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VISTI DAGLI ALTRI FILM CHE HANNO RACCONTATO L’ITALIA 1 I QUADERNI DI MICROCINEMA © 2013 Microcinema s.p.a., Legnano (MI) www.microcinema.eu [email protected] prima edizione 2 I QUADERNI DI MICROCINEMA 6 VISTI DAGLI ALTRI FILM CHE HANNO RACCONTATO L’ITALIA Microcinema, un progetto sostenibile per il cinema digitale italiano 3 4 Prefazione dell’editore Il Bel Paese Con la pubblicazione di questo sesto quaderno Microcinema si propone di affrontare un tema complesso e delicato, anche curioso, che alla fine probabilmente lascerà i nostri lettori con un pizzico di realismo in più, ma anche con un po' di amaro in bocca. L'Italia vista da fuori, vista con gli occhi degli autori stranieri, non è quell'Italia che noi pensiamo. Forse non è proprio vero che noi siamo riconosciuti con quel carattere distintivo in cui noi italiani per primi crediamo e ci adagiamo: italiani, brava gente. Pare proprio, invece, che questo sia solo un modo di dire e di rappresentarci tutto nostro. Infatti il libro, guardando con attenzione alla cinematografia estera sull'Italia, scopre che la nostra immagine in genere non è molto positiva, come noi ci illudiamo e ci raccontiamo, è piuttosto una ineguagliabile fonte di ispirazione. L'Italia, vista con gli occhi dei forestieri che ci guardano, assume spesso le connotazioni ricorrenti dello stereotipo. Sono infiniti i film stranieri che hanno raccontato dell'Italia e di noi italiani e l'autore ha dovuto dipanare una matassa assai intricata per cercare di capire se c'è qualche trama e qualche ordito cui riferirsi con continuità. Ciò che è certo che gli stereotipi appunto la fanno da padroni. L'Italia non è certo l'unico paese europeo per cui valga questa regola. Alla ricerca di luoghi comuni per le più banali e generiche identificazioni identitarie in Spagna possiamo citare le corride, il flamenco e le tapas; in Francia la grandeur sciovinista; in Germania wurstel e karthoffen; nel Regno Unito il rito del the, lo humour, la flemma e la nebbia. E chi più ne ha più ne metta. Resta il fatto che, se ci mettiamo a individuare gli stereotipi del Bel Paese, l'elenco si allunga a dismisura, e non solo perché lo conosciamo meglio e ne viviamo il contesto, ma perché c'è proprio tanto materiale in offerta. Cominciamo proprio dall'espressione Bel Paese, uno stereotipo cosi forte da essere stata individuata addirittura come il nome 5 commerciale di un noto formaggio industriale nostrano, destinato prevalentemente all'esportazione, quasi un brand che segnala e marchia, come sanno i più raffinati cultori dei latticini, non certo il formaggio più squisito del ricchissimo e variegato panorama caseario italiano. Una volta trovata la straordinaria definizione di Bel Paese per identificare l'Italia non resta che l'imbarazzo della scelta per riempire di contenuti la cornice. Quasi obbligatorio l'inizio: Napoli (anche per i suoi ricordi bellici), pizza, mandolino e Pulcinella restano probabilmente al primo posto, anche se è doveroso riferire che la pizza la fa ormai da padrona incontrastata perché il mandolino appare in ribasso e gravissimamente malato Pulcinella. Anche Venezia è d'obbligo, con le sue gondole sempreverdi, non di rado accompagnate da un "posteggiatore" venuto da lontano – lui sì vero Pulcinella – per cantare 'o sole mio oppure Torna a Surriento in quella improbabile simbiosi che sembra affascinare orde di extraeuropei, assorti e concentrati, e si direbbe anche convinti. Roma, il romano e il romanesco, per restare al mondo del cinema, hanno trovato in Alberto Sordi un interprete capace di costruire un nuovo, robusto stereotipo. Il mare, quanto è bello il nostro mare: col suo sole morbido e caldo. Cucina semplice ma buonissima. E pasta, tanta pasta. E vino, tanto vino, sempre più buono. Asinelli e carrettini siciliani. Musica, tanta musica: sia Bel Canto che canzonette. Belle ragazze, brune, sorridenti e formose. Amore con la A maiuscola, sia carnale che romantico, lussuria e dolcezza. Baffi e curve oltraggiose, sempre e ovunque (soprattutto nei sogni degli italiani stessi). Notti lunghe e calde. Feste popolari, balli e danze gioiose. Manifestazioni pie incomprensibili, campane che suonano ovunque, come tanti muezzin di bronzo, e la incombente presenza dell'esecratissimo, ovvero amatissimo, sempre santissimo, Pontefice romano. E, infine, mafia, tanta mafia, sempre più mafia. Su quest'ultimo punto, davvero tragico, due riferimenti sono indispensabili. Il primo: il filone che si è maggiormente affermato nelle nomination agli Oscar e ad altri premi nel mondo è proprio la mafia, un tema con cui abbiamo contribuito in modo tutt'altro che secondario alla cultura dell'ultimo secolo, non esattamente in continuità col nostro rinascimento. Il secondo: non tutti sanno che proprio il termine mafia, per film e libri, è – ahimè – uno delle parole 6 chiave di ricerca sul più grande negozio dedicato che ci sia al mondo: Amazon.com. Ma andiamo avanti con la nostra carrellata. Ancora oggi gli inequivocabili arredi e i fantasiosi addobbi di tanti ristoranti del sud – Napoli ovviamente in testa –, di molti locali fiorentini e toscani, o anche veneziani (insomma quelli delle città più turistiche) ci rimandano ai luoghi immaginari propri di tutti gli stereotipi. Quegli orribili bric-a-brac continuano a voler apparire reali, intendono comunicare a tutti i nostri visitatori più occasionali e meno acculturati (in realtà la grandissima maggioranza) che in verità non di stereotipi si tratta, ma di vera vita quotidiana e di consuetudini tanto perenni quanto tranquillizzanti: l'Italia è proprio così, è sempre e ancora quella in cui trovate, vivo e palpitante, ciò che vi è stato venduto e per cui siete venuti nel Bel Paese. C’è ancora un tema che mi pare d'obbligo: non sono un appassionato di calcio ma una divagazione sull'argomento mi pare indispensabile, perché evidentemente mi sfugge qualcosa. Penso infatti che anche l'illusione e la negazione della realtà siano una parte costitutiva di quegli italiani che amano definirsi sportivi. Sentiamo sempre dire che il nostro è il campionato più bello del mondo ma, solitamente, quando ci misuriamo con le realtà oltre confine, più o meno blasonate che siano, non sempre facciamo delle gran belle figure. Perdiamo spesso ma la ferrea regola delle susseguenti, infinite narrazioni vuole che abbiamo giocato bene, che abbiamo dato il cuore e che siamo pure risultati simpatici. Quello che resta dei tanti stereotipi nostrani è, in estrema sintesi, il sentimento di un ineffabile abbandono alla bella, dolce vita, ad un fluire del tempo disimpegnato, rilassato, non proprio calvinista, quasi inerme di fronte al privilegio stesso, che sotto tanti profili non dobbiamo disconoscere, delle infinite ricchezze naturali, artistiche e umane che ci circondano da tutti i lati. Purtroppo però, e proprio in tema di stereotipi, le cose non vanno un gran che bene perché, così come sappiamo che essi sono duri a morire, non possiamo tenere gli occhi chiusi di fronte ad alcuni arricchimenti recenti, addirittura in corso, del nostro già ricco bagaglio dalle connotazioni decisamente degenerative. Infatti, mentre gli antichi stereotipi che da sempre ci definiscono lentissimamente si vanno appannando, non può non vedersi la tendenza a qualche 7 aggiornamento, che non è – purtroppo – nella direzione migliore. In fondo basta leggere i giornali. Si perché le superfetazioni che si stanno cumulando al modello classico attengono prevalentemente alla politica, al suo mondo, ai suoi personaggi e ai loro contorni, e aggiungono un di più davvero indecente alla già non sempre esaltante base consolidala del nostro macchiettismo. Questa purtroppo è la novità e, perdonatemi la brusca notazione, toccherà solo a noi fare in modo di evitare il suo radicamento. Giudicate comunque voi, leggendo con la giusta leggerezza. Voglio però chiudere questa parentesi non proprio edificante e spendere due parole in difesa almeno di alcuni degli stereotipi classici. Vorrei che, solo per un attimo, mi fosse data licenza di risentire con tutti i sensi e di abbandonarmi a quei profumi, sapori, odori, colori, e anche di rivedere quei caratteri, quelle donne così belle, quei nostri eroi, finti e perduti che siano. Io confesso che, pur con juicio, non vorrei perderne ogni traccia e ogni memoria. E, cercando un riferimento, mi è venuto in mente, quasi d'obbligo, un grande uomo di cinema e un grande cantante, non a caso un figlio di emigranti, l'indimenticabile Dean Martin. Certo un "americano": ma cosa di più italiano di quel contadino arrivato al successo, di quelle cazzuolate di brillantina sopra quel volto segnato, così ironico e sorridente, così virile e ammiccante, persino un po' malavitoso se non proprio mafioso del grande Dean Martin che cantava con la sua calda voce spiegata That’s amore1! Insomma, prendo un attimo di pausa ed esprimo una forma di condivisione, anche perché nella canzone non si parla né di mafia né di politica. Del resto non è necessario: sono demandate entrambe alla grande espressività di una faccia incredibilmente italiana. Poche righe per dare conto di alcune scelte più prettamente editoriali. Il Quaderno è suddiviso in tre sezioni. La prima, Visti dagli altri, film che hanno raccontato l'Italia, sulla storia del cinema che quest'anno è focalizzata sull'Italia vista dal cinema 1 Il testo della canzone è illuminante e - lo confesso - costituisce l'unica bibliografia di questa prefazione. 8 straniero, è stata curata, come lo scorso anno, da Eleonora Belligni del Dipartimento di Storia dell'Università di Torino. La seconda, Il Cinema Ritrovato, che affronta le tematiche legate all'idea centrale del nostro lavoro quotidiano: soddisfare le esigenze del pubblico attraverso il sostegno all'esercizio, alla distribuzione, alla produzione. Un progetto che, malgrado le evoluzioni rese necessarie dai mutamenti del mercato, rimane sempre fedele a tre parole: sostenibilità, flessibilità, interoperabilità. Che convergono in una sola: multiprogrammazione, una via che noi riteniamo indispensabile per la sopravvivenza dell'intero comparto cinematografico ma ancora osteggiata con grande miopia da alcuni settori della filiera. Chiude il libro il consueto, atteso Dizionario essenziale che è stato, come sempre, aggiornato e integrato. Per illustrare questo libro abbiamo scelto, anche per ragioni evidentemente consolatorie, alcune immagini del più grande design italiano, quello che ha avuto gli altari del MoMA di New York, un primato tutto nostro, che ci ha permesso di affermare un'idea dell'Italia molto diversa da quella che, proprio negli stessi anni, si veniva imponendo nella cinematografia internazionale. Anche questo Quaderno viene pubblicato in 7.500 copie, una tiratura di tutto rispetto che significa – ne siamo ancora una volta compiaciuti – che i quaderni di Microcinema hanno pieno titolo per aspirare al rango dei bestseller. Buona lettura e buon cinema a tutti. 9 10 Corradino D’Ascanio per PIAGGIO (Vespa GS 150, 1955) VISTI DAGLI ALTRI, film che hanno raccontato l’Italia di Eleonora Belligni 11 12 Visti dagli altri, film che hanno raccontato l’Italia di Eleonora Belligni Dagli stranieri in Italia all’Italia degli stranieri Scena uno: Venezia. La bellezza. «Metà fiaba e metà trappola»2: così appare Venezia agli occhi dello scrittore Gustav von Aschenbach che, dopo Johann Wolfgang von Goethe, è forse il più famoso dei turisti stranieri in Italia. Creato dalla penna del tedesco Thomas Mann, Gustav è un uomo non più giovane, vedovo, malato di cuore e di una solitudine che, alle soglie della vecchiaia, lo sospinge verso le rive del Mediterraneo alla ricerca di sole, calore, panorami appaganti. La città lagunare è, per l'appunto, piena di lusinghe e di ambiguità e non tarda ad avvolgerlo nella sua «atmosfera corrotta» e nei suoi «sonni voluttuosi». L'artista accantona, in pochi giorni, l'irreprensibilità di una vita intera: riversa così nell'amore per il giovanissimo Tadzio, il rampollo di una famiglia polacca in vacanza al Lido, l'inquietudine e la sete di bellezza che, non a caso, è venuto a placare in Italia. Il cinema ne ha raccontato la storia nella versione del regista Luchino Visconti, trasformando l'esperienza veneziana di Aschenbach – cioè, secondo il romanzo, prima la ricerca smaniosa di un'ideale di perfezione, poi la trasfigurazione nel ridicolo e nel grottesco – in un inno alla malinconia, alle aspirazioni frustrate, ai rimpianti. Un viaggio – si suole pensare – riserva continue sorprese, rivelazioni, illuminazioni. Il professor Gustav von Aschenbach, che ha dedicato l’intera vita all'espressione artistica e alla ricerca del bello, viene sconvolto proprio a Venezia dalla potenza della vita stessa che, nelle forme bellissime di un giovinetto, si trasforma in arte. Nella Laguna affondano i suoi valori borghesi: la calma e la razionalità, il rigore etico e la laboriosità, ma anche il conformismo nei confronti del gusto comune. Tadzio viene dalla Polonia, ma si comporta proprio 2 «Questa era Venezia, la bella lusinghiera e ambigua, la città metà fiaba e metà trappola, nella cui atmosfera corrotta l'arte un tempo si sviluppò rigogliosa, e che suggerì ai musicisti melodie che cullano in sonni voluttuosi» (Thomas Mann, La morte a Venezia). 13 come Venezia, come l'intera Italia: irriverente, ambiguo, diabolicamente innocente. Egli è, prima di tutto, un sogno italiano. Ben più di Thomas Mann, il cineasta Luchino Visconti3 ha voluto, su questo suo aspetto, calcare la mano e l'obiettivo. Compresso nei rigori della buona educazione, intruppato in una famiglia piena di religione, di bei modi, di silenzio, di abiti candidi o marinareschi, il fanciullo Tadzio trasuda tuttavia istinto ferino e desiderio. È come un paese del Mediterraneo visto da una nave di passaggio: mai davvero raggiunto, mai compreso veramente. Si fa ammirare da lontano e respinge, in parte inconsapevole, ogni reale tentativo di approdo. Sfuggente, cangiante, sfocato, da un lato. Seduttivo, intrigante, malizioso, dall'altro. È, al tempo stesso, una tappa e un porto d'approdo. Forse l'immagine più bella del film di Visconti è legata alla spiaggia: il braccio esile del ragazzino – quasi un bimbo, con il costume rosso a righe e la paglia di Firenze – che si aggrappa ai pali dei gazebo del Lido, oscillando in una sinuosa serpentina, quasi un rituale di corteggiamento rivolto all'anziano ammiratore. L'Italia in carne e ossa, quella che i turisti non vedono, si rivela, solo a tratti, nel fruscio deferente dei camerieri d'albergo e nella vitalità chiassosa e proletaria degli inservienti dei Bagni. Ma l'Italia desiderata da Aschenbach sta tutta nel suo sogno pagano: il corpo magro, quasi femmineo di un adolescente polacco, che promette felicità e che continua a prometterla, con lo sguardo all'orizzonte, anche mentre si consuma l'atto finale del suo spasimante, stroncato dal colera. Le mura irregolari di Venezia con il sole; il Lido al tramonto, con i suoi pretenziosi bagni in stile eclettico; le calli nella penombra serotina; lo scintillante, ambiziosissimo Grand Hôtel des Bains; i chiostri fruscianti di lunghe gonne e tonache severe; i canali malinconici, sebbene variopinti. La prosa di Mann scivola senza trovare resistenza nelle descrizioni melanconiche di Visconti. Sono i luoghi attraverso i quali Gustav insegue la sua follia senile, mettendo in scena una personale versione del turismo nelle città d'arte. Intorno 3 Morte a Venezia (1971) regia diLuchino Visconti - da una novella di Thomas Mann. Sceneggitura di Luchino Visconti e Nicola Badalucco - con Dirk Bogarde, Romolo Valli Silvana Mangano. Nomination all'Oscar (1972) e alla Palma d'oro (1971) dove ha vinto il premio del 25° anniversario. Ha vinto circa 20 premi internazionali tra cui 4 al British Academy (BAFTA), 1 al Bodil danese, 1 David di Donatello, il Gran Premio della critica francese, il Golden Globe come miglior film, 6 Nastri d'Argento. 14 ai due protagonisti si affaccendano gli ospiti dell'albergo, i turisti veri: un saggio di quel mondo internazionale e cosmopolita che fa del viaggio – d'istruzione, di svago – il principale ingrediente di un'esistenza vuota. Sono personaggi abbienti, in bilico tra l'aristocrazia e la nuova borghesia: per loro il viaggio in Italia è un passaggio obbligato, quasi una referenza da esibire per conservare o acquisire lo status a cui ambiscono. Nel descrivere questo mondo, lo scrittore tedesco Thomas Mann sapeva di che cosa stesse parlando: lui stesso era stato a Venezia – un turista di trentasei anni, accompagnato dalla consorte – qualche tempo prima di scrivere il libro. Era sceso proprio al Grand Hôtel des Bains. Con sguardo più triste e meno feroce del suo, il cineasta italiano Visconti volle onorare il suo giudizio, senza snaturarlo, su questi gitanti di professione. I compagni di Aschenbach appaiono infatti – nel libro come nel film – il ritratto di un tipo umano ben preciso. Sono viaggiatori particolari, di quella specie che considera valori supremi la buona educazione, il gusto, la civiltà, la creanza. Sperando di trovarne la piena, perfetta realizzazione – di meta turistica in meta turistica – sono approdati nel Bel Paese. Quella che si aspettano, quella che vedono è un'Italia ideale – curiosamente priva degli italiani – che si stende sullo stivale come un'incredibile coperta patchwork: qui la compostezza sublime del Rinascimento si insinua tra le rovine della grandezza romana; qui i moti ottocenteschi dell'amor di patria e delle passioni sbiadiscono nei vezzi e nel lusso della Belle Époque. È un vero pastiche, quello che abita i loro cervelli: un paese inventato, uno spettacolo stereotipato fatto di pagine del Baedeker – la guida turistica più famosa in Europa – mescolati fra di loro con imperizia infantile. A voler credere a Mann, se questi erano i turisti degli anni precedenti alla Grande Guerra, si potrebbe dire che non siano mai cambiati. Superficiali e distratti, ma anche rapaci e onnivori. Così a generazioni di autoctoni sono apparse le generazioni di ospiti in visita: dai bagnanti europei fra le due guerre fino agli immancabili, postmoderni giapponesi, ai russi sanguigni del capitalismo postsovietico, coloro che hanno fatto del fast tour un rituale inquietante. Nessun italiano, nel corso di questi decenni, è riuscito ad astenersi dalla fatidica domanda: che cosa capiranno di tutto ciò che vedono? Come guardano all'Italia, insomma, questi fruitori occasionali, questi stranieri? Troveranno quello che cercano, quello che hanno 15 immaginato nel pianificare lo spostamento, nel riempire una valigia, nello spiegare le carte geografiche? Riusciranno a vedere soltanto la bellezza della natura e dell'arte o intuiranno, nascosti tra le pieghe degli itinerari, i difetti, le cicatrici, le miserie imbarazzanti del Bel Paese? Cercare una risposta nelle immagini lucide e perfette di Luchino Visconti è, forse, inutile: ma è una fatica premiata dalla grandezza del film, dalla tristezza di Dirk Bogarde4 e dalla sfacciata giovinezza di Björn Johan Andrésen5. Scena due: Pompei. L'amore. «Che popolo rumoroso! In questo paese la noia e il rumore si accordano perfettamente». Queste sono le parole che Alex Joyce, infastidito dalla monotonia del paesaggio campano e dallo sfrontato strombazzare degli autisti indigeni, rivolge alla moglie nel momento di sostituirla alla guida della loro auto. Non proprio lo sdolcinato commento che ci si aspetterebbe da una coppia di sposi in visita in Italia per la prima volta. Per la verità, Alex e Katherine non sono esattamente giovani innamorati. Sono, invece, due inglesi di mezza età: benestanti, istruiti, piuttosto sprezzanti, sarcastici l'uno con l'altra e, d'altra parte, non troppo entusiasti di ciò che vedono intorno a loro. I dialoghi conducono rapidamente a una spiegazione: devono raggiungere Pompei per sistemare una questione di successione. I coniugi Joyce hanno ereditato la casa del defunto zio Michael: un individuo la cui eccentricità, agli occhi dei parenti inglesi, consiste soprattutto nell'essersi fermato in Italia dopo la guerra, anziché tornare in patria, in una dimensione più civile e addomesticata. Tra il loro stupore, il fastidio e i pregiudizi, ha inizio il famoso Viaggio in 4 Dirk Bogarde, anglo-olandese, è l’attore-feticcio del grande regista inglese Joseph Losey (Il servo, 1963; Per il re e per la patria, 1964; Modesty Blaise, la bellissima che uccide, 1966; L'incidente, 1967). Alla fine degli anni sessanta egli inizia una proficua collaborazione con il cinema italiano: Luchino Visconti gli assegna il ruolo dello spietato Frederick Bruckmann ne La caduta degli dei (1969) e di Gustav von Aschenbach nel suo capolavoro Morte a Venezia (1971), mentre Liliana Cavani lo vuole nei panni di Max, l'ex militare nazista de Il portiere di notte (1974). 5 Nato a Stoccolma il 26 gennaio del 1955, Andrésen è un attore cinematografico svedese, che divenne famoso in tutto il mondo per il ruolo del quattordicenne Tadzio. Ovviamente, egli trascorse tutta la sua carriera tentando di far dimenticare l'immagine dell'efebo omosessuale con cui ancor oggi viene identificato. 16 Italia6, diretto da Roberto Rossellini nel 1954: un film scarno, crudo ed essenziale, molto amato dall'autore e dai cineasti francesi, poco dal pubblico e dalla critica italiana. Pur privo della dolcissima, sensuale tragicità del viaggio di Gustav von Aschenbach nella Venezia d’inizio Novecento, anche quello di Alex e Katherine Joyce nella Campania del secondo dopoguerra è, a suo modo, angosciante e straniante. La differenza, però, sta nella direzione, nel punto di partenza e in quello di arrivo. Aschenbach scivola dalla rispettabilità verso il degrado, da una vita piena di relazioni e occasioni pubbliche verso una morte solitaria, in pieno oblio. I protagonisti di Rossellini viaggiano, al contrario, dall'oblio verso la vita, dalla noia e dal vuoto alla consapevolezza. Agli inizi, sulla strada per la città partenopea, i due inglesi interpretano alla perfezione una modernissima crisi di coppia, esplicitata dalle prime battute del film: non hanno più nulla da dirsi; sono due estranei a cui il repentino distacco dalla routine – l'improvvisa partenza – ha rivelato una reciproca freddezza che ha radici lontane. Katherine trabocca di contegno, è castigata e ipersensibile: per il suo ruolo fu scelta Ingrid Bergman, approdata sul set di Rossellini grazie a un'esplicita richiesta di collaborazione7. La donna si culla nei ricordi di un vecchio spasimante poeta, seguendone le tracce attraverso frenetici giri turistici a cui il marito si sottrae, indignato e pieno di rabbia. Alex, intanto, si scosta come può da ciò che lo circonda, per nulla disposto a farsi avvolgere dal fascino morboso della città e della costiera, dalle inquietanti vestigia del passato remoto e di quello prossimo, dal fatalismo esibito dei napoletani, dai sentimenti messi in piazza a ogni buona occasione. Il sole, il rumore, le risse da strada, 6 Viaggio in Italia di Roberto Rossellini (1954) con Ingrid Bergman (Katherine Joyce) e George Sanders (Alex Joyce). 7 Ingrid Bergman, già attrice di culto negli Stati Uniti, si presentò a Rossellini mediante una lettera che gli fu fatta recapitare all'Hotel Luna di Amalfi, mentre pranzava con Anna Magnani, la protagonista di alcuni dei suoi film più belli, come Roma città aperta, e suo tormentato amore. La lettera recitava: «Caro signor Rossellini, ho visto i suoi film Roma città aperta e Paisà e li ho apprezzati moltissimo. Se ha bisogno di un’attrice svedese che parla l’inglese molto bene, che non ha dimenticato il tedesco, che si fa quasi capire in francese, e in italiano sa dire solo “ti amo”, sono pronta a venire in Italia per lavorare con lei. Ingrid Bergman». Dopo il film Viaggio in Italia la collaborazione tra attrice e regista continuò, sugellata da una storia d'amore che pose fine a quella con la Magnani. 17 le guide turistiche, i mandolini che suonano le canzoni della tradizione: tutto sembra provocargli un grande fastidio; tutto diventa oggetto di scherno, di humour nero, di sarcasmo. Suo malgrado – nonostante le pretese aristocratiche, cioè – il suo è un bagno un po' funesto negli stereotipi: il cliché di un inglese compassato che mal tollera i cliché che l'Italia e gli italiani sembrano servirgli senza sosta, insieme con il vino e il buon cibo. Nell'affrontare il medesimo viaggio, Katherine sembra avere un atteggiamento diverso. Il suo aspetto e i suoi toni sono quelli di una persona rigida, trattenuta, divorata dal timore e dai pregiudizi. Eppure, esattamente come appare meno rassegnata del compagno alla fine del proprio matrimonio, la signora Joyce è più disposta a lasciarsi avvincere dalla bellezza di ciò che vede. In poche parole, sa reagire con più energia di Alex rispetto a quello che le accade e, lentamente, si fa partecipe del gioco di seduzione che l'Italia e gli italiani sembrano volere esercitare su di lei. Il suo sguardo, man mano, diventa attento, perde l'ironia amara che il marito sfoggia ancora a ogni occasione. Il suo orecchio si tende al languore della musica: l'arte la avvince e la riempie di stupore. I suoi occhi divorano, con secche frasi a commento, le statue del Museo Archeologico, l'antro della sibilla Cumana, il cimitero delle Fontanelle, la solfatara di Pozzuoli. I napoletani la attirano, di tanto in tanto la atterriscono, la scandalizzano. Poche parole conducono i due sposi attraverso una separazione fisica: lei resta a Napoli, lui parte per Capri, per seguire una fallimentare avventura con una bruna connazionale. Le storie – piccoli bozzetti amari, strane cartoline – si snodano attraverso una sceneggiatura lentissima, parca di dialoghi e quasi estraniante, studiata ad arte da Roberto Rossellini e Vitaliano Brancati, che riscrissero un romanzo di Colette8. La colonna sonora tace: un silenzio rotto, ogni tanto, da una romanza struggente, dalla chitarrina di una serenata improvvisa. Il film, dice la critica, fu inteso dall'autore come un omaggio alle bellezze della città partenopea, che nel 1954 portava ancora i segni dello scempio della seconda guerra mondiale. Ma il tributo del grande regista all'Italia non sta solo in una lunga, emozionante visita guidata, scandita da una fotografia pulita, 8 Si tratta del romanzo Duo, pubblicato nel 1934 da Sidonie-Gabrielle Colette, detta semplicemente Colette, la più famosa romanziera francese del XX secolo. 18 quasi cruda, e da sequenze lunghe, immote, piene di silenzi, di rumori di fondo, di crepitii naturali. Attraverso gli occhi scettici, a tratti desolati, di due stranieri in profonda crisi esistenziale Rossellini riesce a riproporre, a futura memoria, l'idea di una terra fertile di nuove partenze, feconda di rinascite, di seconde occasioni. È ancora, in fondo, il credo del neorealismo. Travolta dalla guerra civile, straziata dalla dittatura e dalle bombe, l'Italia risorge in un nuovo fermento di bellezza e di speranza, che sfida la miseria e la disperazione: è la volontà di resistere e continuare a vivere, di beffare la morte, di evitare quella sorte che sembra già scritta sui muri sporchi, nelle rovine dei palazzi, nel silenzio delle campagne desolate. Il talento italiano è qualcosa che fa rabbrividire gli stranieri: un misto di superstizione e d'intelligenza, di fatalismo e di vitalità, che va ben oltre l'arte di arrangiarsi così ammirata oltre confine. L'affetto, la vicinanza e l'empatia diventano, in certi casi, una strategia di sopravvivenza. Una strategia che purtroppo, come dimostra l'intera filmografia di Rossellini, non è sempre vincente ma che, nel caso dei due sposi, s'impone come una specie d’illuminazione: un regalo di quella terra, di quelle persone, delle occasioni che si presentano. La prostituta incontrata per strada – che cerca riconoscimento e conforto, più che clienti e denaro – ammonisce Alex sull'implacabile vanità dell'esistenza, contro la quale nemmeno la giovinezza può nulla. La visita all'ossario pittoresco delle Fontanelle, dove Katherine segue Maria, la sua ospite italiana, apre agli occhi della donna disillusa uno scenario inaspettato: vita e morte sembrano ricongiungersi nella memoria, nella fiducia rispettosa che ciò che è stato (di forte, di bello) possa tornare ancora. Agli scavi di Pompei, i Joyce assistono alla riesumazione di due cadaveri, un uomo e una donna, che la morte ha sorpreso insieme durante l'eruzione del vulcano: una scoperta di tragica dolcezza, che li turba per quel senso di eternità amorosa che sembra suggerire. Passo dopo passo, Alex e Katherine si trovano di fronte uno strano culto, una forma estrema di devozione: quella terra che sembra barbara richiama al dovere di vivere. E quando sembra che il divorzio sia ormai imminente, i due coniugi inglesi vengono separati da una processione che avvolge le strade della città partenopea: la fiumana li divide, se pure per pochi istanti. Mentre si ricongiungono, dopo la paura di essersi persi per sempre, un miracolo tutto italiano ha già dato inizio a una riconciliazione. Ritrovarsi in quel luogo, in quel 19 tempo, ha la forza di una redenzione, di un risveglio dei sentimenti e dell'energia vitale. Alex e Katherine, fuor di melodramma, sono due amanti benedetti dall'Italia cruda e senza veli del neorealismo: un modo nuovo di rappresentare i viaggiatori presi d'amore, stregati dalla magia del Bel Paese, che li pone al riparo dagli stereotipi romantici, dalle immagini oleografiche, dalle banalità del cliché. Scena tre: Napoli. La fratellanza. Viaggio in Italia è un film che conobbe, all'epoca dell'uscita nelle sale, un tiepido successo in patria ma un grande successo internazionale. Tra i connazionali, invece, Rossellini restava il regista che aveva raccontato Napoli attraverso gli occhi di un bambino scaltro e di un adulto ingenuo. Una strana, stranissima coppia: il militare di colore, grande e lento, e lo scugnizzo veloce come un furetto. Poche immagini sono riuscite a eguagliare la tenerezza divertita che fu capace di suscitare negli spettatori dell'epoca l'episodio Napoli di Paisà9. Il film è ancor oggi un vero feticcio per gli amanti del cinema neorealista italiano: venne girato nel 1946, con attori perlopiù non professionisti, per rievocare l'avanzata delle truppe alleate dalla Sicilia al Nord Italia. È costituito da sei episodi ambientati in posti diversi, dal sud al nord dello Stivale, a seguire la marcia degli alleati in una sorta di cinegiornale a tappe, regolarmente scandite da una voce fuori campo. In questo tragico cammino, epico ma asciutto, due realtà s'incontrano e si specchiano: gli stranieri, che sono amici o invasori; gli italiani, che di volta in volta li accolgono, li combattono, li ostacolano, li appoggiano o si fanno liberare. Non sono turisti coloro che risalgono la penisola dalla Sicilia, prima, e poi da Anzio. Il loro sguardo sull'Italia è affannato, desolato, a tratti aggressivo: non ha nulla di romantico. Si tratta, per questi soldati, di un campo di battaglia nel quale respingere il nemico: è l'occasione (forse l'ultima) per ricacciarlo indietro. Non è una visita di piacere, una gita, un'immersione nell'arte e nella bellezza: è un conflitto 9 Il film è forse il capolavoro del neorealismo italiano, alla cui sceneggiatura collaborarono personaggi del calibro del regista Federico Fellini e dello scrittore Vasco Pratolini. Girato da Roberto Rossellini nel 1946, si compone di sei episodi che portano i nomi dei luoghi in cui sono ambientate piccole storie di incontri fra gli alleati e gli italiani, civili e partigiani: Sicilia, Napoli, Roma, Firenze, Appennino Emiliano, Porto Tolle. 20 aspro, la riconquista di un territorio che, forse, deciderà le sorti di tutto il mondo. Agli occhi degli alleati, oltretutto, il terreno dello scontro è ingannevole, poco chiaro, là dove la resistenza ai nazisti si trasforma, almeno in parte, in una guerra civile. È difficile per tutti capire chi sta dalla propria parte. E poi, molto semplicemente, un popolo spaventato e affamato è un popolo che, da un momento all'altro, può convertirsi da amico in nemico: può depredare e tradire anche chi è venuto per liberarlo. Questo si trova a concludere Joe, un soldato americano di colore, dopo aver vagato ubriaco per le rovine di Napoli, tra vicoli zeppi di gente che inventa espedienti per vivere e palazzi scrostati a cui non manca molto per crollare10. Joe, per la verità, ha i pensieri rallentati da tutto l'alcool che ha in corpo e che, in effetti, non fa nulla per nascondere: anche lui, come i palazzi intorno, sta per crollare. Gli scugnizzi, degni eredi dei lazzari di qualche secolo prima, gli si accalcano intorno come teneri, famelici avvoltoi, in attesa di potergli rubare qualcosa che salverebbe la loro giornata, lenirebbe per un po' la fame che li attanaglia da mesi. È così, barcollando e biascicando in un inglese che deve parere ostrogoto ai suoi piccoli spettatori, Joe fa la sua conoscenza con la città miserabile, dove i bambini sono lasciati soli a crescere, a sfamarsi, ad arrangiarsi. Uno di loro, Pascà (il piccolo pescatore Alfonso Bovino)11, vince il diritto di borseggiarlo nella versione scugnizza di una gara d'appalto: tanto che, una volta addormentatosi il suo nuovo amico, non si periterà di rubargli le scarpe e l'armonica. Ma tra la conoscenza e la rapina c'è in mezzo qualcosa di straordinario, su cui il regista ha voluto poggiare il fulcro della storia, in un susseguirsi di scenette rapide, che restituiscono il ritmo giocoso della città: l'incontro tra due realtà agli antipodi, che non parlano la stessa lingua, che non si capiscono, che viaggiano a velocità diverse. 10 Il personaggio di Joe nasce dalla penna dello sceneggiatore hollywoodiano Alfred Hayes, che aveva effettivamente trascorso un periodo nei pressi di Napoli militando nella Quinta Armata del generale Mark Wayne Clark, il «liberatore di Roma». 11 La cittadina di Maiori, sulla costiera Amalfitana, ospitò alcune delle locations per il film, comprese (anche se solo in parte) quelle degli episodi Sicilia e Napoli. Da Maiori fu trovata anche una buona parte degli attori non professionisti che compaiono nel film e, soprattutto, l'eccezionale lazzaro Alfonso Bovino, un bimbo che viveva di espedienti e che si adattò perfettamente al ruolo del ladruncolo. Bovino, dopo il successo ottenuto con il film, tornò alla sua vita consueta e alla pesca, senza mai lasciare il borgo in cui Rossellini lo aveva ingaggiato. 21 I due protagonisti sono differenti per età, per nazione, per stile di vita: oltre che per il tasso alcolemico del loro sangue. Il serio, serissimo Joe fa parte della MP, la polizia militare americana, eppure gira per i vicoli ubriaco fradicio, come la più sprovveduta delle reclute. Pascà è uno scugnizzo la cui voglia di giocare deve fare i conti con la logica della sopravvivenza. L'adulto e il ragazzo si scambiano i ruoli di continuo: è il più piccolo a comportarsi da maturo anfitrione, che porta il suo ospite fanciullesco nel ventre di una città che si divide tra riso e pianto. Le distanze si accorciano, poi si elidono. Questo avviene, in verità, ben prima del furto delle scarpe: al teatrino dei pupi, quando Joe si rende conto che il cattivo della storia è lui, un Saladino qualunque, un «gigantesco Moro», combattuto dai cavalieri cristiani per il colore della pelle12, oltre che per la sua religione. E lui? Per chi sta combattendo quella guerra? Per chi quelli come lui stanno combattendo tutte le guerre? Se "loro" sono comunque destinati ad essere i vinti, i marginali, qual è il senso dello schierarsi, del prendere parte? Lo sa Joe, forse non ancora alla perfezione, che quel ragazzino pulcioso è suo pari: ha perso tutto e non conta nulla, sebbene entrambi figurino tra i vincitori di quella assurda guerra. E così fa per Pascà ciò che si fa per un amico, di più, per un fratello nella disgrazia, nella sconfitta: nel suo inglese sbronzo, che il piccolo non può capire, costruisce un sogno di gloria e glielo regala. Sono in cima a una gigantesca montagna di barattoli di carne in scatola, sono seduti su un mucchio di rovine; ma Joe immagina per loro due un trionfale ritorno a casa, in America: quello che si riserva agli eroi di guerra. Immagina l'aereo, la folla in visibilio, New York in festa, e tutti ad acclamarli, a salutarli come salvatori della patria. Immagina un lussuoso hotel, approntato per il loro arrivo, e un banchetto luculliano, pieno di cibi rassicuranti, come il pollo: quei piatti domestici che potrebbero piacere a due fanciulli proletari, come sono loro. È un sogno tenero e infantile, quello di Joe: la verità, come confessa all'amico un secondo dopo, è che lui non ha voglia di tornare a casa, perché la "casa", home, è una lercia capanna, l'esatto contrario di una fantasia eroica. Pascà intuisce il gioco, a tratti lo segue. Ma è la fisarmonica ad ammaliarlo e ancor più la voce con cui 12 «Non ho paura, perché io sono bianco e tu sei nero» dice il paladino sul palcoscenico, prima che Joe gli si avventi contro per aiutare la marionetta del Moro, provocando una rissa. 22 il grosso soldato di colore lo trascina, infine, in uno spiritual improvvisato. «Nobody knows»: nessuno conosce le mie tribolazioni. Così canta, Joe, e non si riferisce alla guerra: almeno, non solo. E canta, sembra, per tutti e due: per chi si sente fuori posto al mondo, per chi è evidentemente al suo posto in un mucchio di rifiuti, di scatolette vuotate da altri. «Paisà»: l'americano ha guardato l'italiano e lo ha riconosciuto, nella fratellanza che accomuna i diseredati e gli infelici. Eppure, senza tante cerimonie o compiacimenti, mentre il nero si addormenta, il lazzaro gli sfila le calzature e armonica, ciancicando le parole in una specie di monito fatalista: «Joe! Joe!... Si tu ruorme io m'arrobbo 'i scarpe». Tempo dopo, quando l'ormai sobrio MP pesca il ragazzino a rubare della merce da un camion, pretenderà di farsi restituire il maltolto e, soprattutto, di ammonire i genitori di quel ladruncolo male allevato. La sorpresa del soldato è, in qualche modo, annunciata, resa meno melodrammatica da un certo brio da suk, dai mocciosi festanti che lo accolgono con entusiasmo nei sobborghi – misere catapecchie scavate sotto i ponti, i viadotti e le fognature, la Napoli che non sorride – sperando di cavargli qualche soldino. Joe è intenzionato a non farsi prendere in giro da Pascà, ma resta pur sempre una brava, bravissima persona: non credeva, certo, che tutta quella miseria potesse degnamente competere con la sua, quella di un nero americano a cui la patria non ha niente da offrire, se non l'arruolamento e la guerra in un paese straniero. Per quel che gli è dato ora di vedere, gli italiani stanno peggio di lui: il paragone crolla, quel bimbo che non ha più i genitori, che non ha un tetto o un pasto assicurato, ha maturato un sacrosanto diritto di rubargli gli stivali. Agli occhi di Joe, l'Italia si rivela improvvisamente l'esatto contrario del paradiso in terra: nessuna abbondanza, nessuna redenzione, nessuna promessa di felicità futura. Al massimo, con un po' di fortuna, si può trovare un angelo – lacero e ladro – a cui regalare una fantasia di gloria, una canzone da schiavi e un paio di scarpe impolverate. Scena quattro: Elisabeth Street. Le radici. Grande estimatore del neorealismo italiano, il regista italo-americano Martin Scorsese ha voluto rendere omaggio alle proprie origini con 23 un documentario autobiografico di straordinaria capacità evocativa. Il mio viaggio in Italia13 è un film di quattro ore abbondanti, che alterna ricordi e considerazioni dell'autore con spezzoni di celebri pellicole che sono state consegnate alla storia del cinema da qualche generazione: un "amarcord" lunghissimo, che si dipana dentro e fuori di due realtà, quella della memoria e quella della macchina da presa. Le prime immagini richiamano, senza concessioni al patetismo o all'autocompassione, un'infanzia scomoda: quella di un Martin bambino e di una piccina, quasi larvale passione per il cinematografo. Impressionate sulla pellicola 8 millimetri di qualche amatore (il padre Charlie, per lo più), sfilano cartoline in movimento che ritraggono la vita degli emigrati: ormai quelli di seconda generazione, i cui genitori – spesso ancora vivi, come i nonni Scorsese – continuavano tenacemente a parlare il dialetto d'origine. In Elisabeth Street, per esempio, nei primi anni cinquanta la lingua ufficiale era il siciliano: un crogiuolo di inflessioni provinciali che, un giorno, si sarebbero fuse assieme per dar vita, sul grande schermo, al catanese posticcio dei Corleone, il più straordinario gramelot della criminalità organizzata14. Martin giunse ad abitare in quella via poco tempo dopo la sua nascita: era una strada di Little Italy, a Manhattan, nella parte sfortunata di New York. Vi risiedeva allora gran parte della comunità siculo-americana: quella che, come la famiglia Scorsese, non si poteva permettere un alloggio migliore – di solito nei Queens – e doveva accontentarsi di un buco maleodorante in qualche caseggiato affollatissimo. Miriadi rumorose di connazionali, dedite al lavoro a giornata, nell'edilizia, nel piccolo commercio o ad 13 Il mio viaggio in Italia (1999) è un film documentario che si propone di essere un omaggio a quel cinema italiano con cui il cineasta era stato allevato e che lo ha drasticamente influenzato nella sua carriera di regista. Nel 2001 è stato presentato fuori concorso al Festival di Cannes. È stato prodotto, tra gli altri, da Giorgio Armani. 14 I Corleone sono la famiglia mafiosa di italo-americani protagonista della saga Il padrino, di Francis Ford Coppola. Provengono dalla fantasia dello scrittore Mario Puzo, che cooperò con Coppola per trarre dal suo romanzo la sceneggiatura del film. Grazie alla fama dell’opera, i Corleone sono diventati rapidamente una vera icona della cultura italo-americana, cinematografica o meno, tanto da influenzare pesantemente (nei modi, nei costumi, nel linguaggio) non solo i film successivi di argomento mafioso, ma lo stesso mondo della mafia siciliana, che iniziò a trarre ispirazione dai gesti e dalle abitudini rappresentati nella pellicola (la testa di cavallo mozzata, fatta trovare nel letto dei traditori come avvertimento, divenne una pratica mafiosa solo a partire da Il Padrino). 24 allevare bambini, rendevano la vita degli abitanti di Elisabeth Street una sorta di replica, non sempre entusiasmante, della vita in un paese italiano. Ciascuno, tiene a raccontare il grande regista, sviluppava tecniche di sopravvivenza che, in qualche modo, avevano a che fare con l'identità, la memoria, le radici perdute. Per suo padre, come per molti dei suoi connazionali, il cinema non era un semplice intrattenimento, ma una questione identitaria, che serviva a recuperare un filo, sebbene tenue, con quella patria lontana lasciata oltremare. In realtà, tiene a far notare più volte Martin, Luciano (Charles) Scorsese era un cosiddetto film buff: un appassionato, per il quale il cinematografo costituiva la lussuosa dépendance di un'esistenza altrimenti scomoda, priva di fantasia e di eventi degni di nota. Ma, nel documentario, la visione delle pellicole del neorealismo è ricordata come un fatto collettivo, sebbene promosso e incentivato – per ciò che riguardava la famiglia Scorsese – dall'entusiasmo di Charles. Tutta Elisabeth Street si precipitava a godere dei film di Rossellini, di De Sica e Visconti, di Giuseppe De Santis e Marcello Pagliero: una sorta di culto secolare, una seconda Chiesa che veniva approntata, per l'occasione, nel buio rumoroso di una sala di Little Italy. La pellicola 8 millimetri di casa Scorsese restituisce alla storia d'Italia anche quei cittadini d'oltreoceano15: figurette in bianco e nero, vestite a festa e poi congelate in istantanee di gruppo, oppure ritratte in un movimento frenetico, un formicaio fatto di lavoratori, di famiglie, di mocciosi in pantaloni corti, di bancarelle a ogni angolo, tra le quali si aggirava infaticabile nonna Scorsese. Quelle stesse figurette, riprese dalla cinecamera amatoriale, sciamavano al ritmo sincopato della pellicola ad affollare le proiezioni di film strani e 15 L'8 millimetri è un formato cinematografico amatoriale più economico del classico 16 mm, introdotto dalla Kodak nel 1932 (e mai dismesso) per abbattere i costi dei consumatori non professionali. La pellicola vergine era larga 16 mm ma il passo delle perforazioni era la metà della pellicola 16 mm vera e propria. Veniva poi impressionata due volte, sui due lati, ribaltando la bobina. Il laboratorio di sviluppo tagliava il film per tutta la sua lunghezza, così da ottenere un'unica bobina di film 8 mm lunga il doppio. Per questa doppia esposizione, l'otto millimetri fu anche chiamato "doppio 8". All'epoca dei filmini degli Scorsese il formato 8 millimetri venne anche commercializzato in appositi caricatori automatici per particolari cineprese, senza molto successo. Il formato Super 8 (un'evoluzione dell'8 mm) viene oggi adoperato per ottenere immagini di carattere retrò o citazionistico. 25 difficili: quelle produzioni a basso costo, ma di grande impatto politico; veri prodotti intellettuali che, in patria, non richiamavano certo folle di spettatori in visibilio. Era un rituale di recupero delle proprie radici, che non si esauriva nella visione di paesaggi e personaggi italiani: il valore aggiunto, se così si può definire, era stabilito proprio dal contenuto di quei film. Quelle vicende di guerra, sullo schermo, parlavano di bombe, di macerie, di una terra violata, distrutta e invasa, di una guerra fratricida e del ruolo dei partigiani nel liberare l'Italia. Gli alleati avevano dato, è vero, il loro contributo. Ma gli abitanti di Elisabeth Street, spiega Martin Scorsese, non si potevano identificare con i soldati americani: poiché si sentivano ancora italiani, ma al tempo stesso non più come prima, sentivano di non aver partecipato in alcun modo a quella tragedia collettiva. Non avevano combattuto e non avevano fatto la Resistenza: al sicuro nelle loro case (magari non comodissime) avevano lasciato che gli eventi e la brutalità del conflitto straziassero la loro patria d'origine. Un senso di colpa collettivo – quello degli emigranti – veniva messo in scena attraverso le amare pagine della prima stagione del neorealismo italiano: le storie sulla guerra e i partigiani, come Roma città aperta (1945), Paisà (1946), Giorni di gloria (1945), Germania anno zero (1948); le immagini dei poveri e dei diseredati nell'Italia della ricostruzione, come Sciuscià (1946), Ladri di biciclette (1948), La terra trema (1948), Stromboli terra di Dio (1950), Europa '51 (1952); il «neorealismo rosa» di Miracolo a Milano (1951), L'oro di Napoli (1954) e Umberto D (1952)16. Gli italo-americani di Little Italy credevano a quei film come avrebbero creduto ai cinegiornali, senza fare distinzioni. Nel buio e nel fumo delle sale di Elisabeth Street avevano la sensazione di recuperare un'esperienza perduta, di colmare l'omissione di un'assenza: si riempivano gli occhi e le orecchie di quegli orrori, di quelle tristezze, di quelle emozioni 16 I registi che compaiono nel film di Scorsese sono: Alessandro Blasetti, Giovanni Pastrone, Vittorio De Sica, Luchino Visconti (con Giuseppe De Santis e Marcello Pagliero in Giorni di gloria, 1945), Roberto Rossellini, Federico Fellini, Michelangelo Antonioni. I loro film più famosi sono quelli di cui Scorsese mostra abbondanti stralci. Tra i loro film non appartenenti al neorealismo "puro" (o comunque a quello legato alle storie della Seconda Guerra Mondiale) sono mostrati dal regista Fabiola (1948); La corona di ferro (1941); Francesco, giullare di Dio (1950); Ossessione (1943); Senso (1954); I vitelloni (1953); La dolce vita (1960); Viaggio in Italia (1954); L'avventura (1960); L'eclisse (1962); 8½ (1963). 26 agrodolci, perché quello sembrava l'unico modo di pagare il debito con la terra natia. Non esserci stati: un sentimento di vergogna che è difficile da capire per chi sa, guardando alla storia tragica dell'emigrazione italiana, che quei poveri siciliani erano stati costretti ad andarsene per fuggire alla fame e per garantire alle proprie famiglie un futuro qualunque e anche per chi considera che, con le loro rimesse, essi stavano già pagando, in patria, un pezzo della ricostruzione post-bellica. In Italia poche opere neorealiste divennero popolari presso il pubblico, che preferiva i film americani, più divertenti e meno intellettuali. E tuttavia Scorsese non ha dubbi: il neorealismo era la catarsi degli italo-americani a New York, il riscatto dall'aver commesso – così credevano – un peccato di abbandono, di viltà fedifraga, di tradimento degli affetti, della terra natia, dei parenti lontani. È difficile pensare a qualcosa di più intensamente pedagogico di quelle proiezioni partecipate, zeppe di un pubblico sbigottito e commosso, che imparava a riconoscere gli attori, i luoghi, le battute dei film. All'epoca, il sottosegretario italiano allo spettacolo, un giovane Giulio Andreotti, si diceva preoccupato che il cinema di questi autori squalificasse il Bel Paese, presentandolo agli occhi degli spettatori stranieri come una terra di straccioni, priva di speranze di rinascita economica e politica17. Eppure le opere di Rossellini, di De Sica e di 17 Giulio Andreotti si preoccupò di arginare l'avanzata dei film americani, ma anche di porre un freno all'attività di denuncia dei registi neorealisti. La cosiddetta "legge Andreotti" del 1949 intervenne pesantemente a regolare il panorama cinematografico italiano: impose un limite alle importazioni e quote sulla diffusione degli schermi per le proiezioni ma, al contempo, stabilì una politica di prestiti per favorire le case di produzione. Una commissione statale fu istituita per approvare le sceneggiature delle produzioni che facevano richiesta di tali prestiti. Essa lavorò come un vero organo censorio: di solito venivano premiati film considerati innocui dal punto di vista politico ed era addirittura negata la licenza di esportazione se si riteneva che la pellicola «diffamasse l'Italia» (così si diceva). Questa censura preventiva incentivò l'abbandono del neorealismo della prima stagione (1944-1948) e lo traghettò verso una forma più regionalista e pittoresca; oppure verso la fantasia allegorica (Miracolo a Milano di De Sica, 1950; La macchina ammazzacattivi di Rossellini, 1948) o verso il cinema storico (Senso di Visconti, 1954); o, ancora, verso il cosiddetto "neorealismo rosa", che ritraeva la classe operaia in ambientazioni tipiche della commedia populista degli anni trenta. Ma i guai non finirono con il mutamento di registro: Umberto D di De Sica e Zavattini (1951), il racconto della vita mortificante e sola di un pensionato, fu visto dai funzionari statali come l'emblema del 27 Visconti (ma perfino quello eretico di Alessandro Blasetti, considerato un neorealista ante-litteram) insegnavano ai migranti ad amare tenacemente (e teneramente) le proprie radici. Di questo, perlomeno, si dice convinto Martin Scorsese, le cui origini italiane – una famiglia che, indietro negli anni venti, si chiamava ancora Scozzese e viveva nelle Madonie – hanno pesantemente influenzato il suo sguardo cinematografico sull'America, rendendolo ampio, fecondo, complesso. Scena cinque: il set. L'Italia e gli italiani. L'Italia narrata dagli italiani. È un racconto che sembra ancor più vero e avvincente nei film di coloro che – come Visconti, come Rossellini – mettono in scena gli stranieri che guardano l'Italia. Abbiamo ripercorso le avventure italiane del manierato e severo Gustav Aschenbach; di Katherine Joyce, inibita e amareggiata; del dolce, vitalissimo Joe. Sono personaggi che, per molte ragioni, avvicinano il Bel Paese carichi di frustrazioni e rimpianti di ogni genere, ma anche di un corredo notevole di pregiudizi, positivi o negativi, sull'esperienza che stanno per vivere. Una vacanza, un lascito, una guerra, la povertà: qualunque sia il motivo per cui hanno lasciato la propria terra, il contatto con la nuova situazione li rende persone diverse. Non più felici, forse, ma più consapevoli. L'Aschenbach di Visconti affida le ultime illusioni di giovinezza al panorama del Lido, mentre tinta e belletto gli colano dalla fronte in una maschera di morte. A Pompei, Katherine deve affrontare la violenza indifferente e superstiziosa di una processione per arrivare a capire ciò che, tutto sommato, resta importante per lei. Il soldato Joe – che si crede un antieroe, uno straniero anche in casa propria – impara a riconoscere l'ultima frontiera della miseria e dell'abbandono negli occhi di colui che, fin da subito, ha chiamato «paisà», brother. Sono tutti «paisà», fratelli a tempo determinato, disposti per un breve momento ad abbattere le frontiere dello stereotipo, a lasciarsi conquistare dalla terra di conquista per eccellenza: l'Italia. disfattismo. In una lettera aperta a Vittorio De Sica, Giulio Andreotti lo accusò di avere reso un «pessimo servizio alla Patria» e alla sua «legislazione sociale progressista». 28 Questo libro parte, tuttavia, dalla prospettiva opposta. Non racconta come i nostri cineasti abbiano descritto il contatto tra gli stranieri e il Bel Paese; bensì come l'Italia e gli italiani siano stati rappresentati dal cinema straniero. L'Italia narrata da fuori e non da dentro i confini; oppure quella immaginata da chi, emigrato all'estero come Scorsese, osserva la patria da lontano. Il materiale filmico è lo stesso: la medesima gente e le stesse ambientazioni. Ma lo sguardo degli altri è del tutto diverso dal nostro. I film che vengono da lontano non ci vedono come ci vediamo noi. È evidente che i loro autori non guardano attraverso le stesse lenti, non usano lo stesso obiettivo. Altre Italie, drammaticamente diverse. La prima – per vicinanza – è quella guardata con gli occhi nostalgici e amari di quegli italiani che l'hanno lasciata e che, toccati dalla magia della macchina da presa, si aggrappano tenacemente alla memoria della patria e dei connazionali. Si tratta di una cinematografia che ha le sue colonne portanti nell'arte della memoria e nell'antropologia; che si pone alla ricerca di quei tratti culturali e di costume – verosimili, ma spesso immaginati – in cui ogni emigrante di origini italiane potrebbe, volendo, riconoscersi. Sono film che disegnano un retroterra ben preciso, un'identità concreta, reale, che si oppone alla forza cannibale della nuova cittadinanza, quella acquisita con la traversata dell'Atlantico e con grandi sacrifici e umiliazioni. È il cinema degli ibridi, di coloro che hanno due patrie e che, almeno in parte, resistono all'assimilazione: una realtà magnificamente rispecchiata da un gruppo di cineasti statunitensi – registi come Francis Ford Coppola, Vincent Minnelli e Michael Cimino, attori come Robert De Niro e Al Pacino – che, come è reso evidente dal cognome, vantano origini nostrane. Ma tra loro spicca Martin, ex rampollo straccione degli ScozzeseScorsese, immigrato di seconda generazione a New York. Martin che esordisce come un vero turista da cinematografo, che fin da piccino si costruisce solide radici di celluloide e impara a fissarle in 8 millimetri. Martin che meglio di tutti i suoi colleghi ha saputo raccontare il disagio dei nuovi americani. Fin dai suoi primi film, Scorsese è diventato un'icona della filmografia italo-americana, proprio grazie a questa sua capacità di trattare sotto diversi aspetti – spesso quelli meno gradevoli – le conseguenze dell'emigrazione: quei molteplici fattori che non consentono agli stranieri di integrarsi 29 davvero; ma nemmeno, a ben vedere, di godersi la vita come membri appagati di una comunità marginale. Dalle sue ambientazioni e dai suoi personaggi trapela una sensibilità diversa da quella della famiglia mafiosa Corleone di Francis Ford Coppola, che perlopiù si mostra soddisfatta e fiera di appartenere a una tradizione di minoranza, sebbene criminale. La seconda è l’Italia descritta dai cineasti di altri paesi. Guardarsi attraverso gli occhi degli altri – anzi, nell'occhio di una macchina da presa straniera – è sempre un sollazzo impagabile. Per lo spettatore italiano è una visione interessante, spesso divertente: proprio perché trova riflessi i propri caratteri nazionali (che esistano) in maniera prevedibile o impropria, oppure perché si riconosce nella messa in scena paradossale di pregi e difetti comuni. Si tratta, in realtà, di un gioco di specchi pressoché millenario, vecchio quanto la letteratura di viaggio e quanto le descrizioni di altri luoghi, altre persone, altri costumi: un materiale stuzzicante con cui gli stranieri, dopo aver visitato posti lontani, tornavano a deliziare o sconcertare i propri concittadini. Con buona pace di Dante, Petrarca, Machiavelli e le altre stelle della nostra letteratura volgare, lamentarsi dell'Italia non è stata, nei secoli, prerogativa dei soli indigeni; ma nemmeno lo è stata, ovviamente, lodarne le bellezze, il fervore, l'ospitalità, il genio artistico e le sorprendenti fioriture culturali, di stagione in stagione. Tutti ci amano, tutti ci deridono. L'invenzione dei fratelli Lumière, il cinematografo, ha reso questo secolare gioco di specchi – tra italiani e stranieri che guardano all'Italia – un esercizio ancor più fecondo, talvolta più inquietante. Le immagini in movimento hanno contribuito a far circolare giudizi e pregiudizi sul nostro paese, talvolta con il risultato di legittimarli, talvolta con quello di scalzarli e volgerli in ridicolo. L'Italia e gli italiani ritratti dal cinema straniero: questo è il tema delle pagine che seguono. È un viaggio anch'esso, spesso condotto attraverso un viluppo inestricabile di stereotipi, in cui – ogni tanto – si trovano celati spunti e intuizioni non convenzionali. I soggetti e le sceneggiature, va da sé, coprono un numero abbastanza esiguo di temi possibili che riguardano, direttamente o meno, il Bel Paese e i suoi abitanti. Il paesaggio, l’arte, la mafia, il crimine, la guerra e gli stereotipi nazionali: di queste varianti tematiche si darà conto, non sempre separatamente, nei capitoli che seguono. 30 Il nostro viaggio inizia alla ricerca dell'Eden. Il primo capitolo è dedicato a quei registi che, alla pari degli italianissimi Visconti e Rossellini, ritraggono avventure di stranieri in Italia, trattando il Bel Paese come una specie di location magica, un ambiente ricco d'intenti e di potenzialità taumaturgiche: anzitutto, quella di indurre i visitatori a guardarsi dentro, a cogliere i propri desideri profondi e le proprie aspettative e, possibilmente, a realizzarle. L'amore, il riscatto, il desiderio: ogni possibile pulsione, ogni ragione alla base di un lungo viaggio in Italia ha trovato una collocazione nei film più memorabili. L'itinerario prosegue sulla scia delle Muse. Il secondo capitolo racconta del cinema che si appella al passato glorioso della nostra penisola: magari allo scopo di eternare i grandi nomi dell'arte, della musica; oppure per rappresentare quei personaggi che provengono dall'immaginario italiano, artistico o letterario; o per ricordare coloro che il suolo italiano ha accolto, per qualche ragione, tra le sue braccia generose. I nostri Rinascimenti, le molte epoche di grande fervore culturale, hanno entusiasmato e ispirato gli stranieri: mentre, con l’eccezione di Rossellini e pochi altri, i registi italiani si sono perlopiù astenuti dalla celebrazione della cultura straniera. I due capitoli successivi, il terzo e il quarto, prendono in considerazione quei film stranieri che ritraggono un particolare tipo di italiano: quello impegnato nel ramo della criminalità, semplice o organizzata. La mafia da una parte, i "colpi" dall'altra: si parla di un nutritissimo gruppo di pellicole. Indubbiamente, questa prosperità del ramo significa che possiamo vantare una certa reputazione: magari ampiamente meritata ma non precisamente lusinghiera. Ovviamente, i cineasti stranieri solo in parte sono responsabili dei cliché che ci riguardano. Forse è un'eredità del Rinascimento, già presente nel sarcasmo di Dante Alighieri o nel realismo disincantato di Machiavelli: quella che vuole gli italiani bravissimi a ingannare, truffare, rubare, depredare, taccheggiare, borseggiare, ricattare, randellare e, volendo, sgozzare, strangolare, avvelenare. Di quando in quando, la letteratura menziona qualche estemporaneo abigeato, furto di mucche o di cavalli. Se si aggiungono all’album di famiglia poche altre pennellate, come la propensione alla delazione e alla fellonia, non ci si può stupire se Cimino con suoi cattivissimi Corleone sia considerato, nel mondo, colui che più di ogni altro ha saputo capire gli italiani e le loro manifestazioni culturali. 31 E, di pessimismo in pessimismo, nel quinto capitolo il turismo deve lasciare il posto a un vagabondare ben più amaro: quello che, nell'opera dei cineasti stranieri, ha ritratto l'Italia che gli italiani vorrebbero dimenticarsi, quella che ha inflitto e subito guerre e stragi, che ha infierito su popolazioni inermi o che, al contrario, ha fornito ai nemici carne da macello. Oppure – dopo la tragedia, la farsa – l'Italia delle derive politiche e impolitiche (o antipolitiche) dell'ultimo ventennio: quella che il mondo intero ha deriso, scandalizzandosi (ma anche divertendosi) alle invenzioni di una classe dirigente cialtronesca e imbonitrice, a quello strano, grottesco approccio al bene pubblico di personaggi che paiono usciti dalle mani di un ferocissimo Fellini. Gli stranieri sono spettatori lontani, magari ipocriti o non privi essi stessi di colpe politiche, ma che hanno spesso avuto il merito di farci specchiare ben oltre l’apparenza. Il viaggio prosegue poi, più amenamente, alla caccia dei luoghi comuni che più scopertamente alimentano la maggior parte delle pellicole. Il sesto capitolo è dedicato ai film che ritraggono l'italiano nell'esercizio di tutti i possibili stereotipi che il tempo e le memorie altrui hanno depositato nell'immaginario artistico: quelli che lo immortalano nei suoi ben noti vizi (la gelosia, l'infedeltà, la frivolezza), nelle supposte virtù (l'allegria, l'empatia, la generosità), nella propensione al crimine (ancora), alla musica e all'ars amatoria, nelle sue occupazioni preferite, tra cui il cibo, la moda, il bel canto e le mandolinate. Magari li troveremo stucchevoli e ripetitivi, questi caratteri che ci vengono attribuiti; ma talvolta è davvero difficile non sorriderne, non esserne rapiti e commossi quando li vediamo prendere forma e senso nelle mani di un grande regista, tra le linee di una bella sceneggiatura, nel dipanarsi di una trama appassionante, sui volti di attori che sanno fare il loro mestiere. Essere presi in giro al cinema e goderne non è affatto masochismo, quanto una forma di sottile, inconfessabile narcisismo. Le pagine che seguono non hanno tenuto conto di una quantità innumerevole di film stranieri dedicati all'Italia. L'universo di riferimento è sostanzialmente Hollywood e la cinematografia europea, mentre è scarsamente rappresentata quella di area slavofona (che pure ha prodotto, soprattutto nelle zone confinanti con il nord-est, diversi film sugli italiani). La ragione non è tanto 32 l'ignoranza del fenomeno, quanto la difficile reperibilità del materiale filmico. La categoria prescelta in questo libro è quella della fiction. Sono stati volutamente tralasciati prodotti cinematografici di confine che rimandano anche se non direttamente al genere del documentario: quelli, nella fattispecie, che la critica recente ha classificato come docufiction, etnofiction, "mockumentari" (documentari parodistici e grotteschi) e pseudo-documentari. Ce ne sono molti, tra quelli realizzati da cineasti stranieri, che parlano dell'Italia: diversi, per esempio, dedicati alla criminalità organizzata, soprattutto a 'Ndrangheta e Camorra. In molti casi, uno dei problemi che questi prodotti presentano è, ancora una volta, la difficoltà di accesso nel mercato italiano. Ma anche il loro statuto ibrido – una realtà (vera o presunta) piegata all'espressione artistica – rende difficile l'analisi e la conduce ben oltre gli scopi del testo. Sono state poi tralasciate due grandi categorie filmiche: i film d'animazione e le serie televisive. La vastità della produzione, ancora una volta, avrebbe complicato il quadro, rendendolo troppo esteso per poter essere osservato da vicino. In secondo luogo, bisogna considerare che il loro linguaggio è spesso diversissimo da quello della tradizionale fiction. È un fatto, tuttavia, che l'Italia vi venga spesso menzionata. Nei cartoni animati, almeno nei più famosi, l'italiano compare di solito come una rapida macchietta, immerso nelle sue virtù nazionali e nei suoi vizi; nelle seconde, capita che gli italiani giochino un ruolo ben più incisivo, come nel caso dei famosissimi Sopranos, la famiglia di origini nostrane forse più nota ai telespettatori occidentali. In attesa che le serie vengano rappresentate al cinema o che l'ultimo cinema scompaia, è opportuno tuttavia che esse vengano trattate come un prodotto filmico di natura completamente diversa dalle fiction. Ci sono poi dei film che meritavano di essere inseriti per diverse ragioni: per esempio per l'ambientazione italiana. Un esempio è L'urlo di Chen terrorizza anche l'occidente (The Way of the Dragon), un film del 1972 diretto da Bruce Lee, che lo interpreta assieme al neo attore Chuck Norris. È noto per essere il primo film di Kung-Fu a essere stato girato in un paese non asiatico: è infatti ambientato nella Roma del Colosseo e dei ristoranti cinesi. Nonostante questo primato, il film di Lee è stato qui giubilato insieme a molti altri, che oggi forse la critica rivaluterebbe come prodotti vintage o addirittura 33 opere autoriali. Chi scrive è conscia di aver operato una selezione crudele, che lascia fuori questa e molte altre pellicole, per dare spazio ad altre forse altrettanto brutte e forse ancora peggio scritte e recitate. Ma, mi si lasci dire, L'urlo di Chen ha terrorizzato anche me. Non posso che ringraziare anzitutto Roberto Kriscak, instancabile pusher di film e idee. Ringrazio, in ordine alfabetico, anche tutti coloro che mi hanno dato suggerimenti e informazioni o che hanno collaborato in qualche forma alla stesura: Pietro Adamo, Silvano Belligni, Rocco Femia, Lorenzo Gaglianò, Pietro Kobau, Danilo Siragusa. 