l`archeologia, i musei, le repliche

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l`archeologia, i musei, le repliche
Università degli Studi di Palermo
Dipartimento di Progetto e Costruzione Edilizia
AGATHÓN
Maria Clara Ruggieri Tricoli
L’ARCHEOLOGIA, I MUSEI, LE REPLICHE
1
R C A P I A
P h D
M O N O G R A P H I E S
2 0 1 0
Recupero Contesti Antichi e Processi Innovativi dell’Architettura
AGATHÓN
RCAPIA PhD Monographies
Recupero dei Contesti Antichi
e Processi Innovativi dell’Architettura
EDITOR’S FOREWORDS
1
2010
Dipartimento di Progetto e Costruzione Edilzia
Università degli Studi di Palermo
Collana di monografie a cura di
Alberto Sposito
Comitato Scientifico
Alfonso Acocella (Università di Ferrara), Tarik Brik
(E.N.A.U., Tunis), Tor Broström (Gotland University,
Visby), Josep Burch i Rius (Universitat de Girona),
Giuseppe De Giovanni (Università di Palermo), Maurizio
De Luca, Gillo Dorfles, Petra Eriksson (Gotland
University, Visby), Maria Luisa Germanà (Università di
Palermo), Giuseppe Guerrera (Università di Palermo),
José Madrigal (Universitade de Lisboa), Antonio Pizza
(Universitat de Barcelona), Alberto Sposito (Università
di Palermo), Maria Clara Ruggieri Tricoli (Università di
Palermo), Marco Vaudetti (Politecnico di Torino).
Ricerca effettuata con fondi
di Ricerca Scientifica PRIN 2008
Comitato scientifico del progetto
di interesse nazionale PRIN 2008
Marco Vaudetti (Coordinatore, Politecnico di Torino),
Lucio Altarelli (Facoltà di Architettura “Ludovico
Quaroni”, Roma “La Sapienza”), Luca Basso Peressut
(Politenico di Milano), Franz Prati (Facoltà di
Architettura, Genova), Maria Clara Ruggieri Tricoli
(Facoltà di Architettura, Palermo).
“Agathón”, the Ph.D.’s journal collecting the best of the works concerning the renovation and the
enhancement of ancient contexts, has known a growing success among Institutions and both Italian and foreign researchers. This is a promising achievement to all of us of the editorial staff, of the Scientific Board,
the teaching Body and the authors of all published contributions. The choral pattern chosen in the four sectors, which recalls the Greek city, has certainly contributed to create this appreciation: the Agorá, like the
central space in the pólis, for the guest contributions; the Stoá, the porch in which the philosopher Zeno used
to teach to his disciples, for the Ph.D. Teachers’ contributions; the Gymnásion, the place of the endeavour for
the young Greeks who trained their bodies and minds, is the section meant for the doctoral candidates; eventually, the Sekós, i. e. the part of the house where the youth used to dwell, which is described by Plato in his
Republic, is assigned to young graduates.
Thus, we created a common approach to the topics dealt with and the related disciplines; this shared
and plural approach is testified by the large amount of applications with articles to be published in the various issues. Hence the need for the editorial staff to ensure a monographic and multi-disciplinary area: a
syllogé, meant as an anthological collection of scientific writings, concerning an author’s or a group of
authors’ production, as a cultural and literary gleaning of the spikes left over a field after the harvest and,
therefore, as a collections of topics not entirely and not always of secondary relevance, presented as curiosities as well.
This first monographic issue, which will differ by its year of publication, has an emblematic title Archaelogy, Museums, Replicas; it concerns the field of museography and archaeology, with a particular reference to sculpture and ancient architecture of the classical period, dealing with a peculiar aspect: the replica or the copy of the work of art, in its different metaphors: as an icon, as an artistic substitutus, as a souvenir, as a substitute for the archaeological object, as a technologic simulacrum, as an architectural, urban
and archaeological context. The author, Maria Clara Ruggieri Tricoli, passionate, curious and relentless researcher, develops the treatise in three parts: she specifies the role of the replicas, which have dealt with tradition and still remain in modernity, though with different meanings; as a specific case study, she deals with
the Erechtheum in Athens, a mythic monument which dates back to the last decade of the 5th century BC, studied, drawn, painted, replicated, rebuilt, demolished, restored and, as one can see in the appendix, repeatedly imitated and regretted. The numerous and qualified publications of the Author, along with the growing
number of her readers she has beyond the National boundaries, the research and the study of references deriving from an International domain, and last but not least, the clear style of its text, contribute to the success
of this monography, to its high quality and, certainly, to the readers’ appreciation.
Alberto Sposito
Redazione
Maria Clara Ruggieri Tricoli e Aldo R. D. Accardi
Traduzioni in inglese
Giampiero Riggio
Editore
OFFSET STUDIO
Progetto grafico
G. B. Prestileo e M. C. Ruggieri Tricoli
Finito di stampare
nel mese di Dicembre 2010
da OFFSET STUDIO S.n.c., Palermo
Per richiedere una copia in omaggio della monografia,
rivolgersi alla Biblioteca del Dipartimento di Progetto e
Costruzione Edilizia, tel. 091.23896100; le spese di spedizione sono a carico del richiedente.
La monografia è consultabile sul sito
www.contestiantichi.unipa.it
INDICE
PRESENTAZIONE: DELL’AURA E DI ALTRI MITI di Alberto Sposito..............................................................3
1 - ALLE ORIGINI DELLA MUSEOGRAFIA ARCHEOLOGICA: IL RUOLO DELLE REPLICHE................................11
2 – UNA SINTESI IN PROSPETTIVA: LE REPLICHE FRA TRADIZIONE E ATTUALITÀ........................................53
In copertina: Erechtheion, Westseite, riconfigurazione di
Georg Niemann (da Josef Bühlmann, Allgemeine
Hochbaukunde, 1901).
3 – UN CASO DI STUDIO: LE REPLICHE NELLA STORIA DELL’ERETTEO......................................................73
In retrocopertina: Léon Ginain, Kóre dell’Eretteo, riconfigurazione, dettaglio del volto.
APPENDICE: PER UN’ICONOGRAFIA DELLE KÓRAI, TRA IMITAZIONE E COPIA...........................................138
1
ALLE ORIGINI
DELLA MUSEOGRAFIA ARCHEOLOGICA:
IL RUOLO DELLE REPLICHE
a copia: questo mostro della museagrafia,
sempre esecrato, sempre usato. Quali
siano le ragioni dell’esecrazione è abbastanza chiaro: esse si situano tutte all’interno del
mito dell’autenticità, e di riflessioni sulle cose
vere e sull’aura, che, pur ponendosi a fondamento della genesi stessa dei musei, poco hanno
a che fare con le esigenze didattiche di questi
ultimi. Di contro, quali siano le ragioni di un
uso diffusissimo, risulta un concetto molto
meno storicamente esplorato. Queste note sono
dedicate ad un esame del problema, con particolare attenzione alle copie attinte dall’archeologia e, soprattutto, dalle arti plastiche dell’antichità.
L
La copia come icona
I musei archeologici convivono da sempre con
il concetto di copia, tanto più accettato nei
tempi passati, quando altri sistemi di diffusione
dell’immagine antiquaria (in ispecie le incisioni) erano poco praticati, ma anche, qualora
accessibili, giustamente ritenuti insufficienti, in
particolar modo per l’arte plastica, a comprendere appieno la forma o le qualità estetiche di
reperti conservati in altri luoghi, spesso a
distanze proibitive per la lentezza dei trasporti o
per il costo e la fatica dei viaggi.
L’arte della copia aveva avuto inizio durante l’Ellenismo ed era stata poi ampiamente praticata a Roma, ove la maggior parte delle riproduzioni giungeva dalla Grecia. Torna ad affermarsi nella nostra epoca soprattutto per le statue, nello stesso materiale - marmo - o in mate-
1 - Peter Claesz, Natura morta con Spinario, olio su tela
(1628, Amsterdam, Rijksmuseum).
riale diverso - bronzo, creta, gesso o scagliola e già durante il Rinascimento ne parlano lo stesso Vasari e Giovan Battista Armenini nei De’
veri precetti della pittura (1587)1. A quei tempi,
come si evince dalle vicende di uno dei maggiori collezionisti italiani, il giureconsulto
padovano Marco Benavides (1489-1582)2, il
bianco dei gessi non era particolarmente amato:
Benavides stesso, che conservava le copie nella
propria biblioteca, le faceva dipingere in colore
scuro, ad imitazione del bronzo, un espediente
che è stato praticato, fra alti e bassi, in ogni
epoca della lunga storia dei calchi.
A partire dalla fine del Cinquecento, è la
stessa passione per le anticaglie, unita al gusto
della mistificazione, tipico del Manierismo, a
condurre ad un continuo gioco di scambi fra
referente e segno: non si cerca soltanto il pezzo
archeologico autentico, ma anche la sua icona.
Tant’è vero che gli eruditi del tempo, i quali a
volte non possono consentirsi le commissioni
artistiche dei nobili, riempiono i loro studioli
dei classici soprammobili in forma di caliga o
di sandalo romano, di statuette dello Spinario,
di lampade ad olio copiate dai reperti antichi3.
L’uso si estende, in parallelo alla diffusione
delle Wunderkammern, ma con ben altri mezzi
e risultati, nei cabinets d’amateur delle grandi
corti europee, per esempio presso la corte di
Francia, ove già Francesco I (1494-1547) aveva
incaricato Francesco Primaticcio di procurargli
per il suo nuovo castello di Fontainebleau una
copia del Lacoonte, scoperto nel 1506, e di altre
statue antiche4, fra le quali emergevano per
importanza anche i bassorilievi della Colonna
1
Questi brevi cenni traggono essenzialmente spunto dalla lettura di F. HASKELL e N. PENNY, L’antico nella storia del
gusto. La seduzione della scultura classica (New Haven e Londra, 1981), ed. it. Einaudi, Torino 1984, p. 39 ss. con part.
riguardo alle pp. 101-117. A questo testo rinviamo per ogni ulteriore approfondimento sui connotati estetici del collezionismo delle statue antiche e delle loro copie.
2
I. FAVARETTO (cur.), Marco Mantova Benavides, il suo museo e la cultura padovana del Cinquecento, Accademia
Patavina di S.L.A., Padova 1984. Recentemente è stata proposta una ricostruzione “virtuale” della collezione Benavides
nella sua scanzía (I. FAVARETTO, E. SOCCAL e M. L. BIANCO, «Nuove proposte per la ricostruzione virtuale di musei antichi: i casi Grimani e Mantova Benavides», in A. CORALINI e D. SCAGLIARINI CORLÀITA (curs.), Ut Natura Ars: Virtual
Reality e Archeologia, atti della Giornata di Studi (Bologna, 2002), Un. Press Bologna, Imola 2002, pp. 123-134).
3
Se ne vedano numerosi esempi in M. C. RUGGIERI TRICOLI, Il richiamo dell’Eden, Vallecchi, Firenze 2004, p. 362 ss.,
ma ricordiamo anche il celebre episodio del “Museo cartaceo” di Cassiano dal Pozzo (1588-1657), che costituisce una
prima alternativa “mediatica” alla mancanza di una vera raccolta antiquaria (The Paper Museum of Cassiano dal Pozzo,
catalogo della mostra, British Museum, Londra 1993).
4
Le fonti coeve nominano copie della Colonna Traiana, del Marco Aurelio, della Cleopatra, del Nilo, del Tevere, ecc.
fino ad un numero di centoventicinque. Nuovi ed importanti approfondimenti sulla vicenda in C. OCCHIPINTI, Primaticcio
e l’arte di gettare le statue di bronzo. Il mito della ‘seconda Roma’ nella Francia del XVI secolo, Universitalia, Roma
2010.
11
1
2
2 - In alto: Willem van Haecht, Il cabinet d’amateur di
Cornelis van der Geest (1628, Anversa, Rubenhuis), dettaglio. Si notino, da sinistra a destra: Cerere, Venere e
Cupido di Georg Petel, oggi all’Ashmolean Museum di
Oxford, Sileno, copia dell’Apollo del Belvedere,
Giunone, copia dell’Ercole Farnese. Le attribuzioni sono
di Annalisa Scarpa Sonino. Interessante l’assoluta indifferenza tra statue vere e copie, tra statue moderne ed
antiche.
3 - In basso: Michael Sweert, Lo studio del pittore, olio
su tela (1650 c.a, Amsterdam, Rijksmuseum).
12
Traiana5, da copiare e gettare in bronzo.
L’impresa non era facile, perché, per realizzare
la copia richiesta del Lacoonte, una fusione in
bronzo a cera persa, fu necessario mettere in
atto un’opera di intensa diplomazia presso la
corte pontificia6. In seguito, un altro re di
Francia, Luigi XIV (1638-1715), fu un appassionato collezionista di copie, poiché voleva
possedere, come diceva lui stesso, tout ce qu’il
y a de beau en Italie7.
