volte durante le azioni di guerra, più spesso nei momenti di
pausa, sempre con mezzi di fortuna –, ma cerchi piuttosto di inserirsi negli schemi delineati dal genere scelto dimostrando così che la tradizione
risulta essere più forte della realtà stessa.12
12
L’ipotesi qui proposta non contraddice quella della poetessa cilena Gabriela Mistral:
“La meraviglia più grande da raccontarsi in quel poema era la selva di Arauco. Don Alonso [Ercilla] non la nomina nemmeno. Mi sono domandata, talvolta, se per caso non gli
fosse successo quello che succede a noi con la Cordigliera: che non la cantiamo perché
non riusciamo a misurarci con essa. Forse quel poeta ha avuto la grande modestia di tacere il tema massimo di cui non era capace di parlare. La selva araucana non appare in tutto
il poema, così minuzioso perfino nei particolari geografici”, Gabriela Mistral, “Algunos
elementos del folklore chileno”, disponibile all’indirizzo http <www.gabrielamistral.uchile.
cl/prosa/elfolklore.html>, accesso ottobre 2007.
QUANDO LA TRADIZIONE È PIÙ FORTE DELLA REALTÀ
/ 75
Un altro elemento che apparentemente distanzia i due poemi epici è
la proposizione della materia da trattare. Ludovico Ariosto, intitolando la
propria opera Orlando Furioso, si inserisce consapevolmente in una tradizione riconosciuta e immediatamente identificabile. Continua la narrazione delle vicissitudini di Orlando dal punto in cui l’aveva interrotta
Matteo Maria Boiardo alla conclusione del suo Orlando Innamorato, accettando così la fusione operata da quest’ultimo dei due grandi cicli narrativi medioevali, quello carolingio e quello bretone. Tale scelta permette
all’autore di conquistare un pubblico più vasto, che, soprattutto in Italia,
era quello che apprezzava la ‘materia di Francia’ – bellica e virile –, e di
mantenere altresì una complessità psicologica propria della ‘materia di
Bretagna’ – cortese e raffinata –, che soddisfaceva il gusto colto dell’uomo
di corte. L’Orlando del Boiardo, come quello dell’Ariosto, riunisce in sé
entrambe le componenti: è questi un guerriero forte e leale, come richiedeva la tradizione della chanson de geste, ed è al contempo un giovane innamorato, attributo di tale importanza da trasformarsi in motore dell’azione e comparire nel titolo dell’opera. Il poema dell’Ariosto rimanda all’altro anche nel titolo, che insinua che la follia è la naturale conclusione
dell’innamoramento e lo vincola a un modello classico – la tragedia di Seneca Hercules furens – che suggerisce l’associazione, nella follia, di due figure caratterizzate da valori e virtù esemplari.
Nella proposizione dell’Ariosto, che apre il Furioso, si legge:
Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori
Le cortesie, l’audaci imprese io canto,
Che furo al tempo che passaro i Mori
D’Africa il mare, e in Francia nocquer tanto,
Seguendo l’ire e i giovenil furori
D’Agramante lor re, che si dié vanto
Di vendicar la morte di Troiano
Sopra re Carlo imperator romano.
Dirò d’Orlando in un medesmo tratto
Cosa non detta mai in prosa né in rima:
Che per amor venne in furore e matto,
D’uom che sì saggio era stimato prima.
(OF, I, 1, 2)
Il famosissimo chiasmo del primo verso colloca al centro la materia bellica ma pone pure in evidenza – agli estremi del verso – l’opposto tema
cortese, intrecciando in questa schematica ma efficace sintesi la materia
76 /
FRANCESCA CAMURATI
dei due grandi cicli medievali. Inoltre, la varietà della materia che il poeta
si propone di cantare è ribadita nel secondo verso.
La proposizione che apre l’esordio della Araucana pone al centro
un’altra tematica e annuncia l’intenzione di allontanarsi dalla linea dell’Ariosto e del Boiardo:
No las damas, amor, no gentilezas
De caballeros canto enamorados,
Ni las muestras, regalos y ternezas
De amorosos afectos y cuidados;
Mas el valor, los hechos, las proezas
De aquellos españoles esforzados,
Que a la cerviz de Arauco no domada
Pusieron duro yugo por la espada.
(LA, I)
Nonostante gli sforzi di Chevalier per dimostrare che questa ottava sia solamente una convenzionale dichiarazione di intenti e non una nitida presa di posizione nei confronti dell’epica di stampo ariostesco, lo studio
congiunto delle tre parti, anche alla luce degli eventi intervenuti nel lento
processo di elaborazione dell’opera, fa supporre il contrario.13 Dicendo
questo non si vuole sminuire l’importanza del modello ariostesco per l’opera di Ercilla, ma piuttosto mettere in evidenza che in origine, nelle intenzioni dell’autore, vi era la volontà di allontanarsi da alcuni aspetti peculiari della materia dell’Ariosto: il fantastico e le tematiche amorose e
cortigiane. Si tratta di un’intenzione che si palesa nella prima parte del
poema anche attraverso la rapidità con cui si liquida un tema ricco di
possibilità narrative come l’incostanza della donna.14
Tuttavia, sembra che nel corso dell’elaborazione della Araucana il poeta stesso abbia sofferto le conseguenze della scelta iniziale e abbia avvertito la monotonia derivata dal trattamento esclusivo della materia bellica.
Inoltre, tornato in Europa, dove si dedicò a completare il poema e a pre13
Maxim Chevalier, L’Arioste en Espagne (1530-1650). Recherches sur l’influence du “Roland Furieux”, Bordeaux: Institut d’Etudes Ibériques et Ibéro-Américaines de L’Université
de Bordeaux, 1966 e “La épica culta”, in Id., Lectura y lectores en la España del siglo XVI y
XVII, Madrid: Turner, 1976.
14
Nel primo canto della Araucana si ribadisce l’intenzione di trattare solo temi bellici:
“Venus y Amón aquí no alcanzan parte, / Sólo domina el iracondo Marte” (I, 10). Per la
denigrazione delle donne: “Que al fin son las mujeres variables / Amigas de mudanzas y
mudables” (IV, 30) e “Que la mujer cruel, eslo de veras” (X, 7).
QUANDO LA TRADIZIONE È PIÙ FORTE DELLA REALTÀ
/ 77
parare le diverse edizioni, sorsero nuove esigenze e ambizioni letterarie.
Ercilla ampliò allora il poema e vi inserì nuovi elementi – la glorificazione
del popolo spagnolo e del monarca Felipe II – e sentì probabilmente anche la necessità di mettersi al passo con le mode letterarie del momento,
dimostrando le proprie doti di poeta anche in tematiche pastorali e amorose. La seconda parte del poema è infatti ricca di episodi che interrompono la monotonia del tema della campagna di Arauco – la battaglia di
San Quintino, la battaglia di Lepanto, gli episodi legati alla figura del
mago Fitón, l’evocazione del personaggio virgiliano Didone, alcuni episodi amorosi e varie digressioni – ma già a partire dagli ultimi canti della
prima parte – XIII, XIV e XV – si assiste a un cambiamento nella materia
trattata e, di conseguenza, anche nel registro poetico adottato. Nei canti
citati appaiono le riflessioni sulla univocità dei temi affrontati fino a quel
momento, la rivalutazione della materia amorosa e il primo degli episodi
introdotti per rompere la monotonia: il tragico amore di Guacolda e Lautaro. Ercilla apre il canto XV dichiarando la necessità della presenza di tematiche amorose in poesia, non solo come materia degna di essere cantata ma anche come elemento di varietà all’interno di un componimento,
finalizzato a mantenere desta l’attenzione del lettore. Inoltre, cita esplicitamente Dante, Ariosto, Petrarca e l’Ibero Garcilaso de la Vega, tracciando così una linea nella quale sembra volersi inserire per dimostrare di essere pregevole cantore sia di argomenti bellici che cortesi:
¿Qué cosa puede haber sin amor buena?
¿Qué verso sin amor dará contento?
¿Dónde jamás se ha visto rica vena
Que no tenga de amor el nacimiento?
No se puede llamar materia llena
La que de amor no tiene fundamento;
Los contentos, los gustos, los cuidados,
Son, si no son de amor, como pintados.
Amor de un juicio rústico y grosero
Rompe la dura y áspera corteza,
Produce ingenio y gusto verdadero
Y pone cualquier cosa en más fineza:
Dante, Ariosto, Petrarca y el Ibero,
Amor los trujo a tanta delgadeza
Que la lengua más rica y más copiosa
Si no trata de amor, es desgustosa.
(LA, XV, 1 e 2)
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FRANCESCA CAMURATI
3. È proprio negli episodi amorosi che si è vista maggior affinità tra il Furioso e La Araucana, cioè laddove il poeta spagnolo non racconta quello
che vede ma canta quello che immagina. In questi episodi, pensati come
ornamento retorico e come contrappunto agli episodi bellici, l’autore tralascia l’intenzione documentaristica che lo contraddistingue in altri passi
e crea figure letterarie ispirate a personaggi ed episodi dell’Ariosto. Le
uniche figure femminili presenti nel poema sono indigene e a loro sono
dedicati tre episodi completi (Guacolda, Tegualda e Laura), due scene
(Lauca e Fresia) e alcuni riferimenti di carattere generale.15 Significativa è
la differenza di registro tra i riferimenti generali e gli episodi e le scene
che hanno come protagonista una donna indigena. Mentre in questi ultimi la donna è prodotto di una costruzione idealizzata secondo i canoni
della poesia cortese, nei primi è presentata come un essere umano indifferenziato immerso nella massa indigena barbara e primitiva.
La costruzione letteraria dei personaggi femminili mette in discussione un’eventuale corrispondenza con la realtà cilena ad eccezione della citazione delle donne guerriere, probabilmente l’unico momento in cui si
ricorda un uso autoctono.16 La presenza del tema della donna guerriera è
volta anche a comunicare al lettore la dimensione straordinaria del Nuovo Mondo – l’inversione dei tradizionali ruoli maschile-femminile partecipa dell’immagine di ‘mondo al contrario’ spesso associata all’America –
ma è anche dovuta alla diffusione che acquisisce il mito delle amazzoni in
queste regioni, come testimonia l’opera teatrale di Tirso de Molina Amazonas en las Indias (1635).
La critica concorda nell’individuare nel racconto delle peripezie di Isabella e Zerbino nel Furioso la principale fonte dei tre episodi amorosi
(Guacolda e Lautaro, Tegualda e Crepino e Glaura e Cariolán) narrati
nella Araucana.17 L’episodio che risente maggiormente dell’influenza del15
Didone, l’altra presenza femminile forte del poema, si inscrive in modo differente
nell’opera in quanto è protagonista di una digressione di intenzione moralizzante orientata a restaurare l’onore di cui Virgilio privò ingiustamente la regina di Tiro. Gli episodi
completi presentano l’evoluzione della situazione amorosa nella sua interezza, mentre le
scene si limitano a offrire un momento particolare della relazione.
16
Oltre a una menzione nel prologo, al tema sono dedicate le prime otto ottave del
canto X.
17
Guacolda e Lautaro: XIII, 43-57 e XIV, 1-12; Tegualda e Crepino: XX, 26-79 e XXI, 112; Glaura e Cariolán: XXVIII, 1-38. Per la critica si vedano invece – oltre ai già citati
Maxim Chevalier, L’Arioste en Espagne e Marcos Morínigo, “Introduzione” – Lía Schwartz
Lerner, “Tradición literaria y heroínas indias en La Araucana”, Revista Iberoamericana,
QUANDO LA TRADIZIONE È PIÙ FORTE DELLA REALTÀ
/ 79
l’Ariosto è quello di Tegualda e Crepino, in cui si rileva anche la presenza
di elementi provenienti dalle ottave dedicate a Doralice e Mandricardo,
un’altra coppia le cui sventure sono cantate nel poema dell’Ariosto.18 Il
raffronto di alcuni passi rende evidenti le affinità non solo tematiche ma
anche strutturali delle narrazioni, come la presentazione dell’eroina indigena, che parla in prima persona tracciando la propria genealogia per parte di padre senza menzione alcuna della figura materna:19
38:81, 1972, pp. 615-25; Juan Diego Vila, “El personaje de Tegualda y su doble iniciación (histórica y poética) en La Araucana de Ercilla”, Signos, 25:31-32, 1992, pp. 213-25.
18
Per meglio apprezzare l’analisi comparata qui proposta, si considera utile tracciare
una sintesi della storia di Isabella e Zerbino che, a differenza degli episodi amorosi della
Araucana, non è limitata allo spazio narrativo di alcuni canti o ottave ma si snoda per
buona parte del poema. Orlando si aggira per un bosco alla ricerca dell’amata Angelica,
quando vede una luce filtrare da una grotta. Incuriosito, vi entra e vi trova una vecchia,
Gabrina, che sorveglia una giovane fanciulla, Isabella, che acconsente alla richiesta di Orlando di raccontare la propria storia. In prima persona, Isabella dirà di essere saracena, figlia di Maricoldo, re di Galizia, e di essersi innamorata di Zerbino, un giovane cristiano
che ha saputo mostrare il suo valore nel corso di un palio organizzato dallo stesso Maricoldo. La fase dell’innamoramento viene succintamente descritta da Isabella che si dilunga
però nel racconto delle peripezie seguite alla decisione di sottrarsi alla tutela del padre e
quindi di fuggire per poter coronare il suo sogno d’amore con Zerbino. Questi, non potendosi occupare personalmente della fuga, affida al suo uomo di maggior fiducia, Odorico, il compito di portare la sua amata oltre i confini del regno. Una tempesta provoca il
naufragio dell’imbarcazione su cui si trovano Isabella e Odorico, che riescono a salvarsi
insieme ad altri due membri dell’equipaggio. In seguito, a causa dei giochi sleali di Amore, i sentimenti di Odorico nei confronti di Isabella variano a tal punto che questi si sbarazza dei servitori sopravvissuti con lo scopo di rapire la giovane. Le urla di protesta di Isabella attraggono però l’attenzione di una masnada di ladroni che la sequestrano e la rinchiudono in una grotta in attesa del momento propizio per venderla come schiava. È in
questa grotta che Orlando la trova. Come il prode cavaliere salva Isabella e se ne assume la
protezione viene raccontato in terza persona da un narratore onnisciente. Nel canto XX, vi
è l’incontro fortuito tra Zerbino e Gabrina, la quale rivela al giovane che Isabella è viva,
contrariamente a quanto questi credeva. Nel canto XXIII, Zerbino viene salvato da morte
certa dal tempestivo intervento di Orlando che, oltre a restituirgli la libertà, lo ricongiunge con l’amata. Finalmente i due giovani sono di nuovo insieme e Orlando prosegue il
suo viaggio alla ricerca dell’infedele Mandricardo, con cui ha in sospeso un duello per il
possesso di Durindana, la famosa spada che fu di Ettore. Nel XXIV canto, Zerbino ha l’occasione di dimostrare la sua gratitudine a Orlando che, ormai folle, vaga per il bosco: nella lotta con Mandricardo, impossessatosi senza dritto alcuno di Durindana, Zerbino cade
ferito a morte. Isabella, consolata da un eremita, rinuncia al proposito di togliersi la vita e
si ritira in convento.
19
L’assenza di un qualsiasi riferimento alla linea di discendenza materna è propria di
una società di stampo patriarcale ma rientra anche nella tradizione letteraria del periodo,
in particolare del poema epico.
80 /
FRANCESCA CAMURATI
Yo soy Tegualda, hija desdichada
Del cacique Brancol desventurado,
De muchos por hermosa en vano amada,
Libre un tiempo de amor y de cuidado;
Pero muy presto la fortuna, airada
De ver mi libertad y alegre estado,
Turbò de tal manera mi alegria
Que al fin muero del mal que no temia.
(LA, XX, 37)
Isabella son io, che figlia fui
Del re mal fortunato de Gallizia.
Ben dissi fui; ch’or non son più di lui,
Ma di dolor, d’affanno e di mestizia.
Colpa d’Amor; ch’io non saprei di cui
Dolermi più che de la sua nequizia,
Che dolcemente nei principii applaude,
E tesse di nascosto inganno e fraude.
(OF, XIII, 4)
Tegualda, con perfetta retorica cortese, dichiara la propria condizione di
sventurata e, come Isabella, si dice figlia del dolore. Entrambe si dichiarano vittime di Amore. L’accusa nei confronti di Amore, capriccioso e mutevole, affiora in vari momenti: Isabella gli rimprovera di aver fatto innamorare di lei Odorico, il fedele servitore dell’amato Zerbino a cui viene affidata la fuga della bella saracena e che, approfittando della sua condizione
privilegiata, la rapisce e mette in moto un’improbabile serie di disavventure che culmineranno con la morte di Zerbino. Dal canto suo, Tegualda lamenta l’ostinazione dimostrata da Amore nel farla invaghire di un giovane
straniero, Crepino, che sarebbe morto in battaglia un solo mese dopo le
nozze. Le peripezie delle due eroine vengono raccontate in prima persona
ai due eroi che le soccorrono e che, secondo la tradizione, diventano anche
figura protettrice e confidente. Entrambe le donne vengono generosamente soccorse da un eroe che è ‘altro’ da loro, che è cioè straniero e professa
una religione differente: nel Furioso è Orlando che trova Isabella prigioniera in una grotta; nel caso della Araucana, invece, è il poeta stesso che trova
Tegualda che vaga tra i cadaveri rimasti sul campo di battaglia alla ricerca
delle spoglie dell’amato. Orlando e Ercilla svolgono qui il ruolo convenzionale dell’eroe che si fa carico della fanciulla in difficoltà malgrado la differenza di confessione religiosa o l’appartenenza alla fazione avversaria.
Un altro elemento che accomuna i due episodi è il processo per cui la
QUANDO LA TRADIZIONE È PIÙ FORTE DELLA REALTÀ
/ 81
sventura delle figlie diventa disgrazia anche dei padri nell’ottica di una cultura che insegna che le colpe dei figli ricadono sui padri e viceversa. Sebbene i protagonisti (sia maschili che femminili) delle sfortunate storie d’amore appartengano a culture diverse da quella dell’eroe e del cantore dei
poemi, si esprimono tutti attraverso i modi dell’Occidente europeo: nonostante siano due le culture rappresentate, la cultura europea assorbe tutto e
gli unici codici che operano attivamente sono appunto quelli della cultura
dominante di cui queste opere sono espressione. Non solo le protagoniste
femminili degli episodi commentati sono ‘altre’ in relazione con il loro salvatore, ma sono ‘altre’ anche in rapporto all’uomo che amano e per il quale hanno rinunciato al loro mondo. Il tema dell’appartenenza a culture e
religioni diverse è uno dei maggiori motori di conflitto, soprattutto nelle
storie d’amore. La scoperta del Nuovo Mondo ha offerto un’ennesima variante al già ampio spettro di possibilità a disposizione degli autori ma, come si può dedurre dall’episodio qui commentato, il tema della relazione
con l’altro si riduce a un mero motivo ornamentale, a una superficiale decorazione esotica. I seguenti versi ne sono un’ulteriore conferma:
Que si soy extranjero y no merezco
Hagas por mí lo que es tan de tu oficio,
(LA, XX, 52, 1-2)
Pero Crepino, el joven extranjero,
Que así de nombre propio se llamaba
(LA, XX, 65, 1-2)
E perché vieta la diversa fede
(essendo egli cristiano, io saracina)
Ch’al mio padre per moglie non mi chiede,
Per furto indi levarmi si destina.
(OF, XIII, 10, 1-4)
Tegualda, come Isabella, conosce il futuro sposo in una competizione organizzata dal padre e, ovviamente, ne risulta vincitore. Anche questo tema,
come altri qui già enunciati, è un topos della tradizione cavalleresca e della
poesia cortese che ebbe ampia diffusione in Spagna come in Italia. Anche
la tradizione bucolica gioca un ruolo importante in questi poemi: negli
episodi commentati si evidenzia, ad esempio, nel ruolo di fanciulle non
interessate all’amore e reticenti a tessere amicizie maschili e nei paesaggi
che fanno da cornice, ma anche da specchio, all’incontro tra i futuri sposi.
82 /
FRANCESCA CAMURATI
Le invettive all’incostanza della Fortuna e alla tirannia d’Amore accompagnano le riflessioni sulla labilità del confine tra la felicità e il dolore. Amore e morte sono temi universali che nelle ottave del Furioso e della
Araucana trovano un trattamento stilistico analogo:
Già mi vivea di mia sorte felice,
Gentil, giovane, ricca, onesta e bella:
Vile e povera or sono, or infelice;
E s’altra è peggior sorte
(OF, XIII, 5, 1-4)
Quivi il crudo tiranno Amor, che sempre
D’ogni promessa sua fu disleale,
E sempre guarda come involva e stempre
Ogni nostro disegno razionale,
Mutò con triste e disonesto tempre
Mio conforto in dolor, mio bene in male;
(OF, XIII, 20, 1-6)
Si ricordi anche la chiusura dell’ottava che apre il lungo racconto in cui
Isabella narra parte della sua storia: “Colpa d’Amor; ch’io non saprei di
cui / Dolermi più che de la sua nequizia, / Che dolcemente nei principii
applaude, / E tesse di nascosto inganno e fraude.” (OF, XIII, 4, 5-8).
Il tema dell’amore tiranno è introdotto nella Araucana da Ercilla che,
assumendo su di sé il duplice ruolo di protagonista e narratore dell’incontro con Tegualda, partecipa del suo dolore: “Vi que verdad en todo me
decía / Y que el pérfido amor, ingrato y ciego, / En busca del marido la
traía” (LA, XX, 34, 4-6).
Tuttavia, Ercilla non fa altro che riprendere le parole di Tegualda che
sottolineano la dimensione negativa dell’amore a causa del dolore che
può causare: “al fin muero del mal que no temía” (LA, XX, 37, 8).
Al fin se fue, llevándome el contento
Y dejando turbados mis sentidos
Pues que llegué de amor y pena junto
De solo el primer paso al postrer punto.
(LA, XX, 60, 4-8)
Hoy hace justo un mes, ¡oh suerte dura,
Qué cerca está del bien la desventura!
(LA, XX, 72, 7-8)
QUANDO LA TRADIZIONE È PIÙ FORTE DELLA REALTÀ
/ 83
In modo del tutto simile sono costruite anche la dichiarazione del dolore
provocato nelle donne dalla richiesta avanzata dai soccorritori – Orlando
e Ercilla – di raccontare il motivo della loro disperazione, la conseguente
narrazione delle proprie sventure e la manifestazione della speranza che
tale dolore le conduca finalmente alla morte:
– Ben che io sia certa, – dice – o cavalliero,
Ch’io porterò del mio parlar supplizio,
Perché a colui che qui m’ha chiusa, spero
Che costei ne darà subito indizio;
Pur son disposta non celarti il vero,
E vada la mia vita in precipizio.
E ch’aspettar poss’io da lui più gioia,
Che’l si disponga un dì voler ch’io muoia?
(OF, XIII, 3)
Ella dijo: “¡Ay de mí!, que es imposible
Tener jamás descanso hasta la muerte,
Que es sin remedio mi pasión terrible
Y más que todo sufrimiento fuerte;
Mas, aunque me será cosa insufrible,
Diré el discurso de mi amarga suerte;
Quizá que mi dolor, según es grave,
Podrá ser que esforzándole me acabe.
(LA, XX, 36)
Il desiderio di seguire l’amato anche nella morte sfocia nella furia che la
donna rivolge contro se stessa: in entrambi i casi analizzati si manifesta
come violenza fisica che la giovane esercita su alcune parti del proprio
corpo – il volto, in particolare le guance, e la chioma – e che si estende
poi alla figura femminile nella sua totalità, intesa come essere umano vivo
che si contrappone all’amato, ormai corpo morto:
Né alle guancie né al petto si perdona,
Che l’uno e l’altro non percuota e fragna;
E straccia a torto l’auree crespe chiome,
Chiamando sempre invan l’amato nome.
In tanta rabbia, in tal furor sommersa
L’avea la doglia sua, che facilmente
Avria la spada in se stessa conversa,
(OF, XXIV, 86, 5-8 e 87, 1-3)
84 /
FRANCESCA CAMURATI
Así, furiosa por morir, echaba
La rigurosa mano al blanco cuello,
Y no pudiendo más, no perdonaba
Al afligido rostro ni al cabello,
Y aunque yo de estorbarlo procuraba,
Apenas era parte a defendello,
Tan grande era la basca y ansia fuerte
De la rabiosa gana de la muerte.
(LA, XXI, 10)
Nel momento in cui la disperazione minaccia di sfociare nel suicidio, appare una figura maschile che consola la donna e la dissuade dal togliersi la vita.
Nella Araucana è ancora il poeta che, come già segnalato, è narratore e coprotagonista dell’episodio; nel Furioso, invece, il ruolo è interpretato da un
eremita. Tuttavia, la funzione è la stessa e la “eloquenza, pazienza e ragioni
efficaci” dell’asceta si traducono nella “gran persuasión y ruego” di Ercilla:
Il venerabile uom, ch’alta bontade
Avea congiunta a natural prudenzia,
Et era tutto pien di caritade,
Di buoni esempi ornato e d’eloquenzia,
Alla giovan dolente persuade
Con ragioni efficaci pazïenza;
(OF, XXIV, 88, 1-6)
Después que algo las ansias aplacaron
Por la gran persuasión y ruego mío
Y sus promesas ya me aseguraron
Del gentílico intento y desvarío,
(LA, XXI, 11, 1-4)
4. L’altro episodio d’amore in cui si palesa l’influenza del modello cortese,
in particolar modo ariostesco, nella costruzione dei personaggi femminili
della Araucana è quello di Guacolda e Lautaro che, a differenza di quello
di Tegualda e Crepino, costituisce un momento eminentemente lirico e
privo di azione. Per la costruzione e le numerose reminiscenze verbali di
discendenza petrarchesca, il dialogo tra i due protagonisti ricorda quello
tra Doralice e Mandricardo, celebrato dall’Ariosto nel tredicesimo canto
del suo poema. Si tratta del colloquio che precede il duello che vedrà affrontarsi Ruggiero e Mandricardo e il cui vincitore avrà diritto a portare
l’insegna dell’aquila bianca che un tempo fu di Ettore. Entrambi i dialoghi
QUANDO LA TRADIZIONE È PIÙ FORTE DELLA REALTÀ
/ 85
sono suppliche dell’amata finalizzate a convincere l’amato a fare o a non
fare qualcosa che presente come fatale per la sua vita. Nell’episodio del
poema in lingua spagnola, Guacolda interpreta un sogno fatto da Lautaro
come presagio di morte e lo esorta a non aspettare il levarsi del sole e a vestire immediatamente le armi per poter affrontare un eventuale attacco nemico. Lo supplica piangendo e facendo appello all’amore che gli tributa e
per il quale ha sacrificato la libertà. Nel poema italiano, Doralice cerca, invano, di convincere il prode Mandricardo a non affrontare Ruggiero in
duello all’alba. Lei lo prega cioè di non fare qualcosa e, secondo le convenzioni del genere, lo fa piangendo e invocando l’amore che lui sente per lei
e di cui dà prova costantemente. La situazione è praticamente la stessa, così come i ragionamenti atti a persuadere l’amato:
“Si aquella voluntad pura, amorosa,
Que libre os di cuando más libre estaba, […]
Por ella os juro y por aquel tormento
Que sentí cuando vos de mí os partistes […]
Que a lo menos me deis este contento
(si alguna vez de mí ya tuvistes),
Y es que os vistáis las armas prestamente
Y al muro asista en orden vuestra gente.”
(LA, XIII, 52-53)
Ma se gli è ver che ’l vostro amor sia quello
Che vi sforzate di mostrarmi ognora,
Per lui vi prego, e per quel gran flagello
Che mi percuote l’alma e che m’accora,
Che non vi caglia se ’l candido augello
Ha ne lo scudo quel Ruggiero ancora.
Utile o danno a voi non so ch’importi,
Che lasci quella insegna o che la porti.
(OF, XXX, 34)
Anche nei comportamenti della figura maschile vi è una quasi totale sovrapposizione: Lautaro, come Mandricardo, cerca di rassicurare l’amata
enumerando le imprese che lo hanno visto vincitore e chiede, pur non rimanendo insensibile alle preoccupazioni e alla tristezza dell’amata, di non
essere turbato da presagi tanto tristi.20
Il dialogo tra le coppie costituisce in entrambi i poemi un momento
20
Cfr. LA, XIII, 57, 1-4 e XVIII, 48, 50, 51 e 54 e OF, XXX, 37 e 39-42.
86 /
FRANCESCA CAMURATI
molto commovente, una pausa lirica e di quiete all’interno di opere in cui
l’azione è protagonista. Riappare il binomio amore-morte, configurandosi in questo caso come unica consolazione dell’amata che ancora una volta è costruita attraverso i topoi della poesia cortese: la cieca fede nell’indissolubilità dei destini degli innamorati e il desiderio della figura femminile
di precedere l’amato nel cammino verso la morte.21
La figura di Guacolda acquisisce nell’opera certa consistenza nonostante l’autore non tracci di lei nessuna descrizione. Il personaggio della
“bella Guacolda” – questo è l’unico accenno all’aspetto fisico dell’eroina –
si costruisce e si sostiene su un unico sentimento: l’angoscia. È l’angoscia
di colei che conosce con certezza il tragico destino che aspetta l’amato e
che tuttavia non può fare nulla per contrastarlo. Dopo l’appassionato dialogo notturno, Guacolda scompare, non se ne fa più menzione nell’arco
di tutto il poema: l’episodio amoroso è concluso e la narrazione bellica
torna ad assorbire tutto l’interesse.
Il tema della fedeltà è costantemente presente nella costruzione dei
personaggi delle ‘dame indigene’ a cui viene attribuita una virtù appartenente a una tradizione a loro estranea, analoga a quella che anima anche
le eroine saracene dell’Ariosto come Isabella, la quale giura a Zerbino
moribondo eterna fedeltà. Tuttavia Doralice, anch’essa dichiaratasi eternamente fedele a Mandricardo, assume, dopo la morte di questi, comportamenti diversi da quelli promessi. In Doralice, l’Ariosto canta il topos della donna incostante e, in certa misura, la giustifica, in quanto la
possibilità di concedersi a un altro si rivela l’unica possibilità di salvezza
per una vedova rimasta sola al mondo. La possibilità di venir meno alle
sue promesse di fedeltà è contemplata solo perché essa è saracena, appartiene allo schieramento degli infedeli e quindi il comportamento descritto può rientrare nella proiezione europea di questa cultura. Guacolda,
invece, che solo nominalmente è un’indigena, rimane eternamente fedele all’amato poiché il suo personaggio è costruito sul modello della dama
di corte.