34 Alfonso Bialetti per BIALETTI INDUSTRIE (moka per caffè, 1933) 35 36 Verso l’Eden «E così s’intraprende un viaggio di gruppo in Italia, si sta seduti in pullman e si suda con persone comuni, come vuole la dura legge della pubblicità nei prospetti, nei manifesti e nelle inserzioni. Inizialmente ci si urta un po’ e si pensa che tutti gli altri, a parte noi stessi, siano un po’ strani». (Konrad Wolf in Viaggio in Italia, amore incluso di Wolfgang Becker) Viaggio in Italia. L'inglese George Sanders, attore e caratterista di lungo corso nei noir e nei gialli hollywoodiani, regalò al regista Roberto Rossellini un fondamentale contributo al suo celebre Viaggio in Italia. Le prime scene del film si aprono con la più convincente espressione di disappunto dell’intera storia del cinema drammatico: quella che, prosaicamente, si direbbe una faccia schifata. Schifata dell'Italia. Alex Joyce, il personaggio di Sanders, è graniticamente convinto che l’Italia e gli italiani siano i peggiori amici di se stessi. Sregolatezza, disordine e un inutile rumore accolgono i turisti, a suo dire, nel Bel Paese. In barba al parere di tutto il mondo, ciò che vede gli fa orrore. Il suo, almeno nella fase iniziale, sembra essere un viaggio alla scoperta del caos, dell’irrazionale, di tutto ciò che rende la vita difficile e sgradevole. Un caos noioso, oltretutto, vuoto di stimoli e di contenuti di qualche interesse: per questo, come Alex fa notare alla moglie Katherine, «in questo paese si dorme benissimo». George Sanders non aveva ragioni per disprezzare l’Italia degli anni cinquanta, in cui lavorava per la prima volta a fianco di un grande regista. Il suo era un ingaggio di tutto rispetto. Ma mister Joyce, che egli interpretò per Rossellini, ha invece un buon motivo: la voglia di distruggere il mito glorioso del paese mediterraneo e della sua bellezza, di contraddire l’immagine di un popolo allegro, energico, pieno d'iniziativa e di voglia di vivere. Il paesaggio diventa piatto, monotono, grigio; la gente vuota, superstiziosa, inconcludente e inutilmente chiassosa. Certo, il gentiluomo inglese è indispettito dalla mezza età e dalla fine del proprio matrimonio. I suoi bersagli, però, 37 non sono casuali: sono scelti, al contrario, con estrema cura. Per secoli, quegli stessi elementi che Alex volge in grottesco, canzonandoli con il suo sarcasmo così a modo, hanno costituito la base di un immaginario solido, che ha condotto generazioni di stranieri a volere visitare lo stivale, varcando le Alpi o raggiungendo dal mare le coste peninsulari. Allo stesso modo, il viaggio in Italia è stato, fin dagli esordi della macchina da presa, un elemento narrativo ricorrente, su cui molte trame sono state concepite e realizzate. È un'idea fondata sul mito plurisecolare di un luogo eccezionale, eppure pieno di contraddizioni feconde, che lo rendono cinematograficamente appetibile. Le luci e le ombre di un gigantesco, gravoso passato e mille pittoreschi contrasti hanno stimolato senza sosta la fantasia dei cineasti novecenteschi. Un paese consegnato a una storia eroica e difficile, che ha conosciuto fasi di grandezza e periodi di crisi e decadenza, tra imperi secolari e religioni millenarie. Un popolo conquistatore e conquistato, protagonista di molte cadute e molti rinascimenti, capace d'ingegno politico tanto quanto di sottomissione ovina. Un panorama fatto di scenari per il cinemascope – di mare e montagne e campagne fertili – benedetto dalla dolcezza del clima, dalla luce tersa e dalla vegetazione, che conserva come uno scrigno vivente le rovine sovrapposte di millenni di storia civile e militare. Le tracce onnipresenti del progresso dell'arte, della scienza, della tecnica e dal genio umano: meraviglie fiorite, a getto continuo, non solo in seno alla prosperità, ma anche alle miserie e alle guerre, alla devastazione e all'ignoranza. Una millenaria tradizione di eccellenza nei sentimenti e nell'arte amatoria, che va di pari passo con l'attitudine ai vizi, alla sfrenatezza, alla corruzione: elementi su cui già i Romani, i nostri illustri antenati, fondavano buona parte della vita pubblica e privata. Non proprio un Paese della Cuccagna; non certo un mitico El Dorado, nella sua domestica versione europea: accanto all'oro, di frequente, è la feccia a celebrare i suoi fasti. Un posto autentico, piuttosto, che promette emozioni e colpi di scena, da cui gli spettatori del grande schermo hanno tratto per decenni una fonte continua di stimoli, di curiosità, di attrazione: cultura, religione, politica, passioni o semplice sollazzo, legato al sole, al vino e alla gradevolezza degli indigeni. Il viaggio in Italia – quello vero, fatto di polvere e itinerari – ha radici lontanissime, che hanno fornito spunti a ogni singola parte del mito cinematografico che gli corrisponde. Dal Medioevo, epoca di grande 38 mobilità, si riversarono sulle strade italiane orde di pellegrini, frati e predicatori, mercanti, artisti e studiosi, oltre a schiere di banditi e avventurieri d'ogni risma. Sebbene si tratti di una scanzonata parodia, il lungo itinerario di Brancaleone da Norcia verso le Puglie 18 rappresenta con una certa verisimiglianza tutto quello che immaginiamo di questo vagare lontano nel tempo. Molti dei visitatori erano diretti a Roma. La città del successore di Pietro restava l'attrazione principale, soprattutto come succursale della Terra Santa per tutti gli "affari" di natura penitenziale: quel mercato di reliquie e indulgenze che il cinema internazionale continua a ritrarre nei film storici a riprova della simonia nostrana, progenitrice dei traffici mafiosi dei Corleone19. Per tutta la prima età moderna, la capitale restò una tappa fondamentale per molti viaggiatori, soprattutto, nel XV e XVI secolo, nella formula inedita del viaggio laico ed erudito. A Roma si aggiunsero Milano, Venezia, Firenze, e anche Bologna, che avevano comunque goduto per secoli della presenza di studenti e mercanti. Il mito del Bel Paese si consolidò ulteriormente con l'istituzione del Grand Tour20. Gli stranieri si aspettavano un museo all'aperto, carico di bellezze paesaggistiche, opere d'arte, siti archeologici, ma anche 18 Si tratta del famoso film di Mario Monicelli, L'armata Brancaleone (Italia, Cecchi Gori, 1966) in cui Vittorio Gassman, nei panni di un nobile spiantato dell'XI secolo, conduce uno sgangherato gruppo di compagni in un viaggio attraverso lo Stivale, per prendere possesso del feudo di Aurocastro nelle Puglie, misteriosamente attribuitogli da una bolla imperiale. 19 I Corleone sono la famiglia mafiosa protagonista della trilogia de Il padrino (The Godfather), di Francis Ford Coppola, con Marlon Brando e Al Pacino. Grazie al successo del film, sono assurti a simbolo internazionale della criminalità italiana nel mondo: un modello per gli stessi mafiosi. 20 Diffuso a partire dal XVII secolo, il Grand Tour era un lungo viaggio nell’Europa continentale, destinato ai giovani ricchi e aristocratici d'Europa che viaggiavano per perfezionare il loro sapere. Era un grande giro": partenza e arrivo erano collocati in una medesima città e il peregrinare poteva durare da pochi mesi fino a diversi anni. La destinazione finale era l'Italia, più raramente la Grecia.L’espressione Grand Tour comparve forse per la prima volta sulla guida The Voyage of Italy, scritta da Richard Lassels e edita nel 1670. Il successo del libro Coryat's Crudities di Thomas Coryat diede l'avvio alla mania per Grand Tour. Anche Johann Wolfgang von Goethe dal 1786 al 1788 effettuò il suo Grand Tour in Italia, di cui scrisse nel suo Viaggio in Italia. 39 originali esibizioni di vita politica; in cui ancora si manifestava l'eredità del Rinascimento nelle biblioteche e nei monumenti, e si rinnovavano pratiche teatrali e musicali di grande tradizione. In patria si tornava colti, ricreati, saggi, dopo avere immagazzinato per il resto della vita quel caldo sole mediterraneo che alimentava il desiderio di molti popoli del nord. Questo, almeno, era l'auspicio dei touristes. Fuori dal mito, l'Italia reale poteva riservare qualche piccola sorpresa. Le condizioni di vita apparivano spesso in contrasto con le rappresentazioni e le aspettative. La povertà delle campagne, la fatiscenza delle città e dei porti commerciali, una cultura paludata e stantia, istituzioni politiche tra le meno avanzate in Europa e, soprattutto per i protestanti, la presenza ingombrante della Chiesa di Roma, un’istituzione corrotta che monopolizzava buona parte della vita pubblica dei vari Stati italiani. Nei resoconti dei viaggiatori trapelano sentimenti di sdegno, e gli italiani iniziano ad apparire gli scellerati custodi di uno scrigno di unica bellezza: un'immagine persistente, destinata a trovare favore nella tradizione cinematografica. Ciò nonostante, l'Italia continuò a essere per tutta Europa una moda adescatrice di proseliti tra i ceti più abbienti, per il suo fascino culturale e mondano al tempo stesso. Nel corso del Settecento, ai vecchi motivi per visitarla si aggiunsero altre attrazioni destinate a imprimersi nell’immaginario prima ancora che sulla pellicola cinematografica: la campagna toscana, la gran cerchia delle Alpi, il tepore della riviera in inverno, il carnevale veneziano, le sfarzose feste della nobiltà romana, l'opera e i teatri. Sono contesti di intrattenimento che, da soli, basterebbero a coprire l'intera varietà di location di tutti i film di James Bond. Nel Seicento, le nuove straordinarie scoperte archeologiche di Ercolano (1738) e Pompei (1748) ampliarono ulteriormente gli itinerari italiani. Arrivarono le prime straniere, anticipando le grandi viaggiatrici di epoca romantica e le segretarie americane in cerca di marito, tanto care a Hollywood. Dopo il Congresso di Vienna, l'Italia romantica diventò oggetto di una nuova mitologia, mentre il tour mutava nei ritmi, nei valori, negli obiettivi. L'evasione e il diporto presero a poco a poco il sopravvento sulle aspirazioni culturali. Il viaggio, un tempo esperienza marcatamente individuale, iniziò a conformarsi alle indicazioni delle guide turistiche. La guida diventò il nuovo strumento del viaggiatore, come lo era l'organizzatore di viaggi, la figura professionale inventata 40 da Thomas Cook: le esigenze di natura economica, più che quelle culturali, dettavano ora gli itinerari nella maggior parte dei casi. Dalla metà dell'Ottocento la nuova viabilità ferroviaria surclassò l'uso della carrozza e diede impulso alla nascita di un turismo organizzato se non ancora di massa. Gli obiettivi erano più accessibili, più popolari e rozzi di quelli dei pretenziosi, facoltosi, acculturati grand touristes dei secoli precedenti: Camera con vista, di James Ivory, è forse la migliore parodia di questo nuovo modo di visitare l'Italia, sotto la capricciosa volontà della guida Baedecker. Nel Novecento, il turismo aristocratico in Italia si affiancò a quello delle classi popolari, ora economicamente più autonome, con ferie pagate e tempo libero a disposizione. Il loro accesso alla vacanza trasformò ulteriormente la natura dell'ospitalità italiana, che abbandonò buona parte della sua tradizione elitaria per convertirsi al soggiorno di massa con una certa sfacciata rapidità. I tedeschi e gli inglesi, spronati dal boom economico degli anni sessanta, si riversarono a milioni sulle spiagge e sulle località sciistiche, con minori pretese dei loro antenati, ma sempre alla ricerca di sole, bellezza, intrattenimento e, soprattutto, di buon vino e di buon cibo. L’industria turistica cominciò il suo lungo ciclo. Lo Stato liberale, poi quello fascista, poi quello repubblicano si preoccuparono di migliorare l'accessibilità e le strutture di accoglienza. Un vero miracolo si realizzò in pochi anni: l'Italia diventava un sogno facile ed economico da raggiungere per gli stranieri, anche per gli americani. Il cinema internazionale registrò questo cambiamento, almeno a partire dagli anni cinquanta, quando le «vacanze romane» vennero proposte come un paradigma popolare. È il rovescio moderno delle antiche fiabe che permette l'immedesimazione: l'avventura di Audrey Hepburn suggerisce come, nel Bel Paese, le principesse possano godere (almeno per un giorno) dei piaceri delle ragazze del popolo. In un secolo di film, tuttavia, il più delle volte è la continuità a prevalere sul cambiamento. L'immaginario al quale si ispira il cinema sul viaggio in Italia risale a epoche precedenti all'avvento del nuovo turismo. È facile constatare come gli elementi presenti nelle relazioni dei protagonisti del Grand Tour o nei resoconti dei viaggiatori romantici siano i medesimi della maggior parte delle pellicole sugli stranieri nel Bel Paese. Sono soprattutto le finalità del viaggio – da quelle meramente culturali, alla ricerca del puro divertimento e della "cura" dell'anima – 41 a costituire un fertilissimo terreno per le sceneggiature, il punto di partenza di trame molto differenti. In linea generale, i registi hanno rappresentato l'Italia come meta ideale di un itinerario, alla ricerca di un mutamento di paesaggio esteriore che finisce col riflettersi su quello interiore. Detto questo, sono almeno tre i filoni in cui è possibile dividere i film sul viaggio in Italia guardando allo scopo che anima il viaggiatore. Da una parte i cineasti hanno raccontato vicende di rigenerazione attraverso la ricerca di quiete e bellezza; dall'altra, hanno evidenziato la tensione verso un'età dell'oro del cuore e della mente, che coincide con il risveglio della passione amorosa. Per ultimo – più tristemente e consapevolmente – hanno narrato le storie di viaggiatori particolari: i migranti, per i quali l'arrivo in Italia significa non tanto il desiderio, quanto l’aspirazione a una vita dignitosa, al riparo dalla guerra, dalle persecuzioni o dalla miseria. Dalla ricreazione alla sopravvivenza: è una possibile chiave di lettura dell’itinerario che il cinema sul viaggio in Italia percorre insieme con i viaggiatori di cui narra le vicende. Si tratta, perlopiù, di avventure individuali, raramente corali o di gruppo, che si prestano a finire gloriosamente tanto quanto a scivolare nel dramma o addirittura nella tragedia. A volte i protagonisti sono i turisti del passato, gli epigoni del grand tour o dei viaggi di istruzione, oppure i precursori del viaggio massificato della buona società ottocentesca. Altri sono invece i globetrotters dei tempi moderni, in cerca di vacanze, di nuovi approdi amorosi, della riscoperta del piacere di vivere in tutte le sue italianissime declinazioni: la moda, l'arte, la mondanità, ma perfino la lussuria, la dissolutezza, il delitto. O, ancora, ad animare alcune di queste pellicole sono clandestini e immigrati, ritratti mentre le loro esistenze cozzano contro una drammatica evidenza: la differenza che esiste tra il paese immaginato e il paese reale, con il suo carico di degrado, diffidenza ed emarginazione in cui si trovano a dibattersi. Il sogno italiano. Viaggiare al cinematografo è un'abitudine più che centenaria. Un film appassionante invita gli spettatori ad affrontare uno spostamento virtuale, verso luoghi, tempi e contesti lontani da quelli a cui si appartiene. Ma, nel corso di lunghi decenni, il cinema ha anche fornito a schiere di attori e cineasti dalle sorti incerte e dalla carriera 42 modesta una grande occasione per spostarsi davvero e diventare celebri in un paese lontano. È il caso della starlet Rossano Brazzi, che, è il caso di dirlo, nell'Italia trovò l'America. Il suo primo film di successo, Tre soldi nella fontana (Three Coins in the Fountain, USA 1954)21, ne fece infatti l'attore feticcio del grande regista di commedie romantiche Jean Negulesco e, a dire il vero, di molti altri directors americani, che lo vollero nei panni, pur sempre diversi, del tipico italiano. È difficile dire che cosa vedesse in lui di così inequivocabilmente nostrano il celebre Negulesco e che cosa cercassero, in seguito, tutti gli altri cineasti (soprattutto hollywooodiani) che fecero a gara nel fornirgli appetibili ingaggi. Rossano, certo, poteva passare con grande disinvoltura attraverso tutti gli stereotipi legati al maschio italiano: solare e spensierato, passionale e violento, mondano e ambizioso, criminale e spregiudicato. La sua faccia piuttosto comune, non connotata regionalmente, lo rendeva adatto a interpretare un romano tanto quanto un veneziano o un generico amatore peninsulare. Tre soldi nella fontana, Tempo d'estate (Summertime, di David Lean, United Artist, USA 1955) o Gli amanti devono imparare (Rome Adventure, di Delmer Daves, Warner Bros., USA 1962)22, lo vedono impegnato in personaggi eterogenei, ma in un unico ruolo: quello di anfitrione italiano a tutto campo, affascinante guida alle gioie dell'amore e alle bellezze da cartolina di Roma e Venezia. Le sue coprotagoniste, soprattutto la straordinaria Katharine Hepburn di Summertime23, recitano ruoli simili fra loro, secondo i parametri 21 Il produttore del film è Sol C. Siegel e la casa di distribuzione la 20th Century Fox. Lo sceneggiatore John Patrick adattò un romanzo del cineasta globetrotter John H. Secondari per questo film carico di effetti sensoriali, grazie al Technicolor, al Cinemascope e alla stereofonia. Tre graziose straniere (Dorothy McGuire, Jean Peters e Maggie McNamara) gettano monete di buon auspicio nella fontana di Trevi e troveranno proprio a Roma tre romantici mariti, di varia estrazione sociale. Il film ha ottenuto una nomination per «Miglior film» e ha vinto due Oscar: miglior fotografia a colori (Milton R. Krasner) e miglior canzone (cantata prima dei titoli da Frank Sinatra). 22 Il film è quasi sconosciuto in Italia. Si avvale di un cast non prestigiosissimo, composto da Troy Donahue, Angie Dickinson e Suzanne Pleshette. È anche conosciuto come Lovers Must Learn, perché tratto dall’omonimo romanzo del 1932 di Irving Fineman. 23 Nel film di David Lean, Katharine Hepburn è Jane Hudson, una segretaria dell'Ohio sulle soglie della mezza età che utilizza i risparmi di una vita per coronare il suo sogno: visitare Venezia e vivere una storia d'amore. L'incontro romantico con un 43 fissati piuttosto rigidamente da un certo tipo di commedia romantica americana e, per la verità, dalla letteratura sentimentale di molti secoli. Le donne di Rossano sfoggiano, al tempo stesso, lo stereotipo della bella turista straniera e quello della Cenerentola. Travagliate da difficili condizioni economiche e da uno status che considerano inadeguato, sono tutte lavoratrici, bibliotecarie o segretarie, che nel viaggio in Italia finiscono col trovare una doppia occasione di amore e riscatto sociale. Timide, sguarnite, polverose e soprattutto tanto, tanto inesperte: al sole d'Italia, queste incolori nubili d'Oltreoceano (o d'Oltremanica) sbocciano come tanti fiorellini e si consegnano a una vita degna d'essere vissuta. Rossano Brazzi sarà pure un tassello importante nell'educazione sentimentale delle gentildonne anglosassoni sotto la trentina: lo è molto di più, tuttavia, il tocco d'Italia che egli porta con sé. Una magia impressa nella fotografia dei registi Lean e Negulesco, nelle luci brillanti e cariche di promesse di operatori e direttori come Jack Hildyard e Milton R. Krasner24, che grazie a un provvidenziale Cinemascope furono gli agenti turistici più efficaci a cui il pubblico americano privo di mezzi potesse aspirare nei sobri anni Cinquanta. Le vedute di Roma e Venezia sono zuccherine e stereotipate come quelle delle cartoline vendute a dozzina; i monumenti sono i soliti, quelli di qualsiasi guida turistica senza pretese, da San Pietro al Colosseo alle celebri fontane; la gente è sgargiante e felice; le piazze assolate sempre sgombre dalla calca delle masse. Ma queste immagini non lasciano rimpiangere scorci più originali o conturbanti: sono come il film, come le sue protagoniste o il sorriso "brazziano"; mostrano un desiderio di evasione mentale all'insegna della serenità e della rassicurazione. Molte pellicole del genere accompagnano la storia della commedia romantica a Hollywood negli anni cinquanta e sessanta. Il leitmotiv è, più o meno, sempre lo stesso: il viaggio in Italia come sollievo per anime lacerate o disilluse, o come panacea per i guai esistenziali di splendide femmine d'oltremare. Dopo una leggera flessione tra gli commerciante italiano, sposato e con figli, la lascerà triste ma con i più bei ricordi della sua vita. 24 Jack Hildyard (direttore anche per film come Il ponte sul fiume Kwai e Il leone del deserto) e Milton R. Krasner (direttore per autori come Lang, Hawks, Wilder, Mankiewicz, Wise, Siodmak, Ford, Minnelli) sono i direttori della fotografia rispettivamente dei film di Lean e Negulesco, tra i più grandi di Hollywood. 44 anni settanta e gli anni ottanta, nel 1986 questo filone torna in auge con il famosissimo Camera con vista (A Room with a View, di James Ivory, Merchant Ivory Production, Inghilterra)25 e, successivamente, con una serie di altri film-bomboniera che hanno regalato dolci speranze agli aspiranti viaggiatori italofili di tutto il mondo, quando non agli operatori turistici. Camera con vista è un film calligrafico, quando non oleografico: una cartolina della Toscana un po' disonesta, perché tradisce la profonda e saggia bellezza del romanzo di Forster, consegnandola al romanzetto rosa di una signorina della buona società inglese di inizio Novecento, Lucy Honeychurch. L'educatissima ragazza, una borghese che tenta di elevare il proprio status grazie al matrimonio con Cecil Wise, un saccente gentiluomo di campagna, in Italia trova nientemeno che l'occasione per mandare al diavolo le convenzioni sociali. Non in modo radicale, per la verità. Ben lungi dallo sposarsi un ferroviere del Surrey, si innamora di un compatriota di ceto non molto inferiore, George, il cui anticonformismo si esprime in una fatale attrazione per Firenze e la sua campagna, ma anche per gli italiani e la loro passionalità. Il film – segnalato con otto nomination – ha vinto ben tre premi Oscar nel 1987 (migliore sceneggiatura non originale, migliore scenografia e migliori costumi), elevando Ivory alla fama di regista pittorico e inaugurando una nuova attenzione per la storia del viaggio in Italia, nella variante otto-novecentesca del Grand Tour. Lucy, George e la variegata compagnia di inglesi che invade la pensione Bertolini rappresentano, in effetti, un distillato verosimile del turismo anglosassone di inizio Novecento. Visitare l'Italia, per l'alta borghesia, è ormai esclusivamente questione di moda: un esercizio totalmente superficiale, che non ha nulla a che fare con l'aspirazione ad accrescere il proprio sapere o ad allargare le proprie prospettive o le proprie reti intellettuali. Lucy, che gironzola per il centro di Firenze con la celebra guida tedesca Baedeker, è e resta una vittoriana ignorante e senza sugo che, tanto per cambiare, viene nobilitata soltanto dalla scelta di un marito. Nonostante la graziosa vacuità dei suoi protagonisti Camera con vista è un film godibile, 25 Il film - che ha ricevuto otto nomination - è vincitore di tre premi Oscar nel 1987 (migliore sceneggiatura non originale, migliore scenografia e migliori costumi). Nel film recitano Daniel Day Lewis, Helena Bonham Carter, Maggie Smith e Judi Dench. 45 leggero e non privo di humour: anche se, in effetti, quella che apre sul Bel Paese e sugli italiani non è certo una panoramica molto interessante. I film successivi sono sostanzialmente peggiori: più sciatti, più volgari, ancora più superficiali. Quasi vicino alla decenza, grazie non alla trama ma alla splendida interpretazione degli attori, è il film Un incantevole aprile (Enchanted April, BBC Films-Miramax FilmsGreenpoint Films, Gran Bretagna 1992)26 di Mike Newell, che rispetto al precedente di Ivory regala uno spaccato dei problemi coniugali delle signore vittoriane. Quattro donne diverse per età ed estrazione scambiano la pioggia inglese per un mese in affitto in un castello italiano, nella riviera ligure di levante. Qualche blando equivoco lascia spazio a rinnovati sentimenti e tenere rivelazioni, tra notevoli prove attoriali (sopra tutte quella di Miranda Richardson) e una sceneggiatura che crolla miseramente a metà del film. Decennio dopo decennio, un dato si evidenzia con chiarezza: cambiano i registi, ma nessuno di loro riesce a mutare lo stereotipo della vacanza in Italia in qualche cosa di più interessante di una scontata rinascita, di una rigenerazione a comando. Film come Sotto il sole della Toscana (Under the Tuscan Sun, di Audrey Wells, USAItalia 2003)27 o il finlandese The Italian Key (di Rosa Karo, Harmaa Media Entertainment, Finlandia 2011) denunciano niente più che una cieca fede nel potere salvifico del soggiorno italiano, esercitato a Cortona o in Valle Borbera e Valle Scrivia. Il solito sole, la verzura lussureggiante e i profumi inebrianti si prestano a curare infallibilmente i mali dell'essere, dalla condizione di scrittrice senza ispirazione e senza amore a quella di orfanella adolescente. Palermo Shooting, prodotto e diretto da Wim Wenders (Germania-Francia- 26 Il soggetto è tratto dal romanzo omonimo di Elizabeth von Arnim del 1922, divenuto all'epoca molto famoso. Il film è girato nel Castello Brown di Portofino dove la romanziera trascorse le vacanze nel 1920. Ha vinto due Golden Globe nell'anno 1993: migliore attrice in un film commedia o musicale a Miranda Richardson; migliore attrice non protagonista a Joan Plowright. 27 Il film, interpretato da Diane Lane, si basa su un altro romanzo di una scrittrice innamorata dell'Italia, Frances Mayes (1940), autrice di numerosi resoconti e romanzi che hanno per tema il viaggio, e soprattutto quello in Italia. 46 Italia 2008) e To Rome with Love (2012)28, di Woody Allen non hanno molto di diverso, se non il nome più altisonante del regista: le città italiane sono il mero sfondo per tormentate o grottesche storie individuali. Nel primo, il fotografo Finn insegue la vita fino in Sicilia, per trovarvi la morte nei panni candidi di Dennis Hopper; nel secondo – un film felliniano, ma solo nelle intenzioni del regista Allen – un gruppo eterogeneo di americani e italiani intrecciano le loro esistenze alla ricerca dell'amore o della gloria. A riscattare il filone del turismo filosofico si prestano alcuni film con un profilo decisamente più interessante. Un taglio del tutto originale è quello del film Due settimane in un'altra città (Two Weeks in Another Town, Metro-Goldwyn-Mayer, USA 1962) dell'italo-americano Vincent Minnelli29, che pure non è stato considerato una grande prova d'autore, ma la versione edulcorata del film di Billy Wilder sul cinema, Viale del tramonto. Jack Andrews (Kirk Douglas) è un autore che sta calcando per l'appunto quel viale, finché un amico regista lo chiama a lavorare in un film che si sta realizzando a Cinecittà (Roma è «l’altra città» del titolo, una Hollywood sul Tevere). Tradito da tutti – il regista malfidente e la ex moglie egoista – Douglas riesce a trarre la forza necessaria per risalire la china da se stesso e dall'esperienza romana, per tornare in patria rigenerato. Il secondo, un altro colossale fallimento di pubblico e critica, è La scogliera dei desideri (Boom!, World Service Production, Gran Bretagna 1968) del grande regista inglese Joseph Losey: una storia triste e morbosa firmata Tennessee Williams30, in cui una stupenda Elisabeth Taylor, nei panni della multimiliardaria Flora Goforth che si è confinata su un'isola tirrenica, si lascia condurre alla morte dal poeta vagabondo Christopher Flanders (Richard Burton). Un modo del tutto inusuale, perfino sconcertante di interpretare un soggiorno 28 Il film è prodotto in Italia-USA-Spagna dalla Gravier Productions, Mediapro, Medusa Film. Segna il ritorno sulla scena di Woody Allen e di Roberto Benigni, dopo sette anni di assenza. Tra gli altri attori ci sono Penélope Cruz e Alec Baldwin. 29 Il film, vero atto di coraggio di Vincente Minnelli che lo intese probabilmente come autobiografico, è stato osteggiato (e probabilmente tagliato) dai padroni di Hollywood, perché raccontava l'esperienza di un cineasta ormai in disarmo, strangolato tra ingerenze dei produttori nel lavoro artistico, attori capricciosi e sordidi retroscena del mondo del cinema. 30 Il film è sceneggiato dal grande drammaturgo americano Tennessee Williams sulla base della sua opera La carretta del latte non si ferma più qui (1962). 47 italiano: un turismo funebre – si potrebbe dire – che si inserisce nel filone inaugurato da Thomas Mann con Morte a Venezia. Il Bel Paese ricopre, in queste pellicole, il ruolo di «psicopompo»: la figura divina che svolgeva, in molte mitologie e religioni, la funzione di accompagnare le anime dei morti nell'oltretomba. Ancora di morte in Italia tratta un altro film di questa serie, onirico e pauroso. È A Venezia... un dicembre rosso shocking (Don't Look Now, Casey Productions-Eldorado Films, Gran Bretagna-Italia 1973)31, girato dall'ex direttore della fotografia Nicolas Roeg. La storia di due coniugi inglesi in lutto per la perdita della figlioletta s'intreccia con le visioni di due connazionali sensitive e con un agghiacciante serie di omicidi. Donald Sutherland e Julie Christie, ben diretti da Roeg, sono tra i primi turisti stranieri a fornire della città lagunare un'immagine non olografica o rassicurante: seguendo in questo, sebbene secondo uno stile trucido e psichedelico, le orme di Luchino Visconti nel narrare le grottesche vicende veneziane di Gustav Aschenbach. Italiano per principianti (Italiensk For Begyndere, Peter Aalbæk Jensen-Ib Tardini-Zentropa, Danimarca 2000)32, della regista danese Lone Scherfig, rappresenta invece, nell'ambito dei film sul turismo italiano, un vero faro di ottimismo, mescolato a un'innegabile intelligenza. Le miserabili, cupe esistenze di un gruppo di danesi, che seguono un corso d'italiano curiosamente autogestito alla periferia di Copenhagen, vengono rivoluzionate da una prospettiva inattesa, finalmente luminosa: una vacanza a Venezia. L'Italia vera non si vede che nell'ultima scena, girata rapidamente nella città lagunare. Eppure il film intero è un'ode sincera e sorridente a quei prodotti della cultura italiana frutto di stereotipi popolari, ma che nondimeno possono 31 La pellicola di Roeg è diventata un cult per gli amanti dell'horror d'essai, soprattutto per la bellezza del girato, delle luci e della fotografia, ma anche per una delle più esplicite scene di sesso tra Christie e Sutherland che si fossero viste fino a quei tempi. 32 È il dodicesimo prodotto del cosiddetto Dogma 95 (Dogme 95), movimento cinematografico fondato artificialmente su un manifesto pubblicato nel 1995 dai registi danesi Lars von Trier e Thomas Vinterberg. Questa corrente voleva "purificare" il cinema dagli effetti speciali, dalla commercializzazione eccessiva e dagli investimenti miliardari. In una sorta di decalogo proponeva di eliminare luci, scenografia, colonna sonora, qualsiasi espediente al di fuori di quello della camera a mano. I film prodotti furono 35, poi il movimento si esaurì con un patto firmato dieci anni dopo, nel 2005, dagli stessi registi fondatori. 48 rendere felici persone comuni, senza prospettive né speranze: la musicalità della lingua, il cibo, la promessa del sole, la maglia della Juventus. Nemmeno la camera a mano, frutto dell'adesione alla corrente «Dogma '95», riesce a smorzare la freschezza di quest'opera. È un film che non risparmia nulla allo spettatore – morte, rabbia, squallore –, ma che risulta, allo stesso tempo, un balsamo per gli occhi e il cervello: un vero sorriso sull'Italia, senza compiacimenti estetizzanti e senza cattiveria. 1.3. Il paese dell'amore. Che l'Italia fosse la terra dell'amore era un'idea che gli antichi viaggiatori ignoravano tanto quanto i loro successori, protagonisti del Grand Tour. Il viaggio era troppo lungo e costoso perché potesse servire soltanto a placare i sensi o a trovare moglie o marito. Basti ricordare, tra i visitatori più celebri del Cinquecento, i filosofi Erasmo da Rotterdam e Michel de Montaigne: il primo era misogino; il secondo considerava gli affaires con le donne alla stregua dei suoi calcoli renali. Gli illuministi europei, dediti al turismo culturale, si scordavano spesso di considerare l'aspetto sentimentale della faccenda, fatta salva la passione per qualche statua e qualche dipinto. Forse furono i touristes romantici i primi a sfoggiare un atteggiamento, se non proprio romantico, vagamente interessato all'argomento amoroso. Qualcosa stava mutando. L'epopea del veneziano Casanova, da lui stesso propagata in tutta Europa, si unì col melodramma italiano per dar vita a una nuova leggenda: quella dell'Italia dei sentimenti amorosi. D'altro canto, nasceva proprio nell'Ottocento l'amore borghese in tutte le sue declinazioni, quelle familiari e quelle extraconiugali. È quest'ultima tradizione, piuttosto recente, che il cinema assorbì e fece sua, spacciandola come un mito millenario: il Bel Paese, patria dell'amore; gli italiani, amanti eccezionali e seduttori. Non si contano i film che scelgono il suolo nostrano per proporre una trama sentimentale, di solito basata su un'improvvisa rivelazione, l'interesse per qualcosa che prima ne era privo: le ragioni del cuore, la superiorità della vita basata sui sentimenti veri. Il primo famoso di questo filone, The Man from Home (Paramount Pictures, USA 1914), fu girato dall'americano Cecil DeMille agli esordi della carriera e riproposto dall'inglese George Fitzmaurice nel 1922 (Famous PlayersLasky British Producers, Gran Bretagna). La storia è una vera 49 rompighiaccio per tutta la lunga serie dei soggiorni cinematografici in Italia in cui uno o più personaggi trovano l'amore in un compatriota. In questo caso si tratta dell'ereditiera di un miliardario statunitense che, dopo essere stata raggirata da nobili truffaldini, aderisce allo spirito della sua classe sociale sposando un altro borghese, il suo tutore legale. La bella Sorrento fa da propulsore a uno strano sogno americano, vagamente coloniale: quello di conquistare il Vecchio Continente – a colpi di denaro e guide turistiche – per tornare felici e appagati alla propria superiorità etica ed economica. L'Italia, evidentemente, ispira l'endogamia: talvolta i turisti, anziché farsi travolgere dalle bellezze locali, s'innamorano dei loro compatrioti o di altri stranieri in visita. Ne nascono favole ancora più rassicuranti, soprattutto per il pubblico straniero degli anni cinquanta e sessanta, che amava sì il folklore ma in dosi sorvegliate. Audrey Hepburn, la principesca Cenerentola di Vacanze romane (Roman Holiday, di William Wyler, Paramount, USA 1953)33 è un'eccezione che conferma la regola. In realtà Anna, il suo personaggio, è l'erede di un non precisato regno straniero, che si trova a passare una meravigliosa giornata romana in compagnia di un giornalista americano, Joe Bradley, interpretato da Gregory Peck. Joe, che brama lo scoop, la inganna sulle proprie intenzioni e la conduce attraverso un turismo euforico e liberatorio, scandito dal poco tempo che resta prima del rientro a palazzo. Fino all'amore, che arriva struggente e inaspettato, purtroppo senza rimedio. Una Roma come quella di William Wyler, fatta di mercatini, gelati e giri in vespa, avrebbe plasmato per decenni l'immaginario statunitense su quella che, più in là, sarebbe stata definita «la dolce vita»34, mentre agli spettatori italiani sarebbe rimasta per sempre nel cuore la dolcezza infinita di Hepburn, della 33 Vacanze romane ha incassato in tutto il mondo 12 milioni di dollari e tre premi Oscar: miglior attrice protagonista a Audrey Hepburn; miglior soggetto a Dalton Trumbo; migliori costumi a Edith Head. 34 Il film è girato a Roma e negli studi di Cinecittà. I luoghi delle riprese sono tutte mete turistiche famosissime: la Bocca della verità (piazza Bocca della Verità); la chiesa di Santa Maria in Cosmedin; il caffè Rocca; piazza della Rotonda e il Pantheon; Castel Sant'Angelo; la fontana di Trevi; piazza Venezia; piazza di Spagna; la chiesa di Trinità dei Monti e la scalinata di Trinità dei Monti; il Colosseo; il Lungotevere; via Margutta 51 (dove Joe abita e ospita la principessa Anna); via dei Fori Imperiali; via della Stamperia 85 (il barbiere che taglia i capelli della principessa); Palazzo Colonna e la Galleria (la conferenza stampa della principessa) 50 sua frangetta sbarazzina, della sua tenera dignità regale, della sua giovialità così poco classista35. Nel 1958 un curioso film di Wolfgang Becker 36, Italienreise - Liebe inbegriffen (Viaggio in Italia, amore incluso, CCC Film, Germania 1958), regalò al pubblico tedesco una commedia romantica all'americana, che funziona altrettanto bene, con in più un lieve tocco di ruspante che intenerisce lo spettatore. È la storia di un gruppo di turisti tedeschi che attraversano l’Italia in pullman, tra intrighi amorosi e gelosie, tutti sperimentati sul filo del sorriso. I cliché tedeschi degli anni Cinquanta a proposito della “bella Italia” sono riproposti in piena consapevolezza, ma con ironia sorridente. E l'Italia vista dalla Berlino degli anni cinquanta nei colori brillanti Eastmancolor, non è poi molto diversa da quella scrutata attraverso gli occhi dello spettatore americano. Più irriverente e cinica la storia d'amore fra due americani, Wendell Armbruster Jr. e Pamela Piggott, interpretati da Jack Lemmon e Juliet Mills in Che cosa è successo tra mio padre e tua madre (Avanti!, di Billy Wilder, USA 1972)37. Da Vacanze romane sono passati vent'anni e l'amore in terra d'Italia (sulle soglie della famosa legge sul divorzio) può conoscere svolte più peccaminose. I due personaggi si trovano nella splendida Ischia, loro malgrado, per recuperare i feretri dei rispettivi genitori, morti in un incidente mentre consumavano il loro 35 Per il ruolo della principessa Anna i produttori volevano Elizabeth Taylor, ma il provino di Audrey Hepburn è diventato leggendario. Le fu detto che la scena era terminata mentre la cinepresa era ancora in funzione e la sua reazione spontanea, sorridente ed emozionata, che in macchina aveva reso in maniera spettacolare, convinse Wyler di aver trovato l'attrice giusta per interpretare la principessa Anna. 36 Wolfgang Becker (Berlino 1910-Monaco 2005) è un omonimo meno celebre dell'autore di Good Bye Lenin (2003), film culto sul crollo della Germania Est. Il primo Becker fu un film maker di gialli e commedie brillanti negli anni cinquanta; passò alla televisione come regista negli anni settanta, realizzando molto puntate di telefilm famosi anche in Italia, come L'ispettore Derrick. 37 La sceneggiatura è basata su un'opera teatrale di Samuel Taylor, ambientata a Roma. A Ischia, Sorrento, Forio, Amalfi, Capri, Atrani sono state girate quasi tutte le scene: a Ischia Ponte Pamela Piggot (Juliet Mills) corre tra le stradine del borgo antico con un gelato in mano; sugli scogli di Sant'Anna mister Wendell Armbruster jr. (Jack Lemmon) e Pamela fanno l'amore; a Forio, con la chiesa del Soccorso a picco sul mare, Wendell e Pamela vengono portati dall'impiegato comunale Pippo Franco a riconoscere le salme, rispettivamente del padre e della madre. Le scene dell'Hotel Excelsior sono stati girate a Sorrento. 51 adulterio: un'abitudine consolidata. Sono diversissimi per temperamento e aspettative: rigido e impressionabile il ricco industriale Wendell, più allegra e disponibile la commessa Pamela. Gli italiani in servizio all'hotel Excelsior sono anfitrioni e paraninfi al tempo stesso e concorrono con il sole, il mare e gli scorci mozzafiato di Ischia e Sorrento a scaldare il cuore gelido del capitano d'impresa. Che non sposa la ragazza, ovviamente, ma le promette romanticamente di continuare la tradizione adultera dei due genitori defunti. Anche Nora (di Pat Murphy, GAM, Natural Nylon Entertainment, Road Movies Filmproduktion, Volta Films, Irlanda-Regno Unito-ItaliaGermania 2000), racconta l'amore italiano di due anglosassoni: l'inquieto irlandese James Joyce, uno dei più grandi scrittori del Novecento (Ewan McGregor), e Nora Barnacle (Susan Lynch), povera cameriera a Dublino, donna intelligente e volitiva nonostante le maniere ruspanti. Joyce la porta a Trieste per trasformarla nella sua amante e poi sposa, coronando un sogno d'amore tormentato e burrascoso, che si nutre delle inquietanti atmosfere della città di confine. In Copia conforme (Copie conforme, MK2, Bibi Film, France 3 Cinéma, Artemis Productions, Francia-Italia-Belgio 2010) l'iraniano Abbas Kiarostami ha voluto mescolare le carte della nazionalità, ritraendo la francese Juliette Binoche e il baritono inglese William Shimmel mentre, sullo sfondo di un bellissimo paesaggio aretino, fingono un matrimonio e un amore che non hanno. Il risultato di questo mix-and-match di destini su sfondo italiano è comunque deludente come molti dei precedenti accoppiamenti. Solo nel gioioso La baia di Napoli (It started in Naples, di Melville Shavelson, Paramount Pictures, USA-Italia 1960), l'avvocato americano Michael Hamilton, interpretato da Clark Gable, si innamora di un'italiana tipica, anzi, tipicissima: la bella Lucia, «guagliona» vitale e intraprendente, che sopravvive nei vicoli napoletani cantando Renato Carosone («Tu vuo' fa' l'Americano») in un cabaret. Lei è Sofia Loren, che sebbene in maniera un po' pittoresca, si prende amorevolmente cura del figlio del fratello di Michael, deceduto in un incidente. Travolto dall'energia della Napoli popolana, dopo aver cercato di dividere Lucia dal piccolo Nando, l'avvocato deciderà di restare con quella strana, nuova famiglia. È ancora l'instancabile Rossano Brazzi a interpretare una serie di film che hanno per tema l'amore, ma nella sua versione drammatica. Luce 52 nella piazza (Light in the Piazza, di Guy Green, Metro-Goldwyn-Mayer, USA 1962)38 è una storia crudele, che vede una madre americana di buona famiglia (Meg, Olivia de Havilland) ingegnarsi per accasare la figlia Clara, disabile mentale, con un ricco italiano, Fabrizio Naccarelli, che non si è reso conto che la ragazza non è più matura intellettualmente di una bimba. Meg, ostacolata dal marito e dal padre di Fabrizio, riuscirà in un intento che non ha nulla di diabolico, ma che è maturato nelle pieghe del desiderio di dare a Clara una vita normale. La pellicola è un bel saggio di anti-mitologia, che porta alle estreme conseguenze il cliché del fascino straniero: quello che risiede, soprattutto, nella diversità culturale e nell'impossibilità di comprendersi pienamente. La contessa scalza39, L'intrigo40, La rossa41, Accadde un'estate42 sono tutti film in cui Rossano Brazzi consuma fino alla corda il lato drammatico del suo intramontabile ruolo di maschio latino: come nobile impotente, come perverso carceriere, come amante frustrato o seduttore egoista. Sono film in cui l'elemento motore della trama, il viaggio in Italia o l'incontro con gli italiani, rifiuta di appoggiarsi allo stereotipo dell'incontro fortunato e rigenerante, e diventa invece il pretesto per una morbosa infelicità. Nei casi estremi, come il deludente Dark Purpose («nemmeno buono a essere dileggiato», tuonò la critica), il sorriso brazziano si trasforma in un ghigno di perversione, neanche tanto sottile. La contessa scalza, del grande regista Mankiewicz, è l'unico tra questi suoi film a essersi guadagnato gli onori della critica e il favore del pubblico. La contessa in questione – cioè Ava Gardner nei panni dell'attrice e cantante Maria Vargas – per uscire dal fango in cui è nata, come dice sempre, si concede in sposa al conte italiano Torlato Favrini, irrimediabilmente impotente. 38 Il film è un adattamento di un famoso romanzo di Elizabeth Spencer (1960). The Barefoot Contessa, di Joseph L. Mankiewicz, United Artists, USA 1954, vede quali interpreti principali Ava Gardner e Humphrey Bogart. Alcune delle sequenze del film, girato quasi interamente in Italia, sono ambientate sulla riviera ligure, in particolare a Portofino (a Rapallo abita il personaggio del conte). 40 Il titolo originale è Dark Purpose (Universal, USA 1964), è diretto da George Marshall, interpretato da Shirley Jones, Rossano Brazzi, George Sanders 41 Die Rote è un film di Helmut Käutner (Compagnia Cinematografica ChampionMagic, Rapid Film, Italia-Germania 1962) con Ruth Leuwerik, Rossano Brazzi, Giorgio Albertazzi, Gert Fröbe. 42 The Battle of Villa Fiorita è un film del 1965 (Warner Bros., USA 1965) diretto da Delmer Daves con Maureen O'Hara e Rossano Brazzi. 39 53 Quando costui ne scopre la tresca con l'autista, invece di rassegnarsi stoicamente uccide la moglie e il figlio che ha in grembo. Un ruolo scomodo per Brazzi: nei panni amari e superficialmente educati del conte si trovò a dover rinunciare a quella cortesia virile con cui, di solito, i film-maker americani amavano ritarre il latin lover. Bella, bellissima come la Gardner appare, nella splendida fotografia del film, la riviera ligure: tra tutti i borghi ripresi da Mankiewicz spicca una smagliante Portofino dei primi anni cinquanta, elegante profetessa della sventura di Maria Vargas. All'Hotel Splendido, meta di culto per i cinefili, si fermarono a lungo, per le riprese del film, i due protagonisti Ava Gardner e Humphrey Bogart (giunto insieme con la moglie Lauren Bacall), che diedero nuovo lustro al pellegrinaggio ligure delle star del cinema. Ancora a Portofino e a Ferrara sono ambientati i due primi episodi del film Al di là delle nuvole (Philippe Carcassone, Vittorio Cecchi Gori, Italia-Francia-Germania 1995)43 di Michelangelo Antonioni e Wim Wenders, che vedono intrecciarsi amori impossibili, della durata di un incontro, tra stranieri e italiani. Le due città sono riprese in una costante perturbazione, che rende Ferrara lattiginosa e immersa in una nebbia fitta, e Portofino umida e fosca, con brevi squarci di sole fra le nuvole. La bellezza dell'Italia si scorge a tratti, ma non si concede mai del tutto, come John Malkovich, nei panni di un regista che rappresenta il trait d'union di tutto il film, come gli uomini e le donne che incontra nel suo sbigottito girovagare «aldilà delle nuvole». È un film triste e pesante, non certo la migliore prova per i due grandi registi: non sembra riuscire a dire molto sull'amore e ancor meno sull'Italia, se non che il primo è un sentimento difficile e il secondo un paese che rende difficili i sentimenti. È certamente una prospettiva condivisibile ma che, purtroppo, non rende in nessun modo la storia interessante per gli spettatori, italiani o stranieri che siano. La terra promessa. Esiste, in Italia, un tipo di turista molto particolare: quello che non 43 Il film si ispira a un libro di Antonioni, Quel bowling sul Tevere. I protagonisti sono interpretati dagli attori John Malkovich, Fanny Ardant, Kim Rossi Stuart, Jean Reno, Sophie Marceau, Irène Jacob, Marcello Mastroianni, Peter Weller e Inés Sastre. La sceneggiatura è scritta dai due registi con Tonino Guerra, collaboratore di Antonioni. 54 sogna il ritorno, perché ciò che lascia è troppo brutto per essere rimpianto o perché le sue condizioni di vita in patria non gli hanno permesso di goderne. Il cinema straniero ha prodotto molti film – alcuni dei quali non accessibili al pubblico italiano senza notevoli fatiche – per raccontare le storie di questi viaggiatori internazionali, chiamati oggi rispettosamente migranti. Sono persone difficili da riprendere, da raccontare. Non hanno in mano cartine, o guide turistiche. Alle loro vicende poco si addicono le gioie del Technicolor o le riprese olografiche dei monumenti, perché hanno vite difficili e spesso clandestine. Soggetti poco adatti, si direbbe, alla macchina da presa: e invece, qua e là, le loro storie sono fiorite meravigliosamente in mano a registi esperti e a sceneggiatori coraggiosi. Il tempo dei gitani (Dom za vešanje, Forum Sarajevo, Inghilterra- Italia,Yugoslavia 1988)44, il terzo di Emir Kusturica è un film sull'Italia che non vorremmo conoscere: quella che arruola infelici nelle file della criminalità nostrana, in un perverso sforzo di integrazione e fusione di culture. Per fortuna il tocco di Kusturica, surreale e poetico quanto feroce e irriverente, riesce a indorare una pillola molto amara per lo spettatore italiano. Ambientato in un'epoca precedente alla dissoluzione della repubblica titoista, girato a Belgrado e poi a Milano e a Roma, è la storia di un giovane gitano, Perhan, che per salvare una parte della sua sgangherata famiglia si affida a un branco di malviventi che lo portano in Italia, dove trafficano in esseri umani. Finirà a sua volta nell'ambiente della piccola delinquenza milanese, dove proliferano i gruppi criminali jugoslavi e, da dove, pur tentando il riscatto in ogni possibile maniera, non riuscirà a uscire e a riprendersi la dignità. Verso l'Eden (Eden à l'Ouest, una produzione di Costa-Gavras, Francia-Grecia 2009) è un film del grande regista franco-greco Kostantin Costa-Gavras che racconta le peripezie di un migrante clandestino, Elias, intrappolato in un villaggio turistico sulle coste di un paese mediterraneo. Il luogo in cui è ambientato non è necessariamente l'Italia, ma gli somiglia drammaticamente. Il giovane stesso non sembra avere nazionalità, come il posto in cui è approdato: l'umiliazione a cui sono sottoposti i dannati della terra è la 44 Nel 2007 Kusturica ha realizzato un'opera punk tratta da questa pellicola. Diverse scene del film fanno riferimento al noto film jugoslavo del 1967 Ho incontrato anche zingari felici, in omaggio al suo regista Aleksandar Petrovic. 55 stessa per tutti, non conosce patria. Per il suo ruolo è stato però scelto un italiano, Riccardo Scamarcio, che nelle mani di CostaGavras sembra un attore migliore, mentre interpreta molto laconicamente la disperazione rassegnata di un giovane migrante. Nel villaggio, grottescamente chiamato Eden, Elias conosce la durezza della vita ai margini in tutte le possibili declinazioni: il lavoro svilente, il maltrattamento, il ricatto, lo stupro, la manipolazione, il furto, il razzismo. Ciononostante, come un pugile di grande mestiere, ogni volta si rialza da terra, scrollandosi il fango di dosso, per coronare il sogno di raggiungere Parigi, vero Eden collocato al termine del suo amaro viaggio. La delusione lo attende ancora, implacabile. È un giovane regista italo-iracheno, Haidar Rashid (Sta per piovere, produttore Haider Rashid, Iraq-Italia 2013), a regalare uno spaccato inconsueto su un'altra realtà: quella dei migranti di seconda generazione, che mantengono un piede dentro al nostro paese e un altro inesorabilmente fuori. Said è fiorentino e figlio di algerini, ha 26 anni, studia e fa il panettiere part-time. Quando il padre si ritrova disoccupato all'improvviso e non riesce a rinnovare il permesso di soggiorno, la sua famiglia italo-algerina rischia di spaccarsi: Said e il fratello possono restare a Firenze, dove sono nati, mentre i genitori sono costretti a rientrare in Algeria. Il giovane dà il via a una battaglia mediatica e legale che, alla fine, lo vede vittorioso, ma che lo induce a ripensare alla sua identità, un tempo data per certa. Le violenze della burocrazia, il pregiudizio, l'ipocrisia sono i caratteri che meglio descrivono un'Italia definita da Rashid «non da cartolina, ma quella vera»: un paese che continua a rimandare il problema dell'integrazione. La sua vita italiana di bimbo e di ragazzo è stata una vacanza, una nuvola illusoria che l'ha tenuto separato da una realtà di emarginazione e sospetto: a vacanza finita, come un turista deluso, Said decide di abbandonare Firenze per tornare in Algeria. Sullo stesso argomento, la sorte assurda dei clandestini che attraversano i confini alla ricerca di una terra promessa, sono stati girati tre film di indiscutibile valore, ma difficili da trovare in Italia, dove hanno avuto scarsa circolazione. Sono Tvrdjava Evropa (La fortezza Europa, Andrej Stritof, Slovenia 2005) del serbo Zelimir Zilnik; La fine del mare (Flying Moon Filmproduktion-UnlimitedRevolver Film, Germania-Italia-Francia 2007) della tedesca cosmopolita Nora Hoppe; Trst Je Nas (Trieste a noi, Slovenia 2010) di Ziga Virc, produzione indipendente di un giovane sloveno emergente. 56 Nei primi due si consumano i drammi dell'immigrazione che non trova lieto fine e intrappola gli individui in esistenze quasi bestiali. Il terzo parla di conflitti tra terre limitrofe, Trieste e la ex Jugoslavia, che risentono ancora della pesante eredità della Seconda Guerra Mondiale: a significare che la stessa idea di Italia non è per tutti la stessa e, forse, non è data una volta per tutte. Tra gli infelici che approdano nel Bel Paese, tuttavia, non ci sono solo migranti in senso stretto. Il cinema ne è ben consapevole. Belli e Dannati (My Own Private Idaho, Laurie Parker, USA 1991), una produzione indipendente del regista di culto Gus Van Sant è la storia di due ragazzi ribelli di Seattle, Mike Waters (River Phoenix) e Scott Favor (Keanu Reeves) che fanno uso di droghe e che si prostituiscono per vivere. Entrambi hanno scelto la strada per disperazione: il primo per ritrovare le sue radici, il secondo per dimenticarsele. Dopo uno sconvolgente incontro in Idaho con il vero padre, Mike si mette sulle tracce della madre, scomparsa misteriosamente a Roma. Scott lo segue in Italia, dove le «vacanze romane» lo riporteranno tra le braccia della normalità, nei panni di un'avvenente indigena di nome Carmela, che lo accompagna a Portland per sposarlo. Il lieto fine, se tale si può definire, riguarda lui soltanto: l'amico Mike, che egli non ha esitato ad abbandonare, si troverà solo e più disperato che mai a vagabondare per ricomporre l'infanzia che gli è stata negata. Non tutto si può ritrovare, nel Bel Paese. 57 58 Vico Magistretti per ARTEMIDE (lampada Eclisse, 1965) 59 60 Il paese delle Muse «In Italia sotto i Borgia, per trent'anni, hanno avuto assassinii, guerre, terrore e massacri, ma hanno prodotto Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera hanno avuto amore fraterno, cinquecento anni di pace e democrazia, e che cos'hanno prodotto? Gli orologi a cucù» (Orson Welles in Il terzo uomo di Carol Reed) La fabbrica dei sogni. Quanti sogni sono nati e si sono spenti a Cinecittà45? È un posto ormai deserto: le strade polverose sono sgombre, i muri scrostati. Gli americani se la sono comprata, avidi di possederne la tradizione, tanto quanto sono ansiosi di fare propria – grazie al denaro – qualsiasi forma d'arte. Poi, pian piano, hanno svuotato di tutta la sua gente e dei suoi sogni quello strano borgo, fatto di teatri di posa. Negli studi, come fuori, regna il silenzio. «Che succede?» chiede Paul Javal a Francesca, la segretaria di produzione che lo accoglie per conto del produttore americano Jeremy Prokosh. «Jerry ha licenziato pressoché tutti. Oggi le cose non vanno bene, nel cinema italiano», risponde lei con noncuranza. Siamo nel 1963: il film è Il disprezzo, del grande Jean-Luc Godard, sceneggiato da un romanzo dello scrittore italiano Alberto Moravia 46. È una storia semplice, quella di due sposi francesi – italiani, nel romanzo – che vivono a Roma: l'avvenente dattilografa Camille (Brigitte Bardot) e Paul (Michel Piccoli), un giallista che ha già scritto il testo di Totò contro Maciste. Ora sta valutando l'ingaggio offertogli da Prokosch: rivedere la sceneggiatura per un film sull'Odissea. Il regista incaricato – ma disprezzato dal suo finanziatore – è Fritz Lang, che impersona se stesso. Il grande cineasta tedesco 45 In Europa il più grande complesso di teatri di posa (22, utilizzati per produzioni cinematografiche e televisive) appartenenti a una stessa società (Cinecittà Luce S.p.A.) è situato a Roma. 46 Le Mépris (Francia-Italia 1963) è sceneggiato dallo stesso Godard. Le società di produzione sono la Compagnia Cinematografica Champion, Les Films Concordia, Rome Paris Films. 61 rappresenta la coscienza critica del cinema, quella che non vuole arrendersi alle necessità del compromesso commerciale senza almeno far filtrare, attraverso le immagini, qualche pensiero e un po' d'intelligenza. Ma Paul è lì per arrendersi alla dolcezza degli assegni a molte cifre e di una vita più comoda. Nel meraviglioso scenario della Villa Malaparte di Capri, dove la troupe sta girando, la coppia si frantuma contro le lusinghe del mondo dello spettacolo, con cui Jeremy (Jerry) tenta di comprare non solo il marito, ma anche le grazie della moglie. Camille non è una donna raffinata, ma nemmeno una stupida: nell'esitazione ruffiana di Paul, poi nella sua deferenza verso il ricco committente, legge la voglia di barattare il loro rapporto con fama e denaro. Inizia, per lei, il percorso inesorabile che va dall'amore al disprezzo. Il film francese, a dispetto del titolo, è pieno di apprezzamento per l'Italia47, una passione di cui il teutonico Fritz Lang rappresenta il vero interprete: un paesaggio aspro, di antica bellezza, che si fonde con profonde radici intellettuali in una sorta d'imponente eredità mediterranea. È chiaro, nonostante l'ossequio, il pensiero di Godard (e di Moravia) sulla nostra tradizione artistica: solida e con radici profondissime, eppure priva di linfa vitale e legata a un passato che la condiziona, la opprime e le toglie ogni prospettiva di rinnovamento. È stata comprata all'ingrosso dagli stranieri, che si sono aggiudicati, pian piano, tutte le arti fino alla settima, tutte le muse fino alla decima: il cinema. Costoro, gli americani in testa, hanno colonizzato quegli spazi creativi lasciati deserti dalla decadenza, dalla mancanza d'inventiva, dal conformismo. La desolata Cinecittà ritratta ne Il disprezzo – una ghost town che estende all'intera Roma la sua atmosfera spettrale – è ormai abitata soltanto da fantasmi di idee: i talenti che furono, le bellezze dei secoli passati, un'energia artistica che non si trova più. Eppure Godard rappresenta un'eccezione. Il 47 La versione che circolò da questa parte delle Alpi fa storia a sé. Pesantemente manipolata dal co-produttore Carlo Ponti, che la volle "italianizzare", essa restituisce un film completamente diverso: depurato da molte scene (di nudo o meno), sterilizzato grazie al doppiaggio dalla varietà delle lingue parlate (inglese-tedescofrancese-italiano), mondato da molti elementi tragici e introspettivi. Un dramma senza palpiti, insomma. Jean-Luc Godard lo disconobbe, difendendo la pellicola originale contro quella del suo collaboratore d'oltralpe che, a suo dire (e paradossalmente), aveva snaturato l'italianità del romanzo di Moravia. 62 cinema internazionale ha quasi sempre guardato all'Italia in maniera diversa dal regista francese e dal grande scrittore nostro compatriota. Nessuna terra desolata, nessun fantasma: soprattutto, nessun rimpianto. Ciò che è stato non si distingue in modo così drastico da ciò che ancora è, o ancora può essere. Non conta tanto quello che l'Italia non riesce più a rappresentare: è importante quello che ha saputo dare all'arte – a tutte le arti – in lunghi secoli di civiltà e di genialità ineguagliabili. Con buona pace di Godard e della sua Roma, insomma, il Bel Paese è stato e resta, per gli operatori del grande schermo, l'inarrivabile fabbrica dei sogni, cioè della creazione artistica. Ma questa immagine non è un'invenzione cinematografica. I prodotti culturali che avevano per tema l’Italia, la sua storia e le sue genti anche nei secoli passati viaggiavano in tutta Europa48, in tutto il mondo, raggiungendo un'eletta schiera di dotti e uomini d'arte e di scienza, ma anche persone più umili. Erano, ben prima di riempire le sale cinematografiche, una merce ambita. I registi sono i veri eredi di quei turisti che, nei secoli passati, affollavano le città d'arte. Non tanto, per la verità, dei nobili sfaccendati e dei ricchi adolescenti: quanto di quella nutrita schiera di accompagnatori – precettori, letterati, pittori e musicisti – che osservavano i dettagli per raccontarli in patria. Essi guardavano, copiavano, sfornavano senza sosta – di città in città, di meraviglia in meraviglia – relazioni e disegni su ciò che vedevano. Sceneggiatura e 48 Anche prima che ci pensassero i fratelli Lumière, gli stranieri venivano a conoscenza dell'arte italiana in modi diversi, senza dover per forza intraprendere le fatiche del Grand Tour. Le grandi opere urbane erano descritte nelle memorie dei pellegrini e dei mercanti; nelle lettere di lontani conoscenti o, quando venivano pubblicati, nei diari dei viaggiatori e dei nunzi. Le meraviglie dell'architettura, della scultura e di tutte le arti figurative viaggiavano attraverso le illustrazioni di schiere di pittori e di disegnatori d'Oltralpe, che riportavano in patria ciò che avevano imparato e riprodotto. I maestri italiani, come le loro opere, cercavano committenze in giro per l'Europa, dando vita a scuole e proseliti. Circolavano i cantori e i musici, alla ricerca di mecenati esteri: le loro canzoni e le loro arie parlavano a un pubblico curioso e ammirato del carattere passionale degli italiani. I fogli di musica, i libretti e le partiture varcavano i confini tanto quanto gli strumenti pregiati, fabbricati da inarrivabili scuole di artigiani. Ma i libri, soprattutto, giravano l'Europa, con il permesso o meno delle autorità. Tante volte il Bel Paese veniva esaltato per bocca del narratore di un romanzo; vituperato dalla penna di un poeta o di un trattatista; illustrato con finta oggettività dall’inchiostro di un cartografo. 63 immagini, per così dire, di un film che avrebbero proiettato una volta tornati, sicuri dell'attenzione avida del pubblico. Il percorso è molto simile a quello intrapreso dal cinema. Esplorando gli infiniti percorsi culturali della nostra civiltà – dal Rinascimento al pieno Novecento – i registi hanno cercato di cogliere l'essenza del genio italiano, e poi di restituirla con il testo, le immagini e la musica. Si tratta, nella maggior parte dei casi, di biografie illustri. È la via più semplice per illustrare una storia, quella che consente di avvincere lo spettatore presentandogli un individuo straordinario, ma consentendogli di immedesimarsi con le sue vicende. Eppure, non sempre i cineasti hanno preso questa strada per raccontare l'eccezione rappresentata dalla cultura italiana. Ci sono opere cinematografiche in cui la narrazione non riguarda un solo personaggio. La trama si sviluppa, in questi casi, intorno a un contesto culturale – una città, una cerchia, un gruppo di talenti; o anche, più ambiziosamente, usando come elemento unificante e come fil rouge tra situazioni diverse, un genere artistico, come l'opera lirica. In queste pellicole il ruolo del singolo protagonista e delle sue capacità tutte italiane lascia il posto a un racconto corale. Al cinema, ogni arte italiana ha la sua storia. Nel corso del Novecento, alcuni talenti sono stati magnificati più di altri, forse per la loro vicinanza al mezzo espressivo della macchina da presa. La musica è quella che ha sempre ottenuto – soprattutto, ma non solo, dalla diffusione del sonoro – piena cittadinanza nel mondo delle immagini in movimento, perché considerata alla stregua delle altre componenti del film, come il testo e la fotografia. Nessuna meraviglia, dunque, che i grandi musici o i grandi generi musicali abbiano ispirato un numero consistente di sceneggiature. Questi rappresentano, in varie maniere, l'eredità lasciata al mondo dalla tradizione musicale italiana, che viene a tutt'oggi considerata una vetta ineguagliabile, se presa nel suo insieme e nel fluire della storia. I registi, per esigenze di sceneggiatura, hanno dato la caccia soprattutto ai grandi maestri del passato: strumentisti, librettisti, cantanti, compositori, ma perfino costruttori di strumenti, come i liutai di Cremona. La trama dei film si piega all'esigenza di cogliere l'"essenza italiana" dell'incredibile successo che costoro riscossero, in qualche caso, anche in vita. Altri cineasti, tuttavia, hanno fatto una scelta diversa, eleggendo gli italiani a personificazione di un'attitudine culturale: esempi per tutte, il bel canto e l'opera lirica. 64 Qui, come nel caso di persone vere – come i tenori Enrico Caruso e Mario Lanza – la prospettiva è rovesciata: è la persona che si adatta alla storia cinematografica e ai personaggi, non viceversa. Oppure, in maniera ancora più originale, l'Italia diventa scenario per l'opera e il melodramma, anche contro le intenzioni originali degli autori, come accade per il Don Giovanni di Joseph Losey. Il teatro conosce una sorte diversa. Sono pochi i film che si occupano di drammaturghi e commediografi di origine italiana, se si fa eccezione per qualche pellicola non molto nota. Ma, così come grandi autori stranieri del passato scelsero il Bel Paese come ambientazione ideale dei loro testi, non pochi registi l'hanno eletto a sede naturale delle trasposizioni cinematografiche di quelle stesse opere. Non è solo una questione di opportunità della location o di attinenza allo scritto originale: sono questioni che i registi sono abituati ad aggirare abilmente, mescolando paesaggi e fabbricando mosaici di scene e contesti diversi. È, soprattutto, la scelta di una continuità culturale e simbolica. Sono state così collocate nell'Italia del passato diverse riduzioni filmiche delle commedie o dei drammi shakespeariani. In molti casi si tratta dell'opera di cineasti stranieri, come Orson Welles; in altri, sono invece italiani famosi come Franco Zeffirelli che, per girare un film tratto da Shakespeare, hanno deciso di rivolgersi a produttori internazionali e di avvalersi di grandi attori stranieri. Il risultato è, in qualche caso, un avvincente melting pot di generi, stili e culture differenti. Le altre arti, nel complesso, hanno ottenuto uno spazio inferiore nella celebrazione della grandezza italica. Alcuni film, non molti per la verità, sono stati dedicati al genio italiano nelle arti figurative: ai grandi pittori e scultori, alle poetesse e ai poeti, all'architettura. Perfino alla cinematografia, l'ultima in ordine di tempo: anche se forse Il disprezzo di Jean-Luc Godard rimane l'esempio più significativo. Non tutte, ovviamente, sono vicende interessanti per il pubblico cinematografico: le sceneggiature aggiustano vite insipide, le coloriscono, aggiungono e tolgono elementi, accentuano il comico o lo scabroso. L'arte stessa provvede ad amplificare il risultato. Resta inalterato, anche nei film più modesti, un meraviglioso gioco di specchi tra Muse diverse: in cui la figura e l'immagine in movimento si nutrono a vicenda, in cui la parola poetica arricchisce il testo, lo commenta, lo perfeziona. I film dedicati a questi temi sono, perlopiù, ritratti e storie legate a 65 una tradizione vecchia di decenni, quando non di secoli. Spesso sconfinano nel film storico, contribuendo a fare dell'Italia uno scenario che si apre su tempi gloriosi, ma remoti. È vero che l'attenzione dei cineasti si rivolge soprattutto a quel lontano passato in cui il Bel Paese era la fabbrica dei sogni: il paese dove le Muse prosperavano, più accudite e vezzeggiate che a casa loro, nell'originario Parnaso. È altrettanto vero che, ben più raramente, i registi stranieri hanno mostrato interesse verso il passato prossimo oppure il presente del panorama artistico italiano. Ma è un atteggiamento ben diverso da quello che spinse il francese Godard a girare un film sulla decadenza dell'arte italiana. Nelle pellicole dei suoi colleghi stranieri è messa in luce la dimensione simbolica di una storia pregna di talento e di eccellenza: una storia che viene fieramente elevata a genesi di tutta la cultura occidentale. Mentre concede un tributo all'Italia, in realtà ciascuno di questi cineasti sta parlando di sé. Arie in pellicola. Il "bel canto" (detto anche "belcanto" o "belcantismo") è uno dei gioielli più splendenti della nostra cultura, che nei secoli il mondo intero ci ha invidiato e che ha cercato in ogni maniera di imitare 49. Per certi versi, il bel canto segna il primo ingresso dell'Italia nello star system internazionale, quello che disegna un precoce cliché – l'estenuante divismo del cantante italiano – da cui il cinema attingerà a piene mani. I cantanti sono animali da palcoscenico: adattissimi, tuttavia, a un teatro di posa. La macchina da presa si scioglie di fronte a un esecutore di temperamento: ne coglie la maschera e le mosse nei minimi impercettibili dettagli, mentre le immagini si fondono con la 49 È un'espressione di origine italiana che nasce nel XVI secolo con la diffusione, insieme con la polifonia, della melodia a una sola voce. Sta a indicare una tecnica di canto virtuosistico che permette all'esecutore – maschio, femmina, castrato – di passare con perfetta uniformità di voce dalle note gravi alle più acute. La voce umana diventa uno strumento come gli altri: deve risultare elastica nel fraseggio, perfetta nel legato e negli ornamenti, morbida nei timbri. La tecnica prevale sul volume, al punto che il bel canto viene considerato, anche sul palcoscenico, una prova della bravura dell'esecutore, un insieme di virtuosismi che assomigliano a una ginnastica vocale. 