GATA, MAMI, GATA - Progetto Fare Salute
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GATA, MAMI, GATA - Progetto Fare Salute
l’arte della cura nella medicina di comunità a trieste: storie e racconti di malattia [4.] gata, mami, gata Unità Operativa Bambini Adolescenti - Distretto 2 “Laboratorio di comunicazione”: materiali e testi raccolti da Giovanna Gallio Progetto “Fare salute” - EnAIP di Trieste gata, mami, gata Paola Marchino Oscar Dionis Daniela Vidoni 1 Storia di Calin [1. Una storia di immigrazione] Paola Marchino Alla metà di marzo del 2009 arriva al nostro servizio una telefonata dal reparto di neuropsichiatria del Burlo, è stato Oscar a rispondere. Da alcuni giorni era stato ricoverato un bambino in uno stato gravissimo di denutrizione, e in vista della dimissione bisognava predisporre un piano di cure domiciliari; perciò venivamo invitati a fare una visita per conoscere la madre, e valutare anche insieme a lei i problemi di gestione sanitaria che avremmo dovuto affrontare. Della famiglia del bambino non si sapeva quasi niente, solo che proveniva da un altro paese, e per questo la madre non parlava la lingua italiana. Così, dopo una settimana o dieci giorni io e Oscar ci siamo recati in ospedale a visitare il bambino; l’impatto è stato molto forte, io ho un ricordo… (si emoziona e non riesce più parlare) Oscar Dionis L’impatto è stato sconvolgente perché ci siamo trovati di fronte a un bambino di cinque o sei anni steso in un grande letto d’ospedale, un letto per adulti, in uno stato apparentemente vegetativo. Il corpo magro, denutrito, si muoveva a scatti e scivolava un po’ alla volta ai bordi del letto, andando a urtare contro le bandine laterali dove rischiava di farsi male. Allora la madre seduta lì accanto parlava al bambino, lo sfiorava leggermente con le dita, sulle braccia o sulle gambe, e come a un segnale concordato lui si calmava, riduceva l’ipercinesia motoria. Daniela Vidoni, medico-psichiatra, è responsabile della Unità Operativa Bambini Adolescenti (UOBA), struttura complessa del Distretto 2, Ass n.1 “Triestina”. Nello stesso servizio Paola Marchino è infermiera, mentre Oscar Dionis, psicologo, è responsabile della “Struttura Bambini Adolescenti”. L’incontro si è svolto nel marzo 2011. 1 5 C’è voluto molto tempo per ricostruire la storia. Calin (così si chiama il bambino) era stato ricoverato al Burlo dopo che per mesi la madre lo aveva tenuto nascosto in casa per paura che le venisse tolto. Non era una paura del tutto infondata: nel suo paese d’origine, la Romania, sarebbe stato naturale mettere in istituto un bambino come quello. Così, quando nel 2008 la malattia si aggrava, la madre non chiede aiuto, non consulta nessun medico, finché il piccolo non mangia più, subisce un generale deperimento organico e solo allora i genitori si decidono a portarlo in ospedale. Giovanna Gallio Cos’altro avete saputo della famiglia? Paola Il padre era arrivato in Italia in cerca di lavoro quattro anni prima, nel 2005, e aveva cominciato a fare il muratore senza avere il permesso di soggiorno. All’epoca la Romania non era ancora entrata a far parte dell’Unione europea, e quando questo accade, nel 2007, con i documenti in regola l’uomo comincia a organizzarsi per riunire la famiglia. All’arrivo a Trieste il bambino non stava ancora così male, ma nel gennaio o febbraio del 2008 ha una crisi e viene portato al Burlo per accertamenti. Vengono fatti gli esami clinici e presi degli accordi, ma dopo quella prima visita la famiglia scompare come nel nulla. Giovanna Dunque, il bambino non era malato dalla nascita... Paola No, quando è nato Calin era un bambino forte e sano come tutti gli altri, così dice la madre. Lei era giovanissima al momento del parto, aveva diciassette anni; per questo il neonato era stato accudito con l’aiuto della nonna materna. È lei che di fatto alleva il bambino nei primi anni di vita. Sempre secondo i ricordi della madre, fino agli otto o nove mesi Calin non presentava alcun sintomo, cresceva secondo parametri normali; solo quando ha cominciato ad assumere la posizione 6 eretta ci si è accorti che aveva delle difficoltà: doveva stare sempre appoggiato a dei cuscini e non imparava a camminare. Del resto molte cose non le sappiamo: tutte le informazioni sulla prima infanzia di Calin sono incerte e approssimative perché manca una documentazione clinica. C’è solo un episodio che la madre ricorda bene: allo scadere del primo anno di vita il bambino ha una febbre con crisi convulsive, e vanno dal medico. Vivevano allora in un piccolo paese del sudest della Romania, non so se Icoana dove il marito è nato, o Slatina dove risiedeva la famiglia di lei… Giovanna Comunque un villaggio contadino… Paola Sì, un paesino, poco più che un borgo non lontano da Bucarest. Dunque, vanno dal medico generico, quello che per noi è il medico di famiglia, che rassicura i genitori dicendo: “Non preoccupatevi, sono cose che succedono ai bambini della sua età”. La madre afferma di essersi rivolta ripetutamente al medico in quei mesi, e di avergli detto che il bambino era incapace di stare sulle gambe, ma la risposta era sempre la stessa: non c’era da preoccuparsi, tutto prima o poi si sarebbe sistemato. Questo atteggiamento superficiale e un po’ cinico del medico può essere spiegato in un contesto generale di povertà: forse la famiglia non poteva permettersi una visita specialistica a Bucarest. Visita che avviene solo quando Calin ha già compiuto i due anni; è allora che si scopre la gravità della malattia. Sara, questa mamma giovane e orgogliosa, quando rievoca il dramma che ha vissuto in quella circostanza, cita una frase pronunciata dal professore dopo aver visitato il bambino: “Ma dove siete vissuti…” (si emoziona e non riesce più parlare) Daniela Vidoni Paola si emoziona nel racconto di questa storia perché a tuttora è molto coinvolta nella gestione del caso. Dal 2009 vive a stretto contatto con la famiglia di Calin; tutti i giorni, sabato e domenica compresi, è a disposizione della madre, anche al di fuori dell’orario di lavoro. 7 Paola No, non è proprio così; diciamo che so quando devo essere a disposizione, conosco l’andamento delle crisi, quei momenti in cui Sara mi cerca. Se mi commuovo è perché le cose che racconto le ho scoperte con difficoltà, pezzo a pezzo negli ultimi due anni. Ottenere la fiducia di Sara non è stato facile, ogni frammento di storia che mi veniva confidata era come un dono. I ricordi emergevano di pari passo con l’analisi che lei faceva del rapporto che aveva potuto instaurare con me e con Oscar, man mano che prendeva coscienza dei suoi diritti di madre, e dei diritti del bambino a essere curato. Paola Dice: “Ma dove siete vissuti finora, nella foresta?”. È una frase che Sara non ha mai dimenticato. Lì per lì si è chiusa a riccio, ha detto: “Io mi sono limitata a seguire i consigli del medico, non mi sono inventata niente”. Alla fine della visita il professore prescrive una terapia antiepilettica, e per quanto riguarda l’assistenza il caso è rinviato a una commissione statale che concede alla famiglia un assegno di invalidità. Giovanna Forse solo col passare degli anni la madre è riuscita a mettere a fuoco una serie di dettagli sul passato... Paola No, nessuna diagnosi, questo almeno dice Sara. Del resto lei non parla volentieri del bambino: racconta la sua storia, quella dei suoi parenti, come si vive in Romania e le violenze che ha subito, ma su Calin si esprime con difficoltà. Ci sono come dei vuoti nella sua memoria, probabilmente collegati alla presenza della madre che in qualche modo aveva sminuito il suo ruolo. Diceva a Sara: “Sei troppo giovane, non hai abbastanza esperienza per badare al bambino”. E inesperta doveva esserlo davvero, se per molto tempo non era stata in grado di stabilire confronti con altri bambini, parlando con altre madri e valutando cos’era normale o no nella crescita del figlio. Una certa incapacità o resistenza a valutare la gravità dei sintomi era forse dovuta alla storia particolare della famiglia di Sara, dove le sofferenze non mancavano. La sorella, più vecchia di lei di due anni, aveva un handicap psichico riconosciuto e godeva di una pensione di invalidità; a sua volta un fratello, vulnerabile e disadattato, soffriva con ogni probabilità di disturbi mentali. Tutti questi dati sono emersi anche perché, in coincidenza con l’aggravarsi della malattia di Calin, la famiglia di Sara subisce una specie di crollo, in poco tempo si dissolve. Paola Sì, ma la cosa più importante è che me li ha comunicati in una specie di scambio, di apprendimento reciproco, quando anch’io prendevo coscienza delle differenze culturali, e delle enormi difficoltà che questa giovane madre aveva dovuto affrontare per difendere il suo bambino e la sua famiglia. I dettagli del passato non mi sono stati trasmessi in maniera ordinata, in un racconto preconfezionato; sono affiorati un po’ alla volta, nei rari momenti in cui il rapporto fra di noi permetteva uno scambio autentico, quando Sara poteva dare fiducia al mio ascolto perché sentiva che anch’io stavo imparando da lei. [2. La famiglia di Sara] Giovanna Tornando al racconto, cosa dice il professore di Bucarest alla fine della visita? 8 Giovanna Non è stata formulata una diagnosi? Giovanna Cos’è accaduto? 9 Paola Prima dicevo che nel marzo del 2008, quando al Burlo vengono ultimati gli esami clinici, i genitori di Calin non si presentano in ospedale a ritirare le risposte. La famiglia sembrava sparita nel nulla, in realtà erano tutti partiti per la Romania perché la madre di Sara, malata da tempo, si era improvvisamente aggravata. Morirà in aprile, e di lì a qualche mese, nel corso dell’estate anche il padre si ammala e muore. La famiglia praticamente non c’è più: la sorella handicappata viene accolta da una cugina che l’assiste, e un quarto fratello va a vivere con una donna più vecchia di lui e ben presto emigra dalla Romania. Giovanna In quell’anno a Sara è crollato addosso il mondo... Paola La famiglia era povera, o comunque non disponeva di grandi mezzi; per di più il padre era alcolista e aveva sempre usato la violenza e il terrore dentro casa. Il punto di riferimento affettivo per Sara era sempre stata la nonna, che a quanto pare è ancora viva. Avrà circa ottant’anni. [3. Uno sguardo incredulo: la diffidenza] Giovanna Dopo questi chiarimenti torniamo alla prima scena che avete descritto, l’incontro al Burlo: cosa accade esattamente? Il bambino era intubato? Paola No, respirava da solo e veniva ancora alimentato via bocca. Come ha detto Oscar, era sdraiato nel letto e strisciava facendo fulcro sui gomiti, con un movimento incessante della testa; la pelle era tutta arrossata. Aveva gli occhi aperti, un volto bellissimo. 10 Oscar Allora come adesso non si può dire che Calin comunichi con lo sguardo; la sua trasmissione è di tipo epidermico, più di contatto, di empatia tonica, e questo può spiegare come mai tende a ridurre l’ipercinesia ogni volta che la madre lo tocca o gli parla. In ospedale era questa iperattività uno dei principali problemi, perché il bambino rischiava di andare a sbattere con la testa contro le bandine laterali, o di incastrare il piedino e farsi male. Al nostro arrivo la madre ci guarda incredula, un po’ intimorita, forse perché ci inquadra inizialmente come funzionari venuti lì per fare un esame della situazione, e capire se ci sono gli estremi per un allontanamento del bambino dalla famiglia. L’idea che si fa è che noi esercitiamo un ruolo ambiguo, tra il sanitario e l’assistenziale, e quando cerco di descriverle il nostro servizio di cure domiciliari ci guarda con stupore. Sara di solito non parla, è una persona molto silenziosa, con una intensa comunicazione non verbale. L’espressione con cui quel giorno ci guardava si poteva tradurre più o meno così: “Chi sono questi qui, e quali frottole mi stanno raccontando per farmi cadere nel sacco?”