Il “rispetto” - Istituto “Sacro Cuore” di Villa d`Adda

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Il “rispetto” - Istituto “Sacro Cuore” di Villa d`Adda
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Scuola e genitori
Il “rispetto” della proposta formativa della scuola nel dialogo con la famiglia
Villa D'Adda, 17 aprile 2012
Enzo Noris
NON C'E' PIU' RISPETTO?
Premessa
Parlare di rispetto nel contesto scolastico cosa può significare?
Anzitutto occorre intenderci di quale rispetto intendiamo parlare.
La parola rispetto (dal latino re-spicio: guardo con attenzione, ri-guardo), acquista diversi significati
che vanno dai comportamenti e dagli atteggiamenti quotidiani, alle competenze di cittadinanza
necessarie per vivere in una società complessa come la nostra, fino al livello più profondo della
dimensione ontologica, vale a dire del nostro “essere” uomini e donne oggi.
Non si tratta solamente dell'atteggiamento dovuto - e reciprocamente atteso - da ciascuno, in
quanto persona, nei confronti degli altri che incontra e con i quali interagisce a scuola: i docenti, i
compagni, il personale, il dirigente.
Questo genere di rispetto fa parte delle buone maniere imparate fin da piccoli in famiglia, si tratta
cioè di quella buona educazione di cui - anche se un po' per abitudine lamentatoria - si denuncia da
più parti l'assenza. Frequente la litania: “Non c'è più rispetto!” Magari nella versione, che ci è più
familiare, in bergamasco: “Gh'è piö rispèt!”.
Certo, anche in questo significato avrebbe senso parlare ed approfondire il tema del rispetto...
Il rispetto dei ruoli
Intendiamo qui trattare l'argomento a partire dall'analisi delle relazioni e dei ruoli specifici che
caratterizzano i soggetti coinvolti nel percorso di educazione-istruzione attuato nella scuola, vale a
dire in particolare: gli studenti, i genitori, i docenti.
E' solo riconoscendo e rispettando queste specificità, considerandole risorse preziose ed
indispensabili al processo educativo - e non ostacoli all'affermazione dei propri “interessi” e dei
propri “diritti”- che ha senso parlare di rispetto dei ruoli a scuola.
Ogni componente deve, a partire dall'assunzione consapevole del suo ruolo, che per definizione è
specifico, parziale, limitato (anche questa consapevolezza è tutt'altro che scontata e richiede un
atteggiamento “maturo”).
In altre parole, occorre esercitare il proprio ruolo facendo di tutto perché le altre componenti
svolgano al meglio il loro.
E' come se lo studente dicesse ai genitori e agli insegnanti: “Aiutatemi a fare bene il figlio e lo
studente”; il genitore al figlio e al docente: “Aiutatemi a far bene il genitore e l'adulto”; il docente
allo studente e al genitore: “Aiutatemi a far bene il docente e l'adulto”.
Eppure a ben vedere non si tratta neppure soltanto di rispettare i ruoli ma di fondare la relazione
educativa scuola-famiglia sulla base di un atteggiamento più sano ed autentico nei confronti della
realtà. In una parola, almeno da parte dei soggetti adulti, più “generoso” e “generativo”, caratteri
questi che qualificano l'essere “grandi”, cioè l'essere “adulti”.
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Cosa significa essere “adulti”
Ecco cosa scrive Annamaria Genovese, Introduzione alla psicologia dell'età evolutiva, in
http://www.consultorio-famiglia-giovani.it:
Essere adulti richiede una MATURITA' PSICO-AFFETTIVA E SOCIALE, tipica di questa età e
molto difficilmente raggiungibile prima. Soddisfatti i bisogni fondamentali, infatti, ne nascono altri
dall'adolescenza in poi: bisogni di conoscenza e di comprensione del mondo, di maggiore
specializzazione e approfondimento nel lavoro, di esplorazione e di soddisfazione delle proprie
curiosità in campi nuovi, di nuovi e più intensi rapporti interpersonali, di generare e curare il
proprio "Progetto di vita".
Caratteristica dell'età adulta è quella capacità che gli Indù chiamano "la conservazione del mondo" e
che in altri termini è stata indicata come: AUTOREALIZZAZIONE (Maslow) o ancora
INDIVIDUAZIONE (Jung), oppure "il negozio della vita", la GENERATIVITA' (Erik H. Erikson).