66 sua voce. In qualche caso, il cinema ha seguito le tracce dei grandi del passato, cercando di restituirne l'eccezionalità. Non poteva quindi trascurare la vera, indiscussa diva italiana dell'opera in musica: il castrato settecentesco Carlo Broschi, in arte Farinelli 50. La sua carriera e la sua vita privata sono raccontate – con alcune libertà – dal regista belga Gérard Corbiau nel film Farinelli - Voce regina (Canal+, Italia-Francia 1994)51. Cantante amato dal pubblico, richiesto dalle corti di tutta Europa, famoso per le capacità vocali e l'abilità interpretativa, Farinelli viene tuttavia esaltato con un orgoglio italofilo quasi eccessivo, che oscura la figura del ben più famoso compositore Georg Friedrich Händel, qui nelle vesti (inappropriate) del suo arci-nemico52. È un po' patetico, soprattutto, il tentativo di far coincidere la biografia di un castrato con quella di un audace macho latino. A quanto se ne sa, Carlo Broschi era un uomo di squisite maniere, di ottima educazione e grandi capacità diplomatiche. Ma, leggende a parte, il taglio dei testicoli prima della pubertà inibiva nei cantori una compiuta maturazione sessuale e rendeva l'attività amorosa un esercizio insoddisfacente, spesso superfluo. Nel melodramma ottocentesco, che rivoluzionò l'opera musicata dei secoli precedenti, i castrati sparirono, per dedicarsi al repertorio sacro (o settecentesco) fino alla completa estinzione, agli inizi del XX secolo. Ma il bel canto italiano proseguì la sua lunga stagione di successi53 con il melodramma del secolo XIX: un genere poliedrico, 50 Il nome d'arte veniva attribuito ai castrati secondo criteri diversi dopo il taglio delle gonadi. 51 È risultato miglior film straniero ai Golden Globe, con una nomination agli Oscar. Stefano Dionisi, che interpreta Farinelli, recita solo le battute di dialogo. Per il cantato, allo scopo di restituire la particolare voce di un castrato, sono state sovrapposte in digitale le voci di un soprano donna, Ewa Małas-Godlewska, e di un controtenore uomo, Derek Lee Ragin. La registrazione delle musiche è stata realizzata dal direttore d'orchestra Christophe Rousset con la compagnia Les Talents Lyriques. 52 Händel (interpretato nel film da Jeroen Krabbé) era solo l'impresario della compagnia lirica rivale a Londra: la Royal Opera House, contro l'Opera of Nobility, in cui si esibiva Farinelli. 53 I compositori nostrani – a partire da Rossini, Bellini e Donizetti, per finire con Verdi, Mascagni, Leoncavallo e Puccini (e molti altri meno famosi) – coniarono una nuova maniera di cantare, che è quella tutt'ora in voga. È un modo che privilegia timbri drammatici, voci robuste e volumi imponenti. Uomini e donne sono divisi in sei ruoli canori (con qualche raro contraltista o sopranista di sesso maschile), grazie ai quali si 67 capace di sedurre su piani diversi: in questo senso il suo passaggio al cinema e alla televisione rappresenta un esito naturale, accolto dal pubblico con molto favore. Ma, più in generale, è giusto dire che l'opera e i musicisti italiani sono stati identificati come i portatori di una tradizione che, pian piano, si è trasformata in uno stereotipo culturale, e poi in un cliché cinematografico. L'effetto di questo fenomeno è che l'Italia rientra, a torto o a ragione, in molte produzioni cinematografiche che riguardano l'opera in musica. Da una parte, non pochi cineasti stranieri si sono cimentati nell'allestimento di opere dal vivo sul suolo italiano o con cantanti nostrani. Dall'altra, il grande schermo e la televisione hanno portato in scena l'Italia del melodramma: le musiche, le star e perfino le ambientazioni. Alcuni registi hanno trasformato quelle che dovevano essere riduzioni cinematografiche di opere famose in film eccezionali. Altri hanno lasciato che la musica d'opera ispirasse liberamente l'intreccio della sceneggiatura. Alcuni hanno trasformato un celebre cantante nel protagonista di un film; mentre altri ancora hanno costruito intere filmografie su un cantante trasformato ad hoc in protagonista. Nel primo gruppo si colloca il regista statunitense Joseph Losey con il Don Giovanni di Wolfgang Amadeus Mozart (Francia-Italia-Gran Bretagna-Germania 1979)54, recitato in italiano secondo il testo originale. Il libretto di Lorenzo da Ponte non specifica il luogo in cui si svolge la vicenda: si dà per scontato che sia la Spagna, giacché i personaggi sono tutti spagnoli. Il tributo all'Italia da parte di Losey è quindi in parte inaspettato, eppure significativo. La storia del celebre seduttore spagnolo don Juan (il basso-baritono Ruggero Raimondi), dal tentato stupro di donna Anna (la soprano Edda Moser) fino alla contendono il favore del pubblico sul palcoscenico. Al successo dell'opera contribuisce ora una serie di elementi che acquistano pari dignità rispetto all'abilità vocale dei personaggi: il ritmo incalzante di arie e recitativi; l'intreccio, tragico o comico; i costumi; la scenografia; la regia nel suo complesso. 54 L'opera è Il dissoluto punito, o sia Il Don Giovanni. Dramma giocoso in due atti KV 527, libretto di Lorenzo Da Ponte. La prima si è tenuta a Praga, al Nationaltheater, il 29 ottobre 1787. I personaggi sono: Don Giovanni, giovane cavaliere estremamente licenzioso (Bar); Donna Anna, dama (S); Don Ottavio, suo promesso sposo (T); il Commendatore, padre di Donna Anna (Bs); Donna Elvira, dama di Burgos, abbandonata da Don Giovanni (S); Leporello, servo di Don Giovanni (Bs); Masetto, contadino (Bs); Zerlina, sua promessa sposa (S); contadini e contadine varie. 68 discesa all'Inferno davanti al Convitato di Pietra, è ambientata quasi interamente a Vicenza. La città della Basilica e delle ville palladiane e del Teatro Olimpico è trasformata, per l'occasione, in uno sfondo lagunare, dove la confusione con Venezia è legittima. Le luci sono soffuse; le atmosfere si dividono tra il classicismo palladiano e il romanticismo degli interni, tra la decadenza e la nobiltà di quelle stanze antiche, delle balconate, dei loggiati; la nebbia sale dai piedi dei protagonisti. L'Italia di Losey è funzionale a raccontare un'esperienza in bilico tra sogno e realtà, tra il peccato e la gioia di vivere, in cui corrotti, opportunisti e innocenti si confondono nella comicità della musica. Il riferimento d'obbligo è a un altro leggendario amatore cinematografico, tragico e grottesco insieme, di quegli stessi luoghi e di pochi anni prima: il veneziano Casanova, ritratto da Federico Fellini nel suo cult movie55. Nel secondo gruppo di film, quello in cui la musica ha ispirato lo screenplay, la realizzazione più celebre è forse Aria (Don Boyd-Virgin Group, Gran Bretagna 1987): un'opera composta da dieci episodi diretti da grandissimi registi in cui le arie d'opera, soprattutto quelle di Verdi e Puccini, forniscono il pretesto per piccoli bozzetti56. Sono narrazioni non necessariamente pertinenti al testo dell'opera originale: alcune sono surreali e oniriche; altre decisamente psichedeliche; altre grottesche, trucide o irritanti. Nonostante al film abbiano collaborato autori del calibro di Robert Altman, Jean-Luc Godard, Derek Jarman, Nicolas Roeg e Ken Russell 57, l'unico vero momento piacevole è rappresentato dallo spassosissimo Rigoletto di Julien Temple, in cui la "tremenda vendetta" dell'opera si stempera nelle peripezie adulterine del buffo quartetto di protagonisti. La pellicola mira a essere un prodotto d'avanguardia; nel suo complesso, però, risulta irritante e fa rimpiangere in non pochi punti un vecchio, tradizionale spettacolo d'opera. 55 Il film, il cui protagonista è interpretato da Donald Sutherland, è sceneggiato da Federico Fellini e Bernardino Zapponi a partire da Storie della mia vita di Giacomo Casanova. La produzione è PEA. 56 Le arie italiane nel film sono tratte da: Un ballo in maschera; "La Vergine Degli Angeli" da La Forza del Destino; Rigoletto di Giuseppe Verdi; Nessun dorma dalla Turandot di Giacomo Puccini; Vesti la giubba da I pagliacci di Ruggero Leoncavallo, cantata da Enrico Caruso. 57 Bruce Beresford, Bill Bryden, Franc Roddam, Charles Sturridge sono gli altri registi, meno conosciuti, perché hanno lavorato soprattutto per videomaking e televisione. 69 Nel terzo gruppo spicca uno strano film: Yes, Giorgio (MetroGoldwyn-Mayer, USA 1982) di Franklin J. Schaffner. È un esperimento audace ma fallimentare, in cui il regista statunitense chiama a recitare la star dell'opera lirica italiana Luciano Pavarotti, forse nell'illusione che la presenza scenica e le doti tenorili garantiscano di per sé una buona prova attoriale. Il risultato è un romanzetto banale tra un tenore italiano che ha perso la voce in una tournée americana e la sua logopedista (Kathryn Harrold), in un'atmosfera da B-movie: pessima recitazione, dialoghi terribili, costumi sciatti e una fotografia che merita una menzione negativa. Menzione che è stata data, invece, allo stesso Pavarotti e allo sceneggiatore Norman Steinberg, nominati nei Golden Raspberry Awards per i premi di Peggior Attore, Peggiore Stella Emergente e Peggior Sceneggiatura. In effetti, aldilà dei riconoscimenti, la collaborazione tra i due è sfociata nella maggior concentrazione di stereotipi sui tenori, sull'opera lirica e sugli italiani che sia mai stata prodotta oltre oceano. Se occorre rintracciare la genesi e lo sviluppo di questi stessi stereotipi in terra americana, non si può fare a meno di ricordare la produzione cinematografica del tenore e attore Mario Lanza, che recitò dal 1944 al 1949 in molti film operistici destinati al grande pubblico. Alfred Arnold Cocozza detto Freddy – poi Mario Lanza, dal nome della madre – era figlio di italiani emigrati a Filadelfia, che lo avevano avviato al bel canto. Buoni maestri, una voce possente che ricordava agli americani quella di Enrico Caruso58, un bell'aspetto e notevoli doti sceniche gli avevano preparato la strada per la fama nel mondo della lirica. Ma il cinema lo volle per sé, facendone in qualche modo la sua vittima. Un modesto debutto come corista nel '44 in un film di George Cukor per la Twentieth Century-Fox (Vittoria alata, Winged Victory, USA) e, soprattutto, dieci anni di contratto con la Metro Goldwin Mayer come protagonista di film musicali: l'immediato successo di quei film – anche in Italia, dove il doppiaggio fu efficacemente affidato a Ettore Pace – pose fine a una sicura carriera 58 Il mito di Caruso è il tema di Fitzcarraldo è un film del 1982, scritto e diretto da Werner Herzog. È ambientato in Amazzonia, a cavallo fra '800 e '900. Il sogno di Brian Sweeny Fitzgerald (detto "Fitzcarraldo" dai nativi del luogo) è quello di costruire un grande Teatro dell'Opera a Iquitos, un piccolo villaggio amazzonico dove vive, per farvi esibire grandi cantanti come Enrico Caruso, che vede cantare nel teatro dell'opera di Manaus. 70 come tenore lirico. Il contratto capestro con la MGM lo privò di ogni possibilità di ottenere ingaggi a Hollywood, e perfino di affermarsi come cantante di romanze. L'infelicità che ne conseguì determinò indirettamente i suoi problemi cardiaci e la sua scomparsa. Essa parve al mondo simile all'atto finale di un personaggio del melodramma italiano, vissuto in bilico tra allegria e dramma. I film che vedono Lanza protagonista sono otto59: tutti romantici, spensierati e piuttosto modesti. Fa eccezione Il grande Caruso (di Richard Thorpe, USA 1951)60, considerato la sua migliore prova, in cui il giovane tenore interpreta magistralmente circa quindici pezzi del repertorio del suo grande predecessore italiano 61: ma anche, purtroppo, i più vieti stereotipi legati al nostro paese, alla dabbenaggine stracciona del suo popolo e al figlio maschio italiano che, notoriamente, riesce ad avere successo solo quando la mamma muore. Un passo avanti per la bella musica, due passi indietro per l'orgoglio nazionale. Un dato è tuttavia interessante: il successo dell'italoamericano Lanza costituì l'ulteriore tassello di un complesso cliché cinematografico sull'Italia e gli italiani, che fu in costruzione per quasi tutto il Novecento. Capriccio italiano. L'opera lirica italiana ha suggerito al cinema personaggi pieni di forza comica o drammatica, che hanno rafforzato nel pubblico straniero l'immagine degli italiani come un popolo colorito, preda delle passioni, sferzato dai sentimenti, fatalista contro la forza del destino. 59 Le pellicole che lo vedono protagonista sono tutte prodotte e distribuite negli Stati Uniti dalla MGM: Il bacio di mezzanotte (That Midnight Kiss, di Norman Taurog, 1949); Il pescatore della Louisiana (The Toast of New Orleans, di Norman Taurog, 1950); Il grande Caruso (The Great Caruso, di Richard Thorpe, 1951); Da quando sei mia (Because You're Mine, di Alexander Hall, 1952); Il principe studente (The Student Prince, di Richard Thorpe e Curtis Bernhardt, 1954); Serenata (Serenade, di Anthony Mann, 1956); Arrivederci Roma di Roy Rowland (1958); Come prima (For the First Time) di Rudolph Maté (1959). 60 Il film ricevette l'Oscar per il Miglior suono, assegnato a Douglas G. Shearer. 61 La raccolta con i brani del film ha venduto più di un milione di copie nel mondo. Con questa, Lanza ha ottenuto il disco d'oro. Nel 1949 un suo disco di romanze era già stato considerato dalla National Records Critics Association come migliore registrazione dell'anno, mentre nel 1950 nel film Il pescatore della Louisiana, Lanza aveva avuto strepitoso successo con la sua più famosa canzone, Be my Love. 71 Un servizio non molto diverso è stato reso a quella stessa immagine dalle pellicole dedicate ad altri protagonisti del mondo musicale: i compositori e i suonatori, perlopiù. C'è invece un film dedicato a uno strumento, italiano per origini e per carattere: Il violino rosso, diretto dal regista canadese François Girard nel 1998. Il violino in questione è maledetto, perché il liutaio Nicolò Bussotti lo ha verniciato con il sangue della sua amata moglie, mentre questa moriva nel dare alla luce il loro bambino. Passerà così di proprietario in proprietario, di secolo in secolo, dai bambini agli adulti, suscitando sempre sventura, passioni tragiche e fatali, azioni crudeli e criminali in coloro che lo suonano. Il violino rosso sangue imperversa come una star capricciosa: miete in tutto il mondo successi e vittime. È l'essenza del talento italiano, secondo Girard: genio e sregolatezza, si potrebbe dire, anche se l'eccezionale strumento cremonese, nell'adempiere al suo funesto compito di vendetta, si mostra regolare e metodico come un serial killer. Meno metodico, ma non meno fatale e attraente, è il compositore e celebre violinista Paganini secondo la versione di Klaus Kinski62, che ne è attore principale e regista (Président Films-Reteitalia-Scena Film, Francia-Italia 1989). È una pellicola che non si lascia confondere con molte biografie zuccherine e oleografiche dei grandi musicisti. È, anzi, un film difficile e disturbante, frutto di un progetto ostinato con cui il cineasta – che sarebbe morto di lì a poco – intese lasciare al pubblico il suo testamento, identificandosi con il grande e controverso genio del violino. La storia è fragile: sono gli ultimi giorni di Paganini, incastonati tra continui flashback, ricordi che provengono dalla memoria sua e dalle donne che ha amato. Le immagini scorrono in sequenze frammentate dagli stacchi musicali: in ciascuna, o quasi, si consuma la contraddizione tra il talento immenso e la malattia, la bestialità, lo squallore del satiro, dell'incontinente, del violento. Il filo rosso della vicenda è però l'amore per il figlioletto, che attenua la ripugnanza che il personaggio sembra dover suscitare a tutti i costi. La colonna sonora è meravigliosa: il resto del film, per la verità, un po' meno. Non a caso 62 In realtà esiste anche un film inglese, non molto pregevole né molto conosciuto, di Bernard Knowles con Stewart Granger e Phyllis Calvert che si intitola Un grande amore di Paganini (The Magic Bow, Gainsborough Pictures, Gran Bretagna 1946) che enfatizza ancora una volta la maniacalità egocentrica e quasi demoniaca del grande violinista. 72 il grande regista Werner Herzog – amico e collaboratore di Kinski – si era rifiutato di girarlo per lui, tanto la sceneggiatura e i contenuti, alla lettura, gli erano parsi «infilmabili». Anche il compositore Antonio Vivaldi ha colpito i cineasti internazionali per la possibilità di abbinare un buon soggetto – una vita interessante, movimentata e un po' peccaminosa – a una musica colorita, trascinante, che anche il pubblico straniero riconosce e adora per averla ascoltata in mille contesti diversi, dal cinema alla pubblicità: i famosissimi quattro concerti per violino solista, archi e clavicembalo noti come le Quattro stagioni. Il personaggio di Vivaldi appare per la prima volta nel film Piccoli delitti veneziani (o Venezia rosso sangue, dal titolo originale Rouge Venise, Cléa ProductionsPrésident Films-Reteitalia, Francia-Italia 1988) diretto da Étienne Périer, un regista belga noto soprattutto per le sue collaborazioni televisive. In realtà la storia è incentrata su un'immaginaria avventura vissuta nel 1735 dal giovane commediografo Carlo Goldoni, che con gli amici Giovanbattista Tiepolo e Antonio Vivaldi 63 si improvvisa investigatore per scoprire chi, a Venezia, stia uccidendo l'uno dopo l'altro i suoi mecenati. L'unico pregio di questa pellicola è il tentativo esplicito di rendere omaggio a un'eccezionale stagione culturale veneziana: quella che, a metà del Settecento, vide fiorire un'intera comunità di grandiosi talenti artistici, quelli che nel film di Périer compaiono come comprimari al fianco dei tre protagonisti. Sulla figura di Vivaldi sono stati scritti altri soggetti: il primo riguarda un film Antonio Vivaldi - Un prince à Venise, uscito nel 2006 come coproduzione italo-francese per la regia di Jean-Louis Guillermou; un film che vede nei ruoli principali Stefano Dionisi, già Farinelli, nei panni di Antonio Vivaldi e Michel Serrault, in quelli del vescovo di Venezia, suo acerrimo nemico64. Questo è il primo tentativo di girare una pellicola intera sulla vita di Vivaldi, basata sulle poche notizie che 63 Gli attori Vincent Spano, Wojciech Pszoniak e Massimo Dapporto sono rispettivamente Goldoni, Vivaldi e Tiepolo, mentre Isabel Russinova interpreta la bella veneziana Nicoletta. 64 Jean-Louis Guillermou, autore amante della musica e in prima linea per molte battaglie culturali a livello europeo, è anche autore della sceneggiatura. La produzione è affidata a Vivaldi Productions (Parigi), alla Dream Film (Torino) e alla Ila Palma Mazzone Produzioni (Palermo-Roma). Nei panni del "prete rosso" c'è Stefano Dionisi, già Farinelli; Michel Serrault è nella parte del patriarca di Venezia; Christian Vadim è Carlo Goldoni; Jean Rochefort è papa Benedetto XIII. 73 si hanno su di lui: la fantasia del regista-sceneggiatore ha dovuto colmare i molti vuoti. Guillermou, già autore di un film su Johann Sebastian Bach, si pone (per sua dichiarazione) l'ambizioso scopo di restituire piena dignità a un personaggio anticonformista, in perenne conflitto con le istituzioni secolari veneziane e con la Chiesa cattolica. È dato risalto, soprattutto, all'impresa didattica del grande violinista con le orfanelle della Pietà: quelle giovanissime allieve che gli diedero inaspettato lustro, che costituirono per anni il suo bacino "sinfonico". Il regista ha fatto un lavoro serio, privo di quell'odore di gossip che ammanta solitamente i film storici dedicati ai grandi personaggi e che, perlopiù, trova una maniera non volgare di proporre la musica classica al grande pubblico. Ciò nonostante, non sfugge alla tentazione di glorificare una vita su cui nessuno – tantomeno Guillermou – può avere molte certezze e di romanzare l'ignota contesa tra il patriarca di Venezia e il «prete rosso», come veniva chiamato il celebre violinista. Un altro film, pur girato dall'italiana Liana Marabini, si è avvalso di un cast completamente straniero, è in lingua inglese e ha avuto, in Italia, una circolazione piuttosto modesta. È stato, invece, trasmesso dalle televisioni di tutta Europa con il titolo originale inglese, Vivaldi: The Red Priest (Riviera Films, Italia 2009), senza rendere, peraltro, un grande servizio al nostro grande connazionale. Racconta gli ardori amorosi, veri o presunti, di un Vivaldi stereotipato, ammiccante, decisamente anacronistico. È interpretato da un attore più bello che espressivo, lo scozzese Steven Cree: il quale lo rende, a ben vedere, un personaggio da operetta più che un compositore di opere. Non molto meglio risulta il film Vivaldi della regista americana Patricia Riggen (De Laurentiis-Mosca, Italia 2011). È una produzione italiana che di straniero ha tutto il resto, compresa la bella Jessica Biel nei panni di Anna Tessieri Giro, la giovane protetta del grande violinista protagonista della storia d'amore qui (mal) raccontata. Il meglio, tuttavia, sembra dover ancora venire, visto che da diversi anni è in corso di realizzazione il film Vivaldi di Boris Damst (Mechaniks-Hand Picked Films, Usa-Belgio 2013). Nessuno l'ha ancora visto, ma si sa che è incentrato sulla gioventù di Vivaldi e il suo controverso rapporto con le orfane della Pietà, le sue giovani allieve. Il regista non è noto per le sue opere impegnate. È lecito immaginare che la trama – che alla lettura pare una specie di Attimo fuggente in costume con qualche venatura di Lolita – non renderà piena giustizia 74 all'essenza del talento musicale italiano, che talvolta gli stranieri sembrano ricercare con inutile accanimento. Si va all'estremo opposto con Nostalghia (Ностальгия, Opera Film Produzione - Rai Due - Sovinfilm, URSS-Italia 1983) di Andrei Tarkovsky: un film difficile, girato con l'accuratezza e la perizia fotografica che il grande regista russo ha sempre impiegato65. Qui non si celebra il genio italiano, ma l'Italia stessa come terra della ricerca artistica. Tonino Guerra e lo stesso Tarkovsky sono gli sceneggiatori di due storie che si intersecano, tra la campagna russa e quella toscana. La prima è la principale, quella di Andrei Gortčakov, poeta e scrittore sovietico, e quella di Pavel Sosnovsky, un compositore russo del XVIII secolo esiliato in Toscana, di cui Andrei vuole ricostruire la biografia. Attraverso la musica, questi compie un'immersione nella «nostalghia», la nostalgia della propria terra: quella che travolge lui, prima di tutto, ma anche quella del suo alter ego Pavel e di tutti gli alienati che incontra. È un film immobile e, nonostante il tema, poco musicale. Malgrado gli sforzi di Tarkovski e quelli di Guerra, l'unica nota indimenticabile è data dal paesaggio toscano e sabino: l'Abbazia di San Galgano, Bagno Vignoni, la Val d'Orcia e la chiesa allagata di Santa Maria in San Vittorino a Cittaducale. Shakespeare in Italy. Le fortune del teatro internazionale sono legate all'Italia grazie alla diffusione dei classici latini, come Plauto, Terenzio, Seneca; ma anche grazie alle opere del più grande drammaturgo inglese del Cinquecento, William Shakespeare, che volle ambientare nel Bel Paese non poche delle sue commedie e tragedie più famose. Ben cinque sono le vicende shakespeariane che si svolgono tra Venezia e il suo contado: Romeo e Giulietta e I due gentiluomini a Verona; a Venezia, Otello e Il mercante di Venezia; a Padova, La Bisbetica domata. Tre grandi tragedie sono ambientate nella Roma antica: Giulio Cesare, Coriolano e Tito Andronico. La Sicilia è invece la terra delle commedie, come Racconto d'inverno e Molto rumore per nulla, che hanno luogo a Messina e La Commedia degli Errori, ambientata a Siracusa. La Tempesta ha invece il centro dell'azione scenica in 65 Nel 1983 il film ha vinto il Grand Prix du cinéma de création al Festival del cinema di Cannes, ex æquo con L'Argent di Robert Bresson. 75 un'isola mediterranea sconosciuta, ma non necessariamente italiana, anche se alcuni dei suoi personaggi provengono dal sud d'Italia. In molti, tra critici letterari e storici, si sono chiesti da dove derivasse l'ossessione di Shakespeare per il nostro paese, tanto che è stata ipotizzata per lui una falsa identità inglese e origini sicule. È vero, tuttavia, che alla corte della grande regina Elisabetta I Tudor la cultura italiana – i novellieri medioevali, i poemi, il teatro classico e moderno – aveva conosciuto, negli ultimi decenni del Cinquecento, una florida stagione di consensi, con un buon numero di appassionati e imitatori. Per il pubblico inglese, il carattere dell'italiano-tipo – così come la letteratura lo dipingeva – si adattava meravigliosamente alla maschera teatrale: a quelle caratterizzazioni dei personaggi che, impersonando passioni e intenzioni, costituivano il perno della commedia o della tragedia. È difficile contare i film stranieri realizzati sulle opere teatrali di William Shakespeare cosiddette "italiane". Tra queste si segnalano ben nove versioni di Otello, considerato il dramma all'italiana per eccellenza, perché incentrato sul sentimento della gelosia e sulla macchinazione. Il più famoso è senza dubbi quello di Orson Welles; ma il più apprezzato dal pubblico contemporaneo e dalla critica fu l'Othello (Gran Bretagna 1965) di John Dexter (regia teatrale) e Stuart Burge (regia cinematografica): la trasposizione su pellicola, con qualche taglio, dello spettacolo teatrale del National Theatre, con il sublime attore inglese Laurence Olivier 66. Esistono almeno cinque versioni straniere de La bisbetica domata, nessuna memorabile. Lo è invece quella del 1967 di Franco Zeffirelli, regista italianissimo che volle però lavorare con una produzione straniera (F.A.I., Royal Films International) e due attori americani come Elisabeth Taylor e Richard Burton67. Esistono due film ispirati a Coriolano68, uno con Morgan Freeman (di Wilford Leach, Joseph Papp, USA 1979), l'altro di e con Ralph Fiennes (Artemis Films-Hermetof Pictures-Magnolia Mae Films, Gran Bretagna 2011). Del Giulio Cesare solitamente si ricorda la 66 Il film vanta attori straordinari come Laurence Olivier, Maggie Smith, Frank Finlay e Joyce Redman, che ricevettero tutti le nominations per gli Oscar 67 I due grandi attori, entusiasti del progetto, scelsero di co-produrre il film con un milione di dollari. 68 C'è anche Coriolan, un filmato del 1950 di Jean Cocteau su 16 mm di cui esiste una sola copia, che l'artista girò per esperimento in un solo weekend e che proiettò per gli amici. 76 versione americana degli anni cinquanta del Novecento: Julius Caesar (MGM, USA 1953) per la regia e la sceneggiatura di Joseph L. Mankiewicz, interpretato da grandi attori come Marlon Brando (Marco Antonio), James Mason (Bruto), John Gielgud (Cassio) e Louis Calhern (Giulio Cesare)69. Ci sono tre realizzazioni straniere per Il mercante di Venezia: l'ultima, la più celebre, è quella di Michael Redford (USA 2004), con Al Pacino nelle vesti del protagonista. Ben dieci registi esteri hanno proposto al pubblico Molto rumore per nulla, spesso scegliendo l'Italia (magari la Toscana, anziché la Sicilia) come location: tra questi si segnala, per brio e accuratezza nella resa del testo originale, quello dell'inglese Kenneth Branagh (Gran Bretagna-USA 1993), specializzato nelle interpretazioni shakespeariane (in veste di attore) e nella loro messa in scena in qualità di regista cinematografico. In una Roma contemporanea del quartiere Europa – tra degrado e tifosi – è invece trasposta l'efferata tragedia di Tito Andronico (Anthony Hopkins) e dell'imperatrice Tamora (Jessica Lange), che consumano reciproche vendette nel film girato dalla statunitense Julie Taymor (Overseas Filmgroup-Clear Blue Sky Productions, Gran Bretagna-Italia-USA 1999). La vicenda veronese dei giovani amanti Giulietta e Romeo merita un'attenzione speciale, perché ha dato vita a ben oltre quaranta pellicole: la prima risale addirittura al 1900. La costosissima versione del 1936 di George Cukor, prodotta da Irving Thalberg – con Norma Shearer e Leslie Howard nel ruolo dei due amanti e John Barrymore nella parte di Mercuzio – resta uno dei grandi classici di Hollywood. Ma ancor più celebre è il musical West Side Story (di Jerome Robbins e Robert Wise, prodotto da Wise, USA 1961), liberamente ispirato a Romeo e Giulietta, che anche grazie alle musiche di Leonard Bernstein vinse ben dieci Oscar. L'anticonformista Abel Ferrara ha tratto dalla tragedia shakespearina il suo China Girl (Great American Films Limited Partnership-Street Lite-Vestron Pictures, USA 1987), ambientato a New York in mezzo a una guerriglia tra immigrati cinesi e italiani. Non si può dimenticare, infine, il film del 1996 Romeo + Juliet, diretto da Baz Luhrmann (Bazmark Films-Twentieth Century Fox Film Corporation). Si tratta di un curioso esperimento cinematografico: il film colloca la scena in California, in una fantomatica Verona beach, tra gangster e luci al neon, ma tiene a 69 Ricevette il premio Oscar 1953 per la miglior scenografia, dopo ben cinque nominations. Al Festival di Locarno del 1953 ricevette il Pardo d'oro. 77 mantenere il testo nella sua forma integrale e, nei ritmi e nelle scene, persegue lo spirito delle interpretazioni teatrali più puriste. Nei ruoli di Romeo e Giulietta figurano Leonardo di Caprio70, non ancora una grande star, e Claire Danes. Ma la storia shakespeariana più famosa che sia mai stata realizzata da un attore e regista straniero in Italia non è un film, ma un dramma del tutto personale, consumato tra commedie degli equivoci e piccole tragedie umane. È la storia dell'americano Orson Welles, che dopo il successo di Quarto potere (Citizen Kane, prodotto, scritto e interpretato da Welles, USA 1941) aveva abbandonato Hollywood ancora giovanissimo per ragioni non del tutto chiare, che avevano a che fare con il suo controverso rapporto con l'industria cinematografica e con le persecuzioni maccartiste. Welles risiedette in Italia circa sei anni, anche se non stabilmente, correndo dietro a finanziamenti, a curiosi progetti cinematografici o a qualche particina come attore (Cagliostro, titolo originale Black Magic di Gregory Ratoff, 1947; L’uomo, la bestia e la virtù, di Steno e con Totò, 1953) che gli consentisse di sopravvivere; coinvolto di continuo in storie amorose (come quella con Lea Padovani) e zuffe con i critici nostrani. Il suo periodo italiano fu la delizia dei rotocalchi e delle rubriche di spettacolo, ma anche la croce della critica cinematografica più seria e impegnata: gli uni e le altre contribuirono al mito di Welles artista anarcoide, ingestibile per il cinema e per il sistema commerciale che lo governava. Le opere shakespeariane con cui si dovette confrontare negli anni italiani sono due. La prima è il Macbeth (Republic Pictures, USA 1948), girato in America in soli ventitré giorni con i tempi e i mezzi di un B-movie. Macbeth è però un disastro tutto italiano: fu inserito nel programma della Mostra del Cinema di Venezia, da dove venne ritirato, poi presentato fuori concorso, poi subito stroncato dai critici che ne videro soltanto una prova dilettantesca e sgangherata, senza meriti artistici. Nell'idea di Welles, Shakespeare doveva essere, in un certo senso, il suo lasciapassare per l'Italia, la quale gli riservò fin da questi esordi una malcelata ostilità. La seconda opera che risale al periodo italiano è Otello71, girato nella 70 Di Caprio ricevette l'Orso d'argento al Festival Internazionale del Cinema di Berlino. The Tragedy of Othello: The Moor of Venice (1952) è il film vincitore del Grand Prix du Festival come miglior film al 5º Festival di Cannes ma fu distribuito in America 71 78 Tuscia, a Viterbo, a Tuscania e, naturalmente, a Venezia. Le riprese durarono oltre tre anni a causa delle difficoltà economiche del regista, che dovette interrompere più volte perché i finanziatori si ritiravano o il denaro terminava. Cast, staff e locations venivano sostituiti dopo ogni interruzione, al punto che a Cannes, nel 1953, la produzione venne presentata come marocchina. L'opera, nonostante la faticosa messa a punto e gli stratagemmi low budget, è un capolavoro: il più bel film dedicato a Shakespeare in Italia da un regista straniero. Ma Welles finì per immedesimarsi con il suo Otello e con la tragedia del Moro di Venezia, un uomo emarginato e ingannato da un sistema ostile: nel suo caso personale, il cinema italiano che egli si era proposto di conquistare. L'Italia fu il più bruciante dei fallimenti, dato l’accanimento con cui le sue pellicole e i suoi progetti vennero accolti dalla critica italiana, da quella militante di sinistra a quella democristiana o liberale. Per il grande cineasta americano il tradimento del Bel Paese fu qualcosa di molto più sgradevole di qualsiasi storia banale di adulteri e fazzoletti. L'arte, il genio, l'intelletto. Ancor più che per la musica, quando si parla di arti figurative o di letteratura, si ha talvolta l'impressione che tutte le storie di artisti siano uguali: che si snodino intorno a una vita irregolare, forse addirittura maledetta; che siano composte di grandi vizi ed eccessiva passionalità; che procedano verso un'irrefrenabile rovina. È il cliché più utilizzato dal Romanticismo in poi, quello dell'artista anticonformista, emarginato, vicino alla follia: un cliché che, in qualche caso, non risparmia nemmeno i colleghi dei secoli precedenti. È il luogo comune preferito del cinema che tratta biografie di talenti, perché assai adatto a una bella trama di amore, sventure e avventura. Se a tutto ciò si aggiunge l'Italia – con i suoi stereotipi ancor più allettanti – il tasso di passionalità sale alle stelle e la storia diventa un'esca micidiale anche per il grande pubblico. Perché allora sono pochi i film sui grandi artisti italiani del passato e dalla United Artists solo nel 1955. Le case produttrici sono la Mercury Productions Inc. e Les Films Marceau.. Orson Welles fu attore principale, nei panni di Otello, sceneggiatore e, quando aveva i soldi, produttore. Il cast comprende Micheál MacLiammóir nella parte di Iago, Robert Coote come Roderigo, Suzanne Cloutier nella parte di Desdemona, Michael Laurence come Cassio. 79 del mondo contemporaneo? Intanto, fino all'avvento della grafica digitale la resa tecnica del processo di creazione di quadri e statue era una faccenda complicata e costosa. Costruire mezza Pietà o un quarto di Cappella Sistina, per mostrare Michelangelo al lavoro, richiedeva bravi artisti e ingenti spese. C'è, però, un'altra ragione. Gli artisti maledetti a tempo pieno sono pochissimi. La loro vita è in realtà piuttosto noiosa, tra lavoro durissimo e guai con le committenze, ma sullo schermo pochi amano vedere l'arte (occidentale) associata a una ossessiva routine. La musica della colonna sonora distrae ed emoziona per lunghi minuti, mentre in sala assistiamo alle vicende di un genio musicale intento a comporre: non altrettanto possono la pittura e la scultura, né tantomeno la poesia. Agli spettatori è concesso soltanto di osservare un uomo e una donna che scalpellano, scrivono o imbrattano tele e soffitti: sono costretti a fidarsi del fatto che gli eroi del film stiano provando sublimi emozioni. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, ciò non basta affatto a coinvolgere e divertire. Ciò nondimeno, esistono film stranieri di successo su artisti italiani: sono prodotti che hanno scongiurato la noia della produzione artistica, qualcuno in maniera più raffinata ed elitaria, altri venendo incontro ai supposti gusti del pubblico. Il tormento e l'estasi (The Agony and the Ecstasy, International Classics - Twentieth Century Fox Film Corporation, USA 1965) diretto dall'inglese Carol Reed è la storia di Michelangelo (Charlton Heston) che, dopo gli iniziali successi come scultore, intraprende un tormentato rapporto artista-mecenate con il papa Giulio II della Rovere (Rex Harrison), che gli commissiona la Cappella Sistina. È un buon film storico, perlopiù attento ai dettagli tecnici e ai particolari, come quelli che riguardano la creazione di un affresco o la scelta dei marmi per le statue. Carol Reed riesce a restituire una vita dura e monotona – fatta di colori, bulino e impalcature – senza ricorrere troppo spesso a volgari espedienti narrativi; senza nemmeno, impresa ancor più difficile, fare di Giulio II un personaggio grottesco, un malvagio a tutto tondo. Ci sono altri opere straniere dedicate alle arti figurative che hanno riscosso un discreto successo a livello internazionale. Le prime quattro raccontano la storia di pittori famosi, tutti più o meno noti per una vita spesa ben aldilà delle convenzioni sociali. Il primo è Caravaggio di Derek Jarman (British Film Institute (BFI), Gran 80 Bretagna 1987), una pellicola storico-biografica decisamente non tradizionale, che parte dalla morte di Michelangelo Merisi detto il Caravaggio (Nigel Terry), e ne ripercorre, attraverso continui flashback, la vita picaresca: le ispirazioni artistiche fuori da ogni schema, gli amori etero e omosessuali, i rapporti conflittuali con la Chiesa e le altre committenze e la meritatissima fama di rissoso, di manigoldo, di avventuriero, che lo conduce alla fine romanzesca della prima scena72. Allieva di Caravaggio, e per certi versi combattiva quanto lui, è la protagonista di Artemisia, Passione estrema (di Agnés Merlet, Première Heure-Urania Film-Schlemmer Film-Dania Film, Francia 1997). È un film che racconta la storia di Artemisia (Valentina Cervi), la dotatissima figlia del pisano Orazio Gentileschi, anche lei pittrice barocca, sedotta dal suo maestro Agostino Tassi e trascinata nel processo che ne segue, che la vede trasformata in imputata. Ciò che le viene contestato è in realtà l'arroganza di voler intraprendere una carriera, quella di pittrice, riservata agli uomini. Nonostante l'enfasi sul suo ruolo di eroina romantica anticonformista, la sceneggiatura, la recitazione e qualche bella scena di pittura producono un risultato abbastanza soddisfacente, sebbene non molto apprezzato dal pubblico. Due note pellicole sono invece dedicate alla figura del grande pittore e scultore Amedeo Modigliani. Il primo è Gli amori di Montparnasse (Les amants de Montparnasse o Montparnasse 19, Franco London Films-Astra Cinematografica-Sandro Pallavicini, Italia-Francia 1958) di Jacques Becker, che si guadagnò la fama di film maledetto perché, oltre a narrare la morte prematura del protagonista, vide morire nel giro di poco tempo due sfortunati registi (Max Ophüls e il suo sostituto Becker) e l'attore principale, colpiti ancor giovani dalle stesse malattie. La trama si svolge nell'ultimo anno di vita di un poverissimo Modigliani (Gérard Philipe), intorno al suo amore per Jeanne Hébuterne (Anouk Aimée), una giovane di buona famiglia che i genitori diseredano prontamente, condannando la coppia agli stenti. La storia è la stessa, ma lo stile decisamente diverso: I colori 72 La trama non restituisce con grande accuratezza la biografia del Caravaggio, ma il lavoro di Jarman è considerato un ottimo prodotto dal punto di vista filmico. Nel 1999 il British Film Institute l'ha inserito al 93º posto nell'elenco dei migliori cento film britannici del Novecento. 81 dell'anima - Modigliani (di Mick Davis, Mondo Home Entertinement, USA-Francia-Germania-Italia-Regno Unito-Romania 2004) è un feuilleton pittoresco e sgargiante, ma pieno di ingenuità, di errori grossolani e di esagerazioni, che non rende giustizia al grande artista e trasforma Picasso in un grottesco arcinemico. Il film Il ventre dell'architetto (The Belly of an Architect, Hemdale Film-Sacis-Film Four International, Gran Bretagna 1987) di Peter Greenaway è invece una celebrazione dell'architettura e dei monumenti romani, che per Stourley Kracklite (Brian Dennehy) diventano promessa di bellezza imperitura. L'uomo è un americano alla scoperta di Roma, in cui è stato chiamato per organizzare una mostra su un suo predecessore, l'architetto neoclassico Etienne-Louis Boullée. Nel momento in cui scopre di avere un cancro al pancreas in fase terminale la sua ricerca di eternità nell'arte del passato diventa prima un'ossessione, poi follia, che lo spinge a circondarsi di immagini del ventre delle statue più celebri. È, per sommi capi, anche la storia di The Garden of Earthly Delights (Ogród rozkoszy ziemskich, Guido Cerasuolo, Italia-Polonia 2004) dell'acclamato regista polacco Lech Majewski, che segue il vagabondare per Venezia di due amanti. Anche Claudine, storica dell'arte, è una malata terminale di cancro. A Venezia deve tenere una lezione sul pittore Hieronymus Bosch e il suo famoso trittico Il giardino delle delizie: un evento fuori contesto, dato che si tratta di un artista fiammingo e di un quadro esposto al Prado di Madrid da molti decenni. Claudine cerca di riprodurre alcune scene del quadro con l'amante Chris, mentre egli la guida alla scoperta della città lagunare – calli e soprattutto canali – tentando di penetrare con lei il mistero dell'eternità dell'arte che imita la vita. Lo stesso tentativo del regista che, in una Venezia letta attraverso Bosch, trova la sintesi tra la fragilità dell'essere umano e le sue aspirazioni all'assoluto. Alcune produzioni straniere sono invece dedicate alle arti non figurative. Padrona del suo destino (Bedford Falls Prod.-New Regency Pictures, USA 1998) di Marshall Herskovitz è un film storico mediocre, ma unico nel suo genere, perché dedicato a un eccentrico personaggio letterario: la poetessa Veronica Franco (Catherine McCormack), più nota agli studiosi di poesia petrarchista del Cinquecento veneto che al pubblico cinematografico. Veronica è una cortigiana, come la madre educata e cresciuta per vendersi ai patrizi veneziani, ma eccellente nelle lettere, influente e indipendente, tanto 82 da suscitare lo sdegno e la preoccupazione delle autorità veneziane. Il tocco non delicatissimo di Herskovitz ne fa una femminista ante litteram, un'eroina americana capace di tener testa a uomini e istituzioni. Del resto, quando compare davanti all'Inquisizione accusata di stregoneria, l'intero patriziato si leva in piedi per difenderla, memore del suo eccellente lavoro diplomatico con Enrico III di Francia. In questo caso però, verrebbe da dire, la prostituzione paga ben più della poesia petrarchista: il che, a ben vedere, è un po' triste, date le pretese culturali del film. Merita d'essere ricordata, infine, un'opera poco conosciuta, che tratta del rapporto tra l'Italia e la settima arte: il cinema. Si tratta di Nina (A Matter of Time, American International Pictures, USA-Italia 1975), del grande regista italoamericano Vincent Minnelli. Sua figlia Liza Minnelli interpreta il ruolo di Nina, un'attrice affermata che ricorda il passato in un lungo flashback: l'arrivo a Roma a diciannove anni, il lavoro come cameriera e il suo rapporto, entusiasmante e doloroso, con la contessa Sanziani (Ingrid Bergman), che le cambia la vita trasformandola in una donna sofisticata ed elegante, pronta a sfondare nel cinema. È un film tenero e struggente, che contrappone dolorosamente i sogni ai ricordi, l'arte alla vita vera, che spesso si rivela zeppa di errori e false partenze. È un tributo al cinema ma ancor più all'Italia, degno contrappunto a Il disprezzo di Godard. Qui non si respira lo sdegno per la sconfitta dell'arte e degli individui, semmai l'amarezza suscitata dalla memoria del passato e dalle occasioni perdute. Cose di cui, ovviamente, il Bel Paese è pieno. 83 84 Fratelli Grivel per MANIFATTURE ICE AXE (picozza, 1962) 85 86 The Italian Mob «Steffie: Carlito, ho visto che parlavi con Benny Blanco poco fa. Carlito: Sì, Benny Blanco viene dal Bronx. Steffie: Dicono che si sta facendo strada. Carlito: Ah, sì? Ha un bel futuro... se riesce a vivere fino a domani.» (Al Pacino in Carlito's Way di Brian de Palma) La Mafia d'oltreoceano. Chicago 1929. Charlie Stecchino, un gangster italoamericano di piccolo calibro, fa una soffiata a un agente federale in borghese, il detective Mulligan. Dopo aver preso accordi con i suoi uomini, costui entra nella funeral house del signor Mozarella. Gli italiani ci sanno fare con il lutto. Le luci sono soffuse; un organo, suonato con mesto trasporto, diffonde un funereo Chopin; fiori e corone sono ovunque. Alla parola d'ordine «vengo al funerale della vecchia», un tasto dell'organo apre una porta segreta e il visitatore è introdotto in un locale contiguo. Qua la musica è diversa: ballerine piumate e scatenate, gruppi di gaudenti che brindano con tazze di caffè (che in realtà è whisky). Un'orchestrina accompagna le festose libagioni: il jazz «a qualcuno piace caldo», come recita il titolo di questo film famosissimo73. Al sax e al contrabbasso suonano i protagonisti, Joe e Jerry (Tony Curtis e Jack Lemon): una coppia di spiantati che vive d'ingaggi miseri e di espedienti. 73 A qualcuno piace caldo (Some Like It Hot) è un film del 1959 diretto da Billy Wilder con Marilyn Monroe, Tony Curtis e Jack Lemmon. La sceneggiatura è scritta dallo stesso Wilder in collaborazione con I. A. L. Diamond, da un soggetto di Robert Thoeren e Michael Logan. Una precedente versione, senza mafiosi, era stata scritta da Logan per un film tedesco (Fanfaren der Liebe di Kurt Hoffmann, 1951), così A qualcuno piace caldo è considerato da alcuni un remake. Ha vinto un Oscar (migliori costumi a Orry-Kelly) e tre Golden Globe, tra cui quello per il miglior attore in un film commedia o musicale assegnato a Jack Lemmon, che per lo stesso ruolo ha ottenuto anche un Premio BAFTA. 87 Siamo nel pieno del proibizionismo74: per conto di Ghette Colombo, sicario di Al Capone, il signor Mozarella gestisce uno speakeasy, i locali clandestini dove vengono serviti liquori illegalmente. La realtà è simile alla finzione. A partire dagli anni venti, a New York e a Chicago la maggior parte degli speakeasy è di proprietà dei gangster italoamericani: i membri più illustri del «Sindacato del crimine» si chiamano Capone, Colosimo, Luciano, Torrio, Masseria, Genna, Aiello. Agli albori del XX secolo, le bande originarie dell'Italia, soprattutto della Campania e della Sicilia, hanno dato vita alla Mano Nera, un sistema organizzato di estorsioni, e si sono inserite nello spaccio di droga e nella gestione della prostituzione, delle scommesse e del gioco d'azzardo. Ma è lo spaccio illegale di alcolici, dagli anni venti in avanti, a renderle gli italiani potenti e competitivi con gli altri gangster. Durante il proibizionismo inizia la vera lotta con le esistenti gang irlandesi-americane per il controllo del traffico criminale in America. A voler tirare le somme, tra alti e bassi, tra espansione e ridimensionamenti, gli italiani guadagnano abbastanza in fretta il controllo del territorio nelle aree più redditizie. La mafia italoamericana viene spalleggiata e rinforzata dalla siciliana Cosa Nostra: molti «uomini d'onore» giungono negli Stati Uniti durante l'attacco sferrato dal prefetto fascista Mori ad alcune cosche della regione. I due ceppi si saldano e si confondono. Per l'America, Italia e crimine iniziano a coincidere. The Mob75 non è l'unica mafia di origine italiana ad avere goduto di un clamoroso successo in terra straniera: tuttavia, ha riscosso (per prossimità) l'interesse del cinema hollywoodiano e, di conseguenza, quello di una grande massa di spettatori. La sua posizione invidiabile ha fondato l'immagine della criminalità organizzata made in Italy. La grande concorrente, la mafia marsigliese, è nata negli stessi anni e si 74 È il periodo fra il 1919 ed il 1933 in cui negli Stati Uniti, tramite il diciottesimo emendamento e il Volstead Act, vengono banditi la fabbricazione, la vendita, l'importazione e anche il trasporto di alcool: è detto anche «the Noble Experiment». 75 Mob è un termine inglese usato negli Stati Uniti: può essere la mafia o, più in generale, la criminalità organizzata. La parola viene fatta derivare dalla lingua latina e dalla lingua aramaica, con il significato di "folla, gentaglia, massa sfrenata". Mobster è un termine slang che definisce un appartenente a una gang di malavitosi di stampo mafioso, o alla criminalità organizzata. La parola ha originato altri due lemmi simili: il Flash Mob (spesso un evento o una grande burla organizzata da gruppi presenti in usergroup su internet) e la Mob Art, arte che come soggetto o destinatario dovrebbe avere un utente interno alla malavita. 88 è sviluppata in maniera analoga, giungendo a controllare una buona fetta del mercato europeo di traffici illegali. Ma delle sue sorti si è occupato soprattutto il cinema d'autore francese, con un successo di pubblico più contenuto. C'è un'altra differenza: i film "marsigliesi" non riguardano davvero il milieu, ma le vicende personali di un eroegangster, che sullo schermo non risulta molto diverso da un qualunque fuorilegge. Il mobster, per il cinema americano, è invece una maschera ben precisa, diversa da quella dei delinquenti comuni o dei gangster. Nel '59, grazie al genio di Billy Wilder, compaiono per la prima volta in una commedia tutti gli stereotipi legati alla mafia: proprio quelli che costituiranno, per il cinema successivo, terreno fecondissimo per le sceneggiature. Sono soggetti ideali sotto ogni punto di vista. A qualcuno piace caldo non è un mafia movie, ma sono proprio i mafiosi di Al Capone – così ben disegnati – a provocare le esilaranti vicende che vedono coinvolti i protagonisti. Mentre Joe e Jack discutono se scommettersi la paga su un cane da corsa denominato "Fetta di Lardo", i federali fanno irruzione nel locale del signor Mozarella. La retata dà il via a una sarabanda di eventi, in cui la finzione s'interseca con la realtà. Per vendicarsi di Charlie Stecchino e di altri rivali, il boss Ghette76 organizza un agguato in un garage: i suoi uomini crivellano di colpi di mitragliatore i gangster nemici, con gran profusione di proiettili. È l'evento noto nella realtà come "strage di San Valentino", che per la sua ferocia sconvolse la Chicago di quegli anni, spianando la strada all'incontrastato dominio del "napoletano" Capone contro il clan di Bugs Moran. Nel film, la truculenta resa dei conti è l'inizio dei guai per i due musicisti che, sempre alla ricerca di lavoro, si ritrovano la sera sbagliata nel posto sbagliato: il garage della strage. Assistono nascosti ai fatti, poi riescono a darsi alla fuga arruolandosi in un'orchestra femminile diretta in Florida, travestiti da musiciste: le dinoccolate, sguarnite Josephine e Daphne. In fuga con le Dame del ritmo, le due maschie zitelle fanno conoscenza con Zucchero Kandinski (Marilyn Monroe), cantante e suonatrice di ukulele, dedita 76 L'attore nella parte dell'italiano Ghette è George Raft (New York, 1895-Los Angeles, 1980), agile ballerino, piccolo e con l'aspetto da duro, chiamato spesso per ruoli da gangster e da teppista. 89 all'alcool e alle storie d'amore fallimentari con i sassofonisti 77. Ma gli italiani di Chicago – i più pericolosi, perlomeno – sono ancora sulle loro tracce. I mafiosi di Wilder sembrano usciti da un varietà del Cotton Club. Indossano bombette, bastoni, gessati e scarpe lucide, talvolta con le ghette: un'eleganza scenografica, artificiale, che crea contrasto con quei corpaccioni proletari, quei volti grifagni, quelle armi da fuoco che spuntano da ogni cucitura del vestito. Seguono codici implacabili, che all'esterno risultano grotteschi e incomprensibili; si muovono in gruppo, a sciami, secondo gerarchie di clan; dimostrano un ossequio morboso per la cultura italiana delle tre "M" (melodramma, mamme e madonne); sono permalosi e con un senso smisurato dell'onore e dell'orgoglio. Li rincontriamo al Seminole Ritz Hotel, l'albergo che ha ingaggiato l'orchestra di Joe e Jerry («Susie e le sue dame del ritmo»), dove si tiene un congresso de Gli Amici dell'opera italiana. Di fatto, è la copertura per una riunione di clan della mafia italiana, inclusa la gang di Ghette Colombo, ancora alla ricerca dei due involontari testimoni di San Valentino. Interrogato dal federale Mulligan (che a sua volta insegue il vice-boss per arrivare al suo capo, Al "Scarface" Capone) riguardo al suo alibi per la notte della strage, Ghette dichiara di essere stato al Rigoletto, che il detective scambia per il nome di uno speakeasy. Le culture si scontrano, e non solo quelle. FBI, mobsters e testimoni innocenti si inseguono comicamente per le sale, gli scaloni e gli ascensori, in una sorta di metafora dell'America del proibizionismo. Alla cena sociale dei clan, il boss dei boss Little Bonaparte – una perfetta imitazione di Benito Mussolini mentre 77 È noto il cattivo rapporto di Marilyn Monroe con il regista Billy Wilder, che avrebbe inizialmente voluto Mitzi Gaynor. L'attrice aveva difficoltà a imparare per intero le battute, cosa che esasperava Wilder. Ci vollero 47 ciak per pronunciare la battuta (in lingua originale) «It's me, Sugar» e ben 30 ciak per «Where's the bourbon?»: alla fine gli autori collocarono delle lavagnette in un punto del set distante dalle inquadrature, per permetterle di leggere la sua parte. Monroe tendeva a leggere però la battuta sbagliata, costringendo così gli operatori a posizionare una sola lavagnetta alla volta. L'attrice rimase invece favorevolmente colpita da Jack Lemmon: alla prima del film, nel marzo 1959, disse al microfono di un giornalista: «Isn't Jack Lemmon the funniest man in the world?» («Non è Jack Lemmon l'uomo più divertente del mondo?»). 90 arringa il popolo da Piazza Venezia78 – decreta la caduta di Ghette, facendolo assassinare da alcuni sicari usciti da una torta di compleanno. I due protagonisti riescono a sfuggire anche a Bonaparte e a mettersi in salvo con la bella Zucchero sulla barca del miliardario Osgood, che sembra intenzionato a sposare Daphne anche quando questa rivela di essere un uomo. Del resto, ribadisce serafico il suo spasimante, «nessuno è perfetto»79. In questa commedia, per la prima volta, la mafia cita se stessa e si compiace dei propri (supposti) caratteri nazionali: la vanità, l'amore per il bel canto, un debole per i rituali e le feste. Sono queste stesse manie, volte in ridicolo, a uccidere Ghette e a distrarre gli altri mafiosi dalla fuga dei super testimoni: far parte della "gente" e della cultura italiana sembra avere più valore della stessa pelle. Eppure, già nell'era del proibizionismo, ciò che classifica i mobsters americani come italiani sono solo echi della terra lasciata dai loro padri molti decenni prima. Molti non sanno nemmeno da quale regione derivi la propria famiglia, né sanno parlare la lingua d'origine dei genitori. Il loro pedigree è in larga parte artificiale: spesso si produce in uno sfoggio di tradizioni stereotipate e di attaccamento alla provenienza che sfocia nella mitizzazione di un'Italia immaginaria. È il destino di tutte le comunità di immigrati, ma in questo caso c'è qualcosa in più. La mafia italiana è una minoranza criminale che per imporsi sugli altri gruppi deve emergere, e poi mostrarsi forte e ben caratterizzata. Dell'italianità assume i pregiudizi e le immagini con cui gli americani sono soliti rappresentarla, servendosene per costruire e per affermare la propria identità. Il cinema alimenta in modo decisivo questa tradizione; forse ne è addirittura il principale responsabile, almeno a partire dal 1930, l'anno dell'uscita nelle sale di Piccolo Cesare, di Mervyn LeRoy: la storia di un italoamericano che vuole dare la scalata ai vertici del mondo del crimine col piglio e l'energia 78 "Little (Piccolo) Bonaparte" rimanda al Piccolo Cesare di Mervyn LeRoy (1930). È interpretato da Nehemiah Persoff (Gerusalemme, 1919), un attore cinematografico, teatrale e televisivo e doppiatore israeliano. Altre situazioni nel film ricordano personaggi e scene di Scarface di Howard Hawks (1932) e di Nemico pubblico di William A. Wellman (1931). 79 Nel 2005 la battuta «well, nobody's perfect» («nessuno è perfetto») è stata inserita al quarantottesimo posto della classifica delle migliori cento battute del cinema americano. 91 del grande condottiero romano80. In Italia, il film è considerato offensivo e verrà proiettato solo trentatré anni dopo. In realtà nel film non c'è davvero un intento razzista, ma un complicato gioco di rimandi tra cineasti e mafia. Quest'ultima si traveste per sembrare italiana e si caratterizza come una sottocultura: il cinema la prende sul serio, la ritrae e poi, pian piano, la reinventa. I registi e gli sceneggiatori che ritraggono i mafiosi spesso credono in buona fede di portare sul grande schermo costumi e valori diffusi nel Bel Paese; non di rado, però, calcano la mano sullo stereotipo in piena consapevolezza. Ne nascono equivoci, miti e invenzioni che si rivelano avvincenti e creativi. Quello della costruzione del tipo ideale del gangsters italoamericano è un processo che ha inizio nei primi anni trenta, ma giunge a piena maturazione solo negli anni settanta. I registi dei mafia movie sono americani, ma i loro cognomi sono spesso quelli degli immigrati di seconda generazione: Coppola, Scorsese, De Palma, Ferrara. È grazie a loro che la mafia raggiunge un vasto pubblico, per entrare nell'immaginario collettivo al di là dell'Atlantico, ma anche in Europa. È paradossale ma noto: dopo Il Padrino, i mafiosi americani e nostrani cercheranno di copiare le abitudini e la simbologia dei loro colleghi di celluloide. Dagli anni ottanta del Novecento, i grandi registi americani e i loro successori si cimentano con l'evoluzione della mafia. Compaiono i primi film sui nuovi mafiosi, che hanno abbandonato l'antica tradizione criminale, legandosi sempre di più al narcotraffico, con un occhio alle imprese immobiliari e all'alta finanza, mescolandosi alle mafie che vengono da lontano: i cinesi, i giapponesi, i russi, i sudamericani. Questa nuova «mafia imprenditrice» sembra discostarsi dai codici delle origini, entrando in conflitto coi modelli di comportamento e i valori del passato. Proprio lo scontro generazionale – tra nuovi e vecchi mafiosi – diventa l'ingrediente principale di questo nuovo cinema di mafia, rappresentato da John Huston nelle vicende della famiglia Prizzi, e dalla terza parte della saga dei Corleone (Il Padrino) di Francis Ford Coppola. 80 Piccolo Cesare, Scarface e Nemico pubblico (un film del 1931 di William A. Wellman, con James Cagney nei panni del protagonista Tom Powers) sono considerati i tre film che stanno alla base del genere gangster: solo i primi due, però, parlano della mafia italiana. 92 C'è poi un'altra mafia cinematografica, che negli ultimi anni ha conosciuto un discreto successo: quella divertente, protagonista di commedie brillanti. In queste pellicole il mobster italoamericano è più che mai l'italiano medio interpretato dagli americani. Imbevuto del carattere nazionale, torna a essere una variante delle maschere comiche teatrali: ora rappresenta il furbo; ora il collerico e il geloso; ora il melodrammatico, l'esagerato, il menzognero sopra le righe. Mamme, madonne e musica patria: questi sono i suoi valori, al netto dei traffici illeciti e delle sventagliate di mitra. È ciò che Billy Wilder aveva anticipato nel suo capolavoro del '59, A qualcuno piace caldo, anche se i suoi personaggi portavano i gessati e le ghette. In fondo anche ai mafiosi si addice il memorabile detto di Osgood: nessuno è perfetto. Padrini e figliastri. Gli anni trenta del Novecento rappresentano un nuovo inizio per la mafia italoamericana e per il cinema che la rappresenta. Da inizio secolo fino al proibizionismo, i criminali di origine italiana si professionalizzano (specializzandosi in rami diversi del traffico illegale) e si strutturano in «famiglie», ricalcando la fisionomia delle cosche presenti in Sicilia e in Campania. Ogni famiglia ha un capo, che a sua volta deve rendere conto al «boss dei boss». Ma nel 1931, per iniziativa del famigerato Lucky Luciano, quest'ordine gerarchico viene sconvolto. Nasce «the Commission», un organo decisionale collegiale al vertice dei traffici statunitensi, formato dai cinque boss delle cosche newyorkesi e dal capo dei gangster di Chicago. Di lì a poco si forma il «Sindacato Nazionale del Crimine», che tenta i primi approcci con le mafie di altri paesi. Di tutto questo, tra inchieste, task force speciali e processi, già molto si viene a sapere fin dai primi anni trenta. Ma i registi sono affascinati solo dalle epopee individuali: ignorano il nuovo gioco di squadra e preferiscono celebrare le gesta di personalità eccezionali. La scelta ricade su personaggi che ricordano gli uomini celebrati da stampa e radio. Tra questi svettano non due boss, bensì due mobsters che sono gregari, almeno all'apparenza: Alphonse "Al Scarface" Capone e Lucky Luciano, pseudonimo di Salvatore Lucania. In poco tempo essi diventano, agli occhi dei lettori e degli spettatori, il simbolo della mafia rampante di origine italiana. Venuti dal paese di Machiavelli, sono villains (cattivoni) pressoché perfetti: ottimi 93 organizzatori di reti criminali, intelligenti, rapidi nelle decisioni ed efferati nei modi, segugi della migliore occasione e dell'alleanza più conveniente. Intorno alle loro imprese cresce un mito vero e proprio, laddove i veri boss (Masseria, Maranzano) sono spesso poco conosciuti dalla gente comune e preferiscono restare nell'ombra. Il cinema sceglie di farne degli idoli all'indomani dei primi guai giudiziari di Capone e del mancato omicidio di Luciano, dal quale gli deriva il soprannome ("Lucky", "fortunato"). È proprio dagli anni trenta che iniziano a calcare i set hollywoodiani personaggi plasmati sulla leggenda di questi mobsters e della loro guerra alla legge. Il già citato cult Piccolo Cesare mette in scena Edward G. Robinson nei panni del prepotente, dispotico e arrogante Cesare "Rico" Bandello81. Il crimine non paga? Pagherebbe, forse, ma Rico sconta peccati che contribuiscono alla sua fine: la superbia (cioè l’oblio delle proprie origini) e la slealtà verso gli amici. Simile per contenuti è il celebre Scarface - Lo sfregiato (Scarface, HawksHughes-The Caddo Company), girato lo stesso anno, ma uscito nelle sale nel 1932, dopo l'eliminazione delle scene di violenza. Diretto da Hawks e da Richard Rosson, il film è ispirato alla biografia di Al "Scarface" Capone. Nel 1983 Brian De Palma ne ha girato un remake ambientato nell'America degli anni ottanta. Nel film di Hawks, Antonio "Tony" Camonte scatena una guerra fra bande per il potere, ma poi soccombe di fronte a una passione tutta italiana: la gelosia per la sorella Cesca. Nel nuovo Scarface, invece, De Palma rinuncia all'italianità di Capone, trasformandolo in un profugo cubano 82. Ciò nondimeno la parte di Tony Montana, alter ego sudamericano di 81 Rico è il prototipo del boss mafioso italiano in carriera, a cui fa da contraltare l'amico ballerino Joe Massara (Douglas Fairbanks Jr.), che invece è lo stereotipo dell'italiano artista e creativo. 82 Scarface è un film prodotto dalla Universal Pictures e scritto da Oliver Stone. Si svolge nella Miami degli anni ottanta, centro di un enorme traffico di stupefacenti. La realizzazione prima del soggetto e poi del film conobbe molti ostacoli. Le riprese si sarebbero dovute svolgere in Florida, ma qui la comunità cubana si ribellò contro il presunto attacco alla sua immagine, anche perché si diceva in giro che il film fosse finanziato da Castro. Così la produzione si spostò a Los Angeles, a Santa Barbara, a New York e negli Universal Studios. Le poche scene girate davvero a Miami furono realizzate con la protezione di guardie del corpo. La colonna sonora di Scarface, composta da musica new wave e da musica elettronica, è curata dal compositore italiano Giorgio Moroder, vincitore del Golden Globe. 94 Camonte, viene affidata al più famoso degli attori italoamericani, Al Pacino. Tutto torna a casa, in seno alla mafia nostrana. Il dominatore di Chicago (Party Girl, di Nicholas Ray, Metro-GoldwynMayer, USA 1958) è una pellicola successiva, che racconta la storia di un boss "caponico", Rico Angelo (Lee J. Cobb). Rico e il suo legale Thomas Farrell (Robert Taylor) si contendono l’amore di una ballerina di nightclub, Vicki (Cyd Charisse). La loro storia si svolge tra valori e passioni contrastanti: ambizioni e arroganza, amarezza per una vita amorale e volontà di riscatto. Il film è straordinario non tanto per l'accuratezza con cui descrive le motivazioni dei gregari di mafia, i mobsters, come Tommy Farrell, quanto perché rappresenta una notevole commistione di generi e linguaggi che influenzerà alcuni dei registi successi, come Coppola. Al noir, un genere tradizionalmente un po' rigido, si aggiungono il melodramma a tinte fosche (ma in un vivace Metrocolor e in Cinemascope) e il musical, con i balletti coloratissimi di Charisse, attrice-danzatrice hollywoodiana di prim'ordine83. Non solo, ma la stessa figura del capocosca denota un'evoluzione. Al ritratto del cattivo autoritario intrappolato nella logica del proprio agire – che richiama il dittatore Mussolini, come il Piccolo Bonaparte di Wilder – ora vengono regalate profondità e prospettiva. Quella sporca ultima notte (Capone, di Steve Carver, Roger Corman, USA 1975) è invece una biografia cinematografica di Al Capone (interpretato da Ben Gazarra) molto fedele alla sua vera storia. Il film lo segue fin dal tempo della sua precoce vocazione mafiosa, a soli undici anni; durante la militanza nella Five Points Gang dell'amico Johnny Torrio; poi alla conquista di Chicago con l'assassinio dello zio di Torrio; fino ai primi cedimenti e alla diagnosi di sifilide, malattia che lo renderà demente fino alla morte, a soli quarantotto anni. Un film sobrio, triste, senza fronzoli84: la smitizzazione del mitico Al. Ci sono due film dedicati più o meno direttamente alla figura di Lucky Luciano. Il primo riguarda in realtà un uomo a lui molto vicino. Joe 83 Cyd Charisse, nome d'arte di Tula Ellice Finklea (Amarillo, Texas, 1922-Los Angeles, 2008), interpretò alcune fra le maggiori commedie musicali prodotte a Hollywood negli anni quaranta-cinquanta. Danzò con Gene Kelly e Fred Astair in produzioni famose come Cantando sotto la pioggia e Zigfield Folies. 