Ott - Centro Socio Culturale
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OGGI famiglia ANNO XIV N°9 Ottobre 2002 Sped. Abb. Post. 45% Art. 2 Comma 20/b Legge 662/96 Filiale di Cosenza ORGANO DEL CENTRO SOCIO CULTURALE “V. BACHELET” COSENZA - AL SERVIZIO DELLA FAMIGLIA IN CALABRIA Ogni vera rivoluzione comincia da Dio I regimi teocratici islamici non sono per Dio, ma contro Dio di Vincenzo Filice A bbattere un regime è facile. Basta essere il più forte in armi e strategie. Tutta la storia delle rivoluzioni e delle guerre combattute, o in nome del dominio, o in nome della libertà e della giustizia, o della democrazia, ci testimonia questa verità solare. E’ stato sempre così. Abbattere, invece, una cultura è difficile. La cultura tocca l’ethos di un popolo: i valori in cui crede e per cui si batte, i suoi ordinamenti civili e religiosi, i suoi costumi, la sua filosofia di vita, la sua mentalità. er abbattere la cultura di un popolo (quello di Ben-Laden), occorre convincerlo che la sua non è l’unica possibile, occorre rivangare, ab imis, il suo ethos, cioè, il suo terreno di coltura che come l’humus corrotto di un bosco, alimenta le male piante della storia umana (sete di dominio, violenza, arretratezza e ignoranza, degenerazione religiosa e morale) e ne impedisce i percorsi di civilizzazione. La guerra, ogni guerra, rimescola, solo, le carte del potere, ma, difficilmente, tocca la cultura. Il terrorismo stesso, è, nella sua sostanza, una guerra di conservazione. Esso camuffa la difesa ad oltranza del potere costituito con la difesa della cultura del proprio popolo. Dio stesso viene brandito come una spada e viene trasformato in vindice del suo popolo, anzi lotta a fianco a fianco di esso contro il Dio falso e bugiardo degli altri, considerati “infedeli”. La lotta politica, così, si trasforma, facilmente, in lotta tra gli dei. P In questo clima di “corruzione culturale” la lotta per il dominio di un popolo sull’altro assume la dimensione apocalittica della lotta “finale” tra due “imperi del male”. La lotta fisica si trasforma in lotta metafisica e il Dio creduto fonte di legittimazione del potere costituito e dei suoi ordinamenti sociali guida la guerra e spinge “i fedeli” alla guerra. E’ inutile, a questo punto, parlare di fanatismo. Qui occorre un disincanto (M. Weber) che, solo un processo di secolarizzazione appropriato può provocare. L’Occidente, animato dalla rivelazione Cristiana, sia pure tra mille contraddizioni, devianze oscurantistiche e ricadute nella logica del dominio, è riuscito, a decretare la “morte di Dio”. Il “vecchio Dio” di Nietzsche, infatti, era il Dio morale, antilibertario, antiumano, goffo garante di ordinamenti millennari, ingiusti e perversi, che in esso avevano trovato una potente fonte di legittimazione e di intoccabilità. L a rivoluzione illuministica, abbattendo gli ordinamenti delle monarchie assolute, provocò, è vero, una semplice sostituzione di essi. Ma il mondo, culturalmente e religiosamente, non fu più lo stesso. La vera rivoluzione che ha portato i popoli alla democrazia e al riscatto umano delle masse popolari dall’ignoranza e dalla miseria, avvenne in seguito, dopo l’abbattimento del “Dio garante” e teocratico. Quella rivoluzione, prima che politica fu culturale. E’ sempre così: prima di riformare il mondo, anzi per riformarlo, bisogna cominciare da Dio. ’immagine che l’uomo, in ogni tempo, si fa di Dio è simbolica e il simbolo, come si sa, è solo allusivo, non è la realtà. Esso, per questo, assume il colore e i contenuti di una data cultura storica. Per questo, se non si demolisce la rappresentazione di Dio, che fa da supporto al potere costituito, a nulla valgono le rivoluzioni armate e gli atti terroristici. Se l’uomo muore, Dio non cè. Nessun Dio ci solleva dalla L ✔ CONTINUA A PAGINA 3 ROCCA DI PAPA: Più di 160 coppie provenienti da tutt’Italia riscoprono La centralità del sacramento nuziale di Francesca e Gianluca Pallone È cominciato all’insegna dei numeri il IV° Incontro nazionale dei responsabili diocesani di pastorale familiare che si è tenuto a Rocca di Papa tra il 17 e il 20 ottobre sul tema “L’Ufficio diocesano di pastorale familiare: priorità e progetto”. Ed i numeri, si sa, quando si parla di famiglia non sono - ahimè poco confortanti: così il