5. L’episodio di Glaura e Cariolán (XXVIII, 1-44), il terzo degli episodi
amorosi completi della Araucana, conferma la preponderanza dell’immaginario culturale europeo nella rappresentazione della realtà americana.
21
Cfr. LA, XIII, 47 e OF, XXX, 36. Queste stesse promesse sono pronunciate da Isabella
durante l’agonia di Zerbino: OF, XXIV, 80-81.
QUANDO LA TRADIZIONE È PIÙ FORTE DELLA REALTÀ
/ 87
La narrazione delle vicende di Glaura è introdotta da un esordio che presenta una riflessione-ammonizione del poeta sull’incostanza della Fortuna
e sulla contiguità del bene e il male, dell’amore e il dolore, della felicità e
la disperazione e sulla labilità del confine che li separa, come se il termine
positivo portasse in sé anche l’antitesi negativa. Questa tematica, qui
enunciata dal narratore-protagonista, ha notevole rilievo anche nei discorsi delle altre eroine del testo e nelle parole di Isabella e Doralice. E
ancora una volta, come Isabella e Tegualda, la “bella joven” prende la parola e si presenta tracciando una linea genealogica di discendenza in cui
non appare alcuna presenza femminile: “Mi nombre es Glaura, en fuerte
hora nacida, / Hija del buen cacique Quilicura, / De la sangre de Friso
esclarecida, / Rica de hacienda, pobre de ventura” (LA, XXVIII, 7, 1-4).
Glaura riprende il discorso sulla mutevolezza della Fortuna avviato da
Ercilla sottolineando, come già avevano fatto Tegualda e Isabella, la celerità con cui è passata da uno stato di felicità – in cui la famiglia, costituita
essenzialmente dalla figura paterna, le offriva sostegno e protezione – a
uno stato di tristezza, solitudine e vulnerabilità. Causa del drastico cambiamento è “el invidioso amor tirano” che fa innamorare Fresolano di
Glaura dando avvio a una serie di avvenimenti che questa volta non sfoceranno in tragedia. Non ponendo freno alla passione non corrisposta,
Fresolano tradisce la fiducia accordatagli dal padre di Glaura, suo cugino,
e ricalca il comportamento che già fu di Odorico nel Furioso. Glaura riesce a salvarsi dalle insidie di Fresolano solo grazie all’irruzione di uno
squadrone di spagnoli che, oltre a Fresolano, uccide il padre di Glaura.
Sola e disperata, la giovane si rifugia sui monti dove incontra due malfattori che si rivelano ancor più pericolosi di Fresolano; è qui che entra in
scena Cariolán che la salva e passa rapidamente dal ruolo di benefattore a
quello di consorte.
Le vicende dell’episodio di Glaura, qui esposte in sintesi, sono coniate
sulla matrice dell’episodio di Isabella: anch’ella si salva dalle disoneste intenzioni di Odorico per l’irruzione di una nuova minaccia, una masnada
di ladroni dalla quale è poi opportunamente salvata da Orlando. A partire da questo punto, le narrazioni si distanziano, ma tornano a sovrapporsi
nel momento del riconoscimento tra gli amanti che erano rimasti separati
per cause differenti. Una volta ancora il ritrovamento avviene grazie alla
mediazione di un benefattore: Ercilla nella Araucana, Orlando nel poema
italiano. Nel corso del suo racconto, Glaura allude in varie occasioni al
desiderio di morte, sebbene non nei modi verbosi e persuasivi delle prota-
88 /
FRANCESCA CAMURATI
goniste degli episodi già analizzati in quanto non sa ancora se il marito sia
stato fatto prigioniero e ridotto in schiavitù oppure ucciso.22
Un ulteriore elemento che avvicina l’eroina indigena alla figura stereotipata della dama di corte europea è l’apprensione per la verginità: Glaura, come Isabella, si dispera di fronte alla possibilità di perdere con essa
l’onore: “La preoccupazione per l’onore ispanizza in modo così ovvio il
personaggio da spostare l’episodio nei territori della finzione e da rendere
altamente questionabili eventuali analogie con la realtà araucana”.23 Oltre
all’evidente corrispondenza tematica, rilevabile anche in elementi molto
precisi, ci sono alcune interessanti reminiscenze verbali che ribadiscono la
filiazione dell’episodio:
Mas presto el invidioso amor tirano,
Turbador del sosiego…
(LA, XXVIII, 9, 1-2)
Quivi il crudo tiranno Amor, che sempre
D’ogni promessa sua fu disleale,
(OF, XIII, 20, 1-2)
Me comenzó de amar y buscar medio
De dar a su cuidado algún remedio.
(LA, XXVIII, 11, 6-8)
Disegnò quivi senza più dimora
Condurre a fin l’ingordo suo appetito;
(OF, XIII, 21, 5-6)
Nella Araucana non vi sono personaggi femminili appartenenti ai due
schieramenti (spagnolo-europeo e indigeno-‘altro’), come invece succede nel
Furioso. Nei territori araucani, nell’ultimo scampolo di terra allora cono22
“Muchas veces propuse de matarme, / Mas por torpeza y gran maldad tenía / Que
aquel dolor en mí tan poco obrase / Que a quitarme la vida no bastase” (LA, XVIII, 37, 58); “Revolví sobre mí, considerando / La maldad y traición que cometía / En no correr
con mi marido a una / Un peligro, una muerte, una fortuna” (LA, XVIII, 34, 5-8); “No sé
si ya me queje desdichada, / O agradezca a los hados y a mi suerte, / Que me abren puerta
y que me dan entrada / Para que pueda recibir la muerte” (LA, XVIII, 6, 1-4). In quest’ultima citazione, il timore-desiderio di morte potrebbe essere conseguenza dell’instabilità del
ruolo di Ercilla – in queste scene, infatti, egli rappresenta il nemico e non ha ancora vestito i panni del benefattore – ma anche, trattandosi delle parole immediatamente antecedenti il racconto in prima persona della propria storia, allusione al dolore mortale che potrebbe causare la stessa narrazione, proprio come nei casi di Isabella e Tegualda.
23
Lidia Schwartz Lerner, op. cit., p. 624.
QUANDO LA TRADIZIONE È PIÙ FORTE DELLA REALTÀ
/ 89
sciuto, in un contesto bellico di conquista, non era ipotizzabile incontrare
una vera dama di corte. Le uniche figure femminili sono allora donne autoctone che, nonostante gli esotici nomi loro attribuiti, sono in tutto e per
tutto prodotto convenzionale delle corti europee. Per queste ragioni, forse,
Ercilla non dà seguito all’episodio di Guacolda sul modello di Ariosto perché convertirla in una donna incostante e infedele non sarebbe stato coerente con la configurazione del personaggio fino a quel momento delineato.
La finzionalizzazione di personaggi indigeni si compie attraverso un
processo di adattamento di nuovi elementi ai modelli predefiniti della
tradizione letteraria. Ercilla prende dalla storia che si dipana davanti ai
suoi occhi ciò che stima degno di essere cantato e quando non dispone di
materiale sufficiente inventa luoghi, situazioni e personaggi che passano
attraverso il filtro dell’immaginario europeo. La dimensione culturale a
cui appartiene l’autore produce una selezione naturale dei materiali poetici – poetizzabili sono gli atti eroici, l’esaltazione del valore guerriero, la
fierezza del nemico, etc. – e si rivela estremamente produttiva nella costruzione di personaggi nuovi, per i quali dispone di un vasto catalogo.
Le eroine indigene, collocate su uno sfondo storico ben delineato, si
muovono su di un terreno assolutamente poetico che risponde perfettamente ai precetti della normativa classica aristotelica e si combina con il
desiderio dell’autore di confrontarsi con la materia amorosa, grazie a cui
potrà trovare posto nella tradizione letteraria più ambita e riconosciuta.
6. La tesi che si è cercato di illustrare attraverso l’analisi dei tre episodi
centrati sulla figura femminile indigena è confermata anche dalla costruzione del personaggio di Fresia, in apparenza diametralmente opposto
agli altri. La compagna del valoroso Caupolicán, a cui l’autore non dedica
un episodio completo ma solo una scena, è infatti contraddistinta dalla
rabbia e la ferocia, che la spingono a comportarsi in modo barbaro, quasi
bestiale. Poiché Caupolicán – cacique (capo politico locale) che tanto filo
da torcere ha dato agli spagnoli fino a quel momento – si arrende all’esercito nemico facendosi passare per un soldato semplice nella speranza di
vedersi risparmiare la vita, Fresia, indignata, rivela agli spagnoli la sua vera identità e lo ripudia insieme al frutto della loro unione:
¡Ay de mí! ¡Cómo andaba yo engañada
Con mi altiveza y pensamiento ufano
Viendo que en todo el mundo era llamada
90 /
FRANCESCA CAMURATI
Fresia, mujer del gran Caupolicano!
Y agora miserable y desdichada,
Todo en un punto me ha salido vano,
Viéndote prisioniero en un desierto,
Pudiendo haber honradamente muerto.
[…] Toma, toma tu hijo, que era el ñudo
Con que el lícito amor me había ligado;
Que el sensible dolor y golpe agudo
Estos fértiles pechos han secado.
Cría, críale tú que ese membrudo
Cuerpo en sexo de hembra se ha trocado;
Que no quiero título de madre
Del hijo infame del infame padre.
Diciendo esto, colérica y rabiosa,
El tierno niño le arrojó delante
Y con ira frenética y furiosa
Se fue por otra parte en el instante.
(LA, XXXIII, 78, 81 e 82)
Fresia rivela una personalità femminile fino al momento inesplorata da
Ercilla e contrapposta a quella delle altre eroine: non pianti disperati, angoscia per la probabile morte dell’amato, paura per l’inedita situazione di
vulnerabilità, bensì rabbia e disprezzo per la viltà e ripudio per il figlio di
un uomo rivelatosi debole. Il disonore arrecato si rivela più forte dell’amore coniugale e materno. E tuttavia, l’immaginario europeo funziona
ancora una volta da filtro nella creazione di questo personaggio. Questa
volta non è una figura costruita secondo i canoni della poesia cortese ma
porta comunque su di sé i segni di una visione stereotipata, quella che assegna all’esotico e al diverso i caratteri dell’eccesso, della barbarie incontrollata e della furia animalesca.
La donna indigena può essere remissiva come Guacolda, intraprendente come Tegualda o barbara come Fresia e non è quindi relegata a una
sola possibilità di modo d’essere. Da questa molteplice appartenenza –
che rinvia quindi a una visione omologata ma non omogenea dell’altro –
in cui albergano anche il conflitto e il paradosso, deriva il dinamismo
strutturale dell’opera. Ed è per questo che le opposizioni fondamentali
della narrazione epica – la vittoria e la sconfitta, la libertà e l’oppressione,
il valore e la debolezza, il dolore e la gioia – si presentano nella Araucana
in una fusione spesso inestricabile.
§
5
Giuliana Zeppegno
Sergio Toppi illustra Friedrich Dürrenmatt
Non sono i miei pensieri a determinare le mie immagini;
sono le mie immagini che determinano i miei pensieri
Friedrich Dürrenmatt, Stoffe I, 1981
Nel 2003 viene data alle stampe, presso la piccola casa editrice milanese
Studio Michelangelo, un’interessante riscrittura del racconto Abu Chanifa
und Anan ben David (1976):1 l’elegante collana “Letteratura illustrata per
l’Europa”, che negli anni precedenti aveva ospitato gli adattamenti a fumetto di Due amici di Guy de Maupassant, La piccola spia di Alphonse
Daudet e il gigante egoista di Oscar Wilde realizzati da Dino Battaglia, si
rivolge ora alla letteratura in lingua tedesca, e precisamente al racconto di
uno scrittore svizzero che una precoce attività di incisore e pittore lega
fortemente al mondo dell’immagine, Friedrich Dürrenmatt, cui accosta
le chine dell’illustratore e fumettista italiano Sergio Toppi.
Dopo un peritesto di carattere introduttivo, la raffinata edizione realizza, mediante una scansione testuale complessa, l’accostamento di tre
linguaggi diversi: pagine di solo testo ospitano, distribuite su due colonne
parallele, la versione in lingua originale del racconto e la traduzione italiana; alle porzioni di testo si alternano le undici illustrazioni di Toppi, che
didascalie bilingui mettono in rapporto con entrambe le versioni (se la
didascalia vera e propria, interna all’illustrazione, è tratta dal testo tradot1
Sergio Toppi illustra Friedrich Dürrenmatt. Abu Chanifa e Anan ben David, Milano:
Studio Michelangelo, 2003. Traduzione italiana di Umberto Gandini, testi introduttivi di
Franco Cardini e Roberto Roda. D’ora in avanti la sigla STfd farà riferimento a questo volume. Si ringraziano Sergio Toppi e l’editore per l’autorizzazione alla riproduzione delle
immagini.
PARAGRAFO III (2007), pp. 91-116
92 /
GIULIANA ZEPPEGNO
to, la pagina precedente accoglie, bianca su campo nero, la corrispondente citazione in lingua originale). La dislocazione delle illustrazioni non segue alcuna spaziatura regolare: tra un’immagine e l’altra sono interposte
per lo più due pagine di testo, in un caso una soltanto, in altri nessuna;
in tre occasioni inoltre (illustrazioni 6, 9 e 11), l’illustrazione precede il
frammento di testo cui si riferisce. Il testo delle didascalie, infine, non è
quasi mai identico all’estratto originale (una ripresa esatta si ha solo nell’ultima didascalia): in generale si osserva una tendenza a sintetizzarlo,
sottraendo alcune particelle ed eliminando gli incisi, sia per adattarlo allo
spazio della didascalia che per concentrare, in un’unica frase, diverse possibilità figurative. Lo stesso procedimento è applicato alle didascalie in tedesco, con interventi tuttavia leggermente diversi, per ragioni specificamente sintattiche, da quelli operati sul testo italiano.
Interesse principale di quest’analisi è il rapporto che intercorre tra le
immagini e il testo narrativo: ponendo quindi tra parentesi i problemi di
ordine interlinguistico, l’attenzione maggiore andrà al legame intersemiotico esistente tra testo narrativo (bilingue) e testo iconico, e alle sue possibili implicazioni, nel tentativo di abbozzare una risposta ad alcuni interrogativi, quali: come sono costruite le immagini? Quali soggetti vi sono
illustrati e che criterio emerge da tale selezione? Che posizione assumono
le illustrazioni nei confronti del testo narrativo, ovvero come vi dialogano
sul piano dell’interpretazione? Cosa aggiungono alla percezione dell’opera, e come la riorientano?
Il racconto – apparso per la prima volta in forma di parabola nel 1976
all’interno del saggio Essay über Israel e pubblicato come racconto nel
1978 –2 conserva, a quasi trent’anni di distanza, la sua scottante attualità:
protagonisti sono il rabbino Anan ben David e il teologo musulmano
Abu Chanifa che, gettati in una segreta verso la metà dell’VIII secolo dal
califfo abbasside Al-Mansur e qui dimenticati per centinaia di anni, intavolano una discussione teologica che li porterà a comprendere con evidenza crescente e parole sempre più rarefatte la sostanziale coincidenza
del loro dio e la complementarietà delle loro fedi. Mentre la prima parte
del racconto si svolge esclusivamente nella cella, e manca di qualsiasi
azione che non sia di ordine spirituale, la seconda, inaugurata dalla scar2
Friedrich Dürrenmatt, “Essay über Israel” (1976), in Id., Zusammenhängen, Nachdenken, Zurich: Diogenes, 1980. D’ora in avanti, segnalato con la sigla EüI. Ove non altrimenti indicato, le traduzioni sono mie.
SERGIO TOPPI ILLUSTRA FRIEDRICH DÜRRENMATT
/ 93
cerazione di Anan ben David, vede, oltre a una certa accelerazione temporale,3 un brusco mutamento di scena: il narratore inizia a seguire, in
un’originale riscrittura della leggenda cristiana dell’ebreo errante, le peregrinazioni del rabbino nel mondo, lasciando la figura di Abu Chanifa per
così dire sullo sfondo.
Anan ben David, condannato a peregrinare per il mondo e per i secoli
per effetto del capriccioso ordine di un califfo, sopravvive al massacro dei
mongoli di Hülägu, all’Inquisizione, ai ghetti di mezza Europa, esce indenne da Auschwitz, e scampa infine, in tempi recenti, a un incidente automobilistico presso Baghdad. La Storia – che l’ebreo attraversa come
un’ombra, chiuso in un finto mutismo – gli scorre addosso come acqua,
sprofondato com’è nel pensiero di dio e nel ricordo dei lunghi anni trascorsi, come ormai crede, in sua compagnia. Il rabbino non sa che Abu
Chanifa, ormai quasi pietrificato, si trova ancora nella segreta, tenuto in
vita dal poco cibo che generazioni di topi gli portano da secoli. Quando a
Baghdad, seguito da un cane bianco, trova una caverna e vi penetra, agisce per istinto e non sa cosa cerca: solo più tardi, dopo aver lottato nel
buio contro un essere antichissimo, e avervi riconosciuto l’antico compagno, il rabbino capisce, e anche il musulmano capisce. Alla fine del viaggio, i due teologi non trovano dio, o non solo. La vera scoperta è un’altra.
E un po’ per volta dai loro occhi quasi ciechi, impietriti, svanisce l’odio,
si guardano come avevano guardato il loro dio, Jahwe e Allah, e per la
prima volta dopo millenni le loro labbra, che hanno così a lungo taciuto,
formulano una parola, non un detto del Corano, non un versetto del
Pentateuco, solo una parola: tu. Anan ben David riconosce Abu Chanifa,
e Abu Chanifa riconosce Anan ben David. Jahwe era Abu Chanifa e Allah era Anan ben David, la loro lotta per la libertà era insensata. […] Abu
Chanifa comprende, di fronte al vecchissimo piccolo ebreo che gli sta
rannicchiato davanti – e Anan ben David riconosce, dinnanzi all’arabo
accoccolato lì davanti a lui sul pavimento del carcere – che la proprietà di
entrambi, quella prigione di Abu Chanifa e quel carcere di Anan ben David, è la libertà di entrambi (STfd, p. 47).
Il progressivo avvicinamento tra i due teologi – che dalla scoperta dell’altro
procede verso una completa, altamente simbolica, identificazione con esso
3
Se la prima parte del racconto si svolge nell’arco di pochi secoli, la seconda abbraccia
almeno settecento anni, estendendosi all’incirca dall’invasione mongola di Baghdad del
1258 all’età contemporanea.
94 /
GIULIANA ZEPPEGNO
– propone una versione originale del tema del doppio,4 ricorrente in tutta
la scrittura dürrenmattiana: questa tematica, altrove declinata nella (falsa)
opposizione carnefice/vittima e in stretto accordo con una visione pessimistica dell’universo, assume qui una valenza diversa. A dispetto degli indubbi echi borgesiani,5 Dürrenmatt valica, al termine di questo racconto-parabola, i confini della metafisica, entro i quali si era tenuto sino alle ultime
pagine, per risolvere il conflitto nell’etica: in ultima istanza, quindi, il doppio non è impiegato come figura della perenne divisione tra gli uomini e
della loro sudditanza a ingranaggi immodificabili, bensì ne mette in luce
l’intima universalità e la possibile fratellanza. Se una scelta simile può stupire in uno scrittore dal nichilismo quasi sempre desolato, privo di spiragli,
che pone il male al centro dell’universo e in dio non vede che un’istanza inconoscibile o crudele, va però tenuto conto del contesto in cui il racconto
fa la sua comparsa. L’Essay über Israel, idealmente rivolto al popolo israeliano, a metà tra il discorso e il resoconto di viaggio, si propone di lanciare un
messaggio di pace, o quantomeno di speranza, sulle sorti dei due popoli, e
per farlo sottomette la storia antica e recente di Israele e il conflitto ebraico-musulmano a un punto di vista filosofico, più che politico. In quest’ottica lo stato di Israele, come teatro di scontro tra civiltà, assurge a emblema
della condizione esistenziale: “Il caso di Israele è lo stesso di tutti noi. Con
ciò però il caso di Israele si sposta dal piano politico a quello esistenziale.
Diventa un caso ‘morale’, nella misura in cui il piano morale costituisce
una categoria esistenziale” (EüI, p. 146). Quando poi al discorso subentra,
4
Il tema è inteso qui nella sua accezione più generale. Per un’indagine tematologica più
specifica si veda Massimo Fusillo, L’altro e lo stesso. Teoria e storia del doppio, Firenze: La
Nuova Italia, 1998.
5
Il riferimento più diretto è il racconto di Borges, I teologi, in cui si narra l’invisibile
battaglia consumatasi, negli anni, tra i due teologi Aureliano e Giovanni di Pannonia, impegnati sullo stesso fronte nella guerra all’eresia: dopo anni di dissertazioni mosse dall’ansia di superare il rivale, più che da autentica vis teologica, Giovanni viene condannato al
rogo a causa di un cavillo denunciato, quasi involontariamente, da Aureliano. Quest’ultimo prova, alla morte del rivale, “quello che proverebbe un uomo guarito da una malattia
incurabile, che fosse ormai parte della sua vita”. Il racconto si conclude in cielo, dove “Aureliano seppe che per l’insondabile divinità egli e Giovanni di Pannonia (l’ortodosso e l’eretico, l’aborritore e l’aborrito, l’accusatore e la vittima) formavano una sola persona”. Jorge Luis Borges, “Los teólogos”, (1952), trad. it. di Francesco Tentori Montalto in L’aleph,
Milano: Feltrinelli, 2003, pp. 44-45. Particolarmente proficuo mi sembra il confronto
con il seguente passo tratto dal racconto di Dürrenmatt: “Anan ben David guarda la faccia di Abu Chanifa, e Abu Chanifa guarda la faccia di Anan ben David: ognuno di loro,
fattosi vecchissimo nel corso di secoli innumerevoli, guarda se stesso, le loro facce sono
uguali” (STfd, p. 47).
SERGIO TOPPI ILLUSTRA FRIEDRICH DÜRRENMATT
/ 95
senza soluzione di continuità, la prima parte del racconto, di cui solo dopo
molte pagine è dichiarata l’inattendibilità storica e l’origine fantastica, cominciano a delinearsi, da un lato, una sostanziale sfiducia nella leggibilità
della Storia, dall’altro il valore di apologo del racconto intercalato.
La ricerca della divinità – che i due teologi perseguono in un dialogo
sempre più indistinto, cui vengono meno, a poco a poco, le parole – è
inoltre emblematica della concezione dürrenmattiana del divino: la visione dell’autore, figlio di un pastore protestante, la cui ribellione contro il
padre si tradusse presto nella più totale sfiducia verso qualunque forma di
ideologia, è quella di un “teologo negativo, o almeno rientrato”,6 ovvero
di un ateo che paradossalmente non rinuncia all’interrogazione religiosa,
anzi continua a occuparsi, instancabilmente, del problema della fede.
“Perchè la scoperta di dio è la scoperta umana più gravida di conseguenze, indipendentemente dal fatto che dio esista o meno”, si legge nell’Essay
über Israel (p. 24). In un universo labirintico, dominato dal caso e in preda al caos, di cui le ideologie non possono fornire se non goffe semplificazioni, il pensiero di dio vale più della sua esistenza. E il discorso su dio,
indipendentemente dalla sua veridicità, è un viaggio più affascinante e rivelatore di qualunque scoperta definitiva.
Le undici illustrazioni realizzate da Sergio Toppi non costituiscono,
nel loro insieme, una traduzione intersemiotica del racconto:7 limitandosi
alla lettura delle immagini, si ricava una percezione molto lacunosa, se
non caotica, del testo narrativo. Ognuna di esse, tuttavia, può considerasi
traduzione visuale di un singolo frammento di testo.8 Prima di interrogarsi sulle modalità comunicative impiegate dalle illustrazioni, pertanto, occorrerà chiedersi cosa esse raffigurino, o meglio quali immagini, entro il
potenziale figurativo dischiuso dal racconto, siano state scelte da Toppi ed
effettivamente realizzate.
6
Ladislao Mittner, Storia della letteratura tedesca, vol. III, t. 2, Dal realismo alla sperimentazione, 1820-1970, Torino: Einaudi, 1978, p. 1657.
7
Il termine – introdotto da Roman Jakobson in “On Linguistic Aspects of Translation”
(1959) – ha subito recentemente, soprattutto in ambito semiotico, diverse riformulazioni,
in direzione di una maggiore apertura definitoria e flessibilità. Tipica degli orientamenti più
recenti è la nuova attenzione tributata al rapporto relazionale, intertestuale, che l’opera d’arrivo intrattiene con quella di partenza, e all’apporto creativo realizzato dalla trasposizione.
Al concetto di fedeltà va pertanto sostituendosi quello, più flessibile, di equivalenza. Cfr.
Catia Nannoni, Traduzione intersemiotica e altri saggi, Torino: L’Harmattan Italia, 2002.
8
L’adattamento realizzato dalle singole illustrazioni rappresenterebbe, a rigore, un caso
di traduzione intersemiotica parziale, data l’esigenza delle immagini di appoggiarsi, ai fini
della loro leggibilità, al linguaggio verbale delle didascalie.
96 /
GIULIANA ZEPPEGNO
L’illustrazione 3
SERGIO TOPPI ILLUSTRA FRIEDRICH DÜRRENMATT
/ 97
A ognuna delle due parti in cui è diviso il racconto è dedicato quasi lo
stesso numero di illustrazioni: cinque alla prima, sei alla seconda, con l’illustrazione 5 (raffigurante la scarcerazione di Anan ben David e l’allontanamento dall’amico) a fare da spartiacque. Quasi tutte le illustrazioni della prima parte raffigurano snodi narrativi rilevanti: la cattura di Abu Chanifa (ill. 1), il vecchio guardiano incaricato di portare ai due teologi il pasto giornaliero (ill. 2), la loro preghiera comune (ill. 3). L’illustrazione 4,
raffigurante oggetti apparentemente ai margini della vicenda narrata (una
delle donne dell’harem e un eunuco), ritrae, a ben guardare, la causa indiretta dell’oblio in cui cadono i due teologi: è soprattutto per i fastidi procuratigli dall’harem, che il vecchio califfo dimentica l’esistenza dei due
prigionieri. Le illustrazioni dedicate alla seconda parte del racconto segnano le principali tappe delle peregrinazioni dell’ebreo, dall’incontro col
cavaliere mongolo (ill. 6), a quello con il Grande Inquisitore (ill. 7), alla
prigionia nel campo di concentramento di Auschwitz (ill. 8), al viaggio in
compagnia dello scultore svizzero (ill. 9), al rinvenimento, a Baghdad,
della bocca della caverna (ill. 10), fino al ricongiungimento, nel profondo
della segreta, con il decrepito Abu Chanifa (ill. 11). La selezione del disegnatore sembra dunque mantenersi, nel complesso, su posizioni tradizionali: l’apporto innovativo della sua riscrittura risiede soprattutto, come si
vedrà, nelle modalità con cui questi soggetti vengono rappresentati.
Sergio Toppi – disegnatore milanese di fama internazionale, entrato
nel mondo dell’illustrazione giovanissimo come illustratore dell’Enciclopedia dei Ragazzi (UTET), e dalla fine degli anni Cinquanta attivo in quello
del fumetto – occupa, tra le arti grafiche, una posizione particolare: a
lungo considerato “un grande illustratore prestato al fumetto” a causa dell’antico pregiudizio sul valore artistico dei comics, annoverato oggi tra i
maestri contemporanei di entrambi, Toppi è effettivamente un artista in
bilico tra fumetto e illustrazione. Modesto lettore di comics per sua stessa
ammissione, dimostra anche una certa difficoltà a tracciare distinzioni
nette tra le due arti.9
In realtà, nonostante il diretto rapporto di filiazione tra illustrazione e
fumetto e il durevole influsso esercitato dalla prima sul secondo almeno
9
“Illustrazione e fumetto”, ha dichiarato Toppi in un’intervista, “sono estremamente legati e non vedo grandi differenze tra questi due tipi di lavori, se non, com’è ovvio, la necessità nel fumetto di articolare la storia lungo trenta o più pagine anziché cercare di visualizzare un qualcosa in un’unica tavola”. Fabrizio Lo Bianco, Sergio Toppi: un top… del
fumetto, <www.farofunny.com/comics/exclusive/Toppi.html>.
98 /
GIULIANA ZEPPEGNO
fino agli anni Trenta,10 tra i due linguaggi intercorrono alcune differenze
fondamentali: come sintetizza opportunamente Daniele Barbieri, mentre
“[l’]immagine del fumetto racconta, l’immagine dell’illustrazione commenta”.11 L’illustrazione,12 che è sempre illustrazione di qualcosa, non può
sostituirsi alla narrazione scritta, e al livello narrativo tende a privilegiare
quello descrittivo, esprimendo “non tanto la dinamica dell’azione rappresentata, quanto piuttosto le connotazioni emotive, ambientandola in un
certo modo, facendo uso di certi stili di figurazione piuttosto che di altri,
circondandola di particolari non essenziali ma caratterizzanti”.13
Questo non significa, tuttavia, che l’illustrazione svolga un ruolo puramente esornativo, esterno al testo; al contrario, essa intrattiene spesso
con quest’ultimo uno stretto rapporto di complementarietà, nella misura
in cui riesce a rendere informativa e comunicante “quella parte del pensiero che non può essere espressa con le parole, quel settore più o meno
ampio del contenuto (semantico) che la parola per la sua vocazione all’universale non riesce a puntualizzare e che deve cedere all’immagine e alla
sua capacità di descrivere il particolare (il contingente)”.14 Oltre a completare e arricchire la ricezione del testo narrativo con gli strumenti che le
sono propri, inoltre, l’illustrazione ha il potere di sviluppare un discorso
critico, anche di tipo contrastivo, sul testo con cui dialoga. Secondo Umberto Eco, “illustrare vuol dire […] stabilire un rapporto intertestuale che
non deve ridursi al servizio parassitico, ma può sfociare nella co-invenzio10
Sulle origini del fumetto e sui suoi rapporti con le arti figurative preesistenti sono state formulate varie ipotesi. Si vedano, in proposito, Pietro Favari, Le nuvole parlanti. Un secolo di fumetti tra arte e mass media, Bari: Dedalo, 1996, e il ‘metafumetto’ di Scott McCloud, Understanding Comics (1993), trad. it. di Leonardo Rizzi, Capire il fumetto. L’arte
invisibile, Torino: V. Pavesio, 1996.