La collezione tardo-umanistica e barocca è
ancora centrata sull’idea di un microcosmo
quale specchio dell’intero macrocosmo, la pars
pro toto, e, nello stesso senso, ancora verso la
fine del Seicento anche il Principe Johann
Adam von Liechtenstein (1657-1712) ordina
per il suo palazzo di Vienna8 la versione in bronzo di alcuni antichi busti degli Uffizi allo scultore fiorentino Massimiliano Soldani (16461740). Dello stesso Soldani sono anche le copie
in bronzo della ellenistica Venere Medici
(Tribuna degli Uffizi) e del Fauno Danzante
(Uffizi) realizzate nel 1711 per John Churchill,
primo Duca di Malborough, ancora visibili
nella Hall della dimora avita di Blenheim.
Eseguire una copia in materiale nobile, ma
anche in semplice gesso, era un’impresa, per i
tempi, estremamente dispendiosa, ma i nobili,
come si vede dai loro compiaciuti ritratti e dai
cosiddetti portraits of cabinet9, amavano l’ostentazione dei modelli di arte antica, quale
segno di un’adesione agli ideali della cultura
classica.
Non ci si ponevano né problemi etici né
problemi estetici, non ci si intrigava sul valore
dell’autenticità né si indagava a fondo sull’origine di opere che spesso erano dei puri falsi: la
pratica of imitating ancient work was normal10,
e vorremmo sottolineare che non sempre si trattava di “imitare”, un termine che già di per sé è
estremamente indicativo, implicando una certa
percentuale d’interpretazione artistica personale
da parte del copista, ma alle volte anche di “integrare” o, più semplicemente di “copiare inventando”. In ogni caso, i calchi per le statue11, così
come i lucidi allora in uso per riprodurre i quadri, sembrano costituire un buon deterrente agli
eccessi ed ai fraintendimenti di quanti copiavano
“a vista”: il calco, insomma, era una procedura
atta a condurre ad una maggiore perfetione12.
In definitiva, però, la maggior parte dei collezionisti non si ponevano un eccessivo numero
di problemi intorno al concetto di “originale” e
di “copia”: l’unica cosa che contava era il desiderio di possedere degli esemplari di antiquaria
nelle proprie gallerie o nei propri giardini. In
questi ultimi - e parliamo soprattutto
dell’Inghilterra - se, nel periodo elisabettiano e
giacobita, era stata ampiamente in uso la collocazione di statue di marmo, copie dell’antico o
originali13, fin dalla fine del Seicento, con la diffusione della tecnica della colata a piombo sperimentata nelle Fiandre, avevano avuto grande
diffusione i cosiddetti lead casts14, e cioè i calchi in piombo attinti da reperti archeologici o da
altre celebri sculture. La moda di questi particolari calchi era stata seguita soprattutto dopo l’insediamento dalla casa di Hannover (1714).
Questa aspirava a mostrare, attraverso il ricorso
alla statuaria classica, il novo ordo imposto sulla
nazione turbolenta15. Unico inconveniente: il
colore eccessivamente scuro degli esemplari realizzati con questa tecnica.
Durante il sec. XVIII, calchi, in gesso per
le case ed in piombo per i giardini, erano prodotti in gran numero, su scala quasi industriale,
dagli scultori Henry (1703-1781) e John Cheere
(1709-1787)16, i quali, nel solo 1756, ne eseguirono ben 98 per il palazzo reale di Queluz, in
Portogallo, e dai fratelli Benjamin (†1766) e
5
C. D’AMATO, «La Colonna Traiana: da simbolo ideologico a modello materiale. Manifattura e diffusione dei calchi», in
F. FESTA FARINA (cur.), Tra Damasco e Roma: l'architettura di Apollodoro nella cultura classica, “L’Erma” di
Bretschneider, Roma 2001, pp. 227- 244, in part. p. 228.
6
F. BURANELLI (cur.), Laocoonte: alle origini dei Musei Vaticani. Quinto Centenario dei Musei Vaticani, 1506 - 2006,
“L'Erma” di Bretschneider, Roma 2006, pp. 150-151 e S. SETTIS, S. MAFFEI e L. REBAUDO, Laocoonte, fama e stile,
Donzelli, Roma 1999, p.13 ss.
7
F. HASKELL e N. PENNY, L’antico nella storia del gusto. La seduzione della scultura classica, cit., p. 46 ss. Per la trattazione generale delle collezioni francesi dell’epoca cfr.: A. SCHNAPPER, Le Géant, la licorne et la tulipe. Collections
françaises au XVIIe siècles, Flammarion, Parigi 1988. Per Luigi XIV in part. da p. 248.
8
Dal 1938 Lichtenstein Museum.
9
Se ne possono vedere una grande quantità nelle belle immagini di A. SCARPA SONINO, Cabinet d’amateur. Le grandi collezioni d’arte nei dipinti dal XVII al XIX secolo, Skira, Milano 1992.
10
N. H. RAMAGE, «Restorer and Collector: Notes on Eighteenth-Century Reacreations of Romans Statues» in E. K. GAZDA
(ed.), The Ancient Art of Emulation: Studies in Artistic Originality and Tradition from the Present to Classical Antiquity,
Un. of Michigan Press, Ann Arbor, 2002, pp. 61-78.
11
Sia che si dovesse eseguire una copia in materiale povero, sia che si dovesse eseguire una copia in marmo, il calco costituiva sempre il punto di partenza iniziale. Per le copie in marmo il calco in gesso veniva utilizzato per l’infissione di chiodini-guida, ma è evidente che una certa percentuale di elaborazione personale al momento della scultura effettiva non
poteva mai essere esclusa.
12
Vedi per es. D. L. SPARTI, «Copie dipinte nell’educazione artistica seicentesca in Italia», in M. DERAMAIX et AL. (éds.),
Les Académies dans l’Europe humaniste: idéaux et pratiques, Actes du Colloque International (Parigi, 2003), Droz,
Ginevra 2008, pp. 391-423, in part. p. 398.
13
L. W. HEPPLE, ‘The Museum in the Garden’: Displaying Classical Antiquities in Elizabethan and Jacobean England,
“Garden History”, 2 (2001), pp. 109-120.
14
P. EYRES e F. RUSSELL, «The Georgian Landscape Garden and Victorian Urban Park: Introduction», in P. EYRES e F.
RUSSELL (eds.), Sculpture and the Garden, Ashgate, Aldershot 2006, pp. 39-50, in part. p. 39.
15
B. ARCISZEWSKA, «Re-casting George I: Sculpture, the Royal Image and the Market» in C. SICCA e A. YARRRINGTON,
The Lustrous Trade: Material Culture and the History of Sculpture in England and Italy, c.1700-c.1860, Leicester Un.
Press, London 2000, pp. 27-48.
16
P. J. AYRES, Classical Culture and the Idea of Rome in eighteenth-century England, Cambridge Un. Press, Cambridge
1997, p. 140 ss. Sui commerci dei Cheere si vedano M. I. WEBB, Henry Cheere, Sculptor and Businessman and John
Cheere - I, “The Burlington Magazine”, 664 (1958), p. 232 e pp. 235-240 e IDEM, Henry Cheere, Sculptor and
Businessman and John Cheere - II, “The Burlington Magazine”, 665 (1958), pp. 274-279; M. CRASKE, «Sir Henry Cheere
and the creation of a new commercial world of sculpture in eighteenth-century London» in C. SICCA e A. YARRRINGTON,
The lustrous trade: material culture and the history of sculpture in England and Italy, cit., pp. 94-113.
4 - Augustin Terwesten, Academia Virtuosorum Berolini
instauratur, (1696, da R. L. Colella, Götter und Helden
für Berlin, 1995). Si notino, sulla destra, le copie
dell’Ercole Farnese (allora a Palazzo Farnese, oggi a
Napoli, Museo Nazionale Archeologico) e del Lacoonte
(Roma, Musei Vaticani, Cortile del Belvedere). Al centro,
contro la parete, è identificabile anche la Venere Medici
(Firenze, Uffizi). Il confronto con le statue reali dimostra
che la scena è stata stampata a rovescio.
Thomas Carter (†1756). Si è trattato di una
pacifica invasione17, spesso sottovalutata nella
sua enorme portata culturale, poiché l’atteggiamento amatoriale, ma per molti versi ingenuo,
che abbiamo appena descritto, doveva ben presto trovare qualche forma di evoluzione, assumendo un à plomb accademico.
La copia come substitutus artistico
La necessità di un’accademia dotata di copie
per lo studio del disegno viene motivata ed istituzionalizzata da Antoine Chrysostome
Quatremère de Quincy (1755-1849) nel suo
Considérations sur les arts du dessin en
France, suivies d’un plan d’Académie ou d’École Publique et d’un Système d’Encouragement (1791)18. Lo stesso Quatrèmere, d’altronde, era già passato, nelle sue stesse teorie,
dal concetto di Idéal a quello di Imitation, come
già notavano gli studiosi ottocenteschi del suo
pensiero19, improntato ad un’idea etica ed edu-
cativa della presenza delle opere d’arte antica
all’interno dei musei20. In effetti - sottolinea
Didier Maleuvre21 - per Quatrèmere i musei non
sono il luogo della cultura originale, ma di una
cultura epigona e, nello stesso senso, i musei di
antichità non sono i luoghi dell’arte antica, ma
della fenomelogia dell’antichità, la quale ultima, con tutta evidenza, può essere rappresentata in molti modi diversi, anche con delle imitazioni o con delle repliche. Le considerazioni
dell’illustre architetto, critico ed archeologo
non costituiscono dunque che l’ultimo atto di
una lunga evoluzione: essa deve molto, com’è
evidente, non soltanto all’idealismo hegeliano,
quale diretto referente, ma anche ad una più
duratura e varia esperienza attorno alla percezione delle antichità ed al modo di studiarle e di
esporle.
In Italia, l’Accademia di Francia, costituita
ufficialmente a Roma nel 1666 ed una delle preminenti fra le numerose accademie d’arte esistenti nella città22, possiede già copie di studio
verso la metà del Seicento, tanto è vero che ne
invia alcune all’Accademia dell’Aja: è evidente, infatti, che proprio i paesi del Nord-Europa,
lontani per forza di cose dalle grandi collezioni
di reperti autentici, sentano maggiormente il
bisogno di possedere delle riproduzioni, anche
per motivi di studio. Inoltre, soprattutto nei
paesi di lingua tedesca, le cui istituzioni accademiche avrebbero avuto rilevante influenza
sulle scelte di altri paesi europei, le copie divengono una risposta, non sempre considerata di
ripiego, alla generalizzata tendenza a considerare le arti plastiche come il vero emblema della
produzione artistica della classicità.
Tale tendenza trova definitiva giustificazione negli scritti di Johann Joachim Winckelmann
(1717-1768), in ispecie nella Geschichte der
Kunst des Altertums (1764), un testo che è talmente intriso di concetti ideali (superiorità dell’arte greca, preminenza della scultura con centralità del nudo, candore e monocromia, consapevolezza dell’essere artisti supremi, bellezza
17
M. BARBANERA, Il “Museo dei gessi” di Roma e l’Archeologia classica tra Ottocento e Novecento, “Academia. Buletín de la Real Academia de Bellas Artes de San Fernando”, 100101 (2005), pp. 197-216, in part. p. 199.
18
Leggiamo il brano di Quatremère sulle gallerie di copie in gesso in C. HARRISON, P. WOOD e J. GAIGER (eds.), Art in Theory 1648-1815: an Anthology of Changing Ideas, Blackwell,
Malden 2000, p. 715 ss.
19
R. SCHNEIDER, L’Esthétique Classique chez Quatrèmere de Quincy (1805-1825), Hachette, Parigi 1910, p. 2. Nel volume (p. 17), si sottolinea ampiamente il ruolo sostenuto nel pensiero di Quatramère dall’acquisizione di copie in gesso da parte dei musei europei (per esempio delle copie delle sculture del Partenone inviate al Louvre da Choiseul-Gouffier, per il
quale si veda meglio alla seconda parte di questo testo). Per l’idea di imitazione si veda in particolare: A. C. QUATREMÈRE DE QUINCY, An essay on the Nature, the End and the Means of
Imitation in the Fine Arts, tr. ingl di J. C. Kent, Smith, Elder and Co, Londra 1837. Lo stesso Quatrèmere si era anche occupato di forme militanti di “architettura per l’archeologia”, per
esempio con la sua restitution del mausoleo di Alicarnasso (A. C. QUATREMÈRE DE QUINCY, «Dissertation sur le Tombeau de Mausole, accompagné d’un essai de restitution de ce célèbre monument» in IDEM, Recueil de dissertations archéologique, Le Clerc, Parigi 1836, pp. 109-169).
20
A. C. QUATREMÈRE DE QUINCY, Considérations Morales sur la destination des Ouvrages de l’Art ou de l’Influence de leur Emploi sur le Génie et le Gout de ceux qui le produisent ou
qui le jugent, et sur le sentiment de ceux qui en jouissent et en reçoivent des impressions, Crapelet, Parigi 1815.
21
D. MALEUVRE, Museum Memories: History, Technology, Art, Stanford University Press, Stanford 1999, p. 22 ss.
22
Per la formazione, gli scopi e gli esiti delle accademie resta fondamentale N. PEVSNER, Le accademie d’arte (1940), trad. it. di L. Lovisetti Fuà, Einaudi, Torino 1982.