. La sola cosa che dice è che, nel suo paese, non esiste un servizio come quello che le stiamo descrivendo; più volte ripete dubbiosa: “In Romania un servizio così non c’è”. Per cui era necessario tutto un lavoro di convincimento, ed è quello che Paola ha fatto: conquistare progressivamente la fiducia di Sara. In quel primo incontro emerge un altro dato importante: la donna è incinta al quarto mese, ma l’attesa di un secondo figlio non riduce l’intensità delle cure rivolte a Calin. In ospedale non lo abbandona un istante, tutto quel che accade attorno al letto del bambino viene da lei scrutato e filtrato, come se dovesse sorvegliare l’intero contesto. Un atteggiamento di diffidenza, ma una diffidenza intelligente secondo me. Giovanna Cosa intendi dire? 11 Oscar Con Sara il problema non è mai l’ottusità relazionale, al contrario, è l’attenzione con cui scruta e osserva ogni gesto, ascoltando quasi con avidità ogni parola da cui possa dipendere la sorte del figlio. All’epoca non eravamo in grado di valutare il suo livello di conoscenza della lingua italiana, e poiché parlava poco immaginavo che non riuscisse a cogliere nel loro significato le informazioni che le venivano trasmesse, tanto che lì per lì ho pensato che avremmo dovuto attivare un mediatore culturale. Poi invece gli infermieri del Burlo ci hanno detto che non ce n’era bisogno: lei capiva tutto, ma esprimendosi così poco il suo lessico non si arricchiva, continuava ad essere abbastanza povero. Giovanna Non avete ancora detto l’età di Sara… Paola L’abbiamo conosciuta quando aveva ventiquattro anni, ora ne ha ventisei. A sua volta Calin aveva sette anni, ora ne ha nove. Giovanna E poi cosa accade? Quali erano i vostri compiti esattamente? Paola Dovevamo capire qual era la situazione abitativa ed economica della famiglia, e che tipo d’intervento fare. Dal punto di vista sanitario molte cose restavano oscure: la diagnosi era incerta e di conseguenza anche la terapia non era ancora stabilizzata. Soprattutto rimaneva in sospeso il problema di come alimentare il bambino. Calin era in grado di deglutire, ma insorgevano frequenti polmoniti ab ingestis. I riflessi di protezione delle vie respiratorie erano in parte compromessi, il bambino ingeriva solo una parte del cibo solido, nel senso che masticava qualunque cosa gli veniva data. All’epoca mangiava gli stessi cibi dei genitori, che non avevano mai smesso di alimentarlo secondo i loro orari e le loro abitudini. Inoltre beveva latte, succhi di frutta, ma i suoi problemi di deglutizione erano progressivamente aumentati e spesso respirava quello che masticava. 12 Giovanna E così tossiva… Paola Tossiva, ma erano le febbri convulsive e le polmoniti chimiche a innescare gli episodi di crisi grave. Da tempo il bambino stava sempre disteso a letto, o trascorreva qualche ora al giorno in braccio alla mamma; non aveva mai ricevuto un’educazione posturale, quindi come lo prendevi lui stava. Se non aveva crisi convulsive, o “clonie”, il bambino stava su perché lo tenevi su; in ogni caso, anche quando lo prendevi in braccio dovevi sorreggergli la testa. Oltre che sdraiato sul letto, Calin veniva messo dalla madre su una coperta a terra, così se lo tirava dietro per casa mentre faceva i lavori. Non voleva lasciarlo da solo, perché ogni volta che si svegliava cominciava a muoversi e poteva cadere dal letto. Era abituato a dormire nel lettone coi genitori; così era sempre vissuto anche in Romania, disteso tra i cuscini o a terra sulla coperta. Sulla tastiera del letto mettevano un biberon, e Calin aveva imparato a bere da solo ogni volta che aveva sete; in questo modo di notte aveva una sua autonomia, e la madre non era obbligata a svegliarsi continuamente per soddisfare i suoi bisogni. Giovanna Il bambino ha conservato delle capacità, vede degli oggetti? Paola Secondo la madre qualcosa vede; più probabilmente ha conservato in maniera un po’ meccanica abitudini acquisite in precedenza. La prima diagnosi formulata al Burlo era di “encefalopatia epilettogena grave di natura ignota, con ipoacusia e cecità”; in altre parole, secondo i medici il bambino non vede e non sente niente. Io invece ho l’impressione che veda delle ombre, e percepisca la presenza degli esseri umani. Ad esempio, se la madre è presente nella stanza il suo comportamento cambia. Anch’io, nei primi mesi in cui gli sono stata molto vicino, ho avuto più volte la sensazione che mi riconoscesse: mi ha dato la prova di sapere chi ero e cosa stavo facendo. 13 [4. La diagnosi incerta ] Oscar Agli inizi frequentavamo il Burlo non solo per conoscere la madre e il bambino, ma per stabilire dei contatti con il personale, e impostare la terapia in vista della dimissione. Le cure domiciliari prevedono tutta una rete di competenze professionali che vanno attivate, oltre che una serie di supporti strumentali e tecnici. Nel caso di Calin l’intervento doveva essere molto calibrato tra una parte fisioterapica, svolta con la consulenza della nostra fisiatra, e una parte più propriamente assistenziale a cura del servizio sociale del Comune. Sulla base della diagnosi certificata dal Burlo, il bambino poteva godere del Fap, il Fondo per l’autonomia possibile, e di tutta una serie di supporti strumentali ed educativi. In teoria ci si poteva anche immaginare un suo inserimento scolastico, che poi si è rivelato impossibile. Agli inizi non avevamo escluso del tutto questa ipotesi, anche perché siamo riusciti più volte a inserire nella scuola bambini con una patologia complessa, ma lo stato di Calin si è molto aggravato proprio nei mesi in cui l’abbiamo conosciuto. Paola Al momento della dimissione eravamo anche incerti se il bambino ce l’avrebbe fatta ad alimentarsi senza il sondino gastrico, dato che la madre opponeva resistenze e perplessità all’idea di passare alla Peg.2. Così, dopo il rientro a casa abbiamo aspettato ancora per un po’, ma a fine maggio, di fronte alle continue infezioni respiratorie e al fatto che Calin non cresceva di peso, si è fatto l’intervento della Peg con il consenso dei genitori. Nello stesso periodo sono state approfondite le indagini mediche, ma non si è mai giunti a formulare una diagnosi certa. A un certo punto è stata ipotizzata una malattia mitocondriale. Giovanna Che malattia è? 2 La Peg favorisce l’alimentazione enterale, basata su cibi frullati o liquidi. 14 Daniela Rientra nella categoria delle malattie rare a base genetica, per cui il Burlo ha avviato una ricerca e siamo ancora in attesa di ottenere una risposta. Sono necessari moltissimi mesi per fare una diagnosi in un caso come questo, anche perché l’indagine si avvale di laboratori fuori Trieste. L’importanza di ottenere una diagnosi non è collegata al fatto che il bambino possa migliorare: al punto di evoluzione in cui è giunta la malattia, la diagnosi è poco influente; si fa tutto quello che si può e che si deve per migliorare la sua qualità di vita. Ma Calin ora ha una sorellina e ci si chiede quanto sia esposta agli stessi rischi, e cosa fare per prevenirli. Giovanna Si sa almeno qual è la prognosi per il tipo di malattia di cui soffre il bambino? Daniela È complicato addentrarsi in questo discorso, la prognosi è cambiata tante volte anche perché si procedeva per tentativi ed errori. Parlare di questo vuol dire raccontare il seguito della storia. Tra i vari episodi di crisi che si sono succeduti, dopo quel primo incontro al Burlo, ce n’è stato uno particolarmente grave che ha comportato un’ospedalizzazione prolungata. È accaduto nel 2009, quando Calin è stato ricoverato in rianimazione dove ha trascorso molti mesi; è stato allora che a un certo punto viene decisa una sorta di ospedalizzazione domiciliare, anche se il termine non è corretto perché nella nostra Regione non esiste una simile procedura. Di fatto, quando Calin viene dimesso si parla di mettere in piedi un’assistenza continuata, sulle 24 ore. In realtà, mediante il coinvolgimento della famiglia e l’attivazione di risorse di volontariato, è stato possibile ridurre l’assistenza infermieristica ad alcune ore al giorno, con la forte presenza del nostro distretto che doveva fare la regia di una fitta rete di interventi. È stata Paola ad accollarsi il compito di coordinamento. In quel periodo la prognosi per Calin era che sarebbe vissuto non più di due settimane, al massimo due mesi. 15 [5. La paura dell’internamento ] Giovanna La storia è complessa e non potremo raccontarla con ordine in tutte le sue fasi; siamo obbligati a procedere a pezzi e frammenti, in una specie di andirivieni sugli stessi episodi. La cosa che a me sta a cuore è riuscire a focalizzare la figura della madre, e il rapporto madre-bambino. Per questo vorrei chiedere a Paola di riprendere il filo del racconto tornando ai giorni in cui ha conosciuto Sara per la prima volta. Come sei riuscita a ottenere la sua fiducia se lei era ostile e non parlava? Paola Già il primo giorno al Burlo le avevo dato il numero del mio cellulare di lavoro, e negli incontri successivi mi fermavo sempre a parlare con lei. Le fornivo una serie di informazioni sul nostro servizio: chi siamo, cosa facciamo. Soprattutto le dicevo che la medicina territoriale era nata per contrastare tutte le forme di internamento dei bambini come Calin, e che il nostro servizio lavora proprio per evitare che un’istituzione tolga i figli ai propri genitori. Per mesi ogni giorno le ripetevo queste frasi, le fornivo un quadro sempre più dettagliato perché il suo sguardo continuava ad essere dubbioso, incredulo. In seguito, quando siamo entrate in un rapporto di maggiore confidenza, lei – che è molto ironica – accettava a suo modo i miei discorsi e me li rilanciava, come per farmi l’eco, ma poi all’improvviso si chiudeva in se stessa, restava muta. Allora dovevo interpretare i suoi silenzi. Daniela Io credo di aver capito che la diffidenza di Sara non si applica a singole persone o situazioni; è estesa un po’ a tutto, come un modo che lei ha trovato per fronteggiare i pericoli che la circondano. Con ogni probabilità, fin da bambina, ha dovuto imparare a difendersi nelle relazioni con i familiari; ma, accanto a questa fragilità personale, c’è una dimensione culturale nel modo in cui interpreta il suo ruolo di madre nel rapporto con le istituzioni. Come prima diceva Oscar, non possiamo 16 ignorare il fenomeno dell’istituzionalizzazione dei bambini in Romania, e più in generale la facilità con cui lo stato ti ignora e ti abbandona al tuo destino, o ti sequestra, ti rinchiude in un luogo da cui non esci più. Dunque, per diverse ragioni Sara vive da anni in una condizione estrema, il suo stato mentale è a rischio; perciò bisogna essere molto delicati e attenti nella comunicazione con lei, perché nei momenti critici la sua fragilità e paura del pericolo può scivolare in situazioni interpretative. Di fatto Sara è abbastanza compensata, non perde mai l’equilibrio, ma è come se vivesse su un filo teso che si può spezzare da un momento all’altro. Paola Una cosa è vera: qualunque cosa io dica o faccia, lei passa molto tempo a elaborarla, a interpretarla, a chiedersi cosa significa. Lo fa sempre e comunque, nel bene e nel male, e mi interpreta anche se non parlo e non dico niente. Ieri le ho telefonato perché il bambino in questi giorni sta male, ha l’influenza, e Sara mi ha detto: “C’è il rischio che venga ricoverato, ma lei non mi ha avvertita”. Io le ho risposto che finché non sono sicura di una cosa preferisco non discuterne, si crea solo confusione e panico. Era stata la pediatra ad