11
Daniele Barbieri, I linguaggi del fumetto, Milano: Bompiani, 1995, p. 13.
12
Per illustrazione si intende “ogni multiplo ottenuto tramite la riproduzione a stampa
di un artefatto di natura grafico-pittorica, commissionato dall’industria editoriale, e pertanto reperibile nei relativi prodotti come libri e periodici” (Paola Pallottino, Storia dell’illustrazione italiana, Bologna: Zanichelli, 1998, p. 9). L’illustrazione nasce quindi in concomitanza con i primi prodotti stampati e la sua storia coincide, almeno fino alla fine del
Settecento, con quella delle tecniche ‘nobili’ di incisione (xilografia – diffusa in Europa a
partire dal XIV sec. – calcografia e litografia). In grado di raggiungere – grazie alle tecniche di riproduzione fotomeccanica – strati sempre più vasti della popolazione, a partire
dall’Ottocento l’illustrazione invaderà nuovi canali, dando origine a giornali (satirici) e riviste illustrati, edizioni illustrate per bambini e per adulti, manifesti artistici, vignette.
13
Daniele Barbieri, op. cit., p. 14.
14
Ennio Chiggio, “Illustrazione in Italia”, cit. ivi, p. 11.
SERGIO TOPPI ILLUSTRA FRIEDRICH DÜRRENMATT
/ 99
ne. […] [U]na buona serie di illustrazioni a un romanzo può costituire
una critica parallela, una chiave di lettura, un’interpretazione dell’opera
letteraria”.15 Proprio perché non deve narrare, ma fornire al testo un commento visivo il più possibile icastico e ricco di dettagli, connotandolo e
arricchendolo in vari modi, l’illustrazione esige inoltre, a differenza della
vignetta del fumetto, una lettura lenta.
Questo in linea generale. Sergio Toppi costituisce, entro questo quadro, una vistosa eccezione. Oscillando continuamente tra illustrazione fumetto, egli trasferisce tecniche e stili da uno all’altro, contaminando incessantemente i due linguaggi. Se i fumetti di Toppi denunciano l’influsso dell’illustrazione – soprattutto nell’architettura innovativa delle tavole,
nei forti contrasti di luce e nell’uso abbondante del tratteggio, sviluppato
a tal punto e tanto fittamente intricato da compromettere a tratti la leggibilità delle immagini – le sue illustrazioni presentano, oltre a queste caratteristiche, elementi derivati dal fumetto. Significativa, a questo proposito,
la definizione di “illustrazione fumettata” applicata da Nencetti alle copertine delle storie a fumetti di Toppi.16 Nel caso specifico che si intende
analizzare, più vicina alla pratica del fumetto che a quella dell’illustrazione è la particolare collocazione delle didascalie interne, quasi sempre suddivise in frammenti di testo distinti e dislocate in punti diversi all’interno
dell’illustrazione, in un modo che può ricordare appunto l’impiego del
balloon nel fumetto.17 Ma osserviamo più da vicino le immagini.
Eseguite a china, con pennello o pennino, in bianco e nero, esse denunciano, come sempre in Toppi, un uso sistematico e complesso del
tratteggio, alternato a campiture piatte di bianchi e neri intensi. Il fitto
tratteggio, oltre e disegnare le ombre (proprie; quasi del tutto assenti le
ombre portate), serve a definire le rughe dei visi, i drappeggi degli abiti,
l’oscurità degli ‘sfondi’: insomma a conferire alle figure consistenza materica e tridimensionalità, e a stagliarle contro il buio con maggior realismo.
15
Umberto Eco, “Arcipelago Pericoli”, cit. ivi, p. 12.
Angelo Nencetti, “Sergio Toppi illustratore. Un grande narratore per immagini”, in
Pietro Alligo, Angelo Nencetti e Giuseppe Pollicelli (a cura di), Sergio Toppi narratore
d’immagini, Torino: Lo Scarabeo, 2001.
17
Se la dislocazione frammentata nello spazio di queste didascalie rievoca quella del
balloon, la loro funzione rimane però rigorosamente tradizionale: esse contengono il frammento di testo cui l’illustrazione si riferisce e non l’enunciazione dei personaggi rappresentati. La loro collocazione anomala va piuttosto ricondotta, come si vedrà, alla peculiare
struttura compositiva delle illustrazioni.
16
100 /
GIULIANA ZEPPEGNO
Il tratteggio svolge, tuttavia, anche altre funzioni. “La tessitura”, ci dice
Barbieri, “è espressiva: una volta che abbiamo riconosciuto gli oggetti,
una volta cioè che sappiamo cosa sono, ci dice infatti anche come sono”.18 In Toppi, il come è spesso a tal punto privilegiato rispetto al cosa
che il lettore necessita talvolta di alcuni secondi per distinguere chiaramente i soggetti rappresentati: è il caso, nelle illustrazioni al testo di Dürrenmatt, delle fisionomie di alcuni personaggi e dell’architettura del carcere raffigurato nell’ultima illustrazione. In queste immagini l’uso del
tratteggio, come l’impiego di linee variamente modulate e i forti contrasti
di luce, è dunque soprattutto un uso emotivo, retorico: ne derivano effetti di tensione che, oltre a conferire alle figure un maggior dinamismo, le
connotano fortemente in senso espressivo.19
Legato alla funzione retorica delle immagini è, inoltre, l’impiego di
forti contrasti tra bianco e nero: quasi tutte le figure rappresentate emergono da fondali (come si vedrà, non si può parlare di veri e propri sfondi)
completamente neri o fittamente tratteggiati, con cui si creano, laddove
le figure sono lasciate bianche, forti effetti di contrasto: bianco è, ad
esempio, il grande copricapo di Al-Mansur (ill. 1), cui si contrappone,
poco sotto, una campitura di nero pieno; bianchissimo è il corpo della
donna dell’harem (ill. 4), stagliato contro un fondale quasi esclusivamente nero, e altrettanto bianco il turbante del califfo raffigurato nell’illustrazione 5, ridotto, nella parte superiore dell’immagine, a una nuda linea di
contorno; bianchi su fondo nero sono il copricapo e la veste del Grande
Inquisitore (ill. 7); abbagliante è, infine, la divisa del nazista dell’illustrazione 8, che non è neppure disegnata, ma ricavata in negativo nel nero
tratteggiato che la circonda.
18
Daniele Barbieri, op. cit., p. 30.
Si vedano ad esempio le illustrazioni 10 e 11: nella prima il fitto tratteggio con cui è
disegnato il cane bianco, insieme allo stiramento delle linee verso l’alto e alla conseguente
deformazione in verticale dell’animale, lo connota come essere onirico, forse divino, sicuramente simbolico (il cane – una delle forme in cui il diavolo tradizionalmente può manifestarsi – assume spesso, nella prosa di Dürrenmatt, una valenza metafisica, se non decisamente demoniaca. Si vedano, a questo proposito, i racconti Il cane [Der Hund, 1952] e Il
vecchio [Der Alte, 1945]. Cfr. Andreas Hapkemeyer, Diavolerie. Studio su Dürrenmatt, Milano: Guerini studio, 1991). Nell’ultima illustrazione l’architettura fantastica da cui sono
sovrastati i due teologi assume – grazie al fitto tratteggio che ne confonde sempre più i cunicoli, man mano che si procede verso il basso – connotazioni fortemente simboliche: il
carcere, di cui il lettore vede, per così dire, la sezione verticale, in una raffigurazione surreale, architettonicamente impossibile, è simbolo trasparente, tanto nel racconto quanto
nell’illustrazione, del labirinto.
19
SERGIO TOPPI ILLUSTRA FRIEDRICH DÜRRENMATT
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Data l’evidenza di questi contrasti – cui Toppi, che pur ama i contrasti
di luce, dovette certo attribuire una funzione specifica – pare lecito cercare
di attribuire loro un valore semantico. L’uso di campiture bianche non
sembra essere direttamente collegato alla presenza della luce, o non solo; in
alcune illustrazioni poi (è il caso soprattutto del nazista e del secondo califfo) gli spazi bianchi si distaccano per sottrazione da ciò che sta loro intorno – rappresentato in modo dettagliato e realistico – per ridursi a segni
grafici bidimensionali, abbozzati, stilizzati. Nell’unico caso in cui il colore
bianco è autorizzato e anzi sollecitato dal testo (la penultima didascalia recita: “Anan ben David si accorge di essere seguito da un cane bianco, nudo
e spelacchiato”, STfd, p. 43), Toppi non mostra di dare alla cosa troppa
importanza: il cane è così fittamente tratteggiato da sembrare scuro, se non
proprio nero. Un simile uso dei bianchi e dei neri, oltre ad assolvere a un
ruolo estetico – impreziosendo l’immagine e introducendovi un elemento
di varietà – sembra risolvere sul piano dell’espressione una dicotomia rilevante sul piano del contenuto. Osservando con attenzione le immagini ci
si accorge, però, che la classica coincidenza semantica della coppia chiaro/scuro con quella bene/male viene qui ribaltata. Scuro è l’interno della
cella (l’oscurità tratteggiata nelle illustrazioni 2 e 3 richiama quella della segreta, mai rappresentata in modo naturalistico), scuri i blocchi metallici
che, fuoriuscendo letteralmente dalla mente dello scultore svizzero, ne rappresentano la creatività (ill. 9), scuri sono il cane bianco e la bocca della caverna (ill. 10), scuro è, infine, l’intero carcere (ill. 11): si tratta, in tutti
questi casi, di personaggi e ambienti sentiti come positivi, perchè utili o
accoglienti. L’affermazione risulta più chiara se confrontata con l’elenco
degli elementi evidentemente connotati dal colore bianco: la donna lasciva
dell’harem, simbolo della decadenza del regno, e causa indiretta della dimenticanza in cui sprofondano i due teologi (la didascalia recita: “Con l’avanzare dell’età è l’harem a creargli più problemi […] e gli eunuchi si fanno sempre più insolenti…”, STfd, p. 21); il turbante del secondo califfo; il
Grande Inquisitore; il medico nazista.
Tale dicotomia invertita è comprensibile alla luce delle polarità semantiche già interne al racconto: la buia segreta in cui i due teologi hanno trascorso centinaia di anni, parlando di dio in modo tanto intenso da
credere, nel ricordo, di aver parlato con dio stesso, è il luogo sacro per eccellenza, che non ha bisogno di spazio né di luce, oltre che quello – come
risulta evidente nella chiusa – dell’umanità. Tutto ciò che ad Anan ben
David accade fuori da quei pochi metri quadri di prigionia, a causa di
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GIULIANA ZEPPEGNO
una libertà che non ha voluto, è spaventoso: incendi, beffe, interrogatori,
persecuzioni, incidenti. L’antro oscuro assume quindi connotazioni positive (Anan ben David cercherà, appena rilasciato, di farvi ritorno ed esservi trattenuto, ma invano), mentre il bianco è applicato a quanto di negativo o superfluo la Storia riserva ai due teologi. Emblematiche di questo contrasto e della luminosità di cui è investito, nel pensiero, il “carcere
buio” di Baghdad, sono le parole che seguono la descrizione degli esperimenti sul corpo dell’ebreo nel campo di concentramento di Auschwitz:
D’un tratto l’ebreo sparisce e il nazista lo dimentica. Con il trascorrere
dei secoli si sono fatti sempre più importanti per Anan ben David, più
straordinari, più radiosi, quei secoli che ha trascorso in prigione con Abu
Chanifa, in quella miserabile segreta di Bagdad. Ha da tempo dimenticato Abu Chanifa, è vero, s’immagina di essere stato solo nel carcere buio in
cui Al-Mansur […] l’aveva fatto gettare, ma gli sembra ora di avere parlato in tutti quegli anni senza fine con Jahwe; e non solo parlato, di aver
colto il suo respiro, di aver perfino visto il suo volto infinito, e quel buco
miserabile dove è stato segregato gli appare sempre più come la terra promessa; tutti i suoi pensieri, come la luce in un punto focale, si concentrano
su quel luogo e si trasformano in una incontenibile nostalgia di tornarci.
(STfd, p. 34, corsivo mio)
L’altro fattore responsabile, insieme all’intenso tratteggio e ai forti contrasti di luce, dell’intrinseca complessità delle illustrazioni è la loro struttura
architettonica. Il problema della composizione occupa, nella ricerca estetica di Sergio Toppi, un posto fondamentale, anzi si può dire che le soluzioni architettoniche elaborate dal disegnatore italiano costituiscano il
tratto più originale e innovativo del suo stile. L’innovazione architettonica
apportata da Toppi, a partire dagli anni Settanta, alle sue tavole a fumetti
deriva, almeno in parte, dalla tendenza tipica dell’illustrazione a concepire la tavola come un tutto unico, piuttosto che come una griglia inviolabile di vignette; allo stesso modo le illustrazioni denunciano una forte
sperimentazione compositiva che paradossalmente le avvicina al modo di
concepire lo spazio tipico del fumetto. Nelle sue illustrazioni, elementi
diversi – che in una tavola a fumetti occuperebbero vignette distinte –
confluiscono spesso in un unico quadro, secondo un elaborato processo
di sintesi sia figurativa che narrativa. Tali frammenti, che l’illustrazione
fonde nel vero senso della parola, attraverso un sapiente uso del tratteggio
e dell’alternanza chiaro/scuro (rappresentanti, a seconda dei casi, contenitori temporali diversi, accostati per analogia o per successione cronologica;
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porzioni spaziali diverse, a indicare avvenimenti simultanei in luoghi distinti; oggetti compresenti nello spazio, ma ritratti da angolazioni diverse;
attributi dei vari personaggi, orpelli, decorazioni, elementi di paesaggio
ecc.) vengono così a costituire veri e propri blocchi figurativi – non dissimili da quelli che Dürrenmatt attribuisce, nel racconto, al grottesco scultore svizzero – dall’effetto straniante, fantastico, ricchi di suggestioni e
passibili di letture diverse. L’accostamento di elementi distanti nel tempo
o nello spazio conferisce inoltre alle immagini un’inusuale densità emotiva e simbolica, oltre che narrativa e sensoriale: nonostante i vari frammenti non siano leggibili in simultanea, e presentino talvolta una complessa temporalizzazione interna, il loro accorpamento nello stesso blocco
suscita interessanti percorsi di lettura e sottrae agli oggetti rappresentati la
rigidità propria delle rappresentazioni naturalistiche.
Conseguenza di una simile concezione dell’immagine è l’assenza, pressoché totale, degli sfondi. I riquadri bianchi, ma più spesso neri che, variamente ritagliati, fanno da fondale alle figure analizzate, non riproducono, come si è già accennato, lo spazio reale: per lo più si limitano a connettere le figure rappresentate, bilanciandone la distribuzione, e solo in
alcuni casi forniscono, dello spazio, una ricostruzione fantastica. Quanto
alle possibili soluzioni compositive, le undici illustrazioni ne presentano
una vasta gamma: data l’impossibilità di dedicare a ciascuna di esse un’analisi dettagliata, tuttavia, ci si limiterà a esaminare due illustrazioni, particolarmente emblematiche della tecnica cui si è accennato.
L’illustrazione 5 presenta un’organizzazione interna piuttosto complessa. Vi si trovano assemblati almeno quattro piani diversi: al centro campeggia la figura del califfo, ritratto a mezzo busto e isolato anche graficamente dal contrasto della sua veste con il nero circostante. Egli è il soggetto della didascalia (“Un certo califfo, forse Al-Qadir ibn Ihaq ibn AlMuqtadir…”, STfd, p. 25) e indirettamente di ciò che avviene nella parte
inferiore della pagina: qui la liberazione del rabbino è risolta tramite un
espediente squisitamente grafico (l’enorme catena che divide simmetricamente i due prigionieri e dalla quale uno dei due si distacca è simbolo
dell’allontanamento, più che raffigurazione naturalistica) e la sappiamo
posteriore di duecento anni all’ordine del califfo20 (la domanda “quando
20
Dopo le parole riprese nella didascalia, il racconto prosegue: “Duecento anni dopo,
negli ultimi giorni del regno di Al-Mustansir ibn az-Zahir […] l’ordine giunge al vecchissimo sabeo che, brontolando e dopo qualche ovvia esitazione, mette in libertà Anan ben
David” (STfd, p. 23).
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L’illustrazione 5
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dura quest’immagine?” schiude in questo caso possibilità impreviste). La
raffigurazione della prigioniera veneziana alle sue spalle, in alto a sinistra
– ignara responsabile della sua decisione – può coincidere con un mero
riferimento testuale, rappresentare un ricordo, o ancora provenire da un
contenitore temporale distinto. Data l’incongruenza tra le dimensioni del
musulmano e quelle dell’ebreo, inoltre, si può ipotizzare per quest’ultimo
un quarto piano spaziale e temporale: verosimilmente il rabbino va immaginato mentre si trascina in direzione dell’uscita, o già in piena luce,
nel cortile del carcere. La sintesi temporale realizzata da quest’illustrazione è senz’altro notevole: se però ci limitiamo a mettere in rapporto l’immagine con la didascalia – come si prevede faccia il lettore, almeno a una
prima lettura – il salto temporale risulta appianato e la liberazione del
prigioniero ebreo, rappresentata in basso, leggibile come immediatamente successiva a quanto rappresentato nella parte superiore della pagina,
con conseguente semplificazione, per il lettore, di quel procedimento che
nel mondo del fumetto è chiamato closure.21
L’illustrazione 10 presenta un diverso tipo, forse ancora più raffinato,
di aggregato ottico: qui l’immagine dell’ebreo ritratto di spalle nell’atto di
entrare nella caverna non può essere che la soggettiva del cane bianco, il
quale contemporaneamente viene inquadrato di fronte, nella parte centrale e superiore della pagina. Nella stessa illustrazione sono dunque raffigurati la scena e l’occhio che la guarda – gli occhi allucinati, demoniaci,
del cane – secondo modalità non dissimili da quelle impiegate nei film
per segnalare il carattere soggettivo di un’inquadratura.22
I problemi compositivi illustrati finora intrattengono un legame forte,
oltre che con il trattamento cui sono sottoposti tempo e spazio, con quella
che potremmo chiamare la ‘gerarchizzazione’ dei soggetti rappresentati o,
se si preferisce, la distribuzione degli accenti sulle varie figure della storia.
Riconducendo queste ultime ai ruoli attanziali stabiliti dalla semiotica greimasiana, ci si accorge di come esse si distribuiscano intorno a dicotomie
molto semplici, pressoché invariate nel corso del racconto. Abu Chanifa e
21
Con il termine inglese closure si intende quel completamento per inferenza in base all’esperienza che permette al lettore di fumetti di ricostruire la sequenzialità frammentata
delle vignette in un continuum mentale, completando con l’immaginazione i segmenti
narrativi più o meno lunghi impliciti negli spazi tra una vignetta e l’altra (cfr. Scott McCloud, op. cit.).
22
Si fa qui riferimento all’espediente cinematografico che consiste nell’introdurre una
soggettiva mediante l’inquadratura degli occhi o del volto del personaggio che sta osservando la scena.
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L’illustrazione 10
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Anan ben David svolgono indubbiamente il ruolo di soggetti – bilanciati e
complementari nella prima parte del racconto, più sbilanciati nella seconda, in cui l’accento è posto sulle vicende del rabbino – mentre i vari califfi
che prima li incarcerano, poi li dimenticano, poi provocano la scarcerazione dell’ebreo, possono essere accomunati sotto la categoria di destinanti,
vero e proprio motore della storia e causa, con le loro azioni, dei suoi eventi principali, siano questi di ordine pratico o spirituale. Alle restanti figure
del racconto spettano i ruoli di aiutanti e di opponenti: se alla prima categoria appartengono il guardiano che caccia a forza dal carcere Anan ben
David,23 il vecchio talmudista che lo disconosce e maledice, il cavaliere
mongolo, l’Inquisitore, il medico nazista; alla seconda vanno ricondotti lo
scultore svizzero, che da Istanbul conduce il rabbino sino a Baghdad, il cane bianco che misteriosamente lo guida alla caverna e, per quanto attiene
alla vicenda di Abu Chanifa, i topi che per secoli lo tengono in vita e che
alla fine permetteranno il riconoscimento reciproco tra i due teologi.
Questi rapporti tuttavia non valgono, o valgono solo in parte, per le
illustrazioni: come risulta evidente anche solo scorrendole, le due figure
che nel racconto svolgono il ruolo di soggetti (Abu Chanifa e Anan ben
David) non compaiono nelle immagini se non marginalmente, a causa sia
delle loro dimensioni che della loro collocazione topologica. Nella prima
illustrazione il musulmano è ritratto di spalle; nella seconda e nella quarta
i due soggetti sono assenti; la quinta li vede raffigurati in basso, molto
piccoli rispetto al resto della composizione; nelle illustrazioni 6, 7, 8, 9 e
10 la figura del rabbino è per lo più minuscola, posta a lato della figura
principale, in due casi di spalle (ill. 8 e 10); nell’ultima illustrazione, che
ci si aspetterebbe interamente dedicata ai due teologi, non è concesso loro
che un angolo dell’immagine, per il resto dominata dalla raffigurazione
del carcere. Di fatto, solo nella terza illustrazione si ha un vero e proprio
ritratto dei due protagonisti, costretti tuttavia a spartire l’immagine con i
torturatori ritratti in primo piano.
A ciò si aggiunge il fatto che la raffigurazione dei due teologi è sempre, a eccezione dell’illustrazione 3, notevolmente più stilizzata di quella
23
La funzione dell’anziano guardiano sabeo, cui Toppi dedica un’intera illustrazione, è a
rigore quella di un aiutante, ma è del tutto priva di intenzionalità: egli porta sì per secoli ai
due prigionieri, con i quali condivide l’incredibile longevità, la loro razione di cibo, ma lo fa
“meccanicamente […], spinto dal senso del dovere che è più forte del disprezzo per quei
due” (STfd, p. 23), ed è responsabile della scarcerazione di Anan ben David in modo alquanto mediato (non fa che eseguire, per pura pedanteria, un ordine impartito due secoli prima).
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delle altre figure. Tale fattore, soprattutto se posto in relazione con le modalità di raffigurazione predominanti in Toppi, assume una rilevanza centrale per la comprensione della riscrittura: “La stilizzazione delle forme”
osserva Nencetti in riferimento allo stile del disegnatore, “è effettuata laddove serve ma vi è soprattutto nei ritratti una forte connotazione degli
stilemi della pittura realistica ottocentesca”. E ancora: “Tutto ciò altro
non è che quell’esercizio alchemico che spostandosi sul piano stilistico-figurativo, fa sì che l’autore continui anche nell’esperimento puramente
grafico quel virtuoso miscuglio di elementi stilistici, […] tanto da riuscire
a creare ritratti di volti umani che non sono semplicemente riproduzione
di una data fisionomia, sebbene estremamente fedeli, ma vogliono mostrare i lineamenti di una certa personalità, le qualità e i difetti di quel
particolare soggetto”.24 Ebbene: quale personalità, che qualità e difetti ci
mostrano le fisionomie di Abu Chanifa e Anan ben David? Nessuna. Sono troppo poco dettagliate, troppo stilizzate, perché si possa parlare di vera e propria connotazione. Per converso, le figure cui Toppi dedica quasi
interamente le sue illustrazioni (cioè i vari destinanti, opponenti, aiutanti,
oltre ad alcune addirittura prive di un corrispettivo nella storia)25 sono
raffigurate in modo estremamente dettagliato e, come si è osservato all’inizio, fortemente connotante. Al confronto, la raffigurazione dei due teologi, affidata a poche linee essenziali anche a causa delle dimensioni ridotte e avara di tessiture, fa pensare a delle funzioni simboliche, più che a
due individui ben definiti. Nel mondo delle immagini vale la regola per
cui, quanto più una figura è iconica, tanto più diventa universale agli occhi del lettore: il processo di astrazione iconica che è alla base dei cartoon,
per esempio, semplificando e selezionando i dettagli specifici di una figura umana permette un’identificazione con essa sempre più ampia da parte
del pubblico.26 I due teologi, la cui astrazione non è tale da trasformarli in
macchiette, sono tuttavia figure più pallide e ‘vuote’ delle altre, e in quanto tali più disponibili nei confronti dell’identificazione del lettore e dei
processi di significazione.
24
Angelo Nencetti, op. cit., rispettivamente pp. 68 e 67.
Nella fattispecie: la donna dell’harem e l’eunuco. Se è l’harem a provocare indirettamente la scarcerazione del rabbino, le due figure rappresentate nell’illustrazione 4 sono
però assenti dalla storia, che parla genericamente di harem ed eunuchi. I due personaggi
raffigurati qui, cui Toppi concede un sì ampio spazio, vanno quindi ricondotti esclusivamente all’inventiva del disegnatore.
26
Cfr. Scott McCloud, op. cit.
25
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L’assimilazione di Anan ben David e Abu Chanifa a due cifre simboliche, d’altronde, è operata in prima istanza dal racconto: Dürrenmatt non
descrive mai, se non indirettamente, l’aspetto fisico dei suoi personaggi;
essi non compiono scelte attive, se non di tipo metafisico, e per lo più si
limitano a subire con indifferenza ciò che accade loro; l’introspezione psicologica è assente, sostituita dall’analisi del percorso mistico compiuto
parallelamente da entrambi; l’atteggiamento dei due personaggi è tanto
simile da renderli interscambiabili, e si biforca soltanto nella seconda parte per ovvie esigenze di trama; si insiste, nella seconda sezione, sulla difficoltà di attribuire con certezza le peregrinazioni descritte al medesimo
rabbino, conferendogli così una sfumatura mitica; l’età plurisecolare e lo
stato di perpetua amnesia e apatia che affligge i due teologi sembra escluderli dalla sfera dell’umano per collocarli in una zona più rarefatta. Solo
nell’ultima scena, infine, i due si riappropriano di connotati umani: prima della diffidenza e dell’odio, poi, dopo il riconoscimento finale, della
fratellanza. Individui però, non lo sono mai.
Insieme ad Anan ben David va immaginato, in viaggio, l’intero popolo
ebraico; e nella segreta è accovacciato, al fianco di Abu Chanifa, l’Islam di
ogni era e paese. La valenza universale dei due personaggi è scoperta: “Da
tempo”, scrive Dürrenmatt, “Abu Chanifa è diventato una specie di Corano, e Anan ben David la Thora” (STfd, p. 22). Il ricongiungimento finale
è molto più che un generico inno alla fratellanza tra uomini: è l’auspicata
riconciliazione tra due popoli. La trama del racconto (l’iniziale alleanza
spirituale tra i due teologi sulla base di un credo comune, l’allontanamento dell’ebreo, il suo errare, il ritorno a una ‘terra santa’ che egli si aspetta
vuota, e che invece trova occupata dal vecchissimo musulmano, anch’egli
intimamente convinto di esserne il legittimo possessore, infine il reciproco
riconoscimento e il trionfo della libertà) è metafora trasparente di un’altra
trama, quella intessuta dalla Storia intorno ai popoli musulmano ed ebraico, e al conflitto sostituitosi, nei secoli, all’iniziale fratellanza tra culture.
Sergio Toppi, quindi, mantenendo i due personaggi sul limite dell’astratto, graficizzandoli e ostacolando ogni possibile immedesimazione
empatica da parte del lettore,27 rispetta appieno quella che sembra essere
l’intentio operis dell’originale. Di fatto, però, tra l’operazione di Dürren27
Se l’astrattezza della rappresentazione è causa di una certa ampiezza identificativa (si
adatta cioè, come si è visto, a rappresentare un ampio numero di lettori, o un’intera categoria), ostacola però anche, nel lettore, quella che si è scelto qui di chiamare la sua immedesimazione diretta.
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L’illustrazione 6
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L’illustrazione 7
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matt e quella del disegnatore intercorre una differenza di rilievo: se il racconto mantiene in vita con numerosi riferimenti la presenza del sacro,
imperturbabile, nell’animo dei due teologi, e la lunga meditazione su dio
che essi proseguono nel corso dei secoli, le immagini rinunciano a farlo.28
Nelle illustrazioni – nonostante un tentativo di raffigurare l’assente sia
realizzato con successo, laddove Toppi dà forma tangibile alle fantasie dello scultore svizzero – il disegnatore si limita a rappresentare, per così dire,
la vicenda esteriore, lasciando implicita quella mistica, e affacciandosi al
soprannaturale solo quando il testo ne consente una rappresentazione,
come nel caso del cane bianco dell’illustrazione 10, dotato di un indubbio valore simbolico nel senso del trascendente ma pur sempre delle fattezze di un cane.29
Le piccole dimensioni dei due teologi e la loro posizione marginale
nelle illustrazioni hanno inoltre un’altra conseguenza sul piano interpretativo: lasciano trasparire, in controluce, la particolare concezione della
Storia sottesa non solo al racconto, ma anche all’Essay über Israel, e all’intera produzione dello scrittore svizzero. Come si è detto, i soggetti delle
illustrazioni non coincidono con quelli del testo: le figure che nel racconto svolgono il ruolo di destinanti, opponenti, aiutanti, per citare solo i
più rilevanti, assurgono – tranne che in un caso – a protagonisti assoluti
delle immagini (in cinque casi si tratta di personaggi storici, o pseudostorici), mentre ai soggetti del racconto sembra accordato, nelle illustrazioni,
un ruolo accessorio.
In questo modo, Toppi raffigura i due personaggi per così dire a margine dei grandi avvenimenti storici; ce li mostra in balia della Storia: oltre
che molto piccoli, li disegna talvolta di spalle, altre volte a capo chino (ill.
5, 7, 9), o striscianti (ill. 6), per lo più sovrastati dalla mole di ciò cui sono assoggettati (un uomo, un avvenimento), o nell’atto di sfuggirgli. Dal
racconto sappiamo, però, che né l’ebreo né il musulmano – immersi in
28
L’unico riferimento figurativo diretto alla sfera del divino è il feticcio adorato dal
guardiano, raffigurato nella seconda illustrazione. Il suo grado di astrattezza, però (viene
descritto come un “arrugginito idolo monocolo”, STfd, p. 12), è innegabilmente inferiore
a quello posseduto dalle divinità dei due teologi.
29
Molto interessante, a questo proposito, il commento che Nencetti dedica al compito
dell’illustratore: “L’illustratore, conscio dell’infinita possibilità della parola non deve seguirla nelle regioni non rappresentabili dell’astratto e neppure deve ripetere il testo dove la
sua perfezione rende superfluo ogni altro commento, ma deve intendere a colmare i silenzi, le lacune, le reticenze della parte letteraria”. Angelo Nencetti, op. cit., p. 45.