13
3
universale, libertà, divinità dell’immagine
umana, fine dell’arte antica con Fidia, ecc. ecc.),
che non poteva non diventare, per sua stessa
costituzione, un Vangelo artistico, per quanto
astratto esso fosse23. Com’è noto, lo stesso
Winckelmann, in un Settecento per il quale la
Grecia costituiva ancora una terra incognita,
23
aveva in parte rimosso il problema principale di
tutto il discorso, e cioè quello che le grandi
opere, alle quali aveva ispirato tutto il suo pensiero, fossero esse stesse in massima parte delle
copie, anche se, alla fine della sua Geschichte
der Kunst, si era lasciato sfuggire una frase
estremamente significativa: «Come la donna
amata che dalla riva del mare segue con gli occhi
colmi di pianto l’amato che si allontana […]
anche a me [...] resta solo l’ombra dell’oggetto
dei miei desideri [...] per cui io osservo le copie
degli originali con maggiore attenzione di quanto farei se fossi in pieno possesso di quelli»24.
In effetti, come sottolinea opportunamente
Per comodità di reperimento abbiamo letto Winckelmann nella traduzione inglese, cfr. J. J. WINCKELMANN, The History of Ancient Art Among the Greeks, tr. ingl. di G. H. Lodge,
Chapman, Londra 1850. Ma si veda anche l’edizione italiana del corpus winckelmanniano: Opere di G. G. Winckelmann, Prima edizione completa, Giachetti, Prato 1832.
24
L’insistenza su questa frase in G. PUCCI, Verità della copia nell’estetica antica, intr. al conv. "Verità dell'Estetica" (Società Italiana d’Estetica, Roma, 2008), PDF online, p. 1. D’altro
canto, lo stesso Winckelmann, parlando non della scultura, ma della pittura antica, allude, con obiettività, a coloro che hanno avuto la non frequente occasione di vedere le pitture, evidente riprova delle difficoltà di un’epoca, ma anche della consapevolezza che quest’epoca aveva dei suoi stessi limiti (attingiamo dall’edizione italiana delle opere di Winckelmann, cit.
G. WINCKELMANN, Storia dell’arte presso gli antichi, cit., v. VIII, p. 5).
14
L’Accademia Reale di Danimarca.
5 - Nella pagina a fianco, in alto, a sinistra: Ditlev
Martens, Antiksalen på Charlottenborg, olio su tela,
(1820, Copehagen, Thornvaldsen Museum). In primo
piano, sulla destra, copia del Fauno Danzante (Firenze,
Uffizi) e, subito dietro, il Gladiatore Borghese (Parigi,
Louvre).
6 - In alto, a destra: Ditlev Martens, In der Akademie,
olio su tela, (1821, collezione privata). Si notino, sul
fondo, la copia della statua del Galata morente, ritrovata nel 1623 a Villa Ludovisi ed oggi ai Musei Capitolini,
e, sempre sul fondo, ma a destra, la copia in bronzo del
Mercurio di Giambologna.), preceduta da una copia in
scala molto ridotta di uno dei gruppi dei cosiddetti
Dioscuri di Piazza del Quirinale (noti anche come
Alessandro e Bucefalo ed altri appellativi). Al centro:
una metopa del Partenone in copia. In primo piano,
sulla destra, la Venere Medici degli Uffizi; sulla sinistra
l’Aphrodite Callipygos (Napoli, Museo Nazionale
Archeologico).
7 - In basso, a sinistra: Christen Købke, Parti af
Afstabningssamlingen på Charlottenborg, olio su tela
(1830, Den Hirschsprungske Samling, Copenhagen).
L’addetto al museo spolvera la copia di una delle statue
frontonali mutile del Partenone presenti nel British
Museum (Torso Elgin).
8 - In basso a destra: Julius Exner, Fra Kunstakademiets
figursal, olio su tela (1843, Statens Museum for Kunst,
Copenhagen).
Altre accademie.
9 - In questa pagina, in alto: Pehr Hilleström, Interiör
från Kungl Museum, olio su tavola, (1796,
Nationalmuseum, Rosersbergssamlingen, Stoccolma).
10 - Al centro: Stoccolma, Gustav III Antikmuseum,
sala ove ancora si espongono la statua (autentica)
Endimione (sul fondo), acquistato a Roma dal Re
Svezia nel 1783-84 e le Nove Muse (reintegrazione
Giovanni Volpato).
la
di
di
di
11 - In basso: i gessi superstiti dell’Antikesaal di
Mannheim, inaugurata nel 1763, oggi esposti nei locali
dell’Università. Sul fondo la copia del Lacoonte (Roma,
Musei Vaticani) vista da Goethe nel 1769, fiancheggiata,
a sinistra, da una copia del Torso del Belvedere (Roma,
Musei Vaticani) e, a destra, dal calco dell’Arrotino (o
Attio Navio, o Marsia o Gladiatore Nudo o altri appellativi) realizzato sull’originale degli Uffizi dallo
Schleifer nel 1787. In primo piano, a destra, copie del
Fauno Danzante (Firenze, Uffizi) e dell’Apollo del
Belvedere (Roma, Musei Vaticani).
15
30 - In alto: Tegel, Humboldtschloss. A sinistra: le numerose copie dall’antico sparse negli ambienti progettati
da Friedrich Schinkel. Al fianco della porta, a sinistra,
copia del gruppo del Papirio (Roma, Museo delle Terme,
già collezione Ludovisi); a destra, copia del gruppo di
Peto e Arria (noto anche come Piramo e Tisbe, Fulvio e
sua moglie e altri appellativi, Roma, Museo delle Terme,
già collezione Ludovisi). Contro la parete a sinistra una
delle innumerevoli repliche, realizzate per tutto il corso
dell’Ottocento, del Mercurio seduto con spada e flauto di
Pan, dall’originale di Bertel Thorvaldsen (Copenhagen,
Thorvaldsen Museum). Qui sopra: Karl Friedrich
Schinkel, Vestibulum im Schlosschen Tiegel (da K. F.
Schinkel, Sammlung architektonischer Entwürfe, 1858).
Come si vede, lo stesso architetto aveva previsto di
esporre le copie dei torsi di statue classiche.
31 - In basso: Berlino, Altes Museum, l’originario allestimento di copie nell’Antikesaal. Al centro, in primo
piano, l’Amazzone ferita (copia da una copia da
Policleto, Roma, Musei Capitolini). Subito dietro: la
copia del Gladiatore Borghese (Parigi, Musée du
Louvre) e quella della Venere di Milo (Parigi, Musée du
Louvre). Sul fondo, al centro: copia del Lacoonte (Roma,
Musei Vaticani), a destra, accanto al passaggio, copia
dell’Augusto di Prima Porta (Roma, Musei Vaticani).
Sulla destra, in primo piano, parzialmente visibile,
l’Apollo del Belvedere, copia di una copia romana dell’originale greco in bronzo (Roma, Musei Vaticani).
All’estrema sinistra, la copia di Eirene e Pluto, in una
versione con integrazioni rispetto all’originale
(Monaco, Glyptothek), a sua volta una copia romana
mutila dell’originale greco scolpito da Cefisodoto il
Vecchio per l’Agorà di Atene.
le arti, ma, evidentemente, il primato della statuaria non era semplice da sostenere, specialmente per una nazione come la Prussia, dissanguata dalle guerre, la quale non poteva certo
competere con la conclamata eccellenza di un
museo come la Glyptothek di Monaco (18161830) di Leo von Klenze115. Nella capitale bavarese, che possedeva fin dal 1580 il celebre
Antiquarium fondato da Alberto V, era giunto
infatti un grande tesoro: quello dei marmi di
Aigina, acquistati dall’agente di Ludwig, il pittore, scultore ed architetto Joahnn Martin von
Wagner (1777-1858), e restaurati da Bertel
Tornvaldsen116, la qual cosa non aveva impedito
alla capitale bavarese di dotarsi anche di una
vasta collezione di copie, della quale si sarebbe
poi occupato l’archeologo Heinrich Brunn
(1822-1849), formatosi a Bonn ed a sua volta
maestro di Adolf Furtwängler.
Nello stesso senso, l’eterna nemica, la
Francia, veniva guardata con una certa invidia
per un museo, come il Louvre, che era la gloria
lasciata alla posterità dal testé sconfitto arcinemico, Napoleone. Eppure i Tedeschi, pur invi-
diandone la ricchezza, guardavano al Louvre
anche con occhio critico: Wilhelm von
Humboldt ne aveva stigmatizzato nel 1797 la
scarsa capacità di conservare le opere in buono
stato, mentre nel 1801 il drammaturgo Heinrich
von Kleist (1777-1811) aveva definito il museo
non certo una Schatzkammer o una
Wunderkammer, ma nient’altro che una
Polterkammer (camera del fracasso)117. I
Prussiani forse erano meno ricchi dei Francesi,
ma si sentivano senz’altro più ordinati, più
museograficamente rigorosi e più scientifica-
115
Per tutta la questione dei musei tedeschi di arte antica in generale, dell’adattamento delle loro architetture ai contenuti e dell’importanza, all’interno di essi, dei “modelli”, si può vedere utilmente L. O. LARSSON, Wege nach Süden, Wege nach Norden: Aufsätze zu Kunst und Architektur, Ludwig, Kiel 1998, p. 202 ss.
116
Fra i numerosi testi al riguardo di un momento di spartiacque nel mondo del restauro, vedi per esempio O. ROSSI PINELLI, «Il frontone di Aegina e la cultura del restauro dell’antico a
Roma intorno al 1816» in P. KRAGELUNDE e M. NYKJÆR (eds.), Thorvaldsen: l’ambiente, l'influsso, il mito, “L’Erma” di Bretschneider, Roma 1991, pp. 123-139. Com’è noto, i restauri
di quello che era stato il più grande scultore neo-classico del periodo furono rimossi negli anni Settanta del secolo scorso.
117
P. MCISAAC, Museums of the mind: German modernity and the dynamics of collecting, Pennsylvania State Univ. Press, University Park 2007, p. 59. A questo testo rinviamo anche per
le numerose ed interessanti considerazioni sull’Altes Museum e sul suo stile espositivo.
30
Architetture in copia, statue in copia: il progetto di Friedrich August Stüler per il Neues Museum di Berlino.
32 - In alto, a sinistra: sezione della Sala dei Gessi-Scultura Romana; in alto a destra, sezione del corpo centrale fra le corti con il prospetto interno della scala monumentale, il Portico
delle Cariatidi e l’Ercole Farnese in copia; in basso: sezione trasversale attraverso una delle corti. Si evidenzia la varietà di stili adottati ecletticamente da Stüler a seconda delle opere,
vere o in copia, in esposizione (1840-1845, da F. A. Stüler, Das neue Museum in Berlin, 1862). Sulla destra, al primo piano, la porta con cariatidi che imita vistosamente le cariatidi
arcaicizzanti della Thermenhalle di Postdam, attinte a loro volta dalle cariatidi romane di Villa Albani (vedi Townley Caryatid).
31
28
29
31
mente preparati. Inoltre, le collezioni tedesche
erano frammentarie, ma diffuse su tutto il territorio, costituendo quel profondo tessuto di piccoli, ma efficienti musei di provincia, che ancor
oggi costituisce la caratteristica della Germania
e la sua grande ricchezza culturale.
Mentre dunque a Berlino ci si accontentava di esporre, su altissimi ed enfatizzati piedistalli, un intero Olimpo di copie romane nella
Rotonda (Kuppelhalle), e lo stile, “rarefatto”
per necessità, diventava per definizione lo
“stile di Schinkel”, le copie, in quanto tipi
(Typen) divenivano l’unica soluzione ad un’idea di Archäologische Kunst troppo selettiva e
rigorosa per essere perseguita altrimenti.
Fortunatamente, nel 1819, Federico Guglielmo
III di Prussia aveva fondato la Gipsformerei,
fra l’altro dotata, nel 1822, di una conclamata
copia dell’appena scoperta Venere di Milo118; i
prodotti della Gipsformerei vennero dunque
integrati nel Königliches Museum, finito di
costruire dallo stesso Schinkel nel 1825. Il
museo nasceva nel clima di un neoclassicismo
fortemente ispirato dalle idee di Hegel, per il
quale la rigorosa cronologia non era una stretta necessità, manifestandosi ogni cultura all’interno di precisi confini temporali, privi di una
progressione interna. Una visione idealistica
che, se da un lato eclissava il problema di una
118
lettura storica dell’autentica antichità, dall’altro si prestava a costruire una teoria della cultura antica119.
Diversamente, quando, nel 1837, uno dei
padri dell’archeologia tedesca, Eduard Gerhard
(1795-1867), fenomenale studioso di mitologia,
ma, al tempo stesso, fra gli iniziatori dell’archeologia come metodo scientifico, diventò
responsabile del settore archeologico del
Königliches Museum, si tentò di organizzare
storicamente le collezioni, con lo scopo dichiarato di colmare i vuoti del percorso storico,
secondo una struttura generale improntata al
manuale di Karl Otfried Müller. Gerhard stesso
riteneva che l’archeologia dovesse ormai
distaccarsi dalla visione artistico-dilettantesca
espressa dai tradizionali musei ove l’arte dell’antichità era considerata alla stregua dell’arte
delle altre epoche, che, nel contempo, essa
dovesse uscire dalle panie dell’eccessivo idealismo, che essa dovesse acquisire un linguaggio
scientifico appropriato alla costruzione di una
monumentale Philologie120 e che, infine, soltanto i gessi potessero contribuire, specialmente in
un paese come la Germania, alla costruzione di
un Lehrapparatus (apparato di studio).
