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Registrazione al Tribunale di Velletri n. 9/2004 del 23.04.2004 - Redazione: C.so della Repubblica 343 - 00049 VELLETRI RM - 06.9630051 - fax 0696100596 - [email protected] Mensile a carattere divulgativo e ufficiale per gli atti della Curia e pastorale per la vita della Diocesi di Velletri -Segni Anno 13, n. 12(136) - Dic. 2016
Dicembre
2016
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Ecclesia in cammino
- La misericordia ci spinge ad allargare lo
sguardo, facendoci carico anche di
problemi più ampi del nostro ristretto
orizzonte, + Vincenzo Apicella
p. 3
- Viaggio apostolico di Papa Francesco in
Georgia e Azerbaijan (30.09 - 2.10),
Stanislao Fioramonti
p. 5
- Viaggio apostolico di Papa Francesco
in Svezia (...), Stanislao Fioramonti
p. 7
- Una madre a forma di croce,
Antonio Bennato
- I muri dimorano nei nostri cuori e nelle
nostre menti, Sara Gilotta
p. 8
p. 9
- Anno giubilare / 14. Misericordia et misera
ovvero all’opera con la misericordia,
don Antonio Galati
p. 16
- La misericordia si fa profezia se diventa
scelta politica,
Paola Springhetti
p. 17
- Giubileo Straordinario della Misericordia.
Gavignano 7-9 ottobre: la Famiglia luogo di
“accoglienza” e di “consolazione”.
Le tracce di Misericordia nei vissuti quotidiani,
Massimo, Emanuela, Annalisa,
Silvana e Gian Luca, Paola ed Edoardo,
Antonella e Roberto
p. 23
- “Seppellire i morti” 1-6 novembre, Giubileo
della Misericordia a Montelanico,
Antonella Lafortezza
p. 25
- L’Anno Santo della Misericordia con
Papa Innocenzo III, S. Fioramonti
p. 27
- Attenzione al sociale continuando con lo
spirito della Misericordia, C. Coros
p. 29
- “Si chiudono le Porte Sante ma resterà
aperta per sempre la Misericordia”,
Giovanni Zicarelli
p. 30
- 23 novembre 2016, Velletri. Celebrazione
Festa di San Clemente e Chiusura Giubileo
della Misericordia: piccola galleria foto
p. 31
Bollettino Ufficiale per gli atti di Curia
Mensile a carattere divulgativo e ufficiale per gli atti
della Curia e pastorale per la vita della
Diocesi di Velletri-Segni
Direttore Responsabile
Mons. Angelo Mancini
Collaboratori
Stanislao Fioramonti
Tonino Parmeggiani
Mihaela Lupu
Proprietà
Diocesi di Velletri-Segni
Registrazione del Tribunale di Velletri
n. 9/2004 del 23.04.2004
Stampa: Quadrifoglio S.r.l.
- Un viaggio missionario in Cina,
negli anni 1743-49 / 3,
Tonino Parmeggiani
p. 10
- L’esortazione Verbum Domini di
Benedetto XVI / 1, don Carlo Fatuzzo
p. 12
- Il matrimonio Canonico dei divorziati da un
Matrimonio Civile, Chiara Molinari
- C’era una volta... e c’è ancora... la famiglia,
Costantino Coros
- Accogliere, Discernere, Integrare.
11 novembre 2016 Assisi, Convegno CEI di
Pastorale familiare,
Gabriele e Simona Maira
Albano Laziale (RM)
p. 13
- Novena di Natale: “lo Spirito e la Sposa
dicono: Vieni”,
don Andrea Pacchiarotti
p. 18
- Proposta per la Novena di Natale,
a cura dell’Ufficio Liturgico pp. 19-22
- Colleferro: compleanno all’Aurora Hospital,
Giovanni Zicarelli
p. 32
- Velletri, Parrocchia Regina Pacis:
Inizio dell’Avvento,
a cura della redazione
p. 33
- Il Ministero del Lettorato conferito al
“nostro” Claudio Sinibaldi, n.d.r.
p. 35
p. 13
Redazione
Corso della Repubblica 343
00049 VELLETRI RM
06.9630051 fax 96100596
[email protected]
A questo numero hanno collaborato inoltre:
S.E. mons. Vincenzo Apicella, don Andrea Pacchiarotti,
don Antonio Galati, don Silvestro Mazzer, don Carlo Fatuzzo,
Ufficio Liturgico Diocesano, Costantino Coros, Sara Gilotta,
Antonio Bennato, Chiara Molinari, Giovanni Zicarelli, Mara
Della Vecchia, Gabriele e Simona Maira, Paola Springhetti,
Massimo, Emanuela, Annalisa, Silvana e Gian Luca, Antonella
e Roberto, Paola ed Edoardo, Antonella Lafortezza, Alessandro
Gentili, Claudio Gratta, Vincenza Calenne, Luigi
Musacchio.
Consultabile online in formato pdf sul sito:
www.diocesivelletrisegni.it
DISTRIBUZIONE GRATUITA
p. 14
- Nessuno resti solo. Presentato a Velletri il progetto
“Protetto. Rifugiato a casa mia”.
Le persone titolari di protezione internazionale
saranno accolte nella struttura delle Suore
Adoratrici del Sangue di Cristo ,
Costantino Coros
p. 15
- La Stella di Betlemme, d. S. M.
- È Natale, Vincenza Calenne
- Il sacro intorno a noi / 30,
Stanislao Fioramonti
- Arvo Part, il minimalismo nella musica
sacra, Mara della Vecchia
- Sandro Botticelli, Natività mistica
National Gallery Londra, 1501,
Luigi Musacchio
p. 34
p. 35
p. 36
p. 38
p. 39
p. 39
Il contenuto di articoli, servizi foto e loghi nonché quello voluto da chi vi compare rispecchia esclusivamente il pensiero degli artefici e non vincola mai in nessun modo Ecclesìa in Cammino, la direzione e la redazione.
In copertina:
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Natività (part.)
affresco Chiesa Ortodossa.
Dicembre
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3
Vincenzo Apicella, vescovo
I
l 21 ottobre scorso, nella Cattedrale di San Clemente, si è
svolto il primo incontro del nostro annuale Convegno diocesano
con la interessante relazione della teologa Stella Morra, a
cui abbiamo chiesto di indicarci cosa possa significare porre la
misericordia come architrave e fondamento della Chiesa, della
sua vita e della sua missione.
Per proseguire il nostro cammino in questa direzione ci sembra
opportuno seguire l’invito di Papa Francesco, che, a Firenze, ci
ha esortato ad avviare, in modo sinodale, un approfondimento
della sua Esortazione apostolica Evangelii Gaudium. Stella Morra,
nel suo libro Dio non si stanca, ci suggerisce di verificare l’applicazione della categoria della misericordia ripercorrendo i quattro principi che lì sono proposti per avanzare nella costruzione
di un popolo che cresca nella pace, nella giustizia e nella fraternità.
Essi sono enunciati nel capitolo dedicato alla dimensione sociale dell’evangelizzazione, ma possono essere applicati alla Chiesa,
quale ‘popolo fedele’ tra i popoli, chiamato anch’esso a crescere nella pace, nella giustizia e nella fedeltà al suo Signore.
Il tempo è superiore allo spazio.
Papa Francesco lo descrive così: “Questo principio permette di
lavorare a lunga scadenza senza l’ossessione dei risultati immediati, aiuta a sopportare con pazienza le situazioni difficili e avverse o i cambiamenti dei piani che il dinamismo della realtà impone. E’ un invito ad assumere la tensione tra la pienezza ed il limite assegnando la priorità al tempo Dare priorità allo spazio porta a diventare matti per risolvere tutto nel momento presente per
tentare di prendere possesso di tutti gli spazi di potere e di autoaffermazione. Significa cristallizzare i processi e pretendere di fer-
marli. Dare priorità al tempo significa occuparsi di iniziare processi più che di possedere spazi. Il tempo ordina gli spazi, li illumina e li trasforma in anelli di una catena in costante crescita senza retromarce” (n.223).
Il Papa stesso applica questo criterio anche all’evangelizzazione, “che richiede di tener presente l’orizzonte, di adottare i processi possibili e la strada lunga. Il Signore stesso nella sua vita
terrena fece intendere molte volte ai suoi discepoli che vi erano
molte cose che non potevano ancora comprendere e che era necessario attendere lo Spirito Santo (cfr Gv.16,12-13). Non bisogna
dimenticare che, prima di essere Verità e Vita, Gesù si è presentato
come Via ed il primo cristianesimo aveva ben presente di essere soprattutto una via da percorrere, in cui nessuno è un “arrivato”, ma tutti siamo in cammino, sostenuti dalla misericordia di
Dio e dalla misericordia dei fratelli, sperimentando il nostro limite, ma attratti da una pienezza che risplende in Cristo Risorto.
Questo lo viviamo in modo eminente nella Liturgia, ma pensiamo a quanto questo possa dire riguardo ai nostri itinerari catechistici, in cui spesso siamo più portati ad assicurarci che sia assimilata una dottrina, piuttosto a che siano avviati dei processi, in
cui anche noi siamo coinvolti; oppure, per quanto riguarda la carità, “fare misericordia perché l’altro è in una posizione di netta inferiorità sfiora il paternalismo. E’ il gesto di chi pensa di avere una
pienezza e la condivide. E’ molto diverso dal gesto di chi riconosce nell’altro la propria parzialità, la stessa sulla quale Dio ha
operato misericordia” (Dio non si stanca, p.119).
L’unità prevale sul conflitto.
Una diocesi, una parrocchia, una comunità in cui non ci sono concontinua nella pag. 4
4
segue da pag. 3
flitti scagli la prima pietra!
Il conflitto ha segnato la storia della Chiesa fin dalle sue origini
e, risalendo nel tempo, lo ritroviamo in tutta la Storia della Salvezza,
così come la Scrittura ce la racconta.
Quotidianamente, anzi, ci troviamo di fronte all’opera di chi i conflitti cerca di esasperarli e, talvolta, di inventarli, per avere un maggiore indice di ascolto.
Papa Francesco scrive: “Di fronte al conflitto, alcuni semplicemente lo guardano e vanno avanti come se nulla fosse, se ne
lavano le mani per poter continuare con la loro vita. Altri entrano nel conflitto in modo tale che ne rimangono prigionieri, perdono l’orizzonte, proiettano sulle istituzioni le proprie confusioni
e insoddisfazioni e così l’unità diventa impossibile. Vi è però un
terzo modo, il più adeguato di porsi di fronte al conflitto. E’ accettare di sopportare il conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo. ‘Beati gli operatori di
pace’ (Mt.5,9).
In questo modo si rende possibile sviluppare una comunione delle differenze, che può essere favorita solo da quelle nobili persone che hanno il coraggio di andare oltre la superficie conflittuale e considerano gli altri nella loro dignità più profonda” (n.227228). Anche qui possiamo richiamarci a come Gesù stesso ha
vissuto il conflitto, fino a diventare “nostra pace” (Ef.2,14).
“La pace è possibile perché il Signore ha vinto il mondo e la sua
permanente conflittualità avendolo ‘pacificato con il sangue della sua croce’ (Col1,20)” (n.229).
Ancora una volta è la misericordia che splende sul volto di Cristo
Crocefisso e Risorto, che ci permette di avere uno sguardo più
penetrante e profondo che ci permetta di vedere come l’unità dello Spirito armonizza tutte le diversità, nelle quali rischiamo di rimanere impigliati.
Questo sguardo di misericordia è quindi l’unico che ci permette
di intraprendere e di proseguire quel cammino sinodale nelle nostre
chiese, a cui ci ha richiamati il Convegno di Firenze e che è diventato ormai un segno caratteristico della pastorale di Papa Francesco.
La realtà è più importante dell’idea.
L’idea - le elaborazioni concettuali – è in funzione del cogliere,
comprendere e dirigere la realtà. L’dea staccata dalla realtà origina idealismi e nominalismi inefficaci, che al massimo classificano o definiscono, ma non coinvolgono. Ciò che coinvolge è la
realtà illuminata dal ragionamento La realtà è superiore all’idea. Questo criterio è legato all’incarnazione della Parola ed alla
sua messa in pratica” (n.232-233). Il Concilio aveva parlato dei
‘segni dei tempi’ e la Gaudium et Spes afferma che le gioie e le
speranze, le tristezze e le angosce degli uomini di oggi sono anche
quelle della Chiesa.
Papa Francesco torna ad invitarci a guardare la realtà che ci circonda senza porci in un atteggiamento di condanna o di difesa,
ma di saper cogliere ciò che il Signore sta operando e comprendere
che la realtà stessa è sacramento della sua presenza e lì il Signore
ci chiama ad operare per dirigerla verso il compimento del suo
progetto. Questo presuppone, ovviamente, l’esercizio della misericordia, la misericordia di Dio che, nell’incarnazione del Figlio,
ha dato la sua Parola di “stare con noi tutti i giorni fino alla consumazione di questo mondo” (Mt.28,20), la misericordia dei discepoli che sono chiamati a “portare i pesi gli uni degli altri”, secondo l’espressione paolina.
Un esempio di questa pratica il Papa ce lo fornisce anche con
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la sua ultima enciclica Laudato si’, in cui, continuando il percorso dei suoi predecessori, torna ad invitare i cristiani a farsi carico della realtà del creato, della società, delle culture, dell’economia, tutti temi per troppo tempo trascurati nei nostri ambienti,
a tutti i livelli. Una liturgia disincarnata e cerimoniale, una catechesi individualista o moralista, una carità che non si preoccupa delle cause del disagio e delle nuove sfide da affrontare non
ci permettono certo di coinvolgere alcuno.
Possiamo anche aggiungere che forse abbiamo avuto timore di
sporcarci le mani con la realtà che ci circonda e di esercitare quel
dovere di profezia, a cui siamo abilitati in forza del nostro Battesimo.
Il tutto è superiore alla parte.
“Bisogna prestare attenzione alla dimensione globale per non cadere in una meschinità quotidiana. Al tempo stesso, non è opportuno perdere di vista ciò che è locale, che ci fa camminare con
i piedi per terraIl tutto è più della parte, ed è anche più della
loro semplice somma.
Dunque, non si deve essere troppo ossessionati da questioni limitate e particolari. Bisogna sempre allargare lo sguardo per riconoscere un bene più grande che porterà benefici a tutti noi. Però
occorre farlo senza evadere. Senza sradicamenti. ‘ necessario
affondare le radici nella terra fertile e nella storia del proprio luogo, che è dono di Dio. Si lavora nel piccolo, con ciò che è vicino, però con una prospettiva più ampia.” (n.234-235).
In molte diocesi si sente l’esigenza di uscire da una struttura fatta di tante piccole realtà territoriali autoreferenziali, per passare
a una logica di unità pastorali che sappiano guardare almeno un
poco oltre l’ombra del proprio campanile e sappiamo quanto questo costi fatica. La misericordia ci spinge ad allargare lo sguardo, facendoci carico anche di problemi più ampi del nostro ristretto orizzonte. Ma, d’altra parte, occorre non perdere le proprie radici, quanto di positivo la nostra storia, la storia del nostro popolo
ci ha consegnato, è anche questa una forma di misericordia che
ci consente di non tralasciare il patrimonio prezioso della religiosità
popolare, su cui tante volte Papa Francesco ha posto l’accento.
In conclusione, ci aspetta un profondo cammino di conversione,
a partire da questo Anno Santo, straordinario non solo perché
esce dal ritmo temporale tradizionale, ma soprattutto perché innesca un processo “senza retromarce”, indicando nella misericordia la principale bussola nella vita della Chiesa e nella nostra azione pastorale.
Nella misericordia che tutti noi ogni giorno riceviamo dal Signore
Crocefisso e Risorto, nonostante i nostri limiti, le nostre debolezze ed i nostri peccati, troviamo l’energia necessaria per prendere il largo e gettare le reti, come ci diceva San Giovanni Paolo
II, ricordando sempre che “il Signore non ritarda nell’adempiere
la sua promessa, come certuni credono; ma usa pazienza verso di voi, non volendo che alcuno perisca, ma che tutti abbiano
modo di pentirsi” (2Pt.3,9): Dio sempre ci aspetta e non si stanca! Il Natale che ci apprestiamo a celebrare è la garanzia di questa presenza umile e fedele del Signore nella nostra storia quotidiana, la certezza che il Buon Pastore non abbandona il suo
gregge e continua a guidarlo sui sentieri della giustizia e della
pace, il richiamo a diventare attenti ascoltatori e operosi realizzatori della sua Parola.
Nell’immagine del titolo: Lunetta della Santa Croce, XI-XII sec.,
Torre gerosolimitana, Sant’Elpidio a Mare.
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sintesi a cura di Stanislao Fioramonti
Ketevan Kardava, della televisione giorgiana.
Grazie tante, Santo Padre, per il suo primo viaggio in Georgia. Per me è stato molto importante dare
copertura giornalistica di questa visita e seguire la
Sua visita nel mio Paese. Noi tutti cittadini della Georgia
siamo rimasti colpiti dal Suo discorso, e in modo
particolare la foto che La ritrae con il Patriarca della Georgia è stata condivisa migliaia e migliaia di
volte nei social. E’ stata una visita incoraggiante per
la nostra comunità cattolica, davvero molto piccola. Dopo il Suo incontro con il Patriarca della Georgia,
Lei vede le basi per una collaborazione futura e un
dialogo costruttivo tra Lei e le Chiese ortodossa e
cattolica in merito alle differenze dottrinali che ci sono?
Lei ci ha detto che abbiamo molto in comune, che
ci unisce, più di quanto ci separi. Grazie.
F. Io ho avuto due sorprese in Georgia. Una è la
Georgia. Mai ho immaginato tanta cultura, tanta fede,
tanta cristianità. È un popolo credente e di una cultura cristiana antichissima, un popolo di tanti martiri. E ho scoperto una cosa che io non conoscevo: le profonde radici di questa fede georgiana.
La seconda sorpresa è stato il Patriarca: è un uomo
di Dio, quest’uomo mi ha commosso. Io, le volte in
cui l’ho incontrato, sono uscito con il cuore commosso, e con la sensazione di aver trovato un uomo
di Dio. Sulle cose che ci uniscono e ci separano,
dirò: non metterci a discutere le cose di dottrina,
questo lasciarlo ai teologi, loro sanno farlo meglio
di noi. Discutono e sono bravi, sono buoni, hanno
buona volontà, i teologi di una parte e dell’altra.
Che cosa dobbiamo fare noi, il popolo? Pregare gli
uni per gli altri. Questo è importantissimo: la preghiera. E secondo, fare cose insieme: ci sono i poveri, lavoriamo insieme con i poveri; c’è questo problema, possiamo affrontarlo insieme?, lo facciamo
insieme; ci sono i migranti? facciamo qualcosa insieme... Facciamo qualcosa di bene per gli altri, insieme, questo possiamo farlo. E questo è il cammino
dell’ecumenismo. Non solo il cammino della dottrina,
questo è l’ultima cosa, si arriverà alla fine. Ma incominciamo a camminare insieme. E con buona volontà, questo si può fare. Si deve fare.
Oggi l’ecumenismo si deve fare camminando
insieme, pregando gli uni per gli altri. E che i teologi continuino a parlare tra loro, a studiare tra loro.
Ma la Georgia è meravigliosa, è una cosa che non
mi aspettavo; una Nazione cristiana, ma nel midollo!
Tassilo Forchheimer, della radio tedesca ARD.
Santo Padre, dopo aver parlato con tutte le persone
che possono cambiare questa brutta storia tra Armenia
e Azerbaigian, che cosa deve succedere per arrivare a una pace permanente che tuteli i diritti umani? Quali sono i problemi e che ruolo può avere Sua
Santità?
F. In due discorsi ho parlato di questo. Nell’ultimo
ho parlato del ruolo delle religioni per aiutare a questo scopo. Credo che l’unica strada sia il dialogo,
il dialogo sincero, senza cose sottobanco, sincero, faccia a faccia. Il negoziato sincero. E se non
si può arrivare a questo, bisogna avere il coraggio
di andare a un Tribunale internazionale, all’Aja per
esempio, e sottomettersi al giudizio internazionale. Non vedo altra via.
L’alternativa è la guerra, e la guerra distrugge sempre, con la guerra si perde tutto! E inoltre, per i cristiani, c’è la preghiera: pregare per la pace, perché i cuori prendano questa via di dialogo, di negoziato o di andare a un tribunale internazionale. Ma
non si possono tenere problemi così... Pensate che
i tre Paesi caucasici hanno problemi, anche la Georgia:
ha un problema con la Russia, non si conosce tanto… ma ha un problema, che può crescere; e l’Armenia
è un Paese senza frontiere aperte, ha problemi con
l’Azerbaigian. Si deve andare al tribunale internazionale se non vanno avanti il dialogo e il negoziato:
non c’è un’altra via. E la preghiera, la preghiera per
la pace.
Maria Elena Ribezzo della rivista svizzera “La
Presse”. Lei ieri ha parlato di una guerra mondiale in atto contro il matrimonio, e in questa guerra
ha usato parole molto forti contro il divorzio: ha detto che sporca l’immagine di Dio; mentre nei mesi
scorsi, anche durante il Sinodo, si era parlato di un’accoglienza nei confronti dei divorziati. Volevo sapere se questi approcci si conciliano, e in che modo.
F. Tutto quello che ho detto ieri, con altre parole perché ieri ho parlato a braccio e un po’ a caldo –
si trova nell’Amoris laetitia, tutto. Quando si parla
del matrimonio come unione dell’uomo e della donna, come lo ha fatto Dio, come immagine di Dio, è
uomo e donna.
L’immagine di Dio non è l’uomo: è l’uomo con la
donna. Insieme. Che sono una sola carne quando
si uniscono in matrimonio. Questa è la verità. È vero
che in questa cultura i conflitti e tanti problemi non
sono ben gestiti, e ci sono anche filosofie dell’“oggi
faccio questo [matrimonio], quando mi stanco ne
faccio un altro, poi ne faccio un terzo, poi ne faccio un quarto”. E’ questa la “guerra mondiale” che
Lei dice contro il matrimonio. Dobbiamo essere attenti a non lasciare entrare in noi queste idee. Ma prima di tutto: il matrimonio è immagine di Dio, uomo
e donna in una sola carne. Quando si distrugge questo, si “sporca” o si sfigura l’immagine di Dio.
Poi l’Amoris laetitia parla di come trattare questi casi,
le famiglie ferite, e lì entra la misericordia. E c’è una
preghiera bellissima della Chiesa, che abbiamo pregato la settimana scorsa. Diceva così: “Dio, che tanto mirabilmente hai creato il mondo e più mirabilmente lo hai ricreato”, cioè con la redenzione e la
misericordia. Il matrimonio ferito, le coppie ferite:
lì entra la misericordia. Il principio è quello, ma le
debolezze umane esistono, i peccati esistono, e sempre l’ultima parola non l’ha la debolezza, non l’ha
il peccato: l’ultima parola l’ha la misericordia! A me
piace raccontare che nella chiesa di Santa Maria
Maddalena a Vézelay c’è un capitello bellissimo,
del 1200 più o meno. I medievali facevano catechesi
con le sculture delle cattedrali.
Da una parte del capitello c’è Giuda, impiccato, con
la lingua fuori, gli occhi fuori, e dall’altra parte del
capitello c’è Gesù, il Buon Pastore, che lo prende
e lo porta con sé. E se guardiamo bene la faccia
di Gesù, le labbra di Gesù sono tristi da una parte ma con un piccolo sorriso di complicità dall’altra. Questi avevano capito cos’è la misericordia!
Con Giuda! E per questo, nell’Amoris laetitia si parla del matrimonio, del fondamento del matrimonio
come è, ma poi vengono i problemi. Come prepararsi al matrimonio, come educare i figli; e poi, nel
capitolo ottavo, quando vengono i problemi, come
si risolvono. Si risolvono con quattro criteri: accogliere le famiglie ferite, accompagnare, discernere
ogni caso e integrare, rifare.
Questo sarebbe il modo di collaborare in questa “seconda creazione”, in questa ri-creazione meravigliosa
che ha fatto il Signore con la redenzione. Se prendi una parte sola non va! L’Amoris laetitia – voglio
dire –: tutti vanno al capitolo ottavo. No, no. Si deve
leggere dall’inizio alla fine. E qual è il centro? Ma…
dipende da ognuno. Per me il centro, il nocciolo dell’Amoris
laetitia è il capitolo quarto, che serve per tutta la
vita. Ma si deve leggerla tutta e rileggerla tutta e
discuterla tutta, è tutto un insieme. C’è il peccato,
c’è la rottura, ma c’è anche la misericordia, la redenzione, la cura.
Joshua McElwee del giornale americano National
Catholic Reporter. In quello stesso discorso di ieri
in Georgia, Lei ha parlato, come in tanti altri Paesi,
della teoria del gender, dicendo che è il grande nemico, una minaccia contro il matrimonio. Ma vorrei chiedere: cosa direbbe a una persona che ha sofferto
per anni con la sua sessualità e sente veramente
che c’è un problema biologico, che il suo aspetto
fisico non corrisponde a quello che lui o lei considera la propria identità sessuale? Lei come pastore e ministro, come accompagnerebbe queste persone?
F. Prima di tutto, io ho accompagnato nella mia vita
di sacerdote, di vescovo – anche di Papa – ho accompagnato persone con tendenza omosessuale e anche
con pratiche omosessuali. Le ho accompagnate, le
ho avvicinate al Signore, alcuni non possono, ma
le ho accompagnate e mai ho abbandonato qualcuno. Questo è ciò che va fatto. Le persone si devono accompagnare come le accompagna Gesù.
Quando una persona che ha questa condizione arricontinua nella pag. 6
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segue da pag. 5
va davanti a Gesù, Gesù non gli dirà sicuramente:
“Vattene via perché sei omosessuale!”, no.
