Strategie di investimento in un mondo nuovo

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Strategie di investimento in un mondo nuovo
STRATEGIE D’INVESTIMENTO IN UN MONDO NUOVO
Tutti sanno e affermano che il mondo è oggi molto diverso da quello che era: stagnazione nei paesi
sviluppati, crescita nei BRICS e altri mercati emergenti, rischi significativi nei debiti pubblici, crescenti
scarsità nelle risorse naturali, ecc.; in sintesi, una serie di squilibri e di evoluzioni fortemente
differenziate. Quando però si tratta di decidere come e dove investire, le convinzioni sull’ambiente
economico lasciano il passo alle tradizioni e molto spesso non si fanno ragionamenti deduttivi sulle
conseguenze ultime degli attuali trend macroeconomici, in termine di valore dei patrimoni di individui,
fondazioni, compagnie di assicurazione, casse di previdenza e altri investitori istituzionali.
Tutte le teorie relative a come investire un patrimonio si basano su concetti di rendimento e di rischio; il
rendimento totale è basato sul rendimento netto annuo (dividendi, interessi, affitti ecc.) e il maggiore o
minore valore che l’investimento potrà avere al momento del realizzo rispetto al momento iniziale; il
rischio viene normalmente definito come volatilità o come probabilità che il rendimento possa variare
rispetto ad una serie storica. Tutti i parametri in gioco sono basati su statistiche e anche le attese sul
futuro, per quanto concerne il rischio, sono basate sul passato; tuttavia, in un ambiente profondamente
cambiato è veramente arduo poter sostenere che quello che è successo in passato possa esser
predittivo di quello che succederà in futuro. Un osservatore razionale arriverebbe alla conclusione che
nessuna delle teorie sulle quali si basano i consigli dei gestori dei patrimoni può avere validità in
quanto, applicandola retroattivamente a lunghi periodi, la teoria non “sopravvive” allo “stress test” di
quello che è successo dal 2008 ad oggi. Ma le abitudini, e soprattutto gli interessi in gioco di chi
gestisce i patrimoni, sono dure a morire e si continua quindi ad investire seguendo le orme del passato.
Pochi sono quelli che cercano di dedurre dai trend macroeconomici (che oggi sono sotto gli occhi di
tutti) le regole da seguire oggi. La maggioranza degli investitori vuole avere il “conforto” dell’analisi
retroattiva, che per però, per dare tale conforto, deve considerare il periodo 2008/10 come un
“incidente” invece che un punto di svolta epocale.
Se si analizza com’è investito il patrimonio degli investitori istituzionali (italiani in particolare ma anche
di altri paesi) si constata una prevalenza d’immobiliare, di titoli di stato e di azioni del paese
dell’investitore; oggi come ieri. Il ragionamento prevalente è di privilegiare investimenti considerati
“sicuri”, ma ovviamente l’aggettivo si riferisce a una tradizione storica; oggi la “sicurezza” non esiste
proprio, e anzi quei tipi d’investimento hanno una maggior probabilità di altri di valere meno in futuro.
Prendiamo ad esempio il settore immobiliare; in un paese che risparmia sempre di meno, com’è l’Italia
o il Giappone, e nel quale il reddito disponibile diminuisce, l’equilibrio domanda/offerta tende a far
ridurre i prezzi. Fatta eccezione per i “pezzi unici”, quali gli appartamenti di lusso nel centro di Roma
Milano o Tokio, è probabile che il valore del metro quadrato di immobili civili tenda a diminuire e tenda
ad esser in relazione alle capacità di spesa per affitti degli individui; potrebbe inoltre diminuire in modo
importante se gli enti pubblici dovessero cercare di “fare cassa” mettendo sul mercato il loro ingente
patrimonio immobiliare o se dovesse arrivare una “patrimoniale”; il fatto che il “mattone” sia sempre
stato considerato un bene rifugio, quindi con una domanda sostenuta, può non funzionare più in un
contesto economico in cui le famiglie devono disinvestire dai propri risparmi per sostenere le spese
correnti (come sembra esser il caso per l’Italia e per il Giappone). Per gli immobili industriali o
commerciali la riduzione del valore dovrebbe esser più accentuata perché in un paese stagnante le
aziende delocalizzano o non riescono più a pagare gli affitti storici. Una fondazione o un ente di
previdenza dovrebbe quindi disinvestire rapidamente dal settore immobiliare italiano ed eventualmente
investire nello stesso settore ma nei mercati che hanno un equilibrio domanda/offerta rovesciato; e ben
fanno compagnie di assicurazioni come Generali o Allianz che investono nell’immobiliare meno del 5%
dell’attivo.