"All'età adulta...abbiamo attribuito l'antitesi critica della generatività contro stagnazione e
preoccupazione esclusiva di sé. La generatività assorbe in sé anche i caratteri della procreatività,
della produttività e della creatività e quindi la capacità di generare nuovi individui, nuovi prodotti e
nuove idee, inclusa una sorta di potere autogenerativo relativo all'ulteriore sviluppo dell'identità. Un
senso di stagnazione può però essere avvertito anche da chi riesce ad essere intensamente produttivo
e creativo, mentre la stagnazione può avere un completo sopravvento su chi si trovi del tutto
impreparato a comportarsi in modo generativo. La nuova "virtù " emergente da questa antitesi e,
cioè la Cura è una forma di impegno in costante espansione che si esprime nel prendersi cura delle
persone, dei prodotti e delle idee che ci siamo impegnati di curare. Tutte le forze... si dimostrano
ora... come elementi essenziali alla realizzazione del compito generazionale: quello di saper
accrescere la forza nella nuova generazione. Questo è in effetti "il negozio della vita". (ERIK H.
ERIKSON, I cicli della vita. Armando ed.)
GENERATIVITA' E BISOGNO DI PRENDERSI CURA sono, quindi, bisogni evolutivi
fondamentali di questa età: come adulto ho bisogno di prendermi cura, partendo dal mio progetto di
vita, di orizzonti sempre più vasti: concentrando l'attenzione "sia su quegli aspetti della vita per i
quali è stata fatta una scelta, sia su quelli che ci sono stati imposti". (Erik H. Erikson - op. cit.)
L'adulto ha bisogno di esprimersi e di realizzarsi; nel sociale, accrescendo la forza di tutto ciò che è
"nuovo" e "bello" dentro di sé ed intorno a sé.
Uno dei motivi per cui molti giovani si rifiutano di crescere è costituito dal RIFIUTO DI UN
MODELLO ADULTO SUPERATO: "Essere adulto" non significa affatto aver rinunciato al
bambino che ognuno di noi porta dentro di sé, cioè alla curiosità, alla creatività, all'affettività,
all'entusiasmo, anzi... Significa diventare madre e padre di se stessi e di ciò che si può generare,
significa accettare dentro di sé anche l'irrazionalità e l'esplosività dell'inconscio come componenti
"buone" (nel senso che possono essere accettate e vissute bene) e non soltanto come parti infantili
che devono essere superate. Al contrario rinunciare a far vivere queste parti significa rinunciare ad
attualizzare un potenziale enorme di creatività, e di amore e... di fantasia:
Essere adulti, per Heidegger, implica una consapevolezza del mio DASEIN (ESSERCI), del mio
essere nel mondo, di me soggetto, inserito dinamicamente nel mondo, come essere sostanzialmente
storico, cioè che fa la storia.
Infatti, non siamo soli al mondo: la vita, per Erikson, è un susseguirsi di INCONTRI CON
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L'ALTRO, dal primo altro (la madre) all'Ultimo Altro. Nell'intervallo tra questi due incontri si
snoda la. vita di ognuno: come adulto ho bisogno di imparare a dire "noi": l'età adulta realizza se
stessa nella COOPERAZIONE e nella RESPONSABILITA'; realizzando quello che posso
attualizzare in me attraverso il divenire.
Il rispetto della realtà
Prima di chiederci se rispettiamo o meno il nostro ruolo e quello altrui, occorre riflettere allora su
qual è la nostra relazione con il reale, con ciò che sta fuori da noi, che non ci appartiene né che
possiamo plasmare a nostro uso e consumo, ma che al contrario va accolto in modo obbediente.
La realtà mi precede e mi si offre come “pro-vocazione”: mi chiama in causa, mi interpella nella
mia libertà.
Cfr. a questo proposito un passaggio della relazione del Cardinal Angelo Scola al Meeting di Rimini
del 1998:
“Tutto ciò che esiste è una comunicazione che l’Essere fa di sé attraverso la realtà. Sorprendendola
in azione dentro uno spaccato del nostro quotidiano, potremmo descrivere la realtà come un tessuto
a tre fili: rapporti, circostanze e situazioni (complesso di circostanze e di rapporti).