Quello che io ho detto riguarda quella cattiveria che
oggi si fa con l’indottrinamento della teoria del gender. E questo è contro le cose naturali. Una cosa
è che una persona abbia questa tendenza, e c’è
anche chi cambia il sesso. E un’altra cosa è fare
l’insegnamento nelle scuole su questa linea, per cambiare la mentalità. Queste io le chiamo “colonizzazioni ideologiche”.
L’anno scorso ho ricevuto una lettera di uno spagnolo che mi raccontava la sua storia da bambino
e da ragazzo. Era una bambina, una ragazza, e ha
sofferto tanto, perché si sentiva ragazzo ma era fisicamente una ragazza. L’ha raccontato alla mamma, quando era già ventenne, 22 anni, e le ha detto che avrebbe voluto fare l’intervento chirurgico e
tutte queste cose. E la mamma gli ha chiesto di non
farlo finché lei era viva. Era anziana, ed è morta
presto. Ha fatto l’intervento. E’ un impiegato di un
ministero di una città della Spagna. È andato dal
vescovo. Il vescovo lo ha accompagnato tanto, un
bravo vescovo: “perdeva” tempo per accompagnare
quest’uomo. Poi si è sposato. Ha cambiato la sua
identità civile, si è sposato e mi ha scritto la lettera che per lui sarebbe stata una consolazione venire con la sua sposa: lui, che era lei, ma è lui. E li
ho ricevuti. Erano contenti. E nel quartiere dove lui
abitava c’era un vecchio sacerdote, ottantenne, il
vecchio parroco, che aveva lasciato la parrocchia
e aiutava le suore, lì, nella parrocchia… E c’era il
nuovo [parroco]. Quando il nuovo lo vedeva, lo sgridava dal marciapiede: “Andrai all’inferno!”.
Quando trovava il vecchio, questo gli diceva: “Da
quanto non ti confessi? Vieni, vieni, andiamo che
ti confesso e così potrai fare la Comunione”. Hai
capito? La vita è la vita, e le cose si devono prendere come vengono. Il peccato è il peccato. Le tendenze o gli squilibri ormonali danno tanti problemi
e dobbiamo essere attenti a non dire: “E’ tutto lo
stesso, facciamo festa”. No, questo no. Ma ogni caso
accoglierlo, accompagnarlo, studiarlo, discernere e
integrarlo. Questo è quello che farebbe Gesù oggi.
Per favore, non dite: “Il Papa santificherà i trans!”.
No, no. È un problema di morale. E’ un problema
umano. E si deve risolvere come si può, sempre
con la misericordia di Dio, con la verità.
Gianni Cardinale di “Avvenire”. Due domande:
La prima è quando farà i nuovi cardinali e a quali
criteri si ispira per questa scelta. La seconda è pubblica, da italiano: quando andrà a trovare le popolazioni terremotate e quale sarà la caratteristica di
questa visita?
F. Per la seconda, mi sono state proposte tre date
possibili. Io ho detto che al rientro sceglierò la data.
E la farò privatamente, da solo, come sacerdote,
come vescovo, come Papa. Ma da solo. Così voglio
farla. E vorrei essere vicino alla gente. Ma non so
ancora come.
Sui cardinali: i criteri saranno gli stessi dei due altri
concistori. [Sceglierli] un po’ dappertutto, perché la
Chiesa è in tutto il mondo. Ancora sto studiando i
nomi, ma forse saranno tre di un continente, due
di un altro e uno di un’altra parte, uno dell’altra, uno
di un Paese… ma, non si sa. La lista è lunga, ma
ci sono soltanto 13 posti. E si deve pensare di fare
un equilibrio. A me piace che si veda, nel Collegio
cardinalizio, l’universalità della Chiesa: non soltanto
il centro “europeo”, ma i cinque continenti, se si
può.
Aura Miguel di Radio Renascença del Portogallo.
La mia domanda riguarda la Sua agenda di viaggi fuori d’Italia, in tre parti. Lei ha già detto in que-
sti giorni agli argentini che la Sua agenda è molto
piena e ha parlato dell’Africa e dell’Asia: possiamo
sapere quali Paesi? E c’è anche qui un collega della Colombia che La aspetta in Colombia, naturalmente, e io in Portogallo, La aspettiamo! In
Portogallo come sarà? 12 e 13? Lisbona e Fatima?
F. Di sicuro, ad oggi, andrò in Portogallo, e andrò
soltanto a Fatima. Ad oggi. Perché? C’è un problema.
In questo Anno Santo sono state sospese le visite [dei Vescovi] ad limina; nel prossimo anno devo
ricevere le visite ad limina di quest’anno e del prossimo. E c’è poco spazio per i viaggi. Ma in Portogallo
ci andrò. In India e Bangladesh, quasi sicuro.
In Africa, ancora non è sicuro il posto, tutto dipende sia dal clima, in quale mese, perché se è in Africa
del Nordovest è una cosa e se è nel Sudovest è
un’altra. E anche dipende dalla situazione politica
e dalle guerre… Ma ci sono possibilità allo studio
in Africa. In America, io ho detto che quando il processo di pace [in Colombia]… se esce, io vorrei andare, quando tutto sarà “blindato”, cioè quando tutto
– se vince il plebiscito – quando tutto sia sicuro, che
non si può andare indietro, cioè che tutte le nazioni siano d’accordo, che non si può fare ricorso, se
è così, potrei andare. Ma se la cosa è instabile…
Tutto dipende da quello che dirà il popolo. Il popolo è sovrano. Noi siamo abituati a guardare più le
forme democratiche che la sovranità del popolo, e
tutte e due devono andare insieme.
Per esempio, è diventata un’abitudine in alcuni continenti dove, quando finisce il secondo mandato, chi
è al governo cerca di cambiare la costituzione per
averne un terzo. E questo è sopravvalutare la cosiddetta democrazia, contro la sovranità del popolo,
che è nella Costituzione. Tutto dipende da quello.
Il processo di pace si risolverà oggi con la voce del
popolo sovrano. Quello che dirà il popolo, credo che
debba farsi.
Jean-Marie Guénois di “Le Figaro”. Una domanda sui viaggi: perché nella sua risposta non ha parlato della Cina? E quali sono le ragioni per le quali Lei non può avere come Papa il biglietto per Pechino?
Ragioni all’interno della Chiesa cinese? Ragioni di
problemi tra la Chiesa cinese e il governo cinese,
o ragioni, problemi tra il Vaticano e il governo cinese? E, se permette, una domanda recente, perché
qualche ora fa Mons. Lebrun, arcivescovo di Rouen,
ha annunciato che Lei ha autorizzato a cominciare il processo di beatificazione di padre Hamel senza tenere conto della regola dell’attesa dei cinque
anni. Perché ha preso questa decisione?
F. Su quest’ultimo: ho parlato con il Cardinale Amato
[Prefetto della Congregazione per le Cause dei Santi],
faremo degli studi e lui darà la notizia ultima.
Ma l’intenzione è andare su questa linea, fare le ricerche necessarie e vedere se ci sono le ragioni per
farlo.
La Cina. Voi conoscete bene la storia della Cina e
della Chiesa: la Chiesa patriottica, la Chiesa nascosta… Ma noi siamo in buoni rapporti, si studia e si
parla, ci sono commissioni di lavoro… Io sono ottimista. Adesso credo che i Musei Vaticani hanno fatto un’esposizione in Cina, i cinesi ne faranno un’altra in Vaticano… Ci sono tanti professori che vanno a fare scuola nelle università cinesi, tante suore, tanti preti che possono lavorare bene lì. I rapporti tra Vaticano e i cinesi… Si deve fissare in un
rapporto, e per questo si sta parlando, lentamente… Le cose lente vanno bene, sempre. Le cose
in fretta non vanno bene.
Il popolo cinese ha la mia più alta stima. L’altro ieri,
per esempio, c’è stato un convegno di due giorni,
credo, nella [Pontificia] Accademia delle Scienze sul-
la Laudato si’, e c’era una delegazione cinese del
Presidente. E il Presidente cinese mi ha inviato un
regalo. Ci sono buone relazioni.
Juan Vicente Boo del quotidiano spagnolo ABC.
Il vincitore del Premio Nobel per la pace verrà annunciato il prossimo 7 ottobre. Ci sono più di 300 nomination: ad esempio, il popolo di Lesbo per quello
che ha fatto in favore dei rifugiati, o i Caschi Bianchi
della Siria, questi volontari che tirano fuori la gente dalle macerie dopo i bombardamenti: ne hanno
tirati fuori 60 mila al prezzo della vita di 132 di loro.
O anche il presidente Santos della Colombia e il
comandante Timoshenko delle Farc, che hanno firmato l’Accordo di pace. E tanti altri. Allora, la domanda è: qual è il Suo candidato favorito o quali sono
le persone o le organizzazioni che meritano più riconoscimento per il lavoro che fanno in favore della
pace?
F. C’è tanta gente che vive per fare la guerra, per
fare la vendita delle armi, per uccidere, ce n’è tanta. Ma c’è anche tanta gente che lavora per la pace,
tanta, tanta. Io non saprei dire quale. Scegliere fra
tanta gente, che oggi lavora per la pace, è molto
difficile. Lei ne ha menzionati alcuni, ce ne sono di
più. Ma sempre c’è l’inquietudine di dare un premio per la pace... Io mi auguro anche che a livello internazionale, lasciando da parte il Premio Nobel
per la pace, ci sia un ricordo, un riconoscimento,
una dichiarazione sui bambini, sui disabili, sui minorenni, sui civili morti sotto le bombe.
Credo che quello sia un peccato contro Gesù Cristo,
perché la carne di quei bambini, di quella gente ammalata, di quegli anziani indifesi, è la carne di Cristo.
Bisognerebbe che l’umanità dicesse qualcosa per
le vittime delle guerre. Per quelli che fanno la pace,
Gesù ha detto che sono beati, nelle Beatitudini: “Gli
operatori di pace”. Ma le vittime delle guerre, dobbiamo dire qualcosa e prendere coscienza! Che ti
buttano su un ospedale di bambini una bomba e
ne muoiono trenta, quaranta… O su una scuola…
Questa è una tragedia dei nostri giorni.
John Jeremiah Sullivan del “New York Times
Magazine”. Santo Padre, come Lei sa, gli Stati Uniti
si stanno avvicinando alla fine di una lunga campagna presidenziale, molto brutta, che ha ricevuto molta attenzione nel mondo. Molti cattolici americani e persone di coscienza hanno difficoltà nella scelta tra due candidati, uno dei quali si allontana da alcuni aspetti degli insegnamenti della Chiesa
e l’altro ha fatto dichiarazioni che denigrano immigranti e minoranze religiose. Quale consiglio
darebbe ai fedeli in America? E a quale saggezza
Lei li richiamerebbe il prossimo mese, quando ci saranno le elezioni?
F. Lei mi fa una domanda in cui descrive una scelta difficoltosa, perché secondo Lei c’è difficoltà in
uno e c’è difficoltà nell’altro. In campagna elettorale io mai dico una parola. Il popolo è sovrano, e
soltanto dirò: studia bene le proposte, prega e scegli in coscienza! Poi esco dal problema e vado a
una “finzione” [un caso immaginario], perché non
voglio parlare del problema concreto.
Quando succede che in un Paese qualsiasi ci sono
due, tre, quattro candidati che non risultano soddisfacenti, significa che la vita politica di quel Paese
forse è troppo politicizzata ma non ha molta cultura politica. E uno dei compiti della Chiesa e dell’insegnamento nelle facoltà è di insegnare ad avere cultura politica. Ci sono Paesi – io penso all’America
Latina – che sono troppo politicizzati ma non hanno cultura politica: sono di questo partito o di quell’altro o di quell’altro, ma senza un pensiero chiaro sulle proposte.
Dicembre
2016
7
Stanislao Fioramonti
I
l 31 ottobre 2016, nel corso della celebrazione della Preghiera
Ecumenica Comune, nella Cattedrale
Luterana di Lund, il Santo Padre Francesco
e il Vescovo Munib Yunan, Presidente
della LWF (Lutheran World Federation)
hanno firmato la seguente
DICHIARAZIONE CONGIUNTA
«Rimanete in me e io in voi.
Come il tralcio non può portare
frutto da sé stesso se non rimane
nella vite, così neanche voi se non
rimanete in me» (Gv 15,4).
Con cuore riconoscente
Con questa Dichiarazione Congiunta,
esprimiamo gioiosa gratitudine a Dio
per questo momento di preghiera comune nella Cattedrale di Lund, con cui
iniziamo l’anno commemorativo del cinquecentesimo anniversario della
Riforma. Cinquant’anni di costante e
fruttuoso dialogo ecumenico tra cattolici e luterani ci hanno aiutato a superare molte differenze
e hanno approfondito la comprensione e la fiducia tra di noi.
Al tempo stesso, ci siamo riavvicinati gli uni agli
altri tramite il comune servizio al prossimo, spesso in situazioni di sofferenza e di persecuzione. Attraverso il dialogo e la testimonianza condivisa non siamo più estranei. Anzi, abbiamo imparato che ciò che ci unisce è più grande di ciò
che ci divide.
Dal conflitto alla comunione
Mentre siamo profondamente grati per i doni spirituali e teologici ricevuti attraverso la Riforma,
confessiamo e deploriamo davanti a Cristo il fatto che luterani e cattolici hanno ferito l’unità visibile della Chiesa. Differenze teologiche sono state accompagnate da pregiudizi e conflitti e la
religione è stata strumentalizzata per fini politici. La nostra comune fede in Gesù Cristo e il
nostro battesimo esigono da noi una conversione
quotidiana, grazie alla quale ripudiamo i dissensi
e i conflitti storici che ostacolano il ministero della riconciliazione. Mentre il passato non può essere cambiato, la memoria e il modo di fare memoria possono essere trasformati.
Preghiamo per la guarigione delle nostre ferite e delle memorie che oscurano la nostra visione gli uni degli altri. Rifiutiamo categoricamente ogni odio e ogni violenza, passati e presenti, specialmente quelli attuati in nome della religione. Oggi ascoltiamo il comando di Dio di mettere da parte ogni conflitto.
Riconosciamo che siamo liberati per grazia per
camminare verso la comunione a cui Dio continuamente ci chiama.
Il nostro impegno per una testimonianza
comune
Mentre superiamo quegli episodi della storia che
pesano su di noi, ci impegniamo a testimoniare insieme la grazia misericordiosa di Dio, rivelata in Cristo crocifisso e risorto. Consapevoli
che il modo di relazionarci tra di noi incide sul-
la nostra testimonianza del Vangelo, ci impegniamo a crescere ulteriormente nella comunione
radicata nel Battesimo, cercando di rimuovere
i rimanenti ostacoli che ci impediscono di raggiungere la piena unità. Cristo desidera che siamo uno, così che il mondo possa credere (cfr
Gv 17,21).
Molti membri delle nostre comunità aspirano a
ricevere l’Eucaristia ad un’unica mensa, come
concreta espressione della piena unità.
Facciamo esperienza del dolore di quanti condividono tutta la loro vita, ma non possono condividere la presenza redentrice di Dio alla mensa eucaristica. Riconosciamo la nostra comune responsabilità pastorale di rispondere alla sete
e alla fame spirituali del nostro popolo di essere uno in Cristo. Desideriamo ardentemente che
questa ferita nel Corpo di Cristo sia sanata. Questo
è l’obiettivo dei nostri sforzi ecumenici, che vogliamo far progredire, anche rinnovando il nostro
impegno per il dialogo teologico.
Preghiamo Dio che cattolici e luterani sappiano testimoniare insieme il Vangelo di Gesù Cristo,
invitando l’umanità ad ascoltare e accogliere la
buona notizia dell’azione redentrice di Dio. Chiediamo
a Dio ispirazione, incoraggiamento e forza affinché possiamo andare avanti insieme nel servizio, difendendo la dignità e i diritti umani, specialmente dei poveri, lavorando per la giustizia
e rigettando ogni forma di violenza. Dio ci chiama ad essere vicini a coloro che aspirano alla
dignità, alla giustizia, alla pace e alla riconciliazione.
Oggi, in particolare, noi alziamo le nostre voci
per la fine della violenza e dell’estremismo che
colpiscono tanti Paesi e comunità, e innumerevoli sorelle e fratelli in Cristo. Esortiamo luterani e cattolici a lavorare insieme per accogliere
chi è straniero, per venire in aiuto di quanti sono
costretti a fuggire a causa della guerra e della
persecuzione, e a difendere i diritti dei rifugiati e di quanti cercano asilo.
Oggi più che mai ci rendiamo conto che il nostro
comune servizio nel mondo deve estendersi a
tutto il creato, che soffre lo sfruttamento e gli
effetti di un’insaziabile avidità.
Riconosciamo il diritto delle future generazioni
di godere il mondo, opera di Dio, in tutta la sua
potenzialità e bellezza. Preghiamo per un cambiamento dei cuori e delle menti che porti ad
una amorevole e responsabile cura del creato.
Uno in Cristo
In questa occasione propizia esprimiamo la nostra
gratitudine ai fratelli e alle sorelle delle varie Comunioni
e Associazioni cristiane mondiali che sono presenti e si uniscono a noi in preghiera.
Nel rinnovare il nostro impegno a progredire dal
conflitto alla comunione, lo facciamo come membri dell’unico Corpo di Cristo, al quale siamo incorporati per il Battesimo. Invitiamo i nostri compagni di strada nel cammino ecumenico a ricordarci i nostri impegni e ad incoraggiarci.
Chiediamo loro di continuare a pregare per noi,
di camminare con noi, di sostenerci nell’osservare i religiosi impegni che oggi abbiamo manifestato.
Appello ai cattolici e ai luterani del
mondo intero
Facciamo appello a tutte le parrocchie e comunità luterane e cattoliche, perché siano coraggiose e creative, gioiose e piene di speranza
nel loro impegno a continuare la grande avventura che ci aspetta. Piuttosto che i conflitti del
passato, il dono divino dell’unità tra di noi guiderà la collaborazione e approfondirà la nostra
solidarietà. Stringendoci nella fede a Cristo, pregando insieme, ascoltandoci a vicenda, vivendo l’amore di Cristo nelle nostre relazioni, noi,
cattolici e luterani, ci apriamo alla potenza di Dio
Uno e Trino. Radicati in Cristo e rendendo a Lui
testimonianza, rinnoviamo la nostra determinazione
ad essere fedeli araldi dell’amore infinito di Dio
per tutta l’umanità.
Nella foto del titolo: Bergoglio ha firmato con il vescovo Munib
Yunan, presidente della Federazione luterana mondiale, la
dichiarazione congiunta sulla intercomunione,
finora in genere non ammessa.
Dicembre
2016
8
Antonio Bennato
“Piangi? Non disperare. Accendi una
luce, prendi una
scopa, spazza, fatica, metti sottosopra
la casa, scorticati
pure le mani, cerca,
cerca ancora; poi, fa’ festa: l’hai finalmente
trovata, oh la Parola, la cosa più preziosa per
un povero, più preziosa per un ladro, un assassino, la Parola, che avevi smarrita dentro la
tua casa, la Fede.”
A
vvento 1868. Ci fu una Missione di sei
giorni ad Aquisgrana. Quattro missionari, che parevano dimorare tra i santi, scuotevano forte la gente e molti piangevano piano piano come percossi da legnate d’amore. Per ultimo, predicò il più giovane: con gesti
che pareva portasse un peso, con occhi di chi
ha sventato una trama di male, aprì interamente
quel popolo alla misericordia di Dio e tutti si alleggerirono delle proprie magagne guadagnando
il beauty center del confessionale, e tutti odorarono di perdono.
“Ero un bambino come gli altri,” riprese a raccontare il missionario più giovane “un bambino felice. Quando papà mi portava con lui conciato nel massimo ordine, trovavo persino ch’ero un bel bambino; sesto e ultimo dei fratelli,
ero una foglia entusiasta sopra l’albero della famiglia. Un giorno la foglia tutta in movimento si
staccò e cadde.
Come poteva essere diversamente se spezzai
in me la famiglia? Ingannato dal Separatore, che
è il Diavolo, cominciai a immaginare papà e mamma come gente da buttare al macero, capaci
solo di intrattenersi e far chiacchiere con la teppaglia al governo del paese, capaci poi di scantonare la domenica verso Dio. In realtà, a scantonare fui io.
Al liceo, secchione che crede di sapere come
vanno le cose nel mondo per aver sgobbato sulla materia preferita, la storia, non ho più creduto alla Parola di Dio che nella storia scende
come pioggia purificatrice: così, senza più la sorpresa di vivere, mi misi su una strada sbagliata, che mi entrò nel respiro.“
Universitario a Madrid, incontrai diversi amici,
e fui subito uno dei loro; lo fui perché avevo già
chiaro ciò che era chiaro a loro. I miei pensieri e la mia volontà non erano isolati dai pensieri
e dalla volontà degli amici. Insieme avremmo
formato una nuova politica; insieme avremmo
cambiato la nazione, ma le cose che ci dicevamo ci facevano un buco nel cuore e dal buco
non zampillava alcun bene ma solo cappuccio
e mitra e odio.“
Nel frattempo, essendo già morto mio padre,
andavo a trovare mamma; mi dicevo, vado solo
per non farle venire le occhiaie.
Una sera m’invitò a fare quattro passi con lei.
La guardai preoccupato di dover sentire cose
che non volevo sentire. Mi rassicurò: “Di certe
cose non parleremo.”
Mamma aveva già capito che non camminavo
nella via della verità ma promise di non parlarmi
di certe cose. Si era sicuramente detta che le
sarebbe bastato piantarsi accanto a me con una
silenziosa preghiera. Una volta fuori casa, disse: “Scegli dove andare.” Scelsi di andare verso il Rosas, che è un torrente che scende dalla montagna. Non scelsi di andare verso il paese perché non volevo farmi vedere in giro con
lei. Mia madre in quel paesino ci abitava da sempre. Lì era nata. Adesso però abitavamo in una
casa spalla a spalla con la montagna.
D’estate usciva apposta fuori per guardarla. Le
piaceva molto la vetta. Non era una vetta a pun-
ta. Come diceva lei,
era una vetta che
somigliava a due
mani unite, due mani
che chiedono alle
stelle il loro candore.
Lei voleva per me quel
candore.
Oggi sono certo che
scelsi la direzione che
lei voleva scegliessi.
Il silenzio durò fino alla casa dei Penaloza. Sotto
il porticato la figlia più piccola, spastica, in carrozzella, giocava da sola.
Presi spunto, e le raccontai di una leggenda araba in cui Dio dice all’uomo: “Ogni volta che compirai una cattiva azione, io farò cadere sulla terra un granellino di sabbia.” Le chiesi se fosse
d’accordo con me nel dire che un granello di
sabbia ci stava proprio davanti in quella povera bambina e le feci osservare che il creato è
ferito dai deserti come la vita è ferita dal dolore. Poi, conclusi: “La vostra speranza è talmente
ingiusta. Si ha voglia di lottare con il mitra in
mano; c’è della pietà in questa lotta, e voi la chiamate tristezza.”
Osservò: “Pietà è il nome che spesso si dà ai
propri errori.” A questa risposta, mi volsi verso
di lei; sorrideva: i miei errori dovevano passare per quel sorriso.
“A Madrid intanto nel nostro appartamento di
periferia, io e gli altri preparavamo un attentato pesando ogni cosa scrupolosamente.
Oggi capisco che preparavamo un attacco alla
gioia della gente di tornare a casa. Un traditore, anzi, così lo chiamo oggi: un vero samaritano, mandò a monte il progetto. Irruppe la polizia. Fummo arrestati e condannati. Io, a cinque
anni di reclusione. In questo modo, affrettai la
morte di mia madre. Che accadde la vigilia di
Natale. Tutti i miei fratelli stettero intorno al suo
letto. Stava per morire, e mancavo solo io. Volle
vedermi. Tre dei fratelli si recarono dal direttore del carcere. Lui permise che ci andassi.
Mamma già non parlava più. Eppure, quando
capì che ero lì, alzò un poco la testa e mi guardò con una luce profonda negli occhi; poi, raccontinua nella pag. accanto
Dicembre
2016
9
Sara Gilotta
L
a situazione
mondiale, che
riguarda fortemente anche l’Italia,
ha ormai il suo fulcro
nelle immigrazioni di
massa che stanno
caratterizzando tutto
il mondo, tanto che
la costruzione di muri
è diventata una sorta di gara tra popoli, che, invocando le
crisi economiche
comunque diffuse,
cercano di non far
entrare chiunque si
avvicini ai loro confini troppo spesso
dimenticando le cause che hanno portato tanti disperati a fuggire dalle loro terre. Ma i muri
non derivano se non in minima parte da cause economiche, perché esse
nascono dentro i nostri cuori e dentro le nostre menti.
Siamo avvezzi, infatti, a considerare l’altro essenzialmente per l’utilità
che ce ne può derivare o a considerare innanzitutto se egli risponda alla
nostra visione del mondo, e, come si dice, alla nostra civiltà.
Spesso quando sento ripetere tali refrain, mi tornano alla memoria le
parole di una lettera di San Francesco, nella quale il Santo dei poveri,
invitava i suoi confratelli e tutti coloro che dichiaravano di seguire gli insegnamenti di Cristo ad amare tutti, ma prima ancora i più bisognosi senza riserve. L’amore, quello autentico, non ha bisogno per germogliare,
di risorse e di beni economici, per il fatto che, se è vero che il denaro
occorre per sostentare chi ha bisogno, è vero innanzitutto che c’è bisogno che in noi nasca il bisogno, vorrei dire l’istinto del soccorso e dell’accoglienza. Ma troppi di noi di fronte a tali semplici considerazioni,
obbiettano che è facile “chiacchierare”, ma poi quando “quelli” arrivano vicino alle nostre case, prendono il nostro posto al lavoro e per di
più appaiono pericolosi innanzitutto perché diversi, allora seguire i principi più semplici di umanità e, quindi, di cristianesimo, diventa impossibile. Anche con la migliore delle buone volontà.