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L’illustrazione 8
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pensieri più alti, e in perpetua contemplazione dell’immutabile – sono
mai vere e proprie vittime della Storia: questa scorre loro addosso senza
intaccarli, ed essi le sopravvivono proprio perché non ne avvertono il corso. In accordo con il testo le illustrazioni di Toppi raffigurano quindi, più
che il potere stritolatore della Storia, la sua sostanziale insulsaggine. Nella
finzione narrativa – e soltanto qui – Anan ben David non soffre stoicamente le avversità: le ignora. “[I]mmerso in chissà che pensieri, sostanzialmente assente” (STfd, p. 34), il rabbino sopravvive ad Auschwitz, e allo stesso modo inconsapevole fa ritorno nella sua personalissima terra
santa. La sua non è la storia di un uomo, ed è solo in parte la storia di un
popolo: più autenticamente, è la storia di uno spirito, che nulla, neppure
le barbarie della Storia, riescono a estinguere: “Proprio perchè questo popolo è stato perseguitato come nessun’altro, la sua storia è la storia del
suo spirito, non della sua persecuzione”, scrive Dürrenmatt (EüI, p. 24).
“Anche ciò che è accaduto al popolo tedesco tra il 1933 e il 1945” osserva poco più avanti, “è stato così orribile e assurdo da non poter essere
predetto né previsto” (EüI, p. 43). A provocare la Shoa, ammette Dürrenmatt, hanno concorso indubbiamente vari fattori concomitanti (la guerra
persa, una mistica idea di impero, un latente senso di inferiorità, la follia
collettiva, ecc.), ma i meccanismi più intimi restano, secondo lo scrittore,
imperscrutabili e assurdi, così come paradossale resta la loro conseguenza
storica più diretta: la nascita dello Stato di Israele. Chi poteva prevedere
che il nazismo avrebbe finito per scatenare ciò che in ogni modo aveva
cercato di impedire? Lo stesso Stato di Israele – scrive Dürrenmatt – deve
la sua esistenza, più che al movimento sionista, alla catastrofe del decennio precedente. “A dargli il diritto di esistere è l’imprevedibilità della Storia, non la prevedibilità della Storia, che non esiste” (EüI, p. 45). Il presente non è leggibile se non alla luce del futuro, e il carattere necessario
degli eventi non è altro, in quest’ottica, che una tardiva giustificazione
umana: “L’ineluttabilità che rinveniamo nella storia è soltanto qualcosa
che vi inscriviamo a posteriori. Ciò che riserva il futuro è incerto, per il
semplice fatto che la validità di un’analisi del presente può ricevere conferma solo dal futuro” (EüI, p. 43).
Al concetto di Storia come concatenazione causale di eventi Dürrenmatt non sostituisce, come questo racconto lascerebbe intendere, quello
di disegno divino – in cui non crede – bensì quelli di labirinto e di caso.
Il racconto si chiude, tuttavia, con un messaggio positivo: per una volta
s’intravede, nel disperante labirinto dürrenmattiano, uno spiraglio di lu-
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ce, senza tracce d’ironia. La via d’uscita al conflitto ebraico-palestinese –
leggiamo a conclusione del saggio e del racconto-apologo – va rintracciata sul piano dell’esistenziale, prima che nel compromesso politico: “La
tolleranza” scrive Dürrenmatt quasi a conclusione dell’Essay, “non è un’esigenza estetica ma un’esigenza esistenziale, che ognuno deve pretendere
in primo luogo da se stesso, prima che dagli altri. Prima della lotta per la
pace viene la lotta con noi stessi” (EüI, p. 145).
L’ultima illustrazione di Toppi è emblematica di queste contraddizioni: il labirinto non è debellato, anzi occupa l’intero campo visivo, ma in
un angolo, strette l’uno all’altra, stanno rannicchiate le due figure di
Anan ben David e Abu Chanifa, sopravvissute alla Storia e finalmente in
possesso di una nicchia di pace e di libertà. Qui, come in tutti i casi che
precedono, l’immagine valica di molto la mera illustrazione per tradurre,
con i mezzi espressivi che le sono propri, il discorso simbolico che il testo
ospita in profondità.
In un sapiente equilibrio tra evocazione e illustrazione, le immagini di
Toppi aggiungono al testo un completamento sia visivo che interpretativo: oltre alla peculiare combinazione e reazione reciproca di diversi piani
temporali, spaziali, narrativi, realizzata dalla sintesi compositiva operante
nelle singole illustrazioni, e alla forte connotazione emotiva e simbolica
imputabile all’intenso tratteggio, particolare rilievo assume lo slittamento
di accenti dai due soggetti agli altri attanti del racconto (predominanti
sui primi tanto a livello di frequenza figurativa che di dimensioni), con il
duplice effetto di elevare a universali i due personaggi (in modo forse più
immediato e perspicuo di quanto non faccia il testo narrativo) e di innescare una riflessione, più latente nel racconto, sul valore della Storia. Se
da una parte la riscrittura di Toppi fornisce, a un testo scarsamente visivo
quale quello in questione, un commento icastico, ricco di dettagli ed evocativo di un’atmosfera, dall’altra realizza quindi quella “co-invenzione” e
“critica parallela” che Eco auspicava per l’illustrazione.
Quelle di Toppi sono immagini ardue, dalla complessa temporalizzazione interna e dal fitto intricarsi di livelli, fruibili solo a patto di una lettura lenta e di un’attiva collaborazione da parte del lettore. Il delicato
equilibrio tra ciò che viene mostrato e ciò che rimane celato, infine, se da
un lato rispecchia appieno la tendenza del racconto a bilanciare sapientemente il detto e il taciuto, dall’altro rivela la maestria di Toppi nel “non
‘violentare’ l’immaginario del lettore con illustrazioni talmente ‘piene’ di
dettagli ed elementi descrittivi da non lasciare […] alcuno spazio all’ulte-
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GIULIANA ZEPPEGNO
riore elaborazione immaginifica e sognante. La capacità di ‘rappresentare’
creando illustrazioni dettagliate laddove necessario, ma essenziali nei loro
elementi, proprio per dare ‘conoscenza’ al lettore quanto basta per preservargli la possibilità dell’autonoma fuga nell’immaginario ed evocativo
personale”.30
30
Angelo Nencetti, op. cit., pp. 45, 47.
§
PARAGRAFO
III
LETTURE
§
6
Antonella Amato
Rilke, Nietzsche,
e il Compimento dell’amore di Musil
Mi proposi di acuire ancora, nell’ultima elaborazione, le singolari prospettive intellettuali che formano il nucleo di ogni singola scena, di essere
ancora più intellettuale per non far nascere stanchezza dalla pesantezza
delle immagini, ma d’altra parte di riunire più nettamente le parti intorno allo sviluppo complessivo (vaghi pensieri fino alla conoscenza del valore della bugia, della solitudine, dell’infedeltà nell’amore). In terzo luogo
[…] devo essere un po’ più narrativo nel comune senso del termine, non
bisogna solo assistere allo sviluppo interno per necessità interne, ma anche vedere come una persona passa per gradi da una situazione all’altra.1
Così Musil annotava sul suo quaderno il 12 agosto 1910, totalmente assorbito dalla stesura del Compimento dell’amore (Die Vollendung der Liebe), prima delle due novelle che saranno stampate, circa un anno dopo,
con il titolo Vereinigungen.2
Il progetto si rivela sin dall’inizio complesso, tormentato, come dimostrano le numerose lettere a Franz Blei, a Paul Scheffer, e le riflessioni annotate parallelamente alla composizione, nel tentativo di creare una forma narrativa originale e di allontanarsi da una narrazione fondata sul rapporto causa-effetto e da “schizzi alla Maupassant”. L’obiettivo e, nello
stesso tempo, la difficoltà più grande, è, sin da subito, quello di creare
1
Robert Musil, Tagebucher (1976), trad. it. di Enrico De Angelis, Diari, Torino: Einaudi, 1980, pp. 332-33. D’ora innanzi, D.
2
La traduzione letterale di Vereinigungen è Unioni: meno precisa risulta quella preferita
da Anitha Rho – ossia Incontri – nella traduzione Einaudi del 1980. Nell’edizione Newton Compton del 1991 Giacinto Spagnoletti traduce, invece, Congiungimenti. Per quanto
riguarda Il compimento dell’amore, ricordiamo la traduzione di Giulio Bertocchini, Pordenone: Studio Tesi, 1994.
PARAGRAFO III (2007), pp. 119-39
120 /
ANTONELLA AMATO
una narrazione fluida che riesca a “costruire demolendo, a concentrare
sciorinando, a dissolvere tenendo tutto unito”, dosando “concettualità e
concretezza”, “sentimento e la zona intellettual-emozionale”.3 Non bisogna dimenticare che Il compimento dell’amore è una “parabola”, dice Musil, che parte da un anello iniziale, ossia l’amore, per concludersi con
quello finale dell’infedeltà, un viaggio attraverso i sensi e la loro esplosione per giungere ad un “altro stato” (SL, p. 110), dove si spezzano le catene che ci legano all’esistente. Vediamone le tappe principali.
1. Nella prima parte del racconto marito e moglie siedono in salotto, in
una tipica ambientazione borghese; un’apparente, perfetta, sintonia sembra regnare tra i due, tuttavia vi è l’ombra di un disagio che li allontana
(“Ma quell’altro elemento quasi corporeo lo potevano percepire solo loro
due, e sembrava teso fra di essi come un ponte di metallo durissimo che li
tenesse fermi ai loro posti eppure li unisse, benché così distanti, in un’unità quasi tangibile”).4 Prendono il tè avvolti in un’atmosfera vibrante in
cui avvertono “di non poter vivere l’uno senza l’altro”, ma sono, anche,
silenziosamente consapevoli di un’ansia sottile che li separa e rende difficile un’intimità completa. Sentono, quindi, di dover ignorare questa impressione, di dover parlare di altro per non parlare di sé. Ma l’argomento
scelto, un libro letto da entrambi incentrato sulla figura di un certo G.,
un maniaco sessuale, tradisce, soprattutto da parte della donna, la necessità di rompere questo silenzio e di aprire un piccolo squarcio sulla sua
natura tormentata (“‘Per me’, disse la donna, e si capì che non parlava di
quell’individuo casuale, ma di qualcosa di preciso che già si delineava dietro di esso, ‘per me egli crede di agire bene’”; “Egli fa male alle sue vittime, le fa soffrire, […] sconvolge la loro sensualità e la agita così che non
potrà mai giungere a una meta e acquietarsi… e tuttavia sembra di vederlo sorridere… tutto molle e pallido in volto, malinconico eppure risoluto,
pieno di tenerezza… con un sorriso carezzevole che aleggia su di lui e sulle sue vittime… come un giorno di pioggia sulla campagna”; V, p. 7).
Non a caso, subito dopo, la donna riporta la discussione su un piano privato, ricordando al marito una notte in cui essa, nonostante la vicinanza,
avrebbe desiderato essere lontano da lui.
3
Robert Musil, Essays und Reden (1976), trad. it. di Andrea Casalegno, Saggi e lettere,
Torino: Einaudi, 1995, pp. 7, 10. D’ora innanzi, SL.
4
Robert Musil, Incontri, Torino: Einaudi, 1980, p. 6. D’ora innanzi, V.
RILKE, NIETZSCHE, E IL COMPIMENTO DELL’AMORE DI MUSIL
/ 121
Nella seconda parte l’ambientazione da interna diventa esterna, e il
personaggio assume un’identità ben precisa; Claudine si trova alla stazione in procinto di partire per andare a trovare sua figlia in collegio. Il cambiamento coincide con l’inizio del viaggio della donna e con la rievocazione del proprio passato: si apre immediatamente una finestra sulla sua
vita trascorsa in cui “ella commetteva o subiva atti che andavano dalla
passione all’umiliazione” (V, p. 11).5 Appaiono, quindi, i motivi centrali
del racconto.
Si fa strada in lei la sensazione di “qualcosa di irreperibile” che si agita
dentro, una “essenza nascosta della sua vita”. Compare anche, per ben tre
volte, la parola Zufall, che nella prima parte era comparsa solo una volta a
proposito del maniaco definito zufälligen (“E che proprio ora ella dovesse
ripensare a quel tempo poteva dipendere dal caso, oppure dal suo andare
a trovare la bambina, o da qualche altra cosa di solito indifferente”; “Pur
nella sua felicità Claudine era assalita talora dalla consapevolezza di una
nuda realtà, quasi di una casualità”; “Non era un pensiero casuale, al contrario conteneva qualcosa di quella solitudine sconfinata e tumultuosa
nella quale il suo sentimento cercava invano un punto d’appoggio”; V,
pp. 11, 16-17, 20). Sulla scia dei ricordi Claudine, progressivamente, cede a un sottile e confuso sgomento: si impadronisce di lei uno “sprigionamento di forze” (Kräftefreimachen) che la spinge a ripensare la sua passione per il marito come “una coercizione, un obbligo, un travolgimento” e
a sentirne, subito dopo, rimorso; tuttavia “poteva immaginare di appartenere a un altro uomo, e non sembrava un tradimento ma un matrimonio
supremo” (V, pp. 16, 18). Ella si accorge, inoltre, di amare suo marito soprattutto quando pensa di “infliggergli l’estrema offesa mortale” (V, p.
19), e comincia e sentire distintamente il peso di un destino (Schicksal)
che sembra incatenarla (“E qualche volta le pareva di essere destinata ad
una ignota sofferenza d’amore”; “E allora improvvisamente tutto le apparve come un destino. Era destino l’essere partita, l’essere abbandonata
dalla natura, l’aver paventato e temuto quel viaggio fin dal principio, l’aver paura di sé, degli altri, della propria felici”; “Ella provò la profondissima staccata felicità umana di essere al mondo, con la coscienza di non
5
Cases fa notare l’ambiguità della parola partenza, in tedesco Aufbruch: intraducibile
perché oltre all’idea di partenza contiene anche quella di rottura e denota “l’uscita dall’esistente, dalla società costituita, dalla società occidentale malata”. Cesare Cases, “Storie senza principio e senza fine”, in Robert Musil, Romanzi brevi, novelle e aforismi, Torino: Einaudi, 1986, p. xiii.
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ANTONELLA AMATO
potervi entrare, di non poter trovare tra i suoi decreti quello che era destinato a lei”; V, p. 17, 20-21). La parola Schicksal, nelle varianti, anche, di
Bestimmt, compare, in questa seconda parte, tre volte, in perfetta sintonia
con le tre volte di Zufall.
La terza ed ultima parte del racconto coincide con la fine del viaggio e
l’incontro con un uomo, un consigliere ministeriale; una frenesia sensuale
divampa sempre più in lei, come se “i limiti del suo essere si fossero allargati invisibilmente e sensitivamente ed ogni cosa li urtasse e li facesse tremare” (V, p. 25). Ma non si tratta semplicemente di qualcosa di sensuale;
con il procedere del viaggio, in mezzo a gente estranea, essa riscopre una
parte di sé che credeva morta per sempre. Lontana dall’atmosfera ovattata
del suo matrimonio, sente un’inquietudine, una corrente impetuosa che
la spinge a desiderare, a tratti, la fine del suo grande amore, e il raggiungimento di una dimensione privata, inaccessibile agli altri in cui lasciarsi
andare all’arbitrarietà degli eventi. In Claudine si attua una specie di dilatazione emozionale che altera i rapporti tra lei e il mondo, e le impedisce
di riaffermare il proprio equilibrio interno rispetto agli accadimenti esterni: la tentazione del passato sembra richiamarla dagli abissi del tempo
riempiendola di un “orrore voluttuoso”, e l’amore per il marito, sempre
più debole ma costante, come nella parte precedente, si lega inevitabilmente al languore sensuale provato nei confronti dello sconosciuto, all’atto estremo del tradimento.
Nella notte, in albergo, un risveglio improvviso; essa è “molto lontana
da se stessa”, dai suoi consueti comportamenti: l’uomo irrompe nei suoi
pensieri trascinandola in un vortice di desiderio “inconcepibile, assurdo,
brancolante”. Appare evidente però che egli è soltanto il segno di qualcosa di più profondo: “Capiva chiaramente che non lo sconosciuto l’attirava, bensì quell’ansia e quell’attesa, una felicità dai denti aguzzi, un’estasi
selvaggia e abbandonata di essere se stessa, creatura umana, viva e desta
come una ferita aperta tra le cose inanimate” (V, pp. 27, 29); nello stesso
modo, e con la stessa lucidità, Claudine comprende che quello che le accade è indipendente dal suo volere, quello che le accade è, semplicemente, il suo destino (Schicksal), irrevocabile e prezioso, che le ridona la “tenera particella, sperduta dentro di lei, di un amore che cercava il proprio
compimento” (V, p. 31).
La mattina dopo, il tentativo di spedire la lettera al marito coincide
con la speranza di salvarsi da se stessa, ma l’interruzione delle comunicazioni la spinge a strappare la lettera, e ad arrendersi al “liquido ardente e
RILKE, NIETZSCHE, E IL COMPIMENTO DELL’AMORE DI MUSIL
/ 123
amaro” (V, p. 35) che le dilaga dentro. Nell’incontro successivo con il
consigliere ministeriale ella avverte la possibilità concreta (Möglichkeit)
che le sue fantasie diventino reali, la Möglichkeit o, meglio, il “gioco della
possibilità”, che tutto possa accadere: “La sua vita si scindeva in mille
possibilità, si svolgeva come scenari arrotolati di molte vite diverse” e lei
si sentiva “un essere casuale, separata dagli altri solo da un involucro mutevole di caso e realtà” (V, p. 39). Il passato e il presente si intrecciano e,
in un’atmosfera irrealmente sospesa, Claudine prova per quest’uomo “un
sentimento simile a un bagliore senza sostanza, senza leggi, che stranamente fluttuava in lei come se non le appartenesse” (V, p. 43); tenta di rifugiarsi nel sentimento per il marito perché “lì si sentiva protetta” e “le
cose non tagliavano la notte come aguzzi rostri di navi” (V, p. 50), tuttavia comprende che è inutile. Interessante notare che, in questa parte, la
parola Zufall compare per ben quattordici volte, contro le quattro di
Schicksal e le tre di Möglichkeit: l’esistenza di Claudine è, quindi, “un disegno casuale” che si svolge in un’atmosfera di necessità. Essa si sottomette al casuale nel senso di una necessità irrazionale raggiungendo l’apice
nel prostrarsi, in preda ad una eccitazione disperata, a quattro zampe,
dietro la porta dove l’uomo indugia, e improvvisamente sente che deve
aprire, che deve superare “l’angoscia mortale” e la rigida oppressione che
grava sulla vita nella consapevolezza che occorre “dare via tutto quello che
si può abbandonare, per avvolgerci più strettamente in quello che nessuno può toccare” (V, p. 56).
Nel momento conclusivo di questa terza parte il suo percorso interiore raggiunge il punto più alto; Claudine cede al Zufall, come dice al consigliere ministeriale (“Quel che mi piace è stare con lei, il fatto, il caso di
stare con lei”; V, p. 59), si abbandona all’uomo, e mentre il suo corpo si
riempie di voluttà e di orrore, proprio nel momento del tradimento nei
confronti del marito, ristabilisce inspiegabilmente un contatto profondo
con la parte più reale di sé, liberandosi da coercizioni e obblighi. L’infedeltà inevitabile che la separa dall’amato le permette di raggiungere “l’estrema fedeltà che aveva serbata nel suo corpo” (V, p. 49) e di comprendere finalmente cosa significhi “für alle da sein können und doch nur wie
für einen”, ossia “poter esistere come per tutti e tuttavia solo per uno”.6
6
In questo caso preferiamo la traduzione citata di Giulio Bertocchini (p. 67). Anita
Rho traduce impropriamente “Come un potersi dare a tutti, eppure appartenere a uno solo” (p. 60), dando al testo un’impronta marcatamente sensuale che, con ogni probabilità,
Musil non aveva previsto per il momento finale della novella.
124 /
ANTONELLA AMATO
La decisione, tanto improvvisa quanto involontaria, di dare del tu al consigliere rivela che Claudine ha concluso la sua personale evoluzione: essa
conquista la consapevolezza che l’unica vera “tenerezza” (Zärtlichkeit) è
verso stessi, ogni rapporto, ogni amore è il risultato del caso, e che “si
ama quell’unica persona non per necessità ma per arbitrio, mentre se ne
potrebbero amare mille altre”.7
2. Nel 1911, in un abbozzo di prefazione a Vereinigungen, Musil scriveva:
All’estrema superficie ci sono temperamenti, caratteri. Un po’ più in
profondità gli onestuomini hanno macchie di farabuttaggine, i Grandi
Momenti di stupidità ecc. In questa sfera vivono la grande narrativa e la
grande descrizione degli uomini nel dramma. Qui sono maestri Tolstoj,
Dostoevskij, Hauptmann, Thackeray. Ancora un po’ più in profondità gli
uomini si dissolvono in nullità. È la sfera in cui si smette a metà di un’esplosione passionale. Si sente che qui non c’è più nulla dell’individuo, ci
sono solo pensieri, relazioni generali che non hanno la tendenza e la capacità di formare un individuo. In questa sfera si svolgono le novelle, da
questa sfera, dall’esistenza di questa sfera esse traggono il loro conflitto.
Dalla sfera profonda presa sul serio, non dalla nullità, ma dall’entusiasmo
tragico per essa.8
La riflessione teorica che Musil svolge riguardo alla distinzione tra romanzo e novella permette di intuire immediatamente il senso della composizione di Vereinigungen. L’oggetto della novella emerge, per lo scrittore
austriaco, nel momento in cui l’autonomia dell’individuo è annullata da
forze che lo trascendono, che lo dominano; la novella si distacca dalla necessità di rappresentazione totale dei destini esteriori propria del romanzo, consapevole della frammentarietà dell’esperienza umana, e permette,
dunque, di scegliere un momento significativo, di soffermarsi sul processo, tutto interno, di dissolvimento dell’individuo, anzi, sull’“entusiasmo
tragico” dovuto a questo dissolvimento: i personaggi non contano molto,
a contare è il loro cedimento davanti all’ondata irresistibile dell’irrazionale (sono privati anche dei nomi, sono ridotti a pura funzione dell’esperienza di Claudine); essi non si scontrano con i “fatti solidi, compatti”
della realtà, ma procedono su “un terreno cosparso di buchi”, di “abissi
7
Giulio Bertocchini, “Introduzione”, in Robert Musil, Il compimento dell’amore, cit.,
p. xvi.
8
Cit. in Cesare Cases, op. cit., pp. x-xi.
RILKE, NIETZSCHE, E IL COMPIMENTO DELL’AMORE DI MUSIL
/ 125
che vanno alla deriva in un oceano senza fondo”.9 La conoscenza della vita, della realtà, si rivela, per loro, come la scansione sempre più profonda
dell’esercizio di un pensiero implacabile, che mette in discussione ogni
evento, che si dispiega in un regime di continue oscillazioni tra possibili
alternative. Claudine, e anche Veronika (la protagonista di Die Versuchung der Stillen Veronika, la seconda novella di Vereinigungen), si immergono in un lacerante processo di disarticolazione della realtà, perché esse
vogliono esistere contro la realtà sottraendosi “a quell’univocità che costituisce il peso insostenibile e terribile dell’esistenza dell’uomo”.10 (Non è
un caso che Claudine dica al marito: “Non è ogni cervello qualcosa di solitario e di unico?… sì, non è ogni cervello qualcosa di solitario?”.) Da
questo conflitto, da questa “sfera non razioide”, dalle “determinanti vere
dell’agire, etiche, e non semplicemente psicologiche” (D, p. 359), nascono le novelle, differenziandosi in maniera netta dalla grande narrativa che
“considera e raffigura un destino umano come tutto nella più semplice
sintesi epica”.11
È chiaro, dunque, che, tra romanzo e novella, non si tratta soltanto di
una questione di differenza compositiva ma di essenza; nella distinzione
tra “superficie” e “profondità” è già implicito il senso della ricerca musiliana tutta volta ad ampliare il nesso oggettivo dei sentimenti e dei pensieri, ad accennare ciò che non si lascia esprimere a parole, senza dimenticare, tuttavia, che “ogni pensiero deve collocarsi dietro una situazione,
deve avere valore anche nella vita reale” (D, p. 358).
Nel 1932, in un abbozzo per una postilla al secondo volume dell’Uomo senza qualità, Musil spiega con maggiore chiarezza il rapporto che intercorre tra l’elemento interiore e l’elemento esteriore in poesia e, ancora
una volta, mette a confronto la “grande narrativa” con il processo di composizione di Vereinigungen:
Non avevo letto molto e non avevo modelli. Hauptmann, che era già assai celebre, per i miei gusti aveva una capacità spirituale troppo limitata.
Quel che in Ibsen era significativo a quell’epoca lo capivo altrettanto po9
Abbiamo preso in prestito questa espressione dalla discussione tra Törless, Beineberg e
Reiting ne Il giovane Törless. Ma il concetto in Musil è costante; ne I fanatici Thomas dirà
a Maria: “Non si è mai così se stessi come quando ci si perde”. Robert Musil, I fanatici, in
Id., Racconti e teatro, Torino: Einaudi, 1964, p. 366.
10
Aldo Gargani, La frase infinita. Thomas Bernhard e la cultura austriaca, Roma-Bari:
Laterza, 1990, p. 14.
11
Cit. in Cesare Cases, op. cit., p. x.
126 /
ANTONELLA AMATO
co […], la sua profondità spirituale, era un ridicolo errore. Hamsun, che
nelle sue opere giovanili offriva grandi digressioni intellettuali, ve le inseriva come nella vecchia opera si inserivano le arie nell’azione, e D’Annunzio non procedeva in maniera molto diversa. Stendhal non lo capivo e
Flaubert non lo conoscevo. Ma conoscevo Dostoevskij e dal momento
che lo amavo moltissimo […] oggi posso valutare nella maniera più chiara la mia collocazione e la mia situazione di allora rifacendomi al rapporto con lui: egli mi sembrava spiritualmente troppo impreciso! Avevo l’impressione che il suo modo di trattare il problema non fosse abbastanza
univoco! […]. Mi occupavo dunque di idee che rientravano già nell’ambito dei Fanatici e dell’Uomo senza qualità, quando ricevetti l’invito a
scrivere una breve novella per una rivista letteraria. […] Poi ho ricevuto
un altro invito, e per un motivo qualsiasi volevo buttare giù rapidamente
una storia dal medesimo ambito tematico della gelosia (laddove la gelosia
sessuale forniva soltanto lo spunto, mentre ciò che mi interessava era l’insicurezza dell’uomo circa il valore o forse la vera natura di se stesso e della
persona a lui più vicina) […] e volevo trattarla pressappoco alla maniera
di Maupassant […]. Ora, per chi ha letto Il compimento dell’amore non
esiste certo contrasto più incomprensibile di quello fra quella intenzione
e la sua attuazione. (D, pp. 1583-84)
È evidente che la ricerca di Musil muove, in primis, dal desiderio di liberarsi dalle forzature imposte dalla grande narrativa del passato, ingabbiata
da una “capacità spirituale troppo limitata” e da una “univocità” estranea
a quelle “conoscenze del sentimento e a vibrazioni del pensiero che non si
lasciano cogliere in generale, né attraverso i concetti, ma solo nel tremolio
del caso individuale”. Haumptmann, Ibsen, Hamsun, così come
Stendhal, Flaubert, e gli stessi D’Annunzio e Dostoevskij, che Musil pure
ammirava, sono ancora legati a un concetto di narrazione drammatica la
cui essenza sta nella rappresentazione di conflitti puramente psicologici,
nella descrizione del comportamento interiore ed esteriore dei personaggi
nel corso dell’azione; ma questa “interiorità psicologica”, spiega Musil in
Sui libri di Robert Musil, alludendo velatamente agli autori sopra citati,
“in fondo non è altro che un’esteriorità di secondo grado. In questo modo si rappresentano […] soltanto le conseguenze di quanto vi è di essenziale nell’uomo: non l’essenziale stesso”.12
La composizione del Compimento è, allora, soprattutto, una ricerca
sull’elaborazione di un nuovo linguaggio, di una nuova grammatica filo12
Robert Musil, Über Robert Musil’s Bücher (1913), trad. it. Sui libri di Robert Musil, in
SL, p. 11.
RILKE, NIETZSCHE, E IL COMPIMENTO DELL’AMORE DI MUSIL
/ 127
sofica in stretta connessione con l’approfondimento di istanze e bisogni
etici, la rappresentazione fedele della crisi della nozione tradizionale della
soggettività umana nei termini di un io forte e centrato, portatore di una
visione onnicomprensiva della realtà e della vita, e la conferma che esiste
“una seconda patria in cui tutto ciò che si fa è innocente”.13 Claudine, ma
anche la silenziosa Veronika, costituiscono “l’iniziazione di una nuova
simbolica del mondo, nel quale si pensa con il cuore, con le viscere, con
gli ingorghi del sangue, e con quello che fino ad ora è stato il grande
escluso, e cioè il corpo, che dischiude una relazione piena di echi e di presagi con l’esistenza e la vita”.14 Claudine abbandona il razionale per afferrare, come scriveva Hermann Bahr, “ciò che sta al di là dell’intelletto e
prima del sentimento, ciò che si annida sotto la soglia della coscienza”,15 e
nel variare del suo fattore emozionale cambia, di conseguenza, anche la
sua capacità di osservare il mondo che diventa mobile, visionario e irrazionale: “un’esperienza solo apparentemente mossa dall’esterno da un alito leggerissimo, ma che nei suoi tratti decisivi è del tutto inamovibile dall’esterno” (D, p. 1602).
L’articolazione in profondità è strettamente legata a due tesi fondamentali per la stesura della novella che Musil teorizzò proprio a proposito
degli Vereinigungen: “la via dei passi minimi”, ossia “la via del passaggio
più graduale, più impercettibile”, e il “principio dei passi motivati” per
cui è necessario “non fare accadere nulla che non abbia un valore psichico” e, soprattutto, “non fare niente di causale, niente di meccanico” (D,
p. 1602). La storia si presenta, dunque, come il percorso di una vicenda
individuale che si snoda in maniera progressiva, con passaggi continui, e
infinitesimi, ma governati da forze antagonistiche e tentacolari: le relazioni che si stabiliscono tra i fatti non rispettano una connessione logicoanalitica, sono simultanee e non successive, nascono dai motivi intimi del
testo stesso, dagli impulsi ad agire della protagonista, e non sono causali o
esplicative, fondate cioè sull’intelletto. Mentre “la causalità cerca la regola
attraverso la regolarità e constata ciò che è soggetto a un vincolo permanente, la motivazione spiega il motivo suscitando un impulso ad agire, a
sentire, a pensare allo stesso modo”.16
13
Robert Musil, Der Mann ohne Eigenschaften (1930-1933), cit. in Aldo Gargani, op.
cit., p. 66.