La realtà sempre ci precede, ci sorprende e ci pro-voca (letteralmente ci precede chiamandoci, la
preposizione greca pro significa davanti): interpella la nostra libertà, chiedendole di aderire. C’è
infatti in essa una incontenibile dinamica comunicativa. Verità è, di conseguenza, la realtà in
quanto si fa conoscere togliendosi il velo, comunicandosi (Aletheia, il termine greco che
corrisponde all’italiano verità, vuol dire proprio non stare nascosto, cioè svelarsi).
L’essere dunque, mi si svela, mi si fa incontro nei singoli enti: il tramonto sul mio lago, questo
Auditorium, la musica di Mozart, il tuo volto, ecc. Io conosco te e, proprio attraverso di te, l’Essere
mi dice qualcosa di sé; mai però in maniera immediata, diretta ed esauriente. Usiamo
un’espressione sintetica: l’Essere mi si comunica sempre nel segno. Ogni realtà, tu, sei segno
dell’essere. Dalla dinamica comunicativa tratteggiata emerge, dunque, chiaramente il carattere di
e-vento proprio della realtà (dalla realtà [e-] l’essere mi viene incontro [venio]). E la verità è un
rapporto: il rapporto nel quale la realtà è conosciuta dal soggetto in modo adeguato (adaequatio
rei et intellectus). Sintetizzando possiamo dire che l’uomo vive immerso nella realtà che chiede di
essere abbracciata nell’atto della libertà. Così si apre per lui la strada alla conoscenza della verità.
Per san Tommaso d’Aquino, e per tutti i pensatori della nostra grande tradizione, il livello più
elementare della verità consiste proprio nell’abbandonarsi delle energie costitutive dell’io al reale:
adaequatio rei et intellectus. Ecco affacciarsi alla nostra riflessione il grande ed elementare
principio del realismo cristiano, che non è anzitutto una teoria filosofica, ma un criterio per
l’esistenza di ogni giorno”.
Nel resto del suo intervento vengono portati alla luce alcuni aspetti problematici della cultura
attuale che non hanno tutti la stessa rilevanza all'interno del nostro discorso; tuttavia alcune di esse
possono spiegare come mai oggi sia così difficile, anche dentro la scuola, costruire relazioni fondate
su questo rispetto di fondo: sfiducia, diffidenza, aspettative poco o per nulla realistiche nei confronti
della scuola e della famiglia, competitività, litigiosità, pretesa che l'istituzione si adegui ai bisogni e
alle esigenze del singolo, sopravvalutazione delle proprie personali ragioni, incapacità a mettersi in
ascolto e in discussione, iperprotezione del figlio vissuto come appendice del proprio io e termine
ultimo delle proprie aspirazioni, chiusura corporativa a difesa del proprio status, frustrazione e
stanchezza dovute alla percezione della scarsa considerazione pubblica della professione docente,
ecc.
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Il manifesto del rispetto
Interessante il manifesto, apparso qualche anno fa, di un'associazione svizzera denominata "Il
rispetto, cambia la vita", che riportiamo integralmente nella traduzione dal francese.
Filosofia della campagna
L’origine della parola ‘rispetto’ proviene dal latino ‘respectus’ che significa riguardo,
considerazione.
Possiamo definire il rispetto sotto due aspetti:
• A livello personale, il rispetto di sé stesso: nel senso che una persona ha del valore nel modo
che si occupa di sé e degl’altri. È una qualità da sviluppare.
• Al livello collettivo, il rispetto è la base della stima dell'altro. Il rispetto, è convalidare il
fatto che gli esseri umani si arricchiscono reciprocamente pur accettando le differenze di
ciascuno. La coesione umana e la sinergia con gli altri permettono di avanzare insieme.
Il rispetto è un valore, un impegno individuale e collettivo, che è promosso dall'esempio. Non si
decreta con la moralizzazione, né dando lezioni. Ognuno deve mostrare il cammino, assumendo
atteggiamenti e comportamenti rispettosi.
Tutto quello che si fa quotidianamente, di bene o di male, non è senza effetto sugli altri. Nulla é
banale. Il rispetto deve essere praticato verso l’essere umano, in modo prioritario, ma anche verso
l'ambiente, gli animali, i beni pubblici e privati, le leggi, ecc..
Il rispetto è semplice e praticabile ovunque: in strada, al lavoro, a scuola, su un terreno sportivo,
nella natura. È applicabile in tutte le situazioni della vita.