84 Nel film compare un giovanissimo Sylvester Stallone nel ruolo del gregario Frank Nitti. 95 Valachi... I segreti di Cosa Nostra è un film del 1972, diretto dal britannico Terence Young. È una produzione franco-italiana85, interpretata non magistralmente da un cast eterogeno, composto da anglosassoni e da italiani: Charles Bronson (Valachi) e Jill Ireland; Lino Ventura, e Walter Chiari. La storia è quella di un gregario che consuma la sua carriera all'ombra dei grandi boss come Luciano. Valachi86 diventa il nemico giurato di Vito Genovese, capo di «the Commission», e quando viene arrestato dall'Fbi ne racconta tutti gli affari. La sceneggiatura si basa sulla biografia The Valachi Papers (pubblicato in Italia come La mela marcia nel 1972), scritta dal giornalista Peter Maas, autore anche di quella dedicata all'agente di polizia Frank Serpico. L'impero del crimine (Mobsters, Universal Pictures, USA 1991), per la regia di Michael Karbelnikoff, è invece la storia di Luciano. Nella New York dei primi del Novecento arriva Salvatore Lucania, un giovane emigrante siciliano, che cambia il suo nome in Charlie Luciano. I suoi nuovi amici sono l'italoamericano Frank Costello (calabrese, il cui nome vero è Francesco Castiglia), e due immigrati ebrei, Meyer Lansky e Benjamin Siegel, detto Bugsy87: con loro forma la prima gang per lo spaccio di alcool e droga. La banda si allea dopo poco tempo con Arnold Rothstein, attirando l'attenzione dei due boss italoamericani più forti: Giuseppe "Joe" Masseria e Salvatore Faranzano88, provenienti da Castellammare del Golfo. Nella cosiddetta "guerra castellammarese", Charlie Luciano e la sua banda riescono a eliminare entrambi i boss. 85 Le case di produzione sono De Laurentiis Intermarco S.p.A. e Euro-France Films, ma le riprese si sono effettuate interamente negli Stati Uniti. 86 La figura di Joe Valachi ha ispirato i personaggi di Frankie Pentangeli e Willy Cicci in Il padrino - Parte II. 87 A questi due celebri sodali di Luciano, mafiosi ebrei di origine austriaca e russa, sono stati dedicati recentemente due film. Il primo è Bugsy (Warren Beatty, Barry Levinson, Mark Johnson, USA 1991) diretto da Barry Levinson, che ha ricevuto dieci nominations e due premi Oscar, migliore scenografia a Dennis Gassner e Nancy Haigh e migliori costumi a Albert Wolsky. Bugsy, soprannome di Siegel, significa "pidocchio" o "folle". Il secondo è in realtà un tv-movie: Lansky - Un cervello al servizio della mafia (Fred C. Caruso, USA 1999), per la regia di John McNaughton, che racconta le stesse vicende ma dal punto di vista di un anziano Meyer Lansky (Richard Dreyfuss), ormai tornato in Israele. 88 In realtà si tratta del boss Maranzano, l'unico nome tra i personaggi a cui è stata cambiata un iniziale. 96 Dedicata all'evoluzione della figura tradizionale del boss mafioso, e di conseguenza della stessa Cosa Nostra americana, è la trilogia-culto di Francis Ford Coppola: Il padrino (The Godfather, Paramount Pictures, USA 1972-1974-1990). Sono tre film ispirati al romanzo omonimo di Mario Puzo (1969), che ha scritto la sceneggiatura con il regista89. La prima pellicola, del 197290, è interpretata da Marlon Brando 91 e Al Pacino nei ruoli dei due protagonisti, sorretti da un cast d'attori d'eccellenza: da Robert Duvall a Diane Keaton a James Caan, con molti italoamericani tra i comprimari. Si tratta, come è noto, della storia della famiglia mafiosa dei Corleone, originari della Sicilia, le cui vicende vengono ripercorse indietro e avanti nel tempo nel corso della saga. Racconta – in un modo che pubblico e critica, all'epoca, giudicarono azzardato o ambiguo – di un sistema mafioso basato su relazioni e valori in via di dissoluzione. Onore, rispetto, affetti familiari, lealtà tra membri e congiunti sono buone cose, in linea generale. Ma cosa succede quando sorreggono un solido, rampantissimo "Impero del Male"? Coppola sembra invocarne il ritorno: i due protagonisti, Vito Corleone (Marlon Brando) e il suo successore Michael (Al Pacino), sono personaggi amari, dilaniati dal senso del dovere e dai legami. Essi suscitano l'ammirazione dovuta agli eroi. Ma c'è qualcosa di più di una condivisione nostalgica dei costumi di una società patriarcale in stile italiano. Il grande regista, che proviene da quella stessa cultura, la analizza da una prospettiva remota anche quando sembra immedesimarvisi: ne comprende le 89 La pellicola del 1972 fu premiata con sette nomination e tre premi Oscar (miglior film, miglior sceneggiatura e miglior attore protagonista a Marlon Brando) e, insieme al suo seguito (Il Padrino II), è considerata una pietra miliare del cinema: la seconda miglior pellicola statunitense della storia dall'American Film Institute. È al secondo posto della classifica dell'Internet Movie Database, mentre la rivista Empire lo considera come il film più bello di tutti i tempi, al primo posto in un elenco di 500. La famosissima colonna sonora fu composta da Nino Rota. 90 La produzione è di Paramount Pictures e Alfran Productions. Il film incassò circa 86 milioni di dollari a dispetto delle previsioni. Uscito in altre nazioni arrivò a incassare un totale di 1.144.234.000 dollari in tutto il mondo. 91 Marlon Brando rifiutò di ritirare il suo Oscar e non si presentò alla cerimonia di premiazione per protesta contro i maltrattamenti dei nativi americani da parte degli Stati Uniti e di Hollywood e al suo posto inviò una squaw, "Sacheen Littlefeather", per leggere il suo discorso di protesta. 97 ragioni, ma senza davvero subirne il fascino 92. Quanto le radici italoamericane di alcuni cineasti abbiano contribuito a rendere i loro film sulla mafia vivi e vibranti lo dimostra l'intera opera di Martin Scorsese. Mean Streets - Domenica in chiesa, lunedì all'inferno (Mean Streets, Warner Bros, Taplin-Perry-Scorsese Productions, USA 1973) è un film da lui scritto e diretto. Profondamente autobiografico, riproduce con grande verisimiglianza l'ambiente italo-americano di Little Italy, patria di elezione del regista93. Charlie Cappa (Harvey Keitel), è un giovanotto della Little Italy di New York, con uno zio mafioso, Giovanni Cappa (Cesare Danova) che cerca di aprirgli la strada. Ma Charlie, a dispetto della sua religiosità quasi ossessiva, ha una vita sregolata, che lo porta a frequentare troppo spesso il suo scellerato amico d'infanzia John Civello, soprannominato Johnny Boy (Robert De Niro), ai cui guai deve sempre rimediare. Johnny Boy verrà ucciso e Charlie ferito nello stesso scontro a fuoco. Non tutti i mafiosi, sembra dirci Scorsese, riescono col buco. La mafia non è semplice delinquenza, a cui tutti possono aderire: vengono reclutati, anche tra i parenti stretti, solo quelli che ne accettano senza riserve i valori, i codici, le regole di ingaggio. L'appartenenza, tuttavia, è un concetto insidioso e, talvolta, una pratica difficile. La storia di mafia può finire tragicamente se diventa necessario aderire a valori in conflitto. È uno dei possibili rischi di una cultura, come quella di «the Mob», in cui morali diversissime fra loro si sovrappongono, creando corti circuiti a ogni passo. È ciò che succede in Fratelli (The Funeral, October Films-MDP Worldwide-C&P Productions, USA 1996) di Abel Ferrara, in cui Ray e Chez Tempio, 92 Un grande film di produzione italoamericana ispirato ai più famosi film di mafia, anche se non parla di italiani, è indubbiamente C'era una volta in America (Once Upon a Time in America), diretto da Sergio Leone nel 1984, con Robert De Niro, James Woods e Elizabeth McGovern. Tratto dal romanzo di Harry Grey, Mano armata (The Hoods, 1952, ripubblicato col titolo Once Upon a Time in America), è comparso come fuori concorso al 37º Festival di Cannes. Intende essere il terzo capitolo della leoniana «trilogia del tempo», con C'era una volta il West (1968) e Giù la testa (1971). La pellicola narra, nell'arco di quarant'anni (dagli anni venti ai sessanta), la storia del gangster David Aaronson detto Noodles (Robert De Niro) e dei suoi amici, che passano dal ghetto ebraico alla malavita organizzata a New York. 93 Il film, considerato un cult dai patiti del mafia-movie, è stato presentato nella Quinzaine des Réalisateurs al Festival di Cannes 1974. 98 gangster a New York negli anni trenta, vogliono vendicare il terzo fratello Johnny, che tutti credono ucciso dal rivale Gaspare. Presenti al funerale, i due ricordano la storia della loro famiglia e la loro carriera di criminali. Ray (Christopher Walken) vuole vendetta ad ogni costo, contro l'avviso di sua moglie Jean (Annabella Sciorra), che chiede sia posta fine alla violenza. Chez (Chris Penn) 94, dal canto suo, impazzisce lentamente mentre ricerca un'impossibile redenzione, che si realizzerà drammaticamente di fronte alla bara di Johnny. I valori della mafia italiana – l'onore e gli affetti più profondi – si trovano ancora una volta in guerra fra loro come due gang rivali. Molti dei film sulla mafia italiana sono giocati sullo scontro tra mondi inconciliabili che genera conflitti nell’individuo: famiglia e gang, affetti e affiliazione criminale, legge e illegalità. A questo riguardo, alcuni personaggi sono diventati simbolo di equilibrismi impossibili, destinati a esiti poco felici. Uno di questi vive nel microcosmo dei quartieri della malavita newyorkese, dove tra gli italoamericani la mafia è un'alternativa cool al duro lavoro e alle frustrazioni. Bronx (A Bronx Tale, Price Entertainment-Penta Entertainment-Tribeca Productions, USA 1993) è un film girato dall'attore italoamericano Robert de Niro che racconta – un po' autobiograficamente – la storia del piccolo Calogero. Il ragazzino, come il regista, cresce nel Bronx degli anni cinquanta, dilaniato dall'ammirazione per il padre, umile autista di autobus (De Niro), e quella per Sonny (Chazz Palminteri), boss del suo quartiere, debitore di una vecchia concezione dei rapporti mafiosi, fatti anche di supervisione e di protezione. Due pellicole raccontano invece la biografia di Jimmy Hoffa, famosissimo capo del Brotherhood of Teamsters, il sindacato degli autotrasportatori che, tra la fine degli anni trenta e gli anni cinquanta, riuscì a tenere sotto scacco il settore dei trasporti. Sospettato di essersi alleato con la mafia italoamericana per resistere alle violenze delle milizie padronali, Hoffa fu condannato e poi graziato da Nixon. Scomparve nel 1975, dopo un incontro col gangster Tony Giacalone. Il film Hoffa: santo o mafioso? di Danny 94 Christopher Shannon Penn (Los Angeles, 1965 - Santa Monica, 2006) è stato un attore statunitense, che ha partecipato a film famosi come Le iene di Quentin Tarantino, America oggi di Robert Altman e Fratelli di Abel Ferrara. È morto molto giovane, stroncato da un attacco cardiaco, dovuto probabilmente all'obesità e al consumo di alcool e droghe. Per l'interpretazione di Chez-Cesarino ha guadagnato il premio per il miglior attore non protagonista a Venezia nel 1996. 99 DeVito95 ne racconta la storia in una sceneggiatura senza sbavature, apparentemente neutrale, scritta da David Mamet. La vita e la morte di Jimmy Hoffa (Jack Nicholson con la voce di Giancarlo Giannini nel doppiaggio italiano) si snodano attraverso i ricordi dell’amico e complice Bobby Ciaro (Danny De Vito), che lasciano volutamente un ampio margine di ambiguità sul profilo del personaggio 96. Nicholson e De Vito hanno regalato, in questo caso, due interpretazioni molto criticate, istrioniche ed eccessive: agli antipodi della sconcertante rigidità di Sylvester Stallone nel ruolo di Johnny Kovac, alter ego di Hoffa nella seconda opera cinematografica a lui dedicata. Il film è F.I.S.T., di Norman Jewison (Canal+-Jersey FilmsTwentieth Century Fox-Film Corporation, USA 1978), con Rod Steiger e Peter Boyle, che con la loro recitazione ne risollevano il tono spento e un po' monocorde. Camionista di origine ungherese, Kovac diventa dirigente del F.I.S.T. (la Federazione degli autotrasportatori nordamericani; la sigla corrisponde alla parola "pugno"). Proprio come Hoffa, quando un senatore (nella realtà Robert Kennedy) dà l’avvio a un'inchiesta, Kovac accetta di testimoniare, ma la mafia provvede a farlo scomparire. È un film didascalico e noioso, anche grazie al fatto che Stallone ha collaborato alla sceneggiatura con Joe Eszterhas. Offre però qualche strumento sia per comprendere le travagliate vicende del sindacato americano, sia per capire il ruolo ambiguo tenuto dalla mafia in alcuni dei grandi conflitti del Novecento tra Stato e parti sociali. Un ruolo di mediazione che, nella seconda metà del secolo, declina a favore dell’infiltrazione nelle stesse istituzioni e dell’alleanza con la politica. Ci sono anche film che guardano alla mafia dalla parte della legge e dei tentativi di arrestarne il potere. Sono vicende individuali, che riguardano pochi sparuti eroi in guerra contro le organizzazioni criminali, ma spesso contro le stesse istituzioni dello Stato, corrotte o inadeguate. Gli Intoccabili (The Untouchables, Paramount Pictures, 95 Le case di produzione della pellicola sono Canal+, Jersey Films e Twentieth Century Fox. Lo sceneggiatore David Mamet è uno scrittore per il cinema e la tv, che ha lavorato a film famosi sulla mafia come Gli intoccabili e Lansky. 96 Benché non sia stato ben ricevuto dalla critica, il film di De Vito su Hoffa ha conquistato due nominations al Premio Oscar per la miglior fotografia e il trucco. La performance di Jack Nicholson divide nettamente i critici in due fazioni: l'attore ha infatti ricevuto una nomination ai Golden Globes, ma anche una come Peggior Attore ai Razzie Awards. 100 USA 1987) di Brian De Palma racconta la storia della prima vera task force che si pose come obiettivo quello di boicottare gli affari di Cosa Nostra in America attraverso misure speciali e interventi ad ampio raggio. «Gli intoccabili» del film sono un gruppo di quattro agenti scelti e guidati da Eliot Ness (Kevin Costner), che nella Chicago del proibizionismo tentano di incastrare Al Capone (Robert De Niro). De Palma riprende la celebre biografia di Ness, – il federale che inchiodò Scarface con l'accusa di reati fiscali – che aveva già dato vita a una celebre serie tv degli anni cinquanta. È un dramma poliziesco pieno di ritmo e di citazioni del grande cinema internazionale, come la scena della stazione, dove una carrozzina precipita giù per la scalinata come nella celeberrima scena de La corazzata Potemkin97. Serpico (Columbia Pictures, USA 1973) di Sidney Lumet è anch'esso tratto da una storia vera, ma rovescia la prospettiva de Gli Intoccabili. Ci sono italiani malavitosi, in questo film, ma stanno sullo sfondo: l'eroe è un italiano onesto. Il film racconta la travagliata vicenda del poliziotto italoamericano Frank Serpico, membro del dipartimento di polizia di New York dal 1959 al 1972. Fedele al suo ruolo, Serpico si oppone alla corruzione dilagante tra i colleghi, rifiutando di far parte del sistema di connivenze che questi hanno messo in piedi con la criminalità locale e il boss Corsaro. Ghettizzato, minacciato e poi lasciato solo a farsi sparare in piena faccia in un'azione di polizia, Serpico trova comunque il coraggio di denunciare ciò che sa di fronte agli inquirenti e alla stampa. Un ruolo da italiano, nonostante tutto: Al Pacino ci tenne a spiegare che per il suo eroe l'italianità è sinonimo di onestà, non di crimine98. 97 Il cast è composto da Sean Connery nel ruolo di Jimmy Malone, Kevin Costner in quello dell'agente federale Eliot Ness, Andy Garcia, l'italoamericano George Stone, e Robert De Niro nel ruolo di Al Capone. Il soggetto proviene dall'autobiografia di Ness, che era già alla base di una famosa serie televisiva con Robert Stack. La pellicola fu un grosso successo al botteghino e incassò 76 milioni di dollari. Sean Connery guadagnò il primo e unico Oscar della sua carriera come miglior attore non protagonista. 98 Gli italiani, anzi le italiane che combattono contro i valori mafiosi sono il soggetto del film Il lungo silenzio (Bioskop Film-Evento Spettacolo-K.G. Productions, ItaliaGermania-Francia 1993) regia di Margarethe Von Trotta con Paolo Graziosi, Carla Gravina, Alida Valli, Ottavia Piccolo. 101 La mafia imprenditrice. Sono ormai trent’anni che si parla di «mafia imprenditrice». È una tendenza che risale agli anni settanta: la penetrazione delle organizzazioni criminali nell'economia di molti Stati. È ben più di un sistema corrotto che chiude un occhio sui reati dei mafiosi in cambio di mazzette e favori, come ai tempi di Serpico. Accanto ai reati tipici – l’estorsione, l’usura, il contrabbando, lo spaccio di stupefacenti – la mafia si insinua in settori strategici dell’economia, dove interviene sul controllo degli appalti e dei servizi pubblici. Il settore immobiliare, la Borsa, il riciclaggio di denaro sporco sono le nuove sfere di attività: ora Cosa Nostra fa regolarmente affari con il mondo politico, le banche e la burocrazia. La sua fortuna non conosce ostacoli, o quasi. Dagli anni settanta a oggi si susseguono crisi economiche internazionali e crolli della Borsa: tuttavia, a differenza di qualsiasi altra holding, essa ne risente poco. È ovvio: la mafia italiana e italoamericana, la Triade cinese e la Yakuza giapponese sono le prime organizzazioni “non governative” davvero globalizzate. In più, hanno consigli di amministrazione efficienti, migliaia di dipendenti, consulenti, specialisti. L'impresa mafiosa è persuasiva nelle transazioni – è noto come – e dunque pressoché imbattibile dalla concorrenza. La seconda e la terza parte de Il padrino di Coppola99 sono eccezionali testimoni del cambiamento di un'epoca e di una morale del crimine, nelle sue implicazioni con la politica, la società e le istituzioni religiose. Raccontano le vicende degli anni in cui si stabilizza il potere di Michael Corleone come erede di Vito, mentre i suoi traffici trovano nuovi sbocchi, il divario fra le generazioni di mafiosi pone problemi inediti. Aumentano le zone grigie, e anche la possibilità di vivere sul filo sottile che separa la legge dall'illegalità. Si 99 Sono Il Padrino parte II (The Godfather: Part II, Paramount Pictures-The Coppola Company, USA 1974) e Il Padrino parte III (The Godfather: Part II, Paramount Pictures-Zoetrope Studios, USA 1990). La sceneggiatura delle tre parti è di Coppola. Nell'ultimo film recitano anche Andy Garcia e Sofia Coppola. In seguito al successo del primo film la Paramount Pictures pensò a un sequel, chiamando nuovamente alla regia Francis Ford Coppola, che però chiese di dare l'incarico a Martin Scorsese per i conflitti con la casa di produzione. Questa rifiutò e Coppola fu costretto ad accettare, ponendo però la condizione che si inserisse nel film il passato di don Vito Corleone, raccontato nel romanzo di Mario Puzo ma non inserito nella narrazione del primo film. 102 tratta – per Michael, per i suoi figli e i suoi pupilli – di scegliere, di assecondare il destino o di opporglisi, di sovvertire la tradizione delle origini o di preservarla. Cosa Nostra, attraverso la leggenda dei Corleone, percorre quasi interamente il Novecento. Cresce in aggressività e violenza, in volume d'affari, in connessioni con la società americana (e italiana, e vaticana). Intanto, i grandi boss come Michael diventano più consapevoli e tragici, senza mai davvero suscitare pietà nello spettatore100. Il potere illegale ha un prezzo immenso: alla fine del terzo episodio Michael trova pace e sicurezza, ma muore solo, senza il conforto dell'amata figlia. L’attaccamento alla tradizione resta un vezzo per pochi, una pallida ombra d'italianità e questo mutamento di abitudini è registrato dal cinema. Il nuovo mafioso è cool, ma in chiave moderna. Deposto il doppiopetto gessato, il mitra ad armacol e le facce da galera, squarciate dai rasoi nemici, i mobsters sono ormai dei lindi laureati in economia e in legge: non solo i capi, spesso anche i gregari. Si sono riciclati come e meglio del loro denaro sporco. Possono sfoggiare le proprie origini come una moda o una minaccia implicita: il loro sguardo, però, non è volto all’Italia, bensì al mondo intero, di cui sono consci di fare parte. Dalla caduta del muro di Berlino, quando la comunità internazionale del crimine si allarga alle mafie provenienti dall’est, l’identità della vecchia Mob si dissolve completamente. Giocati sull’evoluzione dei mafiosi dagli anni Cinquanta ai decenni successivi, sono due grandi prove di Martin Scorsese, filmicamente più elaborate e molto più famose di Means Street. Sono due storie in cui il mafioso "imprenditore" è studiato nelle due dimensioni del tempo e dello spazio. Il primo è Quei bravi ragazzi (Goodfellas, Irwin 100 La critica contemporanea al film si scatenò contro l'interpretazione "benevola" di alcuni atteggiamenti mafiosi, che privilegiavano l'antica immagine del capo-cosca come ago della bilancia, giudice di pace, risolutore dei problemi e delle controversie in seno alla comunità: una leggenda italiana sulla mafia delle origini passata oltreoceano. L'ultimo film in cui compare questo cliché è probabilmente Sleepers, un film del 1996 diretto da Barry Levinson, tratto dall'omonimo romanzo di Lorenzo Carcaterra. Racconta la storia dello stesso Carcaterra (detto "Shakes"), che insieme con l'amico Michael Sullivan tenta di salvare i due amici di adolescenza John Reilly e Tommy Cohen Marcano dall'accusa di aver ucciso il loro stupratore in carcere. Il vecchio italoamericano King Benny, mafioso per cui i quattro lavoravano da ragazzini, contribuisce all'esito positivo del processo, con mezzi non precisamente legali. 103 Winkler, Usa 1990)101, che narra con la crudezza della cronaca la vicenda di Henry Hill (Ray Liotta), italo-irlandese cresciuto a Brooklyn che vuole diventare un gangster. Il suo sogno si avvera, con una totale, quasi eccessiva perdita dell'innocenza. In un percorso senza sosta dal tradimento all'omicidio, dal ricatto alla violenza fine a se stessa, Henry perde tutto e decide di abbandonare gli altri “bravi ragazzi» al loro destino, vendendoli all'FBI per salvare se stesso. Scorsese racconta la malavita organizzata attraverso una ventina di personaggi indimenticabili, che la macchina da presa insegue, come in un documentario, per coglierne il linguaggio, le usanze quotidiane e le iniziative criminali. Il secondo film è Casinò, (Casino, Universal Pictures-Syalis DALégende Entreprises-De Fina-Cappa, USA 1995), che racconta una storia vera sotto mentite spoglie, l'ascesa e la caduta di Frank “Lefty” Rosenthal, un piccolo gangster giunto a Las Vegas nel 1968 che diventò l'imperatore dei casinò per più di un decennio. Il suo alter ego nella finzione è Sam "Asso" Rothstein (Robert de Niro), giocatore d'azzardo e organizzatore di scommesse, che dirige il Tangiers di Las Vegas per conto della famiglia mafiosa di Remo Gaggi. Il tentativo di raggiungere ricchezze, stabilità e potere si scontra con l'avidità e l'infedeltà della moglie Ginger (Sharon Stone) e con l'efferata impulsività dell'amico Nicky Santoro (Joe Pesci). I protagonisti sommano, in tre, tutti i peccati capitali ma sembrano stranamente bilanciarsi in un equilibrio perverso: fino a quando, ubriacati dal denaro facile, oltrepassano i limiti, facendo crollare un impero102. C'è un altro maestro di equilibrismo, che cammina sul filo del limite, tra legalità e crimine e tra vecchia e nuova mafia. Al suo personaggio è dedicato il film Donnie Brasco (Mandalay Entertainment-Baltimore Pictures-Mark Johnson Productions, USA 1997) di Mike Newell, sceneggiato da Paul Attanasio a partire dalla autobiografia di Joseph 101 Basato sulla storia vera del pentito Henry Hill e sul romanzo di Nicholas Pileggi Il delitto paga bene, il film è stato scritto dallo stesso Pileggi e da Scorsese. Il titolo è stato modificato, perché l'originale, Wiseguy, era quello di una serie tv omonima. Candidato a 6 Oscar nel 1991, ha ottenuto quello per il miglior attore non protagonista per il ruolo di Tommy DeVito assegnato a Joe Pesci, che recita anche in altri film di Martin Scorsese: Toro scatenato (1980) e Casinò (1995). È spesso definito come uno dei migliori gangster-movie di sempre, oltre che il capolavoro di Scorsese. 102 La sceneggiatura è scritta dal regista e da Nicholas Pileggi, autore del romanzo da cui è tratto, che con Martin Scorsese aveva già collaborato in Quei bravi ragazzi. 104 D. Pistone, My Undercover Life in the Mafia. Alla metà degli anni settanta l’italoamericano Joe Pistone, agente dell'FBI si infiltra in una cosca di Little Italy con la falsa identità di Donnie (il trasformista Johnny Depp) e il mestiere fittizio di ricettatore di gioielli. Pian piano conquista la fiducia e poi l’amicizia di Lefty (un commovente Al Pacino), anziano gregario. Tra i due nasce un sentimento più forte dei legami familiari, ma la fine è molto triste: i due personaggi si rendono conto di essere meri strumenti nelle mani delle istituzioni cui appartengono. Il neozelandese Newell, attivo dal 1976 nel cinema britannico, esordisce con grande successo nel suo primo film hollywoodiano: è un mafia movie psicologico, non violento (se non alla fine) ma attento al contesto, nei dettagli e nelle sfumature. L’espressione «Che te lo dico a fare?», intercalare comune dei protagonisti, è diventata culto: in realtà è una libera traduzione dall'inglese «Forgetaboutit!», che a sua volta viene dalla lingua napoletana: «E che t'o' ddico a ffa?» o siciliana: «Chi tû dicu a fari?». Donnie e Lefty non si comportano come ci si aspetta da loro e qui sta, in qualche maniera, l'aspetto interessante della storia. Ci sono invece film sulla nuova mafia che di interessante hanno poco, perché non sanno distaccarsi da vecchi stereotipi, da figure e situazioni abusate. Avenging Angelo (Vendicando Angelo Dante EntertainmentEpsilon Motion Pictures-Quinta Communications, USA 2002) di Martyn Burke è uno di questi: un drammone mafioso scritto da Will Aldis e Steve Mackall senza grandi meriti. Curioso il suo appello ai valori mafiosi della tradizione – la lealtà di clan, il senso di giustizia – da cui procede la trama. Muore per mano di un sicario Angelo Allieghieri (Anthony Quinn), vecchio boss della mafia siculoamericana, di cui Frankie Delano (Sylvester Stallone) è guardia del corpo e amico. Frankie dovrà allora occuparsi a salvare Jennifer (Madeleine Stowe), figlia del capo, innamoratasi di un certo Marcello che vuole ucciderla per vendicarsi. È, in effetti, l'intero film che grida vendetta: soprattutto perché il fato ha voluto che fosse l'ultima prova attoriale del grande Anthony Quinn, morto poco dopo. Tutt'altro respiro ha il famoso L'Onore dei Prizzi (Prizzi's Honor, ABC Motion Pictures, USA 1985) del grande John Huston103, che pure non è un dramma ma una commedia nera, spietata ed esilarante al 103 Da un romanzo di Richard Condon, il film ottenne ben otto nomination agli Oscar e una statuetta alla figlia di Huston come attrice non protagonista. 105 tempo stesso. Senza dubbio, è un film che guarda alla nuova mafia imprenditrice e finanziaria con un linguaggio nuovo e da una prospettiva inedita. Huston ci dice che il culto della tradizione diventa niente più che un assurdo gioco al massacro, se cambiano i contesti. Un giovanotto italoamericano di Brooklyn, Charley Partanna (Jack Nicholson), s'innamora di una gentile fanciulla di Los Angeles, Irene Walker (Kathleen Turner), che dice di lavorare nel mondo della finanza. Una bella coppia davvero. Charley è un luogotenente dei mafiosi Prizzi, lei è un sicario professionista, coinvolta in una truffa in cui la stessa famiglia è stata danneggiata. Il loro amore è contrastato dal vice del boss, Dominic; da sua figlia Maerose (una splendida Anjelica Huston, la figlia del regista); da una seconda truffa, tra finanzieri e premi assicurativi; dalla lealtà nei confronti del clan e infine, da molte pallottole e pugnali. È un film che per certi aspetti richiama Il padrino: certamente si propone una lettura grottesca e caricaturale dei grandi mutamenti in corso. Ci sono poi due film che riguardano la nuova mafia, colta però in una prospettiva diversa: quella di coloro che, per una ragione o per l'altra, si trovano ai margini delle grandi organizzazioni criminali. Il primo è S.O.S. Summer of Sam - Panico a New York (S.O.S. Summer of Sam, 40 Acres & a Mule Filmworks-Touchstone Pictures, USA 1999) diretto da Spike Lee e basato su una storia vera che, per una volta, riguarda il Bronx degli italiani e non la comunità afroamericana. Il personaggio nell’ombra è un serial killer statunitense, che nell'estate del 1977 uccide coppiette e donne sole nel Bronx. In realtà si chiama David Berkowitz (Michael Badalucco), pensa di sentir parlare i cani e si firma "Son of Sam". Ecco che per catturarlo, la polizia chiede l'aiuto dei mafiosi del quartiere, guidati da Luigi (Ben Gazzara), che sfociano in una vera caccia alle streghe e nell’isteria collettiva. L’attenzione si concentra su Ritchie (Adrien Brody), un punk che lavora in un locale gay di Manhattan. Il suo migliore amico, Vinny (John Leguizamo), viveur di quartiere e pessimo soggetto lo consegna ai mafiosi, che iniziano a picchiarlo proprio mentre il vero serial killer viene casualmente arrestato. Il secondo è la storia di un pensionato: Il killer di Chicago (Chicago Overcoat, Beverly Ridge Pictures, Chicago Overcoat Productions, USA 106 2009104), di Brian Caunter. Lou Marazano (Frank Vincent) per lunghi decenni è stato il miglior killer dell'organizzazione detta Chicago Outfit, ma a sessant'anni è stato dismesso come un vecchio gessato. Per poter lasciare la città con l'amata Lorraine e godersi gli ultimi anni accetta di fare l'ultimo favore al boss Stefano D'Agostino, impegnato a coprire i legami tra malavita, politica e polizia. Il detective Ralph Maloney si convince che dietro l'ondata dei nuovi crimini vi sia Lou, mentre i suoi datori di lavoro lo cercano per eliminarlo. Il debuttante Brian Cautner dirige questa pellicola low budget garantendo il successo, addirittura il trionfo, di tutti i possibili stereotipi: sulla mafia italiana, sui codici d'onore, sui veri uomini e perfino sui pensionati pieni di risorse. Il film è esso stesso una sorta di ospizio di caratteristi caduti in disgrazia, ex cattivi dei gangster movies: per esempio, oltre a Vincent, Armand Assante, Mike Starr e Stacey Keach, che sulla criminalità organizzata hanno costruito una (piccola) fortuna legale. In fondo, quando si tratta di mafia, il pubblico si aspetta ormai di applaudire i soliti noti: De Niro, Pesci, Pacino. Dietro di loro, però, campano decine di gregari svelti di mitra, di facce da galera, di omertosi dall'accento siculo: anche al cinema the Mob, lo dice la parole stessa, è una vera folla. La mafia in commedia. E se la mafia facesse ridere? Ci aveva già pensato Billy Wilder in A qualcuno piace caldo. Tuttavia i suoi mafiosi restavano senza ombra di dubbio i cattivi del film. A rendere il crimine protagonista di una commedia si corre, talvolta un rischio ben preciso: che il pubblico si immedesimi al punto da identificare il cattivo con l'eroe. Prova a incastrarmi (Find Me Guilty, USA-Germania 2006) è una pellicola del 2006 diretto dal vecchio e celebre regista americano di cinema giudiziario Sidney Lumet. Qui è narrata con piglio tragicomico la lunghissima vicenda processuale di Giacomo "Jackie Dee" Di Norscio105, vista da un'ottica che ha stupito e infastidito i fan di 104 Qui è protagonista l'eterno comprimario di mafia Frank Vincent, immediatamente riconoscibile dal pubblico e riconducibile all'immaginario mafioso cinematografico dagli anni settanta in avanti. Vincent ha recitato con Martin Scorsese, con Spike Lee e la serie televisiva I Soprano. 105 È ricordato come il più lungo processo per crimini della storia degli Stati Uniti. Dopo molti e faticosi anni di indagini, tra il 1987 e il 1988, 20 membri della 107 Lumet. Negli anni ottanta, il mafioso Di Norscio, mobster di basso rango già condannato a trent'anni, si rifiutò di collaborare con la giustizia come il cugino Tony («a rat», un delatore): non solo, ma decise anche di rinunciare ai legali per difendersi da solo nel nuovo processo. Ignorante, spiritoso, caustico, con un senso spropositato della lealtà dovuta alla famiglia, Jackie trasformò l'intero dibattimento in un evento unico, irritando e preoccupando mafiosi e giudici, ma catturando la simpatia dei media, dei giurati e dell'opinione pubblica. Anche nel film i ruoli sono ribaltati: è difficile non provare sentimenti positivi per il mafioso magistralmente interpretato da Vin Diesel e non sentire affinità con le sue regole, che mischiano omertà e lealtà, che alla fine ne fanno l'unico uomo libero. Lumet non è certo un sostenitore dei valori della mafia italoamericana, ma bisogna ammettere che il suo sguardo sempre attento al contesto storico ha mutato metro di giudizio, rispetto ai vecchi cineprocessi come La parola ai giurati o Il verdetto. È più dannoso un gregario ignorante o un intero sistema politico e giudiziario che si rivela corrotto? Sono dannosi entrambi: anzi, sono funzionali l'uno all'altro. Un mafioso è sempre un criminale, ma ci sono gradi di responsabilità diversi. La commedia è, per certi versi, il rifugio dei criminali miserabili. Cadaveri e compari (Wise Guys, Metro-Goldwyn-Mayer, USA 1986), è una pellicola di Brian De Palma, che racconta della curiosa amicizia tra l'italo-americano Harry Valentini (Danny De Vito), e l'ebreo-italiano Moe Diestein (Joe Piscopo): due delinquenti di mezza tacca di Jersey City che sognano di possedere un ristorante italo-ebraico. In realtà sono due umili dipendenti del potente boss Anthony Castelo (Costello in italiano), ben poco rispettati dagli altri gregari: secondo le necessità del capo sono chiamati a fare le colf, le cavie per le sue giacche antiproiettile, le esche per eventuali attentati. Una vitaccia piena di umiliazioni, nella vana attesa dell'occasione giusta. E l'occasione arriva. Incaricati da Costello di puntare su un cavallo, sbagliano, perdendo diecimila dollari suoi: colpa che i due poveracci devono espiare eliminandosi l'uno con l'altro. Inizia la loro fuga rocambolesca verso Atlantic City sulla Cadillac di un killer al soldo di Costello. Li salverà Bobby Di Lea potentissima famiglia mafiosa Lucchese furono trascinati in aula con 76 capi d'imputazione. Il processo durò 21 mesi con 20 imputati e solo 19 difensori, perché DiNorscio aveva rifiutato la difesa appellandosi al sesto emendamento e al diritto di difendersi da solo. 108 (Harvey Keitel), proprietario di un hotel, permettendo loro di aprire il tanto agognato ristorante. Una vedova allegra... ma non troppo (Married to the Mob, Mysterious Arts-Orion Pictures Corporation, USA 1988) è una commedia di Jonathan Demme che parla invece di una "donna di mafia", anche lei, come Harry e Moe, non completamente responsabile per una vita da cui vorrebbe scappare106. È Michelle Pfeiffer, qui bruna, riccia e un po' volgare. La sua bravura e quella degli altri attori tratteggiano con un certo garbo la caricatura dell'italiano, nella versione del criminale ma anche in quella dell'arricchito cafone. Frank "Cetriolo" DeMarco (Alec Baldwin) è un mobster per il boss Tony Russo (Dean Stockwell), che lo uccide dopo averlo trovato a letto con una delle sue ragazze. La giovane e bella vedova Angela, ormai sola con un bambino, diventa oggetto delle pressanti attenzioni di Tony, che a sua volta è seguito da una moglie italiana gelosissima che spunta da ogni dove e dall'FBI, che vuole incastrarlo da tempo. Il poliziotto incaricato del pedinamento di Angela, Mike Downey, s'innamora di lei, con il risultato di complicare ulteriormente l'intreccio, ma di consentire una via d'uscita più agevole. Meno felici sono due film con Robert De Niro, che questa volta veste i panni del mafioso in versione comica: un grande successo di pubblico, mentre tutta la critica li ha stroncati. Sono Terapia e pallottole (Analyze this, Village Roadshow Pictures-TriBeCa Productions, USA 1999)107 e il suo seguito, Un boss sotto stress (Analyze that, Village Roadshow Pictures, USA 2002) del regista Harold Ramis. Il soggetto mette insieme due strani elementi: the Mob e la psicanalisi. Paul Vitti (De Niro), capomafia newyorkese, si scopre fragile e in preda a sindromi ansiose, fino a quando non costringe Ben Sobel (Billy Crystal), un analista conosciuto casualmente, a prenderlo in cura. Il medico si accorgerà che il nuovo paziente è difficile, sia sopra, sia fuori dal lettino: il suo problema sono i rapporti con la propria infanzia, ma anche quelli con l'intera mafia newyorkese. Tra rimozioni e riorganizzazioni di Cupola, Vitti 106 Jonathan Demme, il regista di Philadelphia e de Il silenzio degli innocenti, ha tentato qui la via della commedia di mafia con un enorme successo di pubblico, ma anche di critica, che ha apprezzato la regia, la sceneggiatura e soprattutto gli attori principali e secondari. 107 Il ricavo del film è stato di 177 milioni di dollari in totale, a fronte di una spesa di 80 milioni circa. È stato però stroncato dalla critica, così come il suo seguito. 109 finisce in prigione, ma soddisfatto e guarito. Tuttavia, nella seconda parte, i continui attentati alla sua vita durante la detenzione a Sing Sing gli provocano un nuovo esaurimento. L'FBI dà a Sobel l'incarico di curarlo, tenendolo in custodia e reinserendolo nella vita civile. Ai problemi dell'adattamento a una vita onesta si aggiungono quelli legati alla volontà di vendetta della mafia newyorkese. Entrambi i film hanno, purtroppo, lo stesso problema: si basano su un'idea deliziosa, sostenuta però su una vera accozzaglia di volgarità e di luoghi comuni sulla cultura italiana (ma anche su qualsiasi altra). La mano è pesante, anzi, pesantissima. Lo stesso si dica di un altro orrore in commedia: Mickey occhi blu (Mickey Blue Eyes, di Kelly Makin, Simian Films-Castle Rock Entertainment, Gran Bretagna-USA 1999). Qui il timido, educato gallerista inglese Michael Felgate (Hug Grant), per poter sposare la sua fidanzata, Gina Vitale (Jeanne Tripplehorn), che è in realtà la figlia di un capo mafioso, è costretto a farsi coinvolgere nei loschi affari della famiglia e a calarsi nello stereotipo più triviale del gangster di mafia. Il ragazzo riscuote un certo successo. A differenza del film, che deborda nel grottesco a ogni angolo senza nessuna cautela. Il testimone più pazzo del mondo (My Blue Heaven, di Herbert Ross, Warner Bros.-Hawn/Sylbert Movie Company, USA 1990) il mobster Vinnie Antonelli (Steve Martin) si rende disponibile a collaborare con la giustizia e viene nascosto, sotto falso nome, in un paesino californiano, sotto la tutela dell'agente Barney Cooppersmith (Rick Moranis)108. Costui è un burocrate puro, ligio, ordinato, inflessibile custode dei regolamenti; tanto quanto Vinnie è eccessivo, turbolento, nemico di qualsiasi norma. Un poliziotto e un malvivente: più che altro, un americano e un italiano. La loro convivenza è destinata a fare scintille, che si traducono in un sicuro divertimento per lo spettatore. Non solo perché gli attori sono bravi e la regia ha un ritmo pregevole: perché due culture, non una sola, vengono prese in giro, con tatto e leggerezza. Finalmente. 108 È ispirato alla storia del mafioso pentito americano Henry Hill, di cui parla il romanzo Il delitto paga bene di Nicholas Pileggi, da cui è stato tratto anche il film Quei bravi ragazzi. La sceneggiatura è di Nora Ephron, moglie di Pileggi. 110 Marcello Nizzoli per OLIVETTI (macchina per scrivere Lettera 22, 1950) 111 112 Colpi grossi all’italiana «Gli italiani fabbricano porte magnifiche, ma se desideri tener fuori il prossimo usa un lucchetto americano». (John H. Secondari in Tre soldi nella fontana di Jean Negulesco) Un talento per il crimine. È difficile dire a chi gli italiani debbano quella fama di ladri, di imbroglioni, di delinquenti di ogni risma che li accompagna nel mondo. È difficile, soprattutto, mettere questa nomea – ormai piuttosto antica – in conto a qualche cineasta straniero. Ma se davvero si cercasse un colpevole nel mondo del cinema, lo si dovrebbe trovare agli albori dell'industria filmica, tra la fine dell'Ottocento e il primo decennio del Novecento. In quegli anni un'ondata migratoria di dimensioni imponenti stava portando i nostri progenitori in ogni parte del mondo, in cerca di lavoro e di nuove opportunità. A flussi regolari, grandi masse di persone raggiunsero le coste di altri continenti e, almeno nella metà dei casi, decisero di rimanere. Nello stesso periodo, i padroni di casa iniziarono a identificare nei nuovi ospiti dei tratti somatici ben definiti, una cultura assai pittoresca e alcune abitudini non tutte encomiabili. Dal 1880 al 1924 almeno quattro milioni e mezzo di nostri connazionali si trasferirono negli Stati Uniti: non solo nel nord-est, a Chicago o a San Francisco, ma anche negli Stati del sud. Perlopiù, erano poveri e venivano dal meridione d'Italia: molti di loro erano siciliani. Gli anglosassoni furono colpiti duramente dall'impatto con i migranti mediterranei e l’ostilità che ne derivò si convertì molto rapidamente nella messa in scena dei loro caratteri nazionali. Molto diversi dagli irlandesi e dagli afroamericani (i neri erano ormai parte, sebbene discriminata, della nazione), gli italiani sembravano presentare un mix dei vizi degli altri migranti: apparivano come una sorta di caucasici con tratti negroidi. Brutti e sporchi, non potevano che essere anche cattivi. Si trattava di capire come e quanto. 113 David W. Griffith109 fu uno dei primi a contribuire allo stereotipo dell'italiano violento, le cui passioni (spesso sfrenate) conducono quasi inevitabilmente al crimine. In una serie di corti e di mediometraggi girati tra il 1907 e il 1913, il grande regista americano – forse il più famoso della sua epoca – girò alcune biografie italiane che sono passate alla storia del cinema110. Sono film rari, talvolta della durata di pochi minuti, che nella maggior parte dei casi si trovano in uno stato di conservazione assai precario. In Little Italy (1909); The Violin Maker of Cremona (1909); Pippa passes (1909); At the Altar (1909); The Musketeers of Pig Alley (1912); In Life's Cycle (1910); Italian Blood (1911) sono solo le pellicole più note tra quelle che hanno per protagonisti italiani o italoamericani di prima o seconda generazione. Griffith fu tra i primi a trasferire alla "storia all'italiana" le caratteristiche del dramma elisabettiano, combinate con il melodramma e il teatro sentimentale del diciannovesimo secolo. In tutte queste vicende la gelosia, il dolore per l'amore non corrisposto, l'ira e la volontà di vendetta conducono il maschio italiano alla perdizione – al reato, al furto, all'omicidio –, mentre le donne sono spesso vittime dei connazionali, alla cui volontà (che asseconda il destino) si abbandonano senza speranza. Era presente in questi brevi film, rispetto al meccanismo del dramma moderno e contemporaneo, un elemento in più, che il regista trasse dall'osservazione delle dinamiche in atto tra i lavoratori immigrati: la gang, la banda formata da persone dello stesso gruppo etnico. Dalla seconda metà dell'Ottocento nelle grandi città degli Stati Uniti gli emigranti irlandesi, italiani, latinos e anche gli afroamericani si stavano organizzando in piccoli gruppi paramilitari, talvolta con espliciti scopi criminali. Altre volte, le gangs avevano un volto più innocuo: quello di "famiglie" fortemente integrate e solidali in cui le persone trovavano protezione e imparavano a onorare le proprie origini, sebbene spesso disprezzando quelle altrui. 109 David Llewelyn Wark Griffith (La Grange, 22 gennaio 1875-Los Angeles, 23 luglio 1948) è un regista, produttore cinematografico e sceneggiatore statunitense che la storia del cinema reputa uno dei padri della settima arte, perché stabilì molte delle regole del cinema narrativo. 110 Nei film degli anni dieci, Griffith era molto interessato a raccontare vicende che riguardassero non solo gli italiani, ma anche le altre etnie presenti negli Stati Uniti (latinos e irlandesi in particolare). La casa di produzione del regista, all'epoca, era la Biograph Company, nome che rivelava il programma dell'impresa. 114 Griffith celebrò per primo sullo schermo il matrimonio italiano tra le passioni tragiche e la cultura della gang. Nei suoi film le difficoltà dell'integrazione, la povertà, l'emarginazione vengono convogliate nell'appartenenza a un gruppo, nel rispetto delle tradizioni, nel culto delle abitudini nazionali. La guerra fra bande etniche è spesso chiamata in causa: nell'dea dell'autore gli immigrati hanno bisogno del confronto, dell'antagonismo, di individuare un nemico – spesso altrettanto emarginato – per esaltare la propria identità. È un diffuso luogo comune: in una gang si sragiona meglio. Lo spirito di gruppo, secondo Griffith, non fa che amplificare le conseguenze di quel temperamento focoso, instabile e passionale che l'immigrato italiano porta nel suo corredo genetico e culturale. Oppure, la banda diventa la task-force del crimine, dove i colpi vengono progettati; dove ciascuno degli appartenenti trova, per così dire, una mansione adatta ai suoi talenti. Il risultato è pessimo sul piano umano, ma ottimo per un buon soggetto: solo nel caso dell'happy ending il crimine viene scongiurato. David W. Griffith era un grande inventore di nuovi linguaggi cinematografici e un vero mago della narrazione filmica, ma non era noto per la finezza delle sue indagini psicosociologiche o per la profondità dei suoi giudizi antropologici. Il famosissimo lungometraggio Nascita di una nazione l'obbligò a difendersi dall'accusa – non infondata – di avere esaltato l'opera pacificatrice del Ku Klux Klan111 negli Stati del sud dopo la guerra di Secessione. Il poveretto, sinceramente sorpreso, impiegò gli anni successivi e un lungo film (Intolerance) e a tentare di togliersi di dosso la macchia 111 Nel 1915 Griffith fondò con Mack Sennett la Triangle Film Corporation con cui produsse il lungometraggio La nascita di una nazione (160 minuti): la prima opera cinematografica pienamente narrativa, in cui si dà rilievo alla storia tanto quanto alle immagini. Il film, tratto da due romanzi del reverendo Thomas Dixon, racconta alcuni episodi della guerra di secessione americana con un ritmo incalzante e grande intensità narrativa nella descrizione dei personaggi e delle scene di guerra. Nonostante lo strepitoso successo (un incasso di 10 milioni di dollari ne fece il film muto più redditizio della storia del cinema) fu molto criticato per il contenuto razzista della seconda parte, dove il Ku Klux Klan ristabilisce l'ordine nel Sud, abbandonato dal governo del Nord alle orde di schiavi liberati. Le proiezioni diedero origine a violenti scontri in molte città degli Stati Uniti. Per discolparsi Griffith pubblicò il pamphlet The Rise and Fall of Free Speech in America per difendere la libertà di espressione politica, e poi decise di girare il film Intolerance, (1916) contro la violenza e l’intolleranza. 115 del razzismo e dell'intolleranza. In generale, la sua non era cecità e pregiudizio nei confronti delle diverse etnie presenti sul suolo americano: piuttosto una sincera curiosità per le caratteristiche di un popolo, la sua storia e la sua cultura e la capacità (da vero cineasta) di trasformarle in stereotipi adatti. L'idea non era del tutto sbagliata: ingrate condizioni di vita possono mettere a dura prova un temperamento focoso e facile all'offesa, che considera l'onore come un valore imprescindibile. Ciò che non è molto chiaro è il passo successivo, quando il binomio Italia-crimine fu assunto dal cinema internazionale come un pittoresco dato di fatto e, di conseguenza, come ingrediente per sceneggiature gialle o poliziesche. È un passo che non fu compiuto da Griffith, ma dai suoi eredi: quei registi che, a partire dalle sue biografie italiane, esasperarono lo stereotipo, dando inizio a quella tradizione filmica che si basa sul rovesciamento del luogo comune «italiani, brava gente». In realtà, il cliché cinematografico non riguarda solo il popolo italiano con le sue passioni sfrenate e le sue pessime abitudini, ma il Bel Paese nel suo complesso. Questo stesso cliché ha dato vita a veri e propri sottogeneri che hanno come tema conduttore quelli che potremmo definire, con una certa imprecisione, «lavori all'italiana», cioè crimini commessi nel suolo italiano o da malfattori italiani. Il primo di tali sottogeneri è quello che ha eletto i nostri connazionali a protagonisti di furti, rapine e truffe di ogni calibro e che ne ha fatto il soggetto di film gialli, di noir, di polizieschi. Sono i cosiddetti "colpi grossi", heist in inglese, pillage in francese. In questo tipo di pellicole, normalmente, l'elemento dell'avventura prevale su quello del mistero, l'azione sul disvelamento di un'incognita. Si tratta, in molti casi, di un'impresa divertente, che mette in circolo altri stereotipi sulle doti italiane: l'allegria, la capacità di arrangiarsi, la sagacia, la prontezza di spirito. Gli italiani sono abili ladri e scaltri rapinatori, hanno nel sangue la frode e lo sprezzo del pericolo: il loro misfatto è spesso condito da una buona dose d'ironia e una certa flemma scanzonata, che rendono il tutto molto meno criminale. Non sempre è così: in qualche caso, sul grande schermo i malfattori italiani si vestono di un manto oscuro, quello che deriva dalla lezione di Niccolò Machiavelli e del suo personaggio, il sanguinario Cesare 116 Borgia (italiano di nascita, sebbene di origine catalana) 112. Eccoli diventare, in alcuni film, orditori di trame diaboliche, pianificatori di assassini, spietati esecutori delle proprie passioni sfrenate. Griffith, uscito dall'ingresso principale, rientra in sala dalla porta di sicurezza e il cinema d'intrattenimento recupera la sua matrice tragica, quella plasmata dalla tragedia elisabettiana, dal melodramma e dalla letteratura drammatica ottocentesca, attraverso il romanzo d'appendice e il teatro. Un secondo percorso, più elitario, forma un sottogenere a sé stante dei «lavori all'italiana». È quello seguito da cineasti francesi come Jean-Pierre Melville, Jacques Deray, José Giovanni, Richard Berry, Henry Verneuil. Nei loro film è descritto le milieu, la mafia francese del sud, fondata in molti casi (come a Marsiglia) dagli immigrati italiani, che ancor oggi alimentano le sue file. Non si tratta di veri e propri mafia-movies: perlomeno, la differenza con quelli americani salta subito agli occhi. Sono pellicole noir dove l'organizzazione criminale resta sullo sfondo, a vantaggio dell'eroismo individuale del gangster, rigorosamente di origine italiana. Sceneggiatura e regia (e spesso il ricorso al bianco a nero) contribuiscono a farne opere difficili, non adatte a un vasto pubblico. Anche contro le intenzioni degli autori, queste pellicole tendono a fuggire i cliché tipici dei prodotti commerciali, tanto quanto gli stereotipi più banali sulla figura del criminale nostrano. Che qui, di fatto, è quasi sempre un eroe tragico, serio e seducente. In un terzo sottogenere, di solito più frivolo e appartenente alla categoria dei film d'azione, l'Italia è scelta da alcuni registi come scenario ideale per crimini vari: dalla rapina, alla truffa, al furto eccezionale, alla congiura internazionale. Sono spesso le ambientazioni a eccitare la fantasia degli sceneggiatori, ma il mito dell'«italiano criminale» non è del tutto estraneo a questa scelta. È vero: i paesaggi gradevoli sono un ingrediente fondamentale in quelle pellicole fatte per il divertimento, dove il cervello dello spettatore, 112 Cesare Borgia, figlio di papa Alessandro VI, fratello di Lucrezia Borgia, sanguinario e brillante condottiero vissuto tra XV e XVI secolo costituisce uno dei personaggi più amati dal cinema storico insieme con la sua pittoresca famiglia. I registi più famosi che ne hanno raccontato la vicenda sono Abel Gance in Cesare e Lucrezia Borgia (Lucrèce Borgia, Compagnie du Cinema, Francia 1935); Henry King in Il principe delle volpi (Prince of Foxes, 20th Century Fox, USA 1949) e Christian-Jaque, Lucrezia Borgia (Lucrèce Borgia, Rizzoli-Ariane, Francia-Italia 1952). 117 sufficientemente distratto, può vagare per le bellezze naturali o architettoniche che incorniciano l'azione. Ed è anche un dato di fatto che lo Stivale, straripante di tesori di ogni specie, attiri i VIP e il bel mondo internazionale, diventando così una vera fucina di occasioni per i malintenzionati. Eppure, anche la tradizione è molto importante. In quale altro posto si può delinquere, tessere intrighi oppure, al contrario, sventare progetti scellerati, meglio che nel paese che ha ispirato Dante, dato i natali a Machiavelli e inventato le organizzazioni criminali di stampo mafioso? Il genius loci, lo spirito di un luogo, è un elemento di importanza simbolica, oltre che strategica. Lo pensano quei malfattori stranieri che scelgono l'Italia come terra di elezione, di conquista e, al tempo stesso, di battesimo di una lunga carriera di delinquenza. Il più famoso, letterariamente e filmicamente, è forse il «talentuoso» Tom Ripley creato dalla penna di Patricia Highsmith, molto amato dalla cinematografia internazionale. Ripley è un farabutto statunitense per cui l'Italia rappresenta non solo un simbolo di status – la dolce vita dei ricchi e dei ricchissimi – ma anche la terra delle opportunità, dove il sogno americano si inverte grottescamente, e diventa condizione criminale. Ma il personaggio di Highsmith è forse il più cinico, freddo e anaffettivo, non certo l'unico dei cattivi che cercano l'Eldorado nel nostro paese. Nuovi, popolarissimi scrittori di pulp, come Dan Brown, sono approdati al favore del pubblico e poi al cinema e anche grazie al fatto di avere scelto l'Italia come ambientazione ideale di intrighi internazionali. Il grande Francis Ford Coppola lo aveva già capito molti anni orsono: il Vaticano, dove religione e cospirazione vanno a braccetto, ha tutte le carte in regola per essere un ottimo palcoscenico per l'azione drammatica. Mascalzoni latini. La tradizione dei cattivi italiani a Hollywood fu inaugurata dal gentil sesso: l'attrice Sophia Guerni interpretò una bombarola radicale nello xenofobo, antifemminista e anticomunista Dangerous Hours (Thomas H. Ince Corporation, USA 1919) di Fred Niblo. Dopo di lei, per trovare un'altra femmina fuorilegge dobbiamo aspettare oltre un decennio, con Ma' Magdalena di Piccolo Cesare. Mafia a parte, fu soprattutto a partire dagli anni trenta del Novecento che i malviventi di origine italiana diventarono davvero importanti nella cinematografia americana sul crimine. Erano personaggi tragici, come il rapinatore di 118 banche, omicida e rapitore Tony Garotta (Edward G. Robinson) in Avventura Notturna (Night Ride, di John S. Robertson, Universal Pictures, USA 1931) e l'ex gangster pentito "Little John" Sarto nel film Il vendicatore (Brother Orchid, di Lloyd Bacon, Warner Bros, USA 1940). Oppure comici, come il contrabbandiere di birre imbevibili Remy Marco in Un bandito in vacanza (A Slight Case of Murder, di Lloyd Bacon, Warner Bros-First National Pictures, USA 1938) e il fallimentare gang leader Tony Gordoni che bullizza i cantanti di una casa discografica in Mischa il fachiro (Manhattan Merry-Go-Round, di Charles Reisner, Republic Pictures, USA 1937). In molti casi, nella fantasia dei cineasti, il crimine costituiva per gli italiani d'origine una variante illegale e pittoresca del sogno americano. Forse per questa ragione, proprio in quegli anni si stabilì una consuetudine filmica che continua tutt'ora, a cui i registi di tanto in tanto si rivolgono: se il soggetto richiede un buon delinquente, un personaggio di nazionalità o di famiglia italiana costituisce una scelta sicura. Dagli anni quaranta e cinquanta, in qualche raro caso, la tradizione iniziò a combinarsi con qualche tentativo di spiegazione sociologica. Perché gli italiani sono cattivi? In I bassifondi di San Francisco (Knock on Any Door, di Nicholas Ray, Santana Pictures Corporation, USA 1949), Nick Romano cade in una spirale di furti, rapine e omicidi che lo porta alla sedia elettrica, mentre il suo avvocato Andrew Morton (Humphrey Bogart) invoca senza successo le circostanze infauste della sua giovane vita come attenuante. Nel film Il giardino della violenza (The Young Savage, di John Frankenheimer, Contemporary Productions, USA 1961), è invece Burt Lancaster, nei panni del procuratore distrettuale italoamericano Hank Bell (nato Bellini), a indagare sull'omicidio di un giovane portoricano cieco. I colpevoli sono due ragazzi italiani, Anthony Dipasto and Danny Dipaci, membri di una gang giovanile newyorkese, di cui Bell – ex ragazzo di strada – cerca di capire le ragioni e, soprattutto, farle capire alla giuria113. Ma la maggior parte dei villains italiani non può sfoggiare circostanze attenuanti di sorta. Non lo può fare il poliziotto corrotto DeGarmo (Lloyd Nolan) che si oppone al detective Philip Marlowe nel film di Robert Montgomery Una donna nel lago (Lady in the Lake, Metro- 113 Si tratta del film d'esordio di Telly Savalas, l'attore statunitense di origini greche (il nome vero è Aristoteles), noto per il ruolo del tenente calvo Kojak, che qui interpreta la parte di un ufficiale di polizia. 119 Goldwyn-Mayer, USA 1947)114; né Bill Fico, che opera nelle ricevitorie clandestine di un gangster spietato in Le forze del male di Abraham Polonsky (Force of Evil, Enterprise Productions, USA 1948); né il bandito Tami Giacoppetti di Pietà per i giusti di William Wyler (Detective Story, Paramount Pictures, USA 1951); né tantomeno il killer psicopatico Tom Udo in Il bacio della morte (Kiss of Death, di Henry Hathaway, Twentieth Century Fox, USA 1947), o il sadico capobanda Johnny Rocco del film di John Huston L'isola di corallo (Key Largo, Warner Bros, USA 1948), o il crudele ricattatore Servo di La lunga notte (The Long Wait, di Victor Saville, Parklane Pictures Inc., USA 1954). Qualche attore hollywoodiano finì, in quegli anni, per costruirsi una carriera interpretando il ruolo dell'italiano fuorilegge. Edward G. Robinson, ad esempio, fu scritturato ben nove volte per questo ruolo. Il suo personaggio più rappresentativo è forse Vincent Canelli in Pioggia di Piombo (Black Tuesday, di Hugo Fregonese Robert Goldstein Productions, USA 1954). Vincent, a un passo dalla sedia elettrica evade grazie all'aiuto della sua banda poco prima dell'esecuzione. Nella fuga si trascina dietro alcuni ostaggi e un compagno di prigionia, il rapinatore Peter Manning (Peter Graves), che gli garantisce di poter mettere le mani su una cospicua refurtiva: quella della rapina che gli è costata la prigione. Bassa statura, occhi vispi, una grande bocca da pagliaccio pronta a colorite smorfie – compreso tutto il repertorio da duro –, Robinson dimostrò ancora una volta di avere la faccia giusta per rappresentarci115. E che nessuno è 114 Una donna nel lago, tratto dal romanzo omonimo del grande scrittore di noir Raymond Chandler, è un film molto famoso grazie alla tecnica impiegata, che si rivelò un vero insuccesso. Il regista Robert Montgomery recita anche nella parte del protagonista di questo film, da lui girato interamente in soggettiva. Lo spettatore, cioè, vede tutto ciò che accade sullo schermo (pugni compresi) con gli occhi di Philip Marlowe (Montgomery), che si intravede brevemente allo specchio di tanto in tanto. Tra i pochi altri film interamente girati in soggettiva, c'è La femme défendue (1997) di Philippe Harel. In altri la soggettiva è usata per calcare la mano sul fatto che si sta girando un film, un video, un documentario, come nel famoso horror The Blair Witch Project (1999) di Daniel Myrick. 115 Nato in Romania da una famiglia ebrea, all'età di nove anni emigrò con i genitori a New York. Qui si iscrisse all'Accademia d'arte drammatica e nel 1913 cominciò a lavorare come attore di teatro, mentre solo negli anni venti si fece coinvolgere riluttante a fare qualche film muto. Contestualmente, cambiò il suo nome in E. G. Robinson. «La "G" non vuol dire nulla», come disse in molte interviste, «può stare 120 più spietato di un gangster italiano che lotta per la propria vita o per un lauto bottino: a dispetto dei cliché sui dagos116, non conosce né santi né eroi. Dagli anni cinquanta i film di gangster che hanno come protagonista dei malavitosi italoamericani li vedono spesso coinvolti nella criminalità organizzata a livello internazionale. Anche se «the Mob» non compare in maniera esplicita, talvolta questi noir si distinguono a fatica dai mafia movies. Gli italiani sono coinvolti nel giro delle estorsioni, come accade in La legge del silenzio di Richard Thorpe (Black Hand, Metro-Goldwyn-Mayer, USA 1950) o in Pagare e morire (Pay or Die, di Richard Wilson, Allied Artists Pictures, USA 1960). Oppure sono contabili, esattori di crediti o picchiatori gregari che lavorano per grandi gang o per organizzazioni sindacali corrotte, come accade ai I fratelli Rico di Phil Karlson (The Brothers Rico, William Goetz Productions, USA 1957). In altri casi sono killer al soldo della mafia, sebbene non mafiosi, come nel film Dodici uomini da uccidere (Inside the Mafia, di Edward L. Cahn, Robert E. Kent Productions, USA 1959). Ancora una volta, lo stereotipo dell'italiano passionale e un po' cialtrone cede sotto i colpi di pistola e le sventagliate di mitra: questi sono uomini organizzati, professionali, freddi e assai poco superstiziosi. I luoghi comuni, spesso, sono contradditori perché pescano da tradizioni differenti. Per esempio, nelle mille varianti del crimine all'italiana, la tradizione nostrana del brigantaggio è una componente di cui i cineasti del resto del mondo hanno dovuto tenere conto. La figura del brigante otto-novecentesco, soprattutto, ha arricchito lo stereotipo del semplice malvivente di una dignità nuova, fatta di volontà politica, o almeno di sensibilità anarcoide e di insofferenza a tutte le norme e le restrizioni. Il personaggio filmico del bandito italiano si sposa così con il vecchio, secolare stereotipo internazionale per god, dio in inglese, o per gangster»), ma in realtà E. G. stava originariamente per Emmanuel Goldenberg. Le sue interpretazioni cinematografiche portarono un chiaro marchio teatrale in tutto il corso della sua lunga carriera: un centinaio di film, di cui i più famosi, come protagonista cattivo, mobster o gangster o criminale solitario, tra gli anni trenta e gli anni quaranta. Robinson rimpianse sempre di non aver interpretato più personaggi positivi, per i quali tuttavia non era spesso ingaggiato. 116 Dagos (da "diego", che in realtà è lo spagnolo per antonomasia), goombah, guido, guinea, wop; wog (Australia): sono solo alcuni dei nomignoli (spesso dispregiativi) con cui sono chiamati gli italiani nei paesi anglosassoni. 121 del ladro gentiluomo, per dare vita a una figura eroica, seducente e tutto sommato positiva, pur nelle sue contraddizioni. Al mito di un brigante siffatto ha voluto aderire il regista italoamericano Michael Cimino con Il Siciliano, proposto come una sorta di remake del famosissimo film italiano di Francesco Rosi, Salvatore Giuliano (Italia 1962)117. In realtà, la pellicola di Cimino ha ben poco a che fare con quella del suo predecessore, tant'è vero che non è un tentativo di docu-fiction – come l'opera di Rosi – ma la trasposizione filmica di un romanzo del celeberrimo scrittore di mafia Mario Puzo. È la storia del famoso bandito Giuliano, la cui vicenda è seguita dagli esordi della latitanza (1943), attraverso l'appoggio armato al Movimento Indipendentista Siciliano (1945) e le (presunte) imprese banditesche nello stile di Robin Hood (depredare ricchi e notabili per vendicare la povertà). Nel secondo tempo il Siciliano è protagonista del massacro di Portella delle Ginestre e, infine, vittima del tradimento del cognato Gaspare Pisciotta, che lo consegna ai suoi assassini. L'entusiasmo di Cimino per il bandito è evidente, tanto che non si capisce come mai abbia voluto affidarne il ruolo a un attore poco plastico come Christopher Lambert. La sua ignoranza della storia italiana - con buona pace di Mario Puzo – è altrettanto evidente. Per fortuna il film è brutto, quasi inguardabile: mal sceneggiato, peggio interpretato, sciatto nei dialoghi e zeppo di bloopers, di errori imbarazzanti. Se non lo fosse, ci sarebbe davvero di che preoccuparsi: sebbene manipolato da mafia, istituzioni e servizi segreti americani – e dunque parzialmente ignaro – Salvatore Giuliano non ha certo i numeri per rappresentare al cinema il brigante dal cuore d'oro, il simpatico mascalzone latino. C'è qualcuno, tuttavia, che questi numeri li ha guadagnati sul campo. 117 Il film di Francesco Rosi è costruito come un'inchiesta sui fatti che hanno condotto alla morte del bandito siciliano Salvatore Giuliano, il cui cadavere venne trovato a Castelvetrano la mattina del 5 luglio 1950. Il film parte dal ritrovamento, da cui si snoda un lungo flash-back che ripercorre i primi anni del dopoguerra in Sicilia, la nascita del movimento indipendentista in Sicilia e le prime avventure di Giuliano, del cugino Gaspare Pisciotta e della loro banda. Nel 1947 avviene la strage di Portella della Ginestra e poi il film ritorna al ritrovamento del corpo. Pisciotta viene arrestato, processato e condannato all'ergastolo. Durante l'udienza ammette di avere ucciso lui stesso il cugino. In seguito, però, viene avvelenato in carcere. Sono più o meno gli stessi avvenimenti raccontati da Cimino, che però dà a tutta la vicenda un tono eroico e irreale. 