Ma se per certi versi difendere se stessi, è un principio naturale, tuttavia esso non dovrebbe impedire, anzi dovrebbe favorire l’incontro con
l’altro, che non si può considerare in nessun modo un ostacolo o peggio un pericolo per la propria vita. A patto che i muri, appunto, non siano eretti nel nostro cuore. E’ che forse oggi più che nei tempi passati
segue da pag. 8
colte le forze, distese le braccia, capii che mi
offriva la croce col suo corpo morente, allora
corsi ad inginocchiarmi, ad allacciarmi e a piangere su quella croce di carne, e sentii scendere
in me un perdono più grande del candore della montagna sotto la luna, un candore che da
sempre voleva prendere per me e io non sapevo che farmene. Spirò. Piansi più forte ancora. Allora, un prete, di cui non m’ero accorto prima, mi si accostò e mi tese una lettera; la presi, era di mamma, la lessi subito.
l’egoismo coltivato da un individualismo generalizzato derivante fondamentalmente dalla convinzione di essere stati e di essere continuamente defraudati di diritti fondamentali acquisiti per sempre, è il solo
parametro possibile di affermazione di sé.
E chi si sente defraudato in qualsivoglia ambito sociale, economico o
esistenziale, ha bisogno per giustificare se stesso di individuare un responsabile delle proprie difficoltà. Così acquisisce o tenta di acquisire maggiore serenità, in nome della quale chiude gli occhi sul mondo, dimenticando o rinnegando i principi basilari della sua educazione e, purtroppo,
anche della propria fede.
Per tutto ciò, il pericolo forse più grande deriva dalla convinzione ormai
molto diffusa che nessuno individualmente può fare davvero qualcosa
di buono. Così si affermano le tentazioni di rivolta, purtroppo portatrici
solo di altri problemi, ma prima ancora si è affermata una sempre più
marcata tendenza a deresponsabilizzare se stessi, che non solo non
aiuta nessuno, ma è portatrice di ulteriori problemi sia sociali che personali. Perché vivere o imparare a vivere assumendosi le proprie responsabilità, che altro non sono che gli effetti delle proprie libere scelte, è
sicuramente positivo e soddisfacente e dà forza all’io, permettendogli
di riconoscere e accettare anche e, forse, innanzitutto la sua capacità
di amare Dio nel prossimo, chiunque esso sia.
E parafrasando un pensiero di San Francesco si potrebbe dire:
Non permettere che qualcuno, si allontani da te senza aver ricevuto il
tuo aiuto, se lo chiede. Altrimenti sarà sempre più la paura a dominare
nelle nostre vite.
Seppi così che quel prete veniva a trovarla e
tutte le volte le sistemava sul comodino, come
lei chiedeva, la Bibbia aperta alla pagina in cui
il Signore dice per mezzo di Osea: “Ti fidanzerò
con me in eterno.”
Col solo sguardo, mamma di continuo ricordava al Signore le sue stesse parole, ma già tutte le volte che veniva a trovarmi in carcere gliele ricordava: passava prima in chiesa, s’inginocchiava
e gliele ricordava. Poi, veniva da me.
Io rifiutavo la visita, tutte le volte. Ma lei era sicura che Dio avesse contato anche i suoi passi.
Chiusi la lettera, guardai mamma, pensai al Natale,
a lei dentro il Natale, e a me che, se volevo,
potevo cominciare ad avere un buon Natale.
Ecco, l’ho avuto: Dio mi ha fidanzato con sé:
voi lo vedete, sono il suo sacerdote, e sono venuto qui per fare festa con voi e per supplicarvi
di lasciarvi aiutare dalla tenerezza del Bambino
di Betlemme in quella fatica, aspra e necessaria,
per ritrovare una vita di fede e di amore.”
Nell’immagine del titolo: Gesù resuscita il figlio della
vedova di Naim, Spada Lionello, XVI sec., Bologna.
Dicembre
2016
10
Continua il viaggio di Padre Antonio Maria Scifoni,
seguiamolo in questa puntata, nel suo tragitto
da Avignone a Bordeaux, e nelle sue soste durante il viaggio per arrivare al Porto Luigi.
Tonino Parmeggiani
P
artiti da Roma il giorno 27 settembre 1743,
alla volta del Porto Luigi, posto sulle coste
dell’Oceano Atlantico nella Francia nordoccidentale, nel quale dovevano imbarcarsi su
una nave alla volta del porto di Macao nella Cina,
il gruppo dei nostri missionari giunse ad
Avignone che, benché in terra di Francia, era
un’enclave dello Stato Ecclesiastico, governata da un Legato pontificio, per cui i nostri cercarono un comprensibile aiuto, “il dì 11. [del mese
Novembre 1743] adunque pervenimmo ad Avignone
… ci portammo a riverire quel Vice Legato Monsignor
Niccolò Lercari, quale ci accolse con molto gusto,
ed avendogli significato qualche cosa dè suoi
parenti dimoranti in Roma, volle che il dopo pranzo, solo fossi stato di nuovo a palazzo: vi tornai, e tenemmo un lungo discorso”.
Il Canale nell'attraversamento di due tunnel.
Mons. Lercari si adoperò anche per fargli ottenere in contanti il denaro della lettera cambiale, “altrimente ero costretto andare alla volta della Dominante [= Parigi] ... ed allungando fuor
di modo il mio cammino”, invero di oltre 500 Km!
All’uscita dalla città la solita sintetica considerazione sul luogo, “E’ situata questa Città Pontificia
alle sponde di un grosso fiume Rodano; è grande à bastanza, hà vaghe, e diritte strade in pianura, si estende ancora sopra una commoda collina, ove è il Duomo, accosto à questo è il palazzo del Legato, ambedue fabriche assai antiche”;
ricordiamo che nel sec. XIV, per oltre settanta
anni, Avignone fu sede papale per cui non è da
meravigliarsi della presenza di imponenti edifici. Mons. Niccolò Maria Lercari, eletto Cardinale
dall’anno 1726, aveva in carriera rivestito molti incarichi di prestigio e, negli anni 1739-44 lo
troviamo appunto Vice Legato di Avignone; Padre
Angelo si incontrerà di nuovo con lui al suo ritorno dalla Missione, nell’anno 1749, in quanto diverrà poi proprio Segretario di Propaganda Fide.
[Cap. 8] Appena un giorno di riposo e “Il dì 13.
passato il fiume (= il Rodano) vedemmo altra
città appartenente al Rè di Francia, ed entrammo in Linguadoca (= la provincia della
Linguadoca).
Questa provincia è assai più vaga, e per l’agricoltura,
fertile molto più della Provenza, e le sue strade Regie, sono molto buone”. Percorrendo proprio la via Regia, una strada importante, di grande traffico, oltreché sicura per la sorveglianza
esercitata dalle guardie del Re, la quale si snoda lungo un fondo valle, “Giungemmo la sera
assai di notte a Nimes, ed il dì 14. di buon’ ora
né partimmo; onde niente posso dire di questa
Città [quasi con rammarco!], e la sera riposammo
in Montpellier, quale per il sito, e sue campagne è assai deliziosa, situata sopra di una collina, vicina non molto tratto (tratto= fuori), alla
marina, il che causa un’aria molto mite. Da Montpellier
indrizzammo il cammino il di 15 per Agdè, e Bisiè
(la città di Béziers). Non molto lungi da questa
Città sbocca il canale: onde andammo a piedi,
e prima della sera vi entrammo.
Questo canale è un opera assai ingegnosa, parto (= idea, progetto) di un’animo veramente gran-
de, poiché per benefizio di questo, possono le
mercanzie sempre per acqua passare dal
Mediterraneo all’Oceano, congiungendo il
Fiume Aude con quello detto la Garonna sino
a Tolosa; onde chi viene dal Mediterraneo, dall’Aude
sale sino all’origine dell’acque del canale, e da
questa scaturiggine (= incontro, sorgente)
scende alla Garonna sino a Tolosa: quindi è, che
ora passano le acque sopra di un ponte, congiungente un monte coll’altro; ora passano entro
una Montagna con uno sfondo (= scavo nella
roccia per creare un tunnel) considerabilissimo
per la sua altezza, e per la sua larghezza, quale è capace di due grosse barche, tirate da cavalli, per i quali vi è, entro questo sfondo medesimo (= la sezione del tunnel) dà i due Lati, una
via capace per passarvi sopra (= due banchine laterali per il transito delle persone ma, soprattutto, dei cavalli che trainavano le barche e chiatte che scorrevano nel canale; all’inizio però le
barche erano con la vele e solo più tardi furono usati i cavalli).
Descriviamo questo canale, attingendo da una
Storia della Tecnologia: questo canale fu considerato per l’imponenza delle sue opere di ingegneria civile ed idraulica, quasi una meraviglia
del mondo ed, inaugurato nell’anno 1681, si proponeva di creare una via d’acqua interna che
unisse il mar Mediterraneo con l’Oceano
Atlantico, creando così dei vantaggi per il trasporto di merci e persone, in quanto non occorreva più circumnavigare la penisola iberica, con
guadagno di tempo pari ad un mese.
Il progetto, da anni in discussione, venne realizzato con forti spese, unendo i percorsi dei fiumi Aude e Garonna, e fu chiamato canale di
Linguadoca o Canal du Midi per il primo tratto,
che va dalla riva del Mediterraneo, nella città
di Sète, alla città di Tolosa per 240 km. e, per
il secondo tratto, chiamato Canal della Garonna,
che unisce Tolosa con Bordeaux per altri 260
km. Nel loro insieme venne anche chiamato Canale
dei due Mari, oltre questo nel sud della Francia,
ne venne creato un altro più a nord; innumerevoli furono le opere idrauliche costruite come
dighe, chiuse, paratie, opere sotterranee.
Notevole e comprensibile è lo stupore dei nostri
Padri nell’attraversarlo, rimasto in uso per trasporti commerciali fino a pochi decenni orsono,
oggi costituisce una grande attrattiva turistica
ed ambientale.
Continuiamo a leggere il manoscritto di Padre
Scifoni: “Vicino a questo canale è situata Carcassona
(= Carcassonne), sì nominata nella vita del Nostro
Padre S. Domenico, quale si affaticò sette anni
per iscacciare di queste Contrade gli Eretici Albigesi;
e presentemente sono ripiene di Ugonotti [protestanti calvinisti che, invero, nel tempo avevano
subito stragi e persecuzioni ad opera dei cattolici]. Per pranzare, cenare, e dormire si và sempre a terra nell’Osterie determinate, per questo
trovansi imbandite buone tavole, massimamente
la prima, detta da essi la gran tavola, a distinzione della seconda, chiamata da essi piccola
tavola. In conclusione fummo entro questo canale, cambiando molte barche, tutte però coperte, trè giorni; e la sera del 18. ben di notte entramcontinua a pag. 11
Dicembre
2016
Cittadella del Porto Luigi in
una stampa del 1792.
mo in Tolosa, qual’era da per tutto illuminata,
onde ben si poteva caminar per le strade.
E’ questa una Città molto antica, le sue strade
assai strette, e storte molto, e ben popolata, e
frequentata da passaggieri; perciò ci convenne per molte osterie cercare l’alloggio, essendo esse tutte, ripiene di Forastieri”. Quindi, i circa 240 km. furono percorsi in meno di tre giorni, comprese le soste, quando invece a cavallo ne percorrevano da 30 a 40 al giorno!
“Da Fregius fin qui li due Padri Riformati, ed io
camminammo sempre in compagnia; ora uno
di essi, cioè il P. Odoardo volle andare a Bordeus
[nome franco-spagnolo della città francese di
Bordeaux] sempre per acqua; sicchè assieme
col Padre da Seravalle cavalcai correndo la posta,
per due giorni, cioè la sera del 19. riposammo
in Montealbano [la città di Montauban, a 40 km.
da Tolosa], paese assai vago, ed il dì 20, nel
Porto di Santa Maria [la città di Port-Sainte-Marie,
dove vi era il porto sul Canale della Garonna],
vi arrivammo molto tardi, pieni di stanchezza,
avidi piuttosto di dormire, che di cenare: onde
risolvemmo metterci ancor noi in acqua nella Garonna,
e sbarcammo il dì 22. in buonissima ora in Bordeus
[= Bordeaux]. Fui a dirittura al Convento, qual
è di Osservanza, ed il P. Priore
assai garbato mi assegnò tosto
un Padre, quale mi accompagnava per la Città, secondo le mie occorrenze.
Questo Padre mi condusse,
dopo varij miei affari, a
vedere la fortezza vicino al
Convento, la Sala del
Parlamento, e la piazza
sulle sponde del Fiume
non ancora perfezzionata,
è questa fatta a mezzo circolo, intorniata, allora solamente per metà, da un’ottima fabrica; già eravi inalzato nel mezzo, sopra il suo piedestallo, un Cavallo
di bronzo, col Rè di Francia sopra di quello.
La Città è assai mercantile, specialmente per
la gran quantità del suo vin rosso: Ricca assai,
molto contribuendo a renderla tale il commodo
del gran Fiume della Garonna, questo è ripieno di ogni sorte di bastimenti, che lo formano
un gran porto: è ancora vasta, ma non molto
vaga, perché antica: vi dimorai 9. Giorni, attendendo la comodità dell’imbarco per passare per
Mare a Porto Luigi, ò sia porto d’Oriente”.
Il Porto Luigi, città posta su una penisola - promontorio vicino a Lorient, era il porto deputato
per l’imbarco verso l’oriente, tantoché era
denominato anche Porto d’Oriente ed è situato nella regione della Bretagna, ma più a nord
di Bordeaux, da cui dista oltre 400 km., per cui
i nostri missionari dovettero dapprima recarsi in
uno dei tanti porti d’imbarco, Bhay, lungo il Canale
della Garonna nei pressi di Bordeaux, e qui imbarcarsi su un Brigantino alla volta di Porto Luigi,
navigando per due giorni nella Garonna e poi
in un altro nell’Oceano Atlantico.
[Cap. 9] “Il 30. di Novembre mi riuscì entrare in
un piccolo battello, sino a Bhay in poca distanza da Bordeus, dovendo ivi imbarcarmi in un Brigantino
11
quale doveva trasportarmi a detto Porto, ma tosto
che arrivai seppi, che era già partito, e perciò
mi convenne aspettare cinque giorni altro
Brigantino, che dovea là giungere, entro il quale sarebbero stati i due Padri Riformati, venne
finalmente, ed il dì 6. di Decembre facemmo vela
verso l’Oceano; due giorni navigammo nella Garonna,
ed il dì 8. di detto mese entrammo nell’Oceano,
e né diedi à gli altri certo contrassegno, perché
immediatamente lo salutai con il solito vomito.
In termine di 40. ore, da me osservate, con perfettissimo digiuno, sbarcammo in Porto Luigi, e
mi portai assieme cò due Padri Riformati al di
Loro Convento, il dì 9. Detto. Questo Paese è
nella Provincia della Brettagna della Francia in
47 gradi, è minuti di Latitudine, ed è assai piccolo, consistente in una Fortezza per difesa del
Porto: benchè sul fine di detto Porto vi sia una
grossa terra, ove sono i magazzeni della Compagnia
dell’Indie, e và tuttavia crescendo di giorno in
giorno di nuove abitazioni, a segno che crescerà
in una vaga Città” [oggi nella città vi sono i due
musei della Marina e della Compagnia].
Essendo tempo di Advento, e la povertà di què
Padri assai grande, si scarseggiava nella tavola: il freddo era intollerabile, si perché lo portava la stagione, si anche perché molto si avanza alla parte Settentrionale, come hò detto qui
sopra. Il Vascello, nel quale era determinato il
nostro passaggio per la Cina altro non aspettava, che il vento favorevole per uscire dal porto; usammo le diligenze immaginabili per fare
i nostri preparativi; ma non fù possibile; perché
partì due giorni dopo il nostro arrivo, e se quell’anno si spedivano dalla Compagnia di Parigi
soli due Vascelli, noi trè (benchè non così ben
provisti) passavamo à Cina, ma non già gli altri
col mio Compagno, quali tardarono più di 20.
giorni ad arrivare. Giunsero finalmente, e ci rivedemmo tutti, e cinque, e di più un Prete Napolitano
della Congregazione della Sacra Famiglia, nominato il Sig.re Don Domenico La Magna, col quale si accompagnò in Marsiglia il mio Compagno,
ed assieme fecero il cammino per Parigi sino
a questo Luogo, sempre per terra”.
Sembra di capire che non si imbarcarono sul
Vascello della Compagnia delle Indie, in partenza,
come si evince, l’11 dicembre, sia perché i due
compagni, l’altro domenicano ed il Padre
Terziario, non erano ancora arrivati, sia perché
non avrebbero potuto, in soli due giorni, fare i
loro comprensibili preparativi: quindi si imbarcarono su un’altra nave, la S. Ercul che salpò
pertanto circa una settimana dopo l’arrivo
degli altri compagni.
[Cap. 10] ”Fatti tutti i preparativi di camiscie, vesti
da secolare imbarcammo tutti, cioè 6., il dì 8.
di Gennaro del 1744 su d’una nave Francese
detta S. Ercul, ed il giorno appresso à ore 9. di
Francia, uscimmo dal Porto, e si fece vela verso Capo Finister”, [promontorio della Spagna
sull’Oceano]. Cosi, partiti da Roma il 27 settembre
1743, i due domenicani, percorsi in 104 giorni
quasi 2000 km, salparono finalmente verso la
Cina, per espletare il loro mandato di Missionari.
continua
Itinerario percorso con vari mezzi di trasporto.
Dicembre
2016
12
don Carlo Fatuzzo
I
l nostro vescovo Vincenzo, nell’omelia pronunciata in cattedrale lo
scorso 19 settembre, durante la concelebrazione del presbiterio diocesano per il suo XX anniversario di consacrazione episcopale, ha
indicato una linea programmatica da rilanciare come priorità per l’intera nostra diocesi nel nuovo anno pastorale: recuperare nuovamente
il primato della Parola di Dio e ricollocarla al centro di tutta la nostra
vita e del ministero apostolico di tutti.
Durante l’anno giubilare appena concluso, abbiamo tentato di rispondere
al desiderio che la diocesi riflettesse sulle opere di misericordia, che il
vescovo aveva manifestato nel maggio 2015 durante l’omelia per la festa
della Madonna delle Grazie a Velletri.
Similmente, raccogliendo il nuovo invito pubblico del nostro Pastore, inauguriamo una nuova rubrica dedicata all’approfondimento dei più recenti interventi magisteriali sulla centralità
della Parola nella vita cristiana.
La Parola di Dio sia per tutti noi oggetto di speranza («Spero nella Tua
Parola»: Sal 119 [118], 114), di lode
(«Confido in Dio, di cui lodo la Parola
[…] lodo la Parola di Dio, lodo la Parola
del Signore»: Sal 56 [55], 5.11), di
fiducia per ritrovare sempre nuovo
ardore e coraggioso slancio («Sulla
Tua Parola getterò le reti»: Lc 5, 5),
di un compiacimento per sé («La
Tua Parola è gioia e letizia del mio
cuore»: Ger 15, 16) e contagioso per
chi ci sta intorno («I tuoi fedeli al vedermi avranno gioia, perché ho sperato nella Tua Parola»: Sal 119 [118],
74).
Iniziamo questa nuova rubrica presentando l’esortazione apostolica postsinodale Verbum Domini, pubblicata dal papa Benedetto XVI il 30 settembre 2010, a seguito della XII assemblea generale ordinaria del sinodo
dei vescovi, celebratasi in Vaticano
dal 5 al 26 ottobre 2008 e avente
come tema La Parola di Dio nella
vita e nella missione della Chiesa.
Il documento di Benedetto è formato
da un’introduzione e da tre parti, rispettivamente intitolate Verbum Dei,
Verbum in Ecclesia e Verbum mundo.
Nell’incipit dell’introduzione che dà il titolo all’intera esortazione,
Benedetto riflette anzitutto sul versetto neotestamentario «La Parola del
Signore rimane in eterno» (1 Pt 1, 25), meditando sul meraviglioso mistero del Verbo eterno che tuttavia è entrato nel tempo, con l’incarnazione
del Figlio di Dio in Gesù Cristo. Questa è davvero la “buona notizia”: che
Dio abbia pronunciato la sua Parola in modo umano, che «il Verbo si
fece carne» (Gv 1, 14). Dio parla, e risponde alle nostre domande. La
Parola di Dio è il cuore stesso della vita cristiana,
e la Chiesa si fonda sulla Parola di Dio, nasce e
vive di essa. Possiamo approfondire il nostro rapporto con la Parola di Dio solo all’interno del “noi”
della Chiesa, nell’ascolto e nell’accoglienza reciproca
(cfr. Verbum Domini, d’ora in poi VD, 1-5).
Nella prima parte del documento viene approfondita la riflessione proprio su Dio che parla, chiarendo
la necessaria distinzione fra le cinque differenti accezioni del concetto di “Parola di Dio”, che Benedetto
armonizza ricorrendo all’idea poetica di una sinfonia o un canto a più voci. “Parola di Dio” è, in altri
termini, un concetto analogico, del quale è opportuno comprendere e distinguere i differenti livelli:
1) Parola di Dio è innanzitutto il Verbo (Lògos), cioè
la Persona stessa del Figlio Unigenito, eterno e consustanziale al Padre, incarnatosi in Gesù Cristo;
2) in certa misura, la creazione (liber naturae) è poi
parte di questa sinfonia a più voci in cui l’unico Verbo si esprime;
3) pronuncia la Parola di Dio (“oracolo del Signore”) anche la voce dello Spirito Santo che ha parlato per mezzo dei profeti in tutta la storia
della salvezza;
4) è altresì Parola divina l’integrale annuncio (kèrigma) predicato dagli
Apostoli al mondo intero, che confluisce perennemente e ininterrottamente
nella Tradizione viva della Chiesa;
5) la Parola di Dio, infine, è contenuta
(ma non limitata) nelle Sacre Scritture
ispirate: l’Antico e il Nuovo Testamento.
Ecco perché il cristianesimo venera grandemente e giustamente la Sacra
Scrittura, pur non essendo tuttavia una
“religione del Libro”, bensì “della Parola
di Dio” in tutti questi sensi, cioè del Verbo
incarnato e vivo, centro della nostra fede
(cfr. VD 7).
Benedetto sgombra il campo da ogni eventuale equivoco e definisce con chiarezza
che la Scrittura, essendo fonte di
Rivelazione, rimane un fondamento irrinunciabile della fede, ma al contempo
da non assolutizzare. Se poi si contempla
tutto l’orizzonte trinitario e storico-salvifico della Rivelazione, nonché la
dimensione cosmica della Parola, per
la quale tutta la creazione, fatta per mezzo di Cristo e in vista di Lui (cfr. Col 1,
16), reca un’indelebile traccia del
Logos, Ragione creatrice e ordinatrice,
si può inquadrare adeguatamente quell’estremizzazione di san Bonaventura,
secondo il quale persino «ogni creatura è una parola di Dio» (Itinerarium mentis in Deum II, 12).
Dicembre
2016
13
dott.ssa Chiara Molinari
T
utti i matrimoni, come già più
volte detto, sono, di loro natura, indissolubili, anche quelli che non sono celebrati in Chiesa,
infatti il matrimonio è stato voluto da
Dio fin dalla creazione.
La Chiesa riconosce come validi , tra
battezzati, solo i matrimoni celebrati
in forma sacramentale (can.1108).
Ci si può sposare in Chiesa anche
avendo figli perché nel matrimonio
civile non si è impegnati davanti a
Dio mentre in quello canonico ci sarà
l’impegno.
Per un battezzato l’unica forma valida di matrimonio è quella canonica per cui il precedente matrimonio civile è nullo. Ne consegue così
che può accedere liberamente al sacramento del matrimonio dopo un
divorzio civile e la presenza dei figli non costituisce impedimento.
Normalmente, salvo giusta causa da sottoporre all’Ordinario, occorre
attendere la registrazione della sentenza di scioglimento del vincolo
che abbia composto eventuali pendenze verso i figli o altre persone.
A tal fine si chieda all’Ordinario la licenza per un matrimonio concordatario utilizzando il n.8 del formulario CEI (art. 44, 3 D.G.).
Qualora si avesse soltanto la sentenza di divorzio senza la registrazione, il Parroco, per gravi motivi pastorali, può inoltrare la domanda
all’Ordinario per ottenere il matrimonio solo canonico, dopo aver verificato la sincerità della richiesta dei nubendi e l’impegno a regolarizzare successivamente la posizione matrimoniale con il matrimonio civile. Solo in alcuni casi è previsto ritorno in Chiesa per chi desidera risposarsi , per i vedovi e per chi ha ottenuto l’annullamento del primo matri-
monio presso la Sacra Rota Romana. E per chi è cattolico e tiene al
rito religioso per le seconde nozze si riaccendono le speranze di poter
tornare ai sacramenti e all’Eucarestia.
Le parole del Santo Padre lasciano ben sperare e aprono soprattutto un varco in direzione di quanti guardano alle seconde nozze ma con
la consapevolezza di non poter festeggiare il rito in maniera religiosa.
Così aggiunge Bergoglio, a chiusura del periodo della Misericordia, che
non bisogna mai condannare ma accompagnare chi ha sperimentato sulla propria pelle il dolore del fallimento di un amore e l’atteggiamento nei confronti di queste persone deve essere misericordioso.
Nell’Instrumentum Laboris si legge che sui : “ divorziati risposati civilmente che si trovano in condizione di convivenza irreversibile c’è un
comune accordo sulla ipotesi di un itinerario di riconciliazione o via penitenziale, sotto l’autorità del Vescovo”.
