ragica responsabilità

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ragica responsabilità
Zimbabwe
AFRICA
t
ragica responsabilità
I fallimenti di un paese, inter rog ativo per tutti
L
a condanna più netta
dell’attuale situazione
politica e umanitaria in
Zimbabwe è stata
espressa da una donna.
La prima africana divenuta capo di
stato. Si tratta di Ellen Johnson-Sirleaf, presidente della Liberia che, invitata come relatrice in un luogo fortemente simbolico – la sudafricana
Soweto – di fronte al simbolo per eccellenza dell’Africa capace di rinnovamento, l’ex presidente Mandela, il 12
luglio scorso nella conferenza che da
sei anni vede alternarsi oratori di fama come Kofi Annan, Desmond Tutu, Wangari Maathai, Bill Clinton e
Thabo Mbeki, ha espresso la propria
visione sul continente e sul caso Zimbabwe con passione e con franchezza.
Uno sguardo ai tanti focolai di conflitti che attanagliano il continente, ma
soprattutto il richiamo a un esercizio
poco praticato nella politica estera degli stati africani: la responsabilità.
Quale rinascita
Dopo aver passato in rassegna luci
e ombre, dati e prospettive di ciò che
oggi è – e soprattutto potrebbe essere
– la «rinascita africana», ha affrontato specificamente il caso che vede un
intero paese tenuto in scacco dall’ottantaquattrenne Robert Mugabe – di
sei anni appena più giovane di Mandela – ma ancora dopo 28 anni saldamente al potere, tenendo assieme nel
proprio ragionamento sia le ragioni
storiche (risalenti al colonialismo) sia
quelle politiche (dell’evoluzione democratica) che stanno sullo sfondo.
Il presidente dello Zimbabwe, Robert Mugabe, al Vertice Africa-Francia di Bamako, dicembre 2005.
Alla sua destra, il presidente del Gabon Omar Bongo Ondimba.
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«So che esprimendo un parere sullo Zimbabwe ho dei limiti. Dopo tutto
la Liberia è in Africa occidentale e ha
solo 3-4 milioni di abitanti. Siamo migliaia di miglia lontani dalle questioni
politiche dell’Africa australe. La Liberia non ha patito il regime coloniale
britannico; né abbiamo fronteggiato
le stesse sfide date dalla distribuzione
della terra che ha creato così tanti
conflitti interni. Tuttavia vorrei sperare di fare parte della nuova Africa
(…), di quell’Africa in cui tutti gli africani hanno la responsabilità per il nostro futuro comune. È pertanto mia e
nostra responsabilità denunciare l’ingiustizia ovunque essa sia».
Occorre qui fare un passo indietro
e ripercorrere brevemente i fatti. Dopo
le elezioni presidenziali e legislative
che si sono tenute in marzo (cf. Regnoatt. 8,2008,266), i cui risultati sono stati resi noti solamente dopo cinque settimane, il partito d’opposizione – il
Mouvement for Democratic Changement (MDC) di Morgan Tsvangirai si
aggiudica la maggioranza dei seggi in
Parlamento, ma i dati ufficiali dicono
che non ha i voti per ottenere la presidenza del paese, per cui occorre un secondo turno elettorale che viene indetto per il 27 di giugno.
La situazione nel paese è di forte
tensione; esercito e milizie giovanili
spadroneggiano e minacciano la popolazione: 2.000 oppositori politici
sono in carcere da aprile, 85 dei quali sono morti – ma sono considerati
oppositori anche le donne e i bambini che si sono rifugiati nelle sedi del
partito d’opposizione – 2.500 hanno
ricevuto cure mediche in seguito a
torture e altri 200.000 sono gli sfollati. Dal 5 giugno le organizzazioni
umanitarie sono state bandite.