Quest’ultimo, se da un lato costituiva un ottimo
strumento per ispirare il sentimento della bellezza e della maestà dell’arte greca, dall’altro
era necessario onde procedere per confronto,
avvalendosi della ricchezza di prospettive concessa da una chiara presentazione di tutte le
copie necessarie121. Si trattava, dunque, di considerare l’Antichità come un repertorio di soggetti storici, da procurarsi come che sia, in originale o in copia122.
Nel luogo, per quanto prestigioso esso
fosse nel suo contesto architettonico raffinato,
la presenza di tante copie non veniva considerata un’anomalia, ma un buon mezzo per suscitare l’ammirazione del pubblico nei confronti
dell’arte classica e per creare delle serie complete di opere che consentissero una storicizzazione facile ed accurata, fungendo da intermediario fra la “vera arte” della Grecia e la stessa
Germania. Quando però, nel 1868, l’architettoarcheologo, allievo di Schinkel, Carl Bötticher
(1806-1889), celebre per i suoi studi sulla “tettonica” dell’architettura greca123, aveva preso la
decisione di riallestire la vasta collezione di
gessi, ormai trasferita al Neues Museum, del
quale fra poco diremo, non più secondo un
ordine cronologico, bensì per temi iconografici, erano sorte grandi proteste da parte dei colleghi archeologi, ma anche da parte dell’allora
Ministro delle Arti, Richard Schöne (18401922), archeologo anche lui. Costoro ritenevano tale ordinamento, basato sull’idea di
La statua era stata scoperta nel 1820 ed era stata portata al Louvre nel 1821 dall’ufficiale Olivier Voutier (G. CURTIS, Disarmed: The Story of the Venus de Milo, Sutton, Stroud 20063).
La copia di Berlino è forse la prima che si sia vista al di fuori di Parigi.
119
D. MALEUVRE, Museum Memories: History, Technology, Art, cit., p. 18 ss.
120
A. DONOHUE, Greek sculpture and the problem of description, Cambridge Univ. Press, Cambridge 2005, p. 14 ss.
121
E. GERHARD, «Archaologischer Thesen», in IDEM (Hsg.), Denkmäler, Forschungen und Berichte als Fortsetzung der Archäologischen Zeitung, G. Reimer, Berlino, 1850, pp. 203-205,
oggi leggibile anche nella trad. ingl. pubbl. in Modernism/Modernity, “Project Muse”, 1 (2004), pp. 173-177, online al sito della John Hopkins University.
122
L. O. LARSSON, Wege nach Süden, Wege nach Norden: Aufsätze zu Kunst und Architektur, cit., p. 210.
123
C. BÖTTICHER, Die Tektonik der Hellenen, V. 1, Einleitung und Dorika, Riegel, Postdam 1844 e v. 2, Riegel, Postdam 1852, V. 3, Jonika mit Einschluss der Attisch-Jonischen Weise.
Korinthiaka, Riegel, Postdam 1852. Per il periodo nel quale si collocano le idee di Bötticher, cfr. M. SCHWARZER, Ontology and Representation in Karl Bötticher’s Theory of Tectonics,
“Journal of the Society of Architectural Historians”, 3 (1993), pp. 267-280 e H. F. MALLGRAVE, Modern architectural theory: a historical survey, 1673-1968, cit., p. 108 ss. Per le idee
di Bötticher si veda anche M. BREITSCHMID, Can architectural art-form be designed out of construction? Carl Bötticher, Gottfried Semper, and Heinrich Wölfflin: a sketch of various
investigations on the nature of the “tectonic” in nineteenth century architectural theory, Architecture Edition, Backsburg 2004. Per l’attività di archeologo svolta ad Atene da Bötticher
e per i suoi scavi dell’Eretteo, si veda alla parte terza di questo testo.
32
Architetture in copia, statue in copia: il progetto di
Friedrich August Stüler per il Neues Museum di
Berlino.
33 - Nella pagina a fianco, a sinistra: veduta interna del
Neues Museum poco dopo la metà del sec. XIX (da Berlin
and Its Treasures, 1867): l’ingresso (Treppenhaus) con la
scala monumentale ed il Portico delle Cariatidi in replica. In primo piano, sulla destra, la copia di uno dei due
gruppi statuari della Fontana di Castore e Polluce (o di
Alessandro e Bucefalo, Roma, Piazza del Quirinale, già
nelle Terme di Costantino). La copia dell’altro gemello si
trovava di fronte. Anche in questo caso, come in altri dettagli del Neues Museum, Stüler trae ispirazione dalle
scelte di Schinkel, che aveva introdotto gli stessi due
gruppi sul coronamento dell’Altes Museum.
34 - A destra: sezione parziale della Treppenhaus (18401845, da F. A. Stüler, Das neue Museum in Berlin, 1862).
Dietro alla copia del gruppo della Piazza del Quirinale,
si vedono le copie delle metope e del fregio del
Partenone, accuratamente disegnate da Stüler. Come si
nota, l’architetto aveva anche previsto di collocare una
copia della Venere di Milo sul podio antistante lo scalone, copia che non è visibile nell’incisione tratta dalla
guida di Berlino.
35 - In questa pagina: veduta interna del Neues Museum
poco dopo la metà del sec. XIX (da Berlin and Its
Treasures, 1867): la sala della scultura greca (Die
Griechische Saal). In primo piano a destra, il cosiddetto
Torso Elgin.
Bötticher stesso, che ad ogni concetto segue
una forma, ben lontano dalle necessità didattiche, non accorgendosi, evidentemente, di quanto esso potesse essere all’avanguardia: ma Fritz
Saxl, Aby Warburg ed Erwin Panowski erano
ancora di là da venire.
Ogni istituto di archeologia classica considera infatti una sua precisa priorità quella di
riunire una collezione di copie funzionale
all’insegnamento e l’insegnamento tedesco era
ancora fondamentalmente basato sul rigoroso
studio delle cronologie. In ogni caso, meglio
possedere più copie da varie copie (romane),
per poterle confrontare, esercitando quella
scienza, lanciata in Italia da Quirino Visconti
(1751-1818), sviluppatasi nelle università tedesche, ma poi estesasi ad altri contesti di ricerca
ed ancora in uso, che prende il nome di
Kopienkritik124. Tale tecnica trovò magistrale
applicazione a Bonn, negli studi di Adolf
Furtwängler (1853-1907) sulla Venere di Milo,
sull’Atena Lemnia e su altri capolavori125. Nello
stesso senso, le copie, essendo formate da
materiale ininfluente, sono utili ad ogni tipo di
rimontaggio, per riconfigurare eventuali opere
mutile o per tentare l’assemblaggio di pezzi dei
quali si ipotizza la coerenza, senza realmente
maneggiare i reperti autentici. È noto che
Friedrich Welcker e Otto Jahn passavano le
giornate non soltanto a mutare l’ordine dei gessi
di Bonn, mano a mano che cambiavano le loro
idee sulla cronologia, ma anche che se ne servivano ampiamente per ipotizzare possibili ricostruzioni, usandoli talvolta come materiale “a
perdere”126. Lo stesso faceva a Monaco Heinrich
Brunn (1822-1894), il quale, proprio rimontando dei gessi ed incrociando questo lavoro con la
lettura della descrizione dell’Acropoli di Atene
fatta da Pausania nella Periegesi, era giunto alla
ricostruzione di uno dei monumenti “perduti”
dell’Ellenismo, il grande Donario di Attalo127,
composto in origine da oltre cento statue, delle
quali le poche superstiti, giganti ed amazzoni,
erano sparse in vari musei, a Parigi, a Napoli, al
Vaticano, a Venezia.
Quest’attitudine all’uso dei modelli 1:1,
adatta alla formazione degli esperti in archeologia classica, doveva tuttavia avviarsi a divenire
un semplice espediente didattico ai fini dell’esposizione, onde restituire una visione periodica sufficientemente completa della storia dell’arte antica anche ad un pubblico lontano dall’attività artistica o dagli studi archeologici. In
effetti, quando, nel 1840, Friedrich August
Stüler (1800-1865), allievo di Schinkel, viene
chiamato a costruire il Neues Museum di
Berlino, pianificato per alleggerire il
Königliche Museum che, nel 1845, doveva poi
essere ribattezzato Altes Museum, la collezione
di gessi viene ritenuta talmente importante nell’economia del museo stesso, benché esso sia
oberato di soverchi materiali, che l’architetto
decide di dedicarle l’intero primo piano (Saal
für Gypsabgüsse), collegato con un passaggio
allo stesso Altes Museum.
Il contesto del nuovo museo, inaugurato
poi nel 1855, si adegua fedelmente ai materiali
(egizi, classici, ecc.) con quel disinibito eclettismo del quale Stüler costituisce un tipico rappresentante128. Se dunque, il piano terreno del
nuovo edificio presenta coloratissime decorazioni “in stile egizio”, il primo, diviso in numerose sale (Sala di Bacco, Sala Romana, Sala
Greca, Gabinetto del Lacoonte, Sala di Apollo,
Sala dei Niobidi e altre) riutilizza il tema della
copia mediante la riproduzione del Portico delle
Kórai dell’Eretteo, un soggetto ripreso in numerose altre architetture tedesche dell’Ottocento129.
Nelle sale comparivano altre cariatidi e
copie di grandi partiture architettoniche. Con
una certa coerenza, visto che un contesto di
copie era chiamato a fungere da sfondo per ulteriori sculture copiate, ed anche con un certo
fascino, un fascino che ancora si ritrova, dopo
che l’edificio è stato restaurato e riallestito
(ovviamente senza più copie) da David
Chipperfield. Poco dopo, nella stessa Museum
124
La Kopienkritik si basa sul confronto delle copie (numerose per alcune opere celebri in età antica), per giungere ad un’idea critica e/o statistica dell’originale, giungendo eventualmente, con l’ausilio di testi letterari antichi, ad un’attribuzione (Meisterforschung). L’esercizio può essere applicato anche a copie di copie, purché queste ultime siano sufficientemente
attendibili. Cfr. per esempio: C. H. HALLET, «Kopienkritik and the Works of Polykleitos» in W. G. MOON, Polykleitos, the Doryphoros, and tradition, Un. of Wisconsin Press, Madison
1995, pp. 121-160, ove nelle prime pagine, compare un’attenta spiegazione del metodo. Vedi anche, per le copie ridotte, E. BARTMAN, Ancient Sculptural Copies in Miniature, J. E. Brill,
Leiden, New York e Cologne 1992.
125
A. FURTWÄNGLER, Meisterwerke der griechischen Plastik: Kunstgeschichtliche Untersuchungen, von Giesecke und Devrient, Lipsia e Berlino 1893.
126
S. L. DYSON, In pursuit of ancient pasts: a history of classical archaeology in the nineteenth and twentieth centuries, cit., p. 168 ss.
127
Tutta la vicenda, ivi compresa la ricostruzione con uso di soli gessi, in A. STEWARD, «Hellenistic Art, A.D.1500-2000» in A. ERSKINE (ed.), A companion to the Hellenistic World,
Blackwell, Malden 2003, pp. 494-514, in part. pp. 500-504. L’importante intuizione di Brunn venne annuciata nel 1865 all’Istituto Archeologico Germanico di Roma ed in seguito pubblicata (1870).
128
C. CARAFFA e G. SCHELBERT, «L’architettura a Berlino, capitale del Reich tedesco», in L. MOZZONI e S. SANTINI (curs.), Il disegno e le architetture della città eclettica, Liguori, Napoli
2004, pp. 99-126, in part. p. 102 ss.
129
Si veda quanto poi scriveremo a proposito dell’Eretteo nell’ultima parte di queste note e nell’Appendice.
33
32
33
34
35
2
UNA SINTESI IN PROSPETTIVA:
LE REPLICHE
FRA TRADIZIONE E ATTUALITÀ
l breve cenno storico ci ha consentito di
delineare il ruolo tenuto dall’arte della
copia non soltanto nella formazione
delle prime collezioni di antiquaria, ma anche
nella concezione stessa dei musei archeologici,
i cui ordinamenti, cronologici o tematici, si
sono formati molto spesso proprio a partire dal
possesso di copie. La storia stessa, che a volte è
migliore consigliera della teoria, ci ha consentito di appuntare l’emergere di alcune convinzioni diffuse attorno al possesso o all’esibizione di
calchi, fermo restando che, in questa sede, parlando di “copie”, intendiamo alludere a manufatti che appunto riproducono qualcosa che
sicuramente esiste da qualche altra parte, che
cercano di farlo il più possibile fedelmente e
che dichiarano apertamente la loro natura di
copie. Non si tratta, quindi, di “falsi” né tanto
meno di ricostruzioni, più o meno verosimili,
più o meno credibili, di qualcosa che non è più
realmente esperibile.