Una strada che si apre ad un’idea di famiglia più al passo coi tempi,
in cui la Chiesa deve dare risposte nuove, che non possono fondarsi
più sul moralismo.
Costantino Coros
Il clima è amichevole e confidenziale, le risate si alternano alle lacrime di commozione per vivere insieme
una preghiera forte, simile alle
prime comunità cristiane,
riassaporando la tradizione
di famiglia quale primo luogo di catechesi.
Invitiamo voi tutti a vivere con
noi un’esperienza di convivenza,
preghiera, riflessione ed amicizia attraverso il mondo
delle fiabe.
È
passato un anno,
ma sembra ieri, dall’inizio della bella
collaborazione tra l’Azione
Cattolica diocesana e l’Ufficio
Pastorale della Famiglia.
L’Azione Cattolica desidera
esprimere gratitudine a tutte le famiglie che si sono messe in gioco in questa esperienza nuova per la diocesi.
Attraverso la lettura e la riflessione di fiabe antiche, le famiglie hanno riscoperto valori, a volte rimasti chiusi nei loro cuori,
che la Chiesa tutta ci invita a vivere in pienezza di condivisione.
Le famiglie, leggendo insieme ai propri figli, fiabe come quelle di
‘Hansel e Gretel’, ‘Biancaneve e lo specchio magico’, la ‘Chiave
di Barbablu e Vassilissa la bella’, hanno scoperto in esse aspetti
psicologici e spirituali riconducibili ad una vita familiare, che spesso non è più ben visibile.La novità di questi incontri è che la coppia lavora con i propri figli, inizialmente con un lavoro personale
per poi arrivare al confronto e alla crescita della famiglia tutta.
Prossimi incontri:
22 gennaio
28/29/30/1 maggio
dell’Acero
25 giugno
1/2/3
presso Collegio Pontificio Leoniano - Anagni
presso Centro Spiritualità Santa Maria
presso Convento Cappuccini - Segni
da definire.
Dicembre
2016
14
nio finito ci sono fratelli feriti ci ricorda don R.
Malpelo. L’amore di Gesù non ha confini e Padre
P. Piva ci introduce nella realtà di famiglie che
vivono l’esperienza con persone di tendenza omosessuale, esperienze di frontiera, e dove Dio parla alla loro storia.
Gabriele e Simona Maira
U
n weekend intitolato “Vi occuperete della pastorale familiare nell’Amoris
Laetitia cap. 4”. La bella città di Assisi
è pronta ad ospitare tantissime famiglie, sacerdoti, consacrate, diaconi, provenienti da tutta Italia
per vivere due giorni intensi di contenuti e ricchi di emozioni.
E’ venerdì 11 novembre 2016 e mentre una pioggia incessante rende difficoltoso anche scendere
dalla macchina, le porte della Domus Pacis si
aprono per tutti noi e da subito si respira una
calda accoglienza, ristoro dopo il viaggio, gioia
di incontrarsi, semplicemente aria di famiglia.
Ad aspettarci con un grande sorriso ecco Don
Paolo Gentili (direttore dell’Ufficio Nazionale di
pastorale familiare della CEI), che ricordava la
sua venuta all’Acero, dall’altro lato della hall,
tanti giovani animatori “Animatema di Famiglia”,
i quali si sarebbero occupati dei nostri figli, divisi per fasce di età, durante le conferenze, seguendo un itinerario proprio del convegno.
“Vieni Spirito di Amore ad insegnare le cose di
Dio”, con le parole di questo canto si apre il convegno. Le prime parole che risuonano, sono le
tre parole chiavi per vivere bene in famiglia che
papa Francesco ha ripetuto più volte: “permesso,
grazie, scusa”.
Parole che fanno rinascere ogni famiglia che non
è perfetta, che vive un “martirio quotidiano” per
il bene di tutti, per testimoniare l’amore, per arrivare al regno dei cieli, che cerca di essere concreta per poter contagiare gli altri e dove la sua
prima virtù deve essere la pazienza. Per vivere questo messaggio di felicità, ci ricorda Don
Paolo, è il Vangelo la guida per educare i nostri
figli all’amore, per costruire con loro un dialogo dove non sono necessari dei microcip per
controllare i loro spostamenti e riempire uno spazio, ma accompagnarli in un’adolescenza che
li formerà come persone.
Accogliere
S.E. Mons. K. J. Farrell definisce la famiglia “luce
accesa da Dio che si nasconde dietro l’oscurità, una brace che arde ancora sotto le ceneri”
Dire Sì vuol dire iniziare un cammino formato
da tante tappe, dove ci si siede per “negoziare”, dove ci si spoglia di se stessi, un cammino fatto di carne, di un corpo donato per amore. E’ fondamentale, e questo è stato ripetuto
più volte da vari relatori, l’alleanza tra le coppie e il sacerdote per poter accompagnare, discernere e integrare tutte quelle famiglie ferite, perché la Chiesa è composta da un’umanità ferita e sa riconoscere i suoi figli sporchi di fango
come una mamma sa fare.
Papa Francesco ha a cuore tutto questo e attraverso il documento Amoris Laetitia ci invita ad
aprire uno sguardo nuovo in questo cammino,
dove non serve un tom tom , ma bisogna navigare a vista, guardare in faccia il fratello, accoglierlo nella condizione in cui è e non cambiare la verità.
Essere tutti padri e madri, capaci di ascoltare,
di accompagnare, di amare gratuitamente tutti e soprattutto coloro che pensano che mai saranno guariti. Usare misericordia che si fa carico,
si accosta, fa crescere. Se c’è un cuore toccato dalla misericordia porterà frutto; con queste
parole conclude S.E. Mons. Zuppi.
Gesù vuole una chiesa fatta di persone fragili,
e il suo obiettivo è la salvezza di tutti i suoi figli
persi, malati e feriti. Papa Francesco ci esorta a costruire ponti, non alzare muri, ma nella
pastorale familiare uno di questi ponti manca,
quello che vede coinvolte le persone ferite da separazioni,
divorzi, in quanto non
è un problema solo dei
tribunali, ma di tutta la
Chiesa. Servirebbe
una sensibilizzazione
verso i fedeli, una informazione corretta delle novità apportate dal
Santo Padre con il MIDI
(il suo Motu Proprio
dedicato a rinnovare
la disciplina dei tribunali
ecclesiastici in materia matrimoniale).
Dietro ogni matrimo-
Discernere
Oltre all’accoglienza, in questo nostro cammino verso la vetta insieme al fratello è necessario
il discernimento, il quale prevede fatica, ascolto pazienza; si racchiude nella “legge della gradualità”, c’è un tempo per tutto, per capire per
rendersi conto di aver sbagliato, per chiedere
scusa per ritrovare la fede.
E’ un cammino lento, graduale che permette di
trovare il seme di Dio anche in un vivere da inferno, e compiere piccoli passi tanto graditi a Dio
rispetto ad una esteriorità apparentemente perfetta, ci spiega il Prof. T. Cantelmi (Docente di
Psicopatologia presso Università Gregoriana di
Roma). Bisogna riscoprire il senso del cammino, essere pronti al movimento, risvegliare le coscienze, quel centro di gravità permanente che non
ci lascia in balia del mondo, ma è abitato da qualcuno che parla e ci rende testimoni.
Integrare
Ebbene oltre a tutte queste nozioni abbiamo vissuto un momento di particolare emozione nella sera del sabato; nella sala che ci ospitava durante le conferenze, è stata messa in scena una
rappresentazione teatrale a cura dei detenuti dell’Istituto
di custodia per il trattamento della tossicodipendenza
della Casa di reclusione di Eboli (SA) dal titolo Fuori Nevica di Salemme.
La loro bravura è stata riconosciuta da tutti noi
con un lunghissimo e calorosissimo applauso,
dove si respira uno scambio forte di emozioni,
un unico cuore; un muro che rappresenta sconto di condanna è stato abbassato per circa due
ore, il modo migliore per esprimere l’integrazione
di fratelli feriti che desiderano cambiare; un Dio
che si fa vicino senza condanna.Gesù si chinò
e si mise a scrivere con il dito a terra: scrive una
nuova creazione. Con queste parole, domenica 13 novembre, si conclude il convegno e ognuno lascia Assisi città della pace, per rientrare
nelle proprie case, parrocchie, diocesi.
Dicembre
2016
15
Costantino Coros
A
ccoglienza ed accompagnamento. Con
queste due parole ricche di significato e portatrici di valori profondi legati al riconoscere l’altro come fratello e sorella si può sintetizzare lo scopo del progetto “Protetto.
Rifugiato a casa mia” presentato sabato 29
novembre 2016 a Velletri presso l’Istituto delle Suore Adoratrici del Sangue di Cristo.
“Si tratta di un progetto fondamentale per venire incontro ai bisogni dei più poveri ed abbandonati” ha detto la superiora regionale, sr. Silvana
Crolla in occasione della cerimonia d’inaugurazione.
La casa delle Suore Adoratrici del Sangue di
Cristo è nata nel 1925 proprio con l’obiettivo
di accogliere i bambini poveri in difficoltà ed
è sempre servita per venire incontro alle necessità del tempo, continua anche in questo caso
a svolgere la sua missione di prendersi cura
dell’altro.
“Protetto. Rifugiato a casa mia” è un progetto di respiro nazionale, promosso da
Caritas Italiana, che coinvolge le Caritas diocesane al fine di sperimentare nuove forme
di accoglienza e integrazione di rifugiati, titolari di protezione o permesso umanitario, richiedenti protezione internazionale all’interno di nuclei
familiari o in strutture parrocchiali o diocesane
di accoglienza. “In particolare - si legge nella
nota di presentazione - la Caritas diocesana di
Velletri-Segni avrà il compito di accompagnare e sostenere le accoglienze, garantendo quanto necessario ad una migliore integrazione tra
i beneficiari, le famiglie e le comunità”.
Vincenzo Apicella, vescovo della diocesi di VelletriSegni ha sottolineato che la struttura può diventare una “scuola dell’accoglienza” aggiungendo che non basta fare opere di misericordia quan-
to piuttosto essere misericordiosi.
“Le suore hanno fatto un dono grandissimo attraverso il quale si aumenta la cultura dell’accoglienza”, ha aggiunto don Cesare Chialastri, direttore Caritas diocesana.
Il progetto, della durata variabile da 6 mesi a
un anno, prevede, da un lato, di “creare migliori condizioni di integrazione dei rifugiati accompagnandoli in uno specifico percorso di autonomia”; dall’altro di “coinvolgere e sensibilizzare
le comunità all’accoglienza del prossimo con
l’obiettivo di favorire l’incontro e la condivisio-
ne con l’altro superando pregiudizi e diffidenze”. Infatti, chi accoglie può “sperimentarsi, attraverso la convivenza con persone provenienti
da altri paesi, in un’esperienza di solidarietà e
condivisione, confrontandosi con la comunità
cristiana sui temi dell’accoglienza e della
mondialità”.
Accanto al progetto di Velletri il 19 luglio ne è
partito un altro il 19 luglio scorso ad Artena. Ad
aprire le porte è stato il Convento di Santa Maria
del Gesù accogliendo due nuclei familiari: padre
e figlio del Congo con un permesso di soggiorno
per asilo politico e una famiglia Armena
(padre, madre e bambino di un anno) con un
permesso di soggiorno per motivi umanitari.
Le parrocchie della città e i volontari della Caritas
si sono resi subito disponibili all’accoglienza contribuendo all’integrazione degli ospiti con piccoli gesti e segni di solidarietà.
Un segno importante è stata l’organizzazione
dei festeggiamenti del primo compleanno del
bambino (Hamlet) della famiglia armena. Si è
respirata un’aria di vera e autentica accoglienza
e integrazione.
In questi giorni si sta avviando una nuova accoglienza: una famiglia del Bangladesh (madre,
padre e bambino di due anni) con un permesso di soggiorno per motivi umanitari.
Nella foto a sinistra:
Il progetto “Protetto. Rifugiato a casa mia” - Artena.
Dicembre
2016
16
don Antonio Galati
«Adesso, concluso questo Giubileo,
è tempo di guardare avanti e di
comprendere come continuare
con fedeltà, gioia ed entusiasmo a
sperimentare la ricchezza della
misericordia divina.
Le nostre comunità potranno rimanere
vive e dinamiche nell’opera di nuova
evangelizzazione nella misura in cui
la “conversione pastorale” che
siamo chiamati a vivere sarà
plasmata quotidianamente
dalla forza rinnovatrice della
misericordia» (MM 5).
I
l testo è tratto dal quinto numero di
Misericordia et misera, la lettera apostolica consegnata da papa Francesco il 20 novembre di quest’anno, solennità di Cristo Re dell’universo
e giorno di chiusura dell’anno giubilare della misericordia.
Il testo, denso come ogni parola e gesto di questo papa, non permette di essere qui analizzato in tutte le sue parti. Per questo motivo, al termine di questo anno giubilare si vuole cogliere
solo l’invito che papa Francesco fa alla Chiesa:
«la Porta Santa che abbiamo attraversato in questo Anno giubilare ci ha immesso nella via della carità che siamo chiamati a percorrere ogni giorno con fedeltà e gioia. È la strada della misericordia
che permette di incontrare tanti fratelli e
sorelle che tendono la mano perché qualcuno la possa afferrare per camminare insieme» (MM 16).
In altre parole, il papa chiede che tutto quello
che si è “sperimentato” e attivato durante il giubileo, in termini di iniziative diocesane e parrocchiali,
o anche a livello di singoli cristiani, non resti una
parentesi che si aperta l’8 dicembre del 2015
e si è chiusa il 20 novembre di quest’anno,
ma si trasformi nello stile pastorale
e ordinario di tutta la Chiesa, a tutti i livelli.
L’anno santo della misericordia
ha condotto tutti a confrontarsi con questo attributo divino
e umano insieme, e come questo possa essere vissuto, nel
senso di messo in pratica, verso l’altro, e ricevuto, in quanto potenziali destinatari della misericordia.
Ora, tutto questo non deve terminare
con la chiusura della Porta Santa,
ma deve passare dal livello dello “straordinario”, sollecitato proprio dalle celebrazioni
giubilari, al livello dell’“ordinarietà”, nel senso che
ogni azione pastorale e personale deve continuare a far sperimentare la misericordia, sia a
livello ecclesiale che sociale.
In effetti, le opere di misericordia, sia spirituali
che corporali, oltre che a livello ecclesiale, hanno una ricaduta anche a livello sociale. Basti pensare a quante iniziative sono state suscitate, e
possono ancora esserlo, nel mettere in pratica
gesti come: dar da mangiare agli affamati; oppure visitare i malati e i carcerati.
Opere che, lette nell’ottica cristiana, permettono a chi le pratica di scorgere, nei lineamenti
degli assistiti, i lineamenti del volto di Cristo, che
con loro si identifica (cfr. Mt 25,40).
Opere, però, che possono lo stesso suscitare
interesse e collaborazione anche con tutta quella parte del mondo che, pur
non condividendo la stessa fede cristiana, si sente però sollecitata nella propria responsabilità verso
gli altri uomini. Ecco che,
allora, operare secondo
misericordia diventa il
modo per entrare in dialogo e, di più, collaborare fianco a fianco con tutte quelle persone che, pur
non condividendo la stessa fede, hanno la stessa
preoccupazione, di fare in
modo che il mondo che si
abita sia la massima
espressione possibile dell’amore dell’uomo per i suoi
simili.
Da questo primo contatto, poi, nessuno potrà
dire se qualcuno possa essere aiutato da qualche cristiano a scorgere, anche
lui, il volto del Signore, nell’ultimo che viene sostenuto.
Sicuramente atteggiamenti di gioia, sia nel dare
che nel ricevere misericordia, hanno aiutato e
aiuteranno in questa direzione della testimonianza
di amore, sollecitata dall’amore di Dio.
È proprio la gioia, infatti, l’atteggiamento
che scaturisce dove si sperimenta la misericordia: «La misericordia suscita
gioia, perché il cuore si apre alla
speranza di una vita nuova. La
gioia del perdono è indicibile,
ma traspare in noi ogni volta
che ne facciamo esperienza.
All’origine di essa c’è l’amore con cui Dio ci viene incontro, spezzando il cerchio di egoismo che ci avvolge, per renderci
a nostra volta strumenti di
misericordia. […] Fare esperienza della misericordia dona gioia. Non
lasciamocela portar via dalle varie afflizioni e preoccupazioni. Possa rimanere
ben radicata nel nostro cuore e farci guardare sempre con serenità alla vita quotidiana» (MM 3).
È proprio nella vita quotidiana, infatti, che si gioca la conversione del mondo: verso l’egoismo
e la tristezza, oppure verso la misericordia e la
gioia. L’invito del papa è chiaro: fare in modo
che quanto fatto e sperimentato finora sia solo
l’inizio, e lo stimolo a fare molto di più, proprio
dopo che l’anno giubilare viene chiuso, perché
sia l’ordinario il luogo giusto in cui incontrare la
misericordia di Dio e mettere in pratica i propri
gesti di misericordia, che non suscitano scalpore
e notizia, ma che, proprio per questo, possono
risultare i più veri ed efficaci.
Dicembre
2016
Paola Springhetti*
proposito dell’elezione di Donald Trump,
Papa Francesco, con il suo modo di parlare franco, ha detto: «Non do giudizi sulle persone e sugli uomini politici, voglio solo capire quali sono le sofferenze che il loro modo di
procedere causa ai poveri e agli esclusi»
(Intervista a “Repubblica”, 11 novembre).
Confermando così la sua scelta di non interferire nelle scelte politiche dei governi laici, regolarmente eletti, ma di continuare a difendere con
determinazione poveri ed esclusi. Carcerati, vittime della tratta, senza tetto...
Papa Francesco ha chiuso il Giubileo della Misericordia
con una raffica di incontri - e quindi di parole che lanciano un messaggio inequivocabile. La
misericordia non è un fatto intimistico, che ciascuno vive dentro di sé all’interno di un percorso personale che, attraverso il perdono, lo fa sentire meglio. La misericordia è semmai qualcosa
che cambia le vite e cambia anche le strutture,
perché si declina in una serie di parole - inclusione, solidarietà, dignità, liberazione, giustizia
- che chiedono sì, conversione, ma anche pensiero e azione. E, alla fin fine, scelte politiche.
«La misericordia è quel modo di agire, quello stile, con cui cerchiamo di includere nella nostra
vita gli altri, evitando di chiuderci in noi stessi e
nelle nostre sicurezze egoistiche», ha detto durante l’udienza del 12 novembre. Gli altri sono persone da amare come le ama Dio, senza esclusioni, senza discriminazioni.
La conversione del cuore deve quindi farsi stile di vita, improntato all’accoglienza, sapendo che
accogliere chi è escluso non è facile, implica fargli spazio in una vita - in tante vite di una società - che sono organizzate secondo modelli che
escludono. Proprio per questo la misericordia è
più di uno stile di vita. Don Helder Camara diceva: «Se do da mangiare ai poveri, mi chiamano santo. Se chiedo perché i poveri non hanno
cibo, mi chiamano comunista». I poveri sono poveri perché viviamo in un mondo che attribuisce il
primato al denaro, non all’uomo.
Nel discorso per l’incontro con i Movimenti popolari del 5 novembre, si legge: «Chi governa allora? Il denaro. Come governa? Con la frusta del-
A
17
la paura, della disuguaglianza, della violenza economica, sociale, culturale e militare che genera sempre più violenza in una spirale discendente,
che sembra non finire mai.
Quanto dolore e quanta paura!». Con questa affermazione, papa Francesco si colloca nel solco
di Pio XI, che parlava di «imperialismo internazionale del denaro» (Quadragesimo anno,
1931, 109); di Paolo VI che puntò il dito contro
la «nuova forma abusiva di dominio economico
sul piano sociale, culturale e anche politico»
(Octogesima adveniens, 1971, 44); ma anche
di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI che più volte hanno stigmatizzato i danni e i rischi del neoliberismo esasperato. È sulla paura che il denaro e coloro che lo servono basano il proprio potere, ed è grazie alla paura che costruiscono muri,
diffondono intolleranza, coltivano rabbia.
«Quando sentiamo che si festeggia la morte di
un giovane che forse ha sbagliato strada, quando vediamo che si preferisce la guerra alla pace,
quando vediamo che si diffonde la xenofobia, quando constatiamo che guadagnano terreno le proposte intolleranti; dietro questa crudeltà che sembra massificarsi c’è il freddo soffio della paura»,
continua Francesco parlando ai movimenti
popolari. È la paura che ha spinto una manciata di abitanti di Goro, in provincia di Ferrara, a
rifiutare ospitalità ad una manciata più piccola
di donne e bambini che ne avevano bisogno.
E che ha ispirato episodi analoghi in giro per l’Italia.
È la paura che deriva dall’impoverimento e dalla precarietà cui una società troppo individualista e troppo competitiva ci condanna, ma che
si è trasferita su quelle donne e quei bambini,
vittime quanto e più di loro.
Coloro che avevano paura di essere scartati dalla società, se la sono presa con coloro che erano già stati scartati. O, negli Stati Uniti, hanno
votato per Trump. Ma il problema non sono le
persone profughe o migranti, bensì il nostro modello di sviluppo. Infatti «Questo sistema atrofizzato
è in grado di fornire alcune “protesi” cosmetiche
che non sono vero sviluppo: crescita economica, progressi tecnologici, maggiore “efficienza”
per produrre cose che si comprano, si usano e
si buttano inglobandoci tutti in una vertiginosa
dinamica dello scarto... Ma questo mondo non
consente lo sviluppo dell’essere
umano nella sua integralità, lo sviluppo che non si riduce al consumo, che non si riduce al
benessere di pochi, che include
tutti i popoli e le persone nella pienezza della loro dignità, godendo fraternamente la meraviglia del
creato.
Questo è lo sviluppo di cui
abbiamo bisogno: umano, integrale,
rispettoso del creato, di questa casa
comune». E infatti, dice il Papa,
«cosa succede al mondo di oggi che, quando
avviene la bancarotta di una banca, immediatamente appaiono somme scandalose per salvarla, ma quando avviene questa bancarotta dell’umanità non c’è quasi una millesima parte per
salvare quei fratelli che soffrono tanto? E così
il Mediterraneo è diventato un cimitero, e non
solo il Mediterraneo... molti cimiteri vicino ai muri,
muri macchiati di sangue innocente».
Questo è il problema. Per cambiare si comincia dalla testimonianza e dagli stili di vita - che
sono comunque il primo strumento per cambiare
il mondo - ma poi bisogna avventurarsi sul terreno delle letture più approfondite dei segni dei
tempi, della capacità di progettare, di immaginare una società diversa, di architettare ponti (e
quindi comunità accoglienti), dell’impegno per ridare senso alla democrazia, rivitalizzandola con iniezioni di partecipazione popolare.
Bisogna avventurarsi a stipulare alleanze con le
altre religioni e con quelle parti laiche della società impegnate per una giustizia sociale, la cui mancanza ci sta portando all’implosione.
Bisogna, in questo senso, tornare a fare politica, quella politica che Paolo VI definiva “la più
alta forma di carità”, sapendo che «finché non
si risolveranno radicalmente i problemi dei poveri, rinunciando all’autonomia assoluta dei mercati e della speculazione finanziaria e aggredendo
le cause strutturali della inequità, non si risolveranno
i problemi del mondo e in definitiva nessun problema. L’inequità è la radice dei mali sociali» (Evangelii
Gaudium, 202).
La politica come forma di carità supera la rabbia per lasciare il posto ai sogni. Alle persone
escluse, che ha ricevuto l’11 novembre, il papa
ha detto che «un uomo o una donna sono molto poveri, ma di una povertà diversa dalla vostra,
quando perdono la capacità di sognare, perdono la capacità di portare avanti una passione.
Non smettete di sognare!».
Abbiamo bisogno di sogni, e della capacità di
trasformarli in progetti che aiutino a vincere l’iniquità. Se le nostre comunità raccoglieranno questa sfida, la Chiesa tornerà ad essere una presenza profetica nella società.
*da “Vino Nuovo” del 16 novembre 2016
Dicembre
2016
18
don Andrea Pacchiarotti *
a preghiera della novena di Natale è
tradizione cara al nostro popolo.
Essa è segno tangibile della fede autentica e dell’attesa gioiosa che abitano i cuori degli uomini e delle donne che non temono di manifestare, nella semplicità tipica dei
più piccoli, i loro sentimenti di affetto verso un Mistero così grande che non finisce
mai di stupirci: Dio per noi si fa Bambino.
In alcuni luoghi questa celebrazione avviene mentre è ancora notte, prima delle prime luci dell’alba; in molti altri luoghi si compie di sera, dopo il tramonto.
La collocazione temporale di questa celebrazione porta già in sé il significato più profondo della stessa novena: tempo di veglia
e di attesa vigilante del sorgere della luce,
che per noi credenti è Cristo. Gesù viene
come “luce nuova all’orizzonte del mondo”
e “risplende su tutta la nostra vita”
(Mercoledì dopo l’Epifania). Possiamo
celebrare il Natale solo se ci lasciamo “avvolgere da questa nuova luce”, ed essa “rifulge nel nostro spirito” e “risplende nelle nostre
opere” (Messa dell’aurora).
La novena che troverete in questo mensile diocesano si caratterizza per il tema del-
L
la nuzialità che risplende in pienezza nel
mistero dell’incarnazione di Dio che «esce
come sposo dalla stanza nuziale» (cfr Sal
18). Il Padre ha manifestato progressivamente il suo Amore, dichiarandosi più volte attraverso i profeti «creatore - sposo» che
gioisce per la sua sposa, la terra, che da
«abbandonata e devastata», diventa suo «compiacimento», terra/umanità «sposata» (cfr
Is 62,1-5).