Lo stesso ragionamento vale per i titoli di stato; l’apparente buon rendimento di titoli di paesi in difficoltà
(Grecia in testa) dovrebbe esser corretto con dei credit default swaps che ne annullerebbe il vantaggio
apparente; non coprirsi dal rischio equivale a contabilizzare come proventi degli interessi eccessivi e a
non tener conto della probabilità di perdere una parte del valore del capitale; in altre parole, equivale a
fare un bilancio falso. Alla fine, per una Fondazione o una Cassa di previdenza è più semplice investire
in titoli di stato del proprio paese. E’ ovvio che uno stato come l’Italia, che non cresce e continua ad
aumentare il debito pubblico, ormai sopra il 120% del PIL, avrà significativi problemi in futuro, e dovrà
pagare interessi maggiori con la conseguenza che i titoli già emessi perderanno di valore; è quindi
preferibile investire in obbligazioni di corporation apparentemente solide o di paesi poco indebitati (per
es. Svezia), e/o anche in high yeld bonds (ma bisogna esser capaci o utilizzare gli ETF); tuttavia, un
investitore di lungo periodo dovrebbe comunque limitare l’esposizione a questa asset class in quanto
per lui è inutile “pagare il prezzo” della maggior liquidità o presunta maggior stabilità del reddito fisso1.
La teoria finanziaria tradizionale considera razionale allocare al reddito fisso solo in proporzione ai
fabbisogni di erogazione di breve periodo, anche se ci sono mezzi più efficienti (per esempio ricorrendo
al debito) per affrontare un disallineamento temporale fra gli aumenti di valore e/o i ricavi da dividendi e
interessi ed i fabbisogni finanziari. Un’ulteriore riflessione sull’allocazione al reddito fisso dovrebbe
dipendere dalle aspettative di inflazione, ma se si ritenesse probabile tale scenario l’allocazione al
reddito fisso dovrebbe diminuire ulteriormente.
Le fondazioni universitarie americane allocano al reddito fisso un massimo del 15% del proprio
patrimonio, mentre fondazioni e casse di previdenza italiane hanno un’esposizione molto maggiore; la
Fondazione CARIPLO alloca ben il 53% del proprio patrimonio, la cassa dei Commercialisti il 70% e
molte compagnie di assicurazione allocano percentuali ancora maggiori2. La tabella seguente riporta
l’asset allocation-obiettivo delle 4 maggiori fondazioni universitarie con un patrimonio di quasi $ 70
miliardi.