Tuttavia, quali che siano le ragioni per le
quali le copie sono state raccolte e quali che
siano le convinzioni attorno alla loro specifica
funzione, la prima cosa che ci corre l’obbligo di
notare è che, in tutti i casi visti fin qui, le repliche costituiscono a tutti gli effetti dei media, e
cioè degli strumenti di comunicazione dell’antico e dell’autentico, laddove tale comunicazione
non è altrimenti possibile, un concetto che i
museologi americani, come abbiamo potuto
notare, avevano forse ben più chiaro di quelli
europei, rendendosi perfettamente conto di
quale sarebbe stato, senza l’uso di copie, il futuro dei loro musei, in ispecie di quelli di provincia che non possedevano nulla di autenticamente archeologico ed avevano scarse speranze di
poterlo acquistare in seguito. Nel corso degli
anni, poi, la tendenza a creare musei di ogni
genere praticamente “dal nulla” è diventata uno
dei segni distintivi della museografia americana.
Nessuna meraviglia, dunque, se, per la nota
I
legge formulata da Marshall McLuhan1, quei
media di un altro tempo sono divenuti essi stessi messaggi, influenzando in varia maniera la
formazione del gusto, l’educazione pubblica e
privata, il corso degli studi archeologici, la produzione industriale, gli allestimenti museali e
l’architettura stessa dei musei e divenendo a
loro volta, con il passare degli anni, autentici
reperti da esposizione. Con altre parole, e
facendo riferimento alle teorie di Nelson
Goodman2, le copie, in quanto media museali,
tendono a superare praticamente la distinzione
fra “arti ad uno stadio”, come appunto la scultura in marmo, ed “arti a due stadi”, come tutte
quelle originariamente riproduttive, per esempio l’incisione o anche la scultura in bronzo, se
lo scultore adopera il calco per produrre più
copie prima di distruggerlo. Diciamo “praticamente”, poiché, con ogni evidenza, tale distinzione non potrà mai essere superata concettualmente, ed il principio di autenticità non perderà
mai il proprio significato ed il proprio valore.
Nessuna copia potrà mai suscitare la commozione che si prova dinnanzi all’oggetto autentico che ha superato i millenni per mostrarsi
ancora nella sua interezza o nella sua mutilazione, nella sua perfezione o nei suoi degradi, poiché in quell’oggetto, vulnerabile e il più delle
volte vulnerato, c’è la vera mano dell’uomo che
lo ha plasmato ed è quell’uomo che noi, il pubblico, vogliamo davvero incontrare.
Tuttavia, una cosa è la commozione, altra
cosa è la documentazione. Molto opportunamente, a partire dall’antitesi foucaultiana fra
“monumento” e “documento”, Patrick Fraysse e
Gérard Régimbeau hanno chiamato questo
genere di copie portate a superare il proprio status di mere imitazioni, per di più dichiarate, con
il nome di monuments documentaires3, individuandone le diverse funzioni nella società di
oggi e nella sua tendenza a trasformare, come
appunto preconizzava Michel Foucault nella
1
58 - In alto: copia dell’Augusto di Prima Porta utilizzata per lo studio della policromia (da I colori del bianco.
Mille anni di colore nella scultura antica, mostra ai
Musei Vaticani, 2005). Sotto: studio della policromia
della stessa statua (da Ludwig Fenger, Dorische
Polychromie, 1886).
M. MCLUHAN, Gli strumenti del comunicare (New York, 1964), tr. it. di E. Capriolo, Il Saggiatore, Milano 1967 e M.
MCLUHAN e Q. FIORE, Il medium è il messaggio (New York, 1967), trad. it. di R. Petrillo, Feltrinelli, Milano 1968.
2
N. GOODMAN, I linguaggi dell’arte (Indianapolis, 1976), Il Saggiatore, Milano 1976.
3
La notion de «monumentaire» […] nous la reprendrons avec un sens encore différent puisque le «document monumentaire» représentera ici un monument dont la réalisation est conditionnée par la documentation, dans une société où l’archive et la reproduction peuvent stimuler l’invention et la réalisation. En somme, il s’agira d’un monument qui puise sa
nécessité dans des données informationnelles et communicationnelles. Cfr. P. FRAYSSE e G. RÉGIMBEAU, « Le patrimoine
architectural entre monuments-phares et documents monumentaires », in La transmission des connaissances, des savoirs
et des cultures: Alexandrie, métaphore de la francophonie, 3me colloque international du CIDEF-AFI, (Alessandria
d’Egitto, 2006), online sul sito AFI.
53
80
encausto spalmata per protezione nel secondo
decennio dell’Ottocento, fin dal 1845, aveva
parlato di uno spellamento della statua44. In conseguenza, su ordine di Leopoldo II di Toscana,
nel 1846 lo scultore di corte, Clemente Papi
(1803-1875), aveva realizzato una copia in
gesso del David, da utilizzare, se del caso, per
trarne una di bronzo, da collocare dinnanzi al
Palazzo Vecchio in sostituzione della statua
autentica. Il gesso fu invece adibito, nel 1854,
alla verifica dell’effetto che avrebbe potuto fare
il David qualora, per salvaguardarne la conservazione, fosse stato spostato al coperto, sotto la
Loggia dei Lanzi45. Con l’occasione si cominciò
anche a pensare ad un nuovo piedistallo, ma,
alla fine, i commenti negativi del pubblico e
altre considerazioni sulla dimensione esagerata
della statua in rapporto alla Loggia, esplicitati
da un disegno dell’architetto Pasquale Poccianti
(1774-1858), che aveva tentato il progetto
(1852-54) della nuova collocazione, convinsero
a soprassedere46.
Il vero David, come è noto, fu poi dislocato non sotto la Loggia dei Lanzi, ma dentro le
Gallerie dell’Accademia, subendo durante il
trasporto numerose lesioni47. Esso fu collocato
su di un nuovo piedistallo, di misure diverse dal
precedente, e in un ambiente, la Tribuna, appositamente progettato dall’architetto Emilio De
Fabris (1807-1883) e completato nel 1882.
Poco dopo il trasporto, nel 1875, con l’occasione del quadricentenario della nascita di
Michelangelo, la Tribuna ospitò una grande
mostra, per allestire la quale la statua del David
venne affiancata da una serie di copie delle
principali opere michelangiolesche48. Nel 1882
fu inaugurata, sempre su allestimento dell’architetto Emilio De Fabris, anche la copia delle
Tombe Medicee49.
Soltanto nel 1910 si giunse alla realizzazione di una copia del David da collocare nel luogo
originale, sotto la pressione di un’agguerrita
campagna d’opinione per il restauro del Palazzo
Vecchio, da tempo in stato di abbandono. Alla
discussione aveva partecipato anche lo scultore
e teorico tedesco Adolf von Hildebrand (18481921), favorevole a colmare il vuoto lasciato in
Piazza della Signoria dalla statua di
Michelangelo, tanto grande ed imponente, tanto
determinante sia dal punto di vista della percezione urbana, sia dal punto di vista simbolico50.
Nonostante le pesanti critiche quasi subito
81
suscitate dal David in replica, nello stesso
periodo una seconda copia, in bronzo, veniva
collocata, con funzione toponomastica, nel
Piazzale Michelangelo, sempre a Firenze.
Come è noto, era stato Michelangelo stesso
a scegliere la primitiva posizione della statua,
poiché il severo rivestimento di bugnato grezzo
avrebbe fatto risaltare la vitalità fisica del
David, definita plasticamente dal candido
marmo51. In effetti, tale scelta non era stata certo
indolore, se, come racconta lo stesso Vasari, il
Gigante, appena finito, penò quattro giorni a
giungere in piazza52 e, dunque, è evidente quanto il sommo artista tenesse al contrasto cromatico e materico fra la sua opera e lo sfondo prescelto e, anche, al suo ruolo simbolico, alludente al popolo di Firenze che veglia contro la
tirannia, tanto che la statua era stata collocata al
posto di un’altra opera dello stesso significato,
la Giuditta di Donatello. Nel 1504, quando il
David era stato completato da Michelangelo,
Firenze era infatti una repubblica e le idee del
grande scultore erano state discusse ed approvate in sede allargata da una commissione di
esperti dell’Opera del Duomo53.
Purtroppo, l’allestimento di De Fabris, pur
44
K. WEIL-GARRIS, «On Pedestals: Michelangelo’s David, Bandinelli’s Hercules and Cacus and the Sculpture of the Piazza della Signoria» in W. E. WALLACE (ed.), Michelangelo: selected scholarships in English, v. 1, Life and Early Works, Garland, New York e Londra 1995, pp. 323-362. Per i restauri ottocenteschi del David, durante i quali ci si rendeva conto della
necessità di spostare la statua, cfr. F. FALLETTI, «Historical research on the David’s state of conservation» in S. BRACCI, F. FALLETTI, M. MATTEINI e R. SCOPIGNO (eds.), Exploring David:
diagnostic tests and state of conservation, Giunti, Firenze 2004, pp. 55-96.
45
E. MARCONI, «The Nineteenth Century», in The statues of the Loggia della Signoria in Florence: masterpieces restored, Giunti, Firenze 2002, pp. 253-266, in part. p. 254 ss.
46
Il disegno, conservato nel Gabinetto dei Disegni e delle Stampe degli Uffizi, è pubblicato in F. FALLETTI, «Historical research on the David’s state of conservation», cit., p. 63.
47
Esse sono state studiate recentemente con l’uso del laser, costituendo una buona dimostrazione di quanto anche le dislocazioni “a fin di bene” possano essere pericolose. Cfr. L. MARRAS
et ALII, «Surface Roughness relief» in K. DICKMANN, C. FOTAKIS e J. F. ASMUSPART (eds.), Lasers in the conservation of artworks, LACONA V proceedings (Osnabrück, 2003), Springer,
Berlino 2005, pp. 477-484, in part. p. 481 ss.
48
E. CRISPINO, Michelangelo, Giunti, Firenze, 2001, p. 42 e F. FALLETTI, M. ANGLANI e A. T. FLORENCE, Accademia Gallery. The official guide: all of the works, Giunti, Firenze 2006, p.
10 ss.
49
F. FALLETTI, M. ANGLANI e A. T. FLORENCE, Accademia Gallery. The official guide: all of the works, come sopra, p. 14.
50
M. ANGLANI, «The Places for David: The Loggia dei Lanzi, the Bargetto, Piazzale Michelangelo, Piazza della Signoria» in F. FALLETTI (ed.), The Accademia, Michelangelo, the nineteenth century, tr. ingl. di J. Rogers e N. Murray, Sillabe, Leghorn 1997, pp. 28-37. Recentemente Brigitte Ruck ha riaffrontato il problema del David, insieme a quello, non dissimile,
del Marco Aurelio, sottolineando la dimensione “fuori misura” di queste statue, tale da rendere la loro presenza nel contesto urbano ancor più determinante. Cfr. B. RUCK, «Kolosse und
ihre grossen Vorbilder aus der Antike», in M. J. CASTILLO PASCUAL (coord.), Congreso Internacional “Imagines”. La Antigüedad en las Artes escénicas y visuales/International
Conference “Imagines”. The reception of Antiquity in performing and visual Arts, Universidad de La Rioja, Logroño 2008, pp. 351-372.
51
L. CIUCCETTI, Michelangelo: il David, Giunti, Firenze 1998, p. 14.
52
G. VASARI, Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architetti, v. XII, Le Monnier, Firenze 1856, p. 344.
53
L’elenco degli artisti, degli artigiani e delle altre personalità che ne facevano parte si ritrova, fra gli altri, in R. KLEIN e H. ZERNER, Italian art, 1500-1600: sources and documents,
Northwestern Un. Press, Evanston 1989, pp. 39-44.
65
molto accurato nello studio delle condizioni di
luce, è per molti versi riduttivo nelle scelte spaziali (una nicchia invece di una piazza), senza
contare che la mutata altezza del piedistallo (63
cm in meno), modifica di parecchio il punto di
vista precedente54. Ricordiamo, en passant, che
il David in copia esposto al Victoria and Albert
è collocato su di un piedistallo molto più simile
all’originale nella sua altezza, quasi che, insomma, il punto di vista di una statua avesse scarsa
importanza e si potesse mutare a piacimento,
mentre una minima filologia della percezione si
riserva, al contrario, ad una modesta copia.
Anche la parete di fondo, seppur semplicemente verniciata, presenta una colorazione rossomattone giudiziosamente in contrasto con il
cromatismo della replica.
Le copie, insomma, servono sempre per
“studiare”, le statue vere per dare la stura ad
esperimenti espositivi di tipo estetico: è una
prassi confermata dalla storia. Nel caso, una
prassi che trova la sua conferma nel
Rinascimento assolutamente di maniera di De
Fabris, ben lontano dalla complessità e dalla
robusta e voluta contraddittorietà delle scelte di
Michelangelo.
Per la scarsa attenzione a questo tipo di non
insignificanti dettagli, assistiamo dunque, nel
caso di Firenze, al paradosso che la copia è più
fedele dell’opera autentica nella sua ambientazione: questa rispecchia pienamente la storia
della città, il ruolo della statua come emblema
politico e le scelte stesse di Michelangelo attor-
54
no al contesto, allo sfondo, alla percezione
generale. La copia costituisce dunque uno strumento di comprensione dell’originale e, in
un’ultima istanza, ci tocca ammettere che, date
le circostanze, è una fortuna che ci sia. Una
doppia fortuna, poi, se si presta attenzione a
come, ormai, anche la copia si trovi in gravi
condizioni di degrado: dimostrazione palese
dell’assoluta necessità di conservare la statua
autentica in luogo protetto.