Questo cammino di ricerca e di innamoramento è cantato dal Cantico dei Cantici come richiamato nel Lucernario di ogni giorno - preludio delle nozze dell’Agnello celebrate dall’Apocalisse. E mentre la Chiesa,
Sposa, fa memoria della venuta di Cristo
nella pienezza del tempo, invoca, animata dallo Spirito, l’Avvento glorioso del suo
Sposo, il desiderato, l’amato atteso e cercato, che è venuto, viene e verrà ad unire
a sé in “una sola carne” la nostra umanità. Questo Mistero grande, come ha avvolto Maria e Giuseppe così illumina l’unione
degli sposi domandando di farsi carne nella loro carne, sostiene e rafforza le famiglie chiedendo di abitare le loro case, cura
le loro ferite accarezzandole con il balsamo dell’amore gratuito e potente che
scende dal cielo.
I testi del Lezionario di questi giorni e l’eu-
cologia ci aiutano a cogliere il senso profondo e bello di questa storia di Amore che
ha il sapore dell’eterno.
I brani tratti dall’esortazione apostolica Amoris
laetitia di papa Francesco, accompagnando l’ascolto e la meditazione comunitaria
oppure per la meditazione personale
durante la giornata, possono aiutare a cogliere l’incarnazione di quello stesso Amore nelle dinamiche familiari quotidiane.
Scrive il papa:
“Davanti ad ogni famiglia si presenta l’icona della famiglia di Nazaret, con la sua quotidianità fatta di fatiche e persino di incubi Come Maria, sono esortate a vivere
con coraggio e serenità le loro sfide familiari, tristi ed entusiasmanti, e a custodire
e meditare nel cuore le meraviglie di Dio
(cfr Lc 2,19.51). Nel tesoro del cuore di Maria
ci sono anche tutti gli avvenimenti di ciascuna delle nostre famiglie, che ella conserva premurosamente. Perciò può aiutarci
a interpretarli per riconoscere nella storia
familiare il messaggio di Dio”(AL,30).
L’incontro di preghiera può essere facilmente
integrato con la celebrazione eucaristica (collocando il lucernario all’inizio della messa
e l’ultimo momento dopo la comunione).
*Direttore dell’Ufficio Liturgico Diocesano
Dicembre
2016
19
AMBIENTAZIONE
Le luci della chiesa sono in penombra. Alla porta della chiesa è posta una lampada accesa.
CANTO DI ATTESA
Mentre si esegue il canto colui che presiede la Novena fa il
suo ingresso accompagnato dai ministri e si reca verso il
presbiterio. Giunto presso l’altare, dopo la debita riverenza,
lo bacia e si reca alla sede.
LUCERNARIO “L’ARRIVO
DELL’AMATO”
Voce di donna
Una voce! L’amato mio!
Eccolo, viene
saltando per i monti,
balzando per le colline.
Il mio amato è mio e io sono sua;
egli pascola fra i gigli.
Prima che spiri la brezza del giorno
e si allunghino le ombre,
ritorna, amato mio. (cfr Ct 2,8.16-17a)
Tutti
Sul mio letto, lungo la notte, ho cercato
l’amore dell’anima mia;
l’ho cercato, ma non l’ho
trovato.
Mi alzerò e farò il giro della
città
per le strade e per le piazze;
voglio cercare l’amore
dell’anima mia.
L’ho cercato, ma non l’ho
trovato. (cfr Ct 3,1-2)
Voce di donna
Io vi scongiuro, figlie di
Gerusalemme,
se trovate l’amato mio
che cosa gli racconterete?
Che sono malata d’amore! (cfr Ct 5,8)
Tutti
Vi scongiuro, figlie di
Gerusalemme,
non destate, non scuotete dal sonno
l’amore,
finché non lo desideri. (cfr Ct 8,4)
Cel.
Fratelli e sorelle,
magnifichiamo il Signore onnipotente
con il sacrificio di lode della nostra preghiera.
Celebriamo la luce che illumina ogni uomo e ogni
donna,
Gesù Cristo, unico salvatore del mondo
sposo della nostra umanità.
Tutti
Cel.
Canto
I cieli narrano la gloria di Dio,
l’opera delle sue mani annuncia il firmamento.
Il giorno al giorno ne affida il racconto
e la notte alla notte ne trasmette notizia.
Là pose una tenda per il sole
che esce come sposo dalla stanza nuziale:
esulta come un prode che percorre la via.
(cfr Sal 18,2-3.5-6)
Lodate il nostro Dio,
voi tutti, suoi servi
voi che lo temete,
piccoli e grandi!
Ha preso possesso del suo regno il Signore,
il nostro Dio, l’Onnipotente.
Beati gli invitati al banchetto di nozze
dell’Agnello! (cfr Ap19,5.6b.9)
RALLEGRIAMOCI ED ESULTIAMO
(cfr Musica di M. Frisina)
Il solo ritornello potrebbe essere cantato prima da un solista e
poi ripetuto da tutti
Sol.
Rallegriamoci ed esultiamo,
rendiamo a lui gloria,
perché sono giunte le nozze dell’Agnello,
la sua sposa è pronta.
Tutti
Rallegriamoci ed esultiamo,
rendiamo a lui gloria,
perché sono giunte le nozze dell’Agnello,
la sua sposa è pronta.
Mentre si esegue il canto una coppia di sposi della comunità, presa la
lampada accesa, la portano verso l’altare.
Giunti ai piedi del presbiterio si fermano mentre tutti dicono:
Tutti
La città non ha bisogno della luce del sole,
né della luce della luna:
la gloria di Dio la illumina
e la sua lampada è l’Agnello.
Le nazioni cammineranno alla sua luce,
e i re della terra a lei porteranno il loro
splendore. (cfr Ap22,23-24)
La coppia di sposi depone la lampada nei pressi del presepe. Il celebrante termina il Lucernario dicendo l’orazione.
Sac.
O Signore nostro Dio,
che ispiri i profeti e hai mandato il tuo angelo santo
per mostrare ai tuoi servi le cose che
verranno,
tu ci ripeti: Ecco io vengo presto!
Beato è chi custodisce queste parole profetiche.
Nell’attesa dell’avvento glorioso invochiamo:
manda a noi Colui che è l’Alfa e l’Omega, il
Primo e l’Ultimo,
il Principio e la Fine, la Radice e la stirpe di Davide,
Dicembre
2016
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la Stella radiosa del mattino.
Cristo tuo Figlio,
che vive e regna con te nell’unità dello Spirito Santo,
per tutti i secoli dei secoli.
Tutti
21 dicembre
O Astro che sorgi,
splendore della luce eterna,
sole di giustizia:
vieni, illumina chi giace nelle tenebre
e nell’ombra di morte.
22 dicembre
O Re delle genti, atteso da tutte le nazioni,
pietra angolare che riunisci i popoli in uno,
vieni e salva l’uomo che hai formato dalla terra.
23 dicembre
O Emmanuele, nostro re e legislatore,
speranza e salvezza dei popoli:
vieni a salvarci, o Signore nostro Dio.
24 dicembre
È nato per noi un bambino,
un figlio ci è stato donato:
il potere riposa sulle sue spalle, il suo nome
sarà:
messaggero di un grande disegno.
Amen, Maranathà! Vieni Signore Gesù!
Terminata il Lucernario, colui che presiede dalla sede introduce la
celebrazione eucaristica nel modo consueto con il saluto e l’atto
penitenziale
Sac.
Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito
Santo.
Amen.
Tutti
Sac.
Il Dio della speranza,
che ci riempie di ogni gioia e pace nella fede
per la potenza dello Spirito Santo,
sia con tutti voi. (cfr Rm 15,13)
E con il tuo spirito.
Tutti
La celebrazione prosegue con l’atto penitenziale, la Colletta e la Liturgia
della Parola del giorno.
Se non si celebra l’Eucaristia, è opportuno proclamare lo stesso le Letture
del giorno e dopo il Vangelo si può leggere il brano tratto dall’esortazione
apostolica “Amoris laetitia” di papa Francesco (come indicato di seguito). Se invece si celebra l’Eucaristia il brano lo si può leggere dopo la
comunione o affidato a ciascuno al termine della celebrazione.
ORAZIONE COLLETTA
Dopo l’Antifona “O” si canta il Benedictus, mentre colui che presiede
incensa l’altare e il presepe.
Cantico di Zaccaria “BENEDICTUS”
Benedetto il Signore Dio d’Israele, *
perché ha visitato e redento il suo popolo,
e ha suscitato per noi una salvezza potente *
nella casa di Davide, suo servo,
(del giorno corrente)
come aveva promesso *
per bocca dei suoi santi profeti d’un tempo:
salvezza dai nostri nemici, *
e dalle mani di quanti ci odiano.
LITURGIA DELLA PAROLA
(del giorno corrente; se non si celebra la
Messa si può leggere anche solo il vangelo seguito da un canto e dalla lettura dell’ “Amoris laetitia”)
Così egli ha concesso misericordia ai nostri padri *
e si è ricordato della sua santa alleanza,
del giuramento fatto ad Abramo, nostro padre,*
di concederci, liberati dalle mani dei nemici,
LETTURA DELLA AMORIS LAETITIA (se si celebra la Messa questo
testo può essere letto dopo la Comunione o affidato a ciascuno al termine della celebrazione)
OMELIA
LITURGIA EUCARISTICA
di servirlo senza timore, in santità e giustizia *
al suo cospetto, per tutti i nostri giorni.
E tu, bambino, sarai chiamato profeta
dell’Altissimo *
perché andrai innanzi al Signore a preparargli
le strade,
(se si celebra la Messa)
Dopo i riti di comunione, o se la novena si svolge al di fuori della celebrazione eucaristica dopo l’omelia, si canta l’Antifona “O”.
CANTO
DELL’ANTIFONA
16 dicembre
17 dicembre
18 dicembre
19 dicembre
“O”
per dare al suo popolo la conoscenza della
salvezza *
nella remissione dei suoi peccati,
grazie alla bontà misericordiosa del nostro
Dio,*
per cui verrà a visitarci dall’alto un sole che
sorge,
Spandete, o cieli, la vostra rugiada
e dalle nubi scenda il Salvatore!
Non adirarti, Signore; non ricordarti più dei
nostri peccati.
Ecco, la città del tempio è deserta,
è deserta Sion, è devastata Gerusalemme,
dimora della tua santità e della tua gloria,
ove i nostri padri hanno cantato le tue lodi.
per rischiarare quelli che stanno nelle tenebre*
e nell’ombra della morte
e dirigere i nostri passi *
sulla via della pace.
O Sapienza che esci dalla bocca dell’Altissimo,
ti estendi ai confini del mondo,
e tutto disponi con soavità e con forza:
vieni, insegnaci la via della saggezza.
O Signore, guida della casa di Israele,
che sei apparso a Mosè nel fuoco del roveto,
e sul monte Sinai gli hai dato la Legge:
vieni a liberarci con braccio potente.
O Radice di Iesse,
che ti innalzi come segno per i popoli:
tacciono davanti a te i re della terra,
e le nazioni t’invocano:
vieni a liberarci, non tardare.
Gloria al Padre e al Figlio *
e allo Spirito Santo.
Come era nel principio, e ora e sempre *
nei secoli dei secoli. Amen.
BENEDIZIONE E CONGEDO
Se si celebra la Messa, si recita l’orazione post Communio del giorno e, il testo seguente che segue può introdurre la benedizione e
il congedo
Sac.
Tutti
20 dicembre
O Chiave di Davide,
scettro della casa di Israele,
che apri, e nessuno può chiudere,
chiudi, e nessuno può aprire:
vieni, libera l’uomo prigioniero,
che giace nelle tenebre e nell’ombra di morte.
Sac.
Lo Spirito e la sposa dicono: «Vieni!».
E chi ascolta, ripeta:
«Vieni!».
Tutti
Colui che attesta queste cose dice:
«Sì, vengo presto!».
Amen. Vieni, Signore Gesù.
Sac.
Tutti
La grazia del Signore Gesù sia con tutti.
E con il tuo spirito.
Dicembre
2016
Sac.
Tutti
Vi benedica Dio onnipotente,
Padre e figlio e Spirito Santo
Amen.
Sac.
Tutti
Nell’attesa del Signore Gesù andate in pace.
Rendiamo grazie a Dio.
Testi tratti dalla «AMORIS LAETITIA»
DI PAPA FRANCESCO PER OGNI GIORNO
16 dicembre
8-9
La Bibbia è popolata da famiglie, da generazioni, da storie di
amore e di crisi familiari, fin dalla prima pagina, dove entra in scena la
famiglia di Adamo ed Eva, con il suo carico di violenza ma anche con
la forza della vita che continua (cfr Gen 4), fino all’ultima pagina dove
appaiono le nozze della Sposa e dell’Agnello (cfr Ap 21,2.9). Le due case
che Gesù descrive, costruite sulla roccia o sulla sabbia (cfr Mt 7,24-27),
rappresentano tante situazioni familiari, create dalla libertà di quanti vi
abitano, perché, come scrive il poeta, «ogni casa è un candelabro». Entriamo
ora in una di queste case, guidati dal Salmista, attraverso un canto che
ancora oggi si proclama sia nella liturgia nuziale ebraica sia in quella
cristiana: «Beato chi teme il Signore e cammina nelle sue vie. Della fatica delle tue mani ti nutrirai, sarai felice e avrai ogni bene. La tua sposa
come vite feconda nell’intimità della tua casa; i tuoi figli come virgulti d’ulivo intorno alla tua mensa. Ecco com’è benedetto l’uomo che teme il
Signore. Ti benedica il Signore da Sion. Possa tu vedere il bene di Gerusalemme
tutti i giorni della tua vita! Possa tu vedere i figli dei tuoi figli! Pace su
Israele!» (Sal 128,1-6).
Varchiamo dunque la soglia di questa casa serena, con la sua famiglia
seduta intorno alla mensa festiva. Al centro troviamo la coppia del padre
e della madre con tutta la loro storia d’amore. In loro si realizza quel disegno primordiale che Cristo stesso evoca con intensità: «Non avete letto che il Creatore da principio li fece maschio e femmina?» (Mt 19,4). E
riprende il mandato del Libro della Genesi: «Per questo l’uomo lascerà
suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno un’unica carne» (Gen 2,24).
17 dicembre
10-11 I due grandiosi capitoli iniziali della Genesi ci offrono la rappresentazione
della coppia umana nella sua realtà fondamentale. In quel testo iniziale della Bibbia brillano alcune affermazioni decisive. La prima, citata sinteticamente da Gesù, afferma: «Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò» (1,27). Sorprendentemente,
l’“immagine di Dio” ha come parallelo esplicativo proprio la coppia “maschio
e femmina”. Questo significa che Dio stesso è sessuato o che lo accompagna una compagna divina, come credevano alcune religioni antiche?
Ovviamente no, perché sappiamo con quanta chiarezza la Bibbia ha respinto come idolatriche queste credenze diffuse tra i cananei della Terra Santa.
Si preserva la trascendenza di Dio, ma, dato che è al tempo stesso il
Creatore, la fecondità della coppia umana è “immagine” viva ed efficace, segno visibile dell’atto creatore.
La coppia che ama e genera la vita è la vera “scultura” vivente (non quella di pietra o d’oro che il Decalogo proibisce), capace di manifestare il
Dio creatore e salvatore. Perciò l’amore fecondo viene ad essere il simbolo delle realtà intime di Dio (cfr Gen 1,28; 9,7; 17,2-5.16; 28,3; 35,11;
48,3-4). A questo si deve che la narrazione del Libro della Genesi, seguendo la cosiddetta “tradizione sacerdotale”, sia attraversata da varie sequenze genealogiche (cfr 4,17-22.25-26; 5; 10; 11,10-32; 25,1-4.12-17.19-26;
36): infatti la capacità di generare della coppia umana è la via attraverso la quale si sviluppa la storia della salvezza. In questa luce, la relazione feconda della coppia diventa un’immagine per scoprire e descrivere il mistero di Dio, fondamentale nella visione cristiana della Trinità
che contempla in Dio il Padre, il Figlio e lo Spirito d’amore. Il Dio Trinità
è comunione d’amore, e la famiglia è il suo riflesso vivente. Ci illuminano le parole di san Giovanni Paolo II: «Il nostro Dio, nel suo mistero più
intimo, non è solitudine, bensì una famiglia, dato che ha in sé paternità, filiazione e l’essenza della famiglia che è l’amore. Questo amore, nella famiglia divina, è lo Spirito Santo». La famiglia non è dunque qualcosa di estraneo alla stessa essenza divina. Questo aspetto trinitario del-
21
la coppia ha una nuova rappresentazione nella teologia paolina quando l’Apostolo la mette in relazione con il “mistero” dell’unione tra Cristo
e la Chiesa (cfr Ef 5,21-33).
18 dicembre
15-16 Sappiamo che nel Nuovo Testamento si parla della “Chiesa che
si riunisce nella casa” (cfr 1 Cor 16,19; Rm 16,5; Col 4,15; Fm 2). Lo
spazio vitale di una famiglia si poteva trasformare in chiesa domestica,
in sede dell’Eucaristia, della presenza di Cristo seduto alla stessa mensa. Indimenticabile è la scena dipinta nell’Apocalisse: «Sto alla porta e
busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da
lui, cenerò con lui ed egli con me» (3,20). Così si delinea una casa che
porta al proprio interno la presenza di Dio, la preghiera comune e perciò la benedizione del Signore. È ciò che si afferma nel Salmo 128 che
abbiamo preso come base: «Ecco com’è benedetto l’uomo che teme il
Signore. Ti benedica il Signore da Sion» (vv. 4-5).
La Bibbia considera la famiglia anche come la sede della catechesi dei
figli. Questo brilla nella descrizione della celebrazione pasquale (cfr Es
12,26-27; Dt 6,20-25), e in seguito fu esplicitato nella haggadah giudaica, ossia nella narrazione dialogica che accompagna il rito della cena
pasquale. Ancora di più, un Salmo esalta l’annuncio familiare della fede:
«Ciò che abbiamo udito e conosciuto e i nostri padri ci hanno raccontato non lo terremo nascosto ai nostri figli, raccontando alla generazione futura le azioni gloriose e potenti del Signore e le meraviglie che egli
ha compiuto. Ha stabilito un insegnamento in Giacobbe, ha posto una
legge in Israele, che ha comandato ai nostri padri di far conoscere ai
loro figli, perché la conosca la generazione futura, i figli che nasceranno. Essi poi si alzeranno a raccontarlo ai loro figli» (78,3-6). Pertanto,
la famiglia è il luogo dove i genitori diventano i primi maestri della fede
per i loro figli. È un compito “artigianale”, da persona a persona: «Quando
tuo figlio un domani ti chiederà [] tu gli risponderai» (Es 13,14). Così
le diverse generazioni intoneranno il loro canto al Signore, «i giovani e
le ragazze, i vecchi insieme ai bambini» (Sal 148,12).
19 dicembre
17-18 I genitori hanno il dovere di compiere con serietà lo loro missione educativa, come insegnano spesso i sapienti della Bibbia (cfr Pr
3,11-12; 6,20-22; 13,1; 29,17). I figli sono chiamati ad accogliere e praticare il comandamento: «Onora tuo padre e tua madre» (Es 20,12), dove
il verbo “onorare” indica l’adempimento degli impegni familiari e sociali
nella loro pienezza, senza trascurarli con pretese scusanti religiose (cfr
Mc 7,11-13). Infatti, «chi onora il padre espia i peccati, chi onora sua madre
è come chi accumula tesori» (Sir 3,3-4).
Il Vangelo ci ricorda anche che i figli non sono una proprietà della famiglia, ma hanno davanti il loro personale cammino di vita. Se è vero che
Gesù si presenta come modello di obbedienza ai suoi genitori terreni,
stando loro sottomesso (cfr Lc 2,51), è pure certo che Egli mostra che
la scelta di vita del figlio e la sua stessa vocazione cristiana possono
esigere un distacco per realizzare la propria dedizione al Regno di Dio
(cfr Mt 10,34-37; Lc 9,59-62). Di più, Egli stesso, a dodici anni, risponde a Maria e a Giuseppe che ha una missione più alta da compiere al
di là della sua famiglia storica (cfr Lc 2,48-50). Perciò esalta la necessità di altri legami più profondi anche dentro le relazioni familiari: «Mia
madre e i miei fratelli sono questi: coloro che ascoltano la parola di Dio
e la mettono in pratica» (Lc 8,21). D’altra parte, nell’attenzione che Egli
riserva ai bambini – considerati nella società del Vicino Oriente antico
come soggetti privi di diritti particolari e come parte della proprietà familiare – Gesù arriva al punto di presentarli agli adulti quasi come maestri, per la loro fiducia semplice e spontanea verso gli altri: «In verità io
vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. Perciò chiunque si farà piccolo come questo bambino, costui è il più grande nel regno dei cieli» (Mt 18,3-4).
20 dicembre
28-30 Nell’orizzonte dell’amore, essenziale nell’esperienza cristiana
del matrimonio e della famiglia, risalta anche un’altra virtù, piuttosto ignorata in questi tempi di relazioni frenetiche e superficiali: la tenerezza. Ricorriamo
al dolce e intenso Salmo 131. Come si riscontra anche in altri testi (cfr
Es 4,22; Is 49,15; Sal 27,10), l’unione tra il fedele e il suo Signore si esprime con tratti dell’amore paterno e materno. Qui appare la delicata e tene-
Dicembre
2016
22
ra intimità che esiste tra la madre e il suo bambino, un neonato che dorme in braccio a sua madre dopo essere stato allattato.
Si tratta – come indica la parola ebraica gamul – di un bambino già svezzato, che si afferra coscientemente alla madre che lo porta al suo petto. E’ dunque un’intimità consapevole e non meramente biologica. Perciò
il salmista canta: «Io resto quieto e sereno: come un bimbo svezzato in
braccio a sua madre» (Sal 131,2). Parallelamente, possiamo rifarci ad
un’altra scena, là dove il profeta Osea pone in bocca a Dio come padre
queste parole commoventi: «Quando Israele era fanciullo, io l’ho amato [] (gli) insegnavo a camminare tenendolo per mano [] Io lo traevo con legami di bontà, con vincoli d’amore, ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia, mi chinavo su di lui per dargli da mangiare» (11,1.3-4).
Con questo sguardo, fatto di fede e di amore, di grazia e di impegno, di
famiglia umana e di Trinità divina, contempliamo la famiglia che la Parola
di Dio affida nelle mani dell’uomo, della donna e dei figli perché formino una comunione di persone che sia immagine dell’unione tra il Padre,
il Figlio e lo Spirito Santo. L’attività generativa ed educativa è, a sua volta, un riflesso dell’opera creatrice del Padre. La famiglia è chiamata a
condividere la preghiera quotidiana, la lettura della Parola di Dio e la comunione eucaristica per far crescere l’amore e convertirsi sempre più in tempio dove abita lo Spirito.
Davanti ad ogni famiglia si presenta l’icona della famiglia di Nazaret, con
la sua quotidianità fatta di fatiche e persino di incubi, come quando dovette patire l’incomprensibile violenza di Erode, esperienza che si ripete tragicamente ancor oggi in tante famiglie di profughi rifiutati e inermi. Come
i magi, le famiglie sono invitate a contemplare il Bambino e la Madre, a
prostrarsi e ad adorarlo (cfr Mt 2,11). Come Maria, sono esortate a vivere con coraggio e serenità le loro sfide familiari, tristi ed entusiasmanti,
e a custodire e meditare nel cuore le meraviglie di Dio (cfr Lc 2,19.51).
Nel tesoro del cuore di Maria ci sono anche tutti gli avvenimenti di ciascuna delle nostre famiglie, che ella conserva premurosamente. Perciò
può aiutarci a interpretarli per riconoscere nella storia familiare il messaggio di Dio.
21 dicembre
63.65 «Gesù, che ha riconciliato ogni cosa in sé, ha riportato il matrimonio e la famiglia alla loro forma originale (cfr Mc 10,1-12). La famiglia e il matrimonio sono stati redenti da Cristo (cfr Ef 5,21-32), restaurati a immagine della Santissima Trinità, mistero da cui scaturisce ogni
vero amore. L’alleanza sponsale, inaugurata nella creazione e rivelata
nella storia della salvezza, riceve la piena rivelazione del suo significato in Cristo e nella sua Chiesa. Da Cristo attraverso la Chiesa, il matrimonio e la famiglia ricevono la grazia necessaria per testimoniare l’amore di Dio e vivere la vita di comunione. Il Vangelo della famiglia attraversa la storia del mondo sin dalla creazione dell’uomo ad immagine e
somiglianza di Dio (cfr Gen 1,26-27) fino al compimento del mistero dell’Alleanza
in Cristo alla fine dei secoli con le nozze dell’Agnello (cfr Ap 19,9)».
L’incarnazione del Verbo in una famiglia umana, a Nazaret, commuove
con la sua novità la storia del mondo. Abbiamo bisogno di immergerci
nel mistero della nascita di Gesù, nel sì di Maria all’annuncio dell’angelo, quando venne concepita la Parola nel suo seno; anche nel sì di Giuseppe,
che ha dato il nome a Gesù e si fece carico di Maria; nella festa dei pastori al presepe; nell’adorazione dei Magi; nella fuga in Egitto, in cui Gesù
partecipa al dolore del suo popolo esiliato, perseguitato e umiliato; nella religiosa attesa di Zaccaria e nella gioia che accompagna la nascita
di Giovanni Battista; nella promessa compiuta per Simeone e Anna nel
tempio; nell’ammirazione dei dottori della legge mentre ascoltano la saggezza di Gesù adolescente. E quindi penetrare nei trenta lunghi anni nei
quali Gesù si guadagnò il pane lavorando con le sue mani, sussurrando le orazioni e la tradizione credente del suo popolo ed educandosi nella fede dei suoi padri, fino a farla fruttificare nel mistero del Regno. Questo
è il mistero del Natale e il segreto di Nazaret, pieno di profumo di famiglia! E’ il mistero che tanto ha affascinato Francesco di Assisi, Teresa di
Gesù Bambino e Charles de Foucauld, e al quale si dissetano anche le
famiglie cristiane per rinnovare la loro speranza e la loro gioia.