Asset allocation obiettivo di 4 principali fondazioni
universitarie americane
Fondi gestiti
(Miliardi di Dollari)
Azioni
Immobiliare e
risorse naturali
Private Equity
16.3
12.6
27.6
14.5
33.0%
37.0%
23.0%
16.0%
Immobiliare
7.0%
Risorse naturali
100%
17.5%
23.0%
23.0%
37.0%
23.0%
13.0%
26.0%
12.0%
16.0%
Absolute Return
Reddito fisso
Liquidità
18.0%
25.0%
15.0%
6.0%
Princeton
0.0%
4.0%
Yale
13.0%
0.5%
2.0%
Harvard
10.0%
Stanford
Nota: le asset allocation obiettivo si riferiscono al 30 giugno 2009, ad esclusione di Harvard, aggiornata al 30 giugno 2010
Fonti: 2009 Report from Stanford Management Company, 2009 Report from Yale Endowment, sito web di Harvard Management
Company, Princeton Report of the Treasurer 2008-09
Infine, qual è la percentuale logica del patrimonio da allocare alle azioni quotate? Normalmente un
investitore istituzionale di lungo periodo dovrebbe avere un’allocazione superiore al 30% (negli USA
CALPERS arriva al 49%), ma in un mondo percorso da grandi squilibri l’allocazione dovrebbe esser
sbilanciata a favore di mercati e aree geografiche che crescono; invece è esattamente il contrario di
quello che succede in Italia, ma anche in tanti paesi (come Giappone, USA ecc.) nei quali i titoli
domestici ricevono un’illogica preferenza3. In particolare, le Fondazioni italiane investono pesantemente
nel settore bancario, che in un contesto di economia in difficoltà, e quindi di crescenti perdite su crediti,
risparmi in diminuzione, commissioni compresse, di costi operativi in crescita, e maggiore attenzione ai
ratios patrimoniali (leggasi futuri aumenti di capitale) può solo portare a continuare ad avere
minusvalenze, risicati dividendi e, in ultima analisi, ritorni inadeguati.
1
Il prof. Jeremy Siegel ha dimostrato in modo conclusivo nel suo libro “Stocks for the Long Run” che su periodi pluridecennali
l’investimento in azioni batte, in termini di rendimento assoluto, l’investimento in titoli di stato o obbligazioni; la ricerca è stata
confermata dalle analisi di Goetzmann e Ibbotson che vanno indietro nel tempo fino al 1815. Anche il prof. David F. Swensen, che come
gestore della Fondazione Yale è stato capace di aumentarne il valore di oltre 10 volte in circa 15 anni, considera illogico per una
fondazione investire in titoli a reddito fisso.
2
Per giudicare la logica dell’allocazione occorre tener conto del tipo di impegni al passivo; se gli impegni sono fissi e a breve scadenza
è logico tenere una parte consistente dell’attivo investita in titoli a reddito fisso
3
Il tema di quale rischio di cambio sia logico che un fondo pensione si assuma richiederebbe una trattazione a parte
Un’altra categoria di investimenti che è molto presente nei portafogli di investitori istituzionali esteri è
chiamata “risorse naturali”. Siamo quasi tutti convinti che la continua crescita dei paesi in via di sviluppo
porterà a forti aumenti dei prezzi delle materie prime; coerentemente, i titoli di aziende o i fondi
specializzati in tali settori dovrebbero ricevere una forte allocazione; non appare esser questa la
situazione italiana che praticamente ignora tale categoria, mentre nelle fondazioni universitarie degli
USA è almeno il 5% del patrimonio.
Infine il tema degli alternative assets (private equity, venture capital, hedge funds, mezzanine,
secondaries, funds of funds, distressed, infrastrutture, ecc.); in passato questo settore ha permesso di
ottenere rendimenti superiori a quelli degli altri settori, magari anche solo perché non era contabilizzato
il suo maggior rischio, e ancor oggi le Fondazioni universitarie americane allocano agli “alternatives” dal
30% al 48% del patrimonio. Oggi il settore, ed in particolare il private equity, vive la classica “bolla”:
sono sparite le condizioni esterne per guadagnare (e cioè la crescita, la disponibilità di leva, la limitata
concorrenza nell’acquisto delle aziende, e multipli di valutazioni in crescita) ma ci sono in giro quasi $
400 miliardi di commitment per i fondi LBO che i gestori vogliono a tutti i costi utilizzare, sia che ci siano
o che non ci siano prospettive di guadagno, pena la perdita delle commissioni di gestione;
contemporaneamente i nuovi commitment degli investitori istituzionali sono lungi dal rimpiazzare i
vecchi4, per quantità o per destinazione geografica, per cui è molto probabile che le acquisizioni di
aziende fatte nei prossimi 1-3 anni, utilizzando lo stock dei commitments esistenti, continuino ad
avvenire a prezzi elevati, mentre le vendite del portafoglio dei fondi che avverranno negli anni
successivi otterranno moltiplicatori in diminuzione: una bella ricetta per avere rendimenti bassi o
negativi, per di più in una categoria rischiosa e illiquida.