Del tutto identico è il caso della statua
equestre di Marco Aurelio (sec. II d.C.), un
tempo situata sul Campidoglio, su quel piedistallo, progettato da Michelangelo, che già
Francesco Milizia definiva semplice e d’una
proporzione gradevole55. Non ci soffermeremo,
poiché la faccenda ci porterebbe troppo lontano,
a descrivere come la statua sia stata immaginata come il centro visivo della nuova concezione
della splendida piazza-belvedere. Si tratta di
una lunga storia, legata al destino rappresentativo di un monumento, per molti versi non dissimile da quella del David, anche se qui si tratta
di un vero reperto archeologico e di un contesto,
quello della Roma di Paolo III, affatto diverso
da Firenze. Quello che ci interessa sottolineare
è che, senza la statua equestre, nessun dettaglio
della piazza avrebbe più senso.
Come si sa, la statua, dopo una lunga serie
di restauri, è stata spostata definitivamente
(1990) nei Musei Capitolini e sostituita - ma c’è
voluto un decennio di ininterrotte proteste da
parte della popolazione - da una copia, in verità
82
splendida56. Essa non è stata ricavata da un
calco, dato che le condizioni precarie dell’originale non consentivano un calco “diretto”, ma
eseguita con rilevamento, attraverso una nuova
applicazione, appositamente studiata, della stereo-fotogrammetria, basata su 480.000 punti
individuati sul cavallo e 460.000 punti individuati sul cavaliere57. Il calco è stato poi ricavato
da una copia preliminare in PVC.
Anche in questo caso, dunque, la pratica
della copia ha offerto lo spunto per intraprendere uno studio scientifico innovativo e per dimostrare ampiamente quanto la scienza possa profittare di queste occasioni anomale per i suoi
avanzamenti, confermando quanto questi progressi siano d’ausilio alla tutela, visto che essi
consentono di lasciare, seppur di fronte alla
necessità imperativa di una dislocazione, le tracce del passato nei luoghi ove quel passato è stato
presente ed ha consolidato la sua immagine.
La copia del Marco Aurelio, così come
quella del David, costituiscono dunque degli
squisiti Monumenti-Traccia, non in un museo al
chiuso, ma in quei musei en plein air che sono
le nostre città, così cariche di storia, di eventi
memorabili e di opere d’arte. Ma che dire del
destino della vera statua?
Com’è noto, è stato studiato per essa un
apposito, nuovo allestimento inaugurato nel
dicembre 2005 a cura di Carlo Aymonino
(1926-2010)58 all’interno del palazzo dei
Conservatori (Musei Capitolini). Ovviamente,
in questo caso il problema è un po’ diverso da
Con l’occasione del quinto centanario del David, la statua è stata ulteriormente protetta con una transenna vetrata. Cfr. F. FALLETTI, «The Tribune of the Accademia for the Fifth centanary of David» in F. FALLETTI e M. SCUDIERI (curs.), Around the David: the great art of Michelangelo’s century, Giunti, Firenze 2003, pp. 15-27.
55
F. MILIZIA, Memorie degli architetti antichi e moderni, t. I, Remondini, Venezia 1785, p. 208.
56
Per tutta la vicenda rinviamo a A. MELUCCO VACCARO e G. C. ARGAN (curs.), Marco Aurelio: storia di un monumento e del suo restauro, Silvana, Cinisello Balsamo 1989 e a A.
SOMMELLA MURA et ALII, Il Marco Aurelio e la sua copia, Silvana, Cinisello Balsamo 1997.
57
Tutta la procedura è spiegata dettagliatamente in C. GIAVARINI e G. SANTUCCI, «Il Marco Aurelio e la sua copia» in M. CAVALLINI e G. E. GIGANTE (curs.), De re metallica: dalla produzione antica alla copia moderna, “L’Erma” di Bretschneider, Roma 2006, pp. 289-299.
58
C. AYMONINO, Musei Capitolini in Campidoglio: copertura del Giardino romano nel palazzo dei Conservatori, “Casabella”, 661 (1998), pp. 48-65.
66
83
La casa del Fauno a Pompei.
84 - Nella pagina a fianco, a sinistra: Giorgio Sommer (1834-1914), Pompei. La Casa del Fauno è
priva della statua al centro della piscina dell’atrio, ritrovata nel 1830 e trasportata al Museo
Archeologico di Napoli.
85 - A destra: l’atrio della Casa del Fauno come si vede oggi, con la replica della statuetta che ha
dato nome alla celebre domus pompeiana.
86 - In questa pagina, a fianco: Baelo Claudia (Bolonia, Andalucia, presso Cadice): pianta del Foro
Romano (da Pierre Sillières, Baelo Claudia: una ciudad romana de la Bética, 1997). Con il numero
10 viene individuata la basilica, all’interno dei resti della quale si trova la statua dell’Imperatore
Traiano, replica di un originale conservato al Museo Archeologico di Cadice (Museo de Cádiz). Con
il numero 1, i templi dedicati alla Triade Capitolina. Con il 2, il tempio di Iside.
quello del David, poiché si tratta della dislocazione di una statua che non aveva un suo teatro
originario, né un piedistallo autentico. Tuttavia,
il fatto che tanto la collocazione quanto il sostegno fossero stati studiati da Michelangelo, e
non certo da un quilibet, avrebbe dovuto fare
riflettere. I primi disegni di Carlo Aymonino
sull’allestimento della statua, infatti, mostrano
un semplice basamento che, seppur non riproduttivo di quello originale, ne riprende la forma
morbidamente curvilinea, con evidente allusione ad un piedistallo classico.
Purtroppo le istanze del modernismo, e la
vocazione degli architetti a lavorare sull’antico,
ma soltanto per manipolarlo ed alla fine, inevitabilmente, dissacrarlo, hanno condotto al contesto odierno, ove il cavallo di Marco Aurelio,
non più su un podio ragionevolmente equestre e
decentemente monumentale, posa su un
“podietto” in forma di trampolino, progettato
dall’architetto Francesco Stefanori, altrimenti
noto per i suoi allestimenti della Centrale
Montemartini59. Cavallo e cavaliere sembrano
camminare in mezzo al pubblico: non più un
monumento urbano, ma un “piccolo” monumento in un interno, pronto per quello che è
stato giornalisticamente definito “un incontro
ravvicinato”.
Possono esserci delle ragionevoli motivazioni per scegliere un’ambientazione fortemente vitalistica, come questa, ma purtroppo è
l’ambiente stesso, privo di qualsiasi allestimento integrativo (Alessandra Melucco Vaccaro lo
definiva “un acquario”), a negare del tutto una
tale interpretazione, anche se, in verità, la statua
capitolina è stata messa in relazione alla presentazione dei rinvenimenti in loco relativi al
Tempio di Giove. Ci tocca di riconoscere che né
la filologia né la comunicazione abitano dentro
59
certi musei e che, ancora una volta, la copia,
situata là dove deve essere, dove per secoli è
stata, è meglio contestualizzata, più facilmente
comprensibile del reperto autentico. Una considerazione di per se stessa tanto vera quanto,
purtroppo, insensata, ma basta un’occhiata alla
fotografia qui pubblicata per dimostrarne appieno sia la verità, sia l’insensatezza. In effetti,
l’allestimento è - nelle sue contraddizioni - del
tutto orientato sul significato archeologico della
statua, quasi che essa non ne avesse ormai
acquistato anche un altro, il significato datogli
dalla storia e dalla comunità.
Quando ci si trova a confrontarsi con un
palinsesto di valori così densi, così stratificati,
non è certo facile scegliere quale privilegiare;
tuttavia andrebbe sottolineato un concetto tanto
semplice, quanto inevaso, quello di consuetudine. Chi va in cerca di un monumento, chi, dopo
averlo visto mille volte sui libri, ha finalmente
l’occasione di poterlo vedere dal vero, si aspetta di trovarlo come lo ha sempre immaginato:
alto, imponente, maestoso. La memoria ha
molti rivoli diversi, ma si basa sostanzialmente
su immagini tradizionali, sul travaso, anzi, di
una tradizione immaginata, o immaginativa, nel
nostro presente. Le esigenze del contemporaneo, la ricerca di originalità, l’adeguamento ai
linguaggi correnti hanno scarsamente a che fare
con essa ed il discorso filologico resta tanto
importante da un punto di vista scientifico
quanto da un punto di vista comunicativo e psicologico. Se né i Romani né Michelangelo
hanno mai pensato di esporre il Marco Aurelio
a meno di mezzo metro dal suolo, perchè dunque farlo oggi?
Questo interrogativo non nasce da un preconcetto contro la creatività moderna, ci mancherebbe altro, anzi, consideriamo auspicabili
tutti gli aggiornamenti di immagini ormai consunte e rese obsolete da un gretto e sordo senso
della continuità e della conservazione, ma solo
alla condizione che tali aggiornamenti siano
sufficientemente forti, capaci, insomma, di
sostituire alla vecchia consuetudine visiva una
nuova consuetudine, più chiara, più filologicamente documentata, più convincente, più coinvolgente. Non è questo il caso, ovviamente, e
poiché stiamo tentando, insieme ad una breve
descrizione di pratiche e di esempi, anche un
discorso di incasellamento teorico, ci troviamo
del tutto disarmati a definire quest’ultimo episodio. Forse Régis Debray ci suggerirebbe che,
nel caso di questo Marco Aurelio dei Musei
Capitolini, trattasi di un Monumento-Forma,
insomma, di un oggetto esibito lì per com’è, in
un allestimento determinato da temi come le
gest et le chic e dalla ricerca di un superlatif du
savoir faire, ma visto che noi, in questa sede, ci
stiamo occupando di copie, riteniamo di poterci
esimere da qualsiasi ulteriore classificazione
concernente il reperto autentico.
Prima di chiudere queste note, vorremmo
citare, dopo il caso dei contesti urbani, quello
dei veri e propri contesti archeologici, punto di
vista privilegiato della nostra ricerca. Abbiamo
già citato numerosi esempi che rendono evidente la necessità di una migliore conservazione di
reperti appartenenti alle arti plastiche: quest’ultima ha suggerito l’operazione, odiosa ma
necessaria, della dislocazione dei reperti stessi
in luogo protetto. Abbiamo anche visto il caso
di statue in replica, della cui presenza non si
aveva alcuna indicazione, anteposte a determinati siti per connotarne la cronologia o rappresentarne il fondatore.
Negli ultimi anni, tuttavia, si è anche palesata una terza necessità, quella di rianimare
M. C. RUGGIERI TRICOLI, I fantasmi e le cose. La messa in scena della storia nella comunicazione museale, cit., p. 218 ss., al quale rinviamo anche per la bibliografia.
67
84, 85
certi siti con la presenza degli antichi abitanti, o,
almeno, di qualche figura umana che restituisse
una leggibilità, anche dimensionale o funzionale, ai lacerti architettonici sopravvissuti. Questo
genere di interventi di musealizzazione, non
sempre si affida a repliche, ma spesso a sagome
in corten60 o a sculture a tutto tondo appositamente realizzate, se non a vere e proprie animazioni di re-enactement. Tuttavia, l’uso di repliche può dimostrarsi meno invasivo di altre pratiche, mantenendo una certa coerenza linguistica con il contesto. Esso, poi, è tanto più efficace se le repliche fanno riferimento a reperti
emersi dal sito: l’importante, come in tutti gli
altri casi citati fin qui, è che il pubblico sia chiaramente informato di trovarsi davanti ad un
falso. Vi sono infatti numerosissimi casi in cui
questo non avviene, dal Fauno in copia posto
nella piscina della Casa del Fauno a Pompei,
ove, più recentemente, è stata collocata, con
grande battage pubblicitario, anche una copia
del mosaico della Battaglia di Alessandro61, alle
Cariatidi dell’Eretteo, di cui fra poco diremo. Il
problema, insomma, non concerne tanto quel
60
che si fa, ma come si sia capaci di comunicarlo.
Nella maggior parte dei casi, infatti, le possibili critiche e le naturali contestazioni nascono
più per una mancanza di comunicazione che per
l’essenza stessa del problema.
Questo concetto è tanto più meritevole di
attenzione, viste le infinite e facilissime soluzioni che potrebbe essere individuate: la stessa
antichità, che è stata una civiltà di epigrafi, e
cioè di macchine retoriche e mnemotecniche
efficacissime, ci ha già insegnato come si
potrebbe fare62. Paradossalmente, la cultura
contemporanea, tanto più dotata di mezzi, è
sorda, invece, alla necessità di testimoniare
pubblicamente i propri atti, lasciandone qualche
forma di memoria. Questo atteggiamento è visibile nelle città, così come nei contesti archeologici, ricchi il più delle volte di tutto, meno che
di qualche cartello decente.
Qui di seguito citeremo tre ultimi esempi,
tutti riferibili alla nuova ed agguerritissima
museografia archeologica spagnola, i quali ci
sono sembrati di particolare interesse poiché,
dimostrando appunto l’utilità di “animare” le
rovine con qualche presenza che rinvii alla vita
che un tempo si svolgeva fra di esse o al tipo di
decorazioni scultoree di cui erano fornite, sono
tuttavia pervenuti a risultati diametralmente
opposti: uno positivamente chiarificatore, gli
altri meno. Essi dimostrano anche, appunto per
riagganciarci a quanto abbiamo sostenuto fin
qui, la necessità di documentare in modo chiaro
ed efficace il processo degli interventi compiuti.