dottor Francesco Belletti, Direttore del CISF (Centro Italiano Servizi alle Famiglie), dopo il saluto di S. E. Mons. Giuseppe Betori, (Segretario Generale della CEI) e di S. E. Mons. Dante Lanfranconi (Presidente della Commissione Episcopale per la Famiglia e la Vita), ci ha descritto attraverso i dati statistici il quadro della situazione attuale della famiglia in Italia (e non c’è da sperare in meglio negli altri Paesi europei e non). La freddezza dei numeri non è riuscita però a dissolvere quell’atmosfera di calore e di emozione che si era creata sin dall’inizio tra i circa trecento convegnisti venuti da tutt’Italia a rappresentare le proprie diocesi, sin da quando un fragoroso, sentitissimo applauso aveva salutato, dopo otto anni di “onorato servizio”, il Direttore dallo studio e dal confronto fatto dal parroco e dagli sposi insieme per arrivare a rinnovare l’anima stessa della parrocchia affinché diventi “ciò che è”, famiglia di famiglie. Ma oltre ad affidarci, congedandosi, questa sua amata creatura, che è il progetto parrocchiafamiglia, Don Renzo ci ha indicato (confessa una sorta di testamento spirituale) le “priorità per la pastorale familiare oggi dimissionario dell’Ufficio famiglia della CEI, Don Renzo Bonetti. Don Renzo va via con otto mesi di anticipo sulla scadenza del suo mandato e quella passione che ha seminato in giro per l’Italia lavorando con le famiglie se la porta ora a Bovolone, in provincia di Verona, nella parrocchia in cui andrà a lavorare, convinto - come egli stesso ci ha confidato - di poter dare ancora e forse di più alla pastorale della famiglia. Il suo, però, è solo un arrivederci e non un addio: sarà, infatti, il coordinatore nazionale del Progetto Parrocchia-Famiglia già attivo in 32 parrocchie (tra cui la sua ed una anche qui in Calabria), un’idea che parte E R E I V O R P S Rocca di Papa: Centro “Mondo Migliore”, sede del convegno in Italia”: innanzitutto la produzione e l’approfondimento della teologia del sacramento delle nozze, poi la formazione anche attraverso la direzione spirituale di coppia, ancora l’analisi del rapporto tra Ordine e Matrimonio ed infine l’educazione al- PRONTO SERVICE SERVIZI ECOLOGICI Rende - Tel. e Fax 0984 446174 - 0336 546970 della Genesi (Adamo ed Eva) e quella dell’Apocalisse (l’Agnello e la sua Sposa) e ci ha indicato il centro di tutto questo ed il suo cuore nell’Ultima Cena, cioè nell’Eucaristia; il secondo ci ha con- ✔ CONTINUA A PAGINA 12 ASCENTE ARREDAMENTI ZIONI DISINFE ZIONE IZZA DERATT NE STAZIO DISINFE MENTI TRATTA I PER ENT REPELL I TIPO S QUALSIA VOLATILE ILE E DI RETT IMPRESA DI GIARDINAGGIO E PULIZIE GENERALI l’amore, visto come la sostanza, il centro della vita cristiana. E non sono mancati a Rocca di Papa i momenti forti di impegno teologico, da quello “poetico” di Don Giorgio Mazzanti a quello “danzante” di Don Francesco Pilloni: il primo ci ha richiamati alla contemplazione del grande mistero nuziale suggerendoci una rilettura di tutto il testo biblico come una grande voluta “inclusione“ tra la coppia tecnologia, ergonomia, ecologia del mobile ASCENTE ARREDAMENTI s.r.l. Viale Trieste, 69 - 87100 Cosenza Tel./Fax 0984 / 21165 OGGI famiglia 2 Ottobre 2002 Il processo di sviluppo dei popoli presuppone lo sviluppo della democrazia e della libertà Non può bastare la politica della solidarietà, ma bisogna dare a tutti i popoli la capacità autonoma di raggiungere rapidamente un alto livello tecnologico e produttivo di Giovambattista Giudiandrea Torno sul problema delle sperequazioni economiche e tecnologiche che caratterizzano il mondo moderno, incoraggiato forse dall’articolo di Rosa Capalbo sull’ultimo numero della rivista. Avverto solo che, per non meritarmi l’appellativo di “depensante” coniato da Carmelo Bene, cercherò di sottoporre a verifica alcune conclusioni cui si perviene per accettazione del comune pensare: oggi è troppo forte la tentazione di adeguarsi ad alcuni luoghi comuni, per cui ci trasformiamo - sostiene Carmelo Bene - in “depensanti” che assumono e ripetono i giudizi più diffusi. Le sperequazioni tra i popoli sono sempre esistite ed è altamente positivo che oggi ce ne scandalizziamo, invece di accettarle: è questo un ulteriore segnale della “crescita” civile della coscienza dell’umanità che fino a ieri