Per quanto riguarda gli hedge funds, tipicamente focalizzati su strategie di absolute return, è ormai
accertato che a fronte dei pochissimi gestori capaci o fortunati5, la maggioranza degli operatori genera
costi di commissioni che non compensano il differenziale di ritorno rispetto a gestioni passive. La
capacità di identificare i gestori vincenti è limitata a pochissimi grandi investitori istituzionali; tutti gli altri
possono solo attendersi rendimenti medi, e quindi inaccettabili.
Da queste constatazioni e ragionamenti emerge una strategia di un investitore istituzionale di lungo
periodo molto più orientata alla categoria delle azioni internazionali, a commodities, a indici o altre
forme di gestione passiva, e a sotto-settori degli alternative assets che finora hanno ricevuto poca
attenzione e nelle quali ci sono gestori con un ottimo track record anche negli anni recenti (per esempio
growth equity). In Italia le fondazioni e le casse di previdenza sono invece pesantemente investite
nell’immobiliare e nei titoli a reddito fisso, con una preferenza per l’area Italia. Passare ad una asset
allocation razionale sarebbe una vera e propria rivoluzione rispetto all’asset allocation tradizionale ma
qui scatta un meccanismo perverso di incentivi: non fare niente, e continuare con un’asset allocation
sbagliata porterà verosimilmente a risultati deludenti in futuro, ma che saranno simili a quelli di tutti gli
altri gestori di fondazioni e fondi pensione; sbagliare in compagnia non comporta una stimmate
negativa o sanzioni significative. Invece, fare un’asset allocation molto diversa da quella prevalente può
portare a buoni risultati, che verranno però etichettati come “fortuna”, mentre se per caso la nuova
asset allocation si rivelasse sbagliata l’etichetta di incompetenza verrà applicata impietosamente, con
tutte le conseguenze del caso. L’incentivo a fare bene è limitato e le penalità per pensare e fare in
modo diverso dagli altri possono essere elevate.
Uno dei maggiori problemi nella gestione delle fondazioni o delle casse di previdenza è l’analisi della
performance, in termini assoluti o relativi a soggetti simili (e comunque su periodi pluriennali); in Italia
c’è quasi un’allergia a misure e confronti perché alla fine è inevitabile arrivare alla conclusione che
qualcuno magari ha fatto bene, ma molti altri hanno fatto male. Nel mondo anglosassone il confronto è
la norma; la tabella successiva mostra la performance nel 2009 di 21 fondazioni private che hanno una
valore complessivo superiore ai $ 100 miliardi.
4
Nel 2010 per tutte le categorie del private equity sono stati raccolti capitali al ritmo di circa $ 50 miliardi al trimestre; nella seconda
metà del 2007 fino alla prima metà del 2008 la raccolta era circa $ 200 miliardi al trimestre (dati Prequin)
John Paulson è stato il “campione” dei gestori degli hedge funds nel periodo 2008-2010
5
Distribuzione dei rendimenti delle principali fondazioni
private americane nel 2009
(Numero di fondazioni per classe di rendimento; totale = 21
fondazioni)
8
4
3
2
n/a
2
2
< -5% -5% - 0%
10% 20%
0% 10%
>20%
Classe di
rendimento
Nota: le fondazioni considerate sono Andrew W. Mellon, Annenberg, Annie E. Casey, Bill & Melinda Gates, Carnegie Corporation of New
York, Charles Stewart Mott, David and Lucile Packard, Duke Endowment, Ewing Marion Kauffman, Ford, Gordon and Betty Moore, Harry
and Janette Weinberg, John D. and Catherine T. MacArthur, Kresge, McKnight, Robert W. Woodruff, Robert Wood Johnson, Rockefeller,
Skoll, The California Endowment, William and Flora Hewlett Foundation
Interessante anche analizzare l’asset allocation, che privilegia le azioni e i fondi hedge, pur con
significative variazioni all’interno di ciascuna classe; immobiliare e reddito fisso ricevono allocazioni
limitate.