14
Hugo von Hofmannsthal, Ein Brief von Lord Chandos (1925), cit. ivi, p. 67.
15
Herman Bahr, Die Überwindung des Naturalismus (1891), cit. ivi, p. 69.
16
Robert Musil, Geist und Erfahrung (1921), trad. it. Spirito ed esperienza, in SL, p. 48.
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I Vereinigungen nascono, in primis, dal rifiuto della spiegazione scientifica degli accadimenti, e dal desiderio di collocarsi in un centro dal quale si possono cogliere le illuminazioni che restituiscono un senso alla nostra vita, quel senso che ne costituisce la motivazione interna ma che è
stato cancellato dal modello della considerazione causale. Se il realismo
ha la prerogativa di descrivere fedelmente le cose come sono in realtà, come appaiono in superficie, la necessità, riscontrata nella stesura del Compimento, è quella di riuscire, invece, ad operare in “profondità”, per scorgere ciò che si svolge dietro quella “superficie”, le determinanti etiche dell’agire, le motivazioni psichiche, i motivi più intimi che contribuiscono a
creare una vicenda umana, e portare alla luce “il poligono infinitamente
spezzato di una catena di sentimenti e di pensieri”.17
3. Da una lettera che Musil scrive a Blei, posteriore al 15 luglio 1911:
In queste novelle viene fatto un uso dell’espressione, dell’enunciazione, in
particolare del figurato e della parabola, che devia dalla norma. Non si
tratta di qualcosa, di un ornamento e di un apporto integrativo a ciò che
viene narrato, ma di un elemento costitutivo, primario, integrante e del
tutto essenziale del racconto.[…]. Le similitudini, le immagini, lo stile,
non li detta l’autore, sono invece elementi psichici costitutivi dei personaggi e ne circoscrivono la sfera del sentimento.
La vicenda che di solito trova la sua naturale collocazione in una riflessione oppure in un accadimento, qui con sintesi esatta viene compressa in
un’immagine. E perciò quest’immagine non è simbolica, ma distinta. E
non ha neppure il carattere di parabola, bensì è categorica e perciò dichiarativa e narrante. E non si tratta di inibizione ma di evoluzione. E non è
che la persona raccontata guardi se stessa in tali immagini: essa è in quelle
immagini. (SL, p. 553).
Le riflessioni con cui Musil tenta di spiegare la struttura stilistica delle
novelle confermano una nuova capacità espressiva, ma, soprattutto, anticipano altre importanti riflessioni su Rainer Maria Rilke, cui le Vereinigungen dovevavo essere dedicate. Già nel settembre del 1910, in una lettera a Johannes Von Allesch, Musil parlava delle Aufzeichnungen des Malte
Laurids Brigge, uscito pochi mesi prima, e manifestava, invece, tutto il
suo scontento per Vereinigungen, nel punto cruciale della loro composizione (SL, p. 540); nel 1914, scriveva allo stesso Rilke, lasciando intuire
17
Robert Musil, Sui libri di Robert Musil, in SL, p. 10.
RILKE, NIETZSCHE, E IL COMPIMENTO DELL’AMORE DI MUSIL
/ 129
quanto la sua opera fosse stata importante nella stesura delle novelle (SL,
p. 558). Ma è nella conferenza nel gennaio del 1927, in memoria dello
scrittore ceco, che Musil tiene un discorso, rivelatore, in più punti, dell’influenza che Rilke ebbe sullo stile delle novelle, in particolare sull’uso
delle immagini e delle metafore.
La sua meta non è mai un oggetto particolare.
Parla di un violino, di una pietra, di una ragazza bionda, di fenicotteri,
fontane, città, ciechi, pazzi, mendicanti, accattoni, angeli, mutilati, cavalieri, ricchi, monarchi… diventa poesia amorosa, poesia della rinuncia,
poesia devota, poesia del tumulto della lotta, semplice poesia descrittiva,
a volte gravata da reminescenze culturali…diventa canzone, leggenda,
ballata… ma ciò che sprigiona e guida l’emozione lirica non è mai il contenuto stesso della poesia, è sempre qualcosa che si avvicina all’esistenza
insondabile delle idee e delle cose descritte, al caos insondabile e all’intreccio invisibile che le abbraccia.
È possibile notare una sottile linea di unione tra ciò che Musil esalta di
Rilke e il Compimento: il tentativo di creare una poesia in cui l’“emozione
lirica” non nasca dal contenuto del testo, dalla “configurazione oggettiva
dei fatti”, ma da ciò che vi si nasconde dietro. Anche per Musil la mèta
non è mai un oggetto preciso: le immagini, gli oggetti, i luoghi, descrivono le situazioni reali di una persona, dietro cui si collocano pensieri reali,
emozioni fisiche.
Ma è subito dopo che Musil rende ancora più evidente il rapporto tra
le due opere:
Ogni cosa diviene metafora di un’altra cosa. In Rilke le pietre e gli alberi
non diventano esseri umani (come hanno sempre fatto, dovunque si siano scritte delle poesie), anzi gli esseri umani diventano cose, esseri senza
nome, e raggiungono soltanto così la propria definitiva umanità […]. Nel
sentimento di questo grande poeta, possiamo dire, tutto è metafora e –
nulla è soltanto metafora. […] Una cosa non viene mai paragonata a
un’altra cosa come se fossero due cose distinte e separate, che restano tali:
anche dove ciò avviene, dove si dice che una cosa qualsiasi è ‘come’ un’altra cosa, nello stesso momento è come se, fin dai tempi dei tempi, essa
fosse sempre stata quell’altra cosa. Le proprietà di una cosa diventano
proprietà comuni di tutte le cose!18
18
Robert Musil, Rede zur Rilke-Feier (1927), trad. it. Discorso in onore di Rilke, in SL,
pp. 151-52.
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ANTONELLA AMATO
Musil si sofferma in maniera approfondita sul valore delle “cose”, e sul
concetto di metafora, dando l’impressione di un vero e proprio autocommento. Riecheggiando ciò che spiegava a Blei nella lettera del 15 luglio, esprime chiaramente che la vera novità è un “accrescimento dell’oggetto”, e, soprattutto, un “nuovo orientamento dell’oggetto, più che del
sentimento che l’oggetto suscita nell’osservatore”. La metafora è uno strumento formale che crea significative relazioni tra le cose e gli esseri umani, ma il suo significato non si esaurisce qui. Musil mette l’accento sulla
sua funzione vivificante e creativa: la metafora rilkiana è un’entità vibrante che contempla ed incorpora il singolo elemento in una realtà viva,
“animizza e dinamizza idee e sentimenti”,19 e fa, quindi, parte dell’“ossatura” del libro, non della “superficie”.
La stessa cosa sembra accadere nel Compimento; la narrazione scivola
lentamente di metafora in metafora, “come se anche il linguaggio disdegnasse la superficialità descrittiva e ricorresse a uno strato più profondo”,20 in un divenire costante in cui tutti gli elementi in gioco si fondono
per poi, subito dopo, riacquistare la propria autonomia: e così, il “mondo” diventa “fresco come un letto”, Claudine diventa un “animale”, una
“ferita aperta”, una “cagna annusante”, una “sfera calda e splendente”;
l’“infedeltà”, invece, una “pioggia quieta”, un “cielo teso”; l’“incredulità”
un “tessuto di una leggerezza dolce come la morte”, o un “arabesco di un
gusto ancora sconosciuto”.
È evidente, quindi, che rappresentare le cose, per entrambi gli autori,
consiste “nel connetterle con le altre, inserendole in un reticolo di relazioni analogiche”.21
Basti pensare a ciò che Musil dice dopo:
In lui le cose sono come intessute su un arazzo. Se guardiamo le cose una
per una, esse sono separate; ma se concentriamo l’attenzione sullo sfondo,
le cose sono unite dallo sfondo stesso. Il loro aspetto muta e fra esse nascono strane relazioni. Qui non c’entra la filosofia, non c’entra la scepsi,
non c’entra null’altro che l’esperienza viva. […] Per questo nelle sue poesie tutte le cose e tutti gli eventi sono imparentati fra loro, e si scambiano
di posto, come le stelle, le quali si muovono, anche se non si vede. […]
Sapeva vedere in un altro modo. In un modo nuovo, interiore.
19
Cesare Cases, op. cit., p. xiii.
Ivi, pp. xiv-xv.
21
Aldo Gargani, “Musil e la metafora”, Metaphorein, 7, luglio-ottobre 1979, p. 54.
20
RILKE, NIETZSCHE, E IL COMPIMENTO DELL’AMORE DI MUSIL
/ 131
Ed è proprio questo “modo nuovo, interiore” che scopre e che tenta di
trasportare nelle novelle, a questo punto del suo percorso artistico. Come
spiegava nella lettera a Blei, l’immagine viene messa in relazione esclusiva
con il sentimento, con la sfera emozionale, e niente ha a che fare con
l’“ornamento”, ma piuttosto con l’“inquietudine”, l’“instabilità”, la
“frammentarietà”, ossia con il “sentimento nella sua globalità”.22 È evidente che i riferimenti dello scrittore austriaco vadano nella direzione del
simbolismo: l’immagine è qualcosa di molto simile ad un’idea, ad una
sintesi di totalità. Ciò che Musil scorge, ed ama, in Rilke, è quel genere di
emozione spirituale che non si lascia comprimere e portare a condensazione, ma che ha a che fare con l’esperienza vissuta, con i sensi. Sulla scia,
anche, della lettura di D’Annunzio, avvenuta molto probabilmente intorno al 1898-1899, il nucleo delle metafore musiliane è dato dal concetto
di erotismo, di amore, ossia “dal tentativo di vedere nel singolo sia una
totalità in sé sia i suoi rapporti con la totalità dell’essere”.23
La metafora rilkiana non è, quindi, soltanto uno strumento di rappresentazione; essa rivela a Musil un altro point de vue da cui osservare il
mondo: l’uso di tale dispositivo semiologico crea un’oscillazione continua
che sottrae l’esistenza alla pietrificazione di un ordine prestabilito, alla fissità che non ammette deviazioni, e permette un “capovolgimento dell’attitudine conoscitiva” e il raggiungimento di una dimensione alternativa
in cui si scoprono rapporti, connessioni, variabili sempre nuove.
4. Ma in che cosa Rilke colpì davvero Musil? E cosa, i Quaderni, hanno
poi in comune con il Compimento?
Il Malte è un diario, costruito attraverso frammenti eterogenei, di un
giovane aristocratico danese morto in miseria a Parigi: in un’atmosfera
decadente e cupa, a metà tra esperienza reale e delirio, si susseguono,
dunque, ricordi d’infanzia, “pensieri e soliloqui filosofici, immaginazioni
lugubri o romantiche, impressioni di viaggio, rievocazioni di personaggi
storici; e poi nausee, angoscie, impeti, abbandoni, estasi e pianti”.24 Fin
qui, poco e nulla in comune con la novella. Tuttavia qualcosa di profondamente nuovo accadeva nelle sue pagine, che rompeva i ponti con la tradizione della narrativa precedente, e gettava un significativo punto di
22
Robert Musil, Discorso in onore di Rilke, cit., pp. 154-55.
Enrico De Angelis, Robert Musil. Biografia e profilo critico, Torino: Einaudi, 1982, p. 81.
24
Vincenzo Errante, “Introduzione”, in Quaderni di Malte Laurids Brigge, Torino:
UTET, 1971, pp. 23-24.
23
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ANTONELLA AMATO
contatto con le successive scelte musiliane: in primis la mancanza di una
vera e propria dimensione psicologica; i Quaderni, benché diano prova di
una straordinaria capacità di analisi e di penetrazione psicologica, non
ambiscono a creare un personaggio a tutto tondo, né quindi a scavare
nella sua psiche. Ciò che interessa a Rilke non è il caso singolo, egli non
mira a cercare il senso della vicenda personale di Malte, del suo destino
privato, perché quest’ultimo rappresenta solo una “cristallizzazione momentanea di alcune possibilità spirituali del suo tempo, di alcuni fenomeni psichici e sociologici della sua epoca”;25 allo stesso modo Musil rappresenta, in Claudine, la “sezione trasversale di una simile persona”,26 ciò che
di “spiritualmente tipico”27 vi è in una donna posta davanti ad una serie
di possibilità, o, per usare le parole dello scrittore austriaco, “la ben caratterizzata possibilità di una specie”.28 In entrambi i casi vengono evitati
tutti quei “tratti vitali” che legittimerebbero la presenza di una “unità individuale”: per dirla ancora con Musil, il principium individuationis è
completamente assente.
Non solo. La narrazione rilkiana si scompone in molteplici e antinomiche possibilità, e privilegia una “logica combinatoria”, rispetto ad un
“processo consecutivo”,29 che frantuma l’armonia classica tra ideale e reale, e anticipa la “rottura del tradizionale genere letterario, e della classica
humanitas ottocentesca”.30
In terzo luogo, il concetto di amore, e la conclusione delle due opere.
A Musil dovette piacere, crediamo, il modo in cui Rilke sviluppa questo
elaborato sentimento che “non ha oggetto né direzione”, fatto di angoscia
e dolore di essere amati, di essere imprigionati dall’amore.
Il Figliuol Prodigo dei Quaderni è colui che non vuole essere amato,
perché non sopporta la tensione e le aspettative che si proiettano su di
lui, e decide di non amare più “per non mettere nessuno nella terribile situazione di essere amato”, scegliendo di abbandonare tutto e tutti, di negarsi all’amore degli uomini per dedicarsi unicamente a quello verso Dio.
25
Prendiamo in prestito le parole che Magris usa per Musil in Il mito asburgico nella letteratura austriaca moderna, Torino: Einaudi, 1963, p. 311.
26
Robert Musil, lettera a Franz Blei, in SL, pp. 550-51.
27
Claudio Magris, op. cit., p. 311.
28
Robert Musil, lettera a Franz Blei, cit., pp. 550-51.
29
Enrico De Angelis, Simbolismo e decadentismo nella letteratura tedesca, Bologna: Il
Mulino, 1987, p. 39.
30
Claudio Magris, op. cit., p. 301.
RILKE, NIETZSCHE, E IL COMPIMENTO DELL’AMORE DI MUSIL
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L’attende, però, lo sgomento più grosso, quello di non riuscire a sentirsi
amato da lui, di “proiettare il suo amore verso l’infinito senza vederselo
restituire”:31 “Giorno dopo giorno riconosceva sempre più che l’amore di
cui tanto si compiacevano, al quale in segreto si stimolavano a vicenda,
non riguardava lui. […] Adesso era difficilissimo da amare, e sentiva che
Uno soltanto ne era capace. Ma Quello ancora non voleva”.32
Claudine si tormenta alla ricerca del vero significato dell’amore, intraprende percorsi tortuosi all’interno e fuori di sé per accettare, infine, che
l’amore vero si compia nel superamento delle categorie che limitano l’esperienza umana, al di là della “linea della quotidianità”. Ella fa un salto
oltre la sicurezza della vita consueta, scoprendo, così, che l’unica verità
del suo amore sta nella tenerezza verso se stessa, e nella fedeltà al suo corpo. A lei, a questo punto, è concesso l’incontro (per la prima volta nella
novella) con l’immagine di Dio (tanto cara a Rilke): “E lontano lontano
– come i bambini dicono di Dio: Egli è grande – vide e conobbe l’immagine del suo amore” (V. p. 60).
Anche per la figura divina, Musil prende spunto da Rilke: Dio non è
altro, infatti, che un’immagine che rappresenta concretamente, e narrativamente, la tensione verso l’infinito, il desiderio di potenziare l’esperienza
umana fino a giungere ad un “altro stato” non limitato dal “principio di
causa”. A Claudine riesce ciò che al Figliuol Prodigo è negato, tuttavia non
sfugge come il Malte costituisca un momento particolarmente significativo, per certi versi, nel percorso di un Musil a metà strada tra il Törless e
L’uomo senza qualità, alla ricerca di una capacità espressiva che privilegi un
nuovo genere di interiorità, e che stabilisca un punto di contatto tra quest’ultima e la realtà esteriore. Non si tratta più tanto di cercare, e trovare,
una relazione soddisfacente con il reale, di ‘vedere’ le cose, ma di percepirle
e, insieme, di “ripercorrere spazi tutti interiori, di scoprire il mondo delle
memorie”,33 delle angosce, delle urgenze segrete ed intraducibili del corpo,
e, soprattutto, di riuscire a renderle in maniera adeguata, “abolendo le univocità di tempo, spazio, causalità, con le loro limitatezze”.34
Ed è questa capacità che sembra notare, in maniera concreta, nello
scrittore ceco. Un inedito rapporto tra l’io e le cose fa il suo ingresso nella
31
Enrico De Angelis, Simbolismo e decadentismo nella letteratura tedesca, cit., p. 39.
Rainer Maria Rilke, Aufzeichnungen des Malte Laurids Brigge (1910), trad. it. I Quaderni di Malte Laurids Brigge, a cura di Giorgio Zampa, Milano: Adelphi, 1992, p. 190.
33
Alberto Destro, Invito alla lettura di Rilke, Milano: Mursia, 1979, p. 76.
34
Enrico De Angelis, Simbolismo e decadentismo nella letteratura tedesca, cit., p. 41.
32
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narrazione rilkiana, fatto di movimento, di un continuo scambio, che genera il dissolvimento del modello razionalistico e causale, la distruzione
di quell’intérieur accuratamente custodito per anni. Claudine, al pari di
Malte, si muove secondo una traiettoria elicoidale che la porta a inabissarsi in un vortice senza fondo, ad interpretare il mondo sulla base dei
propri istinti corporei e, infine, a ritrovare un legame con la parte più vera di sé (la stessa conclusione non spetta, però, a Malte). In entrambi i casi, dunque, il soggetto principale, il luogo dell’accadere è il corpo e non la
psiche o, meglio, quest’ultima lo è solo in maniera secondaria.
5. Non stupisce scoprire, a questo punto, che lo stesso Nietzsche, presente da sempre nella formazione intellettuale di Musil, costituisca un innegabile punto di partenza anche per Rilke;35 né si può fare a meno di sospettare che l’incontro con lo scrittore dei Quaderni avvenga, in parte,
sulla base di questo comune interesse.
Nei Diari la figura di Nietzsche è presente in larga misura, in riferimento a temi ben precisi, come la dottrina della morale, il conflitto intelletto-sensi, la sensualità; soprattutto il quarto quaderno è fitto di citazioni
del filosofo tedesco.
È, inoltre, significativo che ad un certo punto, nel periodo compreso
tra il 1904 e il 1910, egli dichiari: “Leggendo Nietzsche ho sentito il bisogno di ordinare il materiale in altro modo, di raggrupparlo intorno ai
problemi che mi stanno a cuore” (D, p. 39).
Lecito ritenere che il riferimento possa riguardare anche le novelle; e
Nietzsche, in effetti, è riconoscibile attraverso le pagine del Compimento:
anzitutto in quel superamento della categoria di causalità, già riconosciuto, non a caso, precedentemente, in Rilke, debitore a sua volta del filosofo, ed, in secondo luogo, in una serie di nuove intuizioni, a proposito
del corpo e degli istinti, come si apprende dai Diari: “La sopravvalutazione unilaterale della ragione è indice di una situazione sgretolata, di mancanza di fiducia negli istinti. Un sintomo di decadenza”; “Dover combat35
Rilke (che conobbe personalmente Nietzsche tramite Lou Andreas-Salomè) compose
per il filosofo tedesco alcune postille, rimaste incompiute, a La nascita della tragedia greca,
ritrovate, nel 1937, tra le carte della stessa Andreas-Salomè. A questo proposito, cfr. Furio
Jesi, “Le postille di Rilke a Die Geburt der Tragödie di Nietzsche”, in Id., Esoterismo e linguaggio mitologico. Studi su Rainer Maria Rilke, Messina-Firenze: D’Anna, 1976, pp. 17096. Per quanto riguarda altri studi sul rapporto tra Rilke e Nietzsche, cfr. Alberto Destro,
Le “Duineser Elegien” e la poesia di R. M. Rilke, Roma: Bulzoni, 1970, pp. 89-99, 113-14.
RILKE, NIETZSCHE, E IL COMPIMENTO DELL’AMORE DI MUSIL
/ 135
tere gli istinti – questa è la formula della décadence: fintanto che la vita è
ascendente, felicità e istinti sono la stessa cosa”; “Possediamo ogni scienza
esattamente nella misura in cui ci siamo risolti ad accogliere la testimonianza dei sensi – nella misura in cui abbiamo imparato ad affinarli, ad
amarli, a pensarli fino in fondo” (D, p. 50-51).
Da La nascita della tragedia greca fino a Genealogia della morale, le riflessioni del filosofo tedesco, che si esprimeva risolutamente contro l’imbarbarimento della società occidentale, basata sulla forza negatrice della
ragione e della scienza, sulla millenaria svalutazione degli istinti e del corpo, si volgono in direzione di un nuovo tipo di civiltà in cui “gli istinti
siano l’elemento portante e determinante dell’essere dell’uomo”, e in cui
il “corpo venga considerato sia in sé sia come sede degli impulsi, degli
istinti, e degli ‘affetti’”.36
La corporeità ha, dunque, per Nietzsche, un valore molto più ampio
della fisicità materiale, un valore che circoscrive interamente la sfera emotivo-istintivo dell’uomo, ed il suo rifiuto equivale, quindi, alla negazione
dell’essere umano in quanto tale. Inoltre il sovvertimento di valori che
egli intende attuare comprende anche quello del primato della coscienza,
della sua autonomia all’interno dell’essere umano. Il corpo, come afferma
in Morale e fisiologia, è un organismo complesso con molte dimensioni e
profondità, una Vereinigung appunto, ossia un’“enorme unione di esseri
viventi”, ciascuno dei quali è “dipendente e sottomesso” ma, nello stesso
tempo, “imperante e agente con volontà propria”; i rapporti tra questi esseri viventi sono, spiega il filosofo tedesco, di dominio e sudditanza e in
grado di assicurare al corpo un “magnifico collegamento della vita più
molteplice”. A ciò si aggiunge che ognuno di questi esseri che compongono il corpo è dotato di una coscienza propria che si oppone a quella abitualmente considerata come “unica coscienza”, ossia l’intelletto, che rimane “protetto e staccato dall’infinita varietà delle vicende di queste molte
coscienze”. Le parole seguenti non fanno che confermare un avvenuto
cambiamento di prospettiva rispetto al pensiero della filosofia tradizionale: “Seguendo il filo conduttore del corpo, come si è detto, apprendiamo
che la nostra vita è possibile grazie al concerto di molte intelligenze di valore assai disuguale, e quindi solo grazie ad un costante e svariatissimo comandare e obbedire – o per parlare in termini morali: grazie all’ininter36
Leonardo Casini, La riscoperta del corpo. Schopenhauer / Feuerbach / Nietzsche, Roma:
Studium, 1990, p. 211.
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rotto esercizio di molte virtù”.37 Risulta, quindi, evidente, che le riflessioni nietzschiane mirano a superare la tradizionale antinomia tra spirito e
corpo a diretto vantaggio di quest’ultimo, che diventa centro del soggetto
umano, luogo privilegiato di cui l’io cosciente non è che uno strumento,
come si può notare anche in Così parlò Zarathustra (“Strumento del tuo
corpo è anche la tua piccola ragione, fratello, che tu chiami ‘spirito’, un
piccolo strumento e un giocattolo della tua grande ragione. […] Dietro i
tuoi pensieri e sentimenti, fratello sta un possente sovrano, un saggio
ignoto – che si chiama Sé [Selbst]. Abita nel tuo corpo, è il tuo corpo”).38
È quindi vero che non la verità dello spirito è il corpo, ma che “l’unità, la
pretesa ‘ultimità’ della coscienza (sia essa la trascendentalità del soggetto
kantiano, o la singolarità finita dell’esserci esistenzialista), è il risultato e
prodotto di un complesso sistema di influenze”.39 Comprendere che, in
Nietzsche, la coscienza non è l’antagonista del corpo serve soprattutto a
liberarsi di quel genetico convenzionalismo che vede nella prima un giudice che detta i principi di gerarchizzazione tra gli impulsi, e a comprendere che, a volte, tutto accade alle spalle della coscienza stessa.40 Essa è,
invece, il risultato finale di “un’interpretazione che gli istinti danno degli
stimoli esterni che l’organismo via via riceve”, è solo un “mezzo della comunicabilità” e non “istanza suprema”.
È chiaro che quanto detto finora a proposito di Nietzsche trova una
fertile corrispondenza con l’opera di cui ci stiamo occupando. Nel Compimento Musil sembra trasporre concretamente le idee del filosofo, e costruire la vicenda della protagonista sulla base delle riflessioni riportate finora. Claudine è guidata, negli atti e nei gesti, dal suo corpo che è il centro della sua individualità, e luogo privilegiato della sua emotività, di cui
l’io cosciente non è che un silenzioso strumento: “Mai la coscienza s’era
svegliata in lei per quell’incidente, né per altri di quella prima parte per37
Per questa e le precedenti citazioni cfr. Friedrich Nietzsche, Nachgelassene Fragmente
(1884-1885) trad. it. di Sossio Giametta, Frammenti postumi, in Opere complete di Friedrich Nietzsche, a cura di Giorgio Colli e Mazzino Montanari, Milano: Adelphi, 1964, VII, 3,
pp. 256-59, 374.
38
Friedrich Nietzsche, Also sprach Zarathustra (1883), trad. it. di Mazzino Montanari,
Così parlò Zarathustra (Dei dispregiatori del corpo), in Opere di Friedrich Nietzsche, cit.,
p. 34.
39
Gianni Vattimo, Il soggetto e la maschera. Nietzsche e il problema della liberazione, Milano: Bompiani, 1996, p. 222.
40
Friedrich Nietzsche, Morgenrothe (1881), trad.it di Ferruccio Masini e Mazzino
Montanari, Aurora, in Opere di Friedrich Nietzsche, cit., p. 89.
RILKE, NIETZSCHE, E IL COMPIMENTO DELL’AMORE DI MUSIL
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duta della sua vita”;41 e poco oltre: “Ella commetteva o subiva atti che andavano dalla passione all’umiliazione, eppure non perdeva mai la coscienza che tutto quello che faceva, in fondo non la toccava essenzialmente
[…]. Era la coscienza, mai precisa, di una lontana interiorità che portava
quell’ultima riserva e sicurezza nel suo inconsiderato darsi in balia di questo o di quello”; “Tutto questo era come un sogno penoso nel dormiveglia, la cui irrealtà rimane sempre un poco cosciente, ed ella si stupiva soltanto di sentirlo così fortemente […]. E a un tratto ella ebbe coscienza
della realtà, una coscienza obbiettiva e stranamente indifferente”; “Nella
trama delle sue meditazioni se ne insinuava ogni tanto un’altra […], ella
la seguiva docile, poi per un po’ ritornava quasi ad una vaga confusa coscienza, per riaffondare nei dolci meandri di una corrente che la teneva
prigioniera”.42
È dunque evidente che Claudine sente con il corpo, e si rapporta al
mondo sulla base di sensazioni fisiche, slegate da qualsiasi vincolo di consequenzialità; la coscienza, o intelletto, è presente, ma in qualità di testimone silenzioso che registra parzialmente i movimenti che provengono
irruentemente dall’esterno, e tenta di decifrarli, o, meglio, è già il risultato di un’interpretazione che gli istinti danno degli stimoli esterni che l’organismo riceve. Essa vive nel costante e confuso “presentimento di un’estrema inesauribile tenerezza” (ossia l’idea di un’intimità suprema che la
unisce al proprio corpo, casa e rifugio di tutte le proprie sensazioni), ma
lontana dal pensiero cosciente. La scena in cui Claudine si prostra carponi sul pavimento rivela, evidentemente, che l’unica realtà esistente è quella, appunto, dei suoi istinti e che il pensiero non è altro che un rapportarsi di questi istinti. Il momento finale che chiude la novella ripropone in
maniera ancora più netta questa frattura. Essa dice al consigliere di andarsene, gli dice di provare schifo, ma nel frattempo gli dà del tu, si spoglia, sente il suo corpo colmarsi di voluttà; la volontà del suo pensiero cosciente si scontra con quella, ancora più forte, del suo corpo che è, dunque, il vero grande protagonista della novella, ma non solo come organismo materiale, sede di impulsi e reazioni, “il suo scopo non è solo il senso
di sé sensuale”,43 rappresenta molto di più. Claudine è il suo corpo, in esso è racchiuso il centro della sua emotività, della sua unicità, della sua te41
Robert Musil, Il compimento dell’amore, cit., p. 11.
Ivi, pp. 11, 24, 58.
43
Fred Loenker, Poetische Antropologie. Robert Musils Erzählungen “Vereinigungen”,
München: Wilhelm Fink Verlag, 2002, p. 38.
42
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nerezza. Sulla scia di Nietzsche, essa si rifugia nella sua intimità, “dove si
libera della folla, dei molti, dei più, dove può dimenticare la regola ‘uomo’ come sua eccezione”.44 E, paradossalmente, mentre si libera della folla, Claudine si libera del senso di solitudine che la soffocava fino a qualche attimo prima, quando tradiva la sua intimità per paura e debolezza;
in questo senso il richiamo del corpo che comporta il dissolvimento del
senso di sé è da interpretarsi come “momento di un nesso amoroso che
unisce tutto ciò che vive in un’unità in sé differenziata”, come “il passaggio in un nesso amoroso della vita in genere”.45
6. Vi è anche un altro elemento, fondamentale, per comprendere l’importanza della novella: il caso.
La scelta musiliana è quella di dare un taglio obliquo all’esistenza di
una donna, di inserire la sua vita, apparentemente ordinata e stabile, in
un “gioco di possibilità” che la spinga a mettere in discussione schemi ed
obblighi morali e sociali, e a risvegliare la parte più istintiva, il suo destino; Claudine si sottrae a ogni intervento intenzionale, in lei la volontà
cresce senza radici, senza aspettative se non quella di abbandonarsi al libero accadere degli eventi, all’ondeggiante fluire di pensieri, ricordi, incontri, non regolati da alcuna necessità legale, essa si abbandona al “caso” che
affiora improvviso alla coscienza come se venisse dall’esterno. Ed il caso,
appunto, si presenta come elemento costitutivo attorno a cui si snoda la
trama narrativa ma anche, e soprattutto, come strumento che regola la
forma espressiva, inaugurando la formazione di un nuovo linguaggio, di
un nuovo significato, di una nuova visione del mondo. Prendiamo in prestito le parole di Gargani, quando dice che “il caso è un varco che si apre
nella fabbrica del simbolismo ben protetto e fondato, l’occasione fortuita
che si dischiude entro una versione già predisposta del mondo, è qualcosa
che somiglia meno all’inciampare in un sasso, quanto invece al cogliere
nuove possibilità entro una codificazione del mondo, delle situazioni ordinarie della vita”. Il Compimento dell’amore è la rappresentazione di questo varco, è il disegno perfetto di una realtà estranea alla nozione razionalistica tradizionale; il suo linguaggio si origina proprio “nel distacco dal
mondo istituzionalizzato che dura e persiste nella sua letteralità”.46
44
Friedrich Nietzsche, Jenseits von Gut und Böse (1886), trad.it. di Ferruccio Masini, Al
di là del bene e del male, in Opere di Friedrich Netzsche, cit., par. 26.