La semplicita é la forza di tale campagna
Il rispetto è fatto di gesti semplici:
• Uno sguardo amicale
• Un sorriso
• Dire buongiorno
• Ringraziare
• Tenere la porta aperta
• Prestare il proprio aiuto a una persona bisognosa
• Aiutare il prossimo
• Essere all’ascolto degli altri
• Accettare le differenze
Gesti che cambiano la nostra vita, che cambiano soprattutto la mia vita, partendo dal principio che
quando si fa del bene se ne ricava un benessere personale.
« Tout homme a une prétention légitime au respect de son prochain, et réciproquement. Il est obligé
lui aussi au même respect envers chacun des autres hommes.»
Emmanuel Kant
Il rispetto in musica
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Anche Zucchero nel 1986 cantava “Non c'è più rispetto”:
Non c'è più rispetto
Neanche tra di noi
Il silenzio è rotto
Dagli spari tuoi
Dimmi
Quanti soldi vuoi
Quanti soldi vuoi
Quanti soldi vuoi
Per lasciarmi stare
Quanti soldi vuoi
Quanti soldi vuoi
Quanti soldi vuoi
Dimmi
Quanti soldi vuoi
Quanti soldi vuoi
Quanti soldi vuoi
Per lasciarmi andare
Quanti soldi vuoi
Quanti soldi vuoi
Quanti soldi vuoi
Non ti ho fatto male mai!
Oh, ma che dolore
Oh, è un gran dolore!
Che mi hai fatto male!
Non c'è più rispetto
Uoh uoh uoh uoh uoh
Non c'è più contatto
Oh oh oh oh
Prima ero lì
Stavo bene
Con gli amici al bar
Ci credi, ero lì
Senza pene
Chiaro come il mar...
Non c'è più rispetto
Neanche tra di noi
Non c'è più rispetto
Oh oh oh oh oh
E allora
Tira tira tira
che si spezza dai
Tira tira tira
Io non ti ho fatto male mai!
Oh, ma che dolore
Oh,
è
un
gran
dolore!
Lettura
Dino Buzzati, Il bambino tiranno, dalla raccolta Sessanta racconti, 1958
a) Il bambino Giorgio, benché giudicato in famiglia un prodigio di bellezza fisica, bontà e
intelligenza, era temuto. C’erano il padre, la madre, il nonno e la nonna paterni, le cameriere Anna
e Ida, e tutti vivevano sotto l’incubo dei suoi capricci, ma nessuno avrebbe osato confessarlo, anzi
era una continua gara a proclamare che un bambino caro, affettuoso, docile come lui non esisteva
al mondo. Ciascuno voleva primeggiare in questa sfrenata adorazione. E tremava al pensiero di
poter involontariamente provocare il pianto del bambino: non tanto per le lacrime, in fondo
trascurabili, quanto per le riprovazioni degli adulti. Infatti, col pretesto dell’amore per il piccolo,
essi sfogavano a vicenda i loro spiriti maligni controllandosi e facendosi la spia.
b) Ma paurose di per sé erano le ire di Giorgio. Con l’astuzia propria di questo tipo di bambini,
egli misurava bene l’effetto delle varie rappresaglie. Perciò aveva guardato l’uso delle proprie armi
nei seguenti termini: per le piccole contrarietà si metteva semplicemente a piangere, con dei
singulti - per la verità - che sembrava gli dovessero schiantare il petto. Nei casi più importanti,
quando l’azione doveva prolungarsi fino all’esaudimento del desiderio contrastato, metteva il muso
e allora non parlava, non giocava, si rifiutava di mangiare: ciò che in meno di una giornata
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portava la famiglia alla costernazione. Nelle circostanze ancor più gravi le tattiche erano due: o
simulava di essere assalito da misteriosi dolori alle ossa, i dolori alla testa e al ventre non
sembrandogli consigliabili per il pericolo di purghe (e già nella scelta del male si rivelava la sua
forse inconsapevole perfidia perché, a torto o a ragione, si pensava subito a una paralisi infantile);
oppure, e forse era il peggio, si metteva a urlare: dalla sua gola usciva, ininterrotto e immobile di
tono, un grido estremamente acuto, quale noi adulti non sapremmo riprodurre, e che perforava il
cranio. In pratica non era possibile resistere. Giorgio aveva ben presto partita vinta, con la doppia
voluttà di venire soddisfatto e di vedere i grandi litigare, l’uno rinfacciando all’altro di aver fatto
esasperare l’innocente.