122 È Luciano Lutring, il ladro gentiluomo della mala milanese, detto il «solista del mitra» per la sua abitudine di nascondere il fucile mitragliatore nella custodia di un violino118. Negli anni sessanta, il baffuto lombardo portò a felice compimento centinaia di rapine fra Italia e Francia, per un bottino totale stimato attorno ai trenta miliardi di lire dell'epoca. Lutring divenne leggenda per i modi gentili, per le abitudini lussuose (donne, grandi alberghi, fuoriserie), per le frasi in dialetto milanese con cui commentava i suoi crimini, come un marchio di fabbrica. Quasi impossibile non trovarlo simpatico. Il suo personaggio, popolarissimo, sbarcò al cinema grazie a un film di Carlo Lizzani, Svegliati e uccidi (1966) e grazie a una pellicola straniera, Lo zingaro, (Le gitan, Adel Productions-Lira Films-Mondial Televisione, Film Francia-Italia 1975), diretto e sceneggiato dal francese Josè Giovanni119. Alain Delon, Paul Meurisse, Annie Girardot, Marcel Bozzuffi recitano magistralmente una trama che si ispira esplicitamente alla vicenda di Lutring. Qui, tuttavia, il protagonista Hugo Sennart (Delon) è un giovane zingaro che commette crimini per vendicare le angherie che il suo clan ha sempre dovuto subire. Il commissario Blot (Bozzuffi) è il suo grande antagonista. La caccia al ladro si dipana tra sequenze spettacolari (rapine, fughe, inseguimenti), concedendo un po' troppo spazio al divismo di Alain Delon, il quale, innamorato del personaggio, insistette per produrre il film e finì per condizionarne la regia. Un uomo da marciapiede (Midnight Cowboy, United Artists, USA 1969) parla invece di due piccoli, insignificanti criminali che stringono 118 Lutring, nato a Milano nel 1937, fu definito in Italia e in Francia, "nemico pubblico numero uno", riuscendo per lunghi anni a sfuggire alle polizie europee. Il 1 settembre 1965 venne infine ferito e arrestato a Parigi, dove scontò 12 anni di carcere durante i quali iniziò a scrivere e dipingere. Graziato dal presidente della repubblica Francese Georges Pompidou, tornò in patria, dove trascorse un periodo nel carcere di Brescia per poi venire nuovamente graziato nel 1977 dal presidente italiano Giovanni Leone. Negli anni successivi espose i suoi quadri in numerose mostre, collettive e personali, ricevendo molti premi e riconoscimenti. È morto il 13 maggio 2013 all'età di 75 anni. 119 Tra tutti i registi francesi del milieu José Giovanni, nato Joseph Damiani (Parigi, 1923 – Losanna, 2004) spicca per la sua biografia pittoresca. Scrittore, sceneggiatore e regista francese di origini corse, dopo la liberazione venne coinvolto dalla propria famiglia (zio e fratello) in una serie di crimini che avevano a che fare con il racket del milieu del quartiere Pigalle di Parigi. Gli fu data nel 1948 la pena di morte, poi commutata nei lavori forzati: uscì di prigione nel 1956 e si mise a scrivere e girare film sul proprio ambiente di provenienza. 123 una disperata amicizia. Il regista inglese John Schlesinger porta sul grande schermo la storia del giovane texano Joe Buck (Jon Voight), che vestito come un cowboy da rodeo si trasferisce nella Grande Mela sperando di sbarcare il lunario come gigolò, e del suo compagno, l'italiano nullatenente Rizzo (Dustin Hoffman). Enrico Salvatore Rizzo, detto "Sozzo" (soprannome a cui egli in verità preferisce "Rico") è gracile e zoppo: figlio disgraziato di un lustrascarpe, sopravvive grazie a piccole truffe e raggiri. Le disavventure dei due protagonisti gettano una luce cupa sulla New York degli anni Sessanta, fra case squallide e lusso esagerato, tra gente miserabile e signore viziose, predicatori e pseudo artisti pop. Rico tesse le sue piccole truffe per sopravvivere tra gli stenti: non ha stile, non ha classe, almeno apparentemente non ha molti scrupoli con le sue vittime. È l’esatto contrario del ladro gentiluomo, l’opposto del criminale italiano brillante e disinvolto: a ben vedere, il suo personaggio è ben lontano da qualsiasi stereotipo filmico. Rico fa parte di una risma sgangherata di perdenti divorati dalla propria solitudine, che non tenta di riscattarsi dalla marginalità ma di tirare a fondo chi gli è vicino. Il suo lieto fine sta nel sentimento tenero per l’amico texano, il midnight cowboy che, unica ambizione, vuole guadagnarsi da vivere prostituendosi con donne danarose. Non c’è nulla di elegante, davvero, negli outsider grotteschi di Shlesinger. In realtà, fu questo rovesciamento dei luoghi comuni – compresi quelli sull’italiano hollywoodiano – ciò che determinò in buona parte lo straordinario successo del film120. Criminali sgangherati e poveri diavoli sono anche i protagonisti di Bufera in paradiso (Trapped in paradise, 1994) di George Gallo: una commedia natalizia in stile Frank Capra che impegna Nicholas Cage in un ruolo comico, senza grandi risultati. I Firpo 121 sono la tipica 120 Il film è vincitore di tre premi Oscar: miglior film, miglior regia e migliore sceneggiatura non originale – caso unico nella storia del cinema, per un un’opera vietata ai minori di 18 anni 121 Esistono alcune ricorrenze di Firpo nella storia delle immagini in movimento. La prima è probabilmente costituita dai due cortometraggi di animazione dell'argentino Quirino Cristiani intitolati Fir-pobre-nan e Firpo-Dempsey (1923), che narrano di due famosi incontri di pugilato dell'argentino Angel Luis Firpo (peso massimo), il primo combattuto contro Bill Brennan, il secondo contro il campione Jack Dempsey per il titolo mondiale il 14 settembre 1923 al Polo Ground di New York. Pari e dispari è un film prodotto nel 1978 e diretto da Sergio Corbucci. È italiano, ma i Firpo compaiono come italoamericani: Johnny Firpo (Terence Hill); Charlie Firpo (Bud Spencer) e il 124 famiglia di italoamericani: Bill Firpo è un ladro pentito, Alvin è un cleptomane e Dave un bugiardo patologico. Lo stereotipo, se non altro, è al sicuro. I tre italiani medi partono per la Pennsylvania fino a un paesino sperduto di nome Paradise, dove trovano una banca senza protezione e zeppa di denaro. Bill, sebbene redento, si fa convincere dai fratelli a svaligiarla, ma durante la fuga una serie di assurde disavventure convince i tre malviventi sfortunati a lasciare la refurtiva alla chiesa locale e ad andare a festeggiare il Natale con il direttore della banca. Dopo averli sospettati, la polizia li rilascia, mentre la cittadinanza fa a gara per permettere loro di farla franca. Bill trova l'amore a Paradise, mentre gli altri due fratelli ritornano a casa dalla mamma. La quale, con Sing-Sing o Alcatraz, è l'habitat naturale di ogni italiano che si rispetti. Il Milieu marsigliese. Pare ci sia una differenza abissale tra the Mob, la mafia italoamericana, e il milieu francese, specialmente quello marsigliese. Forse l'Interpol non sarebbe così d'accordo: certamente lo sono quei cineasti che hanno rappresentato l'una o l'altro. I film noir italofrancesi degli anni sessanta e settanta che hanno parlato del milieu lo hanno fatto con un linguaggio cinematografico del tutto diverso da quello dei loro colleghi d'oltreoceano. Non sembrano mafia movies, ma film di genere, percorsi da una tensione esistenziale che rende l'azione – i colpi, gli spari, gli inseguimenti – una sola delle componenti in gioco. I protagonisti, poi, non paiono mobsters ma gangster: pur nel rispetto dei codici che sono quelli della delinquenza, seguono soprattutto la propria legge morale che, per quanto distorta, raramente si conforma al volere di qualche superiore. Sono in tutto e per tutto liberi professionisti del crimine: non tanto mafiosi, dunque, quanto delinquenti comuni. Sebbene, a dire il vero, di comune abbiano ben poco. Frank Costello faccia d'angelo (Le Samouraï, Filmel-Cicc-Fida, Francia-Italia 1967) è il classico esempio di questo filone. È il primo film di Melville su un criminale italiano connesso con la mafia. La pellicola è il classico «polar», un genere che in Francia pratica la padre dei due fratelli, Mike Firpo (Jerry Lester). Recentemente, il cineasta indipendente Fabio Firpo ha dato vita in Italia alla Firpo Productions, una piccola casa di produzione di commedie, horror e polizieschi. 125 sintesi tra il giallo poliziesco e del noir 122. Frank Costello (Jef nella versione originale), un killer solitario e metodico come un guerriero samurai, uccide il padrone di un night su commissione e si trova a essere inseguito sia dai mandanti, sia dalla polizia. È interpretato da un gelido, elegantissimo e triste Alain Delon. Sulle sue tracce c’è un ispettore (interpretato da François Périer), che non crede al suo alibi e cerca di coglierlo in fallo. I suoi committenti, d’altro canto, non si fidano a lasciarlo in vita. La ferrea disciplina e la coscienza della sua solitaria missione esistenziale diventano essenziali perché il killer dai guanti bianchi riesca a scampare al destino che sembra inevitabile. Costello ispirerà i personaggi di un'altro capolavoro: I senza nome, di Jean Pierre Melville (Le cercle rouge, Euro International Film (EIA)Les Films Corona-Selenia Cinematografica, Francia-Italia 1970). La professionalità e i codici seguiti, come nel caso del killer interpretato da Alain Delon, li rendono dei puri a dispetto della loro condotta di criminali. Ciò fa sì che le loro personalità si sottraggano a una psicologia convenzionale: sono spietati e umani al tempo stesso, suscitano sentimenti di tolleranza e empatia. Una cosa è certa: da Parigi a Hollywood si sono visti pochi italiani come Frank Costello, capaci di trascendere ogni tipo di stereotipo. Il clan dei siciliani (Le Clan des Siciliens) è un film del 1969, diretto da Henri Verneuil123, tratto dall'omonimo romanzo di Auguste Le Breton. Una banda il cui capo è il gangster francese Roger Sartet, in combutta con i mafiosissimi italiani Manalese, commette una rapina a una mostra itinerante di gioielli. La relazione tra Roger e la moglie di un membro rompe l’armonia interna al gruppo e permette alla polizia di catturarli124. Nel cast, ovviamente, gli italiani (da Lino Ventura a Amedeo Nazzari) interpretano i familiari e i gregari dei Manalese, 122 Henri Decaë, direttore della fotografia ed esponente di spicco della Nouvelle vague, dà un essenziale contributo alle luci in questo film che è costruito su pedinamenti e fughe notturne e pochissime sequenze diurne. 123 Henri Verneuil, pseudonimo di Achod Malakian (Tekirdağ, 1920-Parigi, 2002), è stato un regista, sceneggiatore e produttore cinematografico francese. Verneuil è noto per aver affrontato con grande abilità quasi tutti i generi cinematografici, dal western al romantico. 124 Con gli occhi dello spettatore di oggi, si nota che una scena del film assomiglia a una situazione realmente vissuta durante gli attentati di New York dell'11 settembre 2001. I criminali per derubare la collezione di gioielli si sostituiscono all'equipaggio di un aereo, dirottandolo. Sorvolano a bassa quota la città di New York e atterrano su una autostrada in costruzione, portando così a termine con successo il proprio colpo. 126 mentre il boss Vittorio è impersonato da un magistrale, sicilianissimo Jean Gabin. Borsalino (Adel Productions-Marianne Productions-Mars Film, FranciaItalia 1970), per la regia di Jacques Deray, è un noir tratto dal romanzo Bandits à Marseille di Eugène Saccomano e ispirato alle figure di Paul Carbone e François Spirito, due degli italofrancesi che fondarono il milieu marsigliese. Nella Marsiglia degli anni '30 il bandito Roch Siffredi (Alain Delon)125, scarcerato per buona condotta, si mette in società con François Capella (Jean-Paul Belmondo), suo antico concorrente, per dare la scalata alla malavita locale. Pian piano arrivano a gestire un ampio ventaglio di traffici illeciti: corse di cavalli e incontri di boxe truccati, truffe al mercato del pesce, prostituzione, gioco d'azzardo e altre attività redditizie. La loro ascesa preoccupa gli altri clan, soprattutto quelli di Poli e Marello, che tentano di ridimensionarli con una serie di azioni violente. François, dilaniato tra la sete di potere e l’amicizia per Roch, decide di andarsene da Marsiglia e lasciargli tutti i traffici, ma viene ferito a morte e muore tra le braccia dell’amico. Il seguito, Borsalino and Co. (Adel Productions-Cinema International Corporation (CIC)-Comacico, Germania Ovest-Francia-Italia 1974), è ancora diretto da Jacques Deray, e segue le peripezie di Siffredi per vendicare la morte dell’amico, vittima del grande trafficante Volpone e del suo clan. Costoro sono pericolosi, oltre che collusi con la polizia marsigliese, ma i loro incredibili sforzi per uccidere Roch e i suoi falliscono miseramente per quasi un’ora e mezza di film, rendendolo se non farsesco, certo meno realistico e palpitante del precedente. Il clan dei marsigliesi (La Scoumoune, Fox-Lira Praesidens, FranciaItalia 1972) è un film di José Giovanni, che è anche l'autore del romanzo da cui è tratto e della sceneggiatura. Il suo testo, L'excommunié, era già stato adattato per il cinema da Jean Becker nel 1961 con il titolo Un nommé La Rocca (già con Jean-Paul Belmondo nel ruolo di Roberto) e con Michel Constantin, nel ruolo di uno dei sicari americani126. Belmondo, Constantin e Claudia Cardinale 125 Da questo personaggio ha tratto il suo nome il celebre porno-attore italiano Rocco Siffredi, evidentemente più intellettuale di quanto non si possa sospettare 126 In entrambi i film compare Dominique Zardi, la comparsa-culto, che da solo o in coppia con il collega Henri Attal fu l'attore feticcio di Claude Chabrol, di Jean-Pierre Mocky e di Pierre Granier-Deferre. In circa 500 film ha ricoperto pressoché lo stesso ruolo, quello di un personaggio minore che si fa uccidere (qui sulla spiaggia). 127 recitano una storia non originalissima di amicizia e vendette a Marsiglia, dentro e fuori il milieu, dentro e fuori del carcere. Roberto Borgo è "lo scomunicato", perché si dice che porti sfortuna ai nemici, a cui spara con impressionante rapidità: Xavier Saratov è il suo sodale e complice, incastrato dal boss della mafia marsigliese Jeannot Villanova. Ancora una volta i codici non scritti dei malavitosi innescano una catena inarrestabile di eventi su cui è costruita la trama e la filosofia del film. Vendette e ancora vendette si consumano all'ombra di questo implacabile milieu, a cui nessuno riesce a sfuggire senza profonde cicatrici. Una pellicola più recente ricalca con poco successo quelle del passato: è L'immortale (L'immortel, EuropaCorp, Francia 2010), ultimo testimone del noir di ambientazione marsigliese. L'attore e sceneggiatore Richard Berry dirige qui con grande perizia un cast di attori bravissimi – Jean Reno, Kad Merad, Jean-Pierre Darroussin e Marina Foïs – alle prese con un film d'azione, che si fa guardare senza pretese. Charles "Charly" Matteï (Jean Reno) è un ex mafioso marsigliese, che esce di prigione pronto a voltare pagina, ma che viene crivellato da ventidue colpi di arma da fuoco in un parcheggio. Sopravvive alle ferite, ma non alla tentazione di stanare i suoi nemici. Il mandante è Tony Zacchia (Kad Merad), che inizia a uccidere i suoi ex collaboratori per costringerlo a lasciare Marsiglia. Matteï inizia così una caccia all'ultimo respiro ai suoi sicari: sono sequenze troppo convulse, anche se ben girate, che non lasciano molto spazio a riflessioni. Peccato, perché la storia è vera e lo sono anche i due protagonisti, al secolo i caïd Jacques Imbert e Tany (Gaetano) Zampa, che negli anni settanta si disputarono accanitamente il controllo della città francese. Intrigo in Italia. I film che eleggono l'Italia come scena di un crimine – di solito un furto o una truffa di proporzioni notevoli – sono un'invenzione relativamente precoce rispetto al cinema sonoro. Esiste, per esempio, una deliziosa pellicola del 1932 del grande Ernst Lubitsch, Mancia competente (Trouble in Paradise, Paramount Picture, USA)127, in cui 127 Il fim è tratto dalla commedia di Aladar Laszlo The Honest Finder, è considerato uno dei massimi esempi di commedia sofisticata (per ambientazioni e argutezza dei 128 due ladri, il famigerato scassinatore Gaston Monescu (Herbert Marshall) e la borseggiatrice Lily (Miriam Hopkins), si innamorano nella Venezia del bel mondo per formare un sodalizio criminale. L'Italia è il ricettacolo dei vips, che i due intendono spogliare di gioielli e denaro, e i pochi italiani compaiono come buffe macchiette. Eppure, in un contesto in cui nessuno si salva dal sorriso canzonatorio del regista, questa presa in giro non è davvero un grande affronto. Molto spesso, tuttavia, in questo tipo di film gli autoctoni compaiono solo sullo sfondo, come comparse o come elementi di secondo piano. È il caso dei film dedicati a un criminale anglosassone, reso famoso dalla metà degli anni cinquanta dai libri della già menzionata giallista americana Patricia Highsmith. Si tratta dell'amorale Tom Ripley, truffatore, omicida, amante dell'Italia. Ripley è il protagonista di ben cinque romanzi dell'autrice, portati più volte sul grande schermo da grandi registi italiani e stranieri: da René Clément di Delitto in pieno sole (Plein Soleil, Robert et Raymond Hakim-Paris Film-Paritalia, Francia-Italia 1960)128, ad Anthony Minghella de Il talento di Mr. Ripley (The Talented Mr. Ripley, Miramax International-Paramount Pictures-Mirage Enterprises, USA 1999), passando per Wim Wenders di L'amico americano (Der amerikanische Freund, Bavaria FilmFilmverlag der Autoren-Les Films du Losange, Germania OvestFrancia 1979) e Liliana Cavani de Il gioco di Ripley (Ripley's Game, Baby Films, Cattleya, Mr. Mudd, Italia-Gran Bretagna-USA 2002). Sono film ambientati in Italia, salvo quello di Wim Wenders129, che è forse il più bello e che risente dei benefici di un'ambientazione cupa e fumosa come quella amburghese. Ripley, che è un americano di umili origini, ha un talento tutto italiano. Come il principe di Machiavelli è un trasformista, mente, si adatta all'occasione, non ha scrupoli nel dialoghi) e nel 1932 è stato indicato dal National Board of Review of Motion Pictures tra i migliori dieci film dell'anno. 128 Il film, che vede Alain Delon nel suo primo ruolo da protagonista, è basato sul libro Il talento di Mister Ripley (The Talented Mr. Ripley, USA 1955). 129 C'è, per la verità, un altro film sulla saga highsmithiana, che i più classificano come un B-movie, nonostante la presenza di Wlliam Dafoe fra gli attori principali: è Il ritorno di Mr. Ripley (Ripley Under Ground, Cinerenta Medienbeteiligungs KG-Isle of Man Film-MACT Productions, Germania-Francia-Gran Bretagna 2005) di Roger Spottiswoode. La pellicola è ambientata a Londra e vede Ripley impegnato in una truffa che coinvolge artisti deceduti e falsari. 129 conseguire i suoi fini. Assume identità fittizie, possibilmente tra Taormina e il Veneto. Tradisce e uccide, di regola senza provare emozioni, chi si mette fra lui e il benessere, ma può anche prenderci gusto. Il suo «gioco» è normalmente un gioco a somma zero: dove lui vince, le sue vittime devono perdere e scomparire. Queste, fondamentalmente, le caratteristiche del personaggio, che nel film di Clément è il freddo Alain Delon; per Minghella è l'omosessuale frustrato interpretato da Matt Demon; per Wenders un Dennis Hopper che non sembra amichevole, ma nemmeno americano; per Cavani – che qui si impegna in una produzione internazionale – è un pessimo, legnoso John Malcovich, che per una volta non rende onore al personaggio. Amorale, ma con molto garbo, è invece sir Charles Lytton, il ladro gentiluomo interpretato dall'elegantissimo David Niven. È il protagonista di un delizioso film girato quasi interamente in Italia: La pantera rosa di Blake Edwards (The Pink Panther, Mirisch G-E Productions, Gran Bretagna-USA 1963) È in realtà il primo atto di un'altra serie fortunata, quella girata dal regista Blake Edwards e dedicata al diamante detto «la Pantera Rosa». Sono in tutto otto film interpretati da Peter Sellers nei panni dell'imbranatissimo ispettore francese di polizia Jacques Clouseau, dagli anni sessanta fino agli anni ottanta, a cui seguirono altri sequel e reboot di non grandissimo successo. Nel primo, la principessina Dala (Claudia Cardinale) riceve dal padre scià un diamante bellissimo, la Pantera Rosa, al cui interno sembra riflettersi l'immagine di una pantera che danza130. Anni dopo, ormai adulta e bellissima, a Cortina d'Ampezzo Dala incontra sir Charles Lytton (David Niven), ladro gentiluomo soprannominato "il Fantasma", che la corteggia mirando a rubarle la Pantera. LyttonNiven è seguito da una strana compagnia di persone: il nipote americano George (Robert Wagner), che vuole rubare come lo zio alla preziosa gemma, dall'ispettore Clouseau (Peter Sellers), poliziotto francese famigerato per la sua imbarazzante inettitudine, e sua moglie Simone (la modella Capucine), che è in realtà l'amante e la 130 Il primo film della serie ha come sigla iniziale una sequenza animata (creata da DePatie-Freleng) accompagnata dal celeberrimo brano jazz Pink Panther Theme composto da Henry Mancini. La pantera animata della sigla ispirò una serie fortunata di cartoni animati. 130 complice di Lytton. Tra feste in costume all'italiana e frenetiche corse in auto, ispirate per ammissione del regista a quelle dei film di Hitchcock, lo spirito della commedia trionfa e tutti ottengono più di quanto avessero sperato. Un film costruito su ancor più spettacolari inseguimenti in auto è Un colpo all'italiana (The Italian Job, Oakhurst Productions, Paramount Pictures Corporation, Gran Bretagna): un film del 1969 diretto da Peter Collinson e interpretato dall'impassibile, inglesissimo Michael Caine. Una banda di ladri inglesi capeggiata da Charlie Crocker (Caine) e John Bridger (Noel Coward), giunge a Torino per rapinare un convoglio che trasporta il ricavo della FIAT dall'Aeroporto di Torino-Caselle fino alla città. Si tratta di sabotare il sistema computerizzato di controllo dei semafori cittadini, paralizzare il traffico131, rubare il denaro, seminare la polizia a bordo di tre Mini Cooper132. Un'impresa che sembra non preoccupare i protagonisti e che fila via liscia come l'intero film, godibile e spassoso. Il remake, The Italian Job (Paramount Pictures-De Line Pictures, USA-FranciaGran Bretagna) è un film del 2003 diretto da Felix Gary Gray, non ignobile ma non altrettanto riuscito, anche se lo sceneggiatore Kennedy-Martin è lo stesso del precedente. Qui un gruppo di rapinatori d’oltreoceano, tra cui un Crocker (Mark Wahlberg) e un Bridger (Donald Sutherland), devono rubare lingotti d'oro da un palazzo di Venezia con una tecnica geniale, ma a dir poco complicata: sottraendo la cassaforte per svuotarla sott'acqua, per sfuggire alla 131 Nel 1999 il British Film Institute l'ha inserito al 36º posto della lista dei migliori cento film britannici del XX secolo. Lo sceneggiatore Troy Kennedy-Martin, la cui sorella viveva a Milano da molti anni, voleva che fosse ambientato in Italia. Ma il capoluogo lombardo non si rivelò adatto, per la difficoltà di ottenere i permessi per creare l'enorme ingorgo automobilistico nel centro della città. Così, venuti a conoscenza del sistema di controllo del traffico di cui era già dotata Torino, gli sceneggiatori decisero di spostare l'ambientazione in Piemonte. 132 A un occhio torinese, risulta chiaro che il montaggio delle scene propone un itinerario impossibile per la fuga dei rapinatori: il percorso salta avanti e indietro da un punto all'altro della città, incurante di fornire una rappresentazione minimamente realistica del luogo. Qualche esempio: le Mini Cooper passano dal retro della chiesa della Gran Madre di Dio, dove non si può transitare: la scalinata termina infatti sul sagrato, chiuso ai margini da due balconate, che nel film sono nascoste da tendaggi. O ancora: le macchine corrono davanti ai Murazzi, sulla sponda occidentale del fiume Po, poi attraversano la diga Michelotti nel verso sbagliato, cioè dalla sponda orientale a quella occidentale, tornando verso i Murazzi. 131 polizia più agevolmente. Ocean's Twelve (Warner Bros-Village Roadshow Pictures-Jerry Weintraub Productions, USA 2004) è invece il sequel "all'italiana" del più bello e più famoso Ocean's Eleven, del medesimo regista, Steven Soderbergh, remake del film omonimo del 1960 con Frank Sinatra e Dean Martin133. I protagonisti sono ancora i ladri internazionali Danny Ocean (George Clooney), Rusty Ryan (Brad Pitt) and Linus Caldwell (Matt Damon); ma il cast di stelle si amplia ancora per includere tante, forse troppe, celebrità. La storia è la stessa: un furto colossale, pirotecnico. Questa volta l'obiettivo dei dotatissimi malviventi è quello di rubare un uovo Fabergé, appena arrivato a Roma: a questo scopo Daniel Ocean recluta un altro membro per la sua famosa banda. Il vero obiettivo è quello di ripagare la vittima del furto precedente – che li sta ricattando – della perdita subita: un'enorme somma di denaro che i nostri undici ladroni hanno già speso in buona parte. L'Italia è un'ottima location di delitti e intrighi per i film d'azione, ma non tutti i soggetti coinvolti nei torbidi maneggi criminali sono negativi. Casino Royale è uno di questi casi: ne è protagonista la spia più famosa del mondo, James Bond, agente segreto dell' Intelligence britannica. Il Bond in questione è giovane e all'inizio della carriera di agente doppio 0, fresco della sua licenza di uccidere: non così elegante ed esperto, dunque, come siamo abituati a vederlo. E nemmeno così bello, dato che il nuovo interprete, l'inglese Daniel Craig, è sì un eccezionale attore di teatro, ma più adatto a impersonare un troll che una spia. Il film è di Martin Campbell (che aveva già diretto Agente 007 - GoldenEye nel 1995), ed è tratto dal primo, omonimo romanzo dello scrittore inglese Ian Fleming, adattato dagli sceneggiatori Neal Purvis, Robert Wade e dal premio Oscar Paul Haggis134. Gli omaggi all'Italia sono più che tangibili. Intanto, tre sono 133 Ocean's eleven (USA 2001) è prodotto dalla Warner Bros, da Village Roadshow Pictures, e da NPV Entertainment. In effetti, uno dei casinò sotto tiro dai ladri è il Grand di proprietà della Metro Goldwin Mayer. Il film precedente di cui è il remake – in italiano Colpo grosso – è stato girato da Lewis Milestone e prodotto da Dorchester e Warner Bros. Qui i celebri ladri sono undici ex commilitoni della Seconda Guerra Mondiale che vogliono fare il colpo della vita ai danni delle sale da gioco di Las Vegas. 134 Casino Royale è il terzo adattamento del celebre romanzo di Ian Fleming sugli esordi di Bond: nel 1954 negli Stati Uniti era stato tratto dal romanzo l'episodio Casino Royale della serie antologica Climax!, mentre nel 1967 fu realizzato un film 132 le presenze di attori italiani, comparse a parte: Giancarlo Giannini è l'ambiguo agente locale René Mathis; Caterina Murino è Solange, la bellissima moglie del criminale Dimitrios; Claudio Santamaria è Carlos, il terrorista dell'aeroporto di Miami. Inoltre, il film è ambientato e girato in parte in Italia, tra Venezia e il lago di Como: James Bond si trova in convalescenza nella villa del Balbianello a Lenno, mentre la magione di mr. White è villa La Gaeta, nel comune di San Siro. Su questo 007 giovane e innocente la domanda nasce spontanea: come si passa dai bianchi del Nord-Est al vermut bondiano, al Martini agitato-non shakerato? Obsession - Complesso di colpa (Obsession, Columbia Pictures Corporation-Yellowbird Productions, USA 1976) è un film diretto da Brian De Palma, girato quasi interamente a Firenze ma ispirato esplicitamente a La donna che visse due volte (Vertigo, USA 1958) di Alfred Hitchcock135. Michael Courtland e sua moglie Elizabeth hanno appena finito di celebrare nella loro casa di New Orleans il decimo anniversario di matrimonio, quando la donna e la figlioletta Amy vengono rapite e muoiono in un fallito tentativo da parte della polizia di liberarle. Molti anni dopo, Michael incontra una giovane restauratrice a Firenze in San Miniato, dove aveva conosciuto Elizabeth. La somiglianza della ragazza con la moglie defunta è sorprendente. Iniziano guai all'italiana: truffe, scambi di persona, altri rapimenti e ancora omicidi, in un turbinio di azioni che si svolgono tra Firenze e la Louisiana. Una storia già vista, ma cui la varietà di inquadrature e di movimenti di macchina garantiscono un ritmo godibile. Un altro protagonista coinvolto, suo malgrado, in sordidi intrighi, è Mike Kells de Il corriere diplomatico (Diplomatic Courier, Twentieth Century Fox Film Corporation, USA 1952). Il film è un thriller spionistico diretto da Henry Hathaway, con protagonisti Tyrone Power (Mike), Patricia Neal e Stephen McNally 136. Tyrone Power interpreta il ruolo di un corriere del Dipartimento di Stato americano, parodia dei primi capitoli di 007 dal titolo James Bond 007 - Casino Royale, con Peter Sellers e Woody Allen. 135 La colonna sonora composta per il film da Bernard Herrmann, che fu appunto il compositore prediletto da Hitchcock, ricevette una nomination al Premio Oscar. 136 La pellicola è basata su un romanzo di Peter Cheyney, sulla sceneggiatura di Casey Robinson e Liam O'Brien. Appare come personaggio secondario il duro Charles Bronson (con il suo vero nome Charles Buchinski) nel ruolo di un agente russo. 133 che è poco più addestrato di un qualsiasi passacarte, ma è costretto dalle circostanze ad adattarsi ai panni della spia professionista. La vicenda è ambientata poco dopo la fine della seconda guerra mondiale su un treno che va da Salisburgo a Trieste, dove le scene furono effettivamente girate. Su questo convoglio in corsa l'agente statunitense Mike si contende un importante documento con un agente nemico, ovviamente sovietico, di cui ignora le fattezze. Meglio per lui. Retto e impavido è anche l'eroe di Angeli e demoni (Angels & Demons, Columbia Pictures-Imagine Entertainment-Sony Pictures Entertainment-Skylark Productions, USA-Italia 2009), una pellicola di Ron Howard tratta dal secondo best-seller di Dan Brown137 che ha come protagonista Robert Langdon, docente di simbologia religiosa a Harvard. La Chiesa non gli perdona la negazione dell'incarnazione del Verbo, ma ne riconosce le eccezionali capacità intellettuali e il coraggio. Dopo averci litigato ne Il codice Da Vinci, ora camerlengo e cardinali lo assoldano per avere ragione di una sedicente antica confraternita che pone sotto terribili minacce l'elezione del nuovo pontefice. Il film è un polpettone esoterico, che mescola arte, fisica rudimentale, metafisica, congetture da rotocalco sull'anti-materia e qualche provocazione diretta alla Chiesa di Roma, che è sembrata ansiosa di accoglierle stigmatizzando un film non molto più blasfemo di Cenerentola. The Tourist, (GK Films-Spyglass Entertainment-Birnbaum/Barber, USA-Italia-Francia 2010) è un film del 2010 diretto da Florian Henckel von Donnersmarck, interpretato da Angelina Jolie e Johnny Depp, che intende essere un remake del francese Anthony Zimmer, scritto e diretto da Jérôme Salle. Frank Tupelo (Depp) è un professore di matematica del Wisconsin, viaggiatore in Italia per dimenticare una delusione d'amore; Elise (Jolie) è una donna bellissima e pericolosa, seguita da vicino dalla polizia internazionale, che si serve del goffo 137 Il film, girato soprattutto in Italia tra Roma, la Reggia di Caserta e Polignano a Mare, ha richiesto la ricostruzione, in parte, di Piazza San Pietro: una delle più grandi in scala reale mai realizzate. L'obelisco Vaticano, è stato anch'esso ricostruito in scala reale e così le colonne dell'esedra. Anche la Cappella Sistina è stata riprodotta con buoni risultati. Il film è riuscito a incassare in Italia, nella prima settimana di programmazione, ben 7,4 milioni di euro, per un totale di 18 milioni di euro. Al botteghino italiano si è classificato come il terzo film più visto nel 2009, dietro Madagascar 2 e Natale a Rio. 134 Frank come controfigura del suo vero amante, lestofante superricercato: il tutto girato in un'ambientazione veneziana artificiale e calligrafica dove, ovviamente, quasi nulla è come sembra. È stato definito un cinepanettone, probabilmente per la presenza di Christian de Sica, insieme con molti altri autori italiani (Alessio Boni, Raoul Bova, Nino Frassica), che in verità fanno interamente il loro dovere. In realtà la colpa del flop è del regista, premiato autore de Le vite degli altri, che qui dimostra di non sapersi ben convertire al genere dell'intrattenimento. La sua spy story giallorosa rivela una fattura non proprio squisita e un gusto stucchevole per le cartoline italiane, quelle che non invogliano certo un tourist qualsiasi a farci visita. Ma non si può negare che, considerata la nostra fama cinematografica di criminali incalliti, ci voglia davvero un gran fegato per fare i turisti in Italia. 135 136 Gino Colombini per KARTELL (secchio da cucina, 1957) 137 138 Italiani, brava gente? «Gli Italiani perdono le guerre come fossero partite di calcio e le partite di calcio come fossero guerre ». (Winston Churchill) Il fronte e le frontiere. A cuor leggero, o quasi, il cinema straniero ci ha cucito addosso un'impressionante quantità di caratteri nazionali, veri o presunti. C'è l'italiano scanzonato e dell'irriverente; il truffaldino spudorato, il piccolo mariuolo o l'efficiente criminale; il paisà dal grande cuore e dalla prorompente generosità. Abbiamo visto sul grande schermo italiani gelosi; italiani umili e tipi arroganti; pigri lazzaroni e grandi lavoratori; scellerati uxoricidi e familisti encomiabili; canterini; dissoluti; machiavellici; ingenui; e così via. Nessun altro popolo è forse mai stato riconosciuto in questa sorprendente varietà di personaggi e maschere. A questi, tuttavia, si sono affiancati ancora altri cliché, quelli che non sono legati al singolo individuo ma a una collettività: gli idealtipi dell'italiano-popolo, della nazione italiana nel suo complesso. Il tipo-nazione non è così frequente nei soggetti cinematografici, perché non è funzionale a tutti i tipi di film ma, ovviamente, solo a quelli che prevedono un'azione di massa, legata a eventi storici o a fatti di cronaca. Popoli che si incontrano, che si scontrano o che sono messi a confronto. Raramente, nella cinematografia straniera, questo confronto si è risolto a favore degli italiani. Se il tribunale della Storia non ci ha sempre assolto, Hollywood e la film industry internazionale hanno mostrato ancor meno clemenza. Agli occhi di autori e produttori esteri, la parabola del nostro orgoglio nazionale si è consumata in maniera inequivocabile da Benito Mussolini a Silvio Berlusconi, con ben poco altro nel mezzo. Non sembra che abbia avuto molto peso la partecipazione italiana alla Grande Guerra; né la Resistenza o le vicende dell'Italia del dopoguerra. Ma perfino sulle vicende più note – sul fascismo, sulla Seconda Guerra Mondiale, sul "ventennio berlusconiano" – non esiste molto, su pellicola, di che essere fieri o, al contrario, di che vergognarsi. 139 Gli stereotipi individuali, perlopiù, hanno risucchiato la rappresentazione dell'idealtipo nazionale. Sul grande schermo, volgari e opportunisti sono i nostri governanti; cialtroni e pressapochisti, ma anche allegri e di buon cuore, i nostri soldati. Le masse, i civili, i semplici cittadini, scompaiono dietro allo scenario sempre attraente di una bellissima Italia, struggente anche sotto le bombe o il fuoco nemico. Per loro, la gente comune che vive e resiste alle guerre, non c'è nemmeno un cliché cinematografico che possa calzare a pennello. Forse l'importanza mondiale del grande cinema nostrano – il neorealismo per primo – ha scoraggiato qualsiasi altro tentativo di rappresentare il popolo italiano nell'atto di partecipare alla politica, all'economia, alla storia del mondo contemporaneo. Se sia un bene o no, è difficile giudicare. Quel che è certo è che gli stereotipi rendono semplice il mestiere del cineasta e, ogni tanto, regalano trame gustose. Ma quando si parla di profondità di analisi, di realismo, di onestà intellettuale e di attinenza ai fatti, ecco che la vicenda si complica. A voler essere onesti, Hollywood non sembra capace di fare un buon film sul popolo italiano. E, quando si guarda al resto del mondo, bisogna ammettere che esistono ben pochi lavori di buona fattura cinematografica che riguardino la nostra storia. Gli encomi non riescono, le denunce risultano disastrose, le ricostruzioni faticose e inesatte: con qualche piccola eccezione che brilla come una stella solitaria, come il film The Fallen di Ari Taub, che racconta l'avanzata degli alleati nel nord-est della penisola durante la Seconda Guerra Mondiale. Non si tratta solo di pregiudizi o sciovinismo. Perfino chi, tra gli stranieri, ha guardato all'Italia con simpatia – forse persino empatia – non ha reso un ottimo servizio alla comprensione dei fenomeni storici. Un chiaro esempio è costituito dai film documentari che, come è accaduto oltreoceano nell'ultimo decennio, sono fioriti anche in Europa. Alcuni sono stati dedicati a quello che è definito «il caso italiano»: la storia degli ultimi vent'anni della repubblica. Il più famoso è Videocracy. Basta apparire del regista italo-svedese Erik Gandini (Atmo Media Network-Zentropa Entertainments-Sveriges Television, Svezia-Danimarca-Gran Bretagna-Finlandia 2009) che offre agli spettatori europei un'analisi di come in Italia il potere della televisione influenzi i comportamenti e le scelte della quasi totalità delle persone. Gandini si concentra sull'impero mediatico (e quindi politico) di Silvio Berlusconi, ma la penetrazione sociale dei valori 140 promossi dalla televisione commerciale è raccontata (o altre volte suggerita) attraverso episodi e interviste che evocano un cambiamento culturale. Nel documentario, la videocrazia e l'impoverimento sociale e culturale sono rappresentati dal faccendiere Lele Mora (che a fine film pronuncerà l'espressione «basta apparire» che compare come titolo) e Fabrizio Corona. A esiti simili è giunto il successivo Girlfriend in a Coma138 la cui prima proiezione sul suolo italiano ha suscitato un mare di polemiche 139. La fidanzata in coma – come recita una canzone degli inglesi Smith del 1987 – è proprio l'Italia, che l'autore Bill Emmott (ex direttore di «The Economist») dichiara di amare teneramente e dolorosamente. Il film, girato dall'italiana Annalisa Piras, vorrebbe interrogarsi sul declino economico e sociale del nostro paese nell’ultimo ventennio, definito un disastro politico e morale senza precedenti nel mondo occidentale. Aldilà del valore della tesi sostenuta, una cosa è certa: nemmeno un documentario è riuscito a restituire la realtà sociale, culturale e politica dell'Italia contemporanea. Sarà l'affetto struggente che Emmott dimostra per la sua girlfriend in stato comatoso ad avergli fatto perdere ogni lucidità: qualunque sia la causa, però, anche la sua analisi sembra affogare negli stessi stereotipi che hanno guidato il cinema straniero alla scoperta dei nostri caratteri nazionali. La grande guerra. La Prima Guerra Mondiale è stata la “Grande Guerra”. Grande per noi, ma anche per il resto del mondo, che ci vide, bene o male, debuttare sullo scenario della storia internazionale. Un breve debutto, perché irredentismo e nazionalismo ci allontanarono ben presto dall’Europa del liberalismo e della democrazia, che da quello stesso 138 Annalisa Piras, Girlfriend in a Coma, Springshot, Gran Bretagna 2012. Proiettato per la prima volta a Londra, il 26 novembre 2012 presso l'Institute of Contemporary Arts, doveva essere proiettato al MAXXI di Roma il 13 febbraio 2013. Per decisione di Giovanna Melandri, presidente della Fondazione Maxxi, la presentazione è stata rinviata a data da definirsi, successiva, comunque, a quella delle elezioni politiche. Il provvedimento ha suscitato le critiche dell'autore che ha parlato di censura, e poi di diversi esponenti di organizzazioni italiane per i diritti civili. In seguito al lancio di una petizione che in breve tempo ha raccolto più di 30.000 firme il film è stato proiettato al Teatro Eliseo di Roma nella data inizialmente prevista, il 13 febbraio 2013. 139 141 conflitto era uscita vincitrice. Nel lasso di tempo intercorso tra la nascita dello Stato liberale e il fascismo, lo stereotipo filmico dell’italiano precipitò in men che non si dica nella caricatura di Mussolini. Perciò non stupisce che, ancor meno del fascismo italiano, la nostra entrata in Europa e nel primo grande conflitto del Novecento non sia stata salutata con entusiasmo dalla cinematografia internazionale. L’eccezione più vistosa è costituita da un film, anzi, da una famiglia di film che in qualche modo raccontano dell'Italia del 15-18. Si parla di Addio alle armi, o meglio, dei tanti “Addio alle armi” scaturiti dal famoso romanzo di Ernest Hemingway, pubblicato nel 1929, quando la realtà del fascismo aveva già oscurato la memoria della guerra che ne costituisce l’ambientazione140. Il libro racconta una storia di amore e di guerra che si svolge intorno alla battaglia di Caporetto. È parzialmente autobiografico: negli ultimi mesi della Prima Guerra Mondiale lo scrittore aveva servito come autista di ambulanze nel Regio Esercito italiano, era stato gravemente ferito e aveva avuto una relazione con l’infermiera inglese che l’aveva curato. Come nel precedente romanzo Fiesta (1926), Hemingway narra la condizione della cosiddetta “lost generation”, quella che ha perso fiducia nei tradizionali valori borghesi: patriottismo, rispettabilità, etica del lavoro. Il protagonista rifiuta la guerra e il nazionalismo e rifugge dall'eroismo, cercando un rapporto libero dai condizionamenti tradizionali con la sua bella, disincantata infermiera. Uno sforzo inutile, data la precarietà della vita e dell’amore: la fine è nota. Nella prima riduzione cinematografica del 1932 di Frank Borzage, Addio alle armi (A Farewell to Arms, Paramount, USA 1932) è in primo piano la relazione tra il tenente americano Frederic Henry (Gary Cooper) e la crocerossina inglese Catherine (Helen Hayes). Lei rimane incinta e fugge in Svizzera; lui per raggiungerla diserta, senza che la storia possa avere futuro. Dietro questa vicenda, l’Italia sta come uno scenario, un plastico o un fondale, comprese le sequenze della ritirata di Caporetto, resa con uno svagare di immagini di 140 Il romanzo — ritenuto lesivo dell'onore delle Forze Armate dal regime fascista, sia per la descrizione della disfatta di Caporetto, sia per l’antimilitarismo che lo pervade — non fu pubblicato in Italia fino al 1948. In realtà ne girava clandestinamente fin dal 1943 una traduzione dovuta a Fernanda Pivano, che per questo motivo subì l’arresto. Va da sé che nell’Italia mussoliniana fu vietata anche la circolazione della sua prima riduzione cinematografica. 142 combattimenti e di sofferenze privi di spiegazione. Mancano poi del tutto personaggi secondari degni di nota, tanto che da nessun punto di vista il film può reggere il confronto con l’altro celeberrimo “hemingwayano” Per chi suona la campana141, dove la Guerra civile spagnola è raccontata da una prospettiva corale, resa da un eccezionale parterre di ruoli e figure. Ancor peggiore è la successiva riduzione, uscita dopo un quarto di secolo: un film di Charles Vidor (A Farewell to Arms, Selznick Studio, USA 1957), il cui secondo regista, non accreditato, fu niente meno che John Huston Un fiasco memorabile, a dispetto dell’impegno profuso dal produttore Selznich, che tra l'altro ne uscì rovinato. La ricerca di un maggiore realismo portò Vidor a girare le riprese tra il Friuli-Venezia Giulia e il Veneto; mentre la scelta di grandi attori (Rock Hudson, Jennifer Jones, Alberto Sordi, Vittorio De Sica) avrebbe dovuto assicurare la riuscita dell'operazione. Eppure tutto si traduce in una comune, piatta storia d’amore, resa secondo i più banali standard hollywoodiani. La medesima strategia – il realismo dell'ambientazione e la fedeltà ai fatti storici – fu rispolverata qualche anno più tardi, quando si decise di riproporre Addio alle armi, ma in modo diverso dal passato. Nella terza versione, girata dal regista Martin Ritte intitolata Le avventure di un giovane142, la sceneggiatura non si appoggiava al testo del romanzo, bensì a una serie di racconti hemingwayani degli anni Venti e Trenta in cui il personaggio fittizio di Nick Adams vive le medesime esperienze del protagonista di Addio alle armi. Il risultato è la storia di un giovanotto di provincia che parte per New York per realizzarvi il sogno di diventare un giornalista di successo. Quando i suoi tentativi di lavorare presso un quotidiano vengono frustrati, Adams (Richard Beymer) sceglie di arruolarsi nell’esercito italiano. Viene ferito in guerra e assistito da Rosanna (Susan Strasberg), una giovane infermiera che muore sotto un bombardamento. Tornato in patria, viene a sapere del suicidio del padre e sceglie di rimettersi a perseguire inseguire i propri sogni. Non è un brutto film. Aldilà del valore estetico, poggia su una trama spezzata, fitta di incontri occasionali, in cui la storia d’amore risulta assai meno ingombrante e questo è indubbiamente un bene. Tutto il contrario del quarto (e per 141 142 È il film di Sam Wood, For Whom the Bell Tolls, Paramount, USA 1943. Hemingway's Adventures of a Young Man, Wald, USA 1962. 143 ora ultimo) remake Richard Attenborough, Amare per sempre (In Love and in War, Dimitri Villard Productions-New Line Cinema, USA 1997)143 in cui la ricerca della verità storica si traduce in un altro espediente. Il film non si basa sul testo del romanzo, né su altri testi di Hemingway come il precedente, bensì sulla biografia hemingwayana di James Nagel e Henry S. Villard 144. La tesi sostenuta dalla biografia e quindi dalla pellicola di Attenborough è la divergenza tra la versione di Hemingway, che aveva sempre parlato di una “vera” relazione con l’infermiera, e quella della stessa Agnes von Kurowsky, che raccontò di un amore platonico. Il puntiglio quasi scientifico della ricostruzione biografica, che si prolunga anche dopo il 1918145, viene disperso nella ricerca di una risposta a questa domanda: riuscì il nostro eroe ad avere un rapporto sessuale con l'infermiera? La questione rimane inevasa, anche se gli autori propendono per il “sì”. Francamente, però, oltre alla illibatezza di Agnes, ciò che si perde è il senso originario del romanzo e, soprattutto, ciò che Hemingway aveva tentato di dire dell’Italia. Un dittatore piccolo piccolo. Che cos’è stato il fascismo italiano? A una simile domanda il cinema non ha saputo rispondere. Forse non poteva. Non certo per incapacità di affrontare il tema: esistono dozzine e dozzine di film che si occupano di fascismi e totalitarismi in senso ampio. Di tutti questi, tuttavia, una larga parte è riferita al nazismo tedesco, mentre un'altra è dedicata a regimi di stampo fascista non meglio definiti, né nel tempo né nello spazio. Queste ultime pellicole sono in genere “distopie”, cioè costruite su scenari possibili (ma non reali) che illustrano la minaccia di una possibile degenerazione delle democrazie 143 Richard Attenborough, In Love and in War, USA, Attenborough, 1997 È il testo di Henry Serrano Villard e James Nagel, The Lost Diary of Agnes von Kurowsky, Her Letters, and Correspondence of Ernest Hemingway, Northeastern Publisher, Holliston MA 1989. 145 In realtà tra i biografi permangono ancora molte incertezze: non tutti sono concordi, ad esempio, sul fatto che Hemingway e la Kurowsky si siano davvero rincontrati negli USA; molti, anzi, sostengono in maniera documentata che il loro ultimo incontro sia avvenuto in Italia nel 1918, con un semplice strascico epistolare nel 1919. 144 144 occidentali146. Ma quasi solo in Italia147 – al massimo in collaborazione con altri paesi – vengono prodotti film sul fascismo italiano o sul duce Benito Mussolini. Le motivazioni – storiche e politiche – sono abbastanza ovvie. Intanto, la Germania nazista – unica, grande antagonista nei film di guerra prodotti dai paesi alleati – ebbe senza dubbio un maggior peso nell'economia della Seconda Guerra Mondiale. In secondo luogo, nel cinema internazionale la volontà di fornire messaggi ideologici di stampo genericamente “antifascista” ha sempre prevalso sull'interesse per il fenomeno concreto. È più facile costruire una distopia zeppa di stereotipi e riferimenti generici che ricostruire con 146 Tali timori si diffondono relativamente presto, come mostra il caso di Thunder Rock, il dramma di Robert Ardrey che debuttò a New York nel 1939. La pièce narrava le difficoltà di un giornalista inglese nell’opporsi al fascismo e l’acquiescenza dell’opinione pubblica del proprio paese. L’indifferenza, quando non il sabotaggio, lo spingono all’autoesilio: egli diventa guardiano di un faro sul Lago Michigan. Qui viene a sapere del naufragio di una nave di immigrati, i cui fantasmi prendono a ossessionarlo, finché viene convinto da un collega a ritornare in patria. Notevole fiasco nella versione teatrale, riscosse invece grande successo (anche una volta distribuita negli USA) la successiva riduzione cinematografica inglese (Thunder Rock, di Roy Boulting, John Boulting, Gran Bretagna 1942), che spianò la strada all’ancor maggiore successo di Prigioniera di un segreto di George Cukor (Keeper of the Flame, Metro-Goldwyn-Mayer-Loew's, USA 1943). In questa pellicola un giornalista incaricato di scrivere la biografia di un ricco uomo politico statunitense scopre come costui fosse in realtà a capo di un complotto fascista teso a distruggere la democrazia. Negli stessi anni nasce quello che diventerà il cospicuo filone nazihorror, con King of the Zombies (di Jean Yarbrough, Monogram Pictures, Gran Bretagna 1941), dove alcuni sopravvissuti a un incidente aereo su un’isola caraibica vi trovano un medico, in realtà una spia tedesca, che tiene prigioniero un ammiraglio statunitense e addestra dei non-morti allo scopo di attuare oscuri piani di invasione. 147 Due le eccezioni, di importanza diversa. Su Mussolini è stata distribuita la miniserie televisiva Mussolini: The Untold Story di William A. Graham, (Triangle Productions, Jugoslavia-USA, 1985-). E sempre il Duce compare come ingrediente tra gli altri, sullo sfondo dell’Italia fascista, in Un tè con Mussolini, produzione mista di Franco Zeffirelli (Tea with Mussolini, Cattleya-Cineritmo-Film and General Productions, Italia-Gran Bretagna 1999). È una pellicola autobiografica che narra dieci anni trascorsi a Firenze dal figlio illegittimo di un mercante di stoffe, che viene cresciuto da alcune gentildonne inglesi innamorate dell’Italia (e del suo Duce), le quali finiranno con l'essere internate a San Gimignano. Gradevole a tratti e ben recitato (da Cher, tra le altre), il film si prende tuttavia troppe libertà nei confronti dei fatti storici. 145 onestà intellettuale un periodo storico, che raccontare di un governo del passato. Eppure, il fascismo ci ha reso famosi nel mondo, se è vero che la parola risuona intatta e sempre evocativa nelle principali lingue europee: Faschismus, Fascism, Fascismo, Fasizmus, Fascisme, Faszyzm, Fašizam, Fašizem, Фашизм… Perché allora gli italiani sono stati lasciati da soli a fare cinematograficamente i conti con ciò che li ha portati alla ribalta della scena mondiale? Intanto, siccome i tratti ideologici del fascismo – di volta in volta definito come nazionalistico, totalitario, anti-intellettualista, attivista, giovanilista, maschilista – sono deboli sotto il profilo più strettamente politico, esso è stato considerato come una sorta di grado zero del totalitarismo. La sua carica impolitica, se non antipolitica, l'ha identificato con un pragmatismo spregiudicato: un’immagine di cui Benito Mussolini incarna il prototipo, non solo cinematografico. Passato con disinvoltura dall'internazionalismo marxista al nazionalismo, dagli ideali egualitari alla difesa delle élite, il Duce è il simbolo del governante pragmatico e opportunista. La sua fama fu ed è ancora pari a quella de «il principe delle volpi», il Cesare Borgia di Niccolò Machiavelli, portato sugli schermi da Orson Welles. L’ambasciatore statunitense in Italia, Richard Washburn Child148, avrebbe dichiarato che «‘opportunista’ è un termine usato per rimproverare gli uomini che si adattano alle condizioni vigenti per il proprio interesse personale. Mussolini [...] credeva che l’umanità stessa deve adattarsi a condizioni mutevoli piuttosto che a teorie fissate una volta per tutte”. E sempre Child avrebbe magnificato del fascismo il «potere di fare, di funzionare, di avere successo pratico. Può avere avuto successo ieri e potrà fallire domani. O avere fallito ieri e avere successo domani. Ma, per prima cosa, la macchina deve funzionare!». L'immagine del fascista come colui che sa cogliere l'opportunità ebbe vita relativamente breve in ambito internazionale. Il termine “fascismo” diventò in breve poco più che un insulto adoperato contro gli avversari politici. Già nel 1944, l'inglese George Orwell osservava come la parola fosse ormai priva di significato: «L’ho udita riferire ai contadini, ai negozianti, al credito sociale, alle pene corporali, alla 148 Il diplomatico anglosassone diventò poi amico personale di Mussolini e coestensore della sua autobiografia in lingua inglese: Benito Mussolini, My Rise And Fall, 2 vol. (1928/1948), Da Capo Press, Cambridge MA 1998. 146 caccia alla volpe, alle corride, al 1922 Committee149, al 1941 Committee150, a Kipling, a Gandhi, a Chiang Kai-shek, all’omosessualità, alle trasmissioni radio di Priestley 151, agli ostelli per la gioventù, all’astrologia, alle donne, ai cani e non so più a che cos’altro ancora… Escluso il numero relativamente piccolo di simpatizzanti fascisti, quasi ogni inglese sarebbe pronto a considerare ‘prepotente (bully)’ come sinonimo di ‘fascista’» 152. Vago, sfumato, poco caratterizzato sotto il profilo politico o quello teorico. Che cosa restava al cinema internazionale per rappresentare il fascismo italiano? Alcuni tratti caratteriali – quelli del “bullo”, del prepotente o dell'uomo d'azione senza scrupoli – sarebbero andati a unirsi agli stereotipi sugli italiani, quelli già più o meno fissati dal cinema muto. Poco, insomma. E pochi furono dunque i tentativi di raccontare il fascismo italiano. Forse l'eccezione più nota è il ritratto del Duce presentato ne Il grande dittatore153. Prodotto, scritto e diretto da Charlie Chaplin, alle prese con il suo primo film sonoro, narra le vite parallele di un barbiere ebreo e di Adenoid Hynkel, dittatore di Tomania (Tomainia nell’originale), entrambi da lui stesso interpretati154. I titoli di testa avvertono che le somiglianze tra i due personaggi sono puramente casuali, ma il soggetto è il tipico, vecchio 149 Anche nota come Conservative Private Members' Committee, è l'associazione degli aderenti al partito conservatore inglese e dei suoi simpatizzanti. 150 È un'altra associazione, costituitasi nel 1940 allo scopo di sostenere lo sforzo bellico, formata da politici, scrittori e altri intellettuali inglesi. Inizialmente era formata da soli liberali, poi arrivò a comprendere anche personaggi pubblici di sinistra, anche se non necessariamente iscritti a un partito. 151 John Boynton Priestley (1894-1984) era uno scrittore e intellettuale inglese che durante la Seconda Guerra Mondiale conduceva per la BBC delle popolarissime trasmissioni radiofoniche, interrotte successivamente per volontà del ministro Winston Churchill perché considerate troppo radicali. 152 È un pezzo tratto da un famoso articolo di George Orwell, What is Fascism? pubblicato sul «Tribune» nel 1944. 153 The Great Dictator, Charles Chaplin Production, USA 1940. Nel 1941 il film ottenne cinque candidature all’Oscar, incluse quella per il miglior film e per il miglior attore (lo stesso Chaplin). 154 La prima parodia di Hitler precedette di pochi mesi quella di Chaplin: sfuggì infatti al controllo del Codice Hayes (le regole dei film americani, tra cui il rispetto per le altre nazioni) l’assai più graffiante cortometraggio del trio comico I tre marmittoni (Three Stooges):You Nazty Spy!, diretto e prodotto da Jules White, USA 1940, che comprendeva una breve apparizione di Mussolini. 147 scambio di persona. L'ebreo patisce infinite vicissitudini fino alla prigionia in un campo di concentramento mentre, in seguito a un banale incidente, Hynkel viene scambiato per lui dai suoi stessi soldati, che lo arrestano. Il suo sosia, evaso intanto dal campo di concentramento, si trova a sua volta al posto del dittatore: finché, in alta uniforme militare, coglie l'occasione per tenere un appassionato discorso davanti al popolo dell'Ostria (Osterlich) – invasa nel frattempo dall’esercito della Tomania – perorando la causa dell’amore, della libertà, dell’uguaglianza e della solidarietà universali. Al centro dell'intricata trama del film, tuttavia, si colloca proprio l'invasione dell’Ostria da parte della Tomania. L'alleato dittatore di Batalia (nell'originale Bacteria), Bonito Napoloni (Benzino Napaloni, interpretato da Jack Oakie), vorrebbe inizialmente scongiurarla, al punto da schierare il proprio esercito ai confini dell'Ostria. Andò effettivamente in questo modo. Dopo più di un decennio di aspra opposizione all'annessione (Anschluss), nel 1936 Mussolini cambiò radicalmente posizione e si avvicinò alla Germania nazista, permettendo che nel 1938 l’Austria diventasse una provincia tedesca. Nel film, Hynkel invita Napoloni per una visita di Stato nella propria residenza, durante la quale i due dittatori finiscono con il trovare il sospirato accordo. Come potrebbe essere, si chiede Chaplin, un dittatore che governa il Bel Paese? Un dittatore vero, cioè: un personaggio potente e minaccioso che agisce sulla scena della storia mondiale, un capo italiano come non si è visto mai. Sarebbe un uomo piccino piccino, si risponde il grande cineasta: un individuo meschino, ma al contempo strafottente e grandioso. Hynkel di Tomania è il primo a fare le spese della sua irritante personalità. Il suo invito a Napoloni, in realtà, non ha a che fare con un vertice diplomatico: egli, piuttosto, vuole inscenare un duello psicologico, vuole impressionare e ridimensionare l'alleato con l’esibizione della propria potenza. Ma il dittatore tomanotedesco, a ben vedere, non è per nulla convinto dell'efficacia del piano, che gli è stato suggerito dal suo collaboratore Garbitsch (che rappresenta Joseph Goebbels). E Napoloni appare refrattario ai siparietti cerimoniosi. Aggressivo, spiccio e borioso, l'italiano entra nello studio di Hynkel spalancandone prepotentemente la doppia porta; si avvicina baldanzoso con passo militare alla scrivania del collega; lo fa cadere dalla sedia con una rude pacca sulla spalla, apostrofandolo giovialmente con molti “Hynkie”. Poco dopo, sigaretta 148 tra le dita, si sente a disagio sulla sedia con le gambe tagliate dove il suo ospite lo ha seduto per farlo sentire inferiore: così, senza colpo ferire, risolve il problema sedendosi sulla scrivania, costringendo perfino "Hynkie" a scusarsi. L’incontro tra i due dittatori – il grande e il meschino – si snoda attraverso una serie di esilaranti scenette. Magistrale, sebbene poco conosciuta dal pubblico italiano, quella in cui si confrontano Hynkel e la moglie di Napoloni – ovviamente donna Rachele Mussolini – della quale il consorte ha appena celebrato la timidezza e la naturale ritrosia nelle occasioni pubbliche155. Umiltà e riserbo della femmina italica, ovviamente. La donna è in realtà una grassa virago, a metà tra una matrona e la caricatura di un soprano, che riesce a sopraffare Hynkel in un valzer assassino; finché questi non se ne libera, accomiatandosi con un baciamano esagerato e complimentandosi, con tutta la falsità di cui dispone, per il suo talento nella danza. Dietro un piccolo uomo, si potrebbe parafrasare, c'è sempre una donna troppo grande: fastidiosi entrambi e quasi pericolosi, non c'è che dire. Non si tratta solo della caricatura di un tiranno e della sua dolce metà (qui, in realtà, il suo esatto doppio). Questa è, di fatto, il grottesco sguardo hollywoodiano sull'idealtipo della coppia italiana: un paio di cafoni sguaiati ed eccessivi, tanto più insopportabili quando sono investiti di potere. La prima (vera) guerra mondiale. Se la presenza del fascismo italiano come fenomeno storico e politico è pressoché assente dalla cinematografia straniera, fatto salvo il film di Chaplin, lo stesso non si può dire della presenza dell’Italia nella Seconda Guerra Mondiale. Ernest Hemingway, in un’intervista rilasciata al Toronto Star già nel 1922, aveva qualificato il futuro Duce come «il più grande bluff nella storia d’Europa» 156. Ma di fatto l’Italia, di bluff in bluff, si trovò separata dall’Europa democratica insieme alla Germania e gettata in un conflitto di scala mondiale. Un conflitto che a lungo impegnò il cinema a raccontare anche storie italiane: scontri 155 Questa scena fu tagliata nell’edizione italiana del 1949, forse per riguardo verso Rachele Mussolini che era ancora in vita. Ma nell'edizione del 1972 risultava ancora assente, mentre fu reinserita durante la redistribuzione del film in versione integrale nel 2002. 156 Così scrive Fernanda Pivano nella sua biografia Hemingway, Rusconi, Milano 1985. 149 e incontri tra soldati e civili con gli stranieri inviati di stanza nella penisola. Dal punto di vista cinematografico la Seconda Guerra Mondiale è stata la prima guerra veramente mondiale, anche se l’occhio che ha visto e giudicato la partecipazione dell’Italia è stato prevalentemente quello di Hollywood. Se nel cinema statunitense la presenza degli italoamericani era già consolidata negli anni Trenta, il conflitto ha contribuito a rafforzarla. Per ogni film di guerra prodotto negli USA, le esigenze della propaganda (e dell’intrattenimento) facevano appello alla partecipazione e all’impegno degli statunitensi di ogni discendenza. Dunque, ogni azione bellica di gruppo doveva presentare l’esercito statunitense come un mosaico etnico, dove non potevano mancare almeno un polacco, un ispanico, un irlandese, un ebreo e, naturalmente, un italiano157. I personaggi italiani occupavano, tuttavia, una posizione scomoda: discendenti di un popolo già alleato dell'America nella Prima Guerra Mondiale, avevano però legami di parentela con gli avversari, con il popolo di Mussolini. Mentre gli italoamericani servivano gli Stati Uniti con dedizione e talvolta con eroismo, gli italiani erano il nemico. Ma che genere di nemico era? Secondo i cineasti hollywoodiani, assai meno preoccupante di tedeschi e giapponesi. Si trattava di un esercito di soldati e ufficiali tronfi, incompetenti e persino codardi, più adatti al bel canto che alla battaglia. Un esempio eclatante è il generale Sebastiano nel film di Billy Wilder, I cinque segreti del deserto (Five Graves to Cairo, Paramount Pictures, USA 1943), una pellicola di successo con Franchot Tone e Anne Baxter, in cui l’esoticità del teatro di guerra africano permetteva di mescolare il genere del film di guerra con la spy story. Tuttavia, quando si trattò di utilizzare l’Italia come uno scenario di guerra, Hollywood si chiese come rappresentare un paese abitato da italiani a contatto con un esercito multietnico come quello statunitense. La soluzione fu quella di trattare l'ambientazione in maniera asettica, come un plastico o un presepe. Ne è un chiaro esempio il film di William A. Wellman I forzati della gloria (The Story of G.I. Joe, Cowan-Hall, USA 1945) che racconta il percorso tipico del 157 Non sarebbe del tutto sciocco chiedersi il motivo dell’assenza dei tedeschi. Si scoprirebbe che la loro identità di cittadini statunitensi al cinema è stata del tutto trasfigurata in quella dei discendenti di emigrati ebrei. 150 soldato di fanteria americano (G.I. Joe) che, gettato in battaglia, viene ovviamente privato della sua individualità. Basata sulle cronache del premio Pulitzer Ernie Pyle, la trama si snoda dalla Tunisia all’Italia nel narrare le vicende di cui sono insieme testimoni il tenente Walker (Robert Mitchum) e il corrispondente di guerra che lo accompagna. Non mancano le caratterizzazioni (tra cui quella di Dondaro, un italoamericano di Brooklyn grande amante delle donne). Ma il tema principale è la dura, sanguinaria necessità di avanzare e vincere, che riguarda tutti i soldati che combattono, a prescindere dalla nazionalità di origine. Fino a Monte Cassino, almeno, dove la battaglia viene commentata nell’ammutolirsi dei soldati dinanzi alla morte dei compagni, che non sapranno mai nulla di come è andata a finire. Dopo qualche tempo le urgenze della propaganda vennero meno e il quadro si movimentò. Nelle rappresentazioni cinematografiche dell’Italia, agli italiani cattivi soldati o "brava gente" si affiancarono man mano altri caratteri: soldati patriottici e coraggiosi, servi della dittatura, spietati esecutori della follia tedesca, eroi vittime della furia nazista, combattenti alla ricerca di riscatto. Già nei primi anni Cinquanta Hollywood iniziò a fare largo uso nei film di guerra del classico "italoamericano simpatico", perché contribuiva al successo delle pellicole: nel 1953 Frank Sinatra conquistò un premio Oscar con la sua interpretazione di Angelo Maggio in Da qui all’eternità158 di Fred Zinnemann. Chiassoso e sfacciato, ma leale e di buon cuore. È indubbiamente un personaggio accattivante, allegro e lento all'offesa, salvo quando viene apostrofato come «mangiaspaghetti [wop]159» dal sadico e ottuso sergente Fatso Judson. Maggio è il prototipo dei molti soldati italomericani hollywoodiani che, negli anni cinquanta, vennero impiegati a guisa di lubrificante etnico nel meccanismo narrativo delle storie di guerra americane. Oltre ai personaggi italiani, risorge anche l’Italia come entità geografica, cioè come scenario bellico fatto di paesaggi e luoghi 158 From Here to Eternity, Columbia Pictures Corporation, USA 1953. Il cast era eccezionale e comprendeva Burt Lancaster, Montgomery Clift, Deborah Kerr, Frank Sinatra, Donna Reed, Ernest Borgnine e un numero notevole di ottimi attori minori. Oltre a cinque nomination, tra cui quelle per i migliori attori e attrici protagonisti, il film raccolse ben otto Oscar nel 1954, tra cui quelli per il miglior film, la migliore regia, i migliori attori non protagonisti (a Frank Sinatra e a Donna Reed). 159 Probabile corruzione di “guappo”. 