22 dicembre
77
Assumendo l’insegnamento biblico secondo il quale tutto è stato creato da Cristo e in vista di Cristo (cfr Col 1,16), i Padri sinodali hanno ricordato che «l’ordine della redenzione illumina e compie quello del-
la creazione.
Il matrimonio naturale, pertanto, si comprende pienamente alla luce del
suo compimento sacramentale: solo fissando lo sguardo su Cristo si conosce fino in fondo la verità sui rapporti umani.
“In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il
mistero dell’uomo. [] Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando
il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l’uomo a
se stesso e gli manifesta la sua altissima vocazione” (Gaudium et spes,
22). Risulta particolarmente opportuno comprendere in chiave cristocentrica
le proprietà naturali del matrimonio, che costituiscono il bene dei coniugi (bonum coniugum)»,[75] che comprende l’unità, l’apertura alla vita, la
fedeltà e l’indissolubilità, e all’interno del matrimonio cristiano anche l’aiuto reciproco nel cammino verso una più piena amicizia con il Signore.
«Il discernimento della presenza dei semina Verbi nelle altre culture (cfr
Ad gentes, 11) può essere applicato anche alla realtà matrimoniale e familiare. Oltre al vero matrimonio naturale ci sono elementi positivi presenti
nelle forme matrimoniali di altre tradizioni religiose»,[76] benché non manchino neppure le ombre.
Possiamo affermare che «ogni persona che desideri formare in questo
mondo una famiglia che insegni ai figli a gioire per ogni azione che si
proponga di vincere il male – una famiglia che mostri che lo Spirito è
vivo e operante –, troverà la gratitudine e la stima, a qualunque popolo, religione o regione appartenga».
23 dicembre
80
Il bambino che nasce «non viene ad aggiungersi dall’esterno
al reciproco amore degli sposi; sboccia al cuore stesso del loro mutuo
dono, di cui è frutto e compimento».[85] Non giunge come alla fine di
un processo, ma invece è presente dall’inizio del loro amore come una
caratteristica essenziale che non può venire negata senza mutilare lo
stesso amore. Fin dall’inizio l’amore rifiuta ogni impulso di chiudersi in
sé stesso e si apre a una fecondità che lo prolunga oltre la sua propria
esistenza. Dunque nessun atto genitale degli sposi può negare questo
significato, benché per diverse ragioni non sempre possa di fatto generare una nuova vita.
81. Il figlio chiede di nascere da un tale amore e non in qualsiasi modo,
dal momento che egli «non è qualcosa di dovuto ma un dono», che è
«il frutto dello specifico atto dell’amore coniugale dei suoi genitori».
Perché «secondo l’ordine della creazione l’amore coniugale tra un uomo
e una donna e la trasmissione della vita sono ordinati l’uno all’altra (cfr
Gen 1,27-28). In questo modo il Creatore ha reso partecipi l’uomo e la
donna dell’opera della sua creazione e li ha contemporaneamente resi
strumenti del suo amore, affidando alla loro responsabilità il futuro dell’umanità attraverso la trasmissione della vita umana».
24 dicembre
86-88 «Con intima gioia e profonda consolazione, la Chiesa guarda
alle famiglie che restano fedeli agli insegnamenti del Vangelo, ringraziandole
e incoraggiandole per la testimonianza che offrono. Grazie ad esse, infatti, è resa credibile la bellezza del matrimonio indissolubile e fedele per
sempre.
Nella famiglia, “che si potrebbe chiamare Chiesa domestica” (Lumen gentium, 11), matura la prima esperienza ecclesiale della comunione tra persone, in cui si riflette, per grazia, il mistero della Santa Trinità.
“È qui che si apprende la fatica e la gioia del lavoro, l’amore fraterno, il
perdono generoso, sempre rinnovato, e soprattutto il culto divino attraverso la preghiera e l’offerta della propria vita” (Catechismo della Chiesa
Cattolica, 1657)».
La Chiesa è famiglia di famiglie, costantemente arricchita dalla vita di
tutte le Chiese domestiche. Pertanto, «in virtù del sacramento del matrimonio ogni famiglia diventa a tutti gli effetti un bene per la Chiesa. In
questa prospettiva sarà certamente un dono prezioso, per l’oggi della
Chiesa, considerare anche la reciprocità tra famiglia e Chiesa: la Chiesa
è un bene per la famiglia, la famiglia è un bene per la Chiesa. La custodia del dono sacramentale del Signore coinvolge non solo la singola famiglia, ma la stessa comunità cristiana».
L’amore vissuto nelle famiglie è una forza permanente per la vita della
Chiesa. «Il fine unitivo del matrimonio è un costante richiamo al crescere
e all’approfondirsi di questo amore. Nella loro unione di amore gli sposi sperimentano la bellezza della paternità e della maternità; condividono i progetti e le fatiche, i desideri e le preoccupazioni; imparano la cura
reciproca e il perdono vicendevole.
In questo amore celebrano i loro momenti felici e si sostengono nei passaggi difficili della loro storia di vita [] La bellezza del dono reciproco
e gratuito, la gioia per la vita che nasce e la cura amorevole di tutti i membri, dai piccoli agli anziani, sono alcuni dei frutti che rendono unica e insostituibile la risposta alla vocazione della famiglia», tanto per la Chiesa
quanto per l’intera società.
Dicembre
2016
23
Massimo, Emanuela ed Annalisa
A
d ottobre 2016, l’itinerario
Giubilare ha fatto tappa a
Gavignano. La presenza
dell’opera-segno “Casa Nazareth” ha
offerto la possibilità di raccontare il
vissuto e lo spirito con cui si prova
a vivere dentro e fuori la Casa. Non
solo questo: insieme alla comunità
Parrocchiale di Santa Maria Assunta
si è provato a cogliere nella vita di
ogni famiglia la necessità di essere luogo di “accoglienza” e di “consolazione”.
“Famiglie Solidali”: storia di un
gruppo.
Nel 2010 un gruppetto di persone che
ruotava intorno a casa Nazareth ha
iniziato ad interrogarsi sul senso dell’accoglienza e del servizio a persone
in difficoltà. Soprattutto sul come la famiglia può
aprirsi a questa tipologia di accoglienza. In quel
anno, per alcuni di noi, ci fu un incontro determinante: abbiamo conosciuto la signora Daniela
Casi, referente delle Famiglie della “Casa della Carità” della Diocesi di Reggio Emilia.
Il racconto di quell’esperienza e la sua testimonianza
ci fece innamorare di una idea: la famiglia è per
sé stessa luogo di accoglienza. Questa accoglienza, poteva essere anche intesa come luogo di crescita per altre persone che avessero
avuto necessità, in un dato momento della loro
vita di particolare difficoltà: donne, uomini, anziani e bambini. La famiglia anche attraverso questa apertura riscatta il compito di essere la prima Chiesa domestica nel senso più ampio del termine. I coniugi condividono la vita quotidiana e di coppia all’interno di questa piccola
comunità che a sua volta è inserita in altre comunità.
Amici, parenti, vicini di
casa, di quartiere, di scuola, parrocchie, vengono
“contagiati” da queste piccole e grandi realtà.
Non un compito in più, non
un lavoro in più che affatica, l’ennesimo impegno da assolvere, ma lo sviluppo naturale di
essere coppia e poi “famiglia di famiglie”. Questa
era la sua esperienza e quella di numerose altre
famiglie che facevano parte di questa splendida realtà. Chiaramente un sogno, impossibile
a realizzarsi per noi...pensavamo.
Lentamente il sogno si apriva davanti a noi.
Prima una coppia, poi un’altra a cui proponevamo l’idea, invece di fuggire e di prenderci per
pazzi si mostrava interessata e curiosa. Così,
con Massimo, mio marito ed con Annalisa, collaboratrice di Casa Nazareth, abbiamo iniziato
questa avventura.
Il lavoro ci veniva facilitato dal fatto che le coppie che si avvicinavano
erano già “lavorate”, nel
senso che erano già
persone che con la loro
famiglia si erano sperimentate nell’aprire la
propria porta di casa all’altro (affido, adozione,
vita comunitaria, ecc.).
Quello che ci univa
soprattutto, era l’idea di
farlo insieme, in cordata. Da allora si sono avvi-
cinate delle coppie, altre si sono allontanate.
Altre hanno vissuto crisi coniugali fino alla separazione abbandonando del tutto l’idea.
Il “sogno” nel frattempo ha iniziato a prendere
forma concreta delle nostre realtà. La difficoltà
economica, le difficoltà di relazione, la difficoltà di incastonare impegni, scuola, figli, lavoro...chi
di noi ancora ce l’ha. Tuttavia questo non ci ha
impedito di incontrarci almeno 5 volte l’anno per
condividere, immaginare, sperimentarci nel
nostro piccolo.
Le famiglie Solidali nel tempo si sono trasformate in un “Gruppo Solidale”, allo scopo di essere maggiormente aperti, anche a single che ne
volessero fare parte. La “perdita” di alcuni amici, inoltre, ci
ha resi sensibili alle difficoltà
relazionali che sempre più
spesso vivono i coniugi, quindi ci proponiamo di essere di
supporto a quelle coppie, famiglie che dovessero trovarsi a
vivere momenti di crisi. Un altro
obiettivo del nostro cammino
è di avere attenzione ai percorsi
per separati e divorziati che
volessero comunque fare esperienza di accoglienza.
Inoltre, mettere al servizio le competenze specifiche di alcuni di
noi su adozione ed affido
familiare, al servizio della Caritas diocesana che
ci ha visti nascere e crescere.
Non siamo persone speciali. Risentiamo dei “venti di guerra”, come tutte le altre realtà e ad oggi
ci rendiamo conto che abbiamo fatto molto poco
e che tanto invece ci viene chiesto. Siamo consapevoli che anche le nostre coppie e famiglie
hanno bisogno di essere accolte e per questo
andiamo molto piano, senza fretta. Le difficoltà degli altri sono infatti, le nostre stesse difficoltà.
Di seguito alleghiamo alcune testimonianze: di
Silvana e Gian Luca, di Antonella e Roberto, di
Paola ed Edoardo. Essi con noi condividono il
percorso.
Dicembre
2016
24
Silvana e Gian Luca
N
oi siamo una coppia che si è trasferita da
Milano quasi 20 anni fa nel Lazio per unirci ad una comunità di monaci e famiglie. Cercavamo
un’esperienza di condivisione che non fosse solo
di alcuni momenti della giornata ma di tutto il
nostro tempo ed abbiamo lasciato il lavoro, la
casa, le nostre famiglie, gli amici, le attività di
volontariato che avevamo.
“Vivere con la porta aperta”: questa è la provocazione
che ci aveva lanciato un amico e che abbiamo deciso di provare a vivere perché avevamo
intuito, grazie alla nostra guida spirituale ed all’esempio di altre famiglie che avevamo nel frattempo conosciuto, che la nostra vocazione di
famiglia era di fare comunità con altre famiglie.
In quel periodo, la nostra vita era fatta di preghiera, lavoro e accoglienza. La nostra casa era
aperta a chiunque volesse passare un periodo
lontano dal mondo e ritrovare se stesso.
Abbiamo fatto tante belle esperienze, alcune più
faticose ed altre più facili da vivere accogliendo persone per una sola notte o dei mesi. Alcune
persone serene e gioiose ed altre con sofferenze.
Di nazioni, culture e modi di vivere diversi.
Dopo una decina d’anni la nostra comunità ha
avuto dei seri problemi e per un periodo, confrontandoci fra noi componenti della stessa, abbiamo scelto di rifondare una nuova comunità ma
non ci siamo riusciti e così si è sciolta. Se riguardiamo al nostro cammino, ci sembra che la scelta di lasciare la sicurezza economica che avevamo a Milano, a suo tempo, sia stata molto liberante e che il non possedere praticamente nulla, abbia aiutato noi e le altre famiglie con cui
condividevamo l’esperienza di comunità ad
essere più liberi di
volerci bene ed aiutarci con cuore sincero.
Oggi ci siamo trasferiti con le nostre quattro
Paola ed Edoardo
uesta è la nostra personale esperienza di famiglia adottiva: io e mio
marito Edoardo abbiamo adottato tre bambini (Felipe, Layza e Wesley)
Q
nel 2011 e abbiamo conosciuto Casa Nazareth nell’estate del 2012, tramite il passaparola, stavamo cercando un campo estivo che accogliesse
i nostri figli durante le vacanze. Per i nostri figli era la prima volta in un
campo estivo, la chiamavano “scuolina”, e quando è finita erano sinceramente dispiaciuti.
Con l’inizio del nuovo anno scolastico 2012-2013 io e mio marito siamo entrati a far parte delle “Famiglie Solidali” di Casa Nazareth e abbiamo iniziato a partecipare agli incontri. Successivamente abbiamo deciso di modificare il nostro nome in “Gruppo Solidale” perché partecipa-
Antonella e Roberto
I
l nostro incontro con Casa Nazareth è avvenuto per caso cercando una sistemazione per
una donna con una bambina.
Il mio aiuto è consistito in “tempo” ovvero mi sono
messa a disposizione e così, inizialmente, ho
aiutato alcuni bambini a fare i compiti ed ho giocato con loro (alcune volte per aiutare le mamme lavoratrici li ho anche ospitati nella nostra
figlie in una casetta da soli ma continuiamo ad
avere in cuore quel desiderio di condivisione
di quel che “gratuitamente abbiamo ricevuto” come
ci ricorda Gesù. Abbiamo investito sull’educazione delle nostre figlie e sulla qualità del tempo che passiamo con loro o con chi passa a casa
nostra e forse agli occhi del mondo siamo un
po’ contro corrente perché il nostro conto in banca non è la priorità anche se un po’ più di lavoro aiuterebbe tanto.
Collaboriamo con la nostra parrocchia con la preparazione dei fidanzati al matrimonio cristiano
e cerchiamo di mettere a disposizione il poco
tempo che lascia la gestione della nostra famiglia numerosa. Andando a vivere in comunità,
avevamo lasciato tutto perché avevamo trovato la perla preziosa, come dice la Scrittura, ora
desideriamo non sotterrarla di nuovo ma siccome
siamo fragili, abbiamo bisogno di amici con cui
condividere un nuovo cammino e per questo facciamo parte delle famiglie solidali di casa Nazareth,
un “Gruppo” di amici che desidera aiutarsi a condividere i pesi per moltiplicare le forze ed essere, in un futuro, di sostegno a chi ne ha più bisogno e se ci riusciremo, saremo più felici e realizzeremo un pezzetto di Paradiso in terra.
vano anche single e ci è sembrato opportuno includere anche loro. Abbiamo
tanti progetti in cantiere e speriamo di poterli realizzare in futuro.
Il legame che ci unisce, la nostra linea guida è: l’accoglienza. Ma che
cos’è l’accoglienza: offrire ospitalità ed assistenza alle persone bisognose?
Non può essere solo questo, l’accoglienza come la intendiamo noi porta con sé tante altre emozioni, altri sentimenti, la condivisione delle esperienze, il rispetto per l’altro, l’amore! È questo che ci fa sentire a casa.
A Casa Nazareth appunto.
L’accoglienza può avere un tempo oppure no, ma questo che importa.
In fondo perché io e mio marito abbiamo adottato? Semplicemente perché volevamo una famiglia tutta nostra, volevamo “accogliere” dei figli,
plurale, tanti. Ebbene si, ci piace la famiglia numerosa! Ci riteniamo una
coppia molto fortunata ed una famiglia finalmente completa, quello che
ci è capitato è un vero miracolo che si rinnova ogni giorno. Chi pensa
che abbiamo fatto un “grande gesto” si sbaglia perché secondo noi se
i nostri figli sono stati fortunati ad avere una famiglia noi stiamo vivendo un “sogno” perché abbiamo tre figli meravigliosi. Certo le difficoltà
ci sono, sono tante e a volte ci sembrano insormontabili, alcune comuni a tutte le famiglie, altre oggettivamente diverse. Abbiamo dovuto imparare tante cose nuove e tante ancora ne stiamo imparando, perché i
bambini adottati hanno le loro dinamiche.
Tempo fa qualcuno ci ha chiesto se ci siamo sentiti soli. No, non ci sentiamo soli ho tutto l’appoggio e il sostegno che mi serve: noi, i familiari e gli amici, le famiglie adottive, il Gruppo Solidale. Grazie.
casa) poi, strada facendo, ho coinvolto mio marito e ci siamo ritrovati a fare le cose più disparate:
lui con la sistemazione dell’orto, il taglio dell’erba,
della siepe ecc...ed io a fare un corso base di
cucina e bon ton con le donne ospiti.
Alcune volte abbiamo cucinato con altre persone
per la Festa di Primavera di Casa Nazareth...insomma abbiamo fatto ciò che sappiamo e possiamo fare! Tutto ciò avviene e deve avvenire nella massima discrezione perché tutte le persone ospiti devono potersi fidare di chi passa di
là, non devono sentirsi giudicate o imbarazzate dalle loro vicende personali.
Questo lo considero un punto fondamentale: noi
volontari conosciamo i nomi e la provenienza
delle ospiti, tutto ciò che può riguardare le loro
situazioni precedenti non è un nostro compito
saperlo e tantomeno riportarla fuori dalla Casa
Nazareth.
Nel frattempo, poi, abbiamo incontrato alcune
persone con le quali si sta creando il “Gruppo
Solidale” che si propone uno scopo di “accoglienza”
diversa anche al di fuori della casa-famiglia stessa. Possiamo testimoniare che chiunque può dare
il suo “tempo” è in grado semplicemente di dare
una mano!!
Dicembre
2016
Antonella Lafortezza
I
l cammino percorso durante l’Anno giubilare, in cui abbiamo rivisitato le Opere di
misericordia in tutte le città della Diocesi,
si è concluso a Montelanico nella settimana compresa dal 1° al 6 novembre, dove il nostro pensiero e le nostre preghiere sono andati a chi ci
ha già preceduto nell’incontro eterno con il Signore
e si è fatta memoria dell’ultima opera di misericordia corporale “Seppellire i morti”.
Abbiamo dunque inaugurato la nostra settimana di sensibilizzazione la sera del 1° novembre, festività di Tutti i Santi, presso la chiesa S.
Antonio alle ore 21, con una veglia di preghiera per tutti i defunti di Montelanico e della Diocesi,
animata con salmi, canti e letture
dell’Ufficio delle Letture proprio dei
Defunti.
Il giorno seguente, 2 novembre alle ore
14,45, la nostra comunità si è raccolta
al Santuario Madonna del Soccorso da
cui ha avuto inizio una processione di fedeli che ha raggiunto l’ingresso del
Cimitero dove il Vescovo Mons. Vincenzo
Apicella ha inaugurato, secondo il rito previsto dal Giubileo, l’apertura solenne della “Porta Santa” rappresentata appunto
dal cancello del Camposanto sulla cui sommità, per l’occasione eccezionale, era stata fissata un’insegna in legno con la dicitura intagliata a grandi lettere dipinte in
nero “Porta Santa” e adornata su due
lati di ghirlande di fiori. Dopo l’apertura,
il Vescovo ha presieduto la S. Messa per
ricordare tutti i defunti di Montelanico
e della Diocesi, concelebrata dal nostro
Parroco Don Antonio Galati e dai
nostri ex Parroci Don Marco Fiore
e Don Augusto Fagnani.
Durante la messa il Vescovo
ci ha ricordato che per i credenti in Gesù Cristo il 2
novembre non è un giorno triste, ma, al contrario, caratterizzato dall’intima gioia che nasce
dalla fede nella risurrezione
del Signore e nella promessa che
anche noi risorgeremo.
La celebrazione eucaristica si è conclusa con una visita personale e raccolta alla
tomba del nostro amato sacerdote Don Franco
25
Risi dove il Vescovo si è soffermato in silenziosa preghiera. Proseguendo il cammino giubilare, domenica 6 novembre alle ore 10,30, con partenza dal
Comune, una popolazione commossa
ha assistito alla cerimonia di
deposizione delle corone di alloro per i Caduti di guerra, accompagnata da un momento di preghiera guidata dal nostro Parroco,
per rendere memoria e onore ai tanti Montelanichesi periti durante i sanguinosi conflitti mondiali.
Alle ore 16, invece, presso la Chiesa
di S. Antonio, un’ora di catechesi sul “Senso
cristiano della morte” tenuta da un relatore di
continua nella pag. 26
Dicembre
2016
26
segue da pag. 25
eccellenza, Don Leonardo D’Ascenzo, Rettore
del Collegio Pontificio Leoniano di Anagni.
Don Leonardo, con la sua solita semplice profondità, ci ha intrattenuto sull’importanza, per noi
credenti in Gesù Cristo, sul concetto di “buona
morte” che si scontra con quello molto diffuso
ai tempi di oggi di “bella morte” e di “dolce morte”, ossia di una morte che, per paura, si vuole affrontare senza sofferenza alcuna.
La buona morte dipende da una buona qualità
della vita, così come una vita è buona quando
ci si prepara e si arriva ad una buona morte.
Proseguendo nel suo prezioso intervento Don
Leonardo ci ha indicato anche il cammino spirituale per giungere bene al traguardo finale della vita
terrena: vivendo come
Gesù ci ha insegnato, cioè offrendo tutta la propria vita per
gli altri, abbracciando
ogni giorno la propria
croce, morendo ogni
giorno con Lui, proprio
come fa il seme dentro la terra che prima
muore e poi rinasce
come una bella pianta che porta i suoi frutti nella nuova vita, la
vita Eterna.
Il fine di ogni vita cristiana è la vita eterna; appena si muore
e si chiudono gli
occhi, si vede finalmente il volto del
Signore, quel volto che
abbiamo ricercato per
tutta la vita terrena.
In ultimo don Leonardo ci ha parlato del romanzo di Padre David M. Turoldo, “La morte dell’ultimo teologo”, dove appunto il famoso religioso
e teologo ipotizza, in un mondo senza la morte, una vita molto triste, senza speranza, senza senso e ci ha poi letto un piccolo passo tratto dal libro “ Il dramma è Dio”, che sempre Padre
Turoldo ha scritto poco prima di morire, quando, già aggredito da tempo da un cancro al pancreas, dà un’incoraggiante e trasparente testimonianza sul cammino verso “sorella morte”.
Egli immagina l’incontro con il suo Dio come un
incontro tra amici che si rivedono dopo tanto,
tantissimo tempo e si riscoprono” veri amici”.
Dopo la catechesi sul “Senso cristiano della morte” alle ore 17 il Vescovo ha officiato la S. Messa
solenne per tutti i defunti di Montelanico e della diocesi, con chiusura della Porta Santa e quindi della relativa settimana giubilare dedicata all’ultima opera corporale “Seppellire i morti”, alla presenza di autorità civili, militari, della comunità
parrocchiale tutta e di numerose testimonianze di fedeli provenienti da Colleferro, Valmontone
e Velletri.
Durante l’omelia il nostro Vescovo si è soffermato su alcune importanti riflessioni sul Vangelo
di Luca(20, 27-38) proprio di questa domenica,
ponendo l’accento sulla casualità della lettura
sulla resurrezione in relazione alla messa di chiusura per tutti i defunti, e su come sempre il Signore
trova la strada giusta e ci viene incontro anche
in queste piccole cose.
La Resurrezione è il vero sigillo di noi cristiani
che ci differenzia da tutte le altre religioni: Cristo
è risorto, davvero, e con Lui risorgeremo anche
noi, e rinasceremo a vita nuova, vita piena, senza legami biologici, ma ci vorremo tutti bene.
A fine celebrazione eucaristica il Vescovo ci ha
ricordato l’appuntamento di chiusura diocesana dell’anno giubilare, il 23 novembre, festa di
San Clemente, a Velletri, giorno in cui sarà consegnata ad ogni parrocchia, a chiusura del Giubileo
della Misericordia, una pianta di ulivo, per ricordarci che, anche se la Porta Santa resterà chiusa, la Misericordia dovrà essere sempre “in uscita”, e, come una pianta, essere annaffiata, crescere e continuare “a dare buoni frutti”.
Dicembre
2016
27
Stanislao Fioramonti
A conclusione dell’ 800° Anno
dalla morte di papa Innocenzo
III (1198-1216), vogliamo ricordare ancora il nostro grande
condiocesano pubblicando, in
occasione del Santo Natale 2016,
la seconda parte del Sermone
che egli pronunciò durante la
messa della notte di Natale di
un anno dei suoi diciotto di pontificato, nella Stazione Liturgica
in Santa Maria Maggiore a Roma.
La citazione evangelica da cui
le parole del papa prendono
spunto è quella di Giovanni 1,14:
“E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi”;
e la parte di sermone su cui
ci soffermiamo è quella in cui
Innocenzo spiega “Cur Verbum
caro factum sit”, “Perché il Verbo
si sia fatto carne”. Sentiamolo.
“Il Verbo si fece carne per quattro motivi: per
umiliare i superbi, per riconciliare i nemici, per
riscattare gli schiavi, per nutrire gli amici. “Pur
essendo di natura divina, non considerò un
tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma
spogliò sé stesso assumendo la condizione
di servo, divenendo simile agli uomini e apparve in forma umana” (Fil 2,6). (…)
S
i dovette espiare il peccato di superbia
con la virtù dell’umiltà, perché i contrari si curano con i contrari, in modo che
quanto grande è stato il peccato di superbia, tanto grande dovrebbe essere la virtù dell’umiltà.