Il primo esempio si riferisce al sito romano
dell’antica Baelo Claudia (Bolonia, Andalusía,
presso Cadice), un sito noto al pubblico internazionale soprattutto per il riuscitissimo intervento di Guillermo Vasquez Consuegra, che ne ha
realizzato il nuovo e poetico visitor’s centre63.
Questa città della Betica, affacciata sul mare e
conosciuta per le sue manifatture di garum, fu
edificata, a quanto ormai si ritiene, nei secc. II e
I a.C. su di un insediamento preromano precedente, ma raggiunse il massimo splendore in
epoca augustea e claudia64. Alla fine del secondo secolo fu parzialmente distrutta da un potentissimo terremoto65.
Conosciuta fin dal Settecento nella sua
Ne abbiamo riprodotte numerosissime in M. C. RUGGIERI TRICOLI, Interiors and Museums 4. Il tempo perduto di Neanderthal: preistoria e musei, cit.
T. ROCCO (cur.), La Battaglia di Alessandro torna alla Casa del Fauno, Electa, Milano 2005.
62
Il fenomeno della musealizzazione urbana attraverso epigrafi è stato esaminato in M. C. RUGGIERI TRICOLI e M. D. VACIRCA, L'idea di museo. Archetipi della comunicazione museale
nel mondo antico, Lybra, Milano 1998, p. 70 ss.
63
A. ALTINI, Centro di accoglienza del Complesso archeologico di Baelo Claudia a Tarifa, “Casabella”, 782 (2009), pp. 74-85.
64
P. SILLIÈRES, Baelo Claudia: una ciudad romana de la Bética, Casa de Velázquez, Madrid 1997, per il Foro p. 85 ss.
65
L’argomento è talmente importante nella storia della sismologia, che la bibliografia al riguardo è vastissima. Si veda per esempio C. GRÜTZNER, K. REICHERTER, e P. G. SILVA,
«Comparing semiquantitative logic trees for archeoseismology and palaeoseismology: the Baelo Claudia (southern Spain) case study», in M. SINTUBIN, I. S. STEWART, T. M. NIEMI e E.
ALTUNEL (eds.), Ancient Earthquakes, Geological Society of America, Boulder 2010, pp. 129-143.
61
68
87 - Nella pagina a fianco: Baelo Claudia (Bolonia, Andalusía, presso Cadice), il Foro. Sul fondo è visibile la copia della statua colossale dell’Imperatore Traiano, ritrovata nel 1980
ed attualmente conservata al Museo de Cádiz.
88 - In questa pagina, in alto: Segobriga (Saelices, Castilla-La Mancha, presso Cuenca), copie di statue romane tra le rovine.
89 - In basso, a sinistra: planimetria del Foro di Segobriga. I numeri, da 1 a 52, individuano i numerosi piedistalli di statue ritrovati nel sito (da J. M. Abascal, R. Cebrian e M. Trunk,
Epigrafía, Arquitectura y Decoración Arquitectónica del Foro de Segobriga, 2004).
90 - In basso, a destra: una foto dall’alto del Foro di Segobriga; sul fondo, una delle copie, totalmente dispersa fra le rovine.
69
3
UN CASO DI STUDIO:
LE REPLICHE
NELLA STORIA DELL’ERETTEO
C’è poi un edificio chiamato Eretteo...
[Pausania, I, 26.5]
ontinuando il discorso relativo all’uso
delle copie in contesto archeologico,
tratteremo qui di seguito il caso delle
kórai dell’Eretteo (409 a.C.), le sei colonne
antropomorfe attribuite ad Alkámenes e ad
Agorákritos, allievi di Fidia, chiamate anche le
colonne danzanti. Non più il caso di un monumento isolato, dunque, ma di statue integrate in
un’architettura, intimamente parte di essa. Su
questo caso ci soffermeremo più a lungo, dato
che si tratta di uno dei primi esperimenti di anastylosis con repliche e che l’uso di repliche è
stato reiterato più volte. La genesi di questo perdurante ricorso all’uso della copia è di estremo
interesse, e soltanto un racconto dettagliato può
offrirne appieno tutte le motivazioni, che è tanto
più necessario conoscere, vista l’importanza
straordinaria del monumento, del suo contesto e
dei due musei nei quali gli originali sono finiti.
C
Spoglio e decadenza di un monumento mitico
Come si sa, quando, nel 1803 le navi di Thomas
Bruce, VII conte di Elgin, portarono via da
Atene i celebri marmi del Partenone1, in seguito collocati nella Duveen Gallery2 ove ancora si
trovano, il loro carico comprendeva, oltre qualche lacerto dell’Eretteo3, anche una delle kórai
del portico Sud (o rostrum, o tribuna). Queste
sono più comunemente note, con dizione non
del tutto appropriata, a quanto sembra usata per
la prima volta da Cornelio Magni nel 16744,
come le “cariatidi”. Nel 1818 la kóre e parte
degli altri marmi vennero disegnati (non troppo
fedelmente) da Richard Lawrence, in uno dei
primi “cataloghi” dell’importante acquisto portato a termine dai Trustees del British Museum5.
In seguito, altri cataloghi del museo hanno sempre sottolineato sia lo stato di notevole degrado
della scultura, sia la sua specifica funzione di
colonna, la quale deve essere sempre tenuta presente per comprenderne i valori plastici6.
Un parere, quest’ultimo, ribadito anche da
Viollet-le-Duc, che ha dedicato all’Eretteo alcune illuminanti pagine dei suoi Entretiens7 ed un
disegno, che mostra appieno come l’architetto si
fosse posto il problema del gioco di chiaroscuro
94
96
1
94 - In alto: Giovan Battista Lusieri, The South-East
Corner of the Parthenon, Athens, acquarello (1803,
Edimburgo, National Galleries of Scotland). L’agente di
Lord Elgin ad Atene documenta la malinconica memoria
di quel che resta del Partenone dopo i lavori di spoglio
da lui stesso diretti.
95 - In basso: Charles Robert Cockerell, Lord Elgin’s
Museum at Park Lane, disegno (1808, Londra, British
Museum). Al centro, la cariatide dell’Eretteo sottratta da
Elgin.
Una di queste navi, la Mentor, fece addirittura naufragio ed il suo carico fu recuperato con l’ausilio di pescatori subacquei del tempo.
2
Prima di essere collocati al British, i marmi rimasero per più di dieci anni in un deposito di Elgin in Park Lane. Nel 1816
furono trasportati in un edificio temporaneo appositamente costruito presso la Montague House. Quando quest’ultima
venne completamente trasformata da Robert Smirke nel museo che attualmente conosciamo, fu costituita per i marmi del
Partenone una specifica galleria denominata Elgin Room (1832). Con il cospicuo finanziamento offerto dall’industriale
americano Joel Josef Duvee nel 1829, e dopo un decennale dibattito, l’architetto di formazione classicista John Russell
Pope, scelto dallo stesso Duveen, poté procedere all’aggiunta di una nuova galleria, interamente costruita allo scopo.
Quest’ultima è stata aggiornata e migliorata negli anni Cinquanta del Novecento e riaperta al pubblico nel 1960. La cariatide dell’Eretteo si trova invece, insieme ad altre antichità elleniche, nella cosiddetta Room 39.
3
Una colonna ionica, il capitello di uno dei pilastri, tre pezzi dell’architrave.
4
Incontrammo più avanti un’altro Tempio con un Vestibolo che nella facciata viene in cambio di colonne, appoggiato da
Quattro statue femminili dagli Architeti denominati Cariati scolpite con perfetto artificio, e vestite con panneggiamenti
delicatissimi. Cfr. C. MAGNI, Relazione della Citta d’Athene colle Provinzie dell' Attica, Focia, Boeozia, e Negroponte,
ne’ tempi che furono queste passegiate da Cornelio Magni, Parmegiano, L'Anno 1674, Parma 1688, cit. in A. LESK, The
Reception of Vitruvius: the Conflation of ‘Caryatid’ and the Erechtheion ‘Korai’ in Augustan Rome, conf. paper 2004,
PDF online. Per la questione dell’origine di questo tipo di colonna e dell’uso delle varie dizioni, cfr. I. MYLONAS SHEAR,
Maidens in Greek Architecture: The Origin of the «Caryatids», “Bulletin de Correspondence Hellénique”, 123-1 (1999),
pp. 65-85 (con ampia bibliografia precedente); J. RYKWERT, The dancing column: on order in architecture, MIT Press,
Cambridge (Mass.) 1996; M. M. D’EVELYN, Varietà and the Caryatid Portico in Daniele Barbaro’s Commentaries on
Vitruvius, “Annali di architettura”, 10-11 (1898-99), pp. 157-174; G. L. HERSEY, Il significato nascosto dell'architettura
classica: speculazioni sull’ornato architettonico da Vitruvio a Venturi, Mondadori, Milano 2001, p. 73 ss. e A. SCHOLL,
Die Korenhalle des Erechtheion auf der Akropolis: Frauen für den Staat, Fischer, Francoforte 1998.
5
R. LAWRENCE, Elgin Marbles from the Parthenon at Athens exemplified with Fifty Etchings, Davison, Londra 1818.
6
R. LAWRENCE, Description of the Collection of Ancient Marbles in the British Museum with Engravings, part. IX, W.
Nicol, Londra 1842, p. 21.
7
E. E. VIOLLET-LE-DUC, Entretiens sur l’architecture, v.1, Morel, Parigi 1868, p. 293 e ss.
73
95
Riconfigurazioni dell’Eretteo: da William Wilkins a William Inwood.
126 - In alto, a sinistra: William Wilkins, riconfigurazione dell’Eretteo (da W. Wilkins, Atheniensia, or, Remarks on the Topography and Buildings of Athens, 1816).
127 - In alto, a destra: Henry William Inwood, prospetto del fronte occidentale dell’Eretteo, 1819 (da H. W. Inwood, The Erechteion at Athens, 1831, particolare).
128 - In basso: Henry William Inwood, riconfigurazione dell’Eretteo visto da Nord-Ovest (da H. W. Inwood, The Erechteion at Athens, 1831).
86
Riconfigurazioni dell’Eretteo: Georg Niemann.
128 - Erechtheion, Westseite, riconfigurazione di Georg
Niemann
(da
Josef
Bühlmann,
Allgemeine
Hochbaukunde, 1901).
119
120
112
collezionista di calchi, sia, infine, un accaparratore di antichità autentiche36.
A fronte di tali documenti iconografici le
vedute disegnate dopo i primi anni
dell’Ottocento ed il passaggio di Elgin mostrano i drammatici cambiamenti subiti dal tempio.
Edward Dodwell (1767-1832), un amatore e
viaggiatore inglese che visita la Grecia fra il
1801 e il 1806 e che, per colmo di precisione,
dipinge servendosi di una camera obscura, ci
ha lasciato, per esempio, all’interno del suo
volume Views in Greece37, splendidamente illustrato con tavole a colori, la memoria di un tempio massacrato da lesioni prima inesistenti e di
un Portico ormai privo di una delle sue colonne
danzanti, sostituita da quel meno danzante e
ben più prosaico pilastrino di mattoni, chiamato
derisoriamente Opus Elgin. Anche in questo
caso l’acquatinta di Dodwell, Vista da SudOvest dell’Eretteo, reca una data (1821), di
molto posteriore alla realizzazione originale del
disegno (1805)38.
Viceversa, il pittore e collezionista inglese
Sir Charles Eastlake (1793-1865), che registra
l’immagine dell’Eretteo in un dipinto datato
1818 (Temples of Erechtheion at Athens, Yale
Center for British Art, New Haven)39, non ha
neppure il coraggio di mostrare l’orrido pilastrino, limitandosi a documentare la mancanza
della Kóre asportata come un vuoto, anche se,
per altri versi, registra un maggiore stato di
degrado del cleristorio occidentale, ormai privo
di un notevole lacerto della cornice superiore.
Nel 1827 compaiono infine le belle incisioni nel
volume del pittore scozzese Hugh William
Williams (1773-1829), ove le penose immagini
dell’Eretteo in particolare e dell’Acropoli in
generale sono messe a confronto con un’onirica, nebbiosa e conturbante ricostruzione
dell’Atene che fu40.