151 abitati. È disegnata in maniera pienamente realistica in Salerno ora X di Lewis Milestone (A Walk in the Sun, Lewis Milestone Productions, USA 1945) una pellicola che rappresenta in stile antieroico le vicende di un plotone di soldati americani che, dopo lo sbarco sulla costa salernitana, avanza nell'interno per attaccare una casa colonica tenuta dai tedeschi. Il titolo originale (Una passeggiata al sole) si riferisce ironicamente al modo in cui era stata definita dagli alleati la campagna militare in Italia. Forse il migliore tra i film bellici ambientati sul fronte italiano, è incentrato sugli effetti psicologici che la guerra suscita nei combattenti americani, mentre il nemico tedesco rimane invisibile anche nel sanguinoso epilogo e gli italiani sono inspiegabilmente assenti. Altrettanto pregevole è All'inferno e ritorno (To Hell and Back, di Jesse Hibbs, Universal International Pictures, USA 1955) girato un decennio più tardi e basato sull'autobiografia di Audie Murphy, il soldato più decorato degli Stati Uniti, che ne fu anche interprete e cosceneggiatore. Film di notevole successo160, narra la vita del protagonista a iniziare dalla gioventù, quando decide di intraprendere la carriera militare: dal battesimo del fuoco nello sbarco in Sicilia del 1943, allo sbarco a Salerno e all’arrivo a Napoli, all’arrestarsi dell’avanzata per la strenua resistenza opposta dai tedeschi, allo sbarco ad Anzio nel 1944, alla liberazione di Roma. Murphy però non prosegue la risalita della penisola verso la Repubblica Sociale, ma prosegue la guerra in territorio francese, fino all’eroica azione che gli vale la Medaglia d'Onore del Congresso (Medal of Honor). La grandezza del filone viene confermata un decennio dopo da un altro film patriottico e d’azione, Lo sbarco di Anzio (Anzio, Columbia Pictures-Dino de Laurentiis, Italia-USA 1968) in cui recitano star affermate come Robert Mitchum e Peter Falk e che ribadisce, ancor più dei precedenti, il vero interesse degli sceneggiatori americani: la guerra dei liberatori. La pellicola è una coproduzione italo-americana, ed è girata in Italia da una troupe italiana, anche se la regia porta la doppia firma di Edward Dmytryk161 e Duilio Coletti. Tuttavia, nessuno 160 Mantenne infatti il record d'incassi fino al 1975, quando venne superato da Lo Squalo di Steven Spielberg. 161 Dmytrick fu un regista pesantemente segnato dal maccartismo: interrogato dal Comitato per le attività antiamericane, rifiutò di collaborare, fu incarcerato e solo in un secondo momento decise di denunciare alcuni membri del Partito Comunista Americano, suoi compagni nella giovanile militanza. Negli anni Settanta abbandonò 152 degli attori principali è italiano; ancor più strano, non ci sono italiani tra i personaggi principali (e, quando ci sono, non sono nemmeno doppiati). La trama è complessa e si permette qualche iniziale momento di critica: la gestione dello sbarco da parte dei vertici dell’esercito americano è difettosa, l’esercito tedesco imbastisce una efficace controffensiva. Poi la prospettiva si sposta dall’evento collettivo dello sbarco alla storia di un manipolo di americani, sopravvissuti alla Battaglia di Cisterna, che ritornano difficoltosamente alle proprie postazioni attraversando le linee nemiche. In questa circostanza ritornano i colloqui intimistici caratteristici del genere di guerra nella seconda metà del secolo: quelli in cui, per esempio, il caporale Rabinoff (Peter Falk) esibisce uno spettacolare cinismo162. Ben diverso, e in buona misura anomalo, è un film di qualche anno prima, Il colonnello Von Ryan163. Sulla scena sono qui bene presenti gli italiani, così come nel cast, che a Frank Sinatra affianca Raffella Carrà, Sergio Fantoni e Adolfo Celi. E anche l’ambientazione è originale, non propriamente bellica. Joseph L. Ryan è infatti un colonnello dell'aviazione statunitense il cui aereo è abbattuto nel 1943 durante una missione in Italia; catturato dai soldati italiani, viene internato in un campo di concentramento nel Sud. Il campo è in pessime condizioni, sia per colpa del rigido comandante fascista, sia per l'ostruzionismo opposto da un maggiore inglese. A causa della sua presunta collaborazione con i fascisti, Ryan viene soprannominato dispregiativamente "Von" Ryan. Dopo l'armistizio dell’otto settembre il colonnello finisce nelle mani dei nazisti che lo caricano su di un treno insieme agli altri prigionieri per deportarlo in Germania. Il suo piano di fuga ha successo, ma il nostro eroe perde la vita nel realizzarlo. la regia per diventare scrittore e docente universitario. I suoi testi sono ancora adoperati nelle scuole di recitazione e di cinema. 162 Rabinoff ricalca un personaggio reale, il soldato Jake Wallenstein, che fu processato per avere gestito un bordello illegale con prostitute italiane in un’ambulanza rubata. Lo sceneggiatore si ispirò al fortunato libro di guerra di Robert H. Adleman e George H. Walton, The Devil's Brigade (United States Naval Institute Press, Philadelphia 1966) da cui fu pure tratto un altro film dello stesso anno parzialmente ambientato in Italia, La brigata del diavolo (The Devil’s Brigade, di Andrew V. McLaglen e Terry Morse Jr., Wolper Pictures, USA 1968). 163 Von Ryan's Express, di Mark Robson, David, USA 1965. 153 Con gli anni sessanta, il periodo d’oro dei film di guerra ambientati in Italia volge al termine. Altri conflitti sono nuovo oggetto di interesse per il pubblico e l’industria del cinema; e lo stesso genere bellico, nato negli anni quaranta per soddisfare le esigenze della propaganda e dell’intrattenimento, si sta trasformando, e non solo nello stile. Il grande uno rosso di Samuel Fuller (The Big Red One, Lorimar Productions-Lorac Productions, USA 1980), un film zeppo di imprecisioni a dispetto del suo grande successo, può essere ricordato come uno degli ultimi esemplari164. Ma esiste un’altra pellicola dei primi anni Ottanta che costituisce un vero e proprio caso cinematografico per il modo in cui, discostandosi dalla tradizione hollywoodiana, rappresenta gli italiani. Si tratta del libico Il leone del deserto di Moustapha Akkad (Lion of the desert, Falcon International Productions, Libia 1981), basato sulla vita del condottiero libico Omar al-Mukhtar che si battè contro l'esercito italiano ben prima della Seconda Guerra Mondiale. Lodato (e autorevolmente) per l’attendibilità storica, per lungo tempo ne è stata vietata in Italia la distribuzione, perché considerato lesivo dell'onore del nostro esercito: è stato trasmesso in televisione solo nel 2009 165. La narrazione inizia nel 1929, quando Mussolini (Rod Steiger) decide di confrontarsi con la ventennale guerriglia intrapresa dagli arabi e berberi di Libia contro i colonizzatori italiani e nomina Governatore della Libia, come successore di Badoglio, il crudele generale Rodolfo Graziani (Oliver Reed)166. Alla testa della resistenza è Omar al-Mukhtar (Anthony 164 Il film è stato girato quasi interamente in Israele. I carri spacciati per tedeschi, ad esempio, sono in realtà carri Sherman, ricevuti dagli israeliani che li usarono fino agli anni settanta; nelle scene ambientate in Francia il paesaggio è inverosimilmente arido; nella scena che si svolge in Belgio la squadra passa vicino a un carro sovietico abbandonato (residuo della guerra dello Yom Kippur). Nella scena ambientata nella cittadina siciliana c'è un imbarazzante errore sul cartello che reca un celebre slogan mussoliniano: «se / avanzo / se / guitemi». 165 I provvedimenti censori furono presi dal governo italiano di allora, con a capo Giulio Andreotti. Successivamente fu intentato un procedimento giudiziario contro il film, per vilipendio delle Forze Armate, che impedì la distribuzione nel nostro paese. Durante sua prima visita ufficiale in Italia, nel 2009, il leader libico Mu'ammar Gheddafi sfoggiò appuntata al petto la fotografia dell'arresto di al-Mukhtār. Cogliendo l'occasione, la piattaforma televisiva Sky programmò la proiezione del film per l'11 giugno di quello stesso anno. 166 La più parte del film si sviluppa nel 1931, anno in cui (in realtà) Graziani fu nominato vice governatore della Cirenaica. 154 Quinn): insegnante di professione, guida combattenti dotati di armi obsolete, mentre Graziani non si fa scrupolo di impiegare nella guerra nel deserto, per la prima volta, aeroplani e carri armati. Inevitabilmente i libici soffrono pesanti perdite, anche se nel film si vedono morire quasi esclusivamente soldati italiani, per lo più efferati ufficiali in camicia nera. Nonostante la disparità di forze e la cattura di Al-Mukhtar167, i resistenti impegnano per molti anni gli italiani, impedendo loro di conseguire una vittoria completa, fino all’occupazione alleata del 1943. Aldilà delle vicende belliche, il film serve lo scopo di esaltare l’idealismo dell’eroe al-Mukhtar168 e, per converso, di denunciare l’occupatore. In alcune sequenze si vedono gli italiani usare i gas contro i libici, ed è inserito anche un raro documento con la veduta aerea del campo di concentramento creato per rinchiudervi i nemici. Ciò che si può cogliere è la notevole differenza tra lo sguardo cinematografico hollywoodiano e quello di altre nazioni sulla «guerra all'italiana». Se è vero, tra l'altro, che gli Stati Uniti hanno prodotto la maggior parte di questi film fino agli anni ottanta, è pur vero che anche altri paesi hanno dato un contributo. C'è per esempio un intero filone, quello del film partigiano jugoslavo, molto diffuso su scala mondiale169 anche nella difficile stagione della Guerra Fredda, quando 167 Nel film Al-Mukhtar viene catturato dalle truppe italiane; in realtà fu catturato da uno squadrone di regolari libici inquadrati nell'esercito italiano. 168 In una scena Al-Mukhtar esibisce il proprio lato umano rifiutandosi di uccidere un giovane ufficiale superstite dopo un agguato e gli riconsegna la bandiera italiana catturata in combattimento. Tiene poi un discorso in cui spiega che nell'Islam non si uccidono i soldati prigionieri, ma si lotta per la propria patria, soltanto se costretti. Successivamente, però, l’ufficiale italiano sarà ucciso alle spalle e a tradimento da un altro italiano, appartenente alla milizia fascista. 169 Ad esempio il film Walter difende Sarajevo (Valter brani Sarajevo, di Hajrudin Krvavac, Sobajic, Jugoslavia 1972) nel primo anno di distribuzione fu visto da ben trecento milioni di cittadini cinesi. Il sottogenere si divideva tra i lavori che ambivano a essere distribuiti nella cosiddetta sfera orientale come La quinta offensiva (Sutjeska, di Stipe Delić, Popović, Jugoslavia 1973) che però annoverava nel cast Richard Burton e Irene Papas e quelli, di solito grandi produzioni, che puntavano all’occidente, come La battaglia della Neretva (Bitka na Neretvi, di Veljko Bulajić, Unger-Weinstein-Previn, Jugoslavia-Italia-Germania Ovest-USA 1969) che, arruolando attori di calibro mondiale (Yul Brynner, Anthony Dawson, Sylva Koscina, Franco Nero, Orson Welles) ottenne un discreto successo commerciale e una nomination come migliore film straniero. 155 la Jugoslavia (insieme a Cuba) veniva boicottata dall'Occidente perché a capo del gruppo dei paesi cosiddetti “non allineati”. Nei primi anni Sessanta, il tema fu inaugurato da una pellicola di Veljko Bulajić dedicata alla battaglia di Kozara (Kozara l'ultimo comando, Kozara, Bosna Film, Jugoslavia 1962) e fino agli anni Ottanta continuò a presentare i partigiani impegnati a fronteggiarsi con le forze occupatrici e con collaborazionisti di diversa nazionalità e colore politico. I toni sono popolareggianti e spesso melodrammatici, il carattere è smaccatamente epico170, così come l’aperto messaggio ideologico della necessità di coesione delle varie etnie jugoslave sotto la bandiera del comunismo di Tito. Eppure questi film sono tra i pochi a non nascondere alcuni dati storici assenti in produzioni più rinomate: la presenza di italiani occupanti con uguali responsabilità rispetto ai tedeschi; il problema degli schieramenti, delle scelte e del collaborazionismo con i nazisti. In poche parole, la guerra civile: quella che in Italia ha avuto un riconoscimento tardo e fra mille polemiche, che sullo schermo si realizzò per la prima volta con il film dei fratelli Paolo e Vittorio Taviani, La notte di San Lorenzo (Radiotelevisione Italiana (RAI) - Ager Cinematografica - SACIS, Italia 1982). Per quanto ingenuo, il cinema partigiano jugoslavo risulta meno reticente, e spesso anche meno schematico, della cinematografia italiana, che a lungo, come recita il titolo del film di Giuseppe De Santis (Galatea-Mosfilm, Italia-URSS 1965) si è premurata di assolvere gli Italiani brava gente dalle colpe del nazismo. Una guerra normale. Negli anni Novanta i tempi erano ormai maturi perché lo scenario della Seconda Guerra Mondiale potesse dare spazio, anche nella produzione hollywoodiana, al superamento degli stereotipi sugli italiani in guerra, che iniziarono a essere proposti come personaggi normali, meno caricaturali. Inoltre, approdarono sugli schermi statunitensi storie e soggetti in precedenza raccontati dal solo cinema italiano: di solito vicende ritenute irrilevanti per il pubblico 170 Questi film furono poi affettuosamente caricaturizzati nel famosissimo Underground del regista Emir Kusturica (CiBy 2000-Barrandov Studios-Komuna, Jugoslavia-Francia-Germania-Ungheria-Repubblica Cieca-Bulgaria 1995). 156 d’oltreoceano, o addirittura imbarazzanti per i nuovi alleati degli americani nel clima della Guerra Fredda. Ci sono almeno tre film che testimoniano questa svolta. Il primo è Il paziente inglese171, una delle pellicole più premiate della storia172, che narra una vicenda ambientata in Toscana verso la fine della guerra. Hana, infermiera canadese innamorata di un artificiere indiano, accudisce un misterioso paziente inglese dal viso sfigurato di cui si rievoca la tragica passione per una donna incontrata in Egitto prima della guerra. Non è il conflitto, il tema, e nemmeno tanto in fondo. La guerra è un ingrediente tra altri stereotipi e cliché che si stemperano a vicenda: un’atmosfera à la Bertolucci, l’amore melodrammatico, lo spionaggio, l’amore interrazziale, la malvagità nazista, l’erotismo unito all’esotismo. Tutto questo, paradossalmente, fa sì che l’Italia occupata ridiventi uno scenario, un pezzo di Europa come tutti gli altri. Gli altri due film sono imparentati tra loro perché presentano, a uno sguardo italiano come a uno straniero, vicende belliche ancora non ben digerite dalle culture popolari. Il primo è Il mandolino del capitano Corelli173, che prende a tema l’eccidio di Cefalonia, commesso da reparti dell'esercito tedesco a danno dei soldati italiani presenti sull’isola greca l'8 di settembre del 1943174. La guarnigione italiana si oppose al tentativo tedesco di disarmarli, combattendo per vari giorni fino alla resa incondizionata, alla quale fecero seguito massacri e rappresaglie. La vicenda storica è però narrata dalla prospettiva della giovane Pelagia, divisa tra l’amore per Mandras, pescatore che parte per combattere gli italiani sul fronte albanese, e per il capitano Corelli, un ufficiale che come i suoi soldati è più appassionato alla musica che alla guerra. Negli eventi successivi 171 The English Patient, di Anthony Minghella, Miramax Films-Tiger Moth Productions, Gran Bretagna-USA, 1996. 172 Più precisamente, mantenne a lungo il record dei nove Oscar insieme a Gigi (Vincente Minnelli, Gigi, Metro-Goldwyn-Mayer-Arthur Freed Production, USA 1958) e L'ultimo imperatore (The Last Emperor, di Bernardo Bertolucci, Recorded Picture Company-Hemdale Film-Yanco Films Limited, Cina-Gran Bretagna-Francia-Italia 1987). 173 Captain Corelli's Mandolin, di John Madden, Universal Pictures-StudioCanalMiramax Films, Francia-Gran Bretagna-USA 2001. 174 Analoghi avvenimenti si verificarono a Corfù, che ospitava un presidio della stessa divisione Acqui, stanziata a Cefalonia. 157 all’armistizio, Corelli si salva con l’aiuto di Mandras e di Pelagia, quindi parte per l'Italia con l'aiuto dei partigiani greci. Il film ha suscitato polemiche tra i critici per il tono melodrammatico con cui ha affrontato un’episodio così tragico, ma gli va riconosciuto di avere giocato un qualche ruolo perché riemergessero fatti come quelli di Cefalonia nella nostra memoria storica. Ben altre critiche, per la verità, ha sollevato il secondo. Dedicato a uno dei tanti eccidi commesso dai nazisti ai danni di civili, tocca una vicenda di particolare efferatezza, ancor più della precedente rimasta nell’ombra della coscienza nazionale italiana175. È un evento tragico, legato al ben più famigerato massacro delle Fosse Ardeatine, che nel 1973 fu ricostruito cinematograficamente dal regista greco, naturalizzato italiano, George P. Cosmatos nel film Rappresaglia (Massacre in Rome, Carlo Ponti, Italia-Francia 1973): una ricostruzione che – come è chiaro dal titolo e come ci si potrebbe aspettare dal futuro regista di Rambo – parlava di una vendetta all'interno della guerra di resistenza. L’episodio di Sant'Anna è stato invece oggetto di interpretazioni discordanti, anche se i fatti sono terribilmente chiari. In poco più di tre ore, all'alba del 12 agosto 1944, a Sant’Anna di Stazzema vennero massacrati cinquecentosessanta civili, in gran parte bambini, donne e anziani: rastrellati, rinchiusi, uccisi con colpi di mitra e bombe a mano. Nelle ricostruzioni investigative e poi giudiziarie, l’eccidio è stato identificato non come un atto di rappresaglia, bensì come una vera azione terroristica – una della serie culminata con il massacro di Marzabotto – commessa dalle SS tedesche, con l’ausilio di reparti italiani della X MAS, per dissuadere i civili dal dare appoggio alla resistenza. Il film è uscito nelle sale proprio alla chiusura del processo: quando cioè, nel 2007, la Corte di Cassazione confermò gli ergastoli all'ufficiale Gerhard Sommer e ai sottufficiali Georg Rauch e Karl Gropler. 175 Nell'estate del 1994, Antonino Intelisano, procuratore militare di Roma, alla ricerca di documentazione su Erich Priebke e Karl Hass, avviò un procedimento che portò alla scoperta, in uno scantinato della procura militare, di un armadio contenente 695 fascicoli “archiviati provvisoriamente” nell’immediato dopoguerra, riguardanti crimini commessi da tedeschi e repubblichini. Tra questi, fu trovata anche documentazione relativa al massacro di Sant'Anna, per il quale venne riaperta l'inchiesta che portò, a distanza di quasi sessant'anni, il 20 aprile 2004, all'istituzione di un processo davanti al tribunale militare di La Spezia. 158 Miracolo a Sant’Anna176 non può certo essere tacciato di toni melodrammatici: ciò che accade ai civili italiani è inserito nella vicenda di quattro fanti dei Buffalo Soldiers (divisione di afroamericani comandata per lo più da ufficiali bianchi, spesso sudisti), bloccati al di là delle linee nemiche nella Valle del Serchio. Nel film si sostiene però che esso fosse la conseguenza di una rappresaglia, scatenatasi grazie al tradimento di un partigiano, Rodolfo. Non c’è dunque da stupirsi se, già all'inizio delle riprese, l'intera operazione è stata boicottata dall'ANPI, l’Associazione Nazionale dei Partigiani Italiani; mentre il regista afroamericano Spike Lee si è difeso sottolineando il carattere non documentario dell’opera177. C'è poi un film straniero degno di nota, perché unico ad avere dato un'inequivoca rappresentazione dei soldati italiani come combattenti degni di rispetto, vittime della guerra quanto tutti gli altri al fronte. È l'opera di un newyorkese, Ari Taub, intitolata The Fallen (Brooklyn Independent Studios, Italia-Germania-USA 2004). Lo scopo del regista è quello di rappresentare una comune caduta, il feroce caos entro cui agivano tutte le parti coinvolte nel conflitto, senza eccezioni. Siamo nel 1944 nel nord dell'Italia, dove i nazisti resistono all'avanzata degli americani. Le truppe italiane vengono trattate come inferiori dagli alleati tedeschi, che tendono a impiegarle contro i partigiani piuttosto che contro i più impegnativi e meglio armati americani. Quando distribuiscono loro razioni dimezzate, scoppia la rivolta. Giunti allo scontro, i soldati italiani e i partigiani sono riluttanti a combattere fra loro, finché diversi dei primi passano dalla parte della Resistenza, professandosi comunisti per avere salva la vita. D'altro canto, nello scontro conclusivo tra le truppe, i soldati italiani cedono a quelli americani (tra i quali gli italoamericani sono numerosissimi) solo di fronte all'intervento di un carro armato: dimostrano così uno spirito di sacrificio non inferiore a quello dei tedeschi, costretti infine alla ritirata. Non è una storia allegra o un vero lieto fine. Ma è un sollievo sapere che un americano ha 176 Miracle at St. Anna, di Spike Lee, 40 Acres & a Mule Filmworks-RAI CinemaTouchstone-On My Own, Italia-USA 2008. 177 L’ANPI ha finito con il rilasciare un comunicato in cui viene rimarcata la presenza di elementi di fantasia già nel libro che sta alla base della sceneggiatura, e si dichiara che quindi che non spetta all'associazione esprimere un giudizio in merito a un'opera basata in parte sull'invenzione. 159 impiegato un film intero per scollarci di dosso la fama di codardi e opportunisti di cui il cinema statunitense ci ha vestito per più di un secolo, spesso con un certo gusto. 160 Italo Marchioni per MANIFATTURE BEN & JERRY (cialda per gelato, 1896) 161 162 Italiani, figuriamoci! «Gli italiani hanno solo due cose per la testa: l’altra sono gli spaghetti». (Catherine Deneuve) Maschere. Ben prima del Novecento, dell’avvento dell’industria cinematografica e dell’affacciarsi dell'Italia-nazione sulla scena della storia mondiale, gli italiani si erano fatti conoscere agli altri popoli attraverso non uno, ma tanti volti diversi. Uno dei veicoli era stato il successo della commedia dell’arte, esportata nel resto dell'occidente come “commedia italiana”. Essa aveva costituito una rivoluzionaria novità: le donne attrici; l'impiego di attori professionisti; la necessità di fissare dei caratteri nella recitazione a canovaccio (o "a soggetto"). Tutto ciò aveva fatto sì che — da Venezia, all’Italia intera, poi all’Europa — si diffondessero, prima nelle piazze, poi nei teatri e nelle corti, le figure di Pantalone, di Rosaura, di Arlecchino, di Zanni, di Franceschina, di Pulcinella, degli Innamorati. Maschere, insomma, fortemente tipizzate, che si scambiavano lazzi e trame in repertori che divennero ben consolidati nel Settecento. Maschere che perdevano le loro colorazioni locali per diventare tipi umani quasi universali, che facevano vestire i panni dell’italianità al genere umano. Quando il cinema – specialmente quello degli Stati Uniti, più industrializzato e insieme più vicino al fenomeno del melting pot di popoli e etnie – si impadronì della figura dell'emigrante italiano, ci fu un'ulteriore tipizzazione, ma molto più efficace. Si vide che proprio nell’incontro o scontro culturale lo stereotipo si rafforzava o veniva demolito. Nel mondo globalizzato della celluloide, questa felice collisione divenne il motore narrativo di pellicole, comiche e drammatiche. Sono quelle che, ancor oggi, parlano d'italiani e delle loro abitudini: di donne e di uomini, di lavoro e di sport, di sesso e di cibo. La formazione dello stereotipo cinematografico hollywoodiano conobbe un'evoluzione, non sempre lineare. Fu costruito inizialmente di alcune maschere negative: i Dagos (italiani, ma anche marocchini, 163 in senso spregiativo), i Palookas (pugili mediocri, gorilla), i Romeos (amanti da strapazzo) e poche altre figure tipiche, con cui, dopo Hollywood, si misurarono tutte le altre cinematografie nazionali che raccontavano gli italiani. I tratti somatici e il colore della pelle, il dominio delle emozioni e delle passioni (sensualità, gelosia, vendetta) erano i caratteri etnici più spesso rappresentati nell'epoca precedente al sonoro. Non erano immagini lusinghiere, come è facile intuire: ma questa precoce impostazione razzista era destinata a sfumare, poi a venire meno. The Italian178 fu il primo film muto di grande fattura (e successo) a mostrare simpatia per gli emigrati italiani: narrava le vicende di un emigrante a New York, un ex gondoliere veneziano riconvertitosi in lustrascarpe, vittima degli imbrogli di capibastone di diverse nazionalità179. Un indegno polpettone, per la verità, ma amichevole nei nostri confronti. E negli anni Trenta l’umorismo etnico, sdoganato dai Fratelli Marx, avrebbe contribuito a stemperare la critica razziale in un'allegra mescolanza: dove tutti i popoli erano messi in ridicolo, le diffidenze scemavano. Il cambiamento fu graduale ma significativo. Lo stereotipo dell'italiano, che combaciava inizialmente con il pregiudizio negativo, è sfociato ormai dopo quasi un secolo in un lieto fine cinematografico, che segna la vittoria dell'amore (quasi cieco) per la moda, lo stile di vita, il cibo italiani; oltre, ovviamente, all'apologia incondizionata delle villeggiature in Toscana. Il merito – si dice – è anche degli italiani in America, che si sono integrati più degli altri popoli, senza invocare lo stato di vittime e quasi sempre tenendo fede all’american dream: la possibilità per tutti di migliorare le proprie condizioni di partenza. Due sono le tappe significative di questa metamorfosi di immagine. La prima coincide con la conclusione della Seconda Guerra Mondiale, quando si celebrò la vittoria contro 178 The Italian, di Reginald Barker USA, Paramount, 1915. Inizialmente, il film si sarebbe dovuto intitolare The Dago. 179 Di qui in avanti, attraversando gli anni della Grande Depressione, esiste una vasta produzione di film sul lavoro degli immigrati che ha probabilmente il suo culmine in Cristo fra i muratori di Edward Dmytryk, (Give Us This Day, Plantagenete, Gran Bretagna 1949), girato in Inghilterra per l’ostracismo che, nell’età maccartista, aveva colpito il suo regista (nella distribuzione negli Stati Uniti il titolo diventerà Christ in Concrete). La storia del muratore italiano obbligato a un lavoro nero di cui sarà vittima, viene narrato coniugando marxismo e solidarismo cristiano, e risente delle influenze dell’espressionismo tedesco e del neorealismo italiano. 164 l’oppressione su basi etniche (nazismo e fascismo). Spaventata dallo spettro del razzismo, Hollywood fu costretta a volgere lo sguardo sull’America stessa e a denunciare discriminazioni e disuguaglianze sociali. L’immagine dell’immigrato italiano (il lavoratore, il delinquente, il soldato, con le donne come comprimarie) assunse allora nuove, imprevedibili forme. I pezzenti cedettero il posto ad altri tipi umani, come il danaroso playboy di Un amore splendido180, oppure il losco editorialista di Piombo rovente181. La seconda tappa, più significativa, risale agli anni Sessanta e soprattutto Settanta, quando il cinema recepì il messaggio dei diversi movimenti per i diritti civili. Essi non solo chiedevano giustizia sociale e maggiore uguaglianza ma, contemporaneamente, celebravano le radici nazionali, l’appartenenza etnica, l’orgoglio per la tradizione. Hollywood ne fu influenzata in due modi. Innanzitutto, le major, i produttori e i cineasti colsero l’opportunità di sfruttare commercialmente quest'onda culturale e politica182. Secondariamente, molti autori che si identificavano con una precisa realtà etnico-sociale trovarono l’occasione per raccontare su pellicola gioie e dolori dell'essere minoranza etnica. Gli italoamericani, insieme con i neri d’America e gli ebrei americani, conquistarono gli schermi. Ma i primi, più dei colleghi marginalizzati, stentarono a rinunciare completamente al proprio stereotipo, a quelle maschere che, a teatro e poi al cinema, li avevano resi amabili. E le maschere trionfarono. La femmina. Nel corso dei secoli, l'italiano – artista, saggista o semplice maschio di famiglia – si è prestato a offrire un’immagine ideale e idealizzata delle proprie conterranee. Da una parte tale immagine ha pescato dal grande bacino delle passioni lussuriose, ritraendo la femmina italiana nella pienezza degli attributi del proprio genere. Dall'altra, secoli di cattolicesimo ne hanno esaltato la vocazione di supporto, di spalla: come custode del focolare e del talamo; come compagna di un uomo, grande o piccolo; come icona mariana della santa, dell'umile vestale, 180 An Affair to Remember, di Leo McCarey, Twentieth Century Fox-Wald, USA 1957. Sweet Smell of Success, di Alexander Mackendrick Hill, Norma ProductionsCurtleigh Productions-Hill-Hecht-Lancaster Productions, USA 1957. 182 Nel 1967 venne meno il Codice Hayes, che permise di rappresentare con assai maggiore crudezza, in primo luogo, il classico binomio sesso-violenza. 181 165 della virgo illibata. Così è per Anna Magnani, protagonista di La rosa tatuata (The Rose Tattoo, di Daniel Mann, Paramount Pictures, USA 1955). Serafina è una vedova siciliana che nel profondo Sud degli Stati Uniti passa tre anni chiusa in casa, dedita a coltivare la memoria del marito, finché compare Alvaro Mangiacavallo, un nerboruto camionista (proprio come il suo precedente consorte) interpretato da Burt Lancaster. I pettegolezzi delle vicine le fanno scoprire che, quando era in vita, il marito faceva il corriere di droga e aveva un’amante. Quanto è opportuno tenere il lutto per un mascalzone? Dapprima incredula, Serafina finisce con il rompere l’urna con le ceneri del marito e, tra le braccia di Alvaro, dà addio alla vedovanza. Tratta da un dramma scritto cinque anni prima da Tennessee Williams appositamente per la Magnani 183, la vicenda strappalacrime esaltò le doti attoriali di Magnani, che ottenne un Oscar, e permise il successo internazionale del film. La grande attrice è ancora protagonista, al fianco di Anthony Quinn, di un altro successo come Selvaggio è il Vento184, pellicola ancor più spiccatamente melodrammatica, dove è però protagonista un uomo, un contadino vedovo. Gino sposa la cognata Gioia, ma non riesce a dimenticare la consorte defunta, spingendo la nuova moglie frustrata a tradirlo con il figlio adottivo. E sempre la vedovanza è il tema del film che segna il primo pieno successo americano per Sofia (ora Sophia) Loren, Un marito per Cinzia185. Come Magnani, la Loren è un'attrice che fonde lo stereotipo del personaggio interpretato con il proprio personale, compreso il fisico da maggiorata. Qui recita accanto a Cary Grant, il quale impersona Tom Winston, un avvocato rimasto vedovo con tre figli ancora piccoli. Il più grande scappa di casa e incontra una giovane italiana dell'alta società, Cinzia, a sua volta fuggita dal padre, che si ferma con i ragazzi in qualità di baby sitter. L’avvocato non solo la assume ma, dopo una serie di inevitabili complicazioni, le propone di sposarlo. Nello stesso anno, la Loren recitò in un altro successo, 183 L'attrice non lo recitò mai, per la sua scarsa conoscenza dell’inglese. L’autore si convinse così a cederne i diritti cinematografici, alla doppia condizione di assegnare la parte principale alla Magnani e di stenderne egli stesso la sceneggiatura. 184 Wild Is the Wind, di George Cukor, Paramount Pictures-Wallis-Hazen-Nathan, USA 1957. 185 Houseboat, di Melville Shavelson, Paramount Pictures, USA 1958. 166 Orchidea nera186, il cui soggetto riguarda però una duplice vedovanza. Rose Bianco si mantiene a stento fabbricando fiori finti, dopo che il marito, un piccolo gangster, è stato ucciso dai suoi stessi complici. Rose è amareggiata dall’arresto del figlio, che si è a sua volta incamminato lungo la carriera del crimine. Dalla sua, Frank Valente (Anthony Quinn) anziano vedovo italoamericano, entra in conflitto con l’unica figlia quando manifesta il desiderio di sposare la donna. Di qui peripezie, drammatiche e commoventi, che si sciolgono in un lieto fine, allorché il figlio di Rose accetta la pena dopo una tentata evasione e la vedova riesce a farsi accettare dalla figlia del promesso sposo. Un deciso cambiamento di tono, un anno più tardi e con la medesima coppia di attori protagonisti, è rappresentato da Il diavolo in calzoncini rosa187. È una commedia western dove però — nonostante le avventure con banditi, indiani cattivi e giocatori — il vero soggetto è la vita degli attori: il rapporto tra l’arte e la fantasia, da un lato; dall'altro, la dura realtà, dove la dissimulazione assume un diverso significato. La storia della compagnia girovaga che approda in un villaggio puritano è entrata nella storia del cinema soprattutto per la fotografia, molto diversa da quella tradizionale dei film western e che il regista George Cukor volle particolarmente curata. La Loren, sempre per volere del regista, vi appare in una strana versione, fortemente dimagrita e straniata da una parrucca bionda. E tuttavia la sua Angela – vivace, incontenibile e spendacciona – è pur sempre una fatale seduttrice italiana. Nello stesso giro d’anni entrò nella cerchia delle grandi produzioni internazionali Gina Lollobrigida, un’altra attrice che, come la Loren, finì col rappresentare l'italiana di Hollywood, apportandovi i caratteri consolidati nelle precedenti, celeberrime produzioni italiane: la popolana con il cuore in mano, la maggiorata dalla sensualità schietta e verace. Lo stereotipo sopravvisse ben oltre gli anni Settanta: anche un lavoro non spregevole della fine degli anni ottanta, True Love188, esalta il matrimonio come l'unico possibile destino femminile, pur trattandolo con grande realismo sotto il profilo psicologico. Nel Bronx italiano Donna, una romantica ragazza italoamericana interpretata dalla sempre italoamericana Annabella Sciorra, sembra determinata a sposare un Michael piuttosto riluttante. È un cliché un po' logoro, che 186 The Black Orchid, di Martin Ritt, Paramount, USA 1958. Heller in Pink Tights, di George Cukor, Ponti-Paramount, USA 1959. 188 True Love, di Nancy Savoca, J&M Entertainment, USA 1989. 187 167 a cavallo del millennio funziona ormai solo in certi tipi di commedia. Dagli anni novanta in poi anche la donna italiana entra nell’immaginario filmico come individuo a sé, a prescindere dai vincoli coniugali. Il matrimonio è un’opzione tra le altre, che non esclude una vita pubblica, impegnata, persino avventurosa. Lo sta a testimoniare una pellicola recente, la biografia romanzata di Kuki Gallman, comparsa nelle sale italiane con il titolo Sognando l'Africa189. Tratto dall’autobiografia di Gallman, scrittrice italiana naturalizzata keniota, il film arruola Kim Basinger per raccontare la metamorfosi di una donna dell'alta società, Kiki; soprattutto il suo trasferimento in Kenya, nel 1972, insieme al secondo marito, Paolo, e al figlio Emanuele, che scompaiono in circostanze tragiche. Una vedova, tanto per cambiare. Il maschio. Se, sul grande schermo, la donna ha una missione primaria, cioè quella di riuscire a sposare un uomo, è altresì vero che l’uomo ne ha una simmetrica, forse altrettanto impegnativa: quella di fare innamorare le donne. Il cinema realizzò molto presto, alle origini del mito del latin lover, come il maschio italiano fosse il più adatto al compito. Rodolfo (o Rudolph) Valentino190 è probabilmente il più noto divo del cinema muto ed è, indubbiamente, uno degli italiani più noti all'estero di tutti i tempi. Quanto mai moderno nel suo magnetismo, lontano dai modelli reali e letterari di un Casanova o di un Don Giovanni, Rudolph univa innegabili meriti di attore (riconosciuti dallo stesso Charlie Chaplin) e di ballerino a tratti personali e caratteriali piuttosto spiccati, a una tempestosa vita sentimentale fuori dal set, all’interpretazione di personaggi perfettamente studiati per farne risaltare le doti. Immigrato di prima generazione, sbarcato a New York nel 1913 per trasferirsi a Hollywood in un secondo tempo, realizzò il sogno americano nel modo più rapido e spettacolare 189 I Dreamed of Africa, di Hugh Hudson, Columbia Pictures Corporation-Jaffilms, USA 2002. In memoria dei suoi cari Gallman ha fondato nel 1984 un'organizzazione che si occupa della salvaguardia dell'ambiente, organizzando poi molte altre iniziative umanitarie e scientifiche. 190 Valentino è il nome d’arte di Rodolfo Alfonso Raffaello Pierre Filibert Guglielmi di Valentina D'Antonguella, (Castellaneta 1895 – New York 1926). Era figlio di una famiglia non poverissima della provincia di Taranto, che gli aveva permesso di affinare la sua arte di ballerino durante un lungo soggiorno a Parigi, al seguito del quale era emigrato in cerca di fortuna nel mondo dello spettacolo. 168 concesso a un giovane italiano – surclassando le pur fulminee carriere di Capone e Luciano – finché una morte precoce per peritonite lo strappò alle scene nel 1926, a trentun anni appena, consegnandolo al mito. Valentino non riuscì a vedere il suo ultimo film, Il figlio dello Sceicco191, che conobbe diverse riedizioni fino alla soglia degli anni Sessanta192. Il giorno dei funerali (anzi, dei doppi funerali, giacché si organizzarono due cortei funebri, rispettivamente a New York e a Hollywood) la sua triste e prematura scomparsa scatenò scene di isteria collettiva e decine di suicidi. Negli anni successivi, una misteriosa donna velata continuò a depositare fiori sulla tomba del sex symbol a ogni anniversario – inaugurando una tradizione di stalking post mortem che dura felicemente ancora oggi. Vari attori italiani reincarnarono il mito di Valentino nelle produzioni internazionali. Intanto, come si è visto, Rossano Brazzi nella sua fase hollywoodiana; ma soprattutto, negli anni Sessanta e Settanta, Marcello Mastroianni, ben più celebre del compatriota grazie alle pellicole italiane girate in coppia con Sophia Loren, firmate da registi del calibro di Fellini e De Sica193. L’ironico distacco di questo latin lover trova affermazione in un’opera più tarda, in cui è lo sguardo straniero – quello del regista russo Nikita Sergeevič Mikhalkov – a rendere possibile un malinconico riassunto della vita del seduttore italiano. Il film è Oci ciornie194, in cui un mattino, su un battello, un gentiluomo italiano di mezza età di nome Romano Patroni narra la storia della propria vita a un russo. La narrazione, ispirata a un racconto di Čechov, è incentrata sull’incontro con una giovane russa dai magnifici occhi neri, sull’amore di una notte e sull’abbandono repentino da parte di lei, in seguito al quale l’uomo parte per cercarla 191 The Son of the Sheik, di George Fitzmaurice, Feature Productions, USA 1926. È il seguito de Lo sceicco di George Melford, (The Sheik, Paramount Pictures, USA 1921). Nella quindicina di titoli che lo videro protagonista, spiccano I quattro cavalieri dell'Apocalisse di Rex Ingram (The Four Horsemen of the Apocalypse, Metro Goldwyn Mayer, USA 1921), La signora delle camelie di Ray C. Smallwood (Camille, Metro Goldwyn Mayer, USA 1921), Sangue e arena di Fred Niblo (Blood and Sand, Paramount, USA 1922), L’aquila di Clarence Brown (The Eagle, United Artists, USA 1925) 193 In particolare per Federico Fellini interpretò La dolce vita (Riama-Pathé, ItaliaFrancia 1961) e 8½ (Rizzoli, Italia-Francia 1963) e per De Sica Ieri, oggi, domani (Ponti, Italia-Francia 1963). 194 Si tratta di una coproduzione Italia-USA-URSS (Excelsior Film-TV-Radiotelevisione Italiana-Adriana International Corporation 1987). 192 169 per tutta la Russia, lasciando la moglie. Romano è un mentitore seriale, un cinico morbido e malinconico, che ha paura della felicità quando riesce a raggiungerla. Il mito dell’amante italiano sul grande schermo si mantiene intatto attraverso i decenni, anche se non sono molti, nella storia del cinema, i divi che sono eletti a incarnarlo. Con il tempo, le storie in cui è protagonista il maschio nostrano guadagnano trame sempre meno ovvie. Un esempio è il film Ti amerò... fino ad ammazzarti195, che racconta le peripezie di Joey, pizzaiolo italoamericano, che non riesce a nascondere le proprie infedeltà alla moglie. Costei, quando ne viene a conoscenza, trasforma i progetti di suicidio in quelli di una vendetta omicida: un piano fallimentare a causa dell’incapacità dei suoi complici, che dà origine a un intreccio tra il comico-grottesco e il noir. In un contesto volutamente ed esageratamente stereotipato (pizza-passione-machismo), il finale stupisce un po': ferito nell’ultimo tentativo di omicidio perpetrato dalla moglie, Joey guarisce e si converte al ruolo di marito fedele. Mister Wonderful196 è invece una commedia sentimentale che racconta la nuova posizione dell’immigrato italiano a seguito delle trasformazioni culturali degli ultimi decenni del secolo. Un giovane elettricista di New York (Matt Dillon) nutre il sogno di aprire una sala da bowling insieme agli amici, ma non dispone di denaro sufficiente a causa degli alimenti che deve passare all'ex consorte (la solita Annabella Sciorra), un'italiana emancipata che vuole studiare e farsi una vita nuova e più ambiziosa. Decide così di cercarle un nuovo marito per risolvere i propri guai economici. Il finale racconta il ricongiungimento dei due. È una chiusura che segue a un tentativo frustrato di apertura culturale. Non una bella morale, tutto sommato: è davvero meglio per tutti che gli immigrati rinuncino alle proprie ambizioni e finiscano con lo stare fra di loro? Significativi, in tal senso, sono due remake di lavori italiani che avevano affrontato il tema dell’amante italiano in anni precedenti, e dunque in un contesto culturale palesemente diverso. Il primo 195 I Love You to Death, di Lawrence Kasdan, Chestnut Hill Productions-TriStar Pictures, USA 1990. Il film, che vede nella parte del protagonista lo spassosissimo Kevin Kline, è tratto da un reale fatto di cronaca. 196 Mr. Wonderful, di Anthony Minghella, Night Life Inc.-Samuel Goldwyn Company, USA 1993. 170 rappresenta un fiasco197 tra i più rilevanti del primo decennio del ventunesimo secolo. Il film è Travolti dal destino198, rifacimento, a quasi trent’anni dall'originale, dell’italianissimo Travolti da un insolito destino nell'azzurro mare d'agosto199 di Lina Wertmuller, dove un rude marinaio, meridionale e comunista, e una ricca e prepotente milanese, si ritrovano naufraghi su un'isola deserta mediterranea. Qui la donna diventa succube dell’uomo, che la rende bersaglio della sua frustrazione sessuale e sociale. Nel rifacimento mancano del tutto i riferimenti politici dell’originale, nonché la contrapposizione tra Nord e Sud. Ne scaturisce, molto semplicemente, una storia d'amore fra due persone di rango molto diverso e una superficiale riflessione su quanto l’etichetta e la cultura possano nascondere la natura degli individui. Certo, rimane forte la connotazione italiana di Giuseppe, che non manca di sembrare ridicolo nel suo machismo. Non è altrettanto brutto il secondo remake, Nine200, ricavato da un musical esplicitamente ispirato a 8½ di Fellini. La trama è quella famosa del film felliniano per cui, nella Roma degli anni Sessanta, il regista Guido non trova idee per il suo nuovo lavoro. Scivola dunque nella rievocazione delle donne della propria vita e poi in una serie di sogni e fantasie intrecciati a vicende reali; finché non esce dall’impasse decidendo di abbandonare il progetto iniziale per girare una pellicola su se stesso e le proprie fantasticherie. Pur prendendosi molte libertà, il rifacimento, girato a Cinecittà, rispetta la trama e, soprattutto, lo spirito dell’originale. Guido è circondato da archetipi femminili (la moglie fedele, la musa ispiratrice, la consigliera, la seduttrice, l’amante focosa, la mamma, la prostituta) che lo rimandano continuamente a se stesso, sino alla finale accettazione di sé e della propria esperienza. Non c’è una vera morale né è facile comprendere che ne sia stato infine del latin lover, dagli anni del muto alla dissacrazione postfelliniana. Forse, dopo un quarantennio, anche l’America è pronta ad accettare la fine di un mito, a uscire da quel lungo lutto inaugurato 197 La stessa regista dell’originale ha dichiarato di avere ceduto i diritti del film a Madonna per stima personale, ma che in seguito, visti i risultati di critica e di incasso, si è fortemente pentita di tale decisione. 198 Swept Away, di Guy Ritchie, Screen Gems-SKA Films-Codi S.p.a., Italia-USA 2002. 199 Travolti da un insolito destino nell'azzurro mare d'agosto, Medusa, Italia 1974. 200 Nine, di Rob Marshall, Weinstein Company-The-Relativity Media-Marc Platt Productions, Italia-USA 2009. 171 dalla morte di Valentino per fare, questa volta, i funerali a uno sterotipo. La coppia. Naturalmente moglie l’italiana, naturalmente seduttore l’italiano: questa, come si è visto, è la polarizzazione classica che viene riprodotta sul grande schermo. Un'asimmetria drammatica, ancor prima che falsa. Ma che cosa accade quando i due poli entrano in relazione? Ne risulta la prospettiva cinematografica sul matrimonio e sulla famiglia all'italiana. È un tema ricco anche solo a voler considerare situazioni cosiddette “normali”. Lo ha dimostrato il grande regista Joseph L. Mankiewicz con Amaro destino201, un film giocato sui ricordi dell'ex carcerato Max Monetti, che uscito di prigione vorrebbe vendicarsi della sua famiglia italoamericana. Il patriarca Gino Monetti (Edward G. Robinson con i baffi), banchiere e self-made man, aveva esercitato un rigido e perverso controllo sui tre figli. Arrestato per avere agito finanziariamente con mezzi illegali, Monetti era morto facendo scoppiare le tensioni familiari che covavano sotto la cenere: il mal digerito rapporto tra i figli e il padrepadrone; la forzata sottomissione delle donne della famiglia. Max ne ripercorre la storia e arriva a una soluzione: la brama di vendetta e le rigidità tutte italiane dei Monetti si sciolgono in un riscatto finale, un happy ending tutto americano. La famiglia come destino e, insieme, punto di non ritorno nella vita degli italiani è protagonista, in un’altra atmosfera e in tutt’altro contesto socioeconomico, anche nella commedia Marty, vita di un timido202. Celebrato dalla storia della cinematografia203, ambientato nel Bronx degli italoamericani, narra le vicende socio-sentimentali di Marty Piletti, un trentaquattrenne macellaio non precisamente avvenente – interpretato dal brutto e bravissimo Ernest Borgnine – 201 House of Strangers, Twentieth Century Fox Film Corporation, USA 1949. Susan Hayward e Richard Conte sono i protagonisti, rispettivamente la bella Irene e Max, che ella cerca di convincere a non vendicarsi. 202 Marty, di Delbert Mann, Hecht-Lancaster Productions-Steven Productions, USA 1955. 203 Fu il primo prodotto che, nato come teledramma, venne ripreso per il cinema. Guadagnò ben sette candidature agli Oscar, vincendone quattro: miglior film, regia, sceneggiatura e miglior attore a Ernest Borgnine. 172 che vive ancora con la madre vedova, e di una maestrina di origine italiana, non più nel fiore degli anni. Rassegnato a rimanere celibe, mentre i familiari gli fanno pressioni perché si accasi, il nostro antieroe conserva un carattere ottimista e gioviale, che contrasta col suo aspetto fisico e il suo scarso appeal. Un sabato sera, in una sala da ballo, incontra una fanciulla bruttina e sguarnita, che piange perché il suo accompagnatore l'ha abbandonata al proprio destino. Di lì fino alla domenica sera i due si conoscono e si innamorano. Il macellaio vorrebbe rivedere la ragazza, ma viene dissuaso: dagli amici ma, soprattutto, dalla zia vedova che teme la solitudine della sorella, la madre di Marty. Nonostante le pressioni familiari e sociali abbiano preso una direzione contraria, Marty mostra uno scatto di orgoglio e d'intraprendenza e decide infine di telefonare alla sua maestrina. Un vero scacco per la mamma italica. La solidità del tessuto familiare italiano è messa in crisi dallo spirito dissacrante del grande regista Roman Polanski che, anni dopo e proprio in Italia, racconta in Che?204 le avventure italiane di un’avvenente turista americana, Nancy (Sydney Rome). Sfuggita a uno stupro da parte di un automobilista che le aveva offerto un passaggio, la giovane si rifugia in una villa sulla costa sorrentina, dove la sera precedente il proprietario Alex (Marcello Mastroianni) e suoi eccentrici ospiti hanno consumato una pantagruelica cena. Mentre gli abitanti si dimostrano quasi indifferenti alla sua presenza, Nancy vive tra loro due giorni di esperienze surreali e caotiche che hanno spinto la critica a parlare di una trasposizione in chiave erotica delle vicende di Alice nel Paese delle Meraviglie. Il ritorno alla normalità sarà segnalato molti anni dopo dal film di Norman Jewison, Stregata dalla luna205, che narra la storia di un matrimonio obbligato. Loretta (Cher) è una giovane vedova che vive a Brooklyn con i propri familiari, e che decide di sposare Johnny (Danny Aiello), un altro italoamericano, pur non essendone innamorata. Johnny deve partire improvvisamente per la Sicilia e si fa promettere da Loretta che inviterà al matrimonio suo fratello, Ronny (Nicholas Cage), con cui ha smesso di parlare da anni. Quando la vedova incontra il futuro cognato scoppia la passione, e vani sono i tentativi di soprassedere. Il lieto fine è d’obbligo: Johnny torna e 204 205 What?, Champion-Concordia-Geissler, Italia-Francia-Germania Ovest 1972. Moonstruck, Metro-Goldwyn-Mayer (MGM)-Star Partners, USA 1987. 173 dichiara a Loretta di non volerla più sposare, e subito Ronny si fa avanti al suo posto. Il film termina con un brindisi collettivo «alla famiglia». C'è un dato singolare che il cinema hollywoodiano costringe a registrare: dal momento che il tessuto sociale degli immigrati italiani continua a fare il suo dovere, la coppia italoamericana si mantiene solida, perfino quando non si parla di un uomo e da una donna. Lo mostra Baciami Guido206, dove incontriamo l’ennesimo giovane pizzaiolo italoamericano che coltiva un proprio sogno: questa volta quello di diventare attore. Frankie decide di lasciare il lavoro nel locale di famiglia e di cercare casa. Risponde così a un annuncio siglato «GWM», pensando significhi «ragazzo fornito di denaro» ( Guy With Money), che sta invece per «ragazzo gay bianco» (Gay White Male). In seguito all’equivoco si trova a condividere l'abitazione con un attore gay, Warren, da poco abbandonato dal fidanzato regista, Dakota. Quest’ultimo, per fare ingelosire il proprio ex, chiede a Frankie di indossare i panni di un presunto Guido, somma dei più triti stereotipi dell’italoamericano. Dakota offre all'ex una parte in una commedia: Warren, impossibilitato a recitare, consente a GuidoFrankie di sostituirlo. Tra mille vicissitudini lo spettacolo va in scena con successo e, alla festa che segue, tutte le relazioni si ricompongono. Anche Mambo Italiano207 del canadese Émile Gaudreault parla di amori omosessuali, ma qui la protagonista è una vera coppia. Angelo è un avvenente giovane della comunità italo-canadese, che si vede con Nino, un giovane poliziotto che conosce fin dall'infanzia. A differenza di Angelo, che le vive con disinvoltura, Nino nasconde le proprie tendenze sessuali ai genitori. Quando i suoi iper-tradizionalisti familiari scoprono la verità, il poliziotto rompe con il fidanzato, si sposa e inizia a condurre una doppia vita, mentre Angelo realizza il sogno di diventare autore televisivo e si rifidanza. Si tratta di una commedia fastidiosamente istruttiva, perché tratta consapevolmente delle possibili conseguenze degli scontri tra culture marginali208. Il suo difetto è però quello di essere abbondantemente condita dai più 206 Kiss Me, Guido, di Tony Vitale, Capitol Films-Redeemable Features, USA 1997. Mambo italiano, Cinémaginaire, Canada 2003. 208 La sceneggiatura deriva da un’opera teatrale di Steve Galluccio. Questo scrittore è successivamente diventato autore di una famosa serie televisiva, Ciao Bella (CBC, Canada 2003-2004), dedicata ai temi dello scontro tra culture. 207 174 classici luoghi comuni intorno agli italiani, mentre sembra decisamente più politically correct quando si riferisce all'universo gay. L’immigrato. Anche sul grande schermo la coppia italiana, intesa come nucleo familiare elementare, è a sua volta una cellula di un più vasto tessuto sociale ed economico: di solito, nei film hollywoodiani, quello costituito dagli italiani immigrati all'inizio del Novecento. Questo si rivela più forte e coeso che mai quando la famiglia si trova in palese difficoltà, come accade in Un uomo da vendere209, del (quasi) sempre ottimista Frank Capra, grande regista (di origini italiane) di commedie brillanti e sofisticate. È il ritratto di un uomo maturo – l’ennesimo vedovo italoamericano – che vive con un figlio dodicenne: un cosiddetto «bum», una nullità, che vive di espedienti violando le dure regole dell’economia. Frank Sinatra210 è Tony Manetta, che ripete il canovaccio che conduce il vedovo al matrimonio con una vedova (questa volta una super-sexy Eleanor Parker), al termine di pesanti vicissitudini. La consacrazione cinematografica del cantante italoamericano era già avvenuta anni prima, con il film Da qui all’eternità. Il successo del film, oltretutto, aveva salvato la carriera del Sinatra cantante, dopo anni di declino presso il pubblico e presso la critica, consegnandolo al divismo hollywoodiano. Frank rappresentava una perfetta fusione tra individuo, personaggio dello spettacolo (dove aveva scarsa importanza che fosse più attore che cantante, o viceversa) e i personaggi recitati nei film o ritratti nelle canzoni. La sua integrazione nella società americana, con l'ingresso a Hollywood, raggiunse i massimi livelli, se si considerano le sue amicizie nel jet-set e nella politica. Fin dai tempi della presidenza di Roosevelt, Sinatra si mostrò capace di influenzare l’elettorato con il suo magnetismo, come dimostrò l’elezione di John F. Kennedy e il corteggiamento di cui, anni dopo, fu oggetto da parte di Nixon e di Ronald Reagan per la campagna elettorale. Aldilà dei ruoli interpretati nel cinema, insomma, Sinatra portava sulle scene e nel jet-set il caso non così infrequente di un italiano che aveva sfondato, che si era appropriato del sogno americano. 209 A Hole in the Head, di Frank Capra, SinCap Productions, USA 1959. Il film conseguì un Oscar per la canzone High Hopes, utilizzata l’anno successivo nella campagna presidenziale a favore di John F. Kennedy. 210 175 Ben più pessimistica è la prospettiva offerta da pellicole come Uno sguardo dal ponte211. Tratta dall’omonimo dramma di Arthur Miller, è la storia di Eddie Carbone, scaricatore portuale di Brooklyn, che nutre per la nipote diciottenne Caterina una gelosia morbosa. Quando si trova a ospitare due italiani immigrati clandestinamente, non tollera che tra la nipote si interessi, ricambiata, a uno dei due e inizia a temere che costui stia cercando un matrimonio che gli valga la cittadinanza americana. Inizia quindi a provocarlo sistematicamente212, sino a denunciarlo e a farlo arrestare; l’esito è tragico per lo stesso persecutore. Ma la storia dello stereotipo dell’italiano emigrato conosce un punto di svolta negli anni Settanta, a motivo di due film che cambiano scenari e prospettive. Il primo è il celeberrimo La febbre del sabato sera213. Al centro della trama è una coppia di ballerini newyorkesi, Tony Manero (John Travolta) e Stephanie Mangano (Karen Lynn Gorney). Superficiale il primo, più matura la seconda, non sono destinati a diventare una coppia: nemmeno quando Tony, in seguito a una bravata finita male, si decide a rivedere il proprio atteggiamento. È un affresco del mondo dei giovani nella New York degli anni Settanta, che offre uno spaccato delle contrapposizioni tra bande di etnie collocate su gradini diversi della scala sociale 214. La vicenda di Tony lascia trasparire un clima di malessere giovanile 211 Vu du pont, di Sidney Lumet, Transcontinental Films-Produzioni Intercontinentali, Italia-Francia 1962. 212 Tra il pubblico suscitò grande scalpore la scena in cui il protagonista, Raf Vallone, bacia sulla bocca Jean Sorel per umiliarlo. 213 Saturday Night Fever, di John Badham, Robert Stigwood Organization (RSO), USA 1977 214 Il film è ispirato a un'inchiesta giornalistica di un quotidiano newyorkese sulla vita notturna delle comunità povere metropolitane, contro la vita mondana delle classi agiate di Manhattan, protagoniste di serate fastose negli storici templi della disco music come lo Studio 54. La trama intende affrontare problemi ancora attuali, come l'emigrazione, l'uso di stupefacenti nelle discoteche, il razzismo (anche contro i protagonisti italo-americani, accusati di pigrizia) e la violenza tra bande. Le riprese in discoteca furono effettuate in un vero club di New York, il 2001 Odyssey, nell'estate del 1977. Famosissime le sequenze dei balli, basate sui grandi successi degli anni settanta, tra cui spiccano le canzoni originali dei Bee Gees, che in seguito al film ritrovarono una nuova stagione di gloria. Di grande effetto sono le scene girate presso il ponte di Verrazzano. 176 quasi astratto, segnato dalla mancanza d'ideali e prospettive 215, che si sfoga nella continua ricerca di evasione. Dopo avere ribadito il proprio talento di attore ballerino con Grease - Brillantina216, all’inizio degli anni Ottanta John Travolta replicò la sua prima storia italoamericana con Staying Alive217, il sequel firmato da Stallone che vede Tony Manero alla ricerca del successo, conteso tra una ragazza che lo ama e una donna ricca e capricciosa. Oltre a determinare decisive influenze sul costume su scala mondiale (la moda «disco»), le due pellicole giunsero in Italia al termine di un buon decennio di politicizzazione e servirono a caratterizzare con il titolo di "travoltismo" l’inizio dell’era del cosiddetto riflusso degli anni ottanta. Un’altra pellicola sugli italoamericani vede cimentarsi il grande regista statunitense Robert Altman. Si tratta di Un matrimonio218: in una località imprecisata del Michigan hanno luogo, per l'appunto, le nozze tra i rampolli di due ricche famiglie, Dino Corelli e Muffin Brenner. In realtà si tratta di una violenta satira dell’istituto familiare, che frustra i tentativi di integrazione e di mescolanza tra etnie e classi sociali diverse. Mentre Dino è discendente di una facoltosa famiglia imprenditoriale, Muffin è figlia di un nuovo ricco. La cerimonia rispetta tutti i riti previsti, ma si svolge lungo una serie di tragicomiche peripezie, fino allo scandalo finale: lo sposo avrebbe messo incinta la sorella della sposa. Questa piega inaspettata degli eventi mette in luce le differenze sociali e culturali tra le due famiglie. Nell’epilogo il padre di Dino, accasato il figlio, si dichiara finalmente sciolto dal patto coniugale e abbandona il luogo dei festeggiamenti. Altman, attingendo per la trama ai propri ricordi familiari, potenzia ancor di più il metodo "epico" (già utilizzato in Nashville)219: quello di fare interagire molti personaggi senza soffermarsi su alcuno di loro, ottenendo un effetto corale, simile a quello di una tragedia 215 In realtà nel film la crisi economica degli anni Settanta, la fine del conflitto vietnamita, della corsa allo spazio e dei movimenti studenteschi non vengono mai citate. 216 Grease, di Randal Kleiser, Paramount Pictures-Robert Stigwood Organization (RSO)-Allan Carr Production, USA 1978; ebbe un sequel, meno fortunato e con tutt’altro cast: Grease 2 (di Patricia Birch, Paramount Pictures, USA 1982). 217 Staying Alive, di Sylvester Stallone, Paramount Pictures-Cinema Group Ventures, USA 1983. 218 A Wedding, di Robert Altman, Lion's Gate Films, USA 1978. 219 Nashville, di Robert Altman, ABC Entertainment-Paramount Pictures, USA 1974. 177 contemporanea. La denuncia sociale risulta amplificata dalla varietà dei punti di vista e dalla frammentazione del filo narrativo. Anche Jungle Fever220 è un film di denuncia con una trama piuttosto lineare: un architetto nero di New York, sposato e con una figlia, intrattiene una relazione con la segretaria italoamericana, che a sua volta mantiene il padre e due fratelli. A causa dei pregiudizi degli ambienti in cui sono cresciuti, vengono cacciati dalle rispettive famiglie, anche se finiscono con il tornarvi. La storia è semplice ma il messaggio, esaltato e scandito dalle immagini metropolitane, ha contribuito al successo del film. Il soggetto dell'adulterio serve all'autore, il nero Spike Lee, per affrontare i temi che gli stanno a cuore, tra cui quello dei rapporti interrazziali221. Dell’anno successivo è, invece, un'altra intelligente critica alla famiglia come cardine sociale delle comunità degli emigrati italiani. Ambientato a New York nei primi anni Cinquanta, Mac222 racconta la storia del primogenito dei tre fratelli Vitelli, italoamericani di seconda generazione. Dopo la morte del padre, Mac e i fratelli si licenziano dal cantiere in cui lavorano per l'iracondo e truffaldino Polowski e aprono una propria impresa di costruzioni. Il loro intento è quello di impostare il lavoro su basi diverse da quelle del servaggio, che sembra essere una tradizione condivisa tra gli impresari edili. Eppure, dopo la fondazione della Vitelli Brothers Construction, Mac non riesce a evitare di intrappolare i fratelli nei vincoli di una spietata rete familiare, schiacciandoli con il proprio perfezionismo in un nuovo rapporto di sudditanza. Finché i fratelli-sudditi, ovviamente, si ribellano e lo 220 Jungle Fever, di Spike Lee, Universal Pictures-40 Acres & A Mule Filmworks, USA 1991. 221 Nella prima versione il film si apriva con Lee seduto su una gru che, in veste di regista, apostrofava il pubblico con queste parole: «Tutto ciò che ho sono domande. Pochi di noi hanno risposte reali. Molti di noi hanno false risposte per false soluzioni. Parlano di cose non reali. Domande. È razzista una persona che, lui o lei, non approva una relazione o un matrimonio interrazziale? La donna bianca sarà sempre in tutto il mondo il simbolo della bellezza? E l'uomo nero sarà sempre considerato uno stallone e basta? Vivremo mai in pace tutti insieme? Domande. Questo film parla di una coppia interrazziale». Tale arringa era presente nelle visioni di prova a Los Angeles, New York e Chicago. La scena, dopo un’iniziale resistenza, fu poi tagliata dallo stesso Lee come si racconta in Spike Lee, Kaleem Aftab. Questa è la mia storia e non ne cambio una virgola, Kowalski editore, Milano 2005. 222 Mac, di John Turturro, Macfilm productions, USA 1992. 178 lasciano solo. Un disastro per la famiglia e l'impresa italiana: se non altro, il film di Turturro ha qualcosa di profetico. Lo sport. L’obiettivo degli immigrati non è stato da sempre quello dell’integrazione e della giustizia: la felicità, la cui ricerca è un diritto sancito dalla Costituzione degli Stati Uniti, è spesso stata interpretata come un'aspirazione individuale. Per esempio, ogni etnia presente sul suolo americano ha cercato la propria affermazione attraverso la concretizzazione di un sogno comune a tanti: quello del successo economico unito al prestigio sociale. Fin dall'inizio del Novecento, una delle vie praticabili è stata aperta dallo sport: in effetti, per coloro che stavano in basso nella scala sociale c'erano gli sport più rudi e più remunerativi. Fra tutti, la boxe era quello sembrava mettere la virilità al servizio del riscatto e del successo: quello più popolare nell’intero mondo degli immigrati, quello più spettacolare. La figura del pugile non tardò molto a entrare nel mondo del cinema e al maschio italiano toccò quasi subito competere sul grande schermo con gli atleti di altre etnia. La filmografia dalle origini a oggi comprende una nutrita lista di film che, ispirati o meno alla realtà, toccano spesso vertici qualitativi non trascurabili. Il primo di un certo successo è forse Lassù qualcuno mi ama223. È basato sull’autobiografia di Thomas Rocco Barbella, detto Rocky Graziano, celebre campione di boxe degli anni quaranta. Ne ripercorre l’infanzia sfortunata e difficile, il coinvolgimento in attività criminali, l’incarceramento, l’arruolamento nell’esercito e la diserzione; poi l’inizio dell’attività pugilistica, il nuovo arresto e la nuova ripresa dello sport professionistico. La boxe, ben prima del successo, gli fa conoscere la sconfitta e il lato più oscuro del mondo sportivo, fino al trionfo nell’incontro finale con Tony Zale. Paul Newman con il suo stile recitativo da Actors' Studio, il regista Robert Wise e la sua perizia nelle ricostruzione ambientali (qui, quella di Little Italy), insieme con alcune memorabili sequenze di pugilato lo rendono un film ben più che gradevole, anche se non epico. I due Oscar (miglior fotografia e miglior scenografia) e le menzioni a livello 223 Somebody Up There Likes Me, di Robert Wise, Metro-Goldwyn-Mayer, USA 1956. 179 internazionale ne testimoniano in qualche modo l'impatto che ebbe sull'immaginario del pubblico americano e italoamericano. Ma la pellicola sul pugilato di maggiore successo uscì ben vent’anni dopo. Rocky224 fonde nella figura fittizia di Rocky Balboa (Sylvester Stallone) due storici pugili, simili per nome e nazione d'origine: Rocky Marciano e Rocky Graziano. Ma ci sono altre fonti di ispirazione: l'acme della trama – il match con Creed – è ricalcato sul celebre combattimento tra Muhammad Ali e Chuck Wepner, tenutosi a Richfield nel 1975225; mentre per l’ambientazione a Filadelfia e alcuni sequenze dell'allenamento del protagonista il riferimento è la vita del celebre boxeur Joe Frazer. La storia è semplice: un palooka italiano coglie la grande occasione, la sfida gettatagli dal nero Apollo Creed, campione dei pesi massimi, e la vince contro ogni aspettativa, grazie al proprio spirito di sacrificio, fisico e morale. Semplice, ma di grande effetto sul pubblico, si rivela anche la trama secondaria: l'amore di Rocky per una ragazza imbranata e gentile, Adriana, che la trasforma da timida a donna matura, una compagna ideale per il pugile. Il film ottenne tre Oscar (per la regia, come miglior film e per il montaggio), sei nomination e un enorme successo di pubblico, grazie al quale il quasi esordiente Stallone, autore della sceneggiatura, divenne di colpo una star internazionale226. Il film inaugurò di fatto una delle serie più lunghe della storia del cinema, in cui Stallone si cimentò con la regia. Rocky II227 ripropone il 224 Rocky, di John G. Avildsen, United Artists-Chartoff-Winkler Productions, USA 1976. Wepner perse per K.O. al quindicesimo round, ma nessuno si aspettava che potesse resistere così a lungo all’avversario. 226 Durante le riprese, alcune scene o parti integrali della sceneggiatura originale sono state modificate o improvvisate a causa del modesto budget della produzione. La prima sceneggiatura era molto più triste e cruda: l'allenatore Mickey era un razzista e Rocky abbandonava l'incontro per non essere assimilato al mondo del pugilato. Stallone aveva scritto un altro finale, nel quale Rocky e Adriana si abbracciavano lungo il cammino verso lo spogliatoio, ma poi decise di scartarlo. La scena fu comunque girata e utilizzata come manifesto del film. La scena in cui Rocky vede il suo disegno sul poster con i pantaloncini sbagliati è un errore della produzione, che non poteva far ristampare il poster per via del budget, tanto che Stallone fu costretto a improvvisare la scena. Le scene di corsa sono tutte improvvisate, come il lancio dell'arancia a Rocky durante il film mentre corre nel mercato italiano. 227 Rocky II, di Sylvester Stallone United Artists-Chartoff-Winkler Productions, USA 1979. 