giustificava il colonialismo come diritto dei popoli forti di conquistarsi “un posto al sole” o addirittura come una applicazione del darwinismo al campo sociale, per cui i popoli deboli sarebbero destinati a soccombere come avviene in natura tra specie forti e specie deboli. La coscienza del cittadino moderno si ribella a queste mostruosità che hanno alimentato la cultura degli ultimi due secoli. Questa nuova consapevolezza sorregge, secondo me, la ragionevole speranza che l’umanità riesca a liberarsi presto di ogni assurda sperequazione, in modo da potere pervenire all’unica forma di convivenza possibile, quella fondata su una distribuzione delle risorse economiche e tecnologiche che non sia scandalosamente sperequata come quella attuale. Si tratta, dunque, di elaborare strategie adeguate per realizzare il superamento delle sperequazioni, tenendo presente che di esse, nel corso dei secoli, tutti i popoli sono stati vittime e responsabili in momenti diversi: non è trascorso molto tempo da quando subivamo la dominazione austriaca o quella spagnola o quella islamica e gli stessi USA sono stati fino a due secoli fa una colonia inglese. In passato, l’unica strategia da seguire per uscire dallo stato di colonia era il ricorso alle armi per sottrarsi al dominio subito e possibilmente imporre il proprio dominio su altri popoli. L’umanità oggi si è liberata dell’aberrante cultura del colonialismo ed affronta il problema della convivenza dei popoli non più in termini di soggezione del più debole al più forte. Si aprono, così, prospettive interessanti e del tutto nuove, che vanno arricchite di progetti attuativi validi. Non basta più fermarsi alla denunzia dello stato di miseria in cui versano alcuni popoli, ma occorre aggiungere indicazioni adeguate al problema da risolvere: si tratta di dare a tutti i popoli la capacità di raggiungere rapidamente un alto livello tecnologico e produttivo; non può bastare, quindi, la politica della solidarietà (che molti invocano) annullando i debiti contratti (che presto potrebbero essere nuovamente accumulati) o quella degli “aiuti” che - alla stregua della elemosina - possono portare un qualche sollievo per particolari situazioni, ma non risolveranno il problema, am- messo che non siano dirottati verso finalità perverse come l’arricchimento di singoli satrapi e come gli armamenti per protrarre guerre fratricide e tribali. Ben venga la solidarietà, ma come forma di intervento immediato da accompagnare ad una politica più organica ed incisiva, così come l’analgesico può solamente accompagnarsi alla cura, e non può avere la pretesa di sostituirla. La dimensione del problema, come si vede, è cosi grande da non ammettere approcci superficiali intonati alla sola solidarietà. E non è un caso che anche quando la sinistra era in netta maggioranza nel G8 (Italia, Francia, Germania, Inghilterra e USA avevano tutti governi di sinistra) non ha saputo andare oltre impegni per la riduzione dei debiti (che poi nessuno manteneva) né oltre la elargizione di aiuti che, tanto per citare un caso, la Palestina utiliz- zava (ed utilizza) per finanziare le famiglie dei kamikaze o per stampare testi scolastici con carte geografiche da cui era cancellato Israele. A rendere più complessa (e direi titanica) la politica di aiuto agli altri popoli del mondo perché raggiungano un livello tecnologico e produttivo più avanzato è la condizione irrinunciabile che questo aiuto non assuma mai le forme della crociata colonizzatrice o civilizzatrice (che si assomigliano come la zuppa e il bagnato). Lo sviluppo della tecnologia e della capacità produttiva, d’altra parte, non è una merce che si possa esportare in sacchi, ma è un processo autogeno da promuovere e stimolare senza mai sostituirsi al popolo che ne deve essere l’artefice. Si aggiunga che forze interne di questi popoli possono avere interesse ad impedire che si realizzi un simile processo di sviluppo, che ri- Il “Quaderno del poeta” cambia il volto di Maria Domanico Sabato, 5 ottobre, alle ore 18.00, presso la V circoscrizione comunale di Cosenza, è stato presentato il numero doppio 4-5 del “Quaderno del Poeta”, edito da Quartiere Due Collettivo di Teatro e curato da “La Stanza del Poeta”. Il “Quaderno del Poeta”, nato nel marzo 2001 da un’idea di Orazio Garofalo