anticiparle il rischio del ricovero; aveva usato questo argomento come una specie di minaccia perché voleva ottenere da Sara informazioni su Calin che lei tiene un po’ nascoste. Quindi, anche se non dico niente lei trova sempre un input che qualcun’altro le trasmette, e che mi rimanda in un circolo interpretativo in cui sono io prima o poi a dovermi sentire in colpa. In questo senso si può dire che mi mette costantemente alla prova: alle sue domande, o alle obiezioni che mi muove, devo avere sempre pronta una risposta fondata, credibile. Giovanna C’è anche una pediatra che assiste il bambino? Paola All’inizio non c’era, ma nel maggio del 2009 abbiamo invitato lafamiglia a nominare un pediatra di libera scelta. Il nostro intento era quello di mettere il bambino il più possibile in una situazione di normalità, 17 assicurandogli un trattamento dove i suoi diritti fossero pienamente rispettati. Tuttavia, il pediatra non era molto presente, e pochi mesi dopo aver conosciuto Calin ha ricusato l’incarico, col pretesto che il padre non era passato nel suo studio a firmare un documento. Così abbiamo dovuto accompagnare la madre a sceglierne un altro. Daniela Non è la prima volta che un pediatra rifiuta di farsi carico di un bambino con una patologia complessa. Non è legittimo, non possono assolutamente farlo, ma certi pediatri – per fortuna pochi – ricusano i bambini ogni volta che per curarli devono rimettersi a studiare: aggiornare le loro conoscenze, e impegnarsi in un rapporto di stretto coordinamento con altri professionisti che intervengono nella gestione del caso. È anche grave che questo accada, perché ogni volta bisogna ricostruire da capo il rapporto di fiducia tra la famiglia e il medico, tra il pediatra e il bambino. Per cui alla fine i pediatri disponibili ad assumersi queste situazioni sono sempre gli stessi, e sono sovraccarichi. Oscar Nei casi ad alta complessità assistenziale il ruolo del pediatra di libera scelta è importante soprattutto per stabilire il raccordo con la specialistica, dando continuità a un programma che va monitorato. Una cosa è curare una malattia qualsiasi, altra cosa è farsi carico di una situazione come quella di Calin perché devi continuamente studiarla, man mano che emergono nuovi quadri clinici. Perciò è tanto più grave che esista un certo numero di pediatri che ricusano i bambini: il loro atteggiamento ostacola seriamente la possibilità stessa di un lavoro territoriale come il nostro. [6. L’aggravarsi della malattia: episodi di crisi] Giovanna Se ben capisco, nel caso di Calin la maggiore difficoltà è consistita nel non riuscire a stabilizzare la terapia, per cui il bambino è andato soggetto a crisi ripetute, molto gravi. 18 Per questo vorrei chiedervi di ricostruire gli episodi salienti del percorso di cura, anche per capire qual è la situazione attuale del bambino e della sua famiglia. Paola La prima crisi grave si è avuta nel maggio del 2009. Subito dopo le dimissioni dall’ospedale, il 6 maggio Calin era stato accompagnato al Burlo, in day hospital, per fare un’indagine diagnostica più approfondita, e di lì a poco il bambino era caduto in uno stato di semicoma. Io scopro casualmente, al telefono, che Calin dorme tutto il giorno. La madre non ci aveva detto niente; pensava che la causa del sonno fosse da attribuire a una iniezione esplorativa che gli era stata fatta in ospedale, i cui effetti sarebbero prima o poi cessati. Vado nella casa per constatare di persona come stanno le cose; chiamo immediatamente il pediatra, ma non era reperibile, allora portiamo il bambino al pronto soccorso del Burlo. Una volta lì, Calin viene tenuto in osservazione per alcune ore, e i medici scoprono che sta male per intossicazione da farmaco. In altre parole, il farmaco che era stato prescritto per ridurre le convulsioni, aumentava la percentuale di acido lattico nel sangue e il bambino era andato in iperproduzione, dato che la sua patologia è collegata di per sé a un eccesso di acido lattico. Una volta sospeso il farmaco tutto torna su valori normali, Calin recupera ed è così che la diagnosi di encefalopatia epilettogena, viene abbandonata, mentre trova nuove conferme l’ipotesi che si tratti di una malattia mitocondriale. Giovanna A quel punto il bambino viene dimesso, torna a casa… Paola Torna a casa, ma continua ad essere molto debole perché non mangia; così, venti giorni dopo viene sottoposto all’operazione della Peg, di cui ho parlato prima. Resta in chirurgia per quattro giorni, e la mamma vive malissimo questo ricovero: confrontando lo stile di lavoro fra i diversi reparti, che ormai conosce bene, ritiene che gli infermieri della chirurgia siano approssimativi e poco attenti alle esigenze del bambino. 19 In realtà Calin esce bene dall’operazione, e la situazione sembra finalmente assestarsi. L’unico problema, a quel punto, era convincere la madre a non alimentarlo più per bocca, o a farlo molto poco, ma Sara in quel periodo era molto chiusa, non parlava volentieri con me. Le medicazioni per la Peg la impressionavano, allora le facevo io, oppure l’accompagnavo a farle al Burlo. Quindi si può dire che in quel periodo cerco di ottenere la fiducia di Sara svolgendo in prima persona tutta la parte più sanitaria e tecnica dell’intervento, cercando di aiutarla ad accettare il nuovo regime alimentare e di assistenza. Ma dopo tre settimane si apre un’altra crisi: il bambino inizia ad avere di notte delle febbri molto alte, difficili da valutare per i neuropsichiatri del Burlo. Daniela In che mese siamo? Paola È intorno al 10 giugno che si manifestano le febbri notturne che nessuno riesce a spiegare. I neuropsichiatri dicevano: “Chissà, dormendo in mezzo ai genitori forse suda, aumenta la temperatura corporea”. Cercavano giustificazioni banali, dato che le analisi non rivelavano tracce di infezione. Poi la situazione si aggrava e si complica, Calin ha convulsioni continue, notte e giorno, con una febbre alta dovuta alle stimolazioni epilettogene, e viene ricoverato d’urgenza al Burlo. Oscar È allora che Sara comincia ad avere dei pensieri terribili, teme che il bambino non venga accudito in maniera adeguata dagli operatori dell’ospedale. Da quel momento in poi, mentre le condizioni di Calin si aggravano, è anche lo stato di salute della madre a diventare oggetto delle nostre preoccupazioni. 20 [7. Il ricovero più lungo] Paola Tutto il periodo che va da giugno a settembre del 2009 è sconvolgente e drammatico, anche perché viene sancito il definitivo passaggio di Calin allo stato vegetativo. Agli inizi il bambino viene ricoverato in rianimazione per venti giorni: malgrado le crisi convulsive continua a respirare spontaneamente, alimentato con la sonda. Gli vengono somministrati nuovi farmaci a cui reagisce positivamente: le crisi diminuiscono di frequenza e intensità, tanto che un venerdì pomeriggio, passando al Burlo, scopro che Calin è così migliorato che hanno deciso di dimetterlo il giorno dopo. Vado con Sara a un colloquio con il neuropsichiatra, che le spiega l’importanza di approfondire le indagini diagnostiche, anche in vista di scongiurare eventuali rischi per la bambina che sta per nascere. Ma quando il giorno dopo torno al Burlo, per aiutare il rientro a casa di Calin, lo trovo in preda a una crisi gravissima. Nel giro di poche ore era peggiorato, e credo sia stata l’unica volta in cui ho pensato che il bambino stesse per morire. La scena era impressionante: Sara aveva messo un letto attaccato a quello del figlio, con tante piccole icone di carta sparse qua e là, e stava pregando. Giovanna È di religione ortodossa? Paola Sì, tutta la famiglia lo è. Anche se non va in chiesa, Sara ha un suo credere, e col passare del tempo si è legata sempre di più alla religione. Quel giorno aveva disposto attorno al figlio delle piccole icone, ne aveva appoggiate due sul lettino, ed era talmente concentrata nel pregare che era come se non avvertisse la mia presenza nella stanza. Calin era attaccato all’ossigeno, gli stavano facendo una serie di interventi perché rischiava da un momento all’altro di andare in arresto respiratorio. Ricordo che sono rimasta lì più o meno in silenzio fino alle cinque del pomeriggio, e a quel punto, sapendo che stava arrivando il marito di Sara dal lavoro, ho detto: “Ora me ne vado”. 21 Il bambino era ben curato, stavano per chiamare un rianimatore e mi sembrava che la mia presenza fosse più di ostacolo che di aiuto. Soprattutto pensavo che in quel momento Sara avesse bisogno della vicinanza del marito, più che della mia, ma quando ho detto “me ne vado”, lei ha replicato con durezza: “Se ne vada pure, tanto lei qui è l’infermiera, non una parente”. Qualcosa del genere. Giovanna Una frase dura, ma ambivalente: poteva essere interpretata come un grido per trattenerti. Come a dire “No, non andartene, non lasciarmi sola proprio adesso…”. Paola Ricordo che per me è stato terribile, era come se… Giovanna …come se volesse tracciare un confine e buttarti fuori. Paola Sì. Giovanna Forse sei stata colpita dalla coincidenza del pensiero di Sara con il tuo; con quella frase ti rinviava il dolore, il senso di impotenza che entrambe stavate vivendo davanti al letto del bambino. [8. Interpretare le emozioni, accompagnare la madre] Paola Tutto questo accade quando Sara è al settimo mese di gravidanza. In quel periodo, in cui tutto precipitava, non curava più il suo aspetto, né la sua alimentazione. Mangiava soltanto dolci a tutte le ore. 22 Daniela Sara rifiutava di farsi seguire nella gravidanza. Erano stati fatti molti tentativi per allacciarla al Consultorio familiare, situato accanto al nostro servizio, ma lei non riusciva a distrarsi dal figlio, non era disponibile a prendere in considerazione tutta questa parte della sua vita. La sola cosa che aveva accettato era la presenza di alcune operatrici del Consultorio, soprattutto un’assistente sanitaria e l’ostetrica con le quali aveva stabilito un buon legame. Entrambe cercavano in diversi modi di proteggerla, di farle un po’ da mamma, andandola a trovare a casa. Paola Non solo a casa: in quel periodo tutti noi operatori, coinvolti nella gestione di Calin, andavamo a turno in ospedale per starle accanto. Daniela Riuscire a impostare con lei il discorso della consapevolezza della gravidanza era una faccenda delicata: più Sara entrava in questa consapevolezza, più era angosciata dalla sorte della bambina che portava in grembo. Perciò dovevamo muoverci in un equilibrio precario, accompagnandola in maniera spontanea, senza farla entrare troppo in risonanza con la futura bambina per non suscitare effetti opposti a quelli che volevamo ottenere. Era così provata, così spaventata dall’idea di perdere Calin, che bisognava lasciarle tutto il tempo necessario per elaborare i cambiamenti. Giovanna Non avete mai pensato che ci fosse in lei, com’era in parte naturale, un atteggiamento non dico di rifiuto della gravidanza, ma di negazione del suo stato? Paola Assolutamente no, anche se non manifestava particolari emozioni o sentimenti verso il nascituro. Non verbalizzava, non diceva “sono preoccupata per questa bambina che sta per nascere”. 