Il peccato di superbia è stato così grande che
l’uomo volle essere come Dio, come il serpente aveva promesso: “Diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male” (Gn 3,5). E la virtù dell’umiltà dovette essere così grande che Dio si
fece come l’uomo, per cui l’Apostolo dice: “Pur
essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò sé stesso assumendo la condizione di servo, divenendo simile agli uomini, e apparve in
forma umana.
Il Verbo dunque si fece carne per darci un esempio di umiltà, perché noi smettessimo di essere superbi e ridiventassimo umili, perché “La superbia è principio di ogni peccato” (Sir 10,13).
A causa di essa peccò l’angelo in cielo dicendo: “Porrò la mia sede ad aquilone, mi farò uguale all’Altissimo” (Is 14,14). A causa di essa peccò l’uomo nel paradiso, quando gli dissero:
“Diventereste come Dio, conoscendo il bene e
il male”. E’ questo il primo peccato di chi
pecca e l’ultimo di chi si pente; se c’è
si compie il peccato, se manca il peccato si evita, perché quanto rapidamente disprezziamo il comando divino, tanto rapidamente
diventiamo superbi contro il
Signore, e quanto rapidamente
ci pentiamo del peccato, tanto rapidamente ci umiliamo davanti a Dio.
Dunque il Verbo si fece carne affinché come si è umiliato Dio per l’uomo, il Signore per il servo, il Creatore
per la creatura, così si umili l’uomo per
Dio, il servo per il Signore, la creatura per
il Creatore; poiché “Chi si umilia sarà esaltato,
e chi si esalta sarà umiliato” (Lc 14,11); “Dio resiste ai superbi, agli umili invece dà la sua grazia” (Gc 4,6).
Tra Dio e l’uomo esisteva una grande discordia e ostilità, perché con il peccato l’uomo sottrasse e allontanò il servo da Dio e lo offrì e assoggettò al diavolo. Tra di essi dunque non si poteva riportare ragionevolmente la pace se prima
non si riparava il danno arrecato. Ma l’uomo non
aveva nulla per ripagare adeguatamente Dio per
il danno; perché se a Dio restituiva qualcosa della creatura razionale al posto della sostanza razionale sottratta, sarebbe stata la cosa minore: ma
non aveva potuto restituire l’uomo degnamente, perché aveva sottratto il giusto e l’innocente e non trovava altri se non il peccatore.
Allora Dio, vedendo che con le sue forze l’uomo non poteva evitare il giogo della condanna,
prima lo prevenne con la sola misericordia, per
poterlo quindi liberare anche con la giustizia. Perché dunque Dio fosse placato dall’uomo, Dio donò gratuitamente all’uomo ciò che l’uomo
doveva restituire a Dio per
debito.
Donò dunque all’uomo un
uomo che restituisse l’uomo al
posto dell’uomo e che - perché
la ricompensa fosse adeguata
– fosse non solo uguale, ma maggiore del precedente. Per questo
il Verbo si fece carne, perché fosse dato agli uomini il Dio uomo, come
aveva predetto Isaia (9,5): “Un bimbo è
nato per noi, ci è stato dato un figlio”, che facesse legittimamente da mediatore tra Dio e l’uomo. Se infatti fosse stato della natura solo di uno
e non comune ad entrambi, non sarebbe stato
idoneo a ristabilire il patto di pace tra di loro;
infatti, dice l’Apostolo (Gal 3,20), “non si dà mediatore per una sola persona”, e per questo alla
nascita di Cristo la schiera della milizia celeste
cantava: “Gloria a Dio nel più alto dei cieli, e pace
in terra agli uomini che egli ama” (Lc 2,14). “Egli
è la nostra pace, colui che ha fatto di due un
solo popolo” (Ef 2,14); la pietra angolare che ha
creato in sé stessa, dei due, un solo uomo nuovo (ibid.).
Dio poteva liberare l’uomo solo con la forza della sua parola, ma ha preferito riscattarlo a un
certo prezzo per giustizia, per sollecitarlo non
alla forza ma alla giustizia. Ed era giusto che
l’uomo fosse riscattato dal debito della colpa con
continua nella pag. 28
Dicembre
2016
28
segue da pag. 27
il prezzo della pena, placando con
la pena colui che aveva offeso con
la colpa.
La pena di nessuno poteva infatti bastare come prezzo dell’umana redenzione di tutti, specie perché chiunque era debitore della pena, non solo per
l’ingiustizia commessa, ma
anche per la macchia contratta;
infatti “Se diciamo che siamo senza peccato, inganniamo noi stessi
e la verità non è in noi” (1Gv 1,8); “Tutti
hanno traviato, tutti sono corrotti; più nessuno fa il bene, neppure uno” (Sal 13,3). Così
il Verbo si fece carne perché in un corpo immacolato, che fosse del tutto esente da colpa, sopportando una pena immeritata, versasse a Dio
il prezzo della redenzione umana “facendosi obbediente fino alla morte, e alla morte di croce” (Fil
2,8). Infatti “siamo stati liberati non al prezzo di
cose corruttibili come l’argento e l’oro, ma a un
prezzo grande, col sangue dell’agnello senza
macchia” (1Pt 1,18). Egli è il sommo sacerdote per la cui morte i colpevoli che si erano rifu-
Alessandro Gentili
S
ono stato a visitare la cella di 3
x 5 metri dove per
45 anni ha vissuto Julia
Crotta, suor Nazarena
per lo Spirito di Dio (19451990). Quest’articolo
sarà solo informativo,
lascerò che siano le foto
e le scarne notizie a parlare.
La cella di suor Nazarena
si trova all‘Aventino al
Monastero
delle
Monache Camaldolesi.
Foto 1.
giati nella città dell’asilo tornavano sicuri alla propria” (Nm 35,12).
Egli dunque si accollò la pena per
tutti, per dare a tutti per suo tramite la gloria, come testimonia Isaia
(53,4) dicendo: “Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per la nostra iniquità; il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui, per le sue piaghe noi
siamo stati guariti. Davvero egli si
è caricato delle nostre sofferenze, si
è addossato i nostri dolori”.
Non solo dette come prezzo di riscatto
per noi il corpo che aveva assunto, per redimerci dalla morte, ma ce lo donò anche in cibo,
per sostenerci verso la vita, come egli stesso
avverte: “Il pane che io darò è la mia carne per
la vita del mondo” (Gv 6,51), perché come con
del cibo la morte era entrata nel mondo, così
con del cibo nel mondo tornasse la vita. Come
infatti la vita fisica non può durare senza il cibo
materiale, così la vita spirituale non può alimentarsi
senza il cibo spirituale: “Se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita” (ibid.).
In questi tempi bui dove
la Chiesa è divenuta, ahimè, una cosa tra le tante cose della vita, mi pare
che proporre una vita così
paurosamente “radicalizzata” sia l’unica o l’ultima spiaggia da visitare.
Raduni oceanici, interviste o programmi televisivi,
presentazioni di altri libri,
di altri consigli, di altri suggerimenti, hanno fatto il
loro tempo. Nazarena
evangelizza in modo
sconvolgente e i cristiani
dovrebbero fare altrettanto
per evitare di finire nella mischia
dove si perdono nel grigiore assordante. Basta. Lascio
la parola alle immagini.
Foto 2.
Dunque il Verbo si fece carne perché quello che
secondo la divinità era il cibo degli angeli diventasse secondo l’umanità cibo degli uomini, perché l’uomo mangiasse il pane degli angeli (Sal
77,25), “pieno di delizia e gradito a ogni gusto”
(Sap 16,20). “Ciascuno esamini sé stesso e poi
mangi di questo pane e beva di questo calice;
perché chi mangia indegnamente di questo pane
senza riconoscere il corpo del Signore, mangia
la sua condanna” (1Cor 11,28). Come infatti chi
è buono sopportando la morte acquista la vita,
così il malvagio mangiando la vita va incontro
alla morte.
Noi allora, fratelli, non ci dimostriamo ingrati per
così grande grazia, ma per così grande grazia
manifestiamo grandissima gratitudine al nostro
Redentore e umilmente imploriamo che colui che
si è fatto partecipa della nostra natura (1Cor 9,1)
ci faccia partecipi della sua gloria, Gesù Cristo
nostro Signore, che per tutto è Dio benedetto
nei secoli dei secoli. Amen”.
Da: Innocenzo III, I Sermoni,
a cura di Stanislao Fioramonti,
Libreria Editrice Vaticana,
Città del Vaticano 2006, pagg. 257-261.
Foto 3.
Foto 4.
Nella foto del titolo: interno
della cella di suor Nazarena.
Foto 1: l'unico abito usato.
Foto 2: gli zoccoli usati per
tutta la vita.
Foto 3: la finestrella dove riceveva l'Eucarestia.
Foto 4: il letto dove per 45
anni ha dormito Nazarena.
Dicembre
2016
Costantino Coros
“Uomini e donne hanno bisogno
della Misericordia di Dio.
Dobbiamo cercare di perseverare nello spirito dell’Anno
Giubilare”.
C
osì il card. Francis Arinze
ha detto, nel corso dell’omelia pronunciata mercoledì 23 novembre nella cattedrale
di Velletri in occasione della Festa
Liturgica di San Clemente I Papa
e della chiusura diocesana del Giubileo
della Misericordia.
Nel corso dell’udienza generale in
Aula Paolo VI mercoledì 23
novembre Papa Francesco ha esortato a non fare della “fede una teoria astratta dove i dubbi si moltiplicano.
Facciamo piuttosto della fede la nostra
vita. Cerchiamo di praticarla nel servizio ai fratelli, specialmente dei più
bisognosi. E allora tanti dubbi svaniscono, perché sentiamo la presenza di Dio e
la verità del Vangelo nell’amore che, senza nostro
merito, abita in noi e condividiamo con gli altri”.
Queste due richiami stimolano a porre sempre
maggior attenzione alla realtà sociale del mondo di oggi con uno sguardo anche al passato
per stare con consapevolezza nella storia, da
cristiani, capaci di leggere i fatti del quotidiano
che riguardano il mondo della politica, dell’economia,
della società con un’attenzione particolare ai fratelli più bisognosi.
La diocesi nel corso dell’Anno Giubilare si è interrogata su questi aspetti ed ha organizzato dei
momenti di riflessione e confronto dedicati ai temi
del lavoro e del
sociale.
Si è trattato del
Giubileo Sociale,
indirizzato principalmente ai credenti
impegnati nel mondo del lavoro, nelle istituzioni pubbliche, in politica,
nel sindacato, nelle associazioni di
volontariato sociale; ad una serie d’incontri sulla Laudato
Sì (ancora in corso) e ad un convegno dedicato
alla figura di Aldo
Moro.
Iniziative che han-
29
no visto parte attiva e propositiva la Pastorale Sociale e
del Lavoro della diocesi lavorare di concerto e in collaborazione con il livello regionale. Accanto a questi incontri
ne sono stati organizzati altri
due dedicati al tema delle riforme costituzionali.
Il primo si è svolto a Velletri,
organizzato dall’Azione Cattolica
insieme alla Pastorale Sociale
e del Lavoro diocesana ha visto
intervenire il prof. Ugo De Siervo,
già presidente della Corte
Costituzionale e docente ordinario di diritto costituzionale
all’università di Firenze e il prof.
Marco Olivetti, ordinario di diritto costituzionale alla Lumsa.
Il secondo, organizzato dal settore giovani di Azione Cattolica,
insieme al progetto Policoro
e al Centro ricerche sociali dedicato a Vittorio Bachelet, si è
tenuto a Colleferro ed ha avuto come relatore il giornalista
e scrittore Giuseppe Sangiorgi,
già segretario generale
dell’Istituto Sturzo e presidente
dell’Istituto Luce.
Un Anno Giubilare ricco d’incontri dedicati ai temi della società che però ora richiede uno
sforzo di continuità per essere credenti dentro
la vita di tutti giorni, essere missionari capendo il tempo di oggi per portare con efficacia ed
umiltà la Parola di Dio al nostro prossimo in tutti gli ambienti sociali.
Dicembre
2016
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S.E. Rev.ma mons. Vincenzo Apicella e alla presenza dei sacerdoti della Diocesi.
Nelle parole del cardinale Arinze, pronunciate
davanti ad una navata gremita, tutto lo spirito
con cui è stato aperto e chiuso il Giubileo: “Si
chiudono le Porte Sante ma resterà aperta per
sempre la Misericordia”.
A fine Messa, tutti i fedeli hanno lasciato la navata attraversando la Porta Santa, lasciando per
ultimi il cardinale Arinze ed il vescovo Apicella
che l’hanno solennemente chiusa.
Una Porta Santa in legno all’apertura ed in bronzo alla chiusura. Scultura, quest’ultima - realizzata dal maestro veliterno Giancarlo Soprano
- raffiguranti proprio le Opere di Misericordia.
Ad ogni parrocchia della Diocesi sarà donato
in ricordo dell’evento uno degli alberelli d’ulivo
esposti per l’occasione presso una cappella della basilica.
Un primo Giubileo non solo “romano” dunque,
iniziato in Africa, dagli ultimi, da chi soffre dimenticato da quella parte del mondo che si crogiola
Giovanni Zicarelli
U
n altro paragrafo della Storia è scritto. Ne è stato inchiostro chi lo ha vissuto, tanto da protagonista quanto da
testimone. Il primo Anno giubilare “globale”. Così
come, circa un anno fa, erano state aperte, una
dopo l’altra, dando inizio al Giubileo Straordinario
della Misericordia, le Porte Sante sono state chiuse. Ancora a cominciare da quella della cattedrale di Notre-Dame di Bangui, nella Repubblica
Centrafricana, aperta il 29 novembre del 2015
da Papa Francesco e chiusa lo scorso 13 novembre. Aperta il 13 dicembre 2015, il 23 novembre è stata chiusa la Porta Santa della catte-
drale di San
Clemente, in Velletri,
in concomitanza con
la festa del santo che
è anche patrono
della città.
La chiusura è stata
preceduta dalla solenne Santa Messa
celebrata da Sua
Eminenza Francis
Arinze, dal 2005
cardinale vescovo della Diocesi VelletriSegni, coadiuvato
dal nostro vescovo
in un’opulenza sempre più contraddittoria, fondata sullo sfruttamento
dell’uomo sull’uomo, e concluso con
una Chiesa che verso i dimenticati
resta protesa.
Del resto è subito stato chiaro a tutti il perché Papa Francesco abbia
voluto iniziarlo dalla Repubblica
Centrafricana, una splendida terra fra le più martoriate da guerre
civili dovute a continue destabilizzazioni politiche a fini predatori e
geo politici.
Con le Porte Sante diocesane - aperte anche presso carceri e ospedali
- la Chiesa ha abbracciato “fisicamente” il mondo intero, raggiungendo
con l’indulgenza plenaria giubilare anche il più impossibilitato dei
fratelli che volesse invocarla.
Dicembre
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Servizio fotografico a cura di Tonino Parmeggiani, Claudio Gratta e Giovanni Zicarelli.
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Giovanni Zicarelli
M
ercoledì 19 ottobre 2016, presso la
Residenza sanitaria assistenziale
(RSA) “Aurora Hospital”, in Colleferro
(RM), si sono festeggiati i 92 anni di un’ospite
della struttura, la signora Zelmira.
Una simpatica festicciola organizzata da Paola,
Ivana e Maria Antonia della comunità di
Sant’Egidio, giunte da Roma, d’intesa con il per-
Ma non è mancata neppure la sorpresa finale:
dopo il taglio della torta è giunto il sindaco di
Colleferro Pierluigi Sanna, che ha salutato stringendo mani a ospiti, personale e organizzatori, scambiando poi qualche battuta con ognuno degli anziani e non mancando di effettuare
un giro per le stanze, con Elisabetta, infermiera presso la struttura, e Paola a far strada, per
portare un saluto ed una parola di conforto a
tutti coloro a cui la propria patologia ha impedito di festeggiare nella sala insieme agli altri.
Un momento della festa.
L’occasione è valsa per calarsi in un mondo pressoché invisibile, della cui esistenza sono tutti a
conoscenza ma che per lo più si preferisce elaborare nella mente come se fosse inesistente.
Quando si passa davanti all’Aurora Hospital e
luoghi simili lo sguardo evita ed il pensiero allontana. Un mondo di cui i mass media non parlano mai, se non talora, vagamente, per pubblicizzare apparecchi acustici e colle per dentiere o, talora, per dar notizie di maltrattamenti. Anche tra la gente, il più delle volte, se ne
parla poco: spesso un rapido accenno tra interlocutori riluttanti; tra chi per dovere chiede notizie e chi deve riferire circa un genitore ricoverato. Pochi momenti, subito rispediti verso l’oblio. Quasi lo scambio di un’informazione
segreta. Poi ci si dilunga nel parlare dei figli, del
lavoro, della propria salute.
È il mondo degli anziani. Ma non quelli pimpanti delle pubblicità, bensì di coloro che faticano nel deambulare o che non ci stanno tanto con la testa, caratteristiche che li rendono “d’impaccio”, “fastidiosi”, “impossibili da tenere a casa”.
In realtà, calandosi in quel mondo, ci si rende
conto che solo una minima parte ha bisogno di
cure professionali, la gran parte si trovano lì perché, contrariamente a ciò che avveniva un tempo, ad un certo punto non rientrano più in ciò
che è idoneo ai ritmi dall’odierna società, spesso dopo essere stati “spremuti” come baby sitter, cuochi, finanziatori.
Come se fossero divenuti ex persone che però
un tempo sono stati padri, madri, nonni, che hanno lavorato, preso decisioni, contribuito, ognu-
Zelmira soffia sulle
candeline.
Zelmira con Paola e Maria Antonia.
sonale della struttura assistenziale e a
cui ha collaborato la parrocchia di San
Bruno di Colleferro con il parroco don
Augusto e le volontarie Isabella e Lia.
Non è mancato ovviamente il rinfresco
con tanto di torta finale con candeline.
Non sono mancati neppure i regali: a
Zelmira e, per allargare la festa, a tutti gli altri ospiti che avevano già compiuto 90 anni è stato regalato un caldo
plaid, per un totale di 10, mentre don
Augusto ha distribuito a tutti, organizzatori compresi, una medaglia commemorativa con effigiati sui due lati, rispettivamente, il volto di Padre Pio e la Madonna
delle Grazie, portati dal sacerdote da un
pellegrinaggio a San Giovanni Rotondo.
no a suo modo, all’esistenza di questo mondo.
Ma c’è qualcuno che con naturalezza, senza alcun
imbarazzo, entra ed esce da quel mondo.
Gente che ha una propria vita - proprio come
tutti noi - solo che non riesce a voltarsi dall’altra parte davanti al bisogno e cerca con la gentilezza di sopperire in minima parte alle mancanze di famiglie ed istituzioni.
Lasciando ogni volta dietro di se volti sorridenti,
commossi e stupiti. Il principio che spinge a ciò
è fin troppo logico e giusto: come dopo una vita
lavorativa si ha diritto ad una pensione così, dopo
aver, in qualche modo, esplorato, goduto, combattuto il mondo, ci si è quantomeno conquistato
il diritto a viverlo come meglio si crede, sino in
fondo.
Don Augusto dona le medaglie con l'effige di padre Pio.
Dicembre
2016
33
a cura della Redazione
I
n molte comunità non solo parrocchiale e anche in alcune famiglie è in uso, ormai da anni, preparare ed esporre la corona d’avvento. Questa tradizione importata
dal nord Europa ha il compito di
segnare il tempo di attesa della venuta del Signore attraverso una
corona di rami verdi e quattro candele, quante sono le domeniche che
ci separano dal Natale.
Ovviamente all’importazione della
tradizione è seguita ovunque una
specie di “adattamento” della stessa al luogo e alla sue tradizioni ma
anche alle nuove sensibilità pastorali e liturgiche. Cosicché ognuno
prova a formulare una forma diversa con materiali diversi.
Da oltre quindici anni anche nella parrocchia Regina Pacis in Velletri all’inizio del-
l’avvento è stato preparato questo segno,
in verità uno per tutta la comunità e uno
destinato ad ogni bambino che segue i corsi
del catechismo.
Quest’anno la “corona
d’avvento per i bambini ha superato se stessa e anche la fantasia
degli anni passati, nel
senso che tra le varie
realizzazioni degli anni
passati questa risulta
essere la più completa. Da un’idea del parroco don Angelo è stato realizzato un oggetto in metallo sagomato con taglio laser e verniciato a forno che al centro ha un albero
a quattro lati, con chiaro richiamo all’albero di Natale, dalla cui chioma, per sottrazione di materiale, appare la scena della
natività, lo stesso è reso saldo da una crociera attorno alla quale corre una corona.
Sulla corona vi sono i quattro lumini, e i personaggi biblici dell’avvento ovvero i profeta
Isaia, Giovanni il Battista, l’Angelo annunciatore, il pastore con la pecora e i Re Magi.
Nella messa di sabato 26 novembre Ia di
avvento i ragazzi hanno portato prima in
chiesa questo segno per la benedizione e
poi nelle loro case è stato accolto nella famiglia. Per la riuscita dell’iniziativa molte persone hanno collaborato a tutte va il grazie
infinito del parroco. Ora questo segno è nelle case come un richiamo e nel contempo
come indicatore dell’attesa della Venuta del
Signore in quella famiglia.
Dicembre
2016
34
8. Ride ai pastorelli,
carezza gli agnelli,
Gesù mite e pio
agnello di Dio!
I Magi adoranti
gli donan festanti
9. lo scrigno dell’oro
per dirgli: “Tesoro!”,
profumo d’incenso,
per dirgli: “Sei immenso!”,
e mirra a alleviare
le ore più amare.
Angeli in coro:
Un dì per noi in croce
avrà morte atroce.
10. Gesù luminoso
sorride amoroso.
I Magi, incantati
di essere amati,
si senton “fratelli”.
E insiem sui cammelli
d. S. M.
Che cielo, che stella,
fratello, sorella.
1. Oh, stella lucente,
che appari ad Oriente,
stella alta nei cieli,
che cosa riveli?
Tu ai Magi sapienti
sei segno di eventi.
2. Sei segno divino
che è nato il Bambino!
Laggiù in Giudìa
è nato il Messia!
È il re di Israele,
è l’Emmanuele!
3. I Magi anelanti
si fanno viandanti.
Or van solitari
per monti e per mari,
per steppe e ruscelli,
sugli alti cammelli.
Angeli in coro
Iddio nel cammino
ci è sempre vicino.
4. Pericoli, quanti!
Le fiere, i briganti!
Ma in cielo la stella
è sempre più bella:
annuncia un Bambino
umano e divino!
5. “Veniamo d’Oriente;
è nato il Potente
qui a Gerusalemme?
“Non qui, ma a Betlemme!”.
Soltanto umiltà
può accoglier Bontà.
6. Ed ecco per via
dell’astro la scia!
Si posa la fiamma
su povera mamma.
Se bella è la stella,
la mamma è più bella!
Angeli in coro:
E in braccio a Maria
sta il Bimbo Messia.
7. Quel Bimbo che è nato
è il Re del creato;
è il Verbo del Padre!
La Vergine Madre
lo bacia; è il Signore!
Signore d’Amore!
11. ritornano a Oriente,
e a tutta la gente
annuncian la bella
Buona Novella:
“Siam figli di Dio!
Fratello sei mio!”
12. Siam tutti, anche tu,
fratelli in Gesù.
Vedremo il suo Viso
un dì in Paradiso!
Vedremo Maria!
Gesù, così sia!
Angeli in coro:
Che cieli, che stelle,
fratelli, sorelle!
Dicembre
2016
35
a cura della Redazione
T
anti auguri di un gioioso proseguimento del
cammino vocazionale
al nostro carissimo seminarista diocesano Claudio
Sinibaldi, che mercoledì 30
novembre ha ricevuto il mini-
È NATALE
Il cuore batte forte
alla vista di quel BIMBO
gli occhi restano incantati
le parole restano mozzate
mentre
un girotondo di bambini
un abbraccio di Popoli
esulta e invoca la pace.
Natale: messaggio di speranza!
Vincenza Calenne
stero del Lettorato presso la
Cappella Mater Salvatoris del
Pontificio Collegio Leoniano di
Anagni.
Claudio, nato a Colleferro il 17
luglio 1984 e appartenente alla
comunità parrocchiale di San
Bruno, era stato ammesso tra
i candidati agli Ordini sacri del
diaconato e del presbiterato alcuni mesi fa, domenica 12 giugno,
proprio nella chiesa di San Bruno
a Colleferro, dal nostro vescovo Vincenzo.
Per l’occasione, abbiamo descrit-
to il suo percorso cristiano, formativo
e vocazionale su questo bollettino, nel
numero di Luglio-Agosto 2016 a pagina 34.
In questa nuova importante tappa dell’iter verso il sacerdozio, auguriamo di
vivere con sempre maggiore intensità
il proprio rapporto con la Parola di Dio,
che è chiamato a proclamare nell’assemblea liturgica annunciando le
meraviglie che il Signore compie per
il Suo popolo!
Dicembre
2016
36
Stanislao Fioramonti
L
a nostra meta stavolta è la campagna
di Paliano, che per estensione, ondulazioni del terreno, strade bianche e alberi sul filo delle colline è bella quasi quanto quella toscana, anche se distese di pannelli solari
cominciano a stravolgerla. I punti di partenza e
di arrivo stanno lungo la strada provinciale n.
21 (Palianese), che si stacca dalla Via Casilina
poco prima di Colleferro, incontra a sinistra le
due entrate del parco naturale La Selva e dopo
circa 8 km raggiunge la cittadina ciociara. Al 5°
km di questa strada si entra con un bivio a destra
nella contrada rurale di San Procolo.