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L’Opus Elgin, orrendo per quanto sia, non
ha neppure supportato decentemente i suoi
doveri statici: via via il monumento va crollando e viene puntellato con successivi sostegni di
mattoni. Il giovane architetto Henry William
Inwood o Inwood Junior (1794-1843), che arriva ad Atene nel 1819, documenta queste ulteriori operazioni di rinforzo in un suo prospetto
laterale dell’Eretteo41: lo stato del tempio è
ormai così drammatico che Inwood sente il
bisogno di fornire al lettore una riconfigurazione ideale, una magica immagine di un angolo
dell’Acropoli perfettamente ricreato nel suo
splendore originario. La ricostruzione di
Inwood, la prima così dettagliata e convincente, dopo le modeste restitutions di le Roy42,
quella di Stuart e Revett43 e l’ancor più modesta
restauration di Wilkins44, ebbe subito una grande fama, nonostante la sua sommaria riconfigurazione planimetrica interna (con una sola cella
36
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A. LESK, A Diachronic Examination of the Erechtheion and Its Reception, cit., p. 420. Lui stesso aveva scritto al suo emissario ad Atene, il console francese ed artista Louis-FrançoisSébastien Fauvel: Enlevez tout ce que vous pourrez...Ne négligez aucune occasion de piller dans Athènes et dans son territoire tout ce qu’il y a de pillable. Proprio Fauvel si era occupato dell’estrazione dell’unica metopa del Partenone oggi al Louvre, della quale abbiamo già accennato, ma aveva anche provveduto, specialmente durante il suo secondo soggiorno ad
Atene (1786-1787) a far eseguire gran numero di copie, la più parte delle superstiti sculture del Partenone e del Théseion, ma alcune anche dell’Eretteo. Le sue “Cariatidi” (in copia),
vennero inviate in Francia, ove giunsero a Marsiglia, via nave, nel 1788. La storia dei “gessi” di Fauvel si legge in J. M. PATON (ed.), The Erechtheum, cit., v. 1, pp. 609-612.
37
E. DODWELL, Views in Greece from Drawings, Rodwell and Martin, Londra 1821. Dodwell ha pubblicato anche Classical and Topographical Tour through Greece during the years 123
1801, 1805 and 1806, 2 vv., Rodwell and Martin, Londra 1819, con tavole in bianco e nere disegnate da Simone Pomardi (1760-1830) ed incise da Charles Heath (1785-1848). In segui- 124
to Dodwell soggiornò a lungo in Italia, lasciandovi la sua collezione di reperti, come si legge in INSTITUT DE CORRESPONDANCE ARCHÉOLOGIQUE, Notice sur le Musée Dodwell et Catalogue 125
Raisonnée des Objets qu’il contient, Vincentius Modena, Roma 1837.
38
Come si evince dal fatto che Dodwell stesso fu in Grecia soltanto nel 1801 e nel 1805-1806.
39
Di questo dipinto, oltre la copia da noi citata e pubblicata in G. M. ACKERMAN, Les orientalistes de l’École britannique, ACR Ed. Courbevoie 1991, p. 81, ove viene datata al 1818,
anno in cui Eastlake soggiornò in Grecia, familiarizzando con la popolazione locale grazie al fatto che aveva imparato il demotico prima di partire, esiste anche una seconda copia, appartenente alla Sir Henry Waterhouse Collection (Guilford). Essa differisce dall’altra esclusivamente per il numero e la distribuzione delle figure attorno al monumento.
40
H. W. WILLIAMS, Select Views in Greece, Longman, Rees, Orme, Brown e Green, Londra 1829. Cenni sull’attività ad Atene di Williams, citato insieme ad alcuni altri dei viaggiatori
ed artisti nominati fin qui, si ritrovano in F.-M. TSIGAKOU, «The Rediscovery of Athens by Artist Travellers» in C. BOURAS, M. B. SAKELLARIOU, K. S. STAIKOS e E. TOULOUPA (eds.),
Athens, from the Classical Period to the Present Day (5th century B.C.-A.D. 2000), Oak Knoll Press, New Castle (Del.) e Kotinos, Atene 2003, pp. 283-307.
41
H. W. INWOOD, The Erechtheion at Athens: Fragments of Athenian Architecture and Few Remains in Attica, Megara and Epirus, John Williams Architectural Booksellers, Londra 1831.
La riconfigurazione è pubblicata anche, senza citare Inwood, in G. SCHARF, «A History of Characteristic of Greek Art» saggio introduttivo all’edizione del 1859 di C. WORDSWORTH, Greece:
Pictorial, Descriptive and Historical, cit., pp. 1-87, in part. pl. VI. Per l’attività di Inwood Junior, cfr. K. ALLINSON, The architects and architecture of London, Burlington, Oxford 2008, p.
132.
42
D. LE ROY, Ruins of Athens with Remains and Other Valuables Antiquities in Greece, cit., tt. 21 e 22.
43
J. STUART e N. REVETT, The Antiquities of Athens measuradet and delineated, v. 2, Priestley and Weale, Londra 1825, t. XX.
44
L’architetto William Wilkins (1775-1839), anche lui figlio di un altro architetto come Inwood, era stato ad Atene dal 1800 al 1804 e considerava la sua opera a supplementary of the descriptive part of the valuable work di Stuart e Revett. Cfr. W. WILKINS, Atheniensia, or, Remarks on the Topography and Buildings of Athens, J. Murray, Londra 1816, per l’Eretteo pp. 27-149,
con un disegno riconfigurativo, e IDEM, Prolusiones architectonicæ; or, Essays on subjects connected with Grecian and Roman architecture, J. Weale, Londra 1837, per l’Eretteo pp. 1-38,
con molti dettagli di rilievo. In seguito, come Inwood, Wilkins divenne un acceso fautore dello stile neo-greco, una passione alla quale si devono i suoi progetti per l’University College di
Londra (1827), per il Downing College di Cambridge, del 1804 (P. SEARBY, A History of the University of Cambridge: 1750-1870, Cambridge Univ. Press, Cambridge 1997, pp. 18-24, con
ampi cenni alla formazione di Wilkins), e per la National Gallery, iniziata nel 1833 (cfr. anche K. ALLINSON, The architects and architecture of London, cit., p. 129).
87
L’Eretteo nello stile Beaux-Arts: Théodore Ballu.
147 - Théodore Ballu, “restauration” del tempio dell’Eretteo: sezione, prospetto e dettaglio interno della cella di Athena Polias (1844,
da Paris-Rome-Athens: travels in Greece by french architects in the
nineteenth and twentieth centuries, 1982).
98
L’Eretteo nello stile Beaux-Arts: Jacques-Martin
Tétaz.
148 - Jacques-Martin Tétaz, “restauration” del tempio
dell’Eretteo: sezione, prospetto e dettaglio interno della
cella occidentale (1848, da Paris-Rome-Athens: travels
in Greece by french architects in the nineteenth and
twentieth centuries, 1982)
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Nella pagina a fianco: altre ipotesi concernenti la
distribuzione interna dell’Eretteo e la destinazione
degli spazi.
169 - La pianta secondo James Fergusson (da J.
Fergusson, Das Erechtheion und der Tempel der Athene
Polias in Athen, 1880): la posizione del santuario di
Athena Polias è spostata a Ovest, il tempio di Eretteo a
Est. Vengono anche indagati con attenzione gli annessi
occidentali, all’interno dei quali viene collocato il
Padroséion.
170 - La pianta secondo James Cranmer Penrose (da J.
C. Penrose, An Investigation on the Principles of
Athenian Architecture, 1888): tutto l’interno del tempio
è riservato al culto di Athena Polias, il Pandróseion si
trova all’esterno.
171 - La pianta secondo Fritz Baumgarten (da F.
Baumgarten, Ein Rundgang Durch die Ruinen Athens,
1888): il santuario di Athena Polias si trova a Est, quello di Eretteo a Ovest, il Pandróseion all’esterno; la divisione interna non è chiaramente definita.
172 - La pianta secondo Adolf Michaelis (da H.
Luckenback, Die Akropolis von Athen, 1905): la distribuzione appare simile a quella di Baumgarten, con l’albero di olivo all’esterno.
173 - La pianta a confronto con quella dell’antico
Hekatómpedon secondo Adolf Bötticher (da A.
Bötticher, Die Akropolis von Athen, 1888).
174 - La pianta secondo Gorham Phillips Stevens (da
The Erechtheum measured, drawn, and restored by G. P.
Stevens, 1927): il tempio di Eretteo presenta una cella
binata, ad imitazione di quella dell’Hekatómpedon.
175 - La pianta secondo Andreas Scholl (da A. Scholl,
Koηφóροι: zur Deutung der Korenhalle des Erechtheion,
1996): il tempio presenta due sole celle.
In questa pagina, in alto: l’astrazione della simmetria
e la plausibilità dell’interpretazione mitologica.
176 - In alto: la pianta dell’Eretteo “come doveva essere” secondo Wilhelm Dörpfeld (da M. L. D’Ooge, The
Acropolis of Athen, 1908).
177 - Al centro, a destra: la pianta dell’Eretteo “come
doveva essere” secondo George Wicker Elderkin (da G.
W. Elderkin, Problems in Periclean Buildings, 1912).
178 - Al centro, a sinistra: la pianta dell’Eretteo, come
“non poteva non essere” in base alla rilettura dei suoi
miti e dei suoi culti, secondo Peter Wilhelm
Forchhammer (da P. W. Forchhammer, Hellenika:
Griechenland im Neuen das Alte, 1837). La porta di collegamento fra le due celle è ormai considerata impossibile.
In basso: ultime ipotesi sulla distribuzione interna
dell’Eretteo?
179 - In basso, a sinistra: due celle e un corridoio (da
M. C. Ruggieri Tricoli, Acropoli e mito, 1979).
O - Olivo sacro di Atena; A - Atrio del tempio di Athena
Polias (portico esastilo) e atrio del tempio di Poseidone
(con clerestorio); AT - Cella della Polias; PR Prostómion; V - vestibolo (portico settentrionale); T orma del Tridente; C - Portico delle Cariatidi.
180 - In basso, a destra: due celle senza corridoio (da J.
Travlos, Pictorial Dictionary of Ancient Athens, 1971).
A - Altare di Zeus Hypatos; B - Altare di Poseidone e
Eretteo; C - Altare dell’eroe Bute; D - Altare di Efesto;
E - Scranni dei sacerdoti; F - Portico nord; G - Altare di
Tyechóos; H - Prostómion, con “mare di sale” e impronta del tridente; I - Ádyton per la tomba di Eretteo ed il
serpente sacro; J - Ádyton della statua lignea di Athena
Polias; K - Statua di Hermes; L - Lampada di
Callimaco; M - Bottino delle Guerre Persiane; N Portico delle Cariatidi; O - Tomba di Cecrope; P Pandróseion; Q - Ulivo sacro; R - Altare di Zeus
Herkéios.
109
261 - Leo von Klenze, prospettiva dell’interno del Walhalla (da Leo von Klenze, Sammlung Architektonischer Entwürfe, 1830). Come si vede, la precisa posizione delle cariatidi, con le
braccia sollevate, compare anche nei disegni.
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262 - Leo von Klenze, prospettiva dell’interno della Glyptothek di Monaco (da Leo von Klenze, Sammlung Architektonischer Entwürfe, 1830). All’interno della Gliptoteca di Monaco
von Klenze prevede passaggi fiancheggiati da cariatidi (sul tipo delle cariatidi della via Appia) per accedere alla Heroen Saal ed alla Bronzen Saal.
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Il mito della classicità nel lavoro di un grande architetto: le kórai di Karl Friedrich Schinkel e dei suoi collaboratori.
263 - In alto, a sinistra: Postdam, Charlottenhof, Römischen Baden, Thermenhalle, il portico delle cariatidi. Progetto di Karl Friedrich Schinkel (1781-1841) con la collaborazione dell’allievo Ludwig Persius (1803-1845) per Federico Guglielmo di Prussia, realizzato nel 1834-1837. Le cariatidi di Schinkel, dapprima realizzate in colata di zinco, secondo una pratica molto diffusa in Prussia, poi (1842) scolpite in marmo da August Schievelbein coerentemente con il linguaggio romano-pliniano dei Römischen Baden, richiamano la tipologia arcaicizzante con cálathos e appaiono mutuate da quelle della Villa Albani. Lo stesso Schinkel aveva già usato cariatidi dello stesso genere nel Salone di Stato del principe August di Prussia
a Berlino (1816), oggi non più esistente.
264 - In alto, a destra: Schlosspark Glienicke (Brandeburgo), dettaglio del bow-window della casa del portiere, fiancheggiato da due cariatidi in stile classico, mutuate dall’Eretteo,
anche se il kyma somiglia un po’ ad una cista deformata. Il parco e gli edifici in esso presenti furono progettati da Karl Friedrich Schinkel e dal Landschaftsarchitekt Peter Joseph Lenné
(1789-1866) per il figlio di Federico Guglielmo di Prussia, Carlo, a partire dal 1826. I lavori furono poi continuati dai suoi allievi Ludwig Persius e Ferdinand von Arnim (1814-1866).
265 - In basso: Schlosspark Glienicke (Brandeburgo), lo stibadium semicircolare (Ludwig Persius, 1840). A sinistra: il padiglione, sostenuto da un’unica cariatide centrale. A destra,
dettaglio della cariatide, con cornucopia, vagamente ispirata alla cariatide in forma di dea Fortuna esposta nella Kuppelhalle dell’Altes Museum.
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266 - Karl Friedrich Schinkel, Perspectivische Darstellung des Concertsaals im Koenigl. Schauspielhaus zu Berlin (da K. F. Schinkel, Sammlung architektonischer Entwürfe, 1858).
L’edificio fu realizzato a partire dal 1818 ed inaugurato nel 1821. Si notino le pseudo-cariatidi sull’attico, concepite con assoluta libertà interpretativa ed attinte ad un vasto repertorio
di divinità classiche, secondo il modello di Salonicco (Las Incantadas). Esse sarebbero poi state eseguite dallo scultore Christian Friedrich Tieck (1776-1851). L’edificio è stato distrutto durante la Seconda Guerra Mondiale e poi ricostruito nello spirito dell’originale.
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