23 Oscar Sara esprime emozioni solo se viene interpretata. Se la interpreti, ed esprimi ad alta voce quello che lei sta pensando momento per momento, riesci a strapparle un mezzo sorriso, ma devi fare un lavoro empatico di continua traduzione e ritraduzione. Quando fai questo è contenta, alla fin fine è la prova del fatto che la portiamo dentro e non l’abbandoniamo mai, allora si fida molto. L’ho visto anche quando abbiamo descritto la sua storia con l’équipe multidisciplinare, nel preparare un incontro che si è tenuto a Sidari: sorrideva, era attenta a ogni parola. Paola Sara non si lascia dire le cose da tutti, ed è capace di dire di no: se non condivide quel che viene espresso lo manifesta immediatamente. Ma Oscar ha ragione, lei è contenta di farsi interpretare, si lascia volentieri raccontare dagli altri. Poi è capace anche di andare e di fare da sola, per lo meno da un anno a questa parte, perché prima non ci riusciva. Ad esempio, la bambina è venuta al mondo perché il marito l’ha voluta, non era un suo desiderio. Sara diceva: “Io ho già i miei problemi, ho già Calin che sta male, non ho bisogno di altre preoccupazioni”. Giovanna Al marito diceva questo? Paola Sì, l’ha detto più volte anche in mia presenza, ma ci sono delle precise ragioni per cui ha accettato la gravidanza. Io ho fatto i miei calcoli dei mesi, per quanto non ne abbia mai parlato apertamente con Sara perché la mia ricostruzione contrastava con alcuni suoi racconti, e dopotutto non rientrava nel mio lavoro parlare di questo. Lei un giorno mi aveva fatto delle confidenze: “Io sono venuta ad abitare a Trieste nel gennaio del 2009”. In seguito, sempre in un momento di confidenza, mi ha detto: “No, non è vero, io vi ho mentito”. Sara a volte si rivolge a me dandomi del “voi”. “Signora Paola, vi ho detto una bugia”. Anzi, l’ha messa giù come una cosa gravissima, un torto che mi aveva fatto. Io allora ho chiesto: “Ma cos’è successo?”. 24 “Vi ho detto che sono arrivata qui nel gennaio del 2009, ma come avrei potuto avere un bambino se sono rimasta incinta in novembre?”; “Cosa c’entra? Tuo marito poteva essere venuto a trovarti in Romania”. Io avevo fatto veramente questo pensiero; in realtà, come poi mi ha confermato, lei era rimasta incinta al rientro in Italia dalla Romania, dopo la morte dei genitori nel 2008. [9. Pregiudizi] Giovanna In altre parole, Sara ha accettato la gravidanza in un periodo in cui Calin non stava ancora così male. Ma quando nei mesi successivi tutta la situazione precipita, la sua gravidanza diventa un limite, un ostacolo... Paola Più che altro non aveva più tempo da dedicare a se stessa, così si trascurava. A questo proposito bisogna dire che il Burlo l’ha davvero aiutata: molti operatori hanno investito su di lei energie e attenzioni, l’hanno seguita nonostante le criticità che a un certo punto si sono manifestate, i forti pregiudizi… Giovanna Quali pregiudizi, di chi? Oscar Ci sono stati dei momenti in cui gli atteggiamenti protettivi di Sara, nei confronti del figlio, sono stati mal interpretati dal personale del Burlo, specie in rianimazione. Ad esempio, lei avrebbe dovuto sempre suonare il campanello per entrare nel reparto, ma a volte non lo faceva; oppure manipolava il bambino, lo toccava, facendo scattare il sistema di allarme. Daniela Era quasi impossibile in quel periodo riuscire a conciliare i tempi – fisici, mentali – di una donna in gravidanza, che stava lì ore e ore ad 25 aspettare di vedere il figlio, e i tempi del reparto di rianimazione, con le sue regole ferree. Paola Le infrazioni di Sara non erano così gravi, tanto più che il reparto di rianimazione prevede di tenere la porta semiaperta. Anche se a volte lei entrava senza suonare il campanello, la conoscevano e avrebbero potuto essere più tolleranti; banalmente, una donna all’ottavo mese di gravidanza può aver bisogno di andare in bagno molto spesso. Invece si è avuta l’impressione che alcuni operatori siano stati insensibili alle esigenze di questa madre, anche se dal loro punto di vista era giusto far rispettare le regole di funzionamento del reparto. A parte questi episodi, si può dire che l’ospedale ha fatto un gran lavoro. L’assistente sociale del Burlo è stata molto vicina a questa ragazza; andava a prenderla in reparto e le diceva: “Sara, io adesso vado a pranzo e tu vieni con me, devi mangiare”. Giovanna Quindi potremmo dire che Sara, con il suo modo di essere, riesce ad avere un certo potere nel rapporto con gli altri, ottiene molte attenzioni… Paola Si, è brava. È come se azionasse un elastico: nel momento stesso in cui bruscamente ti allontana, con un movimento opposto ti attira vicino a sé. Col tempo si è fatta così tanti amici, fra i sanitari del Burlo, che ancora adesso li va a trovare. Oscar E c’è il potere che lei sicuramente ha dell’ironia, il sarcasmo dei suoi commenti fulminanti… Daniela Soprattutto nei confronti del marito. 26 Paola Nel rapporto con Sara ho sempre evitato di pensare che avesse dei problemi personali, o che ci fosse uno stato patologico che avrebbe potuto slatentizzarsi. Sono molto attenta nel mio modo di parlare con lei: è la mamma di un bambino che seguo, e dunque cerco di istaurare una comunicazione basata sulla fiducia e sulla trasparenza, anche perché potrei perdere il rapporto con lei. Il rischio è quotidiano, in Sara c’è una diffidenza che la porta a pensare male di tutto e di tutti. Così adesso a volte mi chiama al telefono e dice: “Signora Paola, io mi fido di voi”. Quando è tesa, oppure cade nella confusione di certi pensieri, mi chiama e in qualche modo i suoi pensieri si riorganizzano. Un giorno me l’ha detto apertamente: “Paola, con voi mi sfogo, dico quello che penso e dopo rielaboro le cose”. In questo modo sono diventata per lei quasi un’amica: mi usa, tra virgolette, mi manipola, si approfitta della mia disponibilità, ma è un bene che lo faccia se questo le permette di conservare un certo equilibrio. [10. Il parto, i morsi uterini e la diagnosi psichiatrica] Giovanna Uno degli aspetti più interessanti in questa storia è che ciascuno di voi ha ricoperto un ruolo diverso nel rapporto con la madre. Tu Daniela, ad esempio, sei intervenuta molto meno nella gestione del caso, non è vero? Daniela Sì, sono intervenuta solo in certi momenti, come quello della nascita della bambina, quando entra prepotentemente in scena la psichiatria e viene formulata una diagnosi importante sulla madre. Eravamo a metà agosto, e anche il bambino era ospedalizzato. Paola Per capire come si è svolto il parto bisogna riandare a quel pomeriggio di luglio in cui Calin sembrava sul punto di morire, e Sara mi aveva per così dire cacciato dalla stanza. Subito dopo era arrivato il padre, ed è stato lui ad autorizzare la tracheotomia del bambino. Operazione 27 difficilissima, perché la madre si opponeva. Continuava a dire: “Qui finiremo come con Eluana Englaro”. Sara aveva seguito con passione la vicenda di Eluana, si documentava guardando la televisione e in qualche modo era giunta a identificarsi con quella storia. In realtà la tracheotomia era stata fondamentale per salvare la vita di Calin, ma le crisi convulsive non cessavano, e nell’arco di quindici giorni il bambino è entrato in uno stato quasi vegetativo. Io stavo partendo per le vacanze, e poiché il parto di Sara era previsto fra il 20 e il 22 agosto, avevo progettato di tornare qualche giorno prima per starle vicino. Ma già nel pomeriggio del 13 si sono rotte le acque, e all’una di notte la bambina è nata: un parto espulsivo senza travaglio, dolorosissimo, con una perdita ematica importante, tanto che hanno dovuto farle una trasfusione. Al momento del parto Sara era rimasta più o meno sola: l’ostetrica del Consultorio, che l’aveva assistita fino a mezzanotte, si era decisa ad andare a riposarsi a casa per qualche ora, perché l’utero non si dilatava. Tutti si erano convinti che la cosa si sarebbe trascinata fino al mattino seguente, invece non appena l’ostetrica ha lasciato l’ospedale la bambina è nata. Dopo il parto Sara ha continuato per alcuni giorni ad avere contrazioni forti, i cosiddetti morsi uterini3, ed è stato allora che ha avuto reazioni aggressive verso il personale. Daniela Dobbiamo immaginarci una donna molto provata dalla paura che il figlio morisse, e da una gravidanza mai del tutto riconosciuta, con la bambina appena nata che ancora non esisteva nella sua testa. In questa situazione le contrazioni all’utero erano per lei insopportabili, ma quel dolore non veniva abbastanza riconosciuto dai sanitari, che continuavano a dirle: “Sono i classici morsi uterini, deve sopportarli”. Lei però non riusciva a sopportarli, e chiedeva con insistenza che le venissero somministrati degli analgesici. 3 Morsi uterini: dopo il parto l’utero comincia a contrarsi e si riduce fino a tornare alle dimensioni precedenti alla gravidanza. Il processo dura all’incirca sei settimane e aumenta in coincidenza con l’allattamento per la secrezione di ossitocina. 28 La bambina era nata nella notte di giovedì, e dopo quasi due giorni, il venerdì pomeriggio, la situazione precipita. Al Burlo si era entrati in quella particolare atmosfera del fine settimana, quando c’è un via vai di gente, e a intervenire non è più il medico del reparto, ma quello di guardia. Essendo ferragosto, anche la rotazione del personale era più elevata del solito, e i messaggi che venivano trasmessi da un turno all’altro non erano molto gratificanti per Sara: quella donna era una rompiscatole, sempre irritata e fastidiosa. Comunque sia, il venerdì pomeriggio il medico di guardia chiede una consulenza al Centro di salute mentale, e quando il sabato mattina la psichiatra arriva in reparto, dedica molto tempo a parlare con il personale, e pochissimo con Sara. Le testimonianze che raccoglie sono parziali e frammentarie, ma tutte la confermano nell’opinione che la donna sia in preda a una psicosi. Oscar Nel reparto di ostetricia si erano fatti l’idea che Sara fosse malata di mente perché, in un passaparola tra i sanitari, era stato completamente deformato l’episodio di quando lei, mesi prima, aveva fatto scattare l’allarme in rianimazione. Un incidente banale, del tutto casuale, veniva interpretato come atteggiamento lesivo nei confronti del figlio. Si era, cioè, creata l’immagine di una mamma che poteva nuocere a un figlio già malato, e che a maggior ragione sarebbe stata incapace di stabilire una relazione positiva con la neonata. Quando la psichiatra, dopo aver fatto la consulenza, mi telefona e racconta queste cose, io sobbalzo, non credo alle mie orecchie: si era convinta che Sara fosse in piena crisi psicotica, e che potesse mettere in atto comportamenti lesivi o auto lesivi; perciò aveva deciso di prescrivere una terapia neurolettica. Daniela Il caso ha voluto che, a svolgere la consulenza, fosse una giovane psichiatra arrivata da poco a Trieste, provenendo da tutt’altra realtà. Era stata assunta nel Dipartimento di salute mentale con un contratto a tempo determinato, e forse non si proiettava nel tempo in questa dimensio29 ne lavorativa, tanto che in seguito ha scelto di non rimanere. Da un lato non si era ancora integrata nel lavoro d’équipe del Csm, dall’altro non aveva abbastanza esperienza per riuscire a condividere la dimensione culturale e di difesa dei diritti, anche di genere, propria della storia della salute mentale in questa città. Per di più, quando quel giorno interviene al Burlo, si trova a dover prendere una decisione senza sapere niente della storia di Sara, malgrado il tentativo che avevo fatto di trasmettere al Csm le informazioni necessarie. Giovanna Puoi spiegarti meglio? Daniela Subito dopo la nascita della bambina, l’assistente sanitaria del Consultorio era passata a visitare Sara; tornando al servizio mi aveva detto: “Ho l’impressione che intorno alla madre di Calin stia montando un clima ostile, non vorrei che chiedessero una consulenza psichiatrica”. Preoccupata da questo avvertimento, il sabato mattina, anche se non ero al lavoro, chiamo col mio cellulare il Csm e dico: “Se vi arriva una richiesta di consulenza, per una donna che ha appena partorito al Burlo, prima di prendere una decisione vorremmo essere consultati: noi conosciamo molto bene la signora”. Ma quando nel tardo pomeriggio richiamo il servizio, scopro che il