45
Fred Loenker, op. cit., p. 38.
46
Aldo Gargani, Lo stupore e il caso, Roma-Bari: Laterza, 1985, pp. 19, 15.
RILKE, NIETZSCHE, E IL COMPIMENTO DELL’AMORE DI MUSIL
/ 139
La novella viene, dunque, utilizzata come trasposizione concreta di
principi teorici ed inaugura la nascita di un nuovo tipo di identità, di antropologia, che raduna ed unifica tutte le energie dell’intuizione contro la
fissità stereotipata della civiltà contemporanea. Un ethos tutto nuovo fa il
suo ingresso nella scrittura musiliana fatto di casi improvvisi e attimi rivelatori, “un mondo in cui non esistono né misura né esattezza, né scopo né
causa” e in cui “il bene e il male sono semplicemente soppressi, senza che
sia necessario esimersene” (SL, p. 98); da qui una nuova estetica composta di nuovi rapporti cromatici, plastici, sonori, e ritmici (SL, p. 92).
Già ne I turbamenti Musil aveva posto l’accento sulla crisi del modello
causalistico, e sulla funzione del caso, come farà poi nell’Uomo senza qualità, ma Vereinigungen costituisce un momento assolutamente fondamentale nella sua produzione, anche rispetto alle novelle composte a qualche
anno di distanza (Grigia, La portoghese, Tonka, composte rispettivamente
nel 1921, 1922, 1923) che mantengono invece un impianto tradizionale.
È interessante notare che gli anni della stesura di Vereinigungen sono
anche gli anni dei Dubliners di Joyce, di molte delle novelle pirandelliane,
dei primi tentativi narrativi di Svevo, che cercavano di allontanarsi dalla
“grigia causalità della vita di tutti i giorni” e pure riflettevano sul carattere
di discontinuità e di precarietà proprio del mondo contemporaneo, sulla
rappresentazione dell’esistenza nella quale la realtà e il tempo sono sottoposti all’interpretazione che ne dà la coscienza. Tuttavia, almeno in questi
primi anni del Novecento, nessuna delle loro opere si è spinta tanto lontano dal modello ottocentesco di racconto.
§
7
Suyenne Forlani
Per un’analisi del messaggio pubblicitario russo
Il sapere sociale della pubblicità
Nel corso del XX secolo il mercato pubblicitario russo è stato sommerso
da due onde anomale: la prima risale agli anni Venti ed è una conseguenza della Nuova Politica Economica (NEP); la seconda è invece legata alla
liberalizzazione dell’economia seguita alla dissoluzione dell’URSS negli anni Novanta.1
Per risanare l’economia russa dopo la grave crisi causata dalla prima
guerra mondiale, nel 1921 Lenin reintrodusse una parziale economia di
mercato che segnò il ritorno al commercio privato e alla pubblicità ad esso legata, ma anche per il leader sovietico l’approvazione della NEP segnò
una seppur indispensabile battuta d’arresto verso il socialismo. Con questa consapevolezza lo Stato intraprese una massiccia campagna pubblicitaria il cui obiettivo apparente fu quello di far conoscere le merci prodotte
dalle fabbriche statali, in concorrenza con quelle private, ma l’obiettivo
concreto fu di fare propaganda agli ideali rivoluzionari momentaneamente e parzialmente accantonati.
Il flusso pubblicitario degli anni Novanta si rese necessario per introdurre tutti quei prodotti e servizi provenienti dall’Occidente, fino a quel
momento irraggiungibili nell’ex paese sovietico. Alla seconda ondata, così
come alla prima, si può forse attribuire uno scopo propagandistico, poiché in quella particolare situazione storica la pubblicità occorreva a con1
La proprietà privata in Russia è stata riconosciuta solo nel febbraio del 1990 in seguito all’abolizione dell’articolo 6 della Costituzione che accentrava il potere nelle mani del
Partito Comunista e attribuiva allo Stato il controllo sull’economia.
PARAGRAFO III (2007), pp. 141-55
142 /
SUYENNE FORLANI
vincere il popolo russo della superiorità ideologica ed economica del sistema capitalista, rispetto a quello comunista. È pur vero che la diffusione dei messaggi pubblicitari in stile occidentale fu una conseguenza, e
non una causa, della liberalizzazione del mercato, ma non bisogna dimenticare che allora, così come oggi, erano presenti in Russia forti correnti avverse alla ‘conversione’ capitalista e che, inevitabilmente, il popolo
russo conservava retaggi di epoca sovietica. Si rendeva dunque necessaria
un’efficace comunicazione capace di creare ‘bisogni primari’ tipici dell’economia liberale per trasformare il cittadino russo in un consumatore.
Caratteristica fondamentale del linguaggio pubblicitario è l’ineludibile
legame con la vita economica e sociale della comunità da cui è prodotto,
tanto che la pubblicità è stata da più parti ritenuta lo specchio della società,2 in cui essa nasce, perché riflette, o meglio lascia trasparire, alcune
peculiarità del contesto (come ad esempio il senso estetico, i valori, i
tabù, il modo in cui si affronta la vita). In altre parole il testo pubblicitario “presuppone […] un sapere sociale”3 e richiede la collaborazione dei
fruitori per essere compreso pienamente, per esplicitare le allusioni e i riferimenti extratestuali. Si tratta tuttavia di uno specchio deformante poiché, annota giustamente Chiara Giaccardi, “non tutto ciò che è topico
nella pubblicità è anche tipico nella vita sociale: la pubblicità infatti, come i racconti morali e le parabole, ha (o pretende di avere) un carattere
anticipatorio oltre che un legame con il presente”.4
Questa osservazione è particolarmente adatta alla realtà russa degli anni Novanta in cui, attraverso i manifesti pubblicitari, si voleva promuovere non tanto, o non solo, un prodotto ma un nuovo, accattivante stile di
vita a cui i ‘nuovi’ consumatori potessero aspirare.
Scopo di questo studio è osservare come il messaggio pubblicitario
russo, in quanto riflesso della società, sia cambiato nel passaggio dall’epoca sovietica al XXI secolo. Si intende quindi fornire una visione, anche se
2
“La pubblicità […] è uno specchio spudorato, rivelatore di tutto ciò che si è sedimentato nella coscienza e nell’inconscio collettivo. Una gigantesca rete che, raccogliendo e
spettacolarizzando frammenti e detriti della cultura, del costume, degli usi, delle buone e
cattive abitudini del nostro tempo può realizzare combinazioni spesso sorprendenti, e sintetizzare materiali nuovi e pronti per essere adoperati dal pubblico, che si appropria di segnali e di modi di dire pubblicitari e nuovamente li modifica”. Annamaria Testa, La parola immaginata, Parma: Pratiche, 1988, p. 23.
3
Chiara Giaccardi, I luoghi del quotidiano, Milano: FrancoAngeli, 1995, p. 19.
4
Ivi, p. 21.
PER UN’ANALISI DEL MESSAGGIO PUBBLICITARIO RUSSO
/ 143
parziale, dell’attuale situazione pubblicitaria nella capitale russa sottolineando i legami, di rifiuto o di nostalgia, con il passato.5
L’epoca sovietica: la pubblicità di Stato
In Russia l’impiego di manifesti murali, realizzati da veri e propri artisti, si
diffonde all’inizio del XX secolo sulla scia di quanto avviene dapprima in
Francia e in seguito nel resto d’Europa. Solo dalla rivoluzione d’Ottobre in
poi i destini dell’Europa occidentale e di quella orientale intraprendono
strade divergenti in quanto il progetto di collettivizzazione, che si intende
realizzare in Unione Sovietica, non prevede l’esistenza di libera concorrenza
e viene dunque a mancare l’elemento fondamentale su cui si fonda il messaggio pubblicitario capitalista. La divergenza è sostanziale perché: “la pubblicità ha, nei paesi ad economia libera e mista, un contenuto informativo e
persuasivo allo stesso tempo: anzi in genere si tende ad accentuare la componente persuasiva. Orbene nei paesi ad economia collettivizzata si tende,
al contrario, a potenziare la componente informativa della pubblicità”.6
Dopo la rivoluzione del 1917, ma soprattutto dopo l’esperienza della
NEP, quando l’economia fu completamente collettivizzata,7 non fu possibile reclamizzare merci diverse affinché il consumatore scegliesse un prodotto
piuttosto che un altro, si sponsorizzò quindi l’esistenza di un determinato
bene con uno scopo propagandistico, per mostrare al popolo che lo Stato
era in grado di offrire tutto ciò di cui un cittadino potesse avere bisogno o
per educare all’utilizzo di alcuni prodotti socialmente utili. Nel 1923
Majakovskij realizza, tra gli altri, un manifesto il cui testo afferma:
“Lučšich sosok ne bylo i net. Gotov sosat’ do starych let. Prodajutsja vezde. Rezinotrest” (Ciucci migliori non c’erano e non ci sono. Potrai ciucciare fino alla vecchiaia. In vendita ovunque. Rezinotrest)8 e commenta il pro5
I messaggi pubblicitari qui analizzati sono stati selezionati da un corpus costituito da
1450 manifesti apparsi nella città di Mosca a partire dall’anno 2001 fino ai primi mesi del
2006. L’arco temporale considerato è significativo, poiché permette di osservare come si
stia delineando il mercato pubblicitario russo all’inizio del nuovo millennio, mentre la
scelta di limitare la selezione alla capitale è dovuta al fatto che Mosca costituisce il fiore all’occhiello della Federazione Russa, essa è – o vorrebbe essere – l’immagine che la nazione
mostra di sé al mondo benché questa megalopoli non possa considerarsi rappresentativa
di tutto il territorio russo.
6
Edoardo Teodoro Brioschi, Elementi di economia e tecnica della pubblicità, vol. I, Milano: Vita e Pensiero, 1985, p. 5.
7
L’esperienza della NEP si concluse nel 1929 quando Stalin decise che il paese era ormai
pronto per la piena realizzazione del socialismo.
144 /
SUYENNE FORLANI
prio lavoro affermando: “La scritta ha fatto scandalo, ma finché nelle campagne si ficcheranno sudici stracci in bocca ai bambini continuerò a dire
che far pubblicità per i succhiotti di gomma significa al tempo stesso fare
della propaganda in favore di generazioni più sane e di una vita civile”.9
L’intenso lavoro svolto nei primi anni di regime per creare messaggi
pubblicitari in linea con la nuova politica è ricordato da Rodčenko:
Si lavorava a prezzi bassi […] non per guadagnare presto, bensì per imporre dappertutto il nuovo tipo di pubblicità. Mosca intera si riempì dei
nostri prodotti. Le insegne dei grandi magazzini Mossel’prom, del GUM
[…] tutti i chiostri sono nostri […], le insegne della casa editrice Gosizdat. Preparammo fino a cinquanta manifesti, un centinaio di insegne, di
carte da imballaggio, di réclames luminose, di supporti pubblicitari stradali, di illustrazioni per riviste e giornali.10
Emerge la volontà di creare coesione sociale e diffondere l’ideologia dominante anche dalla scelta dei nomi: “A molte merci prodotte dallo Stato,
durante il periodo della NEP, furono abbinati i nomi connessi alla politica
nazionale: sigarette ‘Soviet’ o ‘Fronte rosso’, profumi ‘Mosca rossa’, le economiche caramelle ‘Stella rossa’ […] e prodotti vari chiamati ‘Ottobre’”.11
Dal 1936, anno dell’approvazione della Costituzione staliniana che segna “la nuova fase ‘socialista’ raggiunta dall’Unione Sovietica”,12 diventano sempre più frequenti i messaggi promozionali che pubblicizzano la
semplice esistenza di un bene generico poiché, considerata l’assenza di
concorrenza, non è indispensabile che il consumatore riconosca il marchio della merce. Per questo motivo esistono numerosi esempi13 di headline costituite dal solo nome comune del prodotto come, per citarne uno,
nel manifesto realizzato da Izrail’ Davidovič Bograd nel 1936 la cui componente testuale si limita alla ripetizione, nella linea di testa e nel pack
shot, del sostantivo “Pel’meni” (Agnolotti) (cfr. la Figura 1). Anche quando lo slogan è formato da un enunciato il nome del prodotto rimane generico; ad esempio in un poster di Aleksandr Nikolaevič Zelenskij del
8
Laddove non altrimenti indicato, la traduzione è mia.
Enrica Torelli Landini, Artisti delle Avanguardie russe, Milano: Mondadori, 1997, p. 46.
10
Ibidem.
11
Ivi, p. 66.
12
Nicholas Riasanovsky, A History of Russia (1984), trad. it. Storia della Russia. Dalle
origini ai giorni nostri, a cura di Sergio Romano, Milano: Bompiani, 2005, p. 506.
13
È possibile consultare una vasta raccolta di poster sovietici suddivisi per categoria e
per anno nel sito curato da Vitalij Sitnickij, <www.plakaty.ru>.
9
PER UN’ANALISI DEL MESSAGGIO PUBBLICITARIO RUSSO
Figura 1, Pel’meni
/ 145
Figura 2, Pol’zujtes’ zubnym poroškom
1938 si legge “Moroženoe trebujte vsjudu” (Esigete il gelato ovunque),
nel manifesto del 1950 di Grevskij si comunica “Imejutsja v prodaže
bliny” (Sono in vendita i bliny) e, sempre nello stesso anno Aleksandr Panaiotovič Andreadi consiglia “Pol’zujtes’ zubnym poroškom” (Utilizzate il
dentifricio) (cfr. la Figura 2).
I messaggi del periodo sovietico sono caratterizzati dall’assiduo impiego di alcuni espedienti che vogliono sottolineare l’idea di collegialità oppure indicare l’alta qualità e l’abbondanza14 delle merci prodotte in patria.
14
Peggy Katelhön afferma che il popolo della ex-DDR aveva sviluppato la capacità di
leggere tra le righe e decodificare il linguaggio ufficiale: “Ricordiamo a questo proposito
un illuminante episodio narrato nel romanzo dello scrittore tedesco orientale Ullrich
Plenzdorf, Die Legende vom Glück ohne Ende, in cui Paul, un funzionario di partito, prova
ad insegnare a Paula, non senza difficoltà, come si legge un giornale della DDR. L’insistente ricorrenza di ricette di piatti a base di riso, le spiega ad esempio, sta ad indicare un
esaurimento delle scorte di patate nel paese. Ma ben più arduo risulta farle capire che ‘un
articolo a tre colonne sull’ottima qualità della refezione scolastica, salvo poche eccezioni
ancora passibili di miglioramento, sta a significare che la refezione scolastica è in generale
a un livello indegno’”. Peggy Katelhön, “La cortina di parole ovvero le ‘piccole’ differenze
nel comportamento linguistico dei tedeschi dell’Est e dell’Ovest”, in Eva Banchelli (a cura
di), La cortina invisibile, Bergamo: Sestante, 1999, pp. 108-09.
146 /
SUYENNE FORLANI
Nella costruzione dei manifesti pubblicitari di quest’epoca si riscontrano alcuni elementi costanti e tra questi il più frequente è l’utilizzo dell’imperativo di verbi imperfettivi alla seconda persona plurale. In lingua
russa tale forma verbale può assumere accezioni diverse in base al contesto, nel caso specifico poteva essere usato come esortazione a intraprendere un’azione, ma probabilmente, considerata la situazione economica e la
scarsità di prodotti concorrenti, anche come ordine-invito a compiere la
stessa azione in modo sistematico e ripetitivo, cioè come abitudine di vita.15 Sono infatti numerosi i manifesti che recano solo l’esortazione a
compiere un’azione, come quello del 1936 di Izrail’ Davidovič Bograd
“Comprate il mais in scatola” o “Dadi di brodo di gallina. Esigeteli ovunque”, realizzato da Iosif Semenovič Grišin nel 1937, o ancora “Bevete
caffé naturale” composto nel 1952 da Nikolaj Ivanovič Martynov. La
scelta di rivolgersi al popolo usando la forma plurale è dovuta alla volontà
di trasmettere quel senso di collettività su cui si basa l’ideologia comunista, ma crea una distanza incolmabile tra emittente e destinatario che sono, e continuano ad essere, ben distinti, come emerge da un manifesto
del 1923 della coppia Majakovskij-Rodčenko in cui, con tono da comizio
più che da pubblicità, si afferma: “Trudjaščiesja ne strašny dorogovizna i
NEP! Pokupajte dešëvyj chleb! Vo vsech magazinach Mossel’proma v dvuch šagach ot ljubogo doma!”.16 Lo Stato non nasconde, anzi sottolinea, il
proprio ruolo di guida del popolo specificando che l’indicazione contenuta nei manifesti è voluta dal Ministero dell’Industria Alimentare. Non
si tratta di una semplice informazione, ma di una sorta di indicazione su
come debba essere letta quella comunicazione.17
Nei messaggi degli anni Venti e Trenta è utilizzata anche la seconda
persona singolare dell’imperativo. Essa può avere l’obiettivo di colpevolizzare quei pochi che ancora non si sono uniformati alla collettività, come
15
Un classico esempio di utilizzo dell’imperativo imperfettivo è la raccomandazione “Prinimaj lekarstvo” (prendi le medicine regolarmente, sempre alla stessa ora). È probabile che
questi manifesti pubblicitari contengano, in fondo, una raccomandazione dello stesso tipo.
16
“Lavoratori, il carovita e la NEP non sono terribili! Comprate il pane economico! In
tutti i negozi e i chioschi del Mossel’prom, a due passi da qualunque casa!”
17
“Il popolo sovietico possedeva la capacità di decodificare il linguaggio ufficiale, quello
che Stephen Kotkin definisce magistralmente come ‘parlare bolscevico’. Capire ciò che ci
si aspetta da te, adeguarsi, convincersi anche se nel profondo della propria coscienza si vede che la realtà è un’altra, ma dimostrarsi disponibili a partecipare fino a fare proprie le altrui convinzioni […] e poi, magari, finire per crederci davvero”. Gian Piero Piretto, Il radioso avvenire, Torino: Einaudi, 2001, p. 114.
PER UN’ANALISI DEL MESSAGGIO PUBBLICITARIO RUSSO
/ 147
nell’annuncio di Dmitrij Mor del 1920 “Ty zapisal’sja dobrovol’cem?” (E
tu, ti sei arruolato tra i volontari?), in cui l’indice accusatore è indirizzato
verso l’osservatore, ma può svolgere anche uno scopo educativo o essere
preferita per ottenere una comunicazione più diretta e immediata.18
Un altro artificio retorico, simile al precedente, è l’impiego di frasi ellittiche infinitive, con il soggetto logico al dativo, che trasmettono l’idea
di ‘dovere’ come nell’annuncio di Miller del 1938, “Vsem poprobovat’
pora by kak vkusny i nežny kraby” (È ora che tutti provino come sono
gustosi e teneri i granchi), o in quello di David Vladimirovič Janovskij
del 1953, “Rebjatam objazatel’no čistit’ zuby tščatel’no” (È obbligatorio
che i bambini si lavino i denti accuratamente).
È evidente un’accurata scelta della terminologia: si prediligono frasi
semplici affinché tutti le possano comprendere, ma si nota soprattutto la
costante ripetizione di alcuni termini che palesano l’intento ideologico
dei manifesti come il sostantivo tutti, l’avverbio ovunque e gli aggettivi
statale, migliore, ottimo e il possessivo nostro.
Gli anni Novanta. Verso la liberalizzazione del mercato
Negli anni Novanta, con il crollo dell’URSS e la liberalizzazione del mercato, la Russia viene sommersa da messaggi pubblicitari ma, mentre negli
anni Venti l’ondata di manifesti era prodotta dall’interno, ora proviene
dall’Occidente e ha l’obiettivo di promuovere gli ideali e gli standard dell’economia capitalista.
Dopo una prima fase in cui ci si limita alla traduzione, non priva di
errori,19 del testo pubblicitario dall’inglese al russo, si cerca di adeguare il
messaggio alla realtà locale, poiché diventa evidente che per raggiungere il
target è indispensabile considerare la mentalità e le tradizioni del paese di
riferimento.
“Ascolta” disse Pugin […] “molto presto arriveranno i prodotti occidentali e contemporaneamente verremo sommersi da una valanga di pubblicità. Ma sarà impossibile tradurre tale e quale questa pubblicità dall’ingle18
È questo il caso dei manifesti creati da Majakovskij e Rodčenko il cui coinvolgimento comunicativo è sempre molto elevato. Sono loro gli autori del manifesto “Nami
ostavljajutsja ot starogo mira tol’ko papirosy Ira” (Del vecchio mondo ci teniamo solo le
sigarette Ira) in cui, stranamente, l’emittente non prende le distanze dal destinatario.
19
Cfr. Anna Jampol’skaja, “Osservazioni linguistiche sui messaggi pubblicitari russi”,
Quaderni del Dipartimento di Linguistica, Università di Firenze, 13, 2003, p. 61.
148 /
SUYENNE FORLANI
se al russo, perché qui da noi ci sono altri… come si dice… cultural references. Insomma, bisognerà adattare in tutta fretta la pubblicità al consumatore russo”.20
La Russia appena liberata da decenni di regime sovietico ha dovuto familiarizzare rapidamente con i prodotti del mercato occidentale, è quindi
possibile osservare i cambiamenti subiti dal linguaggio pubblicitario in
soli dieci anni.
Assai esemplificative sono le inserzioni delle banche per il repentino
passaggio dall’unica cassa di risparmio esistente a una vasta gamma di
istituti di credito sorti, spesso, senza né regole né garanzie. Se i manifesti
della Cassa di risparmio degli anni Cinquanta rappresentano un esempio
di quella che Anna Jampol’skaja definisce “pubblicità senza alternative”21
e si limitano a suggerire al cittadino di “[c]onservare i soldi alla Cassa di
risparmio”22 senza pubblicizzare servizi o vantaggi, negli anni Novanta invece il rispetto degli standard occidentali, i servizi per imprenditori rampanti, ma anche per singoli cittadini diventano gli elementi attorno a cui
costruire l’immagine delle banche.23 In una seconda fase si cerca di attirare il pubblico evidenziando l’affidabilità dei servizi, ricordando gli anni di
attività che si hanno alle spalle24 e ostentando grande attenzione verso
tutti i clienti, anche i più piccoli.25
Fortemente indicativi dei nuovi desideri moscoviti sono i manifesti riguardanti le carte di credito,26 che avvicinano l’oggetto del desiderio rimandando lo spiacevole momento del pagamento ad un futuro sempre
più lontano: grazie alla carta Impeksbank “Čto vižu, to – moë!” (Quello
che vedo è mio!) (2005), persino la costosa barca a vela raffigurata nel vi20
Viktor Pelevin, Generation ‘P’ (1999), trad. it. di Katia Renna e Tatiana Olear, Babylon, Milano: Mondadori, 2000, p. 33.
21
Ivi, p. 60.
22
Cfr. il poster di Viktor Ivanovič Govorkov “Chranite den’gi v sberegatel’noj kasse!”
del 1948.
23
Ivi, pp. 63, 64.
24
“Impeksbank 10 let uspecha” (Impeksbank 10 anni di successo) (2003), “Moskovskij
industrial’nyj bank – 14 let nadëžnoj raboty” (Banca industriale moscovita: 14 anni di lavoro affidabile) (2004), “Bank Strojkredit provereno vremenem” (Bank Strojkredit – collaudata dal tempo) (2002).
25
“Klient – Samaja važnaja persona” (Il cliente è la persona più importante) (2003),
“Net takoj uslugi značit net takogo klienta” (Non avere quel servizio significa non avere
quel cliente).
26
È possibile vedere numerosi esempi di pubblicità del giorno d’oggi nel sito
<www.outdoor.ru>.
PER UN’ANALISI DEL MESSAGGIO PUBBLICITARIO RUSSO
/ 149
sual; con la carta di credito Citybank invece è possibile realizzare subito i
propri sogni, grandi o piccoli che siano (un viaggio esotico, una chitarra
nuova o una seduta al salone di bellezza).27 Le headlines si rivolgono al singolo, sollecitano i suoi desideri e promettono un futuro migliore, “U Vas
uspešnoe budušče. Vam nužen uspešnyj bank” (Lei ha un futuro di successo. Le serve una banca di successo): la trasformazione del cittadino russo in consumatore è ormai completata e con essa l’inflazione della felicità.
Fu chiaro come il sole: era stato truffato un’altra volta. Una decina d’anni
prima un nuovo paio di scarpe da ginnastica portate dall’estero da un parente lontano segnava l’inizio di un nuovo periodo nella vita di una persona […]. La felicità che si poteva ricavare da un simile acquisto era smisurata. Adesso invece, per conquistarsi il diritto allo stesso ammontare di
felicità, bisognava comprarsi come minimo una jeep, se non addirittura
una casa. Tatarskij non aveva abbastanza soldi […]. In compenso avrebbe
potuto permettersi un intero magazzino di scarpe da ginnastica, che però
non riuscivano più a scaldargli il cuore.28
Il XXI secolo. Frammenti di passato
La gran parte delle comunicazioni pubblicitarie attualmente diffuse in
Russia è di stile occidentale e solitamente trascura il background culturale
del popolo russo; esistono tuttavia interessanti esempi di manifesti costruiti utilizzando retaggi culturali tipicamente russi e sovietici. Si possono ricercare le ragioni del recupero di materiale tradizionale nella necessità di
trovare elementi innovativi che aumentino la visibilità dei messaggi e che li
differenzino dai sempre più numerosi manifesti occidentali. Non si può
tuttavia escludere la presenza di una componente nostalgica rispetto ad un
passato in cui la nazione russa occupava un posto ragguardevole nella cultura e nella politica internazionali. In un periodo di grave crisi dell’identità
nazionale, dovuta sia alle difficoltà interne che alla crescente influenza dell’Europa comunitaria sugli ex stati satellite dell’URSS, il popolo russo cerca
di riaffermare la propria dignità ricorrendo a cliché del passato.
I riferimenti alle tradizioni nazionali non si limitano al controverso
periodo sovietico, ma coinvolgono anche epoche precedenti come, ad
esempio, dimostra un annuncio che reclamizza la Češskaja strachovaja
27
“Putešestvie / Chobbi / SPA salon – sejčas. Oplata – potom” (Il viaggio / Gli hobby /
Il salone SPA – ora. Il saldo – poi).
28
Viktor Pelevin, op. cit., p. 88.
150 /
SUYENNE FORLANI
kompanija, una compagnia di assicurazioni. Il manifesto fa riferimento ad
un evento importante della cultura russa per esaltare la longevità dell’istituto assicurativo poiché essa viene letta dal consumatore come una garanzia di affidabilità. Il messaggio trasmette l’idea di sicurezza in modo originale, differenziandosi dai modelli classici e sfruttando il ricordo di uno
scrittore considerato in Russia orgoglio nazionale. Il testo afferma infatti:
“Kogda Puškin byl smertel’no ranen na dueli, My uže 10 let zaključali
dogovory strachovanija žizni” (Quando Puškin fu mortalmente ferito in
duello, Noi già da dieci anni stipulavamo contratti di assicurazione sulla vita). È forse necessario ricordare a un lettore occidentale che Puškin è considerato in Russia lo scrittore più importante e chiunque conosce la data della sua morte29 e quindi l’anno di fondazione della compagnia reclamizzata.
Gli elementi che ricordano l’epoca sovietica possono essere utilizzati
in modo ironico-satirico o ‘nostalgico’, tuttavia l’evento che ha segnato il
destino della Russia per tutto il Novecento continua a rappresentare una
realtà da cui il popolo russo fatica ad allontanarsi. L’annuncio del 2004
“Novaja ploščad’”, che reclamizza la costruzione di nuovi edifici abitativi,
è di stile nostalgico: l’immagine raffigura in primo piano il volto di un
muratore con l’elmetto di protezione in testa, dietro di lui sono ben visibili un edificio in costruzione e il sole. Gli elementi che rievocano i poster propagandistici del secolo scorso sono numerosi: innanzitutto la linea
di testa “Stroim na sovest’” (Costruiamo coscienziosamente) (cfr. la Figura 3) è un ordine-invito alla prima persona plurale, una delle forme verbali attraverso cui il regime comunista esortava ogni singolo cittadino ad
agire per il bene dello Stato. In secondo luogo la forte assonanza del termine sovest’ con sovet, l’organo di lotta che avrebbe dovuto costituire la
struttura portante dello stato rivoluzionario. Anche la composizione del
visual contribuisce a creare un effetto ‘nostalgico’ riproponendo alcune
caratteristiche dei plakaty: in primis non utilizza la fotografia ma il disegno; inoltre il posto principale all’interno della raffigurazione è affidato
all’operaio, così come nei poster sovietici l’elemento rilevato è, nella maggior parte dei casi, il cittadino. Infine è emblematica la scelta dei colori,
sia per il rosso dello sfondo, sia per il sole arancione che sembra illuminare il tanto atteso radioso avvenire.
29
A causa della gelosia suscitata dall’atteggiamento della moglie Natal’ja, Puškin (Mosca, 1799; Pietroburgo, 1837) accettò di battersi in duello contro il giovane ufficiale
George d’Anthès. Il duello ebbe luogo il 27 gennaio 1837 e il poeta morì il giorno seguente per le ferite riportate durante l’incontro.