Asset allocation delle pricipali fondazioni private americane
(Percentuale del patrimonio investito per classe di investimento;
mediana del campione di 21 fondazioni)
40%
17%
11%
9%
6%
Azioni
Fondi Obbligazioni Private
Hedge e reddito Equity
fisso
Venture
Capital
4%
6%
2%
Immobi- Liquidità
Altri
liare
investimenti
Max
90%
31%
50%
18%
16%
48%
16%
26%
Min
17%
0%
0%
0%
0%
0%
1%
0%
Come potrebbe fare un fondo pensioni o fondazione italiana a modificare profondamente la propria
asset allocation, in un contesto di scarsi incentivi a farlo e enormi difficoltà a realizzare un’asset
allocation diversa da quella utilizzata in passato? L’unica ricetta che si può suggerire per uscire da
questa impasse è quella di ricalcolare a posteriori quello che sarebbe stato il valore del patrimonio della
propria istituzione se si fosse seguita una asset allocation logica fin dall’inizio; dopotutto, la necessità
di focalizzarsi su azioni internazionali, la scarsità delle materie prime, l’insufficiente redditività del
reddito fisso e le opportunità degli alternative assets erano sotto gli occhi di tutti già 10 o 20 anni fa. Se
si confronta quale sarebbe il valore del patrimonio di un investitore istituzionale che avesse sempre
seguito la politica di investire i flussi netti annuali in una asset allocation focalizzata nel modo citato, con
quello che realisticamente è il valore oggi, chi dovesse constatare un differenziale positivo può trarre
una conclusione molto facile: gestire passivamente, con costi minimi, diversificando (ma sempre fra le
asset class che rendono di più in termini assoluti nel lungo termine) e ripartendo gli investimenti negli
anni, è la ricetta vincente6. Magari se i gestori del patrimonio fossero incentivati davvero sulla creazione
di valore di lungo periodo i risultati potrebbero essere molto migliori.
6
La strategia di investire un patrimonio in azioni di aziende internazionali quotate (o meglio un ETF o indice equivalente) ripartendo gli
acquisti su un periodo lungo (in quanto nessuno sa scegliere il momento adatto), è una strategia che produce risultati positivi
indipendentemente dalle crisi che si verificano nel periodo e indipendentemente dal momento di inizio. Ipotizziamo di aver utilizzato una
strategia investimento retroattivamente, focalizzata su azioni internazionali quotate, in ciascun anno a partire dal 1970 per 10 anni;
abbiamo quindi 31 portafogli, del quale l’ultimo inizia nel 2000; i portafogli che terminano nel 2000 hanno attraversato solo momenti
positivi, mentre quelli che iniziano nel 1994 hanno dovuto affrontare anche i grandi cali del 2004 e 2009. E’ interessante notare che dei
31 portafogli nessuno ha perso, solo 3 hanno avuto rendimenti bassi, e tutti gli altri rendimenti accettabili. La tabella seguente illustra la
performance.
Distribuzione della performance di portafogli che replicano MSCI
Europe1 per 10 anni a partire dal 1970
(# di portafogli; totale 31 portafogli )
12
10
6
3
0
>3,0x
2,0x-2,5x
1,5x-2,0x
1,0x-1,5x
1) MSCI Europe espresso in Dollari Americani; include dividendi
2) Rendimento calcolato come multiplo del capitale investito
Fonte: Bloomberg
<1,0x
Classe di
rendimento2