mio messaggio non è arrivato a destinazione: la psichiatra si era recata direttamente all’ospedale senza passare dal Csm, per cui non era stata avvertita. Giovanna Quindi era all’oscuro di tutto… Daniela Sì, e forse anche per la difficoltà di parlare con la donna, anziché prendere tempo restando per un po’ accanto a lei e raccogliendo pareri diversi, formula una diagnosi con cui in sostanza dà ragione ai sanitari: conferma l’esistenza di sintomi psicotici e prescrive dell’aloperidolo. La cosa più grave è che non si preoccupa di spiegare a Sara gli effetti 30 del farmaco: le controindicazioni dell’aloperidolo nell’allattamento, a causa dell’aumento dei livelli di prolattina nel sangue. In quei giorni stava per avere la montata lattea, e per impedirla a un certo punto hanno dovuto fasciarla; le è venuta la mastite, e questo dolore si è aggiunto a quello dei morsi uterini che già la tormentava. Io e Oscar arriviamo al Burlo lunedì mattina. Fino a quel momento conoscevo Sara solo indirettamente: di tanto in tanto la vedevo al servizio e la salutavo, scambiavamo due chiacchiere e niente di più. Ora le parlo davvero per la prima volta, e alle mie domande lei risponde con la solita precisione e lucidità. Mi dice che sì, è venuta un’operatrice a visitarla, anche se non ha ben capito di quale servizio perché stava male, era piena di dolori. “Mi ha fatto qualche domanda e io ho risposto il minimo indispensabile, non riuscivo a parlare”. A quel punto le chiedo che farmaci sta prendendo, e lei scandisce i nomi uno a uno, convinta che siano tutti antidolorifici. Le spiego che si sta sbagliando, l’aloperidolo non è un antidolorifico, è un neurolettico. Non ricordo se ho usato proprio il termine “neurolettico”, ma in ogni caso le ho dato una serie di informazioni sul farmaco e sui suoi effetti, dicendole che era lei a dover decidere se continuare ad assumerlo o rifiutarlo. Per un po’ Sara mi ascolta, poi taglia corto e dice: “Preferisco continuare a prendere il farmaco, se mi fa bene e toglie il dolore”. Offro ulteriori spiegazioni, ma non insisto; chiamo invece la psichiatra, le trasmetto tutte le informazioni che le mancano, e le dico che, senza volerlo, ha fatto un errore diagnostico: “Questa donna non è scompensata, non ha bisogno di neurolettici”. La psichiatra allora decide di togliere il farmaco, ma non sembra molto convinta di aver sbagliato. Oscar Anche la mia impressione era che tentennasse. Si era trovata tra due fuochi: scegliere se dare credito ai discorsi del personale sanitario, avvallando una verità già confezionata dall’istituzione, o assumersi la responsabilità di dire no, impegnandosi a smontare quelli che erano in gran parte dei pregiudizi. 31 Giovanna Ha un qualche fondamento l’idea di Sara che il neurolettico l’avesse aiutata a star meglio? Paola Infatti la bambina è battezzata Calina Gabriela, e il fratello si chiama Calin Gabriel. Daniela No, è da escludere assolutamente. Come ho potuto ricostruire, nell’indagine che ho svolto personalmente, nei giorni del parto Sara esprimeva una forte reattività al dolore, ma per il resto era abbastanza tranquilla. È vero che si lamentava, chiedeva antidolorifici ed era arrabbiata perché secondo lei non gliene davano abbastanza. Una volta ha anche lanciato dei guanti contro un’infermiera, o prendeva a male parole con il suo sarcasmo il personale del reparto, ma non presentava uno stato di “agitazione psicomotoria”. Tant’è vero che, lo stesso giorno in cui era stata fatta la consulenza psichiatrica, un’infermiera aveva annotato, nella cartella del reparto, che la paziente godeva di uno “stato di benessere”. Cominciava cioè a star meglio, era un po’ diminuito il dolore dei morsi uterini e la situazione si andava normalizzando. Daniela Anche per questa interpretazione così arbitraria, così evocativa della violenza psichiatrica per come l’abbiamo sempre combattuta a Trieste, decido di incontrarmi con la psichiatra per approfondire insieme a lei tutti questi aspetti. Dopo diversi incontri, con momenti anche aspri di discussione, la psichiatra un giorno mi ha detto: “D’accordo, posso cominciare a pensare che tu abbia ragione”. Questo è stato un chiarimento importante: tutti possiamo sbagliare, ma gli errori devono essere riconosciuti per diventare occasione di crescita. Nel Dipartimento di salute mentale ci siamo sempre impegnati a “smontare” le definizioni aprioristiche della malattia mentale, mentre in questa circostanza era avvenuto l’opposto: i sospetti che Sara fosse malata di mente, erano stati avvallati da una diagnosi che avrebbe potuto avere conseguenze nefaste per lei, come donna e come madre. In tutto questo, la cosa che più mi colpiva, in maniera quasi dolorosa, era che fosse stata proprio una donna a trattare così un’altra donna. Giovanna La vicenda è morta lì? Daniela No, ha avuto un seguito di quasi un mese di incontri e discussioni, favorite anche dal responsabile del Csm. Era evidente che non si poteva passare sotto silenzio un fatto così grave: non fa parte delle nostre pratiche agire in questo modo, non accade mai e non deve accadere. Accanto alla diagnosi infondata di “agitazione psicomotoria”, c’era un particolare che mi aveva molto colpito nella relazione della psichiatra, una frase conclusiva che suonava più o meno così: “…inoltre la donna rifiuta il frutto della gravidanza, come si evince dal fatto che ha chiamato la neonata con lo stesso nome del primo figlio”. Anche di questo particolare avevo chiesto subito a Sara, e lei aveva detto: “La scelta del nome non è stata mia, è stato mio marito a propormelo. Da noi la tradizione vuole che i figli portino i nomi di entrambi i nonni, e io, che avevo ben altro a cui pensare, ho accettato senza discutere”. 32 [11. Conflitti tra moglie e marito] Giovanna In quanto psichiatra e responsabile del servizio, Daniela è intervenuta in prima persona solo quando doveva far valere la sua competenza, mentre per il resto è rimasta in ombra pur condividendo lo sviluppo del progetto. Mi chiedo qual è stato invece il ruolo di Oscar, che in quanto psicologo e psicoterapeuta ha partecipato a tutte le fasi della presa in carico. Oscar In verità sono anch’io curioso di saperlo. Più volte mi sono chiesto quali sono le percezioni di Sara del mio ruolo, anche se ovviamente un’idea me la sono fatta. Tu, Paola, cosa pensi? 33 Paola Alcuni mesi fa, in un momento di tranquillità e benessere del bambino, ho chiesto a Sara: “Quando mi hai conosciuta, al Burlo insieme a Oscar, cos’hai pensato? Cosa rappresentavamo noi per te?”. Lei ha risposto: “Eravate così seri, vestiti in un modo così ufficiale, che ho pensato che eravate venuti per portarmi via il bambino”. In altre parole quel giorno noi rappresentavamo per lei la burocrazia, l’istituzione in senso cattivo. Quanto all’abito, Sara aveva ragione: Oscar indossava giacca e cravatta, forse perché poco prima era stato al tribunale dei minori. Cosa pensi adesso Sara di noi, dopo averci conosciuto, resta un po’ un mistero. Solo quando parliamo al telefono riesce a dirmi di tanto in tanto che si fida di me. Oscar invece lo vede come una persona grande, di cui ha rispetto. Giovanna Grande in che senso? Paola Grande di età, un po’ come un padre o un fratello maggiore; una persona al tempo stesso saggia e autorevole. Oscar Credo anch’io che lei mi veda in un ruolo paterno, e ha ragione in un certo senso: Sara ha solo qualche anno in più del mio figlio maggiore, e mi è capitato di alternare con lei atteggiamenti di gioco, di protezione, di rimprovero. Mi viene in mente, ad esempio, l’episodio delle forbici sotto il materasso, quando lei è venuta con un brutto cipiglio nella mia stanza: bussa alla porta, entra e si scaglia contro di noi dicendo che era stato ordito una specie di complotto alle sue spalle. Allora l’ho rimproverata: “Sono due anni che ti stiamo appresso, e ogni volta che succede qualcosa pensi che noi ti stiamo portando via il bambino. Ti fidi o non ti fidi? Deciditi una volta per tutte”. In quella circostanza sono stato abbastanza duro, ma in generale l’immagine che ho di me, quando incontro Paola e Sara insieme, è di qualcuno che gioca. Poiché Sara è molto ironica nei suoi commenti, 34 mi viene spontaneo risponderle con altrettanta ironia, scherzo con lei. Quando loro due sono insieme si avverte un rapporto di grande complicità femminile, un legame atavico fra donne; in quei momenti mi sembra che Sara sorrida e mi tratti come un maschio un po’ ingenuo, sprovveduto. Tuttavia è vero che lei tende a caricare sul mio ruolo tutta la parte più formale del potere dell’istituzione, come se io ne fossi il garante. È un vissuto che deve essersi rafforzato dopo che ho svolto un lavoro di paziente mediazione quando lei e il marito si sono bisticciati, il giorno in cui Sara era venuta al nostro servizio a chiedere aiuto. Giovanna Vuoi raccontare questo episodio? A quando risale? Oscar È stato, credo, nel novembre del 2010. La bambina aveva più di un anno e cresceva bene; anche la situazione di Calin era stabilizzata, ma proprio allora cominciano a scoppiare con una certa frequenza dei litigi fra Sara e il marito: piccoli scontri, che traevano spunto da cose apparentemente banali. Lui la rimproverava di non fare bene i lavori di casa, o tendeva a sminuire il suo ruolo di donna e di madre. Soprattutto non la consultava quando prendeva decisioni importanti per l’intera famiglia, continuando ad avere atteggiamenti di sopraffazione, modi di fare per così dire arcaici nel rapporto con la moglie. Sara è ormai una donna che si sta emancipando: davanti al marito risponde a tono, non china la testa. Lui non riesce a comprendere questi atteggiamenti e dice: “Lavoro tutto il giorno, mi sacrifico per la famiglia e quando torno a casa pretendo che le cose siano in ordine”. Ricordo che un giorno gli ho fatto tutto un lungo discorso sull’emancipazione della donna, adducendo come esempio gli operai del quartiere di San Giacomo dove loro abitano. L’ho portato alla finestra e gli ho detto: “Vedi, qui negli anni 50 gli uomini si comportavano con le proprie mogli come tu ti comporti con Sara: pensavano le stesse cose che pensi tu, ma ora tutto è cambiato, le cose non funzionano più come prima. Quando un uomo torna a casa dal lavoro non può permettersi di spadroneggiare; tutto quel che accade deve essere condiviso con la moglie, in un rapporto di parità”. 35 Giovanna Cos’era successo quel giorno in particolare? Perché Sara era venuta al servizio a chiedere aiuto? Oscar Quel giorno c’era stato uno scontro anche fisico, lui l’aveva colpita, non si sa se con la scarpa o con le mani; lei era caduta contro una porta e si era fatta delle escoriazioni, dopo di che era corsa al nostro servizio dove Paola l’aveva accolta prestandole soccorso. Io e Daniela stavamo lavorando nell’altra ala dell’edificio, quando vediamo arrivare Paola allarmata; racconta in sintesi l’accaduto, e dice: “È meglio che veniate di là a vedere con i vostri occhi, ma fatelo con discrezione, non le ho detto che vi avrei avvertito”. Allora abbiamo fatto finta di entrare per caso nella stanza dov’era Sara e, cercando di consolarla, un po’ alla volta ci siamo fatti raccontare cos’era successo. La sua descrizione lasciava intendere che nello scontro si era rotto il vetro di una porta, e lei ci aveva sbattuto contro facendosi male. A quel punto ho preso la decisione di andare a parlare subito col marito, per fargli capire la gravità del suo gesto e dirgli che l’episodio non avrebbe dovuto ripetersi mai più. Daniela Abbiamo chiesto a Sara se era la prima volta che il marito alzava le mani su di lei; dal suo racconto emergeva che i litigi erano cominciati negli ultimi mesi, per ragioni che rimanevano oscure. A quel punto le abbiamo detto che, come servizio, dovevamo in ogni caso fare una segnalazione, per proteggere lei e i bambini da eventuali gesti di violenza. Oscar sarebbe andato a parlare col marito anche per dirgli questo. Paola Dopo aver chiesto a Sara se voleva essere accompagnata al pronto soccorso o a un posto di polizia, per sporgere denuncia, poiché rifiutava ci siamo offerti di riaccompagnarla a casa. Lei ha acconsentito volentieri; Oscar ha telefonato al marito per avvisarlo, e siamo andati tutti insieme nell’abitazione. 