A poco meno di una settimana dal
voto, Tsvangirai – che nel solo mese
di giugno è stato incarcerato cinque
volte –, sperando di poter ottenere
una maggiore attenzione a livello internazionale, si ritira dal secondo turno e si rifugia nell’ambasciata olandese in Zimbabwe. Ma Mugabe va
avanti e, dopo le elezioni segnate da
violenze e intimidazioni, presta giuramento come presidente per il sesto
mandato consecutivo. L’Unione Europea e il gruppo dei G8 non riconoscono il risultato; mentre al Consiglio
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di sicurezza dell’ONU non passa la
risoluzione proposta il 15 luglio da
Stati Uniti, Inghilterra e Francia che
impone un ulteriore embargo (delle
armi aggiunto al blocco dei beni e
della libertà di viaggiare di alcuni dignitari del regime) al paese per il veto
di Russia e Cina.
Disunione africana
Non vi è, da parte dei paesi africani, una posizione comune e, anzi, al
vertice dell’Unione Africana di
Sharm el Sheikh del 30 giugno, che
s’ipotizzava diventasse teatro di uno
degli scontri più duri tra le diplomazie del continente, si è invece passati
sopra al caso Zimbabwe come a una
mera questione di politica interna al
paese, al di là di isolate proteste come,
appunto, da parte di Liberia, Senegal
e Kenya.
«È per questo che il 30 giugno (…)
durante la XIII Sessione ordinaria
dell’Unione Africana, assieme a parecchi altri leader africani, ho denunciato e ho chiesto ai miei omologhi di
denunciare il secondo turno elettorale che si è tenuto in Zimbabwe. Già vi
ho parlato dell’esperienza della Liberia. Nel 1985 in Liberia si sono tenute elezioni farsa che sono state riconosciute valide in Africa e nel mondo.
Da lì sono seguiti vent’anni di guerra
civile e di devastazione, con migliaia
di morti e milioni di rifugiati. Non sarebbe dovuto accadere.
Non dobbiamo perdere di vista il
fatto che in Africa non possiamo permetterci il lusso di rinchiuderci nelle
nostre rispettive enclaves politiche. Il
nostro processo politico nazionale deve essere consapevole della regione in
cui ci troviamo. Per questo è importante che i nostri processi politici nazionali a rilevanza pubblica tengano
conto di ciò che sta accadendo in altri
luoghi, e riflettano sulle nostre condizioni regionali e continentali.
In Liberia sappiamo fin troppo
bene che tutte le condizioni della
guerra nel nostro paese sono state
esportate a livello regionale e che ancora oggi, a quel livello, si continua a
patirne le conseguenze. È per questo
che noi continuiamo a preoccuparci
dello sviluppo regionale. Non importa quali progressi riusciamo a fare in
Liberia: se anche la Guinea, la Costa
d’Avorio e la Sierra Leone non stanno al passo, la Liberia non sta al passo. Allo stesso modo qui nell’Africa
australe, finché non si risolve la situazione dello Zimbabwe, l’intera regione percepirà gli effetti dell’instabilità
e il sogno di un governo democratico
e responsabile rimarrà irrealizzato. Il
presidente Mbeki, presidente di turno
dell’Organizzazione per l’unità africana, si è adoperato per rimettere la
Liberia sulla strada della pace e noi ci
auguriamo e preghiamo affinché egli
faccia lo stesso per lo Zimbabwe».
Il riferimento al presidente sudafricano è ben preciso: in quanto presidente dell’organizzazione regionale
degli stati dell’Africa australe, la
South African Development Community (SADC), egli è il mediatore principale, che però nei numerosi tentativi di trovare una soluzione nel conflitto tra Mugabe e le opposizioni non ha
conseguito risultati degni di nota, e
soprattutto non è riuscito a far fermare la violenza. Seguace di Mugabe sin
dai tempi della lotta contro l’apartheid, è rimasto a lui legato, nonostante molti degli altri compagni di
quella storica battaglia, come lo zambiano Kenneth Kaunda, il mozambicano Joaquim Chissano e il compatriota Desmond Tutu, insieme ad altre personalità africane, abbiano firmato a metà giugno un appello che
condannava le violenze e che chiedeva elezioni libere ed eque. Mandela
stesso ha definito il governo di Mugabe un «tragico fallimento».