225 180 protagonista dopo la nascita del primo figlio: depresso e disoccupato va incontro a un altro match epocale, che si rivelerà spettacolare e drammatico più del precedente. Rocky III228 sottopone il protagonista alla sua prima bruciante sconfitta su grande schermo: messo K.O. dal nero Mr. T, dopo la morte del suo fedele allenatore assume Creed, il suo ex avversario, per farne le veci. Apollo, in effetti, lo riporta sul ring carico di rabbia e, con questo nuovo elemento, il terzo sequel riuscì a incassare più del film pilota. In Rocky IV229 la vita dell’eroe — così come la resa cinematografica — conosce una profonda stanchezza. Il pugile appare fiaccato dagli agi della vita famigliare, esitante nell’accettare la sfida di Ivan Drago: quest'ultimo è una caricatura di pugile sovietico, una spietata macchina da pugni con un pessimo inglese. Rocky finisce con l'accettare il combattimento, che ovviamente lo porta a una vittoria moscovita il giorno di Natale. L'America, incurante di Gorbacev, si prende qualche rivalsa sportiva sui vecchi nemici di sempre. Il film non è solo ideologicamente ridicolo: è zeppo di spezzoni tratti dai film precedenti, montato al ritmo convulso delle produzioni televisive. Una relativa risalita della china stalloniana è rappresentata da Rocky V230, dove l'attore protagonista, restituita la regia all’autore della pellicola iniziale, recita più che dignitosamente la parte di un pugile invecchiato e insidiato da cinici affaristi privi di scrupoli. Il vecchio Balboa ritrova una ragione di vita nella famiglia e nel progetto di allenare un talentuoso giovane, che però finirà con il ribellarsi ai suoi insegnamenti. Non inaspettatamente, il momento più basso dell’intera parabola è raggiunto dall’ultima pellicola della serie 231, dove il campione, vedovo di Adriana, apre un ristorante in cui dispensa ai clienti i ricordi del glorioso passato, coltiva l'amicizia con il cognato, cerca di salvare il difficile rapporto con il figlio e accudisce una madre single. Ma, in una serie popolare che coltiva lo stereotipo, non può mancare il match, per quanto dolorosamente inverosimile: 228 Rocky III, di Sylvester Stallone, United Artists-Chartoff-Winkler Productions, USA 1982. 229 Rocky IV, di Sylvester Stallone, United Artists-Chartoff-Winkler Productions, USA 1985. 230 Rocky V, di John G. Avildesen, United Artists-Chartoff-Winkler Productions, USA 1990. 231 Rocky Balboa, di Sylvester Stallone, United Artists-Chartoff-Winkler Productions, USA 2006. 181 quando un pugile giovane e arrogante lo sfida in televisione e sui giornali, Rocky non resiste e torna sul ring. Peccato: il ristorante non era un'idea malvagia. Tra il primo e il secondo dei Rocky, Sylvester Stallone si cimentò ancora come regista – un vero vizio – in un film chiamato Taverna paradiso232. È una pellicola quasi-autobiografica che racconta dei tre fratelli Carbone, orfani di padre nella New York dell’immediato dopoguerra. I tre si separano e si riavvicinano in una serie di avventure e di inversioni di ruolo. Il tutto inizia quando Cosmo spinge il massiccio Vic a darsi al catch, mentre è inteso che Lenny gli faccia da manager. Si tratta di un'opera bizzarra e non priva di interesse nel panorama cinematografico della fine degli anni settanta, anche se di lì a poco fu oscurato dal confronto con un altro lavoro autobiografico, diretto dal grande Martin Scorsese. Il film è il celeberrimo Toro scatenato233, trasposizione della vita di Jake La Motta, detto “il toro del Bronx” per le sue qualità di picchiatore, e soprattutto di incassatore. La Motta è qui interpretato da un eccezionale Robert De Niro, che per assomigliare al pugile si sottopose a un training inaudito fino a quel momento. A differenza di tutti i precedenti, si pone come una storia “normale”, ma il risultato è un film sulla violenza e lo sfruttamento che, in certi contesti, sono considerati normali. Sul piano formale, il risultato delle sequenze visive, grazie al montaggio e al bianco e nero, è straordinario: lo spettatore riesce a identificarsi con le sensazioni dei protagonisti, soprattutto nelle sequenze che esprimono il dolore e la rabbia degli attori impegnati nei combattimenti. Le immagini hanno uno scopo precipuo: quello di trasmettere con vivido realismo l’animalità che sta alla base della “nobile arte” e di bollare come vittime coloro che di quest'arte sono costretti a vivere. Non a caso i critici giudicarono Toro scatenato uno dei migliori film americani di sempre: anche se, guarda caso, il film parla di un italiano. Dopo quei ruggenti anni ottanta, tuttavia, comparvero perlopiù pellicole dove lo sport abbandonava il ruolo di motore dell’ascesa 232 Paradise Alley, Image Ten, USA 1978. Raging Bull, United Artists-Chartoff-Winkler Productions, USA 1980. 233 182 sociale per diventare qualcos'altro. In Arrivano gli italiani234 è sviluppato calligraficamente il tema dell’incontro tra i popoli: l'arrivo, per l'appunto, di una squadra di italiani (tra cui i belli Alessio Boni e Franco Nero) di polo acquatico costringe i suoi sguarniti partner israeliani a rimettersi in gioco e cercare nuove motivazioni per la vittoria. In Ciao America235 per il protagonista Lorenzo Primavera (Eddie Malavarca) il football diventa pretesto per restare nella terra dei suoi nonni, in Italia, alla ricerca delle radici – tra nostalgia e lirismo – ripercorrendo al contrario la strada di una migrazione amara e sofferta. Il cibo. Di fatto, dopo il fatidico anno 2000, in un panorama completamente globalizzato, in cui le immigrazioni si moltiplicano con traiettorie imprevedibili, l’immigrazione italiana è quasi storia anche a Hollywood, dove gli italiani (registi-attori-autori) fanno ormai parte dell'establishment da molti anni. Ecco allora un ripiegare nelle variazioni nazionali del gusto, inteso in senso elementare, anzi, alimentare. Le culture trovano il proprio specifico nel ruolo del cibo, che diventa simbolo di appartenenza, quando non la traccia di una storia collettiva, di una tradizione vecchia di secoli. Già nel 1980 il profetico Pastasciutta... amore mio!236 narrava la storia di un italoamericano obeso che decide, contro la propria volontà e soprattutto a dispetto delle proprie radici culturali, di mettersi a dieta. Negli anni novanta lo spassoso Big Night237 si rivolge al passato e racconta di due fratelli, emigrati calabresi, che negli anni Cinquanta aprono un ristorante nel New Jersey. Gli affari vanno male, finché al loro desco non si siede un famoso showman italoamericano che cambia le loro prospettive. Mangia prega ama238 di Ryan Murphy, è invece la storia dell'inquieta Liz Gilbert (Julia Roberts), che decide di fare il classico viaggio alla ricerca di se stessa e di tornare a Bali, 234 Ha-Italkim Ba'im, di Eyal Halfon, Chaim Sharir Productions-Cristaldifilm, IsraeleItalia 1998. 235 Ciao America, di Frank Ciota, Bentornato Lorenzo Primavera-Mavex-Urania, ItaliaUSA 2002. 236 Fatso, di Anne Bancroft, Brooksfilms, USA 1980. 237 Big Night, di Stanley Tucci e Campbell Scott, Kirkpatrick-Filley, USA 1996. 238 Eat Pray Love, Columbia Pictures-Plan B Entertainment-Red Om Films, USA 2010. 183 dove è già stata prima del suo disastroso matrimonio. Prima di arrivare trascorre quattro mesi in Italia, a Roma e Napoli, dove, assieme a Giovanni (Luca Argentero) e a una ragazza svedese, si avvicina ai piaceri della buona tavola, tanto da guadagnare ben dodici chili. Così, zeppa di cibo italiano e più consapevole, Liz marcia verso il felice esito del film, che non consiste in un'altra tappa culinaria, ma nell’incontro con il vero amore (Javier Bardem) in Oriente. Ma questa, come direbbe il barista Moustache di Irma la dolce239, è un'altra storia. 239 Moustache (Lou Jacobi) è il saggio e sentenzioso padrone dell'equivoco bistrot nel Quartiere Latino frequentato dalla prostituta Irma (Shirley MacLane) in Irma la Douce, di Billy Wilder, Mirisch Corporation-The Phalanx Productions, USA 1963. 184 Marco Zanuso e Richard Sapper per BRIONVEGA (radio TS 522, 1961) IL CINEMA RITROVATO 185 186 Cinema e Microcinema di Roberto Bassano Strana storia quella dei film, prima invisibili nella mente dell’autore, poi visibili a volte per poco tempo perché, per la gran parte delle opere, il ritorno all’invisibile è repentino e spesso definitivo. (Cinema e Microcinema, Q1 – 2008) In questa seconda sezione del libro, abbreviata rispetto ai precedenti volumi della collana, riprendiamo il tema di Microcinema, per descrivere il mercato, la nostra visione e le ragioni del nostro agire. Il cambiamento del mercato, il definitivo, pressoché concluso passaggio obbligato al digitale, i nuovi contenuti complementari che entrano in sala sempre più spesso trovano conferma anche nel cambio di registro di questa consueta sezione Cinema e Microcinema che chiude ogni Quaderno nella quale diamo conto di come l’esercizio è cambiato e sta cambiando. La sezione Il cinema ritrovato vuole rappresentare questa volta uno sguardo sul futuro, un futuro che è già realtà per alcuni imprenditori, coloro che hanno saputo decidere, rischiare ed innovare. Ma partiamo dalla digitalizzazione. Tutti pensavano che, con il 2013, la digitalizzazione degli schermi italiani sarebbe giunta a compimento. Noi abbiamo sempre pensato e scritto con altra cautela, anche perché le major americane, padrone indiscusse del mercato cinematografico europeo, si erano poste obiettivi tanto differenti quanto espliciti. Per l’esercizio cinematografico – e intendo non le sale monoschermo e le piccole multisala, ma tutti i cinema, dai piccoli indipendenti a quelli dei grandi gruppi – il digitale era – e deve essere tuttora – una reale risorsa da sfruttare in un’ottica polivalente e multimediale. Il digitale è stato inteso come un percorso per recuperare redditività e i fatti lo hanno confermato. La difficoltà che si è manifestata, via via con velocità decrescente, è stata quella di individuare in termini sempre più mirati la strada migliore per rendere ogni cinema, inteso come ogni schermo, veramente polifunzionale, trasformandolo in un 187 vero microplex in grado di attrarre il pubblico grazie ad una offerta variegata e completa. Il fine è quello di individuare e sottolineare una identità propria sul territorio, smarcata dalla visione omologata e superata delle sale legate solo ai film, con programmazioni di lunga durata, proponendo in formato cinematografico contenuti nuovi per diventare un preciso riferimento culturale – e non solo – per il proprio territorio. Sono passati quasi venti anni da quando la Rai, sul finire dello scorso secolo (che definizione scioccante!), nel suo Centro Studi e Ricerche di Torino iniziò a indagare il cinema digitale e la sua trasmissione via satellite. Negli anni novanta sembrava fantascienza; cominciavano le prime trasmissioni televisive in alta definizione con i mondiali di calcio di Italia ‘90; di cinema digitale appena si sussurrava. La Rai invece andava sperimentando un avveniristico sistema di compressione e trasmissione via satellite con successiva proiezione cinematografica in digitale. Rai sviluppò la ricerca con Euphon mentre furono l’inglese Digital Projection e la Texas Instruments a fornire i primi proiettori sperimentali Digital Light Processing (DLP). Una vera rivoluzione rispetto al tanto diffuso quanto scadente sistema di proiezione basato sul Liquid-Crystal Display (LCD). L’obiettivo di Rai era quello di proporsi come distributore di contenuti (accedendo al suo sterminato archivio) offrendo alle sale anche la tecnologia per proiettare. Il progetto era denominato Microcinema e aveva come obiettivo dichiarato quello di porre un argine alla crisi del cinema degli anni ottanta che aveva falcidiato le sale di provincia e di periferia. La Rai non era certamente colpevole della scarsità di pellicole e della bassa qualità delle seconde visioni, ma certamente la televisione qualche colpa sulla crisi del cinema doveva pur cominciare ad ascriversela. A quell’epoca – pionieristica in ogni senso – il costo dei sistemi era un problema marginale rispetto al successo della sperimentazione, ma ricordo che il sistema di proiezione digitale costava, nel suo complesso, come un appartamento di 100 metri quadri nel centro di una grande città. Oggi il sistema costa un quarto, ma in quelle stesse città allo stesso prezzo si compra a mala pena un box. Ma non è qui il caso di allargare il focus della nostra piccola indagine. In vent’anni quelle sperimentazioni hanno portato all’abbandono della pellicola, a qualità di proiezione molto superiori, alla reale possibilità 188 di proporre al pubblico nuovi contenuti e di coinvolgere così nuovi segmenti. La rivoluzione ha percorso un grande cammino tant’è che oggi la visione strategica è passata dalla tecnologia alle scelte editoriali e ormai l’esercente cinematografico ha preso coscienza dei nuovi orizzonti che gli sono proposti. I grandi risparmi che il comparto cinema sta ottenendo con l’abbandono della pellicola attraverso il VPF sono stati equamente ripartiti tra distribuzione ed esercizio. Tutti i paesi europei e gli Stati Uniti hanno raggiunto l’obiettivo senza far gravare sull’esercizio il costo dell’investimento necessario per adeguare la tecnologia di proiezione. L’introduzione di una terza parte che finanziasse l’investimento era legata alla disponibilità dei distributori a finanziare, senza limitazioni commerciali, il cambiamento tecnologico, ognuno per la sua parte di utilizzo del proiettore, in modo automatico e quindi equo. Applicando questo modello è stata superata la possibile criticità legata al reperimento delle risorse finanziarie a sostegno dell’investimento da parte dei cinema. In tal modo il passaggio tecnologico, libero dai vincoli finanziari, ha subito un’accelerazione notevole che ha portato in pochi anni a creare un parco digitale superiore a quello analogico basato sui proiettori 35 millimetri. Di fronte a un chiaro contratto di impegno a ripagare il finanziatore (terza parte), e quindi a farsi carico dell’investimento a livello economico, la distribuzione si è anche trattenuta tutti i risparmi futuri. Un gran bell’affare, certamente, ma chapeaux! perché in questo modo l’esercizio che sottoscriveva il contratto di VPF era tranquillo di trovarsi gli impianti ripagati da terzi almeno all’ottanta per cento, e in breve tempo. Dove i ministeri competenti hanno coordinato, nel processo di cambiamento, esercenti e distributori, la digitalizzazione è risultata veloce. In alcuni paesi come, ad esempio, Germania e Francia l’adeguamento tecnologico delle sale commerciali sta terminando. In molte occasioni, e anche nel caso della digitalizzazione delle sale cinematografiche, i fatti hanno chiaramente ed oggettivamente dimostrato che l’innovazione tecnologica non può e non deve subire restrizioni legate a problematiche commerciali. Ne è evidente dimostrazione il fatto che là dove questo è accaduto la gran parte dei 189 multiplex e dei cinema indipendenti si sono già digitalizzati mentre i cinema più deboli hanno trovato facilmente sostegno presso le istituzioni pubbliche, che hanno potuto concentrare le loro risorse su comparti precisi e ben identificati. Per questi mercati il problema oggi è la gestione integrata di più schermi e più cinema, una sorta di super regia con l’introduzione dei Theatre Management System (TMS), così come la distribuzione di segnali live e registrati su tutti gli schermi. Per la distribuzione il nuovo problema da affrontare è quello della delivery: come consegnare ai cinema i contenuti, via satellite o via terra? Nel Bel Paese il modello del VPF “all’italiana” ha raccolto risultati meno brillanti però il giudizio complessivo non può affatto essere del tutto negativo. L’errore è stato quello di aver confuso il problema economico con quello finanziario, sottovalutando la grande difficoltà di accesso al credito di molte sale, difficoltà che la situazione congiunturale ha fortemente acuito. Il VPF senza la terza parte prevede che l’esercente si faccia carico di ogni problema finanziario. I risultati sono sotto i nostri occhi. I più forti, che hanno alle spalle fondi e banche, non hanno avuto problemi finanziari mentre gli esercizi più deboli su questo fronte hanno faticato e spesso non ce l’hanno fatta. E la gran parte di quelle Regioni che hanno messo in moto meccanismi di sostegno pubblico alla digitalizzazione sono naufragate su questo stesso fronte, costringendo molti esercenti che si erano visti concedere il finanziamento a fondo perduto a rinunziarvi. Dimostrare il pagamento, attraverso la tracciabilità reale dei bonifici, implica disporre del denaro necessario o dover accedere al credito bancario. Insomma nessun problema per gli esercizi forti e in salute e i soliti problemi per gli esercizi più deboli. D’altronde in una evoluzione di mercato non è la prima volta che questi meccanismi selettivi si manifestano in termini sostanzialmente darwiniani. Ma l’impatto sociale della chiusura di un cinema è sempre drammatico e quasi sempre irrecuperabile. Rinunciare ad un cinema è rinunciare ad un luogo di incontro: questo tema lo abbiamo spesso ripreso nei precedenti Quaderni, perché all’interno del cinema siamo tutti uguali, ridiamo e piangiamo allo stesso modo, condividiamo esperienze e sogni. Al cinema nessuno ci è estraneo e quando si spengono per sempre le luci di una sala siamo orfani di un luogo di ritrovo, di un punto di riferimento e di incontro dove non si fa 190 distinzione di età e di ceti sociali, dove non ci sono palchi e loggioni, tribune e curve. I cinema sono Luci della città240 irrinunciabili perché, se chiudono i cinema, gli spettatori iniziano un lento percorso di chiusura all'interno delle mura domestiche, sempre più legati ad internet a alla televisione, e solo più il momento degli acquisti, forse solo settimanale, diventa un importante quanto impersonale momento di incontro con gli altri. Ma già, sempre per tenerci rinchiusi in casa, stanno prendendo piede gli ordini telefonici e le consegne a domicilio… Una riflessione globale su questi temi è sempre più necessaria. Ma la crisi dell’esercizio cinematografico non si argina: troppo spesso il fabbisogno finanziario per l’innovazione tecnologica diventa un problema insormontabile e là dove si è digitalizzato, le posizioni spesso contrapposte tra distribuzione ed esercizio non permettono di affrontare nel migliore dei modi la programmazione e, come è sempre più necessario, la multiprogrammazione. In questo modo il ritorno sull’investimento sostenuto per il digitale si allontana. Impedire la chiusura degli schermi, una malattia che attraversa la penisola senza divisioni o differenze, è certamente l’emergenza da affrontare. Anche perché di una vera e propria pandemia si tratta, che in poco più di trent’anni ha ucciso diecimila schermi. Quattro su cinque: una vera e propria strage! Una crisi che arriva da lontano nel tempo e che sembra inarrestabile. Le stime più pessimistiche prevedono che la scomparsa della pellicola, porterà con sé altri quattrocento schermi circa, che non riusciranno a compiere il salto innovativo nel digitale. Insomma: ne sopravviveranno poco meno di tremila Per oltre dieci anni Microcinema ha sviluppato e realizzato un progetto di convergenza tra tecnologia e contenuti. Il cardine di questo progetto è stato rappresentato dall’idea di unire la sostenibilità economica e finanziaria dell’innovazione con la polivalenza dell’offerta che oggi, sempre più spesso, è identificata con la multiprogrammazione. È importante comprendere che non si tratta di concetti coincidenti per non generare una confusione che risulterebbe essere riduttiva per l’intero comparto cinematografico. 240 I Quaderni di Microcinema - Luci Della Citta’, Q3 (2010) 191 Una sala polivalente offre al suo pubblico non solo film diversi nell’arco della giornata (multiprogrammazione) ma anche contenuti diversi, come sono gli eventi in diretta, il teatro, i convegni, il cabaret, l’attualità, la cultura in senso lato e tutto quanto la fantasia e la creatività possono aggiungere all’interno di un cinema, di una sala tecnologicamente attrezzata. Se vogliamo considerare la sala come una moderna agorà, un punto di riferimento e di incontro, dobbiamo rimodernarla nell’immagine e nei contenuti. Prendendo come assioma che i contenuti offerti al pubblico siano diversi, legati non solo ai film ma anche a tanto altro, come abbiamo accennato nel paragrafo precedente, la sala deve recuperare un’identità sul territorio, fatta certo in prima istanza di scelte intelligenti e rigorose sui contenuti proiettati, ma anche di accoglienza nei locali, migliorati nel foyer e nelle poltrone, di offerta di prodotti di qualità al suo interno, e tanto altro. Ad esempio molte sale hanno già inserito librerie all’ingresso e migliorato l’immagine del bar trasformandolo in una piccola pasticceria. Occorre continuare ad investire nel rinnovo di poltrone e arredi di contorno e ricordarsi che il pubblico va rispettato perché è il Cliente e non è un utente obbligato ad accettare la somministrazione del servizio, qualunque essa sia. Persino l’Enel e la Telecom negli ultimi dieci anni stanno cambiando il loro rapporto con i loro clienti, complice anche l’ampliarsi dell’offerta con l’apertura dei mercati a più operatori. A Roma una sera ho avuto la malaugurata idea di andare a vedere un film in una sala legata ad un rinomato circuito: mal me ne incolse. A parte le poltrone scomode e sfondate ricordo ancora adesso che il puzzo di umido mi rimase attaccato ai vestiti sino alla loro obbligata sosta in lavanderia. Un’altra volta ebbi l’occasione di far notare, in via di pura cortesia, ad un noto esercente torinese, pietra miliare del cinema nazionale, che lo schermo del suo miglior cinema, molto rinomato e collocato in una delle piazze principali della città, mostrava una maestosa, grande L sullo schermo, evidente segno di un rappezzo, che appariva fosforescente durante le proiezioni. La sua risposta fu di sincero stupore, non per il rappezzo, ma per il fatto che qualcuno lo potesse notare. Un caso di assoluta mancanza di rispetto nei confronti dello spettatore. E confesso anche che non ho mai avuto l’ardire di dirgli che in città il suo cinema è noto – non solo per sporcizia e odore di umido – ma anche come una delle più famose colonie di diverse specie di animaletti molesti, assai difficili da estirpare. Rimane il fatto 192 che se vuoi vedere certi film li proietta solo quella sala, affollatissima di un pubblico tanto eterogeneo quanto vorace. Ma il lavoro va svolto anche sugli orari e la libreria e il bar devono essere accessibili anche in momenti diversi dalle proiezioni. E la programmazione deve trasformarsi da verticale, un film al giorno, in orizzontale: le sale devono essere utilizzate in orari diversi con contenuti e funzioni differenti, dalla riunione comunale ad una festa di bambini, dai documentari ai film, dagli eventi culturali a quelli sportivi, pronti a replicare se il pubblico lo richiede, ma pronti a cambiare per innovare l’offerta di continuo, nei giorni e negli orari. Si perché la sala cinematografica costa e deve essere messa a reddito sin dalla mattina, sfruttando qualunque opportunità di utilizzo. E per tutto questo ci vuole attenzione e sensibilità. All’estero il problema della multiprogrammazione, ovvero film differenti proposti in orari diversi, tenendo massimamente conto delle differenti esigenze del pubblico, è stato affrontato e risolto da tempo. Non ci vuole uno scienziato per capire che il pubblico di certi cartoni animati non si presenta in sala la sera e men che meno la notte. E non ci vuole uno statista di rango per capire che è insensato chiedere ad un cinema di rimanere con le poltrone vuote se costretto ad offrire un contenuto rivolto ad un pubblico che è inesistente in certi orari della giornata. All’estero sono gli stessi distributori a proporre i film in orari definiti favorendo di fatto essi stessi la multiprogrammazione. In Italia ci arriveremo anche noi naturalmente, ma solo dopo aver lasciato sul campo gravi perdite, dopo esserci spaventati a lungo prima di capire. Da oltre trent’anni tutte le teorie di analisi dei mercati convergono sul postulato della supremazia del market oriented sul product oriented, nel senso che la proposta commerciale al pubblico non può essere fatta sulla base degli interessi dei progettisti, della produzione o dei magazzini, ma sulla base delle esigenze del cliente, alle cui istanze le aziende si devono adeguare. Le necessità del cliente non le decide chi offre semplicemente prodotti e servizi, può al più indurle. Un esempio? Il lusso, che non vede mai crisi, soddisfa il nostro ego e solo parzialmente delle reali esigenze di consumo. La soddisfazione infatti deve riguardare un fabbisogno percepito anche se non necessariamente indispensabile. 193 Quando il cliente si sente soddisfatto abbiamo la ragionevole certezza di vendere il nostro prodotto o servizio e ci garantiamo le azioni di riacquisto per comprare lo stesso o un altro prodotto. Solo così si stabilisce quel rapporto di fiducia che sfocia nella frequentazione abituale. Quante volte avete sentito frasi del tipo “compro la verdura in quel negozio o in quel mercato rionale perché hanno sempre prodotti freschi e di ottima qualità”? E quante persone si affidano al gusto di questa o quella negoziante per l’acquisto dei loro abiti? E quanti cinefili frequentano quella determinata sala cinematografica perché si fidano dei film che propone? Capita che spesso si rechino in quella precisa sala per vedere un film che non conoscono, non è stato pubblicizzato, unicamente fiduciosi delle scelte fatte da persone che non hanno mai tradito le loro aspettative. E quindi proporre film in orari sbagliati equivale a non soddisfare le esigenze del cliente, allontanandolo da quel cinema specifico e con il rischio di creare in lui un vero disamoramento dell’offerta. Mettere in crisi una sala cinematografica portandola ad un’ovvia chiusura implica la diminuzione delle possibilità di raggiungere il pubblico, con il rischio di allontanarlo sempre più dal cinema come momento emotivo, per avvicinarlo ad internet e alla pirateria. Il tempo passa e gli attuali cinquantenni sono in grado di scaricare i film perché imparano dai figli, certo, ma anche perché dominano la tecnologia in modo completamente differente rispetto a dieci anni fa. Proiettare certi film nel primo pomeriggio o altri la sera è una stupidaggine, lo capiscono tutti, assolutamente tutti, ma troppo spesso e in modo tanto anacronistico, si evita l’innovazione, il passaggio ad una evidente modernità, la coerenza stessa con le mutate esigenze del mercato. La programmazione orizzontale rappresenta invece l’offerta multipla e variegata, per fasce orarie e per opportunità di contenuti. Un convegno cui segue un’assemblea civica, un documentario per le scuole cui segue un film di svago per la pausa del pranzo, un cartone animato il pomeriggio o, in alternativa, l’opera lirica per gli abbonati più anziani oppure, ancora, una partita di tennis. E poi film, altri film, magari concerti, eventi, una gara di motociclismo o di Formula 1 e si potrebbe proseguire all’infinito con un elenco di contenuti sempre diversi. È sufficiente fantasia e creatività. 194 L’esercente deve ripensare alla sua programmazione, alla sua offerta alla sua identità sul territorio. Ma alla fine è più facile che questo modello sia realizzato dai grandi gruppi, The Space e UCI tra tanti, che non temono i vincoli della distribuzione, mentre i piccoli cinema e le multisala indipendenti non riescono ad attuare una simile strategia che darebbe loro, non solo autentiche ragioni di sopravvivenza, ma anche grandi speranze di successo. È evidente, in conclusione, come il digitale sia l’unica risposta possibile alla chiusura delle sale. Il digitale è allo stesso tempo una soluzione economicamente sostenibile (anche se esistono le criticità a livello finanziario cui abbiamo fatto cenno), con il supporto degli aiuti regionali e statali associati al VPF (in particolare il VPF europeo con contratto decennale) e grazie anche alla cedibilità del tax credit, alla formula del noleggio e ai contenuti complementari ad alto valore aggiunto, capaci di portare incassi straordinari all’esercizio. Tutto deve aiutare la sala cinematografica ad innovarsi e a ritrovare nuove identità polifunzionali attraverso la multiprogrammazione e la molteplicità delle proposte all'interno dello stesso contenitore giornaliero e settimanale. Con il digitale ogni schermo, sia che il cinema abbia uno schermo sia che ne abbia dieci, può e deve trasformarsi in microplex, con l'aiuto di tutti, anche della distribuzione, da cui ci si attende, come da ogni impresa di successo, dei progetti di lungo periodo, lontani dalle più miopi politiche commerciali di breve periodo, legate alla lotta per l’occupazione dello schermo cinematografico. Sempre più spesso le politiche commerciali imposte all’esercizio mettono a rischio la sua stessa sopravvivenza, il che, banalmente, significherà uno schermo in meno su cui proiettare il prossimo film, con la ovvia conseguenza di minori margini per il distributore e di maggiori sbocchi di mercato per la pirateria, inesorabilmente favorita dall’aumento del numero di spettatori senza cinema. L’introduzione del digitale è stata ed è ancora una grande opportunità per supportare la diffusione della cultura cinematografica e per riportare il cinema là dove è scomparso, dove sta rischiando di scomparire, dovunque è in sofferenza. In questa situazione le istituzioni non sempre hanno saputo sfruttare in modo adeguato e coerente questa grande opportunità che l’evoluzione tecnologica ha 195 offerto. Ma certo è che in Francia, nei paesi scandinavi, in India come in Cina, il digitale ha portato una ventata di nuove offerte. Il cinema è il luogo dove costruiamo il nostro futuro, anche attraverso i sogni, è il luogo dove misuriamo noi stessi con altre culture, è anche il luogo dove scopriamo come siamo visti dagli altri e, talvolta amaramente, dobbiamo verificare che non siamo considerati proprio il miglior popolo del mondo. Si perché spaghetti e mandolino non sono ormai più sufficienti a sdoganarci come italiani brava gente. Ma questa è un’altra storia. 196 Il cinema è ritrovato di Cesare Fragnelli Nella stagione appena trascorsa insieme alle sale cinematografiche italiane, abbiamo potuto condividere e partecipare a nuove rinascite, a nuove evoluzioni e visioni per ritrovare e riprogettare il cinema, per proiettarlo verso il futuro. Abbiamo accompagnato la programmazione di alcuni dei più importanti spazi culturali cinematografici e abbiamo trovato insieme a questi cinema “illuminati” nuovi significati e nuove aspirazioni al “fare cinema”. Ci piace raccontarle qui, leggendo la carta d’identità di queste sale cinematografiche, entrando nel loro contesto complessivo e ascoltando la voce dei propri gestori che ci parlano del loro presente e del loro percorso verso il futuro. Agli esercenti di queste sale e a tutti i gestori cinematografici che credono nel valore dei contenuti, della cultura, della diversificazione, della polifunzionalità, della condivisione, dell’entusiasmo, del sogno, va il nostro sentito grazie. A loro, al loro lavoro, al loro esempio, al loro coraggio industriale, non meno che al loro pubblico, pensiamo con stima e affetto quando pensiamo che il cinema è ritrovato. Abbiamo scelto alcuni cinema di cui parlare e di conversare con i loro esercenti. Qui di seguito vi diamo conto dei nostri appunti, subito dopo la “carta d’identità” di ciascuno di loro. 197 Carta d’Identità n° 1 Nome: Multisala Galleria Nato il: 1948 – diventa Multisala nel 2005 Residenza: Bari, corso Italia 15. La sala è situata in un palazzo d’epoca nel centro della città Professione: programmazione trasversale, film d’essai e commerciali, contenuti complementari (Opera Lirica, Balletti, Concerti, Sport, ecc.) Statura: sette Sale Segni particolari: gestito da Francesco Santalucia. d’avanguardia dagli standard qualitativi elevati Multisala A risentire maggiormente della crisi dell’esercizio cinematografico italiano sono certamente le strutture delle Regioni del Sud in cui, ad un calo generale dell’occupazione si accompagna, soprattutto nei mesi estivi, un caldo torrido che, forse ancor più che il prezzo del biglietto, scoraggia le serate di una volta, trascorse al cinema o all’”arena” . Ma nel mezzogiorno operoso, educato al sacrificio da padri contadini e braccianti abituati ad essere curvi, gli esercenti hanno capito che non bisognava più stare fermi a guardare, ma che occorreva rimboccarsi le maniche per intraprendere strade nuove e, in qualche modo, alternative. Un caso esemplare è quello del Multicinema Galleria, storica e prestigiosa sala del centro gestita con successo da Francesco Santalucia. I tempi cambiano e così anche il cinema deve adattarsi al nuovo sentire, ai nuovi interessi, e deve soprattutto tenere stretto a se un pubblico sempre più bombardato e distratto. Ci racconta Francesco Santalucia: “Inaugurato nel 1948, il Cinema Galleria di Bari diventa una multisala con sei schermi nel 2005 grazie alla nuova gestione di un gruppo di imprenditori, di cui faccio parte, che poteva contare su una precisa esperienza nel settore. Progettato, primo in Puglia, in base al nuovo quadro normativo sismico e nel rispetto della struttura originale della vecchia sala, il Galleria è divenuto in breve tempo una Multisala d’avanguardia, dagli standard qualitativi elevati. 198 Abbiamo deciso di abbandonare progressivamente il sistema di proiezione in pellicola, ormai obsoleto, fino a che, sul finire del 2011, la struttura è stata interamente digitalizzata. Nel 2012 si è aggiunta una settima sala, l’ultima per ora, aumentando sino a 110 posti a sedere la capienza complessiva. Nei mesi estivi si affianca uno spazio all’aperto, l’Arena Quattro Palme, che consente di vedere i film sotto le stelle. E, ancora, mettiamo a disposizione della cittadinanza una vera e propria sala privé che è possibile affittare anche solo per una sera. L’idea è proprio quella di personalizzare la visione del film, un po’ come avviene con l’home video nel salotto di casa o con un dvd davanti allo schermo del computer. Cinquantasei comodissime poltrone in pelle permettono quindi una visione riservata e “famigliare” di pellicole come pure di filmini di matrimonio, resoconti di attività industriali e tanto altro ancora. Tutte le sale principali, così come l’Arena Quattro Palme, sono dotate di eccezionali tecnologie di proiezione e di acustica che mantengono altissima la qualità complessiva offerta. Tutte di dimensioni diverse, accoglienti e confortevoli, ideate alternando alle pareti sei diverse tonalità di alcantara, dal rosso all’arancione sino al ruggine, sono attraversate da un caldo e “acustico” parquet di legno wengè. Anche in questo caso l’attenzione per la tecnologia è massima. Del resto gli spettatori vengono accolti nella hall con la cabina di regia a vista, una galleria fotografica e un maxi schermo luminoso che trasmette continuamente i trailer delle ultime uscite o intrattiene il pubblico in attesa creando scenografici giochi di luce. Il Multicinema offre all’intera città una perfetta unione di intrattenimento e cultura, coniugando i gusti di tutte le età e toccando trasversalmente tutte le fasce del pubblico barese. Personalmente ritengo il lavoro con il digitale molto più stimolante rispetto a quello in pellicola. Ha sicuramente più lati positivi di quanto possa sembrare inizialmente ed è innegabile che è capace di offrire infinite possibilità se solo le si sa cogliere. Non nascondo la mia enorme fiducia nel cinema contemporaneo e nel pubblico odierno. Il cinema può diventare, meglio: essere, tante cose. Oggi un teatro. Domani uno stadio. Dopodomani l’arena di un concerto, persino un museo. Lo sa bene il pubblico del Galleria: non solo film, il Multicinema può ospitare in un vero e proprio palinsesto concerti delle leggende del rock e i “grandi classici” degli albori, meeting e convegni, kolossal americani e proiezioni ad alto 199 “contenuto tecnologico e culturale”. Mi piace azzardare e dire che il Galleria non è un cinema con più sale, ma piuttosto un’unica grande sala con più cinema. Ogni singolo contenuto complementare deve essere gestito come un evento, ed è per questa ragione che è molto più complicato da promuovere. Grandi risultati di quest’anno sono quelli che sono stati conseguiti con l’Opera Lirica e i Balletti. Dal Teatro alla Scala di Milano allo schermo del Galleria: il teatro d'opera più importante al mondo è andato in scena nelle sale del mio cinema grazie alla trasmissione HD Microcinema. Titoli entusiasmanti, dal sapore raffinato perchè ai massimi livelli di esecuzioni hanno deliziato un calendario di dodici appuntamenti rigorosamente live. Come abbiamo visto ci sono prodotti per tutti i gusti, per il pubblico di vecchia data come per le nuove generazioni, sempre assetate di nuove emozioni, ma anche per chi è disposto ad esplorare nuovi territori o chi scopre per la prima volta nel cinema il vero canale di trasmissione delle proprie passioni, dall’Opera Lirica alle partite di calcio in visione stereoscopica. Sono d’altronde proprio i grandi eventi che permettono di fidelizzare il pubblico, presentando il cinema non solo come la classica sala buia, sempre affascinante, ma anche come qualcosa di innovativo e di straordinario, qualcosa di mai visto prima. Il cinema del futuro non è tanto diverso da quello attuale. Il cinema è già nel futuro. Sono certo che il core business continuerà ad essere rappresentato dai film in senso stretto, ma ad essi andrà affiancata, con modalità sempre più continuative, la proiezione dei contenuti alternativi. In questo caso l’appello da muovere è verso i distributori cinematografici, e alla loro capacità di innovazione e modernizzazione nel saper leggere gli orientamenti che offre la realtà in cui si muovono: anche loro devono cercare di essere sempre al passo con i tempi. Insomma: non bisogna mai fermarsi. L’obiettivo rimane quello di provare ad alzare sempre più il livello qualitativo dell’offerta complessiva, delle strutture e dei servizi. Quale che sia il cinema, però, bisogna tenere a mente il punto chiave: il rapporto con il pubblico viene prima di tutto”. 200 Carta d’Identità n° 2 Nome: Modernissimo Nato il: 1940 Residenza: Napoli, via Cisterna dell’Olio, 49/50 Professione: programmazione trasversale, film d’essai e commerciali Statura: quattro Sale Segni particolari: gestito da Luciano Stella. Lo ama definire MultiCinema. Ha ospitato in meridione il primo comizio di Palmiro Togliatti nell’Italia liberata Il Conte Prospero, nobile napoletano oppresso e represso nella vita, spendaccione e giocatore d’azzardo senza freni, con i mezzi di sussistenza tagliati da una famiglia che forse qualche conticino (molto) di troppo deve averlo pagato, cerca di avere la meglio, battendosi all’umile gioco della “scopa” almeno con Gennarino, un bambino di 8 anni, figlio del portiere, ma ne viene puntualmente battuto. Il Conte Prospero è Vittorio De Sica nel famoso episodio “I giocatori” del film “L’oro di Napoli” (1954), da lui diretto. In quell’appartamento De Sica tornò dieci anni dopo per girare “Matrimonio all’italiana”, la sua versione della commedia teatrale “Filumena Marturano” di Eduardo De Filippo, con Sophia Loren e Marcello Mastroianni. Oggi quell’appartamento esiste ancora, e lo si trova suonando al numero 33 di Piazza del Gesù Nuovo, a Napoli. A distanza di cinquanta anni si respira ancora cinema fra quelle mura che, fra arredamenti della vecchia nobiltà napoletana e sale attrezzate con i più moderni software, sono oggi la sede degli studi di produzione della Mad Entertainment: “pazzo” in inglese, acronimo di “Musica Animazione e Documentari” nella realtà. Factory di cui è presidente e amministratore delegato Luciano Stella, componente, fra l’altro, della giuria dei David di Donatello e di quella che assegna gli Efa, gli oscar europei del cinema. Mad è un “elogio alla pazzia” ma, si sa, l’altra faccia della medaglia è la genialità che, sposata ad un’infinita passione e a autentiche doti imprenditoriali, consente di rivoluzionare lo stato delle cose. Se lo stereotipo vuole Napoli come la 201 città della pizza e di Pulcinella, è grazie allo spirito di gente come Luciano Stella che presto entrerà nella memoria collettiva come “città del cinema”. Basta infatti spostarsi di poco per, incrociare, vicino alla piazza, il Cinema Modernissimo, una grande realtà cinematografica del nostro paese, firmata proprio Luciano Stella, che ce ne racconta la storia e il presente, e ne disegna anche il futuro. Ci dice Luciano Stella: “Il Modernissimo era una cinema popolare di grande tradizione per la città di Napoli. Ospitò in meridione il primo comizio di Palmiro Togliatti nell’Italia liberata. Tempi duri portarono i vecchi proprietari a chiudere i battenti. La sala rimase nel dimenticatoio per ben 8 anni fino a quando, all’inizio degli anni novanta, la struttura venne rilevata dalla Stella Film, di cui sono alla guida. Stella Film é oggi l’unica holding del Mezzogiorno a costruire e gestire multiplex, cityplex e sale cinematografiche; ma allora sembrava fantascienza. Il Modernissimo riaprì al pubblico nel 1994, in un momento non facile per il cinema, presentandosi da subito come una grande novità. Il cinema tornava, dopo una lunga assenza, nel centro di Napoli, quando la città era ancora in fase di ripresa dopo il secondo terremoto dell’Irpinia. Ma non solo, perchè il Modernissimo fu il primo multisala a Napoli e in tutta la Campania a proporre novità sia di programmazione che tecnologiche. Per sempio fu il primo nel Mezzogiorno ad avere il Dolby in tutte le sale. Nonostante l'iniziale diffidenza tutti dovettero ricredersi, constatando che il Modernissimo era un apripista nel settore tecnologico con le sue sale avanzate e pioniere anche nella programmazione. Il contesto in cui si collocava era rappresentato da un bacino di altri sei cinema, con cui abbiamo cercato da subito un rapporto non concorrenziale. La prima mossa del gruppo indipendente della Stella Film fu quella di collaborare con gli altri esercenti: fu l’inizio di un lungo percorso, costato molta fatica, ma che consentiva a ciascun film di trovare la giusta collocazione e a ciascuna sala di poter contare sul proprio pubblico. Se vogliamo i problemi nacquero con la chiusura di quei cinema, situazione che costrinse in qualche modo il Modernissimo ad allargare la propria programmazione, rendendola in parte più commerciale. Il Modernissimo, ancora oggi l’unico cinema nel centro storico di Napoli, è divenuto il punto di riferimento anche per la distribuzione: esigenza che ci ha inevitabilmente condotto ad allargare le maglie e ad accogliesre le novità sempre prima degli altri. 202 Nella lunga lista di primati del sud Italia, il Modernissimo di Napoli ha senz’altro ancora quello di essersi dotato del sistema 3D prima del “boom” di “Avatar” (2009). Ha cioè adottato la tecnologia digitale e inserito in palinsesto i contenuti cosiddetti alternativi con un notevole anticipo sul percorso del mercato in senso lato. Mi piace far notare che il Modernissimo è un Multicinema, non un Multisala. Con ciò intendo focalizzare l’attenzione sul fatto che la cura spesa per assicurare una programmazione trasversale ci consente di tenere insieme sia il pubblico d’essai che quello, come dico io, “da pop corn”. Abbiamo destinato alla sala grande i film più spettacolari, dalle opere che hanno segnato la rinascita dell’animazione Disney come “Il re leone” (1994) ai blockbuster americani che si sono contraddistinti per la loro qualità (i “Batman” di Tim Burton, “Titanic”). Per la sala piccola, inaugurata con “I soliti sospetti” (1995) di Bryan Singer, privilegiamo un cartellone di film d’autore. In altre parole, il Modernissimo è un Multicinema perché si propone per pubblici differenti e ben definiti. A ciò si aggiungono i contenuti complementari prima citati che, grazie alla scelta strategica del digitale, arricchiscono il concetto di multiprogrammazione, pensata in fasce orarie diverse e per segmenti di pubblico diversi. Il Modernissimo è riuscito nell’impresa di aprirsi anche ad altre realtà, come le associazioni impegnate sul territorio. Mi riferisco alle proiezioni mattutine per le scuole e alla proiezione di film in lingua originale per stranieri. Cito solo due esempi: la manifestazione “L’arte della felicità” sul buddhismo e le religioni orientali e “Pezzi Unici Modernissimi”, una rassegna stabile di arte contemporanea. Il Modernissimo si è dunque inserito in una rete di istituzioni culturali volta a stimolare attività tradizionalmente lontane dal cinema. Un atteggiamento, questo, che ha contribuito alla sua rinascita. Il Modernissimo è oggi luogo culturale scelto dai registi più importanti per le anteprime dei loro film. Da Nanni Moretti a Gabriele Salvatores, sino agli incontri che hanno animato indimenticabili dibattiti davanti ad oltre ottocento persone: tra i tanti ricordo quello con Mimmo Calopresti per “La seconda volta” (1995) sul terrorismo e quello con Sabina Guzzanti per “Draquila – L’Italia che trema” (2009). Il Modernissimo ha portato in Italia e a Napoli star del calibro di Spike Lee, Abel Ferrara, Fanny Ardant, Ralph Fiennes e il Maestro Bernardo Bertolucci. Molto del merito di tutto ciò va anche al Napoli Film Festival, di cui continuo ad essere Presidente. 203 Dietro tutto ciò si nasconde, visibilissima, una grande passione per la cultura e la capacità di coglierne i percorsi più stimolanti della contemporaneità e dell’innovazione nelle forme della sua diffusione e condivisione, in particolare in un territorio su cui molti non avrebbero mai pensato di scommettere. Il digitale non ci ha fatto dimenticare il cinema, anzi: ha mantenuto più caldo il rapporto con il pubblico. Un rapporto che non si è mai minimamente intaccato neanche quando, come ho prima accennato, si è dovuta espandere la programmazione per via della chiusura degli altri. Il passato e il presente del Modernissimo la dicono lunga anche sul suo domani: il nostro Multicinema non è militante, ma attivista. Si parla di nuove innovazioni tecnologiche, c’è chi studia occhiali 3D che abbiano sottotitoli sovrimpressi, chi parla di sale in cui un pubblico multietnico potrà assistere all’identica proiezione ma sintonizzandosi su doppiaggi in lingue differenti. Il cinema non cambierà molto più di quanto non abbia già fatto e saranno i numeri ad assestarsi sulle varie fasce di pubblico. La sala cinematografica dovrà trovare una sua centralità in questa nuova dimensione: non solo puntando sul digitale e sui contenuti complementari, ma recuperando il concetto di comunità viva. È approccio questo che va veramente rinnovato. Nella mia visione le sale devono diventare a tutti gli effetti dei centri (non commerciali) forti, dei centri globali di merci culturali: cinema ma anche libri (a fronte della chiusura di numerose librerie) per arrivare finanche al cibo. Cibo per la sopravvivenza non meno di quello, altrettanto indispensabile, della conoscenza. Auspico che i luoghi di cinema si trasformino in fari culturali per la gente: ed è quello che ho sempre cercato di fare con il Modernissimo. Qui si parla di cultura e delle vere emozioni che essa sa suscitare. Il Cinema rimane, non sparisce: il suo futuro è quello di divenire un convivio sociale per il consumo culturale. La resistenza del cinema è d’altronde la sua esistenza”. 204 Carta d’Identità n° 3 Nome: Cinema Centrale (già Cinematografo Carlo Alberto) Nato il: inizi anni Trenta. Residenza: Torino via Carlo Alberto, 27. Lo spazio un tempo faceva parte delle scuderie reali Professione: programmazione di film d’essai e complementari (Opera Lirica, Balletti, Concerti, ecc.) di contenuti Statura: una sala Segni particolari: gestito da Gaetano Renda. Punto di riferimento della vita culturale torinese A Torino, città dei Re sabaudi, anche quando si racconta di cinema non si può non partire da un prologo reale. Il cinema Centrale, in origine, si chiamava Carlo Alberto e non era un cinema. Lo spazio infatti faceva parte delle scuderie reali. È l'inizio degli anni 30 quando i Savoia vendono lo stabile, che diventa ben presto Cinematografo Carlo Alberto. Una programmazione popolare con più film al giorno è l’ingrediente principale di una ricetta durata fino al 1966. È l’anno in cui Gianni Pilone, giovane appassionato di cinema, compra l'immobile per intraprendere l'attività di esercente. È subito un cambio di rotta. Il lunedì e il martedì diventano due giorni destinati alle proiezioni d'arte e d'essai, sul modello di alcune sale parigine. Da questo momento le antiche scuderie reali sono battezzate con il nome di Cinema Centrale. Siamo nel 1968 quando la proiezione di Fuochi nella pianura di K. Ichikawa inaugura una nuova stagione dedicata esclusivamente ai film d'autore. Il Centrale diventa la culla naturale dei film di Godard, dei Taviani, di Rossellini, di Bunuel, di Bertolucci, di Truffaut, di Fellini, fino ad arrivare a Moretti e a tutti i nuovi grandi autori internazionali. Un lavoro, quello di Gianni Pilone e dell'AIACE, che ha portato il Cinema Centrale ad essere un punto di riferimento della vita culturale torinese. 205 Ci racconta Gaetano Renda: “Da studente ho frequentato il Centrale fin dal 1973. È qui che ho conosciuto gli autori che amo, quegli autori che mi hanno prima formato come spettatore, poi come cinephile. È qui che ho deciso di fare questo lavoro. Da subito ho avuto una fraterna e cordiale collaborazione con Gianni Pilone. Sono diventato suo socio e qualche anno dopo, circa dieci anni fa, ho acquistato l'azienda. Insomma, da spettatore a titolare. Ho capito da subito che le scelte di programmazione non potevano prescindere dall'intero panorama dell'esercizio cinematografico torinese, dove moltissime sale sono votate al d'essai, forse troppe se si considera la disponibilità filmica, spesso carente. All'interno di questo sistema, molto competitivo, la scelta degli ultimi anni è stata quella di proporre prevalentemente film in versione originale con sottotitoli. Una scelta che ha trovato i favori del pubblico ed è oggi rinnovata grazie all'istallazione di un impianto digitale. Il digitale mi ha dato la possibilità di diventare un esercente multitasking, di conquistare nuovi pubblici, creando un palinsesto di titoli idonei alla fascia oraria di programmazione. Un’importantissima esperienza, in tal senso, è l’ingresso all’interno della programmazione della mia sala dell’Opera Lirica e dei Balletti dai più importanti teatri del mondo. Una diretta via satellite, grazie a Microcinema, che mi ha dato la possibilità di conquistare un pubblico importante, raffinato, colto. Il Teatro alla Scala di Milano, L’Opera di Parigi, il Metropolitan di New York, tre grandi realtà per una grande scommessa ormai vinta. La duttilità del digitale sta favorendo soprattutto l'incontro con il pubblico giovane, assente da anni dalle sale d’essai. I contenuti alternativi hanno la capacità di (ri)mettere la sala cinematografica al centro del loro sistema culturale. È quindi in termini socio-culturali che va colta questa "nuova meraviglia della tecnologia". Da troppi anni sono però bombardato dai numeri. Una vera guerra numerica: numero delle copie di un film, numero della media copia, numero dell’incasso della prima settimana, numero dell'incasso totale. È stata messa da parte la passione, l'intuito, la curiosità degli operatori del settore. È piuttosto prevalsa, in Italia, una logica meramente numerica, scevra di quell'anima profonda senza la quale il cinema non esiste. Negli Stati Uniti il cinema è la seconda industria del paese. Tutto il sistema cinema ha dei presupposti industriali straordinari e imprescindibili. In Francia esiste fin dal 1946 il Centro 206 Nazionale Cinematografico, un colosso economico fatto di idee e contenuti. Un Centro capace di far fronte a tutte le esigenze del mercato e di condizionare fortemente gli altri media che propongono film. Per esempio, grazie al Centro nei palinsesti televisivi non viene programmato il d'essai nei giorni in cui sono le sale a proporlo. È un Centro che si muove in sintonia con uno Stato forte, capace di pensare al cinema come imprescindibile settore industriale e artistico. È così che mi piacerebbe immaginare il Cinema del domani, come negli Stati Uniti, fortemente industriale, o come in Francia, industriale e contemporaneamente d'arte e d'essai. Credo in un cinema libero da ogni forma di condizionamento, ma con regole molto precise. Vorrei una cultura della legalità rispetto al consumo cinematografico. Una programmazione multitasking. Dei cinema aperti 24 ore. Vorrei dei cinema capaci di ospitare altre attività: librerie, gallerie d'arte, caffetterie, slow food, ecc. Deve rinascere l'interesse verso la sala se vogliamo la sua rigenerazione”. Carta d’Identità n° 4 Nome: Multisala Barberini di Roma Nato il: inizi anni Trenta. Dal 1990 Multiplex Residenza: Roma, piazza Barberini, 24-25-26. È da questa piazza che nasce via Veneto, resa universalmente famosa dal film La Dolce Vita Professione: programmazione trasversale, film d’essai e commerciali, contenuti complementari (Opera Lirica, Balletti, Concerti, Sport, ecc.) Statura: cinque sale Segni particolari: gestito da Mario Fiorito. È il cinema dove Pasolini e Fellini presentavano i loro film Non si fa che parlare male dello stato di salute dell’esercizio cinematografico italiano, il che ovviamente ci avvilisce e ci fa sentire parte in causa di un disastro epocale, che sembra irreversibile. Ma se volete tonificare il vostro stato d’animo, sentirvi parte di una storia 207 virtuosa e di un Cinema diverso e sostenibile, e forse rubarci anche qualche spunto che accenda la speranza, provate a leggere in qualche riga la storia del Cinema Barberini di Roma. Situato nel cuore della capitale, il Cinema si affaccia su Piazza Barberini al cui centro è posta la straordinaria Fontana del Tritone, per molti una delle più belle di Roma, realizzata da Gian Lorenzo Bernini. Una piazza che da sempre abbraccia in se la Storia dell’Arte e la Storia del Cinema. È da qui, precisamente, che comincia a salire Via Veneto, la via resa famosa dal film La Dolce Vita. È nel Cinema di questa piazza che Pasolini e Fellini presentavano i loro film. Un cinema che è anche un pezzo di storia davvero importante che, per rimanere tale, non si è seduta sugli allori del compiacimento, ma che ha piuttosto saputo adeguarsi al cambiamento del mercato cinematografico e alle mutate esigenze della programmazione e della sua clientela. Ci racconta Mario Fiorito: “Ci sono ben 250 schermi a Roma, incastonati in locali del centro storico dall’aspetto monumentale, in palazzi post moderni di periferia e perfino alle porte del Grande Raccordo Anulare. Roma è la più grande città cinematografica italiana ed è anche quella con maggiore tradizione. Ma oggi tutto questo non basta più a far incassare denari al cinema. I tempi in cui per festeggiare rigogliosi incassi bastava cambiare un film ogni quattro/sei settimane, pulire due sedie di legno e rinfrescare il locale con una veloce tinteggiata, sono finiti. Di quel periodo rimangono solo tante emozioni e indelebili ricordi; ora è tempo di interrogarsi sul futuro. Ma andiamo per ordine. Nel 2004 ho scelto di rilevare il Cinema Barberini, sala fondata durante il ventennio fascista, che, tra varietà e cinema, ha affrontato con successo i suoi primi cinquant’anni. A Roma diremmo che ha “retto botta” fino alla caduta del Muro di Berlino, per intenderci, fino alla fine degli anni ‘80. Agli inizi degli anni ‘90, per resistere alla progressiva chiusura dei cinema monosala, dovuta principalmente alla difficoltà di far fronte alla concorrenza dei nuovi multiplex, il Barberini ha trasformato la struttura in cinque sale. Non c’era altra via per sopravvivere ai nuovi multisala, capaci di attrarre inevitabilmente un segmento di pubblico più ampio rispetto al minimale cinema monosala. 208 Le nuove strutture, infatti, si presentavano addobbate e luccicanti come dei luna park ed erano esteticamente assai appaganti, in più venivano inglobate intelligentemente nelle nuove periferie urbane vicino ai nascenti centri commerciali. La vita sociale si spostava progressivamente dalla piazza al centro commerciale: luogo di consumo per definizione in cui anche il film diventava un prodotto da acquistare. Sono gli anni in cui si vive la trasformazione del fruitore del cinema: da spettatore in consumatore di un pacchetto all inclusive: parcheggio, shopping, spesa, pizza, pop corn, cola e, infine, anche film. Tutto questo insieme di fattori è stato fin da subito analizzato dal mio gruppo che aveva appena acquisito il Barberini. Dal primo giorno non abbiamo mai cercato di combattere contro una regola tanto spietata quanto ormai conclamata nel mercato del consumo cinematografico. Al contrario, il Barberini si è dotato di poltrone comode, proiettori digitali, locali climatizzati, popcorn maxi e coca cola, ma tutto questo con una sostanziale differenza rispetto ai grandi Multiplex della periferia: una programmazione di buoni film. Questa scelta all’inizio è bastata e ha pagato, ma il centro storico della città continuava a svuotarsi a vantaggio delle periferie. Di qui la necessità e l’idea: fidelizzare sempre di più il nostro pubblico, appagandolo con una programmazione su misura. Questo passaggio è stato possibile soprattutto con l’avvento del digitale, che ha permesso a noi esercenti di scrivere una nuova linea editoriale e di andare sempre più vicini alle richieste del nostro pubblico. Agli inizi è stata la multiprogrammazione a salvarci, intesa come offerta nel cinema di film diversi nelle diverse fasce orarie. Ma oggi questa valenza non può più essere considerata futuro per il fatto che ormai rappresenta un dato di fatto già acquisito per tutti. Spero sia una cosa ovvia, anche se non è ancora permessa da tutti i distributori, che non ha più senso programmare dopo le 20 un cartone animato adatto solo ai bambini. Spero quindi si sia capito che esiste un pubblico della mattina, uno del pomeriggio, uno della sera e addirittura uno della notte. Ma da qualche anno c’è una nuova rotta. E la mia sala la sta percorrendo con successo. È quella del contenuto alternativo che, sommato alla conoscenza del proprio pubblico, all’esperienza del 209 mercato e alla “flessibilità tecnica” del digitale, ha dato una nuova spinta propulsiva ed economica al mio Cinema. Una spinta, quella dei contenuti alternativi, che va ben oltre la multiprogrammazione: Concerti, Opera Lirica, Documentari, Proiezioni di Eventi e Mostre, Contenuti Didattici, Film in lingua originale e addirittura Sport. Così mi è stato possibile fidelizzare il vecchio pubblico, portandolo entusiasticamente a nuove frontiere dell’audiovisivo e anche creare nuovo pubblico. Faccio degli esempi. Al Barberini di martedì sera ci sono oltre 200 persone ad assistere all’Opera Lirica dal Metropolitan di New York, mentre un’altra sala è piena di giovani e di adulti che insieme cantano, assistendo alla proiezione di un leggendario concerto di musica Rock. E tutto questo accade senza mai tradire il gusto dei puristi che, in un’altra sala, si godono La Grande Bellezza di Sorrentino, mentre in un’altra ancora un pubblico di italiani, americani, arabi e russi, dopo una proiezione in lingua originale, si ritrova e riconosce in lunghe discussioni autoriali. Il digitale ha cambiato i rapporti con il pubblico, la programmazione alternativa ha cambiato la sala. La sala, per resistere, deve essere rifondata. Da un lato tornare ad essere un contenitore culturale, dall’altro deve essere capace di far vivere il vecchio e il nuovo. Bisogna lavorare in modo mirato sui vari pubblici, per avere un unico grande pubblico. Innovare la programmazione, lavorare a braccetto con i distributori per strategie di marketing comuni, lottizzare in orari precisi il contenuto: questo non è il futuro, è il presente che ognuno di noi dovrebbe percorrere se, tutti quanti, vogliamo ancora immaginare un Cinema del domani. Il digitale ci ha dato le opportunità. Le scelte di programmazione moderna ci danno le possibilità. La passione e il lavoro devono darci il futuro. Tutto questo fiorire è possibile, anche nella speranza che l’industria della distribuzione non rimanga a lungo sorda. Ma la musica non può essere sempre la stessa”. 210 Carta d’Identità n° 5 Nome: Anteo Spazio Cinema Nato il: 1979. Dal 1997 diventa un cinema da quattro schermi con l’Osteria del cinema Residenza: Milano, via Milazzo, 9 Professione: programmazione film d’essai e contenuti complementari (Opera Lirica, Balletti, Concerti, Documentari, Mostre) Statura: quattro sale Segni particolari: Sergio Oliva è il responsabile della programmazione del cinema Anteo Spazio Cinema è nato il primo maggio del 1979 su iniziativa di tre amici: Lionello Cerri, Maurizio Ballabio e Raimondo Paci. Più di trenta anni sono trascorsi dal giorno dell’inaugurazione: molte cose sono cambiate da allora e lo stesso Anteo ha profondamente cambiato la sua struttura, anche se sembra rimasto tale e quale ad allora. Insomma: non è invecchiato di un giorno pur rimanendo fedele alle idee dei suoi fondatori, di cui ha mantenuto immutato spirito e vigore. Sergio Oliva, responsabile della programmazione del cinema, racconta per noi questa bellissima esperienza e di come, da quel primo maggio del 1979, l’idea alla base del progetto sia rimasta intatta e, semmai, ancora più evidente di un tempo. Lo scopo era quello di creare non tanto un nuovo cinema, quanto un nuovo modo di andare al cinema. Non per puro passatempo, ma come spazio di approfondimento culturale. Una scommessa che il tempo ha premiato. Ci racconta Servio Oliva: “L’avventura di Anteo Spazio Cinema comincia in un periodo nero per le sale italiane: nella seconda metà degli anni Settanta avviene la trasformazione del modo di concepire e vivere il divertimento, che da collettivo passa ad essere privato e casalingo in compagnia di 211 televisione e dischi. Così i cinema iniziano a svuotarsi e molti sono costretti alla chiusura. Il successo di un’azienda che offre un servizio al pubblico sta nella differenza del servizio che offre oltreché, certamente, nella qualità di questo servizio. L’Anteo voleva proporre, e continua a farlo con successo, un prodotto differente e con modalità di fruizione differenti: prime visioni di qualità, generalmente snobbate dagli altri circuiti, e che fossero programmate per l’intera giornata. Nei primi due anni Anteo è una sala d’essai come le tante che negli anni Settanta animavano il panorama cinematografico cittadino. La linea editoriale si fa più chiara solo successivamente: la scelta di appoggiarsi a coraggiose case “indipendenti” è vincente perché in questo modo Anteo può dotarsi di pellicole sconosciute ai più, portando in Italia il cinema di qualità. Frequentando l’Anteo, infatti, si scoprono il Nuovo Cinema Tedesco, rappresentato dai registi Wenders, Fassbinder, Hauff e Herzog, il cinema spagnolo di Almòdovar e poi Frears, Michalkov, Soldini, Waters, Piavoli, Jarmusch, Loach, Mira Nair e tanti altri, italiani e stranieri, privilegiando sempre le cinematografie emergenti. Alla programmazione “normale” si affiancano iniziative di approfondimento culturale a tema, pensate al fine di incuriosire gli spettatori e di avvicinarli alla sala con nuovi stimoli. Per questi motivi nella storia di Anteo si trovano incontri con registi provenienti da tutto il mondo. Nel 1993 dalla saletta video dell’Anteo, dedicata alla proiezione ininterrotta di materiale audiovisivo realizzata da giovani filmaker per una cinquantina di spettatori, viene ricavata la libreria, fornita di un vasto catalogo e di riviste sul cinema e sulle altre arti. Si punta alla creazione di un ambiente dove si respira cultura: in qualche modo andare all’Anteo era ed è tutt’ora una garanzia di arricchimento culturale. La grande scommessa è stata il Multisala d’Autore: nel 1997 da monosala Anteo diventa un cinema da quattro schermi con l’Osteria del cinema. L’idea iniziale dei fondatori di promuovere la cultura cinematografica è rimasta il punto fermo in questi trentaquattro anni di attività, 212 indipendentemente dai cambiamenti che ha subito l’industria cinematografica, realizzandosi pienamente grazie al suo pubblico. Anteo Spazio Cinema è sempre stata una sala polivalente e l’introduzione del digitale non ha determinato un cambiamento della linea editoriale. Il cambiamento, piuttosto, è stato nell’aumento delle opportunità e dell’offerta di contenuti complementari, che devono essere coerenti con la filosofia di Anteo: devono cioè far parte, secondo il pensiero condiviso della critica e dei media, dei prodotti considerati di qualità. Se questo non avviene, quel prodotto viene automaticamente escluso. Sin dalla sua nascita Anteo ha cercato di proporre numerose e differenti iniziative di “qualità”. Col digitale questa possibilità si è fatta più semplice ed è quindi diventata anche più frequente. Gli eventi che ruotano intorno ai contenuti complementari permettono alla sala di ampliare l’offerta con proiezioni rivolte a target diversi. Da una parte possiamo offrire sempre più occasioni di approfondimento culturale, non solo attraverso il cinema ma anche, ad esempio, attraverso un concerto inedito per i nostri abituali spettatori. Dall’altra un contenuto complementare ci consente di far entrare in contatto con la nostra realtà un nuovo tipo di spettatore. Il nostro obiettivo è far diventare questi nuovi spettatori assidui habitué delle nostre sale. Anteo continua ad essere rivolto verso l’innovazione: è infatti la prima sala italiana che ha installato un’antenna satellitare per la trasmissione di eventi per diffondere la nostra realtà ad un gran numero di altre sale cinematografiche sul territorio nazionale e poter quindi condividere le nostre esperienze con altri territori d’Italia. Soprattutto ci permette di proporre e diffondere contenuti originali e alternativi. Anteo quindi, con la sua parabola permanente, sarà in grado di trasmettere sempre più proposte culturali in live streaming. Come per il passato e il presente dell’Anteo, per il futuro non attendiamo sconvolgimenti o metamorfosi particolari. L’importante è, come già crediamo di aver dimostrato, rimanere sempre coerenti nella programmazione, attenti alla qualità e fedeli al proprio pubblico, primo critico della nostra attività”. 