36 [12. L’incidente delle forbici] Oscar Tra me e il marito di Sara non si è svolto solo quell’incontro; ricordo almeno altri due colloqui nella casa, sempre di sera, per cercare di capire cosa diavolo stava accadendo fra i coniugi, e quale strategia avremmo dovuto mettere in atto per aiutarli a fronteggiare una condizione evidente di stress. Quella sera ho dedicato parecchio tempo a spiegare all’uomo che era spregevole mettere le mani addosso alla moglie, qualunque fosse la ragione che lo aveva spinto, ma proprio parlando con lui ho raccolto elementi conoscitivi che non erano mai emersi con tanta chiarezza. Lui diceva: “La donna che ho sposato non la riconosco più; prima era remissiva, le davo quattro scappellotti e risolvevo la situazione. Adesso, qualunque cosa dica o faccia non ottengo alcun risultato, cosa sta accadendo?”. E io: “Sta accadendo una cosa molto semplice: mentre tu resti attaccato alla mentalità dei tuoi anziani genitori, Sara si sta emancipando. Qui non siamo in Romania, non puoi pensare di continuare a vivere nella dimensione culturale in cui sei cresciuto”. Infatti, cos’era successo tra Sara e il marito? Seguendo i modelli propri della sua cultura di origine, l’uomo aveva deciso con i fratelli di acquistare un pezzo di terra in Romania senza consultare la moglie, e lei si era arrabbiata. Attorno a questo fatto, mai chiarito, si era accumulato un risentimento che trovava continue occasioni per manifestarsi. Così, un giorno il marito si rivolge alla moglie in maniera sgarbata, lei replica con sarcasmo e lo prende in giro; lui allora si arrabbia, e si scatena un conflitto che culmina nella minaccia di Sara di tagliarsi i capelli per fargli dispetto. Giovanna Tagliarsi i capelli? Oscar Sì, un gesto simbolico di ribellione. In quel periodo il marito la offendeva ripetutamente dicendo che era ingrassata, non era più bella 37 come una volta, ma queste offese erano niente rispetto al fatto che lui voleva acquistare un pezzo di terra per tornare a fare il contadino. Sara avverte come una minaccia l’idea di tornare a vivere in Romania, e fa di tutto per destabilizzare il progetto. Lo accusa di voler tornare nel paese d’origine perché è insoddisfatto, e volendo mascherare il senso di fallimento, fugge anziché confrontarsi con la realtà. Anch’io gli dicevo: “Non puoi tornare indietro, non sei il padrone della macchina del tempo. Capisco che tu possa desiderare il ritorno nel tuo paese, ma di fatto ora sei qui e devi guardare la realtà in cui vive la tua famiglia: c’è un bambino molto malato da curare, una bambina appena nata da crescere. In ogni caso, se vuoi tornare in Romania devi concordarlo con tua moglie: chiederti se lei ci sta o no”. Un giorno lui era seduto per terra, giocava con la bambina nella stanza di Calin, e io gli ho detto: “Guardati intorno, la realtà della tua famiglia è questa. Non senti che i tuoi vicini serbi bussano alla parete ogni volta che alzi la voce? Se continuate a litigare c’è il rischio che chiamino i carabinieri”. Paola I vicini hanno anche loro un bimbo piccolo, e se qualcuno parla con un tono di voce più alto, con quelle pareti sottili lo sentono subito. Oscar Parlavo così perché, essendo nato nel quartiere di San Giacomo, lo conosco bene; nella casa dove ora vive la famiglia di Calin abitava fino a pochi anni fa la nonna di un mio amico. È un insediamento di case popolari costruito negli anni 50 per gli operai dei cantieri navali, dove ora abitano solo famiglie serbe. Il giorno del litigio, in cui Sara era rimasta ferita, c’era stata una gran confusione, e i vicini avevano sentito: da quel momento in poi era reale il rischio che arrivassero le forze dell’ordine. Noi del resto eravamo obbligati a segnalare l’accaduto alle autorità giudiziarie, anche se ci siamo chiesti come motivare la segnalazione. Di norma è un atto molto delicato: si rischia di perdere l’aggancio con le persone in carico, che temono l’apertura di un’indagine nel corso della quale verrà valutata la loro capacità genitoriale. Insomma, per noi era una decisione drammatica da prendere. 38 Giovanna In tutto questo ancora non hai detto cosa c’entrano le forbici... Oscar È stato un altro incidente, questa volta assurdo. Il giorno in cui Sara minaccia di tagliarsi i capelli, il marito cosa fa? Decide di nascondere le forbici sotto il materasso di Calin, e se ne dimentica completamente. È stato un gesto naturale mettere le forbici proprio lì, dato che lui sta sempre seduto accanto al bambino quando è in casa, e da quella posizione guarda la Tv. Il giorno dopo l’infermiera della cooperativa rifacendo il letto scopre le forbici, ed essendo al corrente dei litigi fra marito e moglie si allarma. La cosa più facile che possa capitare, quando si è allarmati, è cominciare a fantasticare, ricorrendo a una serie di stereotipi e di pregiudizi. Così l’infermiera si chiede chi ha messo lì le forbici, con quali oscure intenzioni, e anziché chiedere dei chiarimenti a voce, scrive sul quaderno delle consegne delle frasi un po’ enfatiche, con l’avvertimento: “Bisogna parlare urgentemente con la signora Paola”. Poiché il quaderno resta sempre lì, nella casa, Sara legge e si offende a morte per quelle righe in cui viene insinuato il sospetto di comportamenti strani e pericolosi da parte dei genitori del bambino. È allora che viene da me arrabbiatissima, convinta che gli operatori siano soliti parlare male della sua famiglia. In quella circostanza afferma che anche Paola l’ha tradita. Paola invece era in ferie, mancava dal servizio e non poteva difendersi dall’accusa che le veniva mossa. Paola Sara temeva che la scoperta delle forbici potesse dar luogo a una seconda segnalazione all’autorità giudiziaria. Già l’idea che il servizio sociale avrebbe svolto un’indagine sulla sua famiglia, l’aveva riempita di sospetti e paure; e anche se le avevo detto che la segnalazione era un atto dovuto, e che io non c’entravo niente con quella storia, si era convinta che fosse tutta colpa mia. Secondo lei, il giorno del litigio avrei dovuto aiutarla senza farne parola con nessuno. 39 Oscar È stato allora che ho tenuto a Sara quel discorso un po’ severo di cui parlavo prima. Le ho detto: “Da due anni stiamo cercando di sostenerti in tutti i modi, ti abbiamo forse portato via il figlio? No. Ti risulta che qualcuno di noi parli male di te o della tua famiglia? No. Dovresti sapere che noi operatori siamo tenuti a trasmetterci le informazioni nel quaderno delle consegne: il vero problema non sono le forbici sotto il materasso, ma il fatto che tu e tuo marito continuate a litigare. È questo che ci impedisce di stroncare sul nascere i pregiudizi sulla vostra capacità di essere dei bravi genitori”. Devo dire che Sara ha reagito molto bene al mio discorso; forse si è stupita, non si aspettava una reazione così forte da parte mia, ma quel rimprovero è servito se non altro a riportare le cose su un piano di realtà. Subito dopo le ho dato un appuntamento per svolgere un colloquio con più calma, e lì ho capito l’importanza che assume per lei il fatto che qualcuno descriva i suoi stati d’animo. Nei nostri incontri facevo un po’ la cronistoria di come si era sentita nei diversi momenti, da quando l’avevamo conosciuta, e Sara ascoltava compiaciuta tutti i passaggi, le peripezie e i rischi che aveva corso, specie nell’ultimo periodo della gravidanza, e com’era riuscita a farcela malgrado tutto. Le dicevo: “È evidente che hai la tendenza a esagerare i tuoi stati d’animo, ma ora che sei più esperta devi metterti anche nei nostri panni, cercando di vedere le cose da più punti di vista”. Giovanna Per lei non sarà facile capire che la vostra azione deve tener conto di limiti e regole istituzionali, ma la cosa più importante è che siete riusciti ad attraversare molti rischi, esponendovi in prima persona, senza compromettere il rapporto con i genitori. In casi complicati come questi le relazioni di fiducia possono spezzarsi ad ogni istante, mentre voi ce l’avete fatta ogni volta a recuperare, portando in salvo un processo che è di crescita e di emancipazione sia della madre che del padre. 40 Oscar In quella particolare circostanza mi sono preso io la responsabilità di tutto. Quando ho visto Sara così alterata ho pensato: adesso la perdiamo, come reagirà? Invece lei ascoltava e sembrava molto contenta di quei discorsi. [13. Casa allagata: il ritorno di Calin] Giovanna Vorrei dedicare quest’ultima parte a descrivere la situazione attuale. Nel racconto siamo arrivati all’agosto del 2009, quando nasce la bambina; da allora, a parte i litigi fra i genitori, quali sono stati gli eventi più importanti? Paola Calin era rimasto in ospedale fino al 5 ottobre del 2009, un ricovero lunghissimo. Avrebbe potuto essere dimesso già ai primi di settembre, ma c’era bisogno di un certo tempo per addestrare la madre a tutta una serie di manovre sanitarie: aspirare in trachea, controllare il ventilatore, gestire la Peg; inoltre bisognava saper usare il pulsiossimetro, per rilevare il grado di saturazione dell’ossigeno e della frequenza cardiaca. Su tutti questi aspetti tecnici la mamma doveva acquisire una certa autonomia, ma a prolungare il ricovero è stato un incidente: alla fine di agosto, mentre si stava avvicinando la data della dimissione, c’era stato uno spandimento d’acqua nella casa, e la stanza di Calin si era allagata. Oscar Se dovessimo raccontare in dettaglio il lavoro svolto in questa fase la storia non finirebbe più. La valutazione delle condizione socio-ambientali per dimettere il bambino dall’ospedale, l’umidità che si era venuta a creare nella stanza e che non permetteva di tenerlo lì: tutti questi impedimenti hanno comportato una serie di incontri al Burlo, un’intensa attività di mediazione da parte nostra per fare in modo che Calin rimanesse ricoverato più del previsto. Il responsabile della pediatria del Burlo diceva: “Non ho posti letto per tenere qui il bambino; Calin è 41 stabilizzato, trovate un posto dove metterlo”. A sua volta il responsabile del reparto di rianimazione diceva che c’erano situazioni molto più pressanti di quella di Calin a cui rispondere. Alla fine abbiamo valutato anche la possibilità di ricoverare il bambino per un po’ alla Salus o alla Pineta del Carso. Paola Dopo il sopralluogo dei vigili urbani, che avevano certificato l’agibilità dell’abitazione, e dopo che le pareti della stanza si erano asciugate, restavano da fare i lavori di ristrutturazione. Eravamo disperati, finché Daniela ha suggerito di trasferire i mobili di Calin nella camera da letto dei genitori. Compattando tutti i mobili ci si è arrangiati così: la camera matrimoniale è diventata la stanza del bambino. Tuttavia, l’umidità della casa continuava a preoccuparci, avrebbe potuto interferire con la salute di Calin; ed è stato allora che un neuropsichiatra del Burlo, il dottor Scabar, si è offerto di prestare alla famiglia il suo deumidificatore. Un giorno l’ha portato lui stesso nella casa, con la sua auto. Giovanna Questa storia ha davvero dell’incredibile; mi chiedo se altrove sarebbe stato possibile un coinvolgimento così capillare ed esteso di persone, di energie e risorse. O forse queste storie accadono un po’ ovunque, ma nessuno le conosce. Paola Facciamo ora un altro step. In quei mesi tutti erano molto scettici, anche nel nostro servizio, sulla capacità della madre di diventare autonoma nella gestione del bambino. Forse l’unica a crederci ero io, per quanto a mia volta avessi attraversato momenti di scoraggiamento. In particolare mi aveva colpito, al rientro dalle ferie, il modo in cui si era svolto il parto. Giovanna Ho notato che in questa storia, ogni volta che vai in ferie e ti allontani per un po’ dal lavoro, scoppia qualche incidente grave, una specie di catastrofe… 42 Paola Infatti, adesso quando vado via cerco di preparare ogni cosa nei minimi dettagli, e solo quando sono pronta dico “domani parto”; ma anche a voler prevedere tutto non ci riesci, succede sempre qualcosa. Comunque, nel settembre del 2009 i miei colleghi mettono in discussione il fatto che il bambino possa tornare a casa date le sue condizioni molto gravi. Io allora ho citato gli esempi di adulti tracheotomizzati e intubati, che vengono assistiti a domicilio. Chi ha una malattia come la Sla, o persone in stato vegetativo, vengono assistite a casa dagli operatori del distretto, se la famiglia acconsente o lo desidera. Così dicevo: “I genitori di Calin desiderano fortemente portare a casa il figlio, e noi dobbiamo assecondarli, aiutandoli in tutti modi”. C’è stato un scontro molto forte e a un certo punto mi sono trovata isolata, ma quando la decisione è stata presa dall’équipe tutti l’hanno sostenuta e siamo andati avanti. Nella prima fase abbiamo dovuto affrontare momenti molto critici, anche perché in ospedale c’erano apparecchiature di cui non si poteva usufruire a domicilio. Ad esempio, il bambino doveva essere continuamente aspirato per la scialorrea, l’eccesso di saliva; la mamma diceva che Calin era obbligato a deglutire troppo spesso, e per questo entrava in tachicardia. Fidandomi del suo giudizio e delle sue osservazioni, mi sono data da fare per trovare un vecchio aspiratore chirurgico, usato un tempo nelle sale operatorie: uno strumento vetusto, che non c’era nella nostra azienda. In questo modo siamo riusciti a risolvere un primo grosso problema. Un’altra questione era l’inserimento del personale che avrebbe assistito Calin, e l’organizzazione dei turni. Il nostro servizio ha un appalto con una cooperativa infermieristica che svolge prestazioni intensive, ma è stato necessario tutto un lavoro di affiancamento dei tre infermieri che mediamente assistono Calin, per dare loro il tempo di instaurare un rapporto di fiducia con la madre. È un’attività di mediazione costante, in un certo senso non finisce mai perché gli infermieri cambiano, si alternano. Giovanna Quante sono le ore di copertura infermieristica, e chi paga queste prestazioni? 43 Paola Gli infermieri della cooperativa assistono Calin mediamente tre ore al mattino, meno il venerdì che ne fanno solo due. I costi del servizio sono coperti quasi integralmente dalla Ass, che paga due ore al giorno per cinque giorni la settimana, mentre la famiglia copre il finanziamento della terza ora, al mattino, grazie al Fap erogato dal Comune di Trieste. Poiché inoltre l’associazione “Azzurra malattie rare” offre il sostegno volontario di quattro ore, Calin è assistito per complessive diciotto ore a settimana, mentre l’infermiere del nostro distretto va ogni giorno a monitorare la situazione. Tutta questa organizzazione permette alla madre di respirare un po’ e fare le sue cose: uscire di casa, fare la spesa e occuparsi della bambina. [14. Calin e la sorellina] Oscar La presa in carico infermieristica è un supporto essenziale per dare più spazio alla bambina, che da quando è nata rischia di vivere tutto in funzione della vita del fratello. Trascorre il tempo giocando nella stanza dove lui è, e dove anche la madre e il padre, specie di sera, si intrattengono per non lasciarlo mai solo. Giovanna Quanto tempo ha adesso la bambina? Oscar Un anno e mezzo... Giovanna E sta bene, cresce bene? Paola Sì, è molto vivace e intelligente, si fa capire in tutto. Caparbia di carattere, molto decisa, se vuole una cosa la ottiene anche se ancora non parla molto: si esprime con i gesti, oppure si arrabbia. 44 Per un po’ abbiamo temuto che vivendo sempre nella stanza di Calin fosse ipostimolata, e ci fosse il rischio di uno sviluppo più lento del normale; in realtà, anche il ritardo nel parlare può essere spiegato dal fatto che non ha avuto bisogno finora di imparare a esprimersi con le parole per soddisfare i suoi bisogni. In qualche modo la teniamo continuamente sotto osservazione, è inevitabile che accada. Dopo la ricusazione del primo pediatra, siamo riusciti a scegliere per entrambi i bambini una pediatra molto attenta e brava; ma l’osservazione più costante e incisiva siamo noi operatori a farla, che la vediamo tutti i giorni. Da settembre la piccola è stata inserita in un nido, vicino a casa, e da allora ha fatto un cambiamento enorme. Sta meglio, è più felice e libera di giocare, mentre nella stanza di Calin veniva sempre un po’ tacitata: meno disturbava e meglio era. Giovanna E Calin, come dobbiamo immaginarlo adesso? Paola È sempre disteso a letto, su un materasso anti decubito, con tutta la strumentazione di cui ho detto prima: la Peg, il ventilatore, l’aspiratore per la trachea e l’aspiratore in continuo, la cui piccola sonda gli viene messa in bocca solo quando c’è ipersalivazione. Ha sempre avuto una brutta scoliosi, per cui è curvo sul fianco sinistro, ma il suo volto continua a essere bellissimo, e anche se non è in grado di seguire i movimenti con lo sguardo, i suoi occhi non sono opachi. Giovanna Insomma, è un bel bambino… Paola Un bel bambino moro, che adesso pesa venticinque chili. Con l’alimentazione via Peg ha recuperato un po’; soprattutto si è allungato, anche se la sua statura non è quella di un bambino di nove anni. Una cosa importante è che Calin respira come respiriamo noi, non è attaccato all’ossigeno. Ha solo un ventilatore che lo facilita in certi momenti, 45 ma quando sta bene riesce a respirare in piena autonomia per più ore di seguito. Giovanna Immagino che sia peggiorata la sua capacità di percepire ciò che lo circonda: il suo contatto con l’ambiente è completamente interrotto? Paola È difficile dirlo. Quando non era ancora in stato vegetativo sapeva riconoscere al tatto un’operatrice del Comune che lo assisteva a domicilio, il cui corpo presentava le stesse rotondità del corpo della mamma. A Calin piacciono molto alcuni tessuti: era estate e questa signora portava un abito scuro tipo raso, non morbido, un po’ rigidino, e ogni volta che entrava in contatto con questa stoffa il bambino si tranquillizzava. Giovanna Il tatto è importante per lui: essere toccato, abbracciato. È ancora possibile? Paola La mamma lo accarezza sempre molto, lo tocca in continuazione. Anche noi gli accarezziamo le mani o il torace, mentre cerchiamo di non toccargli il viso perché si irrigidisce, aumenta la frequenza cardiaca o comincia ad avere delle clonie. Queste reazioni non si manifestano se è la madre a toccarlo sulla testa o sul viso, ma con gli altri è sensibile, specie quando è stanco o influenzato. Allora aumentano le secrezioni e bisogna aspirarlo. Giovanna Tossisce spesso? Paola Sì, ha ancora il riflesso della tosse. 46 [15. “gata, mami, gata” ] Giovanna Dunque si può dire che Calin continua ad avere un rapporto privilegiato con il corpo della madre, come quando lo avete conosciuto. Paola A questo proposito vorrei raccontare un episodio che mi ha particolarmente colpito. Nel maggio del 2009 ho accompagnato Sara al Burlo, a fare degli accertamenti clinici per la gravidanza in day hospital. All’epoca Calin veniva ancora trasportato su una carrozzina normale, e una volta giunti alla porta dell’ospedale ho detto a Sara: “Vai pure avanti, con Calin resto io”. Lei ha accettato volentieri e si è allontanata, mentre io ho cominciato a spingere la carrozzina per entrare nell’edificio. Più volte avevo osservato che la madre, quando Calin si agitava, diceva: “gata, mami, gata”. “Gata” in rumeno vuol dire “va bene, basta”, e l’intera frase può essere tradotta così: “Stai tranquillo, la mamma ti dice che va tutto bene, non piangere”. C’è un’espressione simile di cui facciamo uso anche noi, a Roma l’avevo sentita spesso; così, trovandomi per la prima da sola con Calin, e non sapendo come avrebbe reagito, ho pensato di ricorrere a questa frase, non senza aver chiesto il parere di Sara. Giovanna E cos’è accaduto? Paola Già nell’atrio del Burlo, quando la mamma non c’è più, il bambino si irrigidisce: in pochi minuti aveva già le rughe d’espressione sulla fronte, segnale del fatto che stava entrando in tensione. Vado avanti piano, senza accelerare il movimento della carrozzina, ma vicino all’ascensore Calin comincia a piangere. Gira la testa in maniera così veloce che, una volta chiusi nell’abitacolo non riesco a contenerlo; temo che si faccia del male, allora gli metto le mani sulle spalle, molto vicino al collo, e gli dico “gata, mami, gata”, ma non serve a niente. Da quel momento in poi ha continuato a piangere in maniera disperata: ricordo che a un certo 47 punto qualcuno mi ha aiutato a stenderlo su un lettino, ma nemmeno questo lo calmava. Rimanevo lì, seduta vicino a lui, attenta a che non sbattesse la testa. Piangeva ormai da due ore, e a un certo punto gli dico con una certa forza nella voce: “Calin, smettila, adesso la mamma arriva”. Lui in effetti smette, si calma completamente; io allora mi dico che ce l’ho fatta, ha sentito il mio richiamo, ma in quell’istante mi sono girata e c’era la madre affacciata sulla porta della stanza. Giovanna Vuoi dire che il bambino l’aveva sentita arrivare già dal corridoio? Paola Non c’è altra spiegazione. Giovanna Secondo te ha sentito l’odore della mamma? Paola Non so cos’ha sentito. Io mi sono fatta l’idea che tra Calin e il corpo della madre passi come una corrente, un livello di comunicazione che a noi sfugge, un legame che potremmo definire ancestrale. Di certo, come l’episodio dimostra, il bambino ha la facoltà di riconoscere la presenza della madre anche a distanza. Giovanna Dopo di allora Calin ha cominciato a familiarizzare con te? Paola In parte sì. Io ad esempio credo che lui sappia che sono un’infermiera, una persona che con lui fa certe cose e non altre: cose che non gli sono molto gradite. Quando non stava ancora così male ero sicura di essere da lui percepita ogni volta che mi avvicinavo, e non so se era la madre a mediare la mia presenza, trasmettendogli particolari segnali. Di certo Calin sapeva che ero lì per costringerlo a fare prelievi o me48 dicazioni, o per portarlo al Burlo; con i miei interventi lo allontanavo sempre dalla mamma, e questo non poteva piacergli. Altre figure, che svolgono un ruolo più assistenziale o educativo, le accetta volentieri. L’operatrice dell’Adest, di cui ho parlato prima, ha un seno voluminoso, è bella tonda come la mamma, e gli dà piacere quando lo prende in braccio; nel contatto con questa donna riconosce qualcosa di familiare. Ora è più difficile di prima comprendere le sue reazioni: si può solo leggere la frequenza cardiaca, o interpretare le sue clonie come un segno di autodifesa. La vita sensoriale e di movimento di Calin è solo passiva; l’unica variazione, nel corso della giornata, è quando viene messo dagli operatori o dalla mamma su una sedia posturale: lì sta bene perché resta sveglio, più esposto a ricevere gli stimoli esterni. Dopo che gli è stato fatto il bagno, resta seduto sulla sedia anche per due ore di seguito, e trascorre così un’altra ora al pomeriggio. Giovanna Il rito quotidiano del bagno deve essere piacevole per lui… Paola Credo di sì. Gli viene fatto