il matrimonio nell`antica roma ivh
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il matrimonio nell`antica roma ivh
Il matrimonio nell’antica Roma A cura degli studenti delle classi IV B e IV H con la collaborazione dei proff. Anna Paola Bottoni e Christian Vetrugno Anno scolastico 2015-2016 Familia principium urbis, et quasi seminarium rei publicae (Cicerone, De officiis) Il matrimonio, che a Roma era considerato alla base dell’istituto della famiglia, consisteva per i Romani in uno stato di fatto, ossia la coabitazione, accompagnato dalla volontà dei due coabitanti, l’uomo e la donna, di vivere nella reciproca fedeltà come marito e moglie. Due erano gli elementi fondamentali del matrimonio a Roma: 1) la coabitazione, ossia la convivenza sotto lo stesso tetto; 2) la maritalis affectio, l’affetto coniugale, ossia la volontà di rispettarsi ed essere reciprocamente fedeli. La convivenza priva di affectio maritalis era considerata concubinato. Il rito nuziale non aveva il fine, come avviene oggi, di sancire il vincolo matrimoniale, ma solo di dare un segno esteriore dell’affectio maritalis che legava i due coniugi. Il rito nuziale (nuptiae) solitamente era preceduto dagli sponsalia, ossia dal fidanzamento. Gli sponsalia erano propriamente una promessa di matrimonio che il futuro sposo faceva alla sposa, donandole come pegno un anello. Ma i due fidanzati non avevano possibilità di scelta: gli sponsalia erano stabiliti dai parenti dei futuri sposi, sulla base di reciproche convenienze economiche e sociali. Un altro segno dell’affectio maritalis erano i doni offerti dallo sposo alla sposa. a garanzia del compimento della promessa di fidanzamento. Se il fidanzato rinunciava al matrimonio perdeva i beni donati alla sposa a titolo di caparra matrimoniale. Il fidanzamento non obbligava al matrimonio, però produceva i seguenti effetti giuridici: 1) lo sposo poteva agire in giudizio per tutelare l’onore della sposa; 2) lo sposo poteva accusare la sposa di adulterio, se questa avesse tradito l’impegno di fedeltà reciproca; 3) era vietato contrarre altri sponsalia; 4) era acquisito il consenso del pater familias di entrambi gli sposi alle nozze. I requisiti giuridici affinché il matrimonio fosse valido erano i seguenti: 1) lo status libertatis, ossia la condizione di libertà personale: 2) lo ius connubii, ossia il diritto al matrimonio, che era riconosciuto solo ai cives. I patrizi non poterono sposare i plebei e viceversa fino alla lex Canuleia del 445 a. Cr.; 3) l’idoneità fisica: per i maschi l’età minima per contrarre matrimonio era fissata ai 14 anni, per le femmine ai 12 anni; 4) l’inesistenza di un precedente matrimonio, perché il matrimonio romano era monogamico; 5) il rispetto del tempus lugendi per la vedova, che non poteva contrarre matrimonio se non decorsi dieci mesi (poi dodici) dalla morte del marito; 6) il consenso dei rispettivi patres familias dei due sposi. Tre erano le forme classiche del matrimonio, il matrimonium cum manu, che si aveva quando la donna entrava a far parte della famiglia del marito: 1) la confarreatio: era la forma di matrimonio solenne propria della classe patrizia e consisteva nella consumazione rituale di una focaccia di farro da parte dei due sposi davanti al pontefice massimo; 2) la coemptio: consisteva nell’acquisto della sposa da parte dello sposo, una sorta di contratto che lo sposo stipulava con il padre della sposa; 3) l’usus, ossia la coabitazione ininterrotta dei due sposi per un anno intero. Dopo il sacrificio rituale la sposa pronunciava la formula: «Ubi tu Gaius, ego Gaia». Seguiva un banchetto nella casa del pater familias. Il divorzio, che conobbe una notevole diffusione alla fine dell’età repubblicana e durante l’impero, era detto repudium, se la separazione era voluta dal marito, divortium se voluta da entrambi i coniugi. Alle donne, almeno in un primo tempo, non era permesso divorziare. Una legge antichissima che risaliva a Romolo permetteva al marito il ripudio in questi tre casi: 1) in caso di adulterio della moglie; 2) se la moglie avesse avvelenato i figli (probabile allusione al procurato aborto); 3) se fosse stata scoperta ad aver bevuto vino (la legge di Romolo parla di sottrazione delle chiavi della cantina, perché alla donna in età arcaica era vietato bere vino). In assenza di questi tre motivi il repudium del marito veniva punito con la confisca dei beni. In seguito fu permesso anche alla moglie il repudium del marito, se questi l’avesse tradita o l’avesse fatta prostituire o tenesse in casa una concubina o avesse attentato alla vita di lei.