Il leone al la deriva
Naturalmente c’è da domandarsi
quale potente fattore tenga in piedi
un regime incapace ormai di governare il territorio se non con la violenza e l’intimidazione e dove l’inflazione annuale ha raggiunto il ben poco
onorevole record mondiale del
2.200.000%. Innanzitutto a livello internazionale l’appoggio economico e
bellico da parte della Cina, principale oppositore rispetto a nuove sanzioni dell’ONU contro il paese; poi la
non belligeranza del Sudafrica che
però nei fatti ha tenuto un atteggiamento ambiguo: dal blocco del carico
delle armi cinesi, fino alle periodiche
espulsioni dei rifugiati provenienti
dallo Zimbabwe.
All’interno del paese è ancora il retaggio coloniale a spiegare l’incredibile resistenza di una nave ormai da
tempo alla deriva. «Il vecchio leone»
come viene chiamato dai suoi fedeli,
ha mantenuto viva attorno a sé la rete
dei combattenti che, alla fine di una
lunga guerra civile, espugnarono assieme a lui nel 1980 il paese dal potere di
Ian Smith. Essi sono stati ricompensati ottenendo in cambio posizioni di potere in campo politico, economico e
militare che tuttora detengono. L’espropriazione delle fattorie e dei grandi latifondi ancora in mano ai bianchi
nel 2000 ha continuato in questa direzione (cf. Regno-att. 8,2002,270; Regno-doc. 11,2001,380s), per compensare i veterani della guerra di rango inferiore che rischiavano di essere un fattore d’instabilità. Nessuna riforma
però è stata varata e il granaio africano ora non è più neppure in grado di
sfamare se stesso.
E proprio la nomenclatura più vicina a Mugabe lo avrebbe convinto
senza troppa fatica ad andare fino al
secondo turno del 27 giugno, per
mantenere un regime terminando il
quale essa rischierebbe di perdere
ogni beneficio tanto più che, nel frattempo, si è macchiata di un considerevole numero di omicidi (il più eclatante è quello dei 20.000 uccisi nel
Matebeland tra il 1982 e il 1987) che
non potrebbero passare sotto silenzio.
Tra le voci che con costanza si sono levate a sostegno della popolazione dello Zimbabwe ci sono le Chiese,
che specialmente nell’ultima fase elettorale e in quella immediatamente
successiva sono intervenute a più riprese. Ai primi di giugno l’arcivescovo anglicano di Cape Town (Sudafrica) ha chiesto che la SADC aprisse un
negoziato per risolvere lo stallo politico e far cessare la violenza, allargando il proprio mandato con una presenza «sul campo». Approvando la risoluzione dell’Unione Africana che
chiedeva l’apertura di un negoziato,
l’arcivescovo Thabo Makgoba ha
chiesto inoltre che il partito al potere,
lo ZANU-PF, riconosca legittimità ai
propri oppositori politici. Ma prerequisito per ogni mediazione deve essere la cessazione di ogni attacco contro la popolazione: «Non è possibile
che la gente venga uccisa perché non
ha le dita sporche d’inchiostro rosso»
– quello che serve per votare – ha detto l’arcivescovo.
Un regno di violenza
Dall’interno del paese è giunta
una conferma: i vescovi cattolici in
una dichiarazione del 13 giugno affermano che il paese è prigioniero di
un «regno di violenza».