a letto con delle manopole, acqua calda e sapone, poi viene asciugato; di tanto in tanto la mamma gli taglia i capelli. Il bambino si è abituato a tutte queste pratiche e ne trae un certo benessere, anche se ogni volta bisogna stare attenti perché è soggetto a sbalzi di temperatura, e può andare in ipotermia. [16. Essere o diventare madre, come per la prima volta ] Giovanna Stai descrivendo una vita che nell’ultimo anno, dopo le gravi crisi del 2009, è diventata più regolare e quasi normale, per Calin e per la sua famiglia. Il rione di San Giacomo è ospitale, ci si vive abbastanza bene? Paola Direi proprio di sì; Sara ormai si muove con sicurezza nelle strade del quartiere, lo conosce bene. La rete di amicizie di cui gode la fami49 glia è interamente rumena, formata dai colleghi di lavoro del marito; qualcuno frequenta la casa, ma non si può dire che vi sia una condivisione. Uomini vengono, parlano con lui; durante il weekend passano anche delle coppie a salutare; si fermano un po’ in cucina, ma la casa è stretta e non offre chissà quali spazi di convivialità. Attualmente la bambina dorme nel lettone con il padre, mentre Sara dorme in camera con Calin. Ci rendiamo conto che non è una scelta soddisfacente, ma non riusciamo a far cambiare idea alla madre, che lontano da Calin non è tranquilla. Il bambino di notte dorme, ma se suona il monitor o insorge qualche problema bisogna intervenire, e va comunque girato nel letto per evitare le piaghe da decubito. Sara è molto orgogliosa del fatto che il bambino non abbia piaghe da decubito; in effetti a vederlo ha una pelle liscia, meravigliosa. Oltre ad essere ben idratato, non ha più arrossamenti; solo il busto che gli è stato messo, per lenire la scoliosi e aiutarlo a stare dritto, gli lascia qualche segno di arrossamento. Ma da quando è uscito dall’ospedale Calin non ha mai avuto un decubito, e questo è merito della madre che non lo abbandona mai, di giorno e di notte. Le uniche ore in cui Sara è un po’ sgravata è quando ci sono gli infermieri, ma non sempre, perché di certi operatori di fida e di altri meno. Giovanna È una donna straordinaria, se si pensa che nel frattempo è lei a curare la casa: lava, pulisce, fa da mangiare. Soprattutto si occupa della bambina. A questo proposito volevo chiederti se Sara è contenta di aver avuto la figlia, visto che erano insorti così tanti dubbi al momento della nascita… Paola Sì, lei ama la bambina e ne ha cura. Prima, quando sono stati rievocati i giorni del parto, avrei voluto dire una cosa che mi aveva sconvolto. Giovanna Dilla adesso. 50 Paola Al ritorno dalle ferie, quando mi reco al Burlo per visitare Sara dopo che aveva partorito, le chiedo della bambina: se è bella, se mangia volentieri, insomma le solite cose. Lei mi risponde: “Non me la danno”. Io allora dico: “Forse in questi giorni sei stata poco bene e non te l’hanno portata per non disturbarti, ma se vuoi possiamo andare adesso a vederla insieme”. La neonata era sotto la lampada, aveva ancora la bilirubina un po’ alta e l’ittero. Gliel’ho indicata: “Guarda Sara, è quella la tua bimba”, e lei “Ma è bruttissima!”. “Perché dici questo?”, “Perché ha i capelli neri”. “Ti sbagli, la bambina è molto bella e ti somiglia”. Aveva infatti il viso tondo come quello della madre. Sara ha continuato per un po’ a negare qualsiasi somiglianza, e a un certo punto ha detto: “Che brutte unghie dei piedi ha!”, “Sono uguali alle tue, non vedi?”, “È vero!”. Ha sorriso per questa constatazione, si è sciolta un po’ e ha cominciato a toccarla. La accarezzava, e io le ho chiesto se voleva prenderla in braccio; “Ho paura che mi cada, mi sento così debole!”. Allora le ho proposto di tornare nella stanza e di mettersi a letto, e al pomeriggio, al momento della visita del marito avrebbe preso in braccio la bambina insieme a lui. Ho parlato con le infermiere e ho dato precise indicazioni: “La mamma vorrebbe tenere la bambina, ma è un po’ spaventata, ha paura come se fosse la prima figlia”. È un pensiero che abbiamo fatto un po’ tutti, noi operatori, quando ci siamo accorti, nel primo anno di vita della bambina, che Sara non aveva mai vissuto la normalità dell’essere madre. Più volte è capitato che davanti a certi comportamenti della figlia esclamasse: “Ma queste cose io non le so!”. Allora le dicevo: “Beh, è come se tu fossi mamma per la prima volta, adesso imparerai a fare come tutte le madri”. Giovanna Ed è stato così? Paola Sì. Ora Sara capisce la bambina al volo, gioca e parla sempre con lei, si mette seduta a terra e fa le costruzioni. Insomma l’attaccamento è forte, lei è molto presente, anche se non riesce ad essere come quelle 51 mamme che baciano continuamente i propri figli. La sua affettività non è mai così espressa, ma se la bambina piange la prende in braccio e la coccola. Giovanna E il padre? Paola Anche lui gioca e si intrattiene con Calina, ma la sua è una cultura diversa. Vuole molto bene ai figli, ma se ne occupa solo per quel pezzettino lì, e per il resto delega alla moglie. A volte in passato cambiava il pannolino, ora non più, e se la bambina si sveglia di notte dice che è troppo stanco per occuparsene. [17. La vita associata, Sara nei gruppi ] Giovanna Quindi si può dire che tra un bambino e l’altro Sara dorme poco e male… Paola Sì, e ogni volta che Calin ha la febbre o l’influenza, lei è completamente distrutta. Per aiutarla a rilassarsi l’anno scorso le ho proposto di partecipare a un percorso cranio sacrale, in cui viene impiegata una particolare tecnica, di cui sono esperta, volta al benessere psicofisico. La nostra Ass ha una convenzione con la scuola cranio-sacrale di Trieste, il che permette all’associazione di svolgere un’attività di volontariato nello spazio dei servizi sanitari. Quando, nel febbraio del 2010, ho chiesto a Sara se voleva entrare in questo percorso, immaginavo che avrebbe ricevuto il trattamento da uno dei tirocinanti della scuola, ma lei ha detto che avrebbe accettato solo se fossi stata io a farlo con lei, e così è stato. Abbiamo fatto otto incontri, per otto settimane consecutive, e non è mai mancata; in quel periodo ha cominciato a dormire meglio, sognava e a volte mi raccontava i sogni che faceva. 52 Il percorso cranio sacrale è stato un buon trampolino di lancio per convincerla a partecipare ad altre iniziative; ad esempio, è riuscita ad andare a incontri di gruppo offerti dall’“Associazione malattie rare”, che ha sede al Burlo: la prima volta è venuta con me, poi ha continuato da sola. Agli inizi mi chiedeva: “Ma cosa vado a fare lì?”, allora ho proposto di accompagnarla perché scoprisse il significato e l’utilità della sua partecipazione. A condurre i gruppi è un’esperta di counseling. Giovanna Quanto è grande l’associazione? Paola Ha una sessantina di soci, ma a frequentare i gruppi sono poche mamme; ad esempio, nel primo incontro eravamo io, Sara e la sua bambina, e altre due madri. Essere in pochi in un gruppo non è uno svantaggio, ciascuno ha lo spazio per parlare di sé e ascoltare gli altri. Al secondo incontro io avevo un appuntamento di lavoro, e ho incoraggiato Sara ad andare da sola. Le ho detto: “Sei capace di raccontarti, devi solo imparare a farlo. In ogni caso non sei obbligata a parlare, puoi ascoltare la storia delle altre madri”. La cosa ha funzionato molto bene; in seguito ho avuto un feedback dalla conduttrice del gruppo, che era entusiasta della partecipazione di Sara. Gli incontri avvengono ogni secondo mercoledì del mese, e il segno del suo interesse è dato dal fatto che mi chiede con un certo anticipo se ci sono gli infermieri a tenere Calin, mentre il marito tiene la bambina. Giovanna Sarebbe bello se anche il marito partecipasse qualche volta al gruppo, non credi? Paola È già importante che sia andato a prendere Sara una volta con la macchina, all’uscita dal Burlo. Ha fatto questo primo passaggio, poi si vedrà. 53 Giovanna Dunque Sara sta imparando non solo a verbalizzare la sua esperienza, ma anche a fidarsi degli altri. È un allenamento importante: con la bambina che va a scuola dovrà sempre più esporsi, parlare, partecipare. Paola C’è stata una terza iniziativa che abbiamo preso, un ulteriore passaggio: l’inserimento di Sara nel gruppo delle mamme e dei bambini piccoli, gestito nel nostro servizio da una psicologa. Anche lì le prime volte siamo andate insieme, io e lei. Era una fase difficile per Sara, e quando le ho chiesto se le era piaciuto ha detto: “Mah, è un gruppo un po’ così...”; e ha aggiunto: “Lì dentro ci sono persone cattive”. “Perché cattive? Sono persone che vivono situazioni difficili, ma questo non significa che siano cattive”. Paola Sì, perché attualmente quando ha bisogno di amicizia può solo andare a trovare la signora Laura, assistente sociale del Burlo, oppure cercare me per fare due chiacchiere. Ma questo fa anche un po’ tristezza, no? Giovanna Per adesso la rete siete voi… Paola Siamo noi la sua famiglia. Giovanna Sono genitori di bambini con bisogni speciali? Paola Non necessariamente. Il gruppo ha lo scopo di offrire un sostegno alla genitorialità: si riunisce per un’ora e mezza ogni giovedì, per tutto l’anno, a parte l’estate quando il gruppo trasferisce la propria attività nel giardino di una scuola. I genitori vengono da noi per diverse ragioni, i loro bambini possono aver avuto in passato problemi di cui ancora portano le tracce: disturbi comportamentali, sintomi o sindromi collegate a qualche malattia specifica. Al gruppo ciascun genitore può partecipare in maniera fissa o saltuaria, e alcuni vengono solo quando sentono il bisogno. Ma io vorrei che Sara lo frequentasse con regolarità: solo in quel gruppo si confronta con altri genitori, parla di problemi di vita quotidiana e riuscirà prima o poi a creare una sua rete di relazioni. Giovanna In questo modo comincia a esplorare altri ambienti. 54 55 FARE SALUTE – Laboratorio di formazione, ricerca e comunicazione sulla “medicina di comunità” a Trieste: storie e racconti di malattia Il progetto, realizzato nel biennio 2010-2011, si propone di raccontare, con la voce dei protagonisti, la pratica medica dei Distretti e delle Microaree, nella sfida che da anni, a Trieste, impegna gli operatori a sviluppare una medicina radicata nei luoghi, nelle case, negli habitat sociali. L’idea-base del progetto è quella di aprire un laboratorio per sperimentare nuovi metodi di racconto della malattia, al fine di informare, descrivere, rappresentare i contenuti e le metodologie dell’intervento territoriale. Ricostruendo la storia di singoli casi, stabilendo confronti tra il linguaggio delle procedure sanitarie e la complessità delle pratiche, vengono evidenziati aspetti specifici che differenziano la “medicina di comunità” da quella ospedaliera. La raccolta di materiali orali, così come l’elaborazione dei testi, serve a documentare il grado di coinvolgimento dei diversi attori: da un lato la dimensione affettiva del lavoro di cura (l’intensità e la frequenza dei contatti, le relazioni ravvicinate fra operatore e utente); dall’altro i dubbi e le scoperte, le incertezze e i conflitti come punti di forza di un intervento basato sul continuo confronto e sulla negoziazione; dall’altro ancora gli aspetti co-evolutivi di un sistema d’intervento protratto nel tempo, e l’importanza che assume la capacità e il potere degli operatori di esplorare i differenti contesti, tenendo conto di numerose variabili (determinanti di salute). Soprattutto il racconto mostra gli interni delle case, le strade e i quartieri, gli spaccati di vita delle persone che, ammalandosi di una malattia grave, possono assumere un ruolo attivo o passivo, interpretando in modi diversi il cambiamento loro richiesto (stili di vita e traiettorie della cura).