213 Per concludere questo lungo racconto che ci accompagna verso il futuro con un suo così piacevole e stimolante profumo di dedizione e volontà, abbiamo chiesto all’amico e regista Daniele Vicari di raccontarci la sua esperienza di Cinema Ritrovato con il film La nave dolce (Indigo Film - Rai Cinema, Microcinema, Italia 2012). Con l’esperienza di distribuzione di questo documentario originalissimo, vero e inatteso, abbiamo potuto vedere una parte della nostra storia e della nostra patria attraverso gli occhi di quegli “altri” che oggi coabitano con noi nella grande Europa senza confini e nel Bel Paese pieno di contraddizioni. Abbiamo potuto ritrovare, insieme e grazie ad un regista risoluto e attento, quella parte del cinema che non si vede quasi mai sul grande (né sul piccolo) schermo e ci sentiamo partecipi di un successo che, seppur a scapito di tante vite umane, è nato nell’immaginazione dei suoi autori ed è diventato reale attraverso il lavoro appassionato e instancabile di Microcinema Distribuzione e del suo team, che ha messo in campo tutta la sua passione come parola d’ordine per vincere ogni sfida. Ci racconta Daniele Vicari: “Per la nostra generazione la storia contemporanea è filtrata dalla cronaca televisiva e giornalistica che tende a livellare nel tempo, per ovvi motivi di “agenda setting”, avvenimenti piccoli o grandi. Un incidente tremendo, occorso ad un povero bimbo caduto in un pozzo nel 1981, può essere percepito in maniera più acuta e sconvolgente del colpo di stato in Polonia avvenuto nello stesso anno e lasciare nella coscienza e nella memoria dei cittadini-spettatori una traccia più profonda e indelebile. Nessuno potrà mai dare una spiegazione esaustiva e scientificamente certa di questo strano modo che abbiamo di recepire gli eventi che viviamo. Allo stesso modo il 1991 è stato un anno complesso, pieno di grandi avvenimenti, la guerra nel Golfo, l’incidente della Moby Prince, la nascita della Lega Nord e persino lo scioglimento dell’URSS sono avvenuti nel 1991, però l’immagine di una nave colma di 20.000 persone che arriva al porto di Bari è rimasta nel nostro immaginario collettivo forse più di tutti questi grandi accadimenti e di tante immani catastrofi. Cosa ha significato quell’arrivo, quali sono state le dinamiche che ha messo in moto, e perché lo riteniamo così importante, sono questioni che sembrano riguardare solo il lavoro degli storici e dei sociologi. Invece 214 non è vero, invece il cinema su una cosa così ha molto da dire. Ecco perché quando nel 2010 la Apulia Film Commission mi ha chiesto di realizzare un film sugli sbarchi albanesi ho scelto di concentrare il racconto sull’episodio della nave Vlora. La gran parte del lavoro di ricerca, scrittura e documentazione, oltre che le riprese, sono state effettuate a cavallo tra la fine del 2010 e l’inizio del 2011. In questa prima fase il lavoro svolto con Antonella Gaeta è stato preziosissimo e stimolante e ha gettato le basi del film. Dalla primavera del 2011 è iniziata una lunga fase di montaggio, durata un anno a mezzo durante la quale Benni Atria non ha mai smesso di montare, scegliere, valutare, costruire quel ritmo “avvincente” che caratterizza La nave dolce, e questo inesausto lavorio ha fatto si che il film vedesse la luce nel settembre 2012 a Venezia. Il cinema ha bisogno di riflessione, pazienza, scavo nei significati, lavoro sul ritmo. Poi però ha bisogno di vivere, “proiettarsi” nel mondo e questo non sempre accade. In Italia nel 2012 sono stati prodotti più di 600 documentari, ma ben pochi hanno avuto fortuna e visibilità. A partire da settembre 2012, con la presentazione al festival di Venezia in selezione ufficiale e con l’assegnazione del Pasinetti quale miglior documentario (assegnato per la prima volta a un documentario nella lunga storia di quel premio) La nave dolce ne ha compiuta di strada. La distribuzione curata da Microcinema ha permesso al film di avere una lunga e fruttuosa vita nelle sale e ha lanciato il film stesso prima in un ampio circuito culturale e poi in televisione. Non c’è angolo d’Italia nel quale il film non sia stato proiettato e discusso. Questa grande diffusione ha fatto si che nei due passaggi televisivi (prima su Telenorba poi su Rai3) il film totalizzasse quasi un milione di spettatori. Per un film a carattere documentario questo è un risultato fantastico e francamente incredibile. In questi giorni, in contemporanea con il festival di Venezia, La nave dolce uscirà in dvd. E io credo che avrà una nuova vita.” 215 216 Emilio Cerri per NECCHI (macchina da cucire modello 562457, 1947) DIZIONARIO ESSENZIALE 217 218 ADSL: acronimo di Asymmetric Digital Subscriber Line, indica una tecnologia appartenente alla famiglia delle xDSL, utilizzata per l'accesso digitale a Internet ad alta velocità di trasmissione su doppino telefonico. ACATS: acronimo di Advisory Committee on Advanced Television Service, è un organo della FCC che ha il compito di approvare lo standard delle TV di ultima generazione negli Stati Uniti. Anaglifo: indica l’immagine tridimensionale utilizzata agli albori della stereoscopia, costituita da due immagini sovrapposte e colorate diversamente tra loro in modo da far percepire al cervello dello spettatore, dotato di occhialini colorati, l’illusione della tridimensionalità dell’immagine. Ansi Lumen: unità di misura della luminosità standardizzata dall’ANSI, acronimo dell’inglese American National Standard Institute. È comunemente usato per definire la luminosità di un proiettore. Aspect ratio: indica il rapporto matematico tra la larghezza e l'altezza di un'immagine. Il formato, o aspect ratio, cinematografico più utilizzato è il formato 1,85:1. Meno diffuso il Cinemascope 2,35:1 (2,39:1). Battuta: quando si parla di “uscita in battuta” si fa riferimento alla prima uscita nazionale. Bit (b): contrazione del termine binary digit = unità binaria. Un bit può definire due livelli o stati, 0 o 1, acceso o spento, bianco o nero, ecc. Bleach bypass: è un procedimento di sviluppo della pellicola cinematografica che si ottiene saltando il passaggio di bleaching (sbiancatura): in questo modo, i cristalli d'argento si fermano sullo strato di celluloide. Questa tecnica consente di ottenere un maggiore contrasto dell'immagine, a scapito di una riduzione della saturazione. Blockbuster: film che, grazie ad una massiccia promozione commerciale prima dell’uscita, è generalmente candidato ad entrare ai primi posti nelle classifiche di vendita di biglietti a livello internazionale. A livello contenutistico ha un carattere di intrattenimento tout court. Blu-ray Disc: vedi Disco ottico. B-movie: identifica un film di bassa qualità. E’ nato negli anni trenta negli Stati Uniti. Pagando un solo biglietto si poteva vedere un film in più e questo spiega anche la loro durata inferiore ai settanta minuti. Si trattava di film di genere (soprattutto western e noir) girati in pochi giorni e sfruttando scenografie e costumi di altri film ben più costosi. Bollywood: è la fusione dei nomi Bombay e Hollywood. Indica gli studios indiani, che hanno una produzione, in lingua hindi, in costante 219 espansione perché si rivolgono ad un mercato potenziale che sfiora il miliardo di persone, giovani e appassionati di cinema. Gli studios Tamil sono chiamati Kollywood e hanno sede nel sud del paese. Box office: chiamato anche in gergo “botteghino”, identifica il totale incassato da un film in un determinato periodo, dato dalla somma del valore lordo dei biglietti (ovvero il prezzo pagato dal pubblico). Brightness (Luminosità): la quantità totale della luce proveniente dallo schermo sul quale è proiettata un’immagine “tutto bianco”. Viene misurata in “candele per metro quadro” oppure in “foot lambert per metro quadro”. Può indicare anche la proprietà di una superficie di emettere o riflettere luce. Broadcasting: sistema di radiodiffusione che permette la trasmissione di informazioni da un unico punto trasmittente a un insieme di punti riceventi non definito a priori. Byte: insieme di otto bit. Viene utilizzato come unità di misura di spazio in informatica. È la quantità di memoria necessaria per memorizzare un carattere alfanumerico. CD: vedi Disco ottico. Central Library: è un server centrale che permette di immagazzinare grandi quantità di contenuti DCP all’interno di una sola macchina (nell’ordine della decina di Terabyte). Le grandi strutture cinematografiche multisala impiegano tali apparecchiature per archiviare tutti i contenuti DCP (o riceverli direttamente via satellite) e per smistare questi ultimi automaticamente nei server di sala. Chiave di crittografia: algoritmo matematico usato per criptare e decriptare i contenuti rendendoli inaccessibili a chi è sprovvisto della chiave. E’ parte integrante della licenza che autorizza l’uso, la decriptazione e la riproduzione del film digitale per quel determinato cinema, schermo, giorno e ora. Cinemakit: è l’insieme “aperto” di apparati tecnologici che permette la ricezione via satellite dei film e degli eventi del catalogo Microcinema, il loro immagazzinamento, la proiezione e l’utilizzo polifunzionale della sala cinematografica con i contenuti procurati in autonomia dall'esercente. È il primo gradino della digitalizzazione ed è sempre upgradabile ai sistemi DCI. Codifica (trattamento dell’immagine): è il processo informatico che consente di ridurre la dimensione dei file video attraverso un algoritmo percettivo di compressione delle informazioni relative alle immagini. La codifica, nel cinema, può generare un file di 720 oppure 1080 pixel. Il 220 cinema digitale usa questi tipi di compressione per ottenere file di dati facilmente gestibili nei successivi processi di masterizzazione, distribuzione e proiezione. Per essere proiettate le immagini devono essere prima decodificate. Nell’accezione comune si usa spesso per identificare programmi o contenuti criptati che necessitano di sistemi di decodifica tipo decoder con smart card. Color grading: è la variazione del bilanciamento dei colori, del contrasto e di altri parametri delle immagini al fine di ottenere un determinato equilibrio cromatico uniforme tra le varie scene. Compressione dell’informazione: è un metodo per ridurre lo spazio occupato da un file audio/video basato generalmente su un algoritmo matematico che elimina tutte quelle informazioni che non sono percepite dal cervello umano, mostrando allo spettatore un’immagine del tutto simile all’originale. Un file compresso occupa meno spazio in un hard disk e impiega meno tempo per essere trasferito via satellite o via ADSL. Content provider: indica il fornitore di contenuti. Contrasto: è la misura del rapporto di luminosità tra l’area a massima luminosità e l’area a minima luminosità dell’immagine proiettata. Cortometraggio: il “corto” è un film di durata massima di 30 minuti. Correttore di trapezio: è un dispositivo che permette di ottenere un’immagine perfettamente rettangolare anche qualora il proiettore non sia in asse con lo schermo. Crominanza (chroma): è la parte dell’immagine che contiene i dati di colore, tonalità e saturazione. D-Cinema: Cinema Digitale. Il sistema di archiviazione e proiezione cinematografica digitale. Gli studios americani e l’SMPTE identificano come cinema digitale la catena produttiva dalla lavorazione del primo master, alla preparazione dei DCDM e DCP, fino alla proiezione. La distribuzione alle sale cinematografiche può essere fatta via satellite, su cavo a banda larga o su media fisico (nastro magnetico, disco ottico o disco magnetico). D5-HD: supporto video in HD caratterizzato da una bassissima compressione dei dati, sviluppato da Panasonic ed utilizzato come master universale (Universal Master) da cui vengono prodotti tutti i contributi per la filiera dello sfruttamento dei diritti audiovisivi: DVD, home video, TV via satellite, TV analogica. Datacine: dispositivo che trasferisce le immagini dalla pellicola al dominio digitale apportando le dovute correzioni di spazio colore. Esso ha ormai soppiantato il vecchio telecine. 221 DC28: vedi SMPTE DC28. DCDM: acronimo di Digital Cinema Distribution Master – È il master non compresso per video/audio e sottotitoli. L’immagine DCDM ha già subito la color correction per la proiezione digitale ed è utilizzata per creare i file compressi utilizzati nella distribuzione del Digital Cinema. Il DCDM è un supporto richiesto da molti festival per la proiezione in digitale. DCI: acronimo di Digital Cinema Iniziative. È un’organizzazione volontaria costituita da Disney, Fox, MGM, Paramount, Sony Pictures, Universal e Warner Bros per investigare sulle possibili tecnologie digitali da utilizzare nel settore cinematografico in sostituzione della pellicola tali che il risultato visivo per lo spettatore appaia uguale o superiore a quello della prima proiezione della prima copia stampata. Il risultato dell’investigazione ha generato raccomandazioni sul D-Cinema che riguardano esclusivamente gli aspetti tecnici (trattamento dell’immagine) ma non le implicazioni commerciali dovute alla loro applicazione. Dal 2008, DCI ha rilasciato centinaia di errata corrige al Digital Cinema Specification. DCP: acronimo per Digital Cinema Package. È l'insieme di file ricavati dal risultato del processo di compressione, codifica, criptazione della copia DCDM con eventuale versione audio e sottotitoli. In pratica, è la copia del film digitale che la distribuzione fornisce agli esercenti. La copia DCP può essere memorizzata su media fisico ed inviato via satellite o rete. Digitale: termine che deriva dall’inglese digit (numero) indica sia un insieme finito di elementi sia ogni forma di organizzazione delle informazioni come combinazione di dati rappresentati sotto forma di segnali discreti (on e off) e tradotti nel codice binario 0 e 1. Un oggetto viene reso in formato digitale quando il suo stato analogico, rappresentato da un insieme infinito di elementi, viene trasformato in un insieme numerabile di elementi. Director's cut: versione di un'opera cinematografica mostrata così com'è stata pensata e realizzata dal regista, rispetto a quella varata dalla casa di produzione (montaggio e durata). Esce di solito in un secondo momento, con le scene e il montaggio voluto dall'autore, che per un motivo o per l'altro avevano subito modifiche nella prima versione. Diritto Theatrical: è il diritto di proiezione e sfruttamento del contenuto audiovisivo per proiezione nelle sale cinematografiche. Diritto Theatrical Digitale: diritto di proiezione e sfruttamento del contenuto audiovisivo relativo alle proiezioni digitali nelle sale cinematografiche del Digital Network intermediato da Microcinema. 222 Disco ottico: tipologia di supporto di memoria, costituita da un disco piatto e sottile in genere di policarbonato trasparente. Tra i più utilizzati: - CD: ha una capienza di circa 700 Mb e viene utilizzato soprattutto nell’industria discografica perché nasce come supporto per l’audio digitale di alta qualità. - DVD: può contenere circa 4,5 Gb di informazioni su di un lato e 18 Gb sulla versione a doppia intensità (circa 40 volte più di un normale CDROM). - Blu-ray Disc: identifica un disco ottico con maggiore capacità di memoria rispetto al DVD normale, in grado pertanto di contenere file audio/video in alta definizione. - DivX: è una tecnologia multimediale proprietaria basata su una variante dello standard di codifica MPEG-4. Il celebre compressore video sviluppato da DivX Inc. è utilizzato da moltissime persone in tutto il mondo e ha creato un ecosistema alternativo allo standard MPEG-4. Di tale ecosistema fanno parte, oltre ad applicazioni (software) per computer, anche lettori DVD/DivX e macchine fotografiche digitali. La particolarità del DivX sta nella sua versatilità nel produrre file di dimensioni ridotte (come filmati di lunga durata) lasciando pressoché inalterata la qualità dell'immagine. In pratica, con le opportune impostazioni, è possibile convertire un film DVD di circa 2 ore in un file DivX da 700 Mb (la dimensione di un CD-ROM) con una eccellente qualità video e audio. Per questo motivo è stato al centro di controversie per il suo utilizzo nella duplicazione e distribuzione di DVD protetti. DLP: acronimo di Digital Light Processing (DLP). È un sistema digitale di generazione delle immagini basato su tecnologia DMD – Digital Micromirror Device sviluppata dalla Texas Instruments insieme alla Digital Projection e usata dai principali costruttori di proiettori per cinema digitale tra cui Barco, Christie e Nec, ma anche per proiettori digitali ovvero per altre applicazioni non necessariamente relative al cinema digitale. Il dispositivo è formato da una matrice di microscopici specchi oscillanti (ciascuno dei quali corrisponde ad un pixel dell’immagine finale), utilizzati per riflettere il fascio luminoso proveniente da una lampada. Una volta colpiti, gli “specchietti”, variando la propria incidenza, rifrangono la luce in modo da creare l’immagine in movimento. È possibile realizzare immagini in tricromia RGB con una sola matrice ma, per migliorare risoluzione e luminosità, possono essere utilizzate tre matrici o chip, uno per ogni colore primario. DRM: acronimo di Digital Rights Management. Complesso di sistemi tecnologici mediante i quali i titolari dei diritti d'autore possono esercitare 223 e amministrare tali diritti nell'ambiente digitale, grazie alla possibilità di rendere protetti, identificabili e tracciabili tutti gli usi in rete di materiali adeguatamente “marchiati”. Con il temine DRM si fa spesso riferimento al certificato digitale che accompagna il film come una carta d’identità, come un curriculum che rileva, concedendo o negando, ogni utilizzo dello stesso. DVD: vedi Disco ottico. Effetto trapezio: effetto visivo che si crea quando il proiettore non è in asse con lo schermo. L’immagine proiettata risulta deformata negli angoli superiori o inferiori e quindi non perfettamente rettangolare. (vedi “Correttore di trapezio”). Ethernet: è un modo per connettere e collegare apparati digitali in rete. La principale caratteristica è il numero di dati digitali (bits) che possono essere trasmessi in un periodo di tempo. Si adopera una rete a 10BaseT o 100BaseT per trasferire informazioni semplici come le istruzioni di controllo, mentre si adopera una rete veloce Ethernet Gigabit 1.000BaseT o 10.000BaseT per trasferire grandi quantità di dati come, per esempio, quelli per il film digitale. FCC: acronimo di Federal Communications Commission, è un’agenzia governativa indipendente degli Stati Uniti creata, diretta e autorizzata dallo statuto congressuale. È un’autorità amministrativa indipendente ma ha maggiori poteri delle corrispondenti authority italiane. La FCC è stata definita dal Communications Act del 19 giugno 1934 come successore della Federal Radio Commission ed è incaricata di tutti gli usi dello spettro radio (incluse le trasmissioni radio e televisive) non governative, di tutte le telecomunicazioni interstatali (via cavo, telefoniche e satellitari) e delle comunicazioni internazionali che provengono e sono destinate agli Stati Uniti. File: insieme strutturato di dati caratterizzato da un’etichetta di metadati e da vari pacchetti di dati. Film Commission: uffici e organismi no-profit, creati e sostenuti da enti pubblici locali (regioni, provincie, comuni). Forniscono gratuitamente i propri servizi, che vanno dall'assistenza logistica all'ottenimento dei vari permessi, dalla ricerca di location alla facilitazione nell'accesso a risorse finanziarie locali. Film scanner: indica un'apparecchiatura che crea una versione digitale della pellicola. I film scanner sono in grado di lavorare a risoluzioni maggiori dell'HD (1920 x 1080). Il formato più comunemente usato è il 2K ma anche il 4K, soprattutto per lavorazioni che contemplano effetti visuali come in post-produzione. 224 Foot-lambert: è l’unità di misura della luminosità (luminanza) sullo schermo di proiezione. Society of Motion Picture and Television Engineers (vedi SMPTE) raccomanda la luminosità degli schermi per i cinema commerciali. L'attuale revisione della specifica SMPTE 196m richiede 16 foot-lambert pari a 55 candele per metro quadrato. Foyer: è il locale, adiacente ad una sala teatrale o cinematografica, dove gli spettatori si intrattengono prima, durante e dopo le pause dello spettacolo. Fonografo: pensato e progettato da Thomas Edison nel 1877, rappresenta uno dei primi strumenti inventati con lo scopo di ottenere la riproduzione e la registrazione dei suoni. FPS (o frame rate): acronimo di Frame per Seconds, è il numero di immagini per unità di tempo che vengono visualizzate (frame). Varia da sei a otto immagini al secondo per le vecchie macchine da presa a 120 o più per le nuove videocamere professionali. Gli standard PAL (Europa, Asia, Australia, ecc.) e SECAM (Francia, Russia, parti dell'Africa ecc.) hanno 25 FPS, mentre l'NTSC (USA, Canada, Giappone, ecc.) ha 29.97 FPS. La pellicola ha una registrazione ad un frame rate minore, di 24 FPS. Per raggiungere l'illusione di un'immagine in movimento il frame rate minimo è di circa 10 fotogrammi al secondo. Frame: vedi FPS. Frame rate: vedi FPS. Full digital: è un esercizio cinematografico che sceglie di proiettare solo in digitale abbandonando completamente la pellicola. Full redundant: caratteristica di un dispositivo progettato per essere utilizzato in applicazioni critiche dove è richiesto il minor tempo di fermo possibile. Tutti gli elementi costitutivi sono ridondati per garantire la massima performance. FUS: acronimo del Fondo Unico per lo Spettacolo, è il fondo utilizzato dal governo italiano per regolare l'intervento pubblico nei settori del mondo dello spettacolo (cinema, teatro, musica, ecc). È stato istituito con l'articolo 1 della legge 30 aprile 1985, n.163 per fornire sostegno finanziario a enti, istituzioni, associazioni, organismi e imprese operanti nell’ambito di cinema, musica, danza, teatro, circo e spettacolo viaggiante, nonché per la promozione e il sostegno di manifestazioni e iniziative di carattere e rilevanza nazionale in Italia o all'estero. Ghost Busting: è un tipo di pre-processamento dell’immagine richiesto da Real-D per evitare il fenomeno di ghosting, nel quale un occhio percepisce marginalmente anche l’immagine destinata all’altro occhio. 225 Per ogni film esistono quindi due versioni di Master GB (Ghost Busted) e NGB (Not Ghost Busted) destinate ai diversi sistemi 3D. In un prossimo futuro su raccomandazione di DCI, saranno unificate nel solo formato NGB (Not Ghost Busted). A questo formato Real-D e i produttori di server si stanno adeguando. Hard drive: è più conosciuto con il termine “hard disk” ed è utilizzato per memorizzare grandi quantità di dati digitali. Nel Cinemakit è usato in configurazione RAID per memorizzare i file dati dei film digitali e pronti per la riproduzione. Hard drive rimovibili possono essere anche usati per trasferire film digitali da una sala all’altra. HD: acronimo di High Definition. E’ un formato televisivo e indica formati di immagine 1280x720 pixel o 1920x1080 pixel. HDCP: acronimo di High-Bandwidth Digital Content Protection. E’ un sistema di protezione sviluppato da Intel per contenuti digitali, programmi televisivi e audio. Il sistema applica una codifica ai flussi audio-video che vengono trasferiti tra due dispositivi per evitare intercettazioni e quindi la copia non autorizzata. HD-DVD: acronimo di High Density Digital Versatile Disc. Come il Blu-ray ma realizzato da un diverso consorzio di produttori e per questo basato su un formato di memorizzazione e gestione dell’immagine incompatibile con Blu-ray. Toshiba ha confermato la cessazione del business HD-DVD, annunciando l'interruzione della produzione. HDSL: High data rate Digital Subscriber Line. Tecnologia xDSL studiata per potenziare la velocità di trasmissione nelle connessioni Internet su doppino telefonico. A differenza della tecnologia ADSL utilizza una linea dedicata per ogni utente. HDTV: acronimo di High Definition TV. Televisione ad alta definizione. Generalmente è costituita da 1920 pixel per ogni linea orizzontale, 1080 pixel in verticale e con un formato immagine 16:9 a differenza della Standard Definition TV che raggiunge al massimo una risoluzione di 720 x 576 pixel. HFR: acronimo di High Frame Rate indica la scansione progressiva a 48 fotogrammi al secondo. Questo tipo di scansione delle immagini è stata introdotta per ridurre la sfocatura delle scene in movimento rispetto ai film a 24 frame e aumentare il senso di realismo delle proiezioni. Il primo film girato a 48 frame è stato “Lo Hobbit” (2012) prodotto dal regista statunitense Peter Jackson. Home theatre: è un sistema audiovideo per uso domestico. Home video: identifica tutte le versioni video per uso domestico (VHS, 226 DVD, DiVX, CD). IEC: acronimo di International Electrotechnical Commission, è una organizzazione internazionale per la definizione di standard in materia di elettricità, elettronica e tecnologie correlate. Molti dei suoi standard sono definiti in collaborazione con l'ISO (Organizzazione internazionale per la normazione). Image compression: indica gli algoritmi e le tecniche che si utilizzano per ridurre la dimensione delle immagini digitali. La compressione è una tecnica utilizzata per memorizzare un'immagine riducendo la quantità di informazioni digitali necessarie per memorizzare elettronicamente l'immagine stessa. IMAX: brand che identifica un’esperienza cinematografica particolarmente coinvolgente, ottenuta attraverso l’utilizzo di tecnologie speciali sia nelle sale (sistemi di proiezione e audio, schermi curvi di grandi dimensioni, design dell’auditorium) che in fase di preparazione dei contenuti (produzione e post-produzione). Inizialmente venivano utilizzati sistemi di proiezione con pellicola 70mm, poi sostituiti da impianti digitali con doppi proiettori allineati in grado di garantire una maggiore resa qualitativa e luminosa rispetto a proiettori tradizionali. Gli impianti audio sono progettati specificamente per ciascun auditorium, così come gli stessi schermi: tipicamente convessi e creati in base a una geometria brevettata, con l’obiettivo di garantire un angolo di visione molto più ampio. I contenuti distribuiti in formato IMAX vengono spesso girati con cineprese speciali e in ogni caso sempre post-prodotti con tecnologie e procedimenti speciali mirati ad ottenere una resa qualitativa superiore. Gran parte dei film IMAX sono caratterizzati da un rapporto d’aspetto più ampio (1.9:1 invece del normale 2.4:1). Ad oggi la maggior parte dei blockbuster hollywoodiani sono preparati e distribuiti anche in formato IMAX; nel mondo sono attive circa 800 sale IMAX. IMB: acronimo di Integrated Media Block. L’IMB è una scheda elettronica che viene inserita all’interno dei proiettori digitali, per gestire il processo di decodifica e decriptazione delle immagini che vengono trasmesse dal server D-Cinema al proiettore. L'IMB cambia radicalmente la gestione della proiezione di immagini digitali nelle sale cinematografiche in quanto, prima del lancio di questa apparecchiatura, nel 2010, la decodifica e la decriptazione delle immagini digitali non era gestita dal proiettore ma dal server che utilizzava una scheda interna conosciuta come Media Block (vedi voce “Media Block”). Questa nuova tecnologia permette alle sale cinematografiche dotate di proiettori digitali di seconda serie di proiettare i film a 48 frame per secondo; inoltre l’IMB svolge un importante ruolo contro la pirateria in quanto introduce nuovi 227 metodi di criptazione dei contenuti proiettati. Interlacciato: sistema analogico di codifica delle immagini basato sulla scansione di ogni fotogramma in due campi, composti il primo dalle linee dispari e il secondo dalle linee pari che formano l’immagine. In caso di immagini dinamiche possono formarsi effetti come sfarfallio delle righe o effetti scalino. Il sistema interlacciato consente di trasferire in due tempi ogni fotogramma utilizzando risorse limitate di banda. E’ il sistema utilizzato dalla televisione tradizionale sia in Standard Definition sia High Definition. International cut: montaggio di un film per il mercato. Interoperabilità: capacità di fornire un interscambio efficiente di immagini e audio elettronici e dei dati associati tra diversi formati di segnale, tra diversi mezzi di trasmissione, tra diverse applicazioni, tra diversi livelli di prestazione (FCC ACATS). In pratica identifica l’effettiva compatibilità tra apparati e sistemi diversi forniti da diversi costruttori. E’ un’esigenza degli esercenti di vitale importanza per le sale. ITU: acronimo di International Telecommunication Union. È l’agenzia delle telecomunicazioni dell’ONU ovvero l’organismo internazionale, con sede a Ginevra, responsabile della definizione di tutte le normative riguardanti la telecomunicazione (anche il GSM che usiamo per telefonare è normato dall’ITU). ITU.B.709: identifica lo standard della HDTV. ISO: acronimo di International Organization for Standardization, è la più importante organizzazione a livello mondiale per la definizione di norme tecniche. Fondata il 23 febbraio 1947, ha il suo quartier generale a Ginevra in Svizzera. Membri dell'ISO sono gli organismi nazionali di standardizzazione di 157 Paesi del mondo. In Italia le norme ISO vengono recepite, armonizzate e diffuse dall'UNI, il membro che partecipa in rappresentanza dell'Italia all'attività normativa dell'ISO. L'ISO coopera strettamente con l'IEC, responsabile per la standardizzazione degli equipaggiamenti elettrici. JPEG: acronimo di Joint Photographic Expert Group (gruppo di standardizzazione internazionale che lavora sotto ISO e IEC e che sviluppa un consenso internazionale sugli algoritmi della image compression per una continuità di tono e colore delle immagini ferme). Identifica un algoritmo di compressione delle immagini statiche che permette di ridurre lo spazio occupato dal file pur mantenendo buona parte delle caratteristiche di qualità dell’immagine. Sfruttando il funzionamento del cervello umano nel percepire forme e colori, questo formato di codifica semplifica le immagini eliminando minuscoli dettagli, 228 normalmente impercettibili, sostituendole con un modello matematico che consente di rappresentarle con una quantità di informazioni notevolmente inferiore. L’immagine viene così compressa, con un fattore variabile, regolabile a piacere al momento della creazione del file: maggiore sarà la compressione, minori le dimensioni del file. K: numero di pixel di risoluzione orizzontale di un'immagine. "K" è l'abbreviazione di "Kilo" che significa 1000 o abbreviato 1K. KDM: “Key Delivery Message”, vedi Licenza. Kinetoscopio: ideato da Thomas Edison nel 1888, sviluppato negli anni successivi da William Dickson. Sorta di grande cassa sulla cui sommità si trovava un oculare; lo spettatore poggiava l'occhio su di esso, girava la manovella e poteva guardare il film montato nella macchina su rocchetti. Attraverso un piccolo foro situato nella parte superiore dell'apparecchio si poteva vedere un breve filmato, proiettato facendo scorrere la pellicola da 35 mm ad una velocità di 48 immagini per secondo. Kolossal: film in cui tutto è svolto in grandi dimensioni, a partire dal budget, al cast di attori sino alle scenografie, agli effetti speciali ed al lancio pubblicitario. LCD: il Liquid Cristal Display è un tipo di display principalmente utilizzato per monitor è TV. Orientati in modo opportuno, i "cristalli liquidi" possono consentire o meno il passaggio della luce proveniente dalla retroilluminazione del pannello illuminando lo schermo. Licenza: conosciuta anche come Key Delivery Message (KDM) è il metodo standardizzato per spedire le chiavi di sicurezza (key) al server di sala e contiene le chiavi necessarie a decriptare un determinato film in un determinato cinema, oltre a informazioni sul suo uso. Può essere su memoria USB o su rete oppure essere nell'hard drive che contiene il film o contenuto digitale. LSDI: acronimo di Large Screen Digital Imagery, è una famiglia di sistemi digitali di proiezione relativi ai grandi schermi come i cinema, i teatri e le grandi installazioni. Esistono molti sistemi di questo tipo, a seconda delle dimensioni dell’ambiente in cui vengono installati, e sono sempre caratterizzati da dispositivi di alta qualità. Lungometraggio: è un film della durata minima di 60 minuti. M-Box: è il server di sala interoperabile VC-1 / DCI presentato al mercato da Microcinema nel 2008. M-box 2.0: nuova versione 2011 del server M-Box, equipaggiato con processori più potenti e maggiore spazio su disco. Può ricevere, immagazzinare e proiettare oltre 200 titoli tra film e opere del catalogo 229 Microcinema e tutti film in formato DCI. Ad oggi è l'unico sistema interoperabile disponibile sul mercato. Major: è la definizione dei principali studios americani di produzione e distribuzione di film. Universal, Sony Columbia Tri-star Pictures, Warner Bros, Twenty Century Fox, Metro-Goldwyn-Mayer, Dreamworks SKG, Disney Corporation, Paramount. Masterizzazione: le attività in postproduzione per raggiungere la edizione finale di un film (per l'appunto il “master”). Matte painting: tecnica utilizzata prevalentemente in ambito cinematografico che permettere la rappresentazione di paesaggi o luoghi troppo costosi se non impossibili da ricostruire o raggiungere direttamente. Media Block: è l’hardware necessario per decriptare e decodificare i contenuti DCP. Solitamente si trova all’interno dei server DCI ma dal 2011, con la nascita dei proiettori digitali di seconda serie, il consorzio DCI ha raccomandato l’utilizzo degli IMB (Integrated Media Block, vedi anche “IMB”). Ovvero tale hardware è integrato nel proiettore, aumentando la sicurezza dei dati trasmessi (tra server e proiettore) e abbattendo i costi di acquisto (perché tali dati vengono decriptati, decodificati e decompressi solo nel proiettore e non più anche nei server). DCOSA Technical Overview, Versione 1.0 del 7-10-2010. Megaplex: indica un esercizio cinematografico con oltre 16 schermi. Metadata: è una componente fondamentale per archiviare contenuti digitali e semplificare l’accesso agli stessi in una fase successiva. Sono le informazioni sovrascritte sui contenuti stessi che descrivono un insieme di dati come il titolo, durata, ora e data, dettagli sul copyright, formato immagine, tipo audio e via di seguito. Microplex: sono gli esercizi cinematografi con meno di 3 schermi. Solitamente si caratterizzano per programmazione flessibile e legata al cinema sia d’essai sia commerciale. MiBAC: sigla del Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Fu istituito dal governo Moro nel 1974 con il compito di affidare unitariamente alla specifica competenza di un Ministero appositamente costituito la gestione del patrimonio culturale e dell'ambiente al fine di assicurare l'organica tutela di interessi di estrema rilevanza sul piano interno e nazionale. MJPEG-2000: (Motion JPEG) formato di compressione delle immagini digitali in movimento basato sullo schema di compressione JPEG utilizzato per le immagini fisse (prevede infatti la compressione di ogni singolo fotogramma individualmente). Si caratterizza per una bassissima 230 perdita di informazioni dovuta alla compressione, che è pur sempre consistente. Questo metodo è stato scelto da DCI per il cinema digitale. Qualsiasi server DCI deve lavorare con dati compressi MJPEG 2000. MPEG-2: standard di codifica dei dati digitali usato principalmente per contenuti LSDI, contenuti alternativi e HDTV. Utilizzato nei DVD e nella TV digitale. Multiplex: indica un esercizio cinematografico con numero di schermi compreso tra 4 e 16. Multisala: indica tutte gli esercizi cinematografici con più di 3 schermi. Secondo Medialsalles il termine “multisala” indica le strutture ottenute dal frazionamento di grandi cinema mentre i multiplex o i megaplex nascono sulla base di una progettazione specifica. MXF: acronimo di Material Exchange Format. È il formato utilizzato per l’interscambio dei file di dati tra sistemi e apparati cinema digitale di diversi costruttori. È la base della interoperabilità. NAS: acronimo di Network Attached Storage. È una memoria di massa costituita da uno o più dischi rigidi attrezzati.Permette di centralizzare l'immagazzinamento dei dati in un solo dispositivo accessibile a tutti i nodi della rete. Solitamente sono installati con architettura RAID (VEDI "RAID") che garantiscono una migliore gestione della sicurezza dei dati e della proiezione. NATO: acronimo di National Association of Theater Owners. È l’associazione degli esercenti cinematografici principalmente americani. NTSC: è uno standard per la creazione, trasmissione e ricezione di contenuti video per le aree geografiche Corea, Giappone, Canada, USA e alcuni paesi americani. Il suo nome è la sigla di National Television System(s) Committee, l'ente di standardizzazione industriale che lo ha creato. L'NTSC è un formato di tipo interlacciato con una cadenza di ripresa di 30 fotogrammi al secondo (in realtà la frequenza esatta è di 29,97 Hz) e prevede l'utilizzo di 525 linee per la definizione di un fotogramma completo e di 262,5 linee per ogni semiquadro. Occhiali 3D Attivi: sono occhiali per 3D dotati di otturatori LCD montati in luogo delle lenti che si aprono e chiudono svariate volte al secondo mostrando alternativamente l’immagine per l’occhio destro e quella per il sinistro, creando quindi l’illusione dell’immagine tridimensionale. Occhiali 3D Passivi: sono occhiali per il 3D dotati di lenti polarizzate in grado di filtrare per ogni occhio l’immagine ad esso destinata, senza lasciar passare le informazioni destinate all’altro occhio, creando in tal modo l’illusione dell’immagine tridimensionale. 231 PAL: acronimo di Phase Alternating Line, è un metodo di codifica del colore utilizzato nella televisione analogica, usato in quasi tutto il mondo. Fanno eccezione parte del continente americano, alcune nazioni dell'est asiatico, parte del Medio Oriente, dell'Europa orientale e la Francia. La maggior parte dei Paesi che adottano il PAL utilizzano una scansione interlacciata a 625 linee orizzontali e 50 fotogrammi al secondo. Perfect Film Look: marchio creato da Microcinema per indicare la qualità delle proprie proiezioni, che mantengono, grazie alla particolare codifica dell’immagine, tutta la fluidità delle normali proiezioni in pellicola (vedi Progressivo). Pixel: unità elementare con cui viene rappresentata un’immagine (come la cellula per il corpo umano, come l’atomo per la materia, ecc.). Abbreviazione per “elemento di un’immagine” (PICture Element). Normalmente indica il numero di pixel facenti parte di una linea orizzontale dell’immagine, o dell’intero fotogramma (pixel orizzontali e verticali) di ogni immagine. È considerata l’unità elementare componente tutte le immagini. Per ciascun pixel può essere memorizzata una certa quantità di informazioni, tale da ricostruire il colore e la luminosità dello stesso; maggiore è la quantità di informazioni sui singoli pixel, maggiore la qualità dell’immagine e la fedeltà al colore originale. La dimensione di un pixel dipende dalle dimensioni dello schermo. Polarizzazione: processo inventato da Polaroid negli anni Trenta destinato a ridurre i riflessi sulle lenti dei fari delle automobili provenienti in senso contrario. La luce viene filtrata in un senso ben preciso eliminando tutte le onde luminose provenienti dalle direzioni che non siano quella prescelta. Comporta una diminuzione di luminosità di ciò che si vede ma anche una diminuzione dei riflessi. Questo processo sta alla base di ogni sistema 3D. Prequel: opposto del sequel. Sconvolge la corrispondenza cronologica tra la produzione di un film e la sua ambientazione, tornando indietro in quello che è l'ordine degli eventi presentato dal film precedente. Progressivo: sistema digitale di codifica delle immagini basato sulla scansione completa di ogni singolo fotogramma (la procedura di generazione del segnale video è infatti denominata “a immagine completa”). È una trasposizione in digitale del comportamento della macchina da presa in pellicola. È un sistema utilizzato sia per la ripresa sia per la proiezione cinematografica. Trova applicazione nella risoluzione HD 720p e 1080p. A parità di frequenza, la scansione progressiva richiede il doppio della banda rispetto a quella interlacciata. RAID: acronimo di Redundant Array 232 of Indipendent Disks. È un’architettura usata nei migliori sistemi di sala per evitare le interruzioni nella proiezione. I file sono memorizzati su hard disk multipli onde assicurare affidabilità da errori o cancellazioni: se un hard disk non funziona, si ha la sicurezza che i dati digitali siano reperibili da altro hard disk del RAID e non si ha alcuna interruzione di proiezione. Refresh Rate: indica il numero di volte in cui viene ripetuta l'immagine su un display nell’arco di un secondo. Di norma più si aumenta la velocità di aggiornamento più si riduce lo sfarfallio dell’immagine defaticando l’occhio, un refresh troppo elevato può però danneggiare il display. La frequenza di aggiornamento più comune per i televisori moderni è di 60Hz per i sistemi basati NTSC e di 50Hz per i sistemi basati PAL. Remake: rifacimento di un film. Risoluzione: la risoluzione indica il grado di qualità di un'immagine stampata. Generalmente si usa questo termine relativamente a immagini digitali, ma anche una qualunque fotografia ha una certa risoluzione. La risoluzione indica la densità dei pixel, ovvero la quantità dei puntini elementari che formano l'immagine rapportata ad una dimensione lineare (ad esempio pixel/cm o pixel/pollice). Le risoluzioni per cinema digitale attualmente specificate dal consorzio DCI sono 2K (2048 pixel orizzontali x 1080 pixel verticali) e 4K (4096 pixel orizzontali x 2160 pixel verticali). Risoluzione di proiezione: è la risoluzione della matrice del proiettore su cui si forma l’immagine ovvero il numero di pixel con cui l’immagine viene rappresentata (all’aumentare della risoluzione, aumenta il numero di pixel che a parità di area diventano più piccoli e per questo rendono l’immagini più definita: linee oblique sempre più rette e meno “a scaletta”). Sbigliettamento nettissimo: indica l’incasso da biglietteria al netto di IVA, SIAE e altre tasse in genere che dovessero gravare a vario titolo sullo spettacolo. SD: acronimo di Standard Definition. Indica formati di immagine di 720x576 pixel. SDTV: acronimo di Standard Definition TeleVision, identifica le trasmissioni televisive con un video simile a quello degli standard analogici maggiormente diffusi nel mondo nella seconda metà del XX secolo. È, in altre parole, un termine che sta a indicare genericamente un livello qualitativo dell'immagine televisiva. I formati più diffusi sono da 576 o 480 linee di risoluzione verticale delle immagini e con frequenza rispettivamente di 25 o 30 immagini al secondo con scansione interlacciata. 233 SECAM: acronimo del francese SÉquentiel Couleur À Mémoire (traduzione letterale: colore sequenziale con memoria), è un sistema di codifica della televisione a colori utilizzato per la prima volta in Francia. La risoluzione e i fotogrammi al secondo sono i medesimi dello standard PAL (576 linee per 50 fotogrammi al secondo). Sequel: film che presenta dei personaggi e/o degli eventi cronologicamente posteriori a quelli già apparsi in un precedente episodio. Server: in informatica il termine indica genericamente un componente informatico che fornisce un qualunque tipo di servizio ad altre componenti attraverso una rete di computer. Con un’altra accezione, viene considerato un computer specifico, caratterizzato da alta affidabilità e prestazioni al top della gamma. Ed è così che viene contestualizzato in ambito cinematografico: i server DCI e il server M-box 2.0 sono dei potenti computer in grado di codificare e visualizzare uno streaming video ad altissima definizione. Silver Screen: schermo cinematografico altamente riflettente e di conseguenza con un alto valore di luminosità, in grado di compensare così la minor luce che arriva allo spettatore a causa della polarizzazione e di mantenere un valore di luminosità specifica dello schermo al di sopra dei parametri stabiliti da SMPTE. Sistemi 3D: sistemi per la gestione delle immagini 3D basati sul diversi protocolli - Dolby: occhiali passivi con filtro ad interferenza. È consigliabile uno schermo bianco ultrabright ad alto guadagno o uno schermo argentato per raggiungere il valore di luminosità specificato SMPTE. - MasterImage e Real-D: occhiali passivi a polarizzazione circolare “usa e getta”. Richiede uno schermo argentato per visualizzare le immagini. - X-Pand e Trivision: occhiali attivi dotati di otturatore LCD riutilizzabili. Può essere impiegato con il tradizionale schermo cinematografico bianco. SMPTE: acronimo di Society for Motion Picture and Television Engineers. Si tratta di una associazione professionale internazionale basata in USA e con sezioni in tutto il mondo, che si occupa di individuare raccomandazioni e linee guida che consentano di predisporre gli standard utilizzati da cinema e televisione insieme ad altri enti sovranazionali quali EBU (European Broadcasting Union) e ITU. SMPTE 274M: standard SMPTE che definisce le varie risoluzioni 234 ammesse per le immagini in alta definizione. SMPTE 412M/VC-1: formato di compressione delle immagini digitali in movimento sviluppato da Microsoft con il nome di Windows Media e successivamente standardizzato da SMPTE. Come formato di compressione di immagini in HD anche per HD-DVD e Blu ray disk. SMPTE-DC28: è il gruppo di studio di SMPTE incaricato di definire gli standard del D-Cinema. Il DC28 è costituito da ben definiti gruppi di lavoro che, strategicamente connessi, preparano standard e raccomandazioni che assicurino, tra l’altro, l’interoperabilità, la compatibilità e la qualità dei componenti e dei sistemi necessari alla transizione al cinema digitale. Spazio colore: è la gamma completa di colori. Nei proiettori per cinema digitale, il color space può essere riprogrammato per creare un look differente per differenti contenuti. Il diagramma generale di riferimento per il color space è quello definito dal diagramma del CIE che include i colori potenzialmente visibili dall’occhio umano. Spin-off: film ricavato mantenendo l’ambientazione di fondo di una serie o di un'opera precedente, rielaborando un personaggio secondario e facendone avvolte il protagonista. Stereoscopia: è la definizione tecnica e non commerciale di 3D. Stop-motion: tecnica chiamata anche ripresa a passo uno o animazione a passo uno. E’ una tecnica di ripresa cinematografica e di animazione. Il termine "passo uno" si ricollega alla scelta di quadri per secondo: se i quadri, ovvero i fotogrammi, sono tutti differenti si parla di passo uno. Il passo uno sfrutta una particolare cinepresa che impressiona un fotogramma alla volta, azionata dall'operatore o dall'animatore. Con questo processo è quindi possibile creare il movimento dei cartoni animati. Streaming: indica un flusso di dati audio/video trasmessi da una sorgente a una o più destinazioni tramite una rete telematica. Questi dati vengono riprodotti man mano che arrivano a destinazione. Lo streaming si divide in due categorie: on demand e live. On demand quando i contenuti audio/video sono inizialmente compressi e memorizzati su un server come dei file; non è necessario scaricarli per intero sul PC per poterli riprodurre: i dati ricevuti vengono decompressi e riprodotti pochi secondi dopo l'inizio della ricezione. Live quando la riproduzione è simile alla tradizionale trasmissione radio o video in broadcast con l’introduzione di un lieve ritardo rispetto al tempo dell’evento, dovuto ai tempi di compressione/decompressione dei dati. 235 Studios: in origine erano Universal Studios, 20th Century Fox, Paramount Pictures, MGM Metro-Goldwyn-Mayer. The Walt Disney Company e Warner Bros Pictures producevano solo cartoni animati. Oggi major e studios nell’accezione comune sono sinonimi e includono: The Walt Disney Company (che possiede Miramax e Buenavista), Universal Studios di proprietà General Electric e Vivendi, 20th Century Fox della News Corporation (Murdoch), Warner Bros. Pictures di Time Warner, Paramount Pictures della Viacom, Sony Pictures Entertainment (Columbia Tri-star) che ha un accordo di distribuzione con Warner Bros, MGM Metro-Goldwyn-Mayer che ha un accordo di distribuzione con Sony, DreamWorks SKG legata all’indiana Reliance. Surround: letteralmente circondare. Rappresenta il fronte sonoro alle spalle dell’ascoltatore riprodotto da diffusori acustici posizionati, secondo prestabilite regole, alle spalle dell'ascoltatore stesso. Teaser trailer: Trailer che non mostra una serie di brevi sequenze, ma una sola sequenza di grande effetto in genere di brevissima durata (dai trenta secondi al minuto). Tenitura: indica il periodo, solitamente espresso in giorni, durante il quale un film viene contrattualmente “tenuto in proiezione” in sala. Telecine: dispositivo/procedimento che trasferisce le immagini dalla pellicola a un qualsiasi formato televisivo. Time Slice: in italiano “fetta di tempo". Vecchia tecnica fotografica, nella quale un grande numero di fotocamere è disposto attorno ad un oggetto e viene fatto scattare simultaneamente. Quando la sequenza degli scatti è vista come un filmato, lo spettatore vede come le "fette" bidimensionali formano una scena tridimensionale. Nel cinema l'effetto speciale che consente di vedere ogni momento della scena in slow-motion mentre l’inquadratura sembra girare attorno alla scena alla velocità normale, prende il nome di Bullet time. TMS: acronimo di Theatre Management System. È l’interfaccia grafica che consente la gestione del server di sala e del proiettore da parte dell’esercente. Il TMS è prevalentemente utilizzato dai cinema multisala che, dovendo gestire più sale contemporaneamente, possono programmare e controllare tutte le proiezioni da un’unica interfaccia di gestione. Upgrade: si riferisce alla possibilità di sostituire un componente informatico con uno di livello superiore o di più recente concezione. E’ possibile effettuare un upgrade di fronte ad un’offerta strutturata e modulare, pensata per consentire investimenti incrementali senza rischio di perdita del denaro investito per i livelli inferiori. Naturale nel software, 236 esemplificabile nell’hardware con un parallelo di facile intuizione in campo automobilistico: una volta acquistata un’auto, se si decide di montare un particolare tipo di navigatore si paga solo la cifra necessaria ad installare il nuovo accessorio. UPS: acronimo di Uninterruptable Power Supply. Si riferisce a un dispositivo in grado di garantire la continuità dell’alimentazione elettrica di un appartato anche in mancanza di alimentazione di rete (gruppo di continuità). VC-1: è il nome informale dello standard SMPTE 421M per la compressione dei filmati video in alta definizione sviluppato inizialmente da Microsoft. Le specifiche ufficiali sono state rilasciate il 3 aprile 2006 dalla SMPTE e viene utilizzato negli HD-DVD, Blu-ray. È il formato scelto da Microcinema per la compressione dei suoi contenuti perché garantisce un ottimo rapporto spazio su disco/qualità di visione. VPF: acronimo di Virtual Print Fee – Meccanismo studiato dalle major americane per agevolare la digitalizzazione delle sale cinematografiche attraverso una partecipazione agli investimenti in tecnologia. Negli anni il VPF si è evoluto in tre filoni: - VPF standard: è il modello originario gestito da un soggetto terzo (un integratore di sistemi) che con l’appoggio di una banca acquista le tecnologie e le integra per fornire ad ogni sala cinematografica un sistema capace di gestire la proiezione di film digitali. Il costo delle tecnologie viene sostenuto per il 70/80% dalle major e per il 30/20% dalle sale che hanno aderito all’accordo di VPF. Come contropartita gli apparati rimangono di proprietà della terza parte per 10 anni. La programmazione e il rilascio delle chiavi avviene attraverso l’integratore che si occupa dell’installazione, del training e della manutenzione dei sistemi (i costi di training e di manutenzione non sono compresi negli accordi di VPF ma addebitati direttamente alla sala). Inizialmente in Europa erano presenti tre operatori con accordi di VPF siglati con major studios: Arts Alliance Media - AAM (Inghilterra), XDC (Belgio) e Ymagis (Francia). Oggi l’unica società rimasta operativa è Arts Alliance Media. - VPF “all’italiana”: identifica le linee guida elaborate da ANEC, ANEM, ACEC e ANICA per realizzare, senza intervento di una terza parte, la partecipazione dei distributori all’investimento digitale degli esercenti. Non si tratta di un contratto ma di una serie di raccomandazioni che possono essere o meno messe in pratica su base volontaristica da parte dei distributori nazionali. - VPF 2.0: è l’evoluzione del VPF standard o VPF europeo che prevede l’intervento della terza parte come gestore dei rimborsi dei distributori 237 verso gli esercenti e non più come investitore e integratore tecnologico. VPF 2.0 è la modalità di supporto presentata da Microcinema al mercato nell’anno 2012 per finanziare sistemi nuovi o rifinanziare sistemi già acquistati e installati nelle sale cinematografiche. La proprietà dei sistemi è degli esercenti fin dal primo giorno e tutte le regole di rimborso sono definite in un contratto che tutela i cinema della durata di 10 anni. VPN: acronimo di Virtual Private Network. Una VPN è una rete privata instaurata tra soggetti che utilizzano un sistema di trasmissione pubblico. Le reti VPN utilizzano collegamenti che richiedono qualche forma di autenticazione per garantire che solo gli utenti autorizzati vi possano accedere. Per impedire l’intercettazione e l’utilizzo dei dati inviati da altri non autorizzati, esse utilizzano sistemi di crittografia. Watermarking: tecnica per la sovrapposizione di particolari informazioni alle immagini dei film digitali. Tali informazioni, invisibili all’occhio umano, sono usate per scoprire quando e dove un particolare film è stato piratato in un determinato cinema. Widescreen: indica uno schermo con formato superiore a 4:3, il vecchio standard televisivo. Gli schermi 16:9 sono considerati wide screen che in campo cinematografico corrisponde a 1,78:1. 16:9: rapporto aspetto/immagine usato per l’HDTV e alcuni apparecchi SDTV (di solito digitali). La larghezza dell’immagine corrisponde a 1,8 volte la sua altezza. 5.1: sigla che indica la riproduzione audio a sei canali. Questa configurazione audio è diffusamente utilizzata nel mondo del cinema ma anche nella televisione, nei dischi ottici (vedi “Disco ottico”) e in altri supporti di riproduzione e trasmissione audio. Ha il preciso scopo di collocare l’ascoltatore al centro della scena audio grazie alla presenza di un fronte audio anteriore e di un fronte audio posteriore. 24p: è l’abbreviazione usata per definire la scansione progressiva di immagini a 24 fotogrammi al secondo. Per migliorare la compatibilità tra analogico e digitale, lo standard per un’acquisizione di cinema digitale è stato fissato inizialmente a 24fps (24 fotogrammi progressivi al secondo) ma la SMPTE sta analizzando la possibilità di inserire anche la scansione a 25p, 30p, 50p e 60p nei prossimi anni. 25p: è la scansione progressiva di immagini a 25 fotogrammi al secondo. E’ usato per le produzioni HD in Europa e in altri Paesi che usano sistemi televisivi a 50Hz. 48p: abbreviazione che indica la scansione progressiva a 48 fotogrammi al secondo. Questo tipo di scansione delle immagini è stata di recente 238 introdotta nel mondo della cinematografia, l’obiettivo di tale tecnologia è quello di ridurre la sfocatura delle scene di movimento rispetto ai film a 24 frame e aumentare il senso di realismo delle scene. Il primo film girato a 48 frame è stato “Lo Hobbit” (vedi anche “HFR”). 720i: indica il formato HD con risoluzione 1280x720 interlacciato e si riferisce agli standard internazionali SMPTE 274M e ITU 709. Differisce dal formato progressivo per la divisione dell’immagine in due campi consecutivi. Vedere separatamente la definizione delle sigle. 720p: indica il formato HD con risoluzione 1280x720 progressivo e si riferisce allo standard internazionale di produzione HD ITU-B 709. Vedere separatamente la definizione delle sigle. 720 indica il numero delle righe orizzontali mentre 1280 indica il numero di pixel orizzontali ovvero il numero delle colonne. Complessivamente si possono così rappresentare quasi 1 milione di pixel. 1080i: indica il formato HD con risoluzione 1920x1080 interlacciato e si riferisce agli standard internazionali SMPTE 274M e ITU 709. Differisce dal formato progressivo per la divisione dell’immagine in due campi consecutivi. Vedere separatamente la definizione delle sigle. 1080 indica il numero delle righe orizzontali dell’immagine mentre 1920 indica il numero di colonne ovvero il numero di pixel orizzontali. Complessivamente possono essere in questo modo rappresentati circa 2 milioni di pixel. 1080p: indica il formato HD con risoluzione 1920x1080 progressivo e si riferisce allo standard internazionale di produzione HD ITU-B 709. Vedere separatamente la definizione delle sigle. 1080 indica il numero delle righe orizzontali dell’immagine mentre 1920 indica il numero di colonne ovvero il numero di pixel orizzontali. Complessivamente possono essere in questo modo rappresentati circa 2 milioni di pixel. 1.3 K: si riferisce ad immagini digitali con risoluzione 1280x720 pixel. 1.3 K indica la risoluzione orizzontale di 1280 pixel. Nasce per il formato 16:9 pari ad un aspect ratio di 1,77:1. Per il formato cinema (1,85:1) e per il cinemascope (2,35:1) viene applicato un letterbox orizzontale, cioè l’immagine proiettata occupa un’area inferiore rispetto all’area disponibile e si creano delle strisce orizzontali nere negli spazi liberi dall’immagine. Il primo proiettore digitale con una tecnologia e chip DLPC 1.3K della Texas fu per la prima volta commercializzato a Marzo 1999 con la distribuzione del film in digitale della 20th Century Fox “Star Wars: Episodio I – La minaccia fantasma”. 1.9 K: si riferisce ad immagini digitali con risoluzione 1920x1080 pixel. 1.9 K indica la risoluzione orizzontale di 1920 pixel. Nasce per il formato 239 TV 16:9 pari ad un aspect ratio di 1,77:1. Per il formato cinema (1,85:1) e per il cinemascope (2,35:1) viene applicato un letterbox orizzontale, cioè l’immagine proiettata occupa un’area inferiore rispetto all’area disponibile e si creano delle strisce orizzontali nere negli spazi liberi dall’immagine. 2K: si riferisce ad immagini digitali con risoluzione 2048x1080 pixel. 2K indica la risoluzione orizzontale di 2048 pixel. Si adatta al formato cinema, pari ad un aspect ratio di 1,85:1 con una matrice 1:89:1. Per il formato TV 16:9 viene applicato un letterbox verticale, cioè l’immagine proiettata occupa un’area inferiore rispetto all’area disponibile e si creano delle strisce verticali nere negli spazi liberi dall’immagine. Per il formato cinemascope (2,35:1) viene applicato un letterbox orizzontale. Un proiettore con un chip DLPC 2K fu per la prima volta commercializzato in USA a novembre 2003 con la distribuzione del film in digitale della Warner Bros “L’ultimo samurai”. 4K: si riferisce ad immagini digitali con risoluzione 4096x2160 pixel. 4K indica la risoluzione orizzontale di 4096 pixel. Il 4K garantisce una risoluzione di immagini quattro volte superiore alla risoluzione 2K. Si adatta al formato cinema, pari ad un aspect ratio di 1,85:1 con una matrice 1:89:1. Per il formato TV 16:9 viene applicato un letterbox verticale, cioè l’immagine proiettata occupa un’area inferiore rispetto all’area disponibile e si creano delle strisce verticali nere negli spazi liberi dall’immagine. Per il formato cinemascope (2,35:1) viene applicato un letterbox orizzontale. 240 Philippe Starck per OFFICINA ALESSI (spremiagrumi, 1988) 241 242 Ringraziamenti Ogni anno, alla chiusura di ciascuno dei nostri quaderni, ho voluto ricordare le persone che, con il loro indispensabile e appassionato contributo, rendono possibile il lavoro quotidiano di Microcinema e la sua continua proposizione prospettica. Anche in questa occasione voglio esprimere la mia più autentica e sentita riconoscenza a tutti coloro che, nei ruoli più diversi e nelle forme loro più congeniali, ma tutti con una passione che considero veramente fuori del comune, partecipano all’attività di Microcinema. Desidero iniziare quest’anno con un ringraziamento particolare, che sento sinceramente dovuto, a tutti quegli imprenditori che rischiano, decidono e vivono con noi il presente e il futuro di Microcinema, che hanno creduto nel suo progetto e nel suo potenziale e che sono capaci, ogni giorno, di impegnarsi con noi per condividerlo e immaginarlo nel domani, tanto professionalmente quanto con emozione. Grazie poi a tutti i miei collaboratori. In questo momento per me non esiste alcuna scala di valori perché la mia volontà e il mio bisogno sono quelli di un apprezzamento collettivo, tanto ai singoli quanto al gruppo. E poi, con un semplice ordine alfabetico, ho il piacere di ricordare chi mi ha affiancato e mi ha supportato in questa nostra sesta fatica editoriale. Grazie davvero a: Eleonora Belligni che ci ha ormai abituati a lavori di ricerca rigorosi, ad una grande capacità di sintesi e ad una scrittura colta e piacevole al tempo stesso. Alessandro Firpo, amico sincero, motore e mentore di questo progetto editoriale. Non gli mancano mai idee e pazienza. Tanta pazienza. Cesare Fragnelli alla cui intuizione e caparbietà dobbiamo la crescita e il successo di Microcinema Distribuzione. Roberto Gobesso che fin dal Q1 veste i nostri quaderni in modo sempre vivace non meno che elegante. Silvana Molino, propulsore a tutto campo dell’attività di Microcinema 243 con intelligenza e competenza, con instancabile impegno e con il contributo, quotidiano e provvidenziale, del suo ordine inflessibile, un vero e proprio baricentro senza il quale non riusciremmo a fare le tante cose che rendono così dense le nostre giornate di lavoro. Ha curato la redazione di tutti i quaderni. Per lei, anche a nome di tutti, un pensiero davvero speciale. Ingrid Pocher, con metodo teutonico gestisce la logistica e risolve i piccoli e grandi problemi quotidiani che tutti noi abbandoniamo sulla sua generosa scrivania. Concludo, come sempre, con il mio affettuoso ringraziamento personale alle nostre famiglie, che sopportano noi e il nostro lavoro ogni giorno dell'anno, anche durante i rari momenti liberi, anche durante le vacanze. Un grazie particolare ai nostri bambini, Laura e Alessandro, con Gregorio che, giunto quasi alla maggiore età, si offenderebbe ad essere annoverato tra i più piccoli. Roberto Bassano Legnano, 20 agosto 2013 244 245 Hanno contribuito, in rigoroso ordine alfabetico, alla stesura di questo sesto Quaderno di Microcinema: Roberto Bassano (Torino, 1959) – Dal 1982 imprenditore in aziende meccaniche, tessili e automobilistiche, si è sempre impegnato nella gestione con il ruolo di amministratore delegato. Impegnato nel settore audiovisivo dal 1994, sempre come imprenditore e ricoprendo lo stesso incarico operativo in Gierrevideo e Euphon, partecipa con RAI, Digital Projection e Texas Instruments ai primi esperimenti del progetto denominato Microcinema, per la proiezione di film in digitale distribuiti via satellite. E’ amministratore delegato di Microcinema dal 2006. Eleonora Belligni (Torino, 1973) – È ricercatrice di Storia Moderna all'Università degli Studi di Torino. Le sue ricerche sono nel campo della storia religiosa e politica del Cinque e Seicento. Di tanto in tanto cerca di coniugarle con una grande passione per il cinema. In realtà, ama profondamente tutte e sette le arti, ma lascia che a metterle in pratica siano gli altri. Cesare Fragnelli (Locorotondo, 1977) – Laureato in cinema all’Università La Sapienza di Roma, autore, regista, spettatore e grande entusiasta di cinema. Ha dato l’avvio e guida con competenza e abilità Microcinema Distribuzione. Ha ideato il progetto “Fuoriprogramma: l’appuntamento d’autore” patrocinato dal MiBAC. Alessandro Firpo (Torino, 1946) – Si è occupato di editoria per molti anni ed è stato amministratore e dirigente di diverse case editrici. In particolare è stato direttore commerciale di Einaudi, Garzanti e Utet. Attualmente è direttore marketing di TBS Group, multinazionale italiana con sede a Trieste che si occupa di servizi innovativi per la sanità. Continua ad essere un instancabile e onnivoro lettore di libri. E’ consigliere di amministrazione di Microcinema. Silvana Molino (Chivasso, 1974) – Consulente di direzione ha seguito per dieci anni lo sviluppo di numerose imprese nel settore audiovisivo. Rappresentante nazionale per vari progetti europei, ha guidato con l’incarico di amministratore un consorzio di aziende audiovisive e multimediali. Dal 2004 collabora allo sviluppo del progetto Microcinema, dal 2006 riveste il ruolo di direttore generale e dal 2010 di amministratore delegato. Ha gestito i closing con tutti i fondi d’investimento. 246 Sommario VISTI DAGLI ALTRI, film che hanno raccontato l’Italia di Eleonora Belligni .... 11 Dagli stranieri in Italia all’Italia degli stranieri ................................................ 13 Verso l’Eden ............................................................................................... 37 Il paese delle Muse ..................................................................................... 61 The Italian Mob .......................................................................................... 87 Colpi grossi all’italiana ............................................................................... 113 Italiani, brava gente? ................................................................................ 139 Italiani, figuriamoci! .................................................................................. 163 IL CINEMA RITROVATO............................................................................. 185 Cinema e Microcinema di Roberto Bassano ................................................ 187 Il cinema è ritrovato di Cesare Fragnelli .................................................... 197 DIZIONARIO ESSENZIALE ......................................................................... 217 Ringraziamenti.......................................................................................... 243 247 Della stessa collana I Quaderni di Microcinema Q1 - CINEMA E MICROCINEMA - anno 2008 Q2 - NUOVO CINEMA MICROCINEMA - anno 2009 Q3 - LUCI DELLA CITTA’ - anno 2010 Q4 - UNA STORIA D'ITALIA RACCONTATA AL CINEMA - anno 2011 Q5 - INFINITI MONDI - anno 2012 Q6 - VISTI DAGLI ALTRI - anno 2013 Finito di stampare nel mese di agosto 2013 presso Amra - Giovinazzo (BA) 248