Attenzione al delicato momento
rappresentato dal secondo turno elettorale è stata espressa dal segretario
generale del Consiglio ecumenico
delle Chiese (CEC), Samuel Kobia, a
una settimana dal voto. In un ulteriore documento di qualche giorno successivo il CEC ribadisce la necessità
di un «intervento internazionale» a
garanzia delle necessità umanitarie,
della libertà religiosa e dell’incolumità fisica della popolazione dello
Zimbabwe. «Abbiamo saputo che ad
alcune Chiese è stato impedito di celebrare il culto, mentre altre celebrazioni sono state disperse con la violenza». La lettera, echeggiando il recente discorso di Benedetto XVI all’ONU (Regno-doc. 9,2008,270ss) ricorda inoltre che in «situazioni estreme» la comunità internazionale «ha il
dovere (…) d’intervenire negli affari
interni di uno stato nell’interesse e
per la salvaguardia della popolazione,
un principio noto come “responsabilità di proteggere”».
«Purtroppo la violenza a sfondo
politico, le intimidazioni e le torture»
rendono illegittime le elezioni del 27
giugno – ha affermato decisamente il
card. Wilfrid Napier, presidente della
Conferenza dei vescovi cattolici del
Sudafrica, il quale chiede inoltre la
formazione di un governo di unità
nazionale. Come vescovi «assieme ad
altre organizzazioni, facciamo presente che le atrocità e le barbarie
compiute dallo ZANU-PF sono documentate. Le azioni di Mugabe e quelle dei suoi generali, delle loro mogli,
delle bande di teppisti che lo sostengono e dei cosiddetti “veterani di
guerra” sono offese al cospetto di
Dio». I vescovi inoltre ipotizzano che
«la situazione di violenza senza speranza, la fame e l’incertezza» potrebbero provocare una vasta crisi umanitaria che riguarderà l’intera regione
dell’Africa australe.
Allo stesso modo, il Consiglio sudafricano delle Chiese ha annunciato
all’indomani delle elezioni che non
avrebbe riconosciuto la presidenza di
Mugabe. Ha chiesto poi l’applicazione delle sanzioni, poiché, «anche se
colpiranno i poveri e i sofferenti dello
Zimbabwe, siamo giunti alla conclusione che il popolo dello Zimbabwe
porta già il peso di un’indicibile sofferenza». Le sanzioni hanno infatti come scopo quello di spingere il regime
verso il negoziato.
Anche l’AMECEA, dopo l’assemblea terminata i primi di luglio (cf. qui
a p. 439) ha messo in dubbio la legittimità del secondo turno elettorale,
unendosi al coro dei tanti che chiedono un rafforzamento nella mediazione
della SADC e dell’Unione Africana.
Infine, è da ricordare il breve comunicato dei leader delle maggiori
denominazioni cristiane presenti in
Zimbabwe – il Consiglio delle Chiese,
l’Alleanza evangelica e la Conferenza
dei vescovi cattolici dello Zimbabwe
–, reso noto a metà luglio. Esso esprime il timore che riappaiano forme di
genocidio simili a quelle sperimentate
in altre parti del continente. «Abbiamo assistito a un’ondata di violenza
tra le più brutali mai avvenute nel
paese dal 1980 a oggi, sia prima sia
dopo il secondo turno del 27 giugno.
La popolazione ha subito (…) torture,
omicidi, rapimenti, spostamenti forzati e traumi psicologici (…). La volontà della popolazione dello Zimbabwe non è stata adeguatamente
espressa durante queste elezioni. In
quanto Chiese dello Zimbabwe chiediamo che i presidenti dello ZANUPF e del MDC e i loro rispettivi partiti mettano da parte le proprie differenze e s’incontrino faccia a faccia alla ricerca di una soluzione».
L’incontro tra le parti è avvenuto e
il 16 luglio si sarebbe dovuto firmare
un primo protocollo d’intesa, ma il timore del MDC di subire la sorte del
partito ZAPU, sparito agli inizi degli
anni ottanta proprio dopo un accordo
con il partito ZANU-PF per mettere fine alle violenze nel Sud del paese, l’ha
portato per ora a prendere tempo.
Maria Elisabetta Gandolfi
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