c) Per i giocattoli Giorgio non aveva mai avuto una sincera inclinazione. Solo per vanità ne voleva
molti e di bellissimi. Il suo gusto era di portare a casa due-tre amici e di sbalordirli. Da un piccolo
armadio, che teneva chiuso a chiave, estraeva ad uno ad uno, e in progressione di magnificenza, i
suoi tesori. I compagni spasimavano di invidia. E lui si divertiva ad umiliarli. « No, non toccare tu
che hai le mani sporche... Ti piace eh? Da’ qua, da’ qua, se no finisci per guastarlo... E tu, dimmi, te
ne hanno regalato uno anche a te? » (ben sapendo che così non era). Dallo spiraglio della porta,
genitori e nonni lo covavano teneramente con gli sguardi: « Che caro » sussurravano. « È proprio
un omettino, ormai... Sentitelo come si stima!... Eh, ci tiene lui ai suoi giocattoli. Eh, ci tiene
all’orsacchiotto che gli ha regalato la sua nonna! ». Quasi che l’essere geloso dei balocchi fosse
per un bimbo una virtù straordinaria.
Basta. Un conoscente portò un giorno dall’America un giocattolo meraviglioso in dono a Giorgio.
Era un « camion del latte », perfettissima riproduzione degli autofurgoni costruiti per quel servizio;
verniciato di bianco e azzurro, coi due conducenti in uniforme che si potevano mettere e levare, le
portiere anteriori che si aprivano, i pneumatici alle ruote; nell’interno, infilati uno sull’altro per
mezzo di speciali guide, tanti canestrini di metallo, ciascuno contenente otto microscopiche
bottiglie sigillate col tappo di stagnola. E sui fianchi due autentiche saracinesche a ghigliottina
che, aprendosi, si arrotolavano proprio come quelle vere. Era senza dubbio il giocattolo più bello e
singolare di quanti ne possedesse Giorgio, e probabilmente il più costoso.
d) Ebbene un pomeriggio il nonno, colonnello in pensione, che in genere non sapeva che cosa fare
dell’anima sua, passando dinanzi all’armadio dei giocattoli tirò quasi per caso, come succede, la
manopola dello sportello. Senti che cedeva. Giorgio l’aveva chiuso a chiave come al solito, ma
l’anta gemella, in cui il chiavistello si incastrava, per dimenticanza non era stata fissata ci
catenacci in altoe in basso. E così entrambe si aprirono. Disposti su quattro piani stavano qui in
perfetto ordine i giocattoli tutti ancora lucidi e belli perché Giorgio non li adoperava quasi mai.
Giorgio era fuori con Ida, anche i genitori erano usciti, la nonna Elena lavorava a maglia nel
salotto. Anna in cucina dormicchiava. La casa era quieta e silenziosa. Il colonnello si guardò alle
spalle come un ladro. Poi, con un desiderio da lungo tempo vagheggiato, le sue mani si protesero al
camion del latte che nella penombra risplendeva.
Il nonno lo collocò sul tavolo, si sedette e si accinse a esaminarlo. Ma c’è una legge arcana per cui
se un bambino tocca di nascosto una cosa dei grandi, questa cosa subito si rompe e
simmetricamente, toccato dai grandi, si rompe il giocattolo che pure il bambino aveva senza danni
maneggiato per mesi con energia selvaggia. Non appena il nonno, con la delicatezza di un
orologiaio, ebbe alzato una delle piccole saracinesche laterali, si udì un clic, un listello di latta
verniciata schizzò fuori e il perno su cui la saracinesca si sarebbe dovuta avvolgere ciondolò senza
più sostegno. Col batticuore, il vecchio colonnello si affannò per rimettere le cose a posto. Ma le
mani gli tremavano. E gli fu ben chiaro che con la sua abilità da niente era impossibile riparare il
guasto. Né si trattava di una avaria recondita, facile a venir dissimulata. Scardinato il perno, la
saracinesca non chiudeva più, pendendo tutta sghemba.