PER UN’ANALISI DEL MESSAGGIO PUBBLICITARIO RUSSO
/ 151
Figura 3, Stroim na sovest’
Un interessante manifesto è costruito sfruttando, in modo ironico, il
nome della casa da gioco pubblicizzata: Kapitalizm (cfr. la Figura 4). Nel
visual sono rappresentati Stalin, con un quotidiano sottobraccio, e Lenin,
che tiene in mano un libro dalla copertina rossa il cui significativo titolo
è “Progetto di elettrificazione”,30 intenti a giocare alla roulette. Alle loro
spalle sorride un uomo baffuto, rappresentante la borghesia contro cui i
due uomini politici hanno lottato. Il manifesto copia in tutti i dettagli la
rappresentazione dei due statisti realizzata da Viktor Govorkov in un
plakat del 1951 (cfr. la Figura 5). In quell’opera le immagini di Lenin e
Stalin sono poste l’una di fianco all’altra per mostrare la continuità della
loro politica “Vo imja kommunizma” (In nome del comunismo), come
recita la scritta posta sopra di loro. La linea di testa dell’annuncio promozionale riprende la stessa posizione occupata nel plakat e recita “Pobedim
Kapitalizm” (Sconfiggeremo il capitalismo). Non è difficile leggere in
questa frase una forte nota di sarcasmo, soprattutto se consideriamo che è
utilizzata per pubblicizzare una casa da gioco, di per sé esaltazione del capitalismo, il cui nome è appunto Kapitalizm.
30
“Luce, secondo i bolscevichi, in questi anni era sinonimo di elettricità. La campagna
per l’elettrificazione del paese era partita nel 1920, riassunta in una frase di Lenin che divenne e restò proverbiale per tutta la storia sovietica: ‘Comunismo è il potere sovietico più
l’elettrificazione di tutto il paese’”. Gian Piero Piretto, op. cit., p. 34.
152 /
SUYENNE FORLANI
Figura 4, Vo imja kommunizma
I richiami all’epoca sovietica non si limitano alle immagini e alla scelta
dei termini: potrebbe essere un retaggio dell’epoca anche l’assiduo impiego di punti esclamativi. Nei manifesti occidentali la headline è di solito
chiusa da un punto fermo poiché “[i]l punto esclamativo […] è un segno
enfatico, uno squillo di tromba da venditore di piazza. […]. Le affermazioni sembrano perdere forza, nel momento in cui l’intenzione di stupire
viene sottolineata in modo troppo palese”.31 In Russia invece i punti
esclamativi abbondano, proprio come nei numerosi avvisi che scandivano
non solo la vita pubblica ma anche quella privata dei sovietici. Piretto ricorda come il “lessico [degli annunci esposti nella bacheca della kommunalka] fosse costituito da un’abbondanza di verbi all’imperativo, di proibizioni e divieti, di punti esclamativi…”.32 Il fatto che la Russia stia vivendo una fase di boom pubblicitario paragonabile al nostro Carosello,
che “offriva l’immagine di un mondo e di una realtà edulcorati [… e che]
sul piano linguistico portò all’uso massiccio di superlativi, moduli escla31
32
Annamaria Testa, op. cit., p. 53.
Gian Piero Piretto, op. cit., pp. 293-94.
PER UN’ANALISI DEL MESSAGGIO PUBBLICITARIO RUSSO
/ 153
Figura 5, Pobedim Kapitalizm
mativi, pseudocomparativi e così via”,33 potrebbe spiegare il diverso utilizzo della punteggiatura; appare tuttavia una motivazione anomala se si
considera che i modelli di riferimento sono i messaggi contemporanei e
non quelli del passato. È dunque più probabile che l’abuso di esclamazioni sia un sottile retaggio della comunicazione sovietica.
Se si considerassero solo i dati statistici si dovrebbe dedurre che, all’inizio del XXI secolo, i messaggi promozionali russi si sono completamente
adeguati a quelli occidentali poiché gli stessi manifesti sono indistintamente diffusi in Europa così come in Russia. È tuttavia in aumento il ricorso a retaggi culturali russi piuttosto che a clichè internazionali.34 Questa tendenza è dettata da esigenze commerciali; studi di mercato avranno
evidenziato la necessità di russificare i messaggi promozionali, come affermava nel 1997 il copywriter Rep’ev: “la qualità dei messaggi pubblicitari
33
Marco Perugini, “La lingua della pubblicità”, in Luca Serianni e Pietro Trifone (a cura di), La storia della lingua italiana, vol. II, Torino: Einaudi, 1994, p. 603.
34
L’elaborazione originale di influenze occidentali è, nella cultura russa, una pratica ricorrente dal XVII secolo. Si veda in merito Maria Chiara Pesenti, Narrare per immagini. La
stampa popolare nella cultura russa del Settecento, Bergamo: Sestante, 2002.
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SUYENNE FORLANI
Figura 6, Moskva?
Figura 7, Kogo vyraščivaete?
russi, compresi gli adattamenti di materiale occidentale, è scarsa. Ma
sempre più spesso i committenti russi iniziano ad essere insoddisfatti di
investimenti che non producono vendite”.35 È però innegabile anche la
presenza di una componente emozionale poiché in fondo il dissidio tra
slavofili e occidentalisti sull’identità russa non è ancora risolto. La creazione dello stato socialista aveva, almeno in apparenza, risolto la questione, ma la sua dissoluzione e la forte spinta verso occidente subita nei primi anni di libero mercato sembrano aver riaperto la ferita, come dimostrano alcuni manifesti proposti al Festival moscovita della pubblicità sociale, il cui tema dominante è la difesa della cultura e delle tradizioni russe. È sufficiente citarne, a titolo esemplificativo, solo due: nel 2002 è stato presentato il poster “Moskva?” (cfr. la Figura 6) la cui forza è data dalla
semplicità e dalla pungente ironia che porta l’autrice, Elena Michalevič, a
sostituire la M iniziale con il famoso logo di McDonald’s.
È evidente che un messaggio come questo, polemico verso il simbolo
del capitalismo americano, non sia mosso solo da una questione culturale
35
Aleksandr Rep’ev, “A Glimpse of Russia’s Advertising and Marketing”, pubblicato nel
sito <www.repiev.ru>.
PER UN’ANALISI DEL MESSAGGIO PUBBLICITARIO RUSSO
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e dalla volontà di difendere le proprie tradizioni, ma anche da motivazioni politiche anti-occidentaliste.
Più sarcastico è un manifesto presentato nel 2004 il cui titolo è “Kogo
vyraščivaete?” (Chi educate?) (cfr. la Figura 7). Esso mira a difendere le
tradizioni russe, sempre più spesso vissute con minor passione dalle nuove generazioni che preferiscono le festività straniere prima fra tutte, come
suggerisce il visual, quella di Halloween: il corpo di un bambino si ritrova, al posto della testa, la classica zucca incisa. La scelta dello sfondo bianco, oltre a mettere in risalto l’immagine, che è tutta giocata sulle tonalità
dell’arancione acceso, intende forse sottolineare l’attuale estraneità dei più
giovani rispetto alle tradizioni nazionali e quindi una sopraggiunta ignoranza relativa al patrimonio culturale russo. Il titolo chiama in causa i genitori chiedendo loro “Kogo vyraščivaete?”. La scelta del verbo vyrastit’
invece del più tradizionale vospitat’ (educare), ricondotto all’immagine,
crea un divertente doppio senso, poiché vyrastit’ ha anche il significato di
‘coltivare vegetali’. Per coloro cui la breve, ma pungente, domanda non
appaia sufficientemente esplicita il testo chiarisce che “[l]’amore per la
Patria inizia dall’infanzia. Raccontate ai bambini le tradizioni del vostro
Paese”. Due semplici frasi: la prima è un’affermazione impersonale, la
seconda invece utilizza la forma imperativa di un verbo imperfettivo, è
dunque un’esortazione a iniziare un’azione educativa che deve durare nel
tempo perché, sostiene la frase di chiusura, “[l]a diffusione della cultura
altrui è pericolosa per la vostra”.
§
8
Sara Panazza
Zoomorfismi dell’anima
Epifanie di decentramento in Argo e il suo padrone di Svevo
Naturalmente lui non capiva. Gli umani non intendono
il discorso degli animali. Solo nei romanzi, nei racconti,
cani e uomini trovano un comune terreno d’intesa.
O. Henry, Memoirs of a Yellow Dog
Il punto di vista cinico
Leggendo Svevo si ha spesso la chiara percezione che l’ironia e lo straniamento costituiscano il grimaldello con cui schiudere un pensiero che,
mentre sembra colorarsi delle fosche e asfittiche tinte borghesi, le distrugge dall’interno in nome di una verità nuda e disillusa sulla realtà retta solo dal caos.
Vorrei qui analizzare una delle forme più estreme tra le molte create
da Svevo per mettere in scena il proprio disincanto verso ogni possibile
ermeneutica della realtà: mi riferisco alla scelta di dedicare sin dal titolo
un racconto a un cane che, assumendo quasi le vesti di un antico filosofo
cinico, si trasforma in veicolo del pensiero autorale. In Argo e il suo padrone il decentramento rappresenta sia il contenuto della narrazione sia il
punto di vista – canino – attraverso cui il racconto prende forma. In Argo
il linguaggio e, con esso, il sogno si rivelano strumenti insostituibili per
esperire l’entropia caotica cui anche l’esistenza di un tranquillo esemplare
di segugio pare essere soggetta. Se è lecito concedere per un istante al significante di farsi beffe dell’etimologia, la dantesca canoscenza è qui la
prima e più profonda necessità non di un uomo, ma di un cane.
Loquor ergo sum
Le ipotesi del pensiero evoluzionistico lasciano, com’è noto, cospicue
PARAGRAFO III (2007), pp. 157-74
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tracce nella produzione saggistica di Svevo, impregnando di sé anche la
scrittura letteraria, quasi fossero un humus, un paradigma epistemologico
gravido di applicazioni, in grado di orientare con i suoi presupposti le vicende e la natura stessa dei personaggi sveviani.1 Salvo poi, per quella
strana coincidenza di paradossi che distingue il pensiero di Svevo, essere a
loro volta negate e superate attraverso l’esperimento dello zoomorfismo
declinato in modo assolutamente eterodosso nel racconto Argo e il suo padrone. A innescare la bomba sarà un animale che, declassato e ammutolito dalla tradizione filosofica cartesiana, assurge quasi a sfinge inintelligibile e, insieme, a oracolo rivelatore del pensiero sveviano. Che il punto di
vista canino abbia il compito di veicolare le idee sveviane e che ciò sia
possibile solo dopo aver confutato qualsiasi paradigma ispirato a una visione ordinatamente gerarchizzata e consolatoria della realtà è ciò che resta da dimostrare.
Argo e il suo padrone fu composto da Svevo presumibilmente intorno
al 1927.2 Si tratta di un’opera tarda in cui confluiscono motivi appartenenti alla precedente riflessione sveviana. Il darwinismo trova qui il suo
superamento nel momento in cui Svevo conferisce al protagonista canino
facoltà cognitive generalmente ascrivibili al genere umano quali la riflessione, la memoria, la capacità di risolvere problemi. Non solo: Argo parla
e le sue parole paiono essere frutto di un pensiero logico, di un’attività
cogitante. L’evoluzionismo eterodosso si affianca qui a una dichiarata opposizione al pensiero cartesiano secondo cui il linguaggio è la manifestazione del pensiero cogitante in cui consiste l’essenza dell’anima umana. In
particolare la parola è “l’unico segno certo del pensiero nascosto nel cor-
1
Spesso Svevo giustifica l’inettitudine con il determinismo estrinseco alla volontà umana. Cfr: l’interessante studio di Giacomo Debenedetti, “Svevo e Schmitz”, in Id., Saggi
critici. Seconda serie, Venezia: Marsilio, 1990.
2
Il racconto compare per la prima volta come frammento dal titolo Dalle memorie di
un cane nella “Piccola antologia di scrittori italiani del 1926” pubblicata in appendice
all’Almanacco letterario Mondadori del 1927. Nel 1934 compare sulla rivista Dante un testo ibrido intitolato “Argo e il suo padrone” in cui la parte già edita è preceduto da quattro paragrafi della versione integrale ancora inedita alla morte dell’autore. Questa versione
è infine pubblicata da Umbro Apollonio nel volume Corto viaggio sentimentale e altri racconti inediti, Milano: Mondadori, 1949, e ripresa senza variazioni nel vol. III dell’Opera
omnia curata da Bruno Maier per Dall’Oglio nel 1969. La lezione di Argo e il suo padrone
da cui si cita in questo saggio è Italo Svevo, Tutte le opere, vol. II: Racconti e scritti autobiografici, edizione diretta da Mario Lavagetto, edizione critica con apparato genetico e commenti di Clotilde Bertoni, Milano: Mondadori, 2004 (d’ora in poi Ad).
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po e di essa si servono tutti gli uomini […] ma non le bestie: essa dunque
può essere assunta come la vera differenza tra gli uomini e i bruti”.3
Circa due secoli dopo, Leopardi, autore assai caro a Svevo, darà forma
a una sua particolare declinazione critica e ambivalente dell’evoluzionismo che, con molta probabilità, appartiene alla fucina teorica dello scrittore triestino, contraddizioni comprese. Nel 1811 all’interno della Dissertazione sopra l’anima delle bestie Leopardi afferma perentorio: “sembrami
di poter concludere con sicurezza che la sentenza la quale afferma essere
l’anima dei bruti uno spirito dotato di senso, di libertà e di un qualche
barlume di ragione è certamente probabile più di ogni altra”.4
Dieci anni più tardi, nel 1821, lo stesso Leopardi confermerà, diversamente da quanto appena citato, l’asserzione cartesiana osservando che
Dal pensiero precedente e dagli altri segni sull’influenza somma del linguaggio nella ragione e nelle cognizioni, deducete che una delle cause
principalissime […] della inferiorità delle bestie rispetto all’uomo, e della
immutabilità del loro stato, è la mancanza di organi necessari ad un linguaggio perfetto, o ad un perfetto sistema di segni di qualunque genere.5
Leopardi riconosce un’anima ai bruti in quanto senso, libertà e barlume di
ragione. Ciò che viene decisamente negato, non è l’esistenza di un’anima
tout court ma la capacità degli animali di creare sistemi di segni, ovvero di
creare e padroneggiare un linguaggio. Qui risiede la differenza tra l’uomo
e l’animale. Nel racconto sveviano la gerarchia tra umano e animale è distrutta: l’animale parla, pensa e, addirittura, sogna.
La prospettiva canina
Scritto ibrido e sfuggente, Argo e il suo padrone è il frutto di sperimentali
innesti di generi diversi: tra questi è centrale la forma dell’apologo ironico-satirico, di quelle brevi composizioni filosofiche di marca settecentesca
nelle quali peraltro, basti pensare alle leopardiane Operette morali, lo zoomorfismo e il ruolo degli animali quali portatori del pensiero autoriale
costituiscono una costante. Apologo dunque, ma dall’atmosfera sinistra e
3
René Descartes, “Descartes a Morus”, in Opere filosofiche, vol. II, Torino: Utet, 1994,
p. 717.
4
Giacomo Leopardi, “Dissertazione sopra l’anima delle bestie”, in Id., Poesie e prose,
Milano: Mondadori, 1998, p. 519.
5
Giacomo Leopardi, Zibaldone, Milano: Mondadori, 1997, p. 796.
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sconcertante: alla certezza incontrovertibile della verità filosofica si contrappone un inquietante e misterioso omicidio che scorre sotterraneo e irrisolto fino alla fine del racconto. Testimone inabile alla confessione, Argo scopre un cadavere la cui vicenda di morte, anche se mai esplicitata,
sembra misteriosamente legata al padrone del cane. La fiducia e l’ottimismo nella ratio settecentesca di cui spesso gli apologhi sono portatori lascia qui coerentemente il passo all’incertezza, allo scacco della ragione, alla mancanza di spiegazioni certe e definitive per quel che concerne un
omicidio che sembra voler scomparire dalle righe del racconto sveviano
senza spiegare le ragioni della propria presenza nel testo.
Il padrone di Argo – di cui, per inciso, non conosciamo neppure il
nome – si trova costretto per un anno intero a un otium forzato, disperso
tra i monti con il fido compagno canino. La noia e l’interminabilità delle
giornate traspaiono sin dalle prime righe. Ma una notizia inaspettata
rompe la routine.
Il padrone legge sul giornale che “in Germania un cane sapeva parlare.
Parlare come un uomo e con qualche poco di intelligenza in più perché
gli si domandavano persino dei consigli” (Ad, p. 97).
Chiuso il giornale, il padrone è convinto di avere davanti a sé un essere perfettamente in grado di comprenderlo tanto da convincersi che “Argo sapeva parlare e taceva solo per ostinazione” (p. 98). Inizia così un
lungo ciclo di lezioni di “lingua umana” in cui “l’innocente, dapprima,
quasi per uno strano pudore guardava altrove quando vedeva un uomo
nella posizione di un cane; poi vi si abituò” (p. 98).
Nello stesso tempo il padrone si educa al compito di raccogliere e studiare ogni suono emesso dal cane. Il risultato è un trionfo: “Cioè volevo
dire un fiasco se non dimentico che il mio primo intendimento era stato
di insegnare ad Argo l’italiano. Come prevedibile […] apprese di più l’essere evoluto. L’inverno era ancora al suo apice e io intendevo la lingua di
Argo” (p. 99). Il padrone raccoglie un infinità di soliloqui canini non
senza pagare per essi il prezzo più grande: “La povera bestia non giunse
che all’estate: crepò di nevrastenia acuta” (p. 100).
Attraverso un lungo flashback il padrone riporta le riflessioni di Argo
al lettore: Argo diventa un narratore di secondo grado, mentre quello di
primo, il padrone, si limita a riportare le parole canine aggiungendo
“qualche osservazione in parentesi di cui forse non c’era neppure bisogno” (p. 100). Soffermiamoci su un punto cruciale: le osservazioni di Argo sono comunicabili attraverso una traduzione dal ‘linguaggio’ canino a
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quello umano, indoeuropeo, neolatino, italiano (se non triestino) in particolare. È interessante notare come per un filosofo del linguaggio quale
Lacan, tra i due ‘sistemi’ linguistici (umano e animale) sussista una diversità legata non tanto al ‘grado di sviluppo’, quanto a una divergenza sostanziale. Parlando del linguaggio delle api Lacan afferma che in esso
un linguista non può vedere altro che una semplice segnalazione della posizione dell’oggetto, in altre parole una funzione immaginaria più differenziata delle altre. Sottolineiamo che una simile forma di comunicazione
non è assente nell’uomo, per quanto evanescente sia per lui l’oggetto
quanto al suo dato naturale, in ragione della disintegrazione che subisce
per via del simbolo. […] Una tale comunicazione [quella delle api] non è
trasmissibile in forma simbolica. Essa si regge solo nella comunicazione
con questo oggetto.6
Nel Seminario sulla Lettera rubata, Lacan individua tre regimi di senso:
Reale, Simbolico, Immaginario. Il Simbolico è il regime della Legge, del
patto, delle istituzioni linguistiche e culturali. Ad esso appartiene la lingua come istituzione, la langue saussuriana grazie alla quale, accettando il
carattere arbitrario del segno, ovvero il rapporto arbitrario e socialmente
condiviso tra significante e significato, è possibile la comunicazione tra i
parlanti. Essi faranno dunque riferimento alla realtà, e ai suoi oggetti, in
modo indiretto, simbolico appunto. La capacità di astrazione necessaria
alla simbolizzazione dei referenti linguistici è prerogativa umana. Gli animali paiono invece dotati di un linguaggio per così dire ‘cosale’, oggettuale, legato alla pura percezione sensoriale dell’oggetto che rimane ancorato
al livello di immediata visione e spazializzazione dell’oggetto stesso. Il linguaggio animale può, in altre parole, servire solo a rappresentare concretamente attraverso un analogon un oggetto circoscritto e presente nell’ambiente in cui l’oggetto stesso è percepito (il fiore per le api). Non è
contemplata astrazione simbolica e, di conseguenza, l’attività cognitiva
nell’animale si ridurrebbe alle dinamiche concrete e sensoriali che esso
istituisce con gli oggetti circostanti con cui interagisce per soddisfare i
suoi bisogni primari.
All’interno della cornice dell’apologo sveviano, le affermazioni lacaniane sembrano trovare una precisa e ironica confutazione. Anche se “la
lingua del cane è meno completa della lingua umana” e nonostante la di6
Jacques Lacan, “Seminario sulla Lettera rubata”, in Id., Scritti, Torino: Einaudi, 1974,
pp. 15-16.
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chiarazione di assoluta fedeltà della traduzione del padrone, si osserva come Argo articoli al contrario il proprio pensiero in modo complesso. Partendo da dati sensoriali, olfattivi in particolare, Argo raggiunge un livello
di riflessione sulla realtà che presuppone il passaggio da una mimesi diretta dell’oggetto alla sua designazione all’interno di un’ermeneutica e, diciamo, di una sintassi della realtà. E l’ermeneutica può avvenire solo approdando al regime del Simbolico. Attraverso i suoi soliloqui seguiamo Argo
lungo il suo tentativo di spiegare, di dare una logica agli eventi della
realtà che paiono sfuggire a qualsiasi causalità o finalismo per affermare
l’unica legge possibile: la mancanza della legge stessa. La realtà pare agli
occhi canini retta dal caos, dall’entropia fenomenica in cui la consequenzialità lascia spazio al caso.
Spinto dal padrone a filosofeggiare Argo sentenzia: “Odori tre uguale
vita” (Ad, p. 100). In questa frase futurista Argo condensa il risultato delle
sue osservazioni sulla realtà. Subito di seguito il cane inizia a esporre la
tassonomia olfattiva con la quale imbrigliare la realtà, e qui iniziano le incrinature di quella che solo a prima vista potrebbe essere scambiata come
la confessione, innocente nel contenuto e balbettante nella forma, quale
si attribuirebbe facilmente a un bruto. Infatti, iniziando l’elenco degli
odori, Argo supera i tre, ne nomina cinque e, in seguito ne elenca innumerevoli altri. Il padrone, d’altro canto, controlla il proprio disorientamento, celando il potenziale nonsenso delle parole canine dietro l’elogio
del carattere sibillino che appartiene a ogni massima filosofica e alla ricostruzione un po’ stentata della sintassi ‘trina’ con cui Argo organizzerebbe
il proprio pensiero e, di conseguenza, il proprio enunciato:7
Per giorni interi insistetti per averne il commento e non ne ebbi mai che
la ripetizione. La bestia è perfetta e non perfettibile. Chi la studia deve saper progredire. Notai la frase come stava e procedetti oltre. Avute poscia
7
La possibilità di padroneggiare il livello sintattico di una lingua, oltre a essere una prova chiara di un’attività intellettiva, presuppone la capacità di concettualizzazione e, quindi
di astrazione che è propria, come s’è detto, del registro Simbolico lacaniano. Inoltre è importante ricordare che, all’interno del percorso di apprendimento di una lingua, la comprensione e l’organizzazione logica dei costituenti grammaticali (in altre parole la sintassi)
rappresenta una capacità complessa e non elementare nell’uomo stesso. Ciò detto, occorre
mantener distinti l’ambito psicanalitico in cui le riflessioni lacaniane si inseriscono dalla
scrittura di finzione cui appartiene Argo. Quello che davvero interessa nell’eloquente cane
messo in scena da Svevo è la scelta di un filtro attraverso cui osservare in modo distorto,
straniato e ironico la verità cui il soggetto umano appartiene.
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altre sue comunicazioni me ne derivò qualche luce e pensai di aver capito.
Divide la natura in tre classi solo perché per lui il massimo matematico è
tre; poi ne cita cinque e dalle sue esemplificazioni risulterebbe che ve ne
sono molte di più. Io credo che questa è la vera, la grande sincerità filosofica
(Ad, p. 100).
Qualche pagina più avanti, parlando del comportamento del suo padrone
durante le battute di caccia, Argo osserva che “il padrone, quando c’è [la
preda], incita, ma io so meglio di lui che traballa su due gambe sole mentre io ne ho tre” (p. 102).
Il lettore, come prima il padrone, non può non rimanere sorpreso davanti a quel tre che, se spiegabile con la ‘sintassi trina’ ideata dal padrone,
pure non perde del tutto l’alone perturbante che è in grado di emanare
intorno a sé. D’altro canto, se è lecito prendere gli errori numerici come
manifestazione di una traduzione fedele, non antropomorfizzata, non
corretta secondo i criteri della grammatica umana, pare più interessante
considerare gli ‘errori’ nomenclatori come epifania di decentramento,
mancanza di ordine logico, impossibilità di gerarchizzazione dei fenomeni reali, attraverso la dichiarazione del carattere assolutamente arbitrario
della numerazione intesa, ancora saussurianamente, come rapporto arbitrario tra il nome dato al numero (significante) e il numero effettivo degli
oggetti cui ci si riferisce (significato). Veri e propri lapsus con cui la verità
letteralmente cade dalla bocca di Argo.
In questa prospettiva paiono efficaci alcune considerazioni presenti
nel lavoro di Arrigo Stara, La civilizzazione dei bruti.8 Riprendendo il
concetto di letteratura minore usato da Deleuze e Guattari,9 Stara ricorda
che la prima caratteristica della letteratura minore10 è la deterritorializzazione, il sentirsi straniero e apolide nella propria terra e, prima di tutto,
nella propria lingua. Il veicolo principale per attuare questa deterritorializzazione sono gli animali:
Gli animali sono spesso […] il veicolo principale per questa deterritorializzazione, per l’evasione dallo stabilito, dal noto, dal pieno. Farsi piccolo
8
Arrigo Stara, “La civilizzazione dei bruti. Qualche congettura sugli animali nei racconti”, in Fausto Curi et al. (a cura di), Studi sulla modernità 2, Bologna: Printer, 1993.
9
Gilles Deleuze e Félix Guattari, Kafka. Per una letteratura minore, Macerata: Quodlibet, 1996.
10
“La letteratura minore non è la letteratura di una lingua minore ma quella che una
minoranza fa in una lingua maggiore”. Ivi, p. 29.
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come un animale, abbassarsi all’animalità, corrisponde a un volersi altro,
a un ridiventare straniero […]. Il divenire animale rappresenta […] la via
di fuga più falsa e insieme l’unica potenzialmente autentica: solo l’animale testimonia di quell’al di fuori del linguaggio umano, di quell’irriducibilità estrema, con la quale non è possibile venire a patti.11
Non solo. Assumere il punto di vista animale è uno dei modi con cui è
possibile “la sottrazione dell’oggetto all’automatismo della percezione”12
teorizzata da Šklovskij come compito essenziale dell’espressione artistica
per scoprire una diversa via ermeneutica con cui indagare la realtà. La
metamorfosi dello sguardo attraverso una prospettiva ‘animalizzata’ permette lo “spalancarsi, sotto ai nostri occhi, di un osservatorio inedito sul
mondo”.13
Riesaminando gli ‘errori’ nomenclatori di Argo secondo questa nuova
prospettiva, è lecito ipotizzare che l’anarchia numerica denunci l’assurdità
di ogni tavola classificatoria, l’impossibilità di istituire un rapporto stabile
fra una categoria e suoi oggetti, lo svanire di ogni identità, che si dissolve
di continuo in sottounità sempre più piccole. L’errore linguistico non è
più un’anomala deviazione dalla norma ma la lacerazione, il punto molle
in cui la superficie costituita dalla Norma e dalla Legge ordinatrice e tassonomica si lacera per lasciar intravedere la nuda verità in cui qualsiasi regola o causa ordinatrice cede il posto al caos. Per Svevo la lacerazione è
così irreparabile da lasciare un’unica possibilità di difesa: insinuarsi in essa
come in una fessura, cercare lì riparo e da lì osservare con impietosa lucidità il mondo. In una realtà frammentata il luogo infranto è anzitutto il
linguaggio, l’ordine del Logos e della sintassi che impongono una classificazione ai fenomeni della realtà.
Loquor ergo sum. Il linguaggio rappresenta nel racconto sveviano il veicolo attraverso cui si comunica, sia attraverso gli ‘errori’ grammaticali che
attraverso il contenuto vero e proprio delle enunciazioni, l’esperienza, se
non la coscienza, del decentramento del soggetto novecentesco e della
mancanza assoluta di rigorose leggi tassonomiche. Argo passa il suo tem11
Arrigo Stara, op. cit., p. 430.
Viktor Šklovskij, “L’arte come procedimento”, in Tzvetan Todorov (a cura di), I formalisti russi. Teoria della letteratura e metodo critico, Torino: Einaudi,1968, p. 83. Si noti
come lo straniamento sia spiegato attraverso l’assunzione del punto di vista animale, riferendosi in particolare al racconto Cholstomer di Tolstoj in cui il punto di vista narrativo
coincide con quello del cavallo che dà il nome al racconto.
13
Arrigo Stara, op. cit., p. 432.
12
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po a cercare di spiegarsi per via di conoscenza quello che gli sta intorno e
fa esperienza di come sia difficile fare dei calcoli che possano servire ad
orientarsi nell’enigma rappresentato dalla realtà. La lingua di Argo è povera di parole, e soprattutto di connessioni sintattiche, come sembra essere anche la realtà. È certamente un sistema di conoscenza del mondo, ma
Argo non pretende che il suo sistema linguistico possa comprendere tutto
il mondo. Abbiamo visto che la prima frase proferita da Argo, mentre filosofeggia con l’uomo, è “Odori tre uguale vita” (Ad, p. 100). Il padrone
spiega a suo modo questa massima esistenziale canina, affermando, come
s’è detto, che il cane “[d]ivide la natura in tre classi solo perché per lui il
massimo matematico è tre; poi ne cita cinque e dalle sue esemplificazioni
risulta che ve ne sono molte di più. Io credo che questa sia la vera, la grande sincerità filosofica” (p. 100). Argo stesso espone la tassonomia con cui
declina e cataloga gli elementi della realtà. “Esistono tre odori a questo
mondo: L’odore del padrone, l’odore degli altri uomini, l’odore di Titì, l’odore di diverse razza di bestie (lepri che sono talvolta ma raramente cornute e grandi, e uccelli e gatti) e infine l’odore delle cose” (p. 101).
Il sistema ermeneutico non funziona per tutte le cose, non esaurisce le
spiegazioni degli avvenimenti e quando Argo riceve dei calci dal padrone
raramente capisce perché e se anche prova a fare dei calcoli per riceverne
meno, non ottiene il risultato sperato. Ma abbiamo notato come il sistema di catalogazione del reale ‘olfattivo’ ha nella sua limitatezza e relatività, e nella coscienza che Argo ha di questa insufficienza il suo vero valore. Argo, lo ripetiamo, ha bisogno di sapere, per questo crea una griglia interpretativo-olfattiva per poi scoprire, e soffrirne, che qualsiasi classificazione della realtà crolla davanti a un muro in cui tutti gli odori si scontrano e si mischiano anarchicamente: “quando mi mettono alla catena io
muoio di noia. Il vento si frange sul muro di cinta e io sento gli odori indistinti che gridano tutti insieme danno un frastuono che mi fa impazzire.
Oh! potessi almeno arrivare al luogo là sul muro dove gli olezzi sono ancora divisi” (p. 106). Gli odori che gridano tutti insieme in un vortice di
anarchiche traiettorie ricordano non poco le molecole d’acqua che litigano tra loro all’interno dell’acqua stessa14 scelte da Svevo per metaforizzare
in un caustico aforisma la condizione d’incertezza e di mancanza di controllo assoluto sulla propria esistenza e, soprattutto, sulla propria interio14
Italo Svevo, “Nietzsche”, in Racconti, saggi e pagine sparse, Milano: Dall’Oglio, 1968,
p. 842.
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rità, in cui l’uomo sembra essere inesorabilmente condannato a vivere. La
stessa idea di entropia e disordine interiore come cifra ontologica dell’uomo accomuna infine l’anarchia olfattiva e il caos molecolare all’uomo in
abbozzo in cui ogni parte del corpo è in perenne lotta con l’altra.15 Bloccato da una catena, Argo non può ispezionare lo spazio circostante, delimitarlo e suddividerlo qualitativamente. Privato della griglia con cui ordina la realtà, Argo scopre la verità insita nella realtà, impermeabile a qualsiasi paradigma e categoria, in cui si è “incapaci di trovare fissità di rotta,
omologazioni di cause, itinerari nominabili, nelle oscillazioni speculari
dei propri desideri e dei propri progetti”.16 Il muro rappresenta l’appiattimento democratico a cui sottostanno tutti i possibili odori, cioè caninamante, i possibili fatti e eventi della realtà. Entrambi non sono distinti né
distinguibili tra loro, e gridano, quasi volendo schernire il sistema in cui il
cane li aveva illusoriamente ordinati. Ancora una volta è l’esperienza del
caos, dell’informe, del mutevole e del disordine a coincidere con la verità.
Per chiudere il cerchio aperto con Cartesio, è opportuno considerare
la concezione dell’inconscio cui Lacan arriva attraverso la mediazione della linguistica strutturalista di De Saussurre. Rileggendo Freud, appare
chiaro a Lacan che l’inconscio riveli una logica di funzionamento estremamente articolata e che le sue formazioni (lapsus, atto mancato, sintomo, sogno) sono funzioni semanticamente significative di carattere retorico-linguistico: “il linguaggio è la condizione dell’inconscio […]. L’inconscio è l’implicazione logica del linguaggio, nessun inconscio, in effetti,
senza linguaggio”.17
Se l’inconscio è l’implicazione logica del linguaggio, data la sua loquela possiamo ipotizzare in Argo (cartesianamente), la presenza di un anima
o (freudianamente) di un inconscio. Ipotesi sostenuta da un altro interessante elemento: Argo sogna.
Epifanie oniriche
La scoperta dell’inconscio e delle sue dinamiche apporta il colpo mortale
all’io umanistico uno e univoco per lasciare il posto a un gioco dinamico
15
Italo Svevo, “L’Uomo e la teoria darwiniana”, in Racconti, saggi e pagine sparse, cit.,
p. 648.
16
Giancarlo Mazzacurati, “Lo strabismo di Svevo”, in Id., Stagioni dell’apocalisse. Verga,
Pirandello, Svevo, Torino: Einaudi, 1998, p. 195.
17
Jacques Lacan, “Prefazione”, in A. Rifflet-Lemaire, Introduzione a Jacques Lacan, Roma: Astrolabio, 1972, p. 14.
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di istanze in conflitto. L’uomo può essere concepito solo come scisso e
decentrato. In questa atmosfera il sogno diventa veicolo e epifania dell’ordine mancante, dell’ermeneutica entropica con cui decifrare la realtà.
Un mezzo con cui si manifesta al soggetto il caos, l’indistinta folla puntiforme dei desideri, dai più nobili ai più turpi, l’anarchia dei ricordi
rispetto al loro valore psico-affettivo: “Il sogno sarebbe la nostra memoria anarchica liberata dalla sua ganga”.18 Freud chiude il capitolo della
Traumdeutung intitolato Il sogno è l’appagamento di un desiderio confessando di non sapere veramente cosa sognino gli animali. Prima di tutto:
chiedersi che cosa sognino gli animali presuppone la loro capacità di sognare. In secondo luogo, come spesso capita, Freud chiama in suo aiuto
la tradizione popolare: “un proverbio, riferitomi da uno dei miei ascoltatori, afferma di saperlo perché alla domanda: che cosa sogna l’oca? dà la
risposta: il granturco!”19
Ecco trovata la conferma ad hoc per la teoria sul sogno, tanto congeniale agli scopi di Freud da fargli affermare che “tutta la teoria del sogno
come appagamento del desiderio è contenuta in queste parole”.20 In effetti, l’appagamento di un desiderio sembra essere la funzione dei sogni di
un altro animale, un anonimo gatto, protagonista di un frammento sveviano di difficile datazione intitolato La morte del gatto. Nel testo
il gatto chiuse gli occhi e sognò che avessero chiusi anche i vetri e che
tutt’intorno avessero scaldato con quel buon tepore tepido così che egli
invece che stare sempre sulle quattro zattine nel minimo spazio possibile
per fruire del proprio calore e concentrarlo avrebbe potuto stendersi comodamente su quei soffici guanciali […]. “Non capisco perché non lo
facciano” pensò il gatto. “Si starebbe tutti meglio”. Con quel tutti egli
pensava esclusivamente a se stesso.21
Il sogno appaga un desiderio del tutto egoistico: il gatto pensa, desidera e
sogna pensando esclusivamente a se stesso. Per Argo le cose vanno diversamente: “Argo ha bisogno di sapere. Non è un gatto cui basta celarsi”
(Ad, p. 106). Il sogno, rappresenta il mezzo attraverso cui Argo ha la possibilità di esperire ancora una volta il disorientamento rispetto a qualsiasi
direzione volitiva, nonché il caos contraddittorio degli eventi della realtà:
18
Jean-Bertrand Pontalis, “È stato sognato”, Rivista di psicoanalisi, 47:3, 2001, p. 435.
Sigmund Freud, L’interpretazione dei sogni, Torino: Bollati Boringhieri, 1973, p. 138.
20
Ibidem.
21
Italo Svevo, La morte del gatto, in Racconti e scritti autobiografici, cit., p. 720.
19
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Sognai che avevo non più un padrone ma due e si separavano andando
in due direzioni opposte così che non potevo corrispondere al mio dovere
di seguirli ambedue. Più tardi avvenne la stessa cosa con la preda. Ce
n’era tanta che l’aria gridava. Era davanti a me e dietro e alle due parti
che l’aria ne portava l’olezzo e io non potevo correre e soffrivo orribilmente.
(Ad, p. 104).
Che cosa sogna Argo? Certo non carne gustosa come dovrebbe fare se il
lavoro onirico si limitasse ad allucinare oggetti del desiderio come accade
all’oca del proverbio citato da Freud. Notiamo innanzi tutto che Argo
vuole muoversi e fuggire dall’inferno degli odori, eppure appare bloccato.
Parlando dei sogni tipici, Freud cita quelli di imbarazzo per la propria
nudità in cui, similmente ad Argo, il protagonista del sogno, come pietrificato sul terreno, oltre a provare un forte imbarazzo, è immobilizzato,
“soggiace alla caratteristica inibizione di non potersi muovere, sentendosi
incapace di mutare la propria situazione”.22 Tuttavia, ricordando come vi
fu in tutti noi un periodo, l’infanzia, in cui la nudità era vissuta con disinvoltura, addirittura con esaltazione, Freud spiega il contenuto manifesto di vergogna col suo corrispettivo – e opposto – significato latente di
esibizione. Come tutti i cani che si rispettino Argo è nudo; non senza cognizione di causa possiamo forse ipotizzare che il suo desiderio di fuggire
corrisponda al latente impulso e desiderio di esibirsi, o meglio, di esibire
una nuda verità: la verità del caos.
Andando più a fondo nell’analisi del sogno, osserviamo che l’immobilità di Argo è causata anche dall’impossibilità di riconoscere e scegliere
una direzione, ovvero ‘un’ padrone. Sdoppiandosi, il padrone, reggitore
dell’ordine e parametro basilare dell’ermeneutica della realtà, induce Argo
in una situazione psichica simile a quella teorizzata da Bateson nel suo
Verso una teoria della schizofrenia.23 Studiano pazienti schizofrenici, Bateson definisce con la formula doppio vincolo la situazione che si instaura
tra il paziente e la propria madre. Secondo l’Autore ogni volta che un individuo si trova in una situazione di doppio vincolo, la sua capacità di discriminazione fra livelli logici subisce un collasso. Le caratteristiche generali di questa situazione sembrano affini a quelle del sogno di Argo:
1. L’individuo è coinvolto in un rapporto intenso, cioè un rapporto in cui
egli sente che è di importanza vitale saper distinguere con precisione il
22
23
Sigmund Freud, op. cit., p. 231.
Cfr. Gregory Bateson, Verso un’ecologia della mente, Milano: Adelphi, 1976.
ZOOMORFISMI DELL’ANIMA
/ 169
genere di messaggio che gli viene comunicato, in modo da poter rispondere in maniera appropriata.
2. E, inoltre, l’individuo si trova prigioniero in una situazione in cui l’altra persona che partecipa al rapporto emette allo stesso tempo messaggi
di due ordini, uno dei quali nega l’altro.
3. E, infine, l’individuo è incapace di analizzare i messaggi che vengono
emessi, allo scopo di migliorare la sua capacità di discriminare a quale ordine di messaggio debba rispondere.24
Il sogno di Argo inscena un rapporto intenso dato che il cane si trova a diretto contatto con l’istanza ordinatrice e rassicurante del padrone. Argo si
trova prigioniero in una situazione in cui, a differenza della teoria di Bateson, non sono gli ordini emessi dal padrone ad essere opposti, ma è il
padrone stesso che, sdoppiandosi crea due simulacri di sé e della sua autorità. Ubbidire ad uno significherebbe trasgredire nello stesso tempo l’altro. In quanto autorità e istanza ordinatrice, il padrone produce con il
proprio sdoppiamento un ordine e un contro-ordine, un richiamo e un
contro-richiamo che non possono che annullarsi a vicenda. L’impasse, il
doppio vincolo creato da questo stato è rappresentato oniricamente a livello del contenuto manifesto dove Argo appare, incapace di rispondere al
messaggio dei padroni e di scegliere tra i due, rimanendo immobile e sofferente perché incapace di rispondere al dovere di seguirli ambedue.
Nello scritto sul ‘perturbante’,25 Freud definisce il concetto di Unheimliche come ciò “che si sperimenta direttamente si verifica quando complessi infantili rimossi sono chiamati in vita da un’impressione, o quando
convinzioni primitive sorpassate sembrano trovare una nuova conferma”.26
È forse possibile servirsi del perturbante come elemento per chiarire la
natura della conoscenza a cui arriva Argo attraverso il proprio sogno. In
esso egli vede il padrone sdoppiarsi e percorrere strade opposte: Argo soffre per la paura di perdere il padrone e il suo odore. Un odore fondamentale, necessario per la vita, e per l’organizzazione gerarchica della realtà:
“l’odore del padrone […]. Guai se non ci fosse quell’odore a questo mondo. Argo potrebbe fare quello che vuole ciò che sarebbe male. Quell’odore rassicura, dirige e protegge” (Ad, p. 101).
All’interno dell’ermeneutica olfattiva, l’odore del padrone è l’elemento
24
Ivi, p. 250.
Sigmund Freud, “Il perturbante” (1919), in Id., Saggi sull’arte la letteratura e il linguaggio, Torino: Bollati Boringhieri, 1999, pp. 269-309.
26
Ivi, p. 303.
25
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SARA PANAZZA
culmine della gerarchia degli elementi, il parametro con cui tutti gli odori
vengono ordinati: “Esistono tre odori a questo mondo. L’odore del padrone” (Ad, p. 101). Ma Argo stesso prova, e ne soffre, la mancanza d’ordine degli odori e il conseguente caos della realtà nei momenti di sospensione epifanica in cui è legato alla catena e viene investito dal turbine
sconnesso e reale degli olezzi. Argo è consapevole della relatività del proprio sistema, eppure, per sopravvivere semplicemente sereno – come, ricordiamo, spetterebbe a qualsiasi animale dedito alla vita bassa – nasconde
questa consapevolezza. Il padrone, figura superegoica,27 svolge la funzione
di istanza rimovente: con il suo odore che dirige e rassicura, egli è il freno
al dilagare del caos, dell’incoerente e del contraddittorio, in altri termini,
dell’Es. Nel sogno, il padrone perde il suo valore e la sua significazione
come unità, identità e coerenza nel momento in cui si sdoppia, e, all’infinito, si moltiplica.28 L’istanza rimovente perde la propria efficacia e autorità, permettendo così al rimosso di accedere alla rappresentazione onirica
generando angoscia nel sognatore.
Il sogno porta a galla la coscienza rimossa del caos e dell’illogicità sottostante l’ordinamento degli odori. Questa consapevolezza è familiare a Argo, ma altrettanto celata, e il sogno non fa altro che ricordare a Argo la verità che, conosciuta, sorpassata e rievocata provoca sofferenza e dolore. È
l’effetto del perturbante quello provato da Argo nel sogno, nel momento in
cui egli è messo di fronte a una verità inconfutabile, di cui ha volutamente
celato a se stesso il carattere necessario e ineliminabile. Argo incontra nel
sogno lo statuto ontologico delle cose – il caos – che perfettamente intende
e che, lo abbiamo visto, anche il suo linguaggio rivela ma, avendolo allontanato e rimosso, altrettanto perfettamente spaventa e, appunto, perturba.
Seguendo Masud Khan potremmo dire che, insieme al sogno si attiva
in Argo l’esperienza onirica – Argo nel sogno prova emozioni, soffre, esperisce l’evento onirico – il quale è “un tutto che misteriosamente permette
27
Si veda in proposito il dovere con cui Argo esprime l’assoluta necessità di seguire l’odore del padrone: “Sognai che non avevo più un padrone ma due e si separavano andando
in due direzioni opposte così che non potevo corrispondere al mio dovere di seguirli ambedue” (Ad, p. 104).
28
“Il sognatore […] introduce un processo di frammentazione e moltiplicazione che
mina la sovranità del soggetto. Il soggetto come ‘centro’ diventa un ‘mosaico di lampi’”.
Roger Dadoun, “Gli ombelichi del sogno”, in Ferdinando Amigoni e Vanessa Pietrantonio (a cura di), Crocevia dei sogni. Dalla “Nouvelle Revue de Psychanalyse”, Firenze: Le
Monnier, 2004, p. 130.
ZOOMORFISMI DELL’ANIMA
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la realizzazione del Sé”;29 e, aggiungiamo, la discesa in profondità nella
comprensione del mondo. Un mondo contraddittorio, duplice come lo
sdoppiamento disorientante dei due padroni, multiplo e antitetico come
le posizioni discordanti assunte dagli odori nell’aria. Il sogno, nel suo
contenuto latente, è per Argo l’equivalente notturno e onirico del muro
di cinta su cui gli odori gridano: la confessione del caos che si cela dietro
qualsivoglia ordinamento teleologico.
A questo punto, abbiamo elementi sufficienti per poter affermare che
il sogno riveste la stessa funzione deterritorializzante che abbiamo notato
a proposito del linguaggio canino nel quale gli errori terminologici e le
lacune grammaticali rappresentano delle litoti altamente significanti. Attraverso l’errore e, quindi, la negazione della norma, si afferma e si schiude la verità sottostante la vuota Norma stessa. Sogno e linguaggio paiono
indissolubilmente legati nei loro contenuti nella misura in cui condividono la funzione di denuncia e distruzione della Legge ordinatrice e fittizia.
Come osserva Lacan, l’analisi freudiana del lavoro onirico nell’ Interpretazione dei sogni mostra efficacemente la modalità di funzionamento dell’inconscio: spostamento, condensazione, raffigurazione ed elaborazione
secondaria sono le operazioni essenziali attraverso cui l’inconscio produce
le sue formazioni. Si tratta di operazioni squisitamente linguistiche che
Lacan ricondurrà a figure retoriche precise. Non solo. Seguendo Freud e
Lacan, il sogno appartiene al linguaggio, è linguaggio nella misura in cui
il linguaggio coincide con l’inconscio di cui il sogno è un’indubbia formazione. Sogno e linguaggio sono legati, dunque, anche sul piano strutturale. Accostando la Traumdeutung e il Corso di linguistica generale di
Saussurre Lacan nota che, in entrambi i sistemi di funzionamento, è prevista un’opposizione: tra contenuto latente e contenuto manifesto e tra significante e significato. La relazione che intercorre tra il significante e il
significato è tanto complementare quanto arbitraria. In modo analogo,
attraverso il lavoro onirico, il contenuto latente del sogno può assumere
infinite forme nel contenuto manifesto. L’arbitrarietà combinatoria sembra in qualche misura accomunare l’attività onirica al linguaggio ricordando che, per entrambi i sistemi, l’aleatorietà trova una regola nella comunità sociale dei parlanti e, per quanto concerne il sogno, nelle istanze
della censura.
29
Mohammed Masud Khan, “Al di là dell’esperienza onirica”, in Ferdinando Amigoni
e Vanessa Pietrantonio (a cura di), op. cit., p. 123.
172 /
SARA PANAZZA
Non è un caso che sia proprio il sogno a possedere questo potere epifanico, questa capacità di mostrare l’orrido vero. Più volte nella Traumdeutung, Freud afferma che il sogno – il lavoro onirico in particolare – è un
tentativo di creare, ogni notte, forme di espressione dotate di molteplici
significati. Nel caso di Argo, e dei protagonisti umani delle opere narrative di Svevo, la rappresentazione onirica è portatrice di molteplici significati, è manifestazione della pluralità dei significati. L’elaborazione secondaria che cerca di dare una parvenza intelligibile e coerente al sogno instaura con la verità latente e spesso incoerente del sogno lo stesso rapporto che intercorre tra i paradigmi interpretanti il mondo di Argo e la realtà
stessa: una succedanea quanto necessaria aggiunta (per la sopravvivenza e
per la censura), null’altro che una falsa prospettiva assunta per cercare di
far tornare, in qualche modo, i conti.
Argo: bestia imperfetta e perfettibile
Parlando dell’incapacità di Argo di imparare il linguaggio umano, il padrone commenta: “La bestia è perfetta e non perfettibile” (Ad, p. 100).
Nell’ Apologo del Mammut Svevo osserva che “così è fatto l’animale privo
di anima. Non è lui che s’evolve perché già perfetto rinunciò alla vera vita.
Ma il mutamento non gli è precluso. […] S’evolve […] ma passando subito da uno stato perfetto all’altro, contento di poter moversi, cibarsi e
dormire”.30
Questa bestia perfetta e non perfettibile ha dunque rinunciato alla vera
vita nel momento in cui si è accontentata di sopravvivere espletando i
suoi bisogni primari, la nutrizione, il riposo e il movimento. In essa non è
prevista nessuna coscienza o riflessione sulla vita, una meta-vita analitica
e euristica: tutta l’esistenza della bestia esclude qualsiasi astrazione, è limitata al livello del mero fattuale. Essa non passa attraverso la crisi e la consapevolezza del proprio sviluppo, ritrovandosi al contrario ogni volta evoluta in nuove forme senza aver riflettuto e constatato criticamente le precedenti. Argo appartiene forse a questa categoria di bestie nella misura in
cui appare incapace di evolversi volontariamente verso l’acquisizione di
nuove facoltà cognitive quali l’apprendimento del linguaggio umano.
Ma, attraverso lo svelamento del linguaggio canino, scopriamo che anche
Argo esperisce la propria condizione riflettendo e congetturando continuamente su essa: se anche è perfetto, lo è nella misura in cui, da un pun30
Italo Svevo, “L’Apologo del Mammut”, in Racconti, saggi e pagine sparse, cit., p. 889.
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to di vista strettamente anatomico-fisiologico, Argo appartiene geneticamente alla specie canina. Dal un punto di vista ontologico Argo appartiene viceversa alla schiera degli umani. In questo senso egli è perfettibile:
dal momento in cui inizia una meta-riflessione sull’esistenza e le cause
degli accidenti. Argo, a questo punto dovrebbe parere chiaro, non è affatto privo d’anima. Il tutto è realizzato da Svevo senza passare per il filtro
della facile antropomorfizzazione dell’animale che rimane tale e, proprio
grazie a questo, può essere considerato soggetto portatore di quel ‘malcontento’ umano, troppo umano, secondo Svevo, soggetto dunque deterritorializzato, la cui analisi del mondo presuppone un necessario straniamento carico di efficacia euristica.
Per suffragare la tesi di una vera e propria attività cogitante, di una volontaria inclinazione alla riflessione è interessante notare che molto spesso
Argo parla di sé in terza persona, come fosse esso stesso l’oggetto della sua
indagine e, insieme, il soggetto indagatore: “Argo ha bisogno di sapere”
(Ad, p. 107). Argo “è fatto per soffrire” (Ad, p. 108).
La conoscenza porta alla consapevolezza della mancanza di riferimenti,
del disorientamento e del caos che si celano dietro alle vicende umane: nessuna consolazione. Ma, d’altro canto, è proprio con il passaggio attraverso
le vertigini del vuoto e dell’incoerente che Argo arriva a essere “il solo che
sappia veramente godere e ridere” (Ad, p. 108). Solo passando per l’horror
vacui dell’insensatezza e dell’anarchia fenomenica Argo ritorna nietzscheanamente alla luce del riso. Questa via interpretativa trova supporto nella
teoria sul sogno esposta da R. Dadoun in Gli ombelichi del sogno:
Nel corso dell’attività onirica, il sognatore è isolato dal mondo esterno:
ritiro degli investimenti oggettuali e ritorno all’interno del corpo della libido. […] Il corpo è l’ambiente nuovo e esclusivo che la libido investe e
percorre, traendone quelle immagini oniriche che potremmo definire incidenze di percorso, frammenti fugaci sospinti dal movimento libidico.31
Al momento dell’attivazione onirica, il corpo del dormiente è completamente erogenizzato. In esso si attiva
un funzionamento più libero, più erogeno, nel senso strettamente etimologico di produttore di libido; infine “sul corpo orizzontale, ugualitario,
ogni parte-cittadino ritrova, come vuole l’emblema fallico, la propria so31
Roger Dadoun, op. cit., p. 140.
174 /
SARA PANAZZA
vrantità”. Il sogno non è solo visione […], è anche forza e vitalità, cioè
energia libidica, potenza sessuale. E questa potenza, quest’elementare
energia di vita, originaria […] si definisce, si direbbe, come un’energia
cumulativa, pronta a irradiarsi, e reperibile in ogni nostra attività della veglia: il sentire, il percepire, il pensare.32
Il sogno come energia auto-erotica (il sogno “fa ben più che appagare o
manifestare il desiderio, lo fabbrica, lo macchina”)33 capace di propagare
la propria potenza anche nell’attività della veglia: la stessa fonte cui Argo
attinge per poter essere “il solo che sappia godere e ridere” (Ad, p. 109).
Attraverso l’esperienza onirica il corpo di Argo può erogenizzarsi lasciando scorrere al suo interno le pulsioni libidiche che, prorompendo anche
nella veglia, si trasformano in energia, vitalità e gioia: “Il mio corpo diventa tutto gioia” (Ad, p. 109).
In Svevo, e nelle sue creature letterarie, umane o canine, la presa di conoscenza del mondo coincide proprio con la consapevolezza che ogni livello della conoscenza stessa può solo poggiare sul principio secondo cui il
sapere è un sistema di nozioni che in ogni momento può essere sorpreso e
annullato dall’originalità della vita, incoerente e imprevedibile insieme. Il
linguaggio ideato dall’uomo stesso e il sogno assurgono in Svevo a epifanie del segreto sottostante la realtà: della mancanza di segreti, infine, della
fine di fedi consolatorie in cui custodire le cause dei fenomeni governati
al contrario dalla pura casualità. La disincantata ironia caratteristica degli
ultimi scritti sveviani trova nello straniamento zoomorfico incarnato da
Argo una tra le sue vie d’espressione più caustiche e efficaci. Con essa il
lucido sguardo sulla vertiginosa alogicità che presiede la realtà si fa spietato, trasformando la semplice bestia paga e beatamente ignorante in soggetto di conoscenza e coscienza.
32
33
Ivi, pp. 141, 130.
Ivi, p. 140.
I collaboratori
di questo numero
ANTONELLA AMATO ([email protected]) ha conseguito il dottorato
di ricerca in Letteratura Italiana, Tecniche d’Analisi e Teorie dell’Interpretazione
presso l’Università di Siena, con una tesi incentrata sul rapporto tra la poesia di
Montale e la prosa europea. Ha pubblicato articoli su D.H. Lawrence e Montale.
FRANCESCA CAMURATI ([email protected]) si è laureata presso l’Università di Bergamo e ha conseguito un Master in Letterature Spagnola e Latinoamericana presso la Universidad de Buenos Aires. Attualmente è dottoranda
in Letterature Euroamericane presso l’Università di Bergamo, con un progetto di
ricerca sulla narrativa contemporanea dei Caraibi ispanici. Ha pubblicato articoli
sulla poesia di Oliverio Girondo e sulla narrativa di Manuel Gálvez.
SUYENNE FORLANI ([email protected]) si è laureata presso l’Università
di Bergamo, dove è attualmente cultrice della materia per Lingua e Letteratura
Russa. Nel 2006/07 è stata assistente di lingua presso il IV Liceum Ogólnokształcące di Bielsko Biała (Polonia). I suoi interessi sono rivolti alla lingua della
contemporaneità e ai rapporti tra lingue slave orientali e occidentali.
FRANCESCO GHELLI ([email protected]), dottore di ricerca in Teoria e Analisi
del Testo all’Università di Bergamo, ha svolto attività didattica e di ricerca nell’ambito delle letterature comparate presso la Facoltà di Lettere dell’Università di
Bologna. Da tempo si dedica allo studio dei rapporti fra immaginario letterario,
pubblicità e culture dei consumi. È autore dei volumi Viaggi nel regno dell’illogico. Letteratura e droga da DeQuincey ai giorni nostri (Napoli: Liguori, 2003) e
Letteratura e pubblicità (Roma: Carocci, 2005), oltre a vari articoli, saggi, voci
enciclopediche.
NUNZIA PALMIERI ([email protected]), dottore di ricerca in Teoria e Analisi del Testo e docente a contratto presso l’Università di Bergamo, si occupa di
autori e testi della letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato in rivista
saggi su Svevo, Palazzeschi, Saba, Calvino, Celati. Ha curato Una vita e Senilità
176 /
I COLLABORATORI
nell’edizione critica delle opere di Italo Svevo per i Meridiani Mondadori e Il canzoniere di Saba per i Tascabili Einaudi. Ha tradotto e curato Stendhal, Armance
(Torino: Einaudi, 1998) e Vita di Henry Brulard (Milano: Garzanti, 2003).
SARA PANAZZA ([email protected]) è dottoranda in Letterature Comparate presso
l’Università degli Studi di Bologna. Lavora a una tesi sul tema della metamorfosi
in Julio Cortázar e Tommaso Landolfi. Partecipa ai seminari della Scuola Superiore di Studi Umanistici organizzando i seminari interdottorali dal titolo “Letteratura, scienza e tecnologia”.
MARCO TOMASSINI ([email protected]) si è laureato presso l’Università
Cattolica di Milano, dove attualmente è dottorando in Culture della Comunicazione. Si interessa di produzione, costruzione e circolazione di narrazioni collettive nel contesto dell’attuale convergenza mediale.
GIULIANA ZEPPEGNO ([email protected]), laureata in Lettere presso
l’Università degli Studi di Torino, è attualmente dottoranda in Letterature Comparate e Studi Linguistici presso l’Università degli Studi di Trento, con un progetto di ricerca inerente alla narrativa fantastica contemporanea. Lavora a una tesi
sulle potenzialità versive del fantastico contemporaneo, con particolare riferimento alle strategie di trasgressione logica nella narrativa breve di Julio Cortázar.
Numeri arretrati
PARAGRAFO
I (2006)
§1. STEFANIA CONSONNI, Disegni e realtà. Le finzioni di Don DeLillo §2. LUCA
BERTA, Il neon di David Foster Wallace e il punto di vista dell’aldilà §3. LAURA
OREGGIONI, La punta dell’iceberg. Sten Nadolny e il senso della possibilità §4. NICCOLÒ SCAFFAI, Altri canzonieri. Sulle antologie della poesia italiana (1903-2005)
§5. GABRIELE BUGADA, Lo specchio del sogno. Lo statuto della rappresentazione
in Mulholland Drive di David Lynch §6. GIOVANNI SOLINAS, Il mito senza fine.
Poetica dell’immagine e concezione mitica in André Breton – Una proposta d’analisi
§7. ANDREA GIARDINA, Il viaggio interrotto. Il tema del cane fedele nella letteratura
italiana del Novecento §8. MICHELA GARDINI, Derive urbane fin de siècle
§9. GRETA PERLETTI, Dal mal sottile al mal gentile. La malattia polmonare e il morboso ‘interessante’ nella cultura dell’Ottocento
PARAGRAFO
II (2006)
§1. ANDREA BELLAVITA, L’emersione del Reale. Perché una psicoanalisi del cinema
contemporaneo? §2. ANDREA MICONI, Dal real maravilloso al realismo magico. Approccio evolutivo alla formazione di un genere §3. CLAUDIO CATTANEO, Cornici
per un assassinio. I confini del testo in Libra di Don DeLillo §4. MASSIMO VERZELLA, Embers di Christopher Hampton e la traduzione della malinconia§5. ENRICO
LODI, La retorica del potere nei discorsi del primo franchismo §6. SILVIA ULRICH,
Gli eredi di Felix Krull. Dai ‘falsi’ di Wolfgang Hildesheimer alle imposture del caso
Gert Postel §7. FRANCESCA PAGANI, Dal ‘cielo stellato’ di Mallarmé alle ‘bolle d’inchiostro’ di Reverdy. L’immaginario del libro magico nella poesia francese della modernità §8. LUCIA QUAQUARELLI, La vittoria di un’onda. Palomar di Italo Calvino
§9. VALENTINA LOCATELLI, Christa Wolf, una moderna Medea in California
I numeri arretrati possono essere acquistati presso il sito web dell’editore Sestante:
http://www.sestanteedizioni.it/risultati.asp?cerca=paragrafo&Submit=%BB
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PARAGRAFO:
Finito di stampare
nel mese di dicembre 2007