Alla croce di ferro dei Padri Passionisti, che ricorda le sante missioni del 1937 e del 1984, si devia
a destra per la stradina asfaltata che in circa 1
km raggiunge la collina del cav. Pizzirani, il terzo più grande proprietario terriero di Paliano dopo
il principe Ruffo (già proprietario anche del parco della Selva) e un altro. Siamo nella Valle di
Zancati, vasta zona rurale fino a qualche decennio fa caratterizzata dalla Tenuta Pizzirani, grande latifondo cui facevano riferimento molte famiglie di contadini; oggi l’Arci Caccia ne ha fatto
una zona di rispetto per l’addestramento dei cani.
La camminata può iniziare dai grandi depositi
(capannoni e silos) colorati di rosso che si incontrano a sinistra della via; un cartello indica una
strada bianca che aggira la collina e in poco meno
di 1 km scende leggermente fino a un grande
bivio, nell’area del castello medievale di
Zancati (ruderi).
Il castello stava su un colle 5 Km a sud-est di
Paliano, in un sito già abitato in epoca romana: alcuni tratti delle sue mura poggiano infatti su altre formate da grossi blocchi squadrati;
in zona è visibile anche un sistema di cunicoli
pertinenti probabilmente a una villa rustica romana. Il castello è menzionato per la prima volta
nel 1233 in un atto di donazione di beni in questo territorio. Nel Medioevo ebbe una sua rilevanza e alcuni storici sostengono che vi nac-
que papa Innocenzo III; è citato anche nelle Fonti
Francescane ed era collegato alle vicine fortezze
di Torre dei Piscoli e Castel Mattia (Castellaccio).
Nel 1345, in base al consumo alimentare, si deduce che fosse un vero villaggio. I primi baroni di
Zancati furono probabilmente i Conti di Segni,
poiché nel 1424 gli abitanti di molti castelli appartenenti a questa famiglia, tra i quali Zancati, furono assolti da Martino V da censure e pene.
Nel 1427 lo stesso pontefice lo concesse alla
sua famiglia Colonna, ma nel 1473 tornò di nuovo ai Conti e alcuni suoi abitanti, scarcerati, si
misero al servizio del cardinal Giovanni
Colonna. Alessandro VI Borgia nel 1501 concesse il feudo di Zancati alla sua famiglia, ma
all’inizio del XVI secolo (1504?) il castello fu distrutto. Al passaggio del Re di Francia Carlo VIII ne
erano signori gli Annibaldi di Anagni; Prospero
Colonna li cacciò, ma mentre egli era diretto a
Napoli con l’esercito del re, quelli strapparono
il castello agli ufficiali lasciati da Prospero, che,
al suo rientro riprese il castello e lo distrusse.
Nel 1522 era disabitato e nel 1534 una Bolla di
Clemente VII trasferiva i beni della chiesa di S.
Giovanni di Zancati alla chiesa di S. Andrea di
Paliano. Fabrizio e Prospero Colonna donarono la metà della tenuta a Giovanni Brancaleone
di Genazzano, uno degli eroi della disfida di Barletta
(febbraio 1503); la parte restante la ottenne la famiglia Tucci-Savo, dalla quale l’acquistò il Cav. Pizzirani,
attuale proprietario. Scendendo dal bivio a sinistra per 6-700 metri, la strada bianca raggiunge una valletta erbosa alla base della collina,
solcata da un fosso e ombreggiata da grandi alberi.
A un lato di questa, scavata in un costone tufaceo poco distante dai ruderi del castello, è l’antica e suggestiva grotta-cappella della Madonna
di Zancati, da cui proviene l’affresco della Madonna
col Bambino veneratissimo dai Palianesi, rinvenuto
l’8 settembre 1630 e tre anni dopo trasferito nella cappella in fondo alla navata destra della collegiata di S. Andrea.
L’opera è stata attribuita, di recente, al monaco benedettino Petrus, artista tardogotico di scuo-
la marchigiana, attivo nell’area di Subiaco nella seconda metà del ‘400. Dentro la cappella rupestre, che fa parte della parrocchia rurale di S.
Maria di Pugliano, oltre al quadro sull’altare e
a un altro donato da un devoto, c’è una riproduzione a stampa della Vergine, che ha in braccio il Bambino Gesù reggente in mano un globo (terrestre) diviso in tre parti con i nomi dei
tre continenti allora conosciuti (Asia, Africa, Europa);
nell’aureola della Vergine è scritto:
“Sancta Maria Mater Omnium”. L’intestazione
della stampa dice: “Maria SS. Di Zancati che si
venera nella Insigne Collegiata di Paliano, manifestatasi l’8 settembre 1631”. Segue una preghiera: “Vergine Santissima di Zancati, che dal
trono ove i nostri padri collocarono la Tua Immagine
non cessasti mai di profondere grazie e favori
ai tuoi devoti, volgi anche a noi gli occhi Tuoi
misericordiosi e benigni. Salvaci, o Madre, dalla corruzione che dilaga, dall’empietà che
trionfa, dall’indifferentismo che impera. Allontana
dal nostro capo l’ira vindice del Tuo Divin Figliuolo
Gesù. Proteggi la città di Paliano che tu volesti scegliere a tua dimora e salvaci dai pericoli che incombono. Infondi alle nostre intelligenze la sapienza dei forti per vincere le tentazioni del nemico ed ai nostri cuori l’amore per il bene.
E nell’ora suprema della morte nascondici sotto il Tuo manto e l’anima conduci dove regna
per sempre la pace. E così sia. Con approvazione ecclesiastica. A cura del Comitato di San
Procolo”. Sotto l’altare questa lapide: “La sirena del mare, nelle ore brune della notte, donò
il latte ad un assetato pargoletto. Evangelisti Letizia
in Proietti offre a Maria di Zancati per grazia ricevuta nella mezzanotte del 1 gennaio 1929. A perenne ricordo”.
La festa della Madonna di Zancati è il 2 dicembre. Risaliti al grande bivio stradale sterrato, si
lascia la strada bianca per tagliare obliquamente
in discesa in mezzo ai campi verso sinistra per
4-500 metri attraverso un’altra fascia di terreno; giunti in fondo alla valletta, si scende ancora a sinistra per altri 3-400 metri.
Al bivio si volta a destra e si risale il colle Gianturco
fino in cima, dove sono i resti cadenti di un antico insediamento agricolo. Questa parte del percorso è lunga circa 3 km e si percorre in circa
45 minuti. Situato a circa 6 km a sud est di Paliano
continua nella pag. accanto
Dicembre
2016
nella contrada di S. Procolo, Colle Gianturco è
una fattoria con una grande aia al centro e qualche casolare intorno. Gli unici segnali dal mondo hanno il suono festoso delle campane della chiesa dei Passionisti di
S. Maria di Pugliano. Nulla è cambiato da quando nel dicembre
1896 vi emigrarono i coniugi Luigi
Goretti e Assunta Carlini; venivano
da Corinaldo di Ancona nelle
Marche con due figli; la seconda,
Maria Teresa (Marietta), era nata il
16 ottobre 1890 e il giorno dopo era
stata battezzata nella chiesa di S.
Francesco; il 4 ottobre 1896 ricevette la Cresima da Mons. Giulio Boschi,
vescovo di Senigallia. Sul muro di
un casolare una lapide (ora scomparsa) ricordava il passaggio della famiglia marchigiana, ma il Casale dove abitò Marietta è al
di là del recinto, una casa fatiscente e poverissima,
oggi in completo abbandono, con le finestre che
si aprono su vigneti e prati infiniti. Vi restò fino
al febbraio 1899, dai 6 anni agli 8 anni, e durante l’inverno, il 22 febbraio 1898, vi nacque la sorellina Ersilia.
Al centro della fattoria, promontorio verde tra sterminate distese di grano, una piccola cappella
di campagna, anch’essa naufragata nell’umidità e nella polvere; sull’altare, vicino a un’immagine
della Madonna, c’era il quadro di Marietta; ora
solo una preghiera a lei dedicata da papa Giovanni
Paolo II. Nella tenuta del senatore siciliano Giacinto
Scelsi i braccianti lavoravano alle dipendenze
del figlio Giuseppe, “don Peppino”.
Dopo un anno tra quei silenzi, un incontro di importanza decisiva nella vita di Marietta: la famiglia
Goretti diventa socia di Giovanni Serenelli e dei
figli Gaspare (che ben presto si separò) e Alessandro,
anch’essi marchigiani. Il contratto stipulato con
il senatore Scelsi prevedeva la concessione a
mezzadria della terra. La logica del padrone è
disarmante: già la vita in campagna è dura, i Goretti
con tanti figli hanno un solo uomo a lavorare,
mentre ai Serenelli manca il calore di una famiglia vera; le due famiglie divideranno lavoro e
raccolto, ma vivranno ognuna per conto proprio.
Poco più di due anni e il soggiorno a Colle Gianturco si
interrompe bruscamente; quei casolari sono un’oa-
si in mezzo a prati infiniti, ma la terra non si dimostra generosa. Ben presto le promesse fatte dal
Bracceschi, il sensale che chiamò i Goretti a Paliano,
risultarono irrealizzabili e la vita per i bifolchi arrivati
dalle Marche sempre più precaria.
Il carattere mite di Luigi Goretti avrebbe permesso
una permanenza forse più lunga sul colle, anche
se l’unico cibo era “pane di granoturco e polenta”, ma il suo socio Giovanni
Serenelli venne a duri contrasti con il
senatore Scelsi e il proprietario-padrone licenzia entrambe le famiglie.
Comprensibile l’ angoscia di mamma
Assunta di fronte all’ombra della nuova emigrazione.
Nel febbraio del 1900 Goretti e
Serenelli da Colle Gianturco si trasferirono
a Ferriere di Conca (Borgo Montello),
a circa 11 km da Nettuno, per lavorare nella tenuta del conte Attilio
Mazzoleni.
Fu loro assegnata un’abitazione che
aveva nel mezzo una cucina in comune e ai lati tre stanze per ciascuna famiglia. Vi si accedeva dalla strada con
una scala in muratura che terminava
in alto in un pianerottolo sul quale si
apriva la porta d’ingresso. Attualmente
una delle stanze dei Serenelli non esiste più, essendo stata demolita per allargare il vano centrale.
La piccola Marietta poté vivervi appena tre anni. Il 6 maggio 1900 il padre Luigi
morì di malaria; il 16 giugno 1901 essa
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fece la Prima Comunione nella chiesa di
Conca. Il 5 luglio 1902, alle ore 15,30, fu colpita
con 14 coltellate da Alessandro Serenelli, che
voleva violentarla. Spirò il giorno dopo nell’ospedale
di Nettuno, dopo aver perdonato il suo uccisore: aveva nemmeno 13 anni; l’8 luglio fu sepolta nel cimitero del paese.
Nel luglio 1929 le sue spoglie furono portate nel
santuario della Madonna delle Grazie di
Nettuno. Il 31 maggio 1935 inizia il processo per
la beatificazione, decretata il 27 aprile 1947 da
papa Pio XII, che il 24 giugno 1950 la canonizza
in piazza S. Pietro.
Maria Goretti è patrona di Aprilia, Nettuno e Latina
e la sua festa liturgica è il 6 luglio; il primo sabato di luglio si celebra in suo onore un pellegrinaggio notturno a piedi da Nettuno alla Cascina
Antica delle Ferriere, il luogo del suo martirio.
Si riparte da Colle Gianturco per una strada bianca, alta sui prati circostanti e aperta sia sui colli di San Procolo e di S. Maria di Pugliano, sia
sui terreni del parco della Selva
e sui monti Lepini. Con alcune
morbide curve la strada scende
nel fondovalle con piacevole
percorso, affianca a destra un bel
boschetto e poi imbocca un lungo rettilineo delimitato dalle canne che bordano il monumento naturale regionale Selva di Paliano e
Mola dei Piscoli. La sterrata – lunga poco meno di 3 km – si percorre in 40 minuti fino al suo sbocco sulla Palianese, a 4 km dal bivio
sulla via Casilina e ad altrettanti dal centro di Paliano.
Foto di Francesco Fioramonti (Zancati) e
di Agapito Proscio (Colle Gianturco).
Dicembre
2016
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Mara della Vecchia
A
rvo Pärt è un compositore contemporaneo, nato in Estonia nel 1935, che
ha dedicato gran parte della sua produzione alla musica sacra. Ricordiamo tra le sue
opere “Te Deum” , “Missa Syllabica”, “Passione
secondo Giovanni”, il salmo “Cantate Domino”,
“Stabat Mater” e molte altre opere di argomento
religioso.
La particolarità di questo compositore riguarda
il suo percorso stilistico, infatti, dopo una formazione
classica passò allo studio delle tecniche compositive delle avanguardie dell’epoca
quali la dodecafonia, la serialità, l’attualità, riscuotendo anche un significativo successo in ambito internazionale. Ciononostante Arvo Pärt si rese
conto che questa strada non era quella giusta per lui, dunque continuò la
propria ricerca stilistica con lo studio
della musica barocca e del canto gregoriano, che dal punto di vista tecnico e compositivo sono forse opposti,
infatti, semplificando, mentre il gregoriano è un canto prevalentemente
monodico e si articola su linee melodiche semplici procedenti per toni vicini, la musica barocca è molto più complessa, non solo melodia, ma anche
armonia, linee melodiche molto articolate, dinamica e agogica sono fondamentali.
Il nostro compositore attraverso l’ap-
profondimento di tali stili compositivi del passato,
giunse gradualmente alla estrema semplificazione della sua musica, guadagnandosi, nell’ambiente
musicale, l’appellativo di massimo esponente del
minimalismo sacro.
La sua tecnica particolare e rigorosa viene chiamata “tintinnabuli” costruita sulle triadi, ossia l’insieme di tre suoni simultanei, e sulle scale tonali cioè le scale musicali sulle quali è composta
gran parte della musica occidentale degli ultimi quattro secoli, inoltre la voce umana ricopre
un ruolo fondamentale.
La prima opera nella quale Arvo Pärt impiegò
la sua nuova tecnica risale al 1976 ed era dedi-
cata al compositore inglese Benjamin Britten;
da questo suo primo esperimento adottò definitivamente il “tintinnabuli “, continuando ad ottenere approvazione e stima durante tutta la sua
intensa attività artistica, tanto da ottenere riconoscimenti ufficiali quali il dottorato honoris causa in musica sacra presso il Pontificio Istituto
di Musica Sacra nel 2011, nello stesso anno ricevette il premio “Composer of the year” a Londra
e inoltre nel mese di dicembre papà Benedetto
XVI lo nominò membro del Pontificio Consiglio
della cultura. Anche se la sua ultima composizione risale al 2008, Arvo Pärt resta a tutt’oggi
il capofila della musica minimalista sacra.
Dicembre
2016
Sandro Botticelli
NATIVITÀ MISTICA
“Io sono un artista e
vivo più di tutti voi”
prof. Luigi Musacchio
B
otticelli non è animato dalla “semplice”,
poetica sensibilità di Giotto, né dalla sensibilità serafica e celestiale dell’Angelico
né, tanto meno, dalla sensibilità per tanti versi
drammatica del giovane Masaccio: il suo universo pittorico comprende e abbraccia estremi
difficilmente rinvenibili nelle successive e pur sublimi opere dei più grandi maestri, neanche in Raffaello,
in Leonardo e, forse, neppure in Michelangelo.
Questi ultimi, pur toccando i vertici dell’arte pittorica e, nel caso di Michelangelo, anche scultoria, si sono fermati sulla soglia della descrizione del “visibile meraviglioso“, fatta soprattutto
- si direbbe - per stupire.
Botticelli, invece, valica questa soglia. Con la
forza di un filosofo antico, “interroga” l’osservatore,
lo pone alle strette. Infatti, questi, al cospetto per esempio - di quel tempio di pura bellezza
che è la sua “Nascita di Venere”, se è stato in
grado di riprendersi dall’incanto di quella visione, per pacificarsi l’animo, corre, non appaga-
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to, a sfogliare le pagine della mitologia, alla ricerca dei significati criptici di quell’immagine.
E la medesima fenomenologia si ripropone per
altre opere, in primis, per la “Primavera”: lo stupore che si innesca a prima vista, quando non
si trasforma in stordimento da godimento estetico, fa gemmare, non solo nell’animo dei più
eletti, sentimenti di schietta curiosità indagatrice. Ed è quest’aspetto che fa di Botticelli un “pittore-filosofo”: egli dialoga con l’osservatore, anche
a distanza di secoli, e, come un superstite Socrate,
continua a porgergli non risposte spurie ma domande infinitamente aperte sulla bellezza, disseminata
sul mistero della vita.
Da questo punto di vista, lo “sguardo” di Botticelli
si squaderna su una verticalità impressionante: la sua immaginazione scorre e si manifesta
su una linea che unisce la terra e il cielo, anzi
- alla maniera di Dante - l’abisso della Terra e
la profondità del cielo, l’Inferno e il Paradiso. Ne
sono eloquente testimonianza i disegni nonché
la mappa del suo “Inferno” da un lato e, dall’altro,
la “Natività mistica”.
L’“Inferno” è la rappresentazione drammatica dell’orrore e della dannazione cui sono condannate
le anime “prave”, conclusione logica (si potrebbe dire), oltre che metafisica, di una vita terrena trascorsa nel vizio e nel peccato.
La “Natività mistica” ne diviene il controcanto,
per il credente e per tutti gli uomini di buona volontà. Quest’opera si staglia, così, come la controfacciata
della mappa infernale: all’imbuto tenebroso dell’“Inferno“
si contrappone la luce serena di una rappresentazione
anch’essa concepita a mo’ di mappa, questa volta celestiale. Il dipinto è, sostanzialmente, l’illustrazione dell’episodio cruciale dell’incarnazione
di Cristo, con i personaggi che non smettono
di raccontare all’umanità e in eterno il miracolo del Natale, la discesa sulla terra di Chi vi è
stato inviato “in missione“.
Il gruppo centrale dell’opera, fermato nell’iconografia più tradizionale, di tipo pressoché medioevale, pur rappresentando la “scena madre“ del
dipinto, si slarga in una visione prefigurante l’auspicio che alberga nel cuore dell’insegnamento evangelico, l’“amicizia“ finale tra Terra e Cielo,
tra Umanità e Divinità, così come il Libro della
Rivelazione la preconizza:
“Ecco la dimora di Dio con gli uomini!
Egli dimorerà tra di loro
ed essi saranno suo popolo
ed egli sarà il “Dio-con-loro”.
E tergerà ogni lacrima dai loro occhi;
non ci sarà più la morte,
né lutto, né lamento, né affanno,
perché le cose di prima sono passate”.
(IV, 3-4)
Il genio dell’allievo prediletto di Filippo Lippi raggiunge in questo contesto il suo apice. Al carosello degli angeli in cielo, gloriosamente festanti in un tripudio di ramoscelli d’olivo, corone e
continua nella pag. 40
Bollettino diocesano:
Prot. n. VSC 40A/ 2016
DECRETO DI NOMINA DEI MEMBRI DEL C.D.A
DELL’ISTITUTO DIOCESANO PER IL SOSTENTAMENTO DEL CLERO
A seguito della scomparso del rag. Italo Savo già Consigliere e Vice-Presidente dell’Istituto Diocesano per il Sostentamento del Clero, si rende
necessario reintegrare il Consiglio di Amministrazione e nominare il nuovo Vice-Presidente di detto Istituto. A norma dell’art. n° 7 dello Statuto
dell’Istituto Diocesano per il Sostentamento del Clero (=I.D.S.C.) della Diocesi di Velletri-Segni, approvato dal Ministero dell’Interno in data 23.04.1987
e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 21.05.1987,
NOMINO CONSIGLIERE DELL’I.D.S.C.
Dott. Antonino Paolo DI CECCO, nato a Montichiari il 20.02.1947
VICE-PRESIDENTE dell’I.D.S.C.
Avv. Carlo PALLICCIA, nato a Roma, il 21.10.1954
Il Consiglio di Amministrazione dell’Istituto Diocesano Sostentamento per ilo Clero risulta ora così composto
Presidente:
Mons. Paolo PICCA, designato dal Clero, nato a Velletri il 12.03.1938
Vice-Presidente: Avv. Carlo PALLICCIA, nato a Roma, il 21.10.1954
Consigliere:
Consigliere:
Consigliere:
Don Paolo LATINI, designato dal Clero,
nato a Valmontone il 08.12.1983
Rag. Ermenegildo CALICIOTTI, nato a Velletri il 07.09.1960
Dott. Antonino Paolo DI CECCO,
nato a Montichiari il 20.02.1947
Velletri, 16.11. 2016
Il Cancelliere Vescovile,
Mons. Angelo Mancini
+ Vincenzo Apicella,
vescovo
nastri svolazzanti, corrisponde un immaginario
cerchio in terra che fa capo alla Sacra Famiglia
e indulge in un incontro di tipo molto ravvicinato,
con baci e abbracci di comunione, tra angeli e
uomini virtuosi (cinti i capi di corone d’olivo e,
perciò, “laureati”).
Auspice il “lieto evento” della nascita del divino Bambino, una commozione indicibile sommuove l’intero universo (qui rappresentato dalla terra e dal cielo) e gli angeli si promuovono
messaggeri di pace universale, che, come in un
impossibile e pur vero “congresso”, sottoscrivono
con l’umanità redenta il definitivo protocollo della riconciliazione universale. Mai era stato pronunciato un discorso più grande, pardon, mai
era stato raffigurato, né
mai sarà rappresentato, un
auspicio più “metanoico“: il
cielo, grazie all’intercessione divina, bacia la terra,
tutto si ricompone secondo
un ordine primordiale.
Persino la natura, nel dipinto rappresentata dagli alberelli, che, come un colonnato
berniniano, recingono la
Grotta, partecipa a questa
pacificazione universale per
la gloria nell’alto dei cieli e
per la pace tra gli uomini in
terra.
La Grotta, sì la novella Chiesa
appena “inaugurata”, ha
nel fondo un’apertura, a mo’
di finestra e proietta la sua
luce anche sul lato retrostante
a significare l’onnidirezionalità
della buona Novella.
Davanti, su questo primo
“sagrato” e sotto un “protiro” ligneo, contro qualsiasi
legge prospettica (e, in
questo frangente secondo
la più tipica iconografia
medievale), torreggia, in
intima e materna contemplazione, la Vergine, vestità di regale fulgore e
ammantata di celeste divinità, intanto che il suo
Bambino mostra la pienezza della sua vitalità,
volgendosi verso di Lei e già
tradendo la forza escatologica della sua presenza.
Mentre il bue e l’asinello fanno il loro dovere,
nella loro indefessa indifferenza, Giuseppe, accovacciato ad uovo, è preso nel torpore di una stanchezza forse insostenibile.
A sinistra, sullo stesso piano, impavidi Re Magi,
guidati da un angelo in rosa, si prostrano rico-
noscendo il Sovrano Bambino e, omaggiandoLo
da par loro, propaleranno, inviati specialissimi,
la notizia del miracoloso evento a tutto il mondo.
A destra, dirimpettai, due pastori si genuflettono ed a uno di questi un angelo in bianco volge la testa verso la grotta quasi a sollecitarlo
ad osservare, ammirare e non più dimenticare
ciò che vedono i suoi occhi: l’umanità più semplice è presente, pronta e in prima fila ad accogliere e ospitare il Redentore.
In primissimo piano, tre coppie di figure,
beneauguranti, celebrano, in simbiotiche pose
e ornate di festosi cimeli, l’attesa Venuta e, insieme, l’insperata, ecumenica riappacificazione.
la pacificazione.
Nascosto negli anfratti delle rocce, in forma di
piccoli diavoli, il male, al cospetto di cotale avvenimento, si sotterra momentaneamente sconfitto.
Quest’opera racconta, nella suggestione d’immagini sostenute da colori vibranti di luce, il genio
di Botticelli, il quale, pur non abbandonando completamente i canoni della pittura medievale (rispetto del principio gerarchico delle figure, piani perlopiù sbalzati frontalmente e in parallelo, prospettiva di proposito accantonata) realizza “il”
capolavoro, che, per forza di contenuti e di messaggi, supera la “Nascita di Venere” e la “Primavera”:
è un lascito testamentario non sempre riconosciuto e considerato.
Botticelli, dunque, ha interrogato
l’abisso con le illustrazioni del
suo “Inferno” e si è posto in
ascolto del divino: due operazioni solo apparentemente
antitetiche perché fuse nell’unico
intento di capire il mondo e
l’uomo, quel mondo soprattutto, che, ai suoi tempi, pur
così gravidi di presenze e opere geniali 1 si prestava agli estri
avventurosi della politica2.
Tutto ciò, forse, è il proscenio invisibile dal quale è scaturito il prodigio della “Natività
mistica”, mistica per la complessità della sua simbologia
e per la dimensione del
sacro verso cui il Botticelli invoca la contemplazione di chi
la osserva.
1
Il Beato Angelico termina gli affreschi nel convento di San Marco.
Filippo Lippi conclude gli affreschi nel duomo di Prato. Andrea
del Verrocchio dipinge, forse con
l’aiuto di Leonardo e dello stesso Botticelli, il Battesimo di
Cristo. Perugino, Ghirlandaio,
Botticelli, Cosimo Rosselli e
altri terminano la decorazione della Cappella Sistina.
2
Maometto II invade i domini veneti fino all’Isonzo e al Tagliamento.
Congiura dei Pazzi. Calata di Carlo
VIII, che entra a Firenze.
Savonarola muore sul rogo.
Gli angeli, di bianco, verde e rosso vestiti, rispettivamente deputati a rappresentare le virtù teologali della Fede, della Speranza e della Carità,
paiono gli stessi discesi dalla sommità della capanna, lì dove, tutti e tre sorreggendo un corale, intonavano l’inno natalizio della glorificazione e del-
Note sull’opera:
Tempera su tela, cm 108,6 x 74,9,
National Gallery Londra,
Opera firmata e datata 1501.