Un disperato smarrimento prese colui che un giorno ai piedi del Montello aveva condotto i suoi
cavalleggeri a una disperata carica contro le mitragliatrici degli austriaci. E un brivido gli
percorse le vertebre al suono di una voce che pareva quella del giudizio universale: « Gesummaria,
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Antonio, cos’hai fatto? ».
e) Il colonnello si voltò. Sulla soglia, immobile, sua moglie, Elena, lo fissava con le pupille dilatate.
« L’hai rotto, di’, l’hai rotto? ». « Macché, non è... ti dic... non è niente » mugolò il vecchio
militare, annaspando con le mani nell’assurdo tentativo di sistemare la rottura. « E adesso? E
adesso cosa fai? » incalzò la donna con affanno. « E quando Giorgio se ne accorge? Adesso cosa
fai? » « L’ho appena toccato, ti giuro... doveva essere già rotto... Non ho fatto niente, io » cercò
miserabilmente di scusarsi il colonnello; e se mai si era illuso di trovare nella moglie una certa
solidarietà morale, questa speranza venne meno, tanta fu l’indignazione della vecchia: « Non ho
fatto non ho fatto, mi sembri un pappagallo!... Si sarà rotto da solo, si capisce!... E fa’ qualcosa
almeno, e muoviti, invece di stare là come uno stupido!... Giorgio può essere qui da un momento
all’altro... E chi... (la voce le si ingorgava per la rabbia)... e chi ti ha detto di aprire l’armadio dei
giocattoli? ». Non occorreva altro perché il colonnello perdesse la testa del tutto. Purtroppo era
domenica, impossibile trovare un operaio capace di riparare il camioncino. Intanto la signora
Elena, quasi per non restare implicata nel delitto, se n’era andata. Il colonnello si sentì solo,
abbandonato, nella ingrata selva della vita. La luce declinava. Tra poco notte, e Giorgio di ritorno.
f) Con l’acqua alla gola, il nonno allora corse in cucina in cerca di uno spago. Con lo spago,
sfilato il tetto del camion, riuscì a fissare le estremità della saracinesca, così che restasse chiusa,
pressapoco. Evidentemente essa non si poteva aprire più ma almeno dall’esterno non si notava
nulla di anormale. Rimise il giocattolo al suo posto, chiuse l’armadio. Si ritirò nel suo studiolo.
Appena in tempo. Tre lunghe scampanellate prepotenti annunciavano il ritorno del tiranno. Se
almeno la nonna avesse tenuto la bocca chiusa. Figurarsi. A ora di pranzo, tranne il piccolo, tutti
erano al corrente del disastro comprese le donne di servizio. E anche un bambino meno astuto di
Giorgio si sarebbe accorto che nell’aria c’era qualcosa di insolito e sospetto. Due o tre volte il
colonnello tentò di avviare una conversazione. Ma nessuno lo aiutava. «Cosa c’è?» domandò
Giorgio con la sua naturale improntitudine. «Avete tutti la luna piena?» «Ah quest’è bella, abbiam
la luna piena, abbiamo, ah ah!.» fece il nonno, cercando eroicamente di voltare tutto in scherzo.
Ma la sua risata si spense nel silenzio. Il bambino non fece altre domande. Con sagacia addirittura
demoniaca sembrò capire che il disagio generale si riferiva a lui; che l’intera famiglia, per qualche
motivo ignoto, si sentiva in colpa: e che lui la teneva nelle mani. Come fece a indovinare? Fu
guidato dai trepidanti sguardi dei familiari che non lo lasciavano un istante? O ci fu qualche
delazione? Fatto è che, terminato il pranzo, con un ambiguo sorrisetto, Giorgio andò all’armadio
dei giocattoli. Spalancò gli sportelli, restò un buon minuto in contemplazione quasi sapesse di
prolungare così l’ansia del colpevole. Quindi, fatta la scelta, trasse dal mobile il Camioncino e,
tenendolo stretto sotto un braccio, andò a sedersi su un divano, donde fissava ad uno ad uno i
grandi, sorridendo. « Che cosa fai, Giorgino? » disse infine con voce spenta il nonno. «Non è ora
di fare la nanna? » «La nanna? » fu la evasiva risposta del nipote che accentuò il ghigno beffardo.
«E perché non giochi allora?» osò chiedere il vecchio, a quell’agonia sembrandogli preferibile una
rapida catastrofe. «No » fece il bimbo dispettoso « di giocare non ho voglia ». Immobile, aspettò
circa mezz’ora, quindi annunciò: « Io vado a letto ». E uscì col camioncino sotto il braccio.
g) Divenne una mania. Per tutto il giorno dopo, e per l’altro successivo, Giorgio non si distaccò un
istante dal veicolo. Perfino a tavola volle tenerselo accanto, come non aveva mai fatto prima per
nessun balocco. Ma non giocava, non lo faceva andare, né mostrava alcuna voglia di guardare
dentro. Il nonno viveva sulle spine. « Giorgio » disse più di una volta « ma perché ti porti sempre
dietro il camioncino se poi non giochi? Che fissazione è questa? Su, vieni qua, fammi vedere le
belle bottigliette! » Insomma, non vedeva l’ora che il nipotino scoprisse il guasto, succedesse poi
quello che doveva succedere (non osando tuttavia confessare spontaneamente l’accaduto). Tanto gli
pesava il tormento dell’attesa. Ma Giorgio era irremovibile. « No, non ho voglia. È mio o non è mio
il camion? E allora lasciami stare ». La sera, dopo che Giorgio era andato a letto, i grandi
discutevano. « E tu diglielo! » diceva il padre al nonno « piuttosto che continuare in questo modo!
E tu diglielo! Non si vive più per questo maledetto camion! »; « Maledetto? » protestava la nonna.
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« Non dirlo neanche per scherzo... il giocattolo che gli è più caro di tutti. Povero tesoro! ». Il papà
non le badava: « E tu diglielo! » ripeteva esasperato. « Avrai il coraggio, tu che hai fatto due
guerre, avrai il coraggio, no? ».
h) Non ce ne fu bisogno. Il terzo giorno, comparso Giorgio col suo camioncino, il nonno non seppe
trattenersi: « Su, Giorgio, perché non lo fai andare un poco? Perché non giochi? Mi fai senso,
sempre con quel coso sotto il braccio! ». Allora il bambino si ingrugnò come al delinearsi di un
capriccio (era sincero o faceva tutta una commedia?). Poi si mise a gridare, singhiozzando: « Io ne
faccio quel che voglio del mio camion, io ne faccio! E finitela di tormentarmi. L’avete capito o no
che basta?... Io lo fracasso se mi piace. Io ci pesto sopra i piedi... Là... là, guarda! ». Con le due
mani alzò il giocattolo e di tutta forza lo scaraventò per terra, poi coi calcagni gli saltò sopra,
sfondandolo. Divelto il tetto, il camioncino si schiantò e le bottigliette si sparsero per terra.
Qui Giorgio all’improvviso si arrestò, cessò di urlare, si chinò a esaminare una delle due pareti
interne del veicolo, afferrò un’estremità del clandestino spago messo dal nonno alla saracinesca.
Inviperito, si guardò intorno, livido: « Chi? » balbettò. « Chi è stato? Chi ci ha messo le mani? Chi
l’ha rotto? ». Si fece avanti il nonno, il vecchio combattente, un poco chino. « O Giorgino, anima
mia » supplicò la mamma. « Sii buono. Il nonno non l’ha fatto apposta, credi. Perdonagli. Giorgino
mio! ». Intervenne anche la nonna: « Ah, no, creatura, hai ragione tu... Fagli totò al brutto nonno
che ti rompe tutti i giocattoli... Povero innocente. Gli rompono i giocattoli e poi ancora vogliono
che sia buono, poverino. Fagli totò al brutto nonno! ». Di colpo Giorgio ritornò tranquillo. Guardò
lentamente le facce ansiose che lo circondavano. Il sorriso gli ricomparve sulle labbra. « L’ho
detto, io » fece la mamma; « l’ho sempre detto che è un angelo! Ecco che Giorgio ha perdonato al
nonno! Guardatelo, che stella! » Ma il bimbo li esaminò ancora ad uno ad uno; il padre, la
mamma, il nonno, la nonna, le due cameriere. « E guardatelo che stella… e guardatelo che stella!...
» cantarellò, facendo il verso. Diede un calcio alla carcassa del camioncino che andò a sbattere nel
muro. Poi si mise freneticamente a ridere. Rideva da spaccarsi. « E guardatelo che stella! » ripeté
beffardo, uscendo dalla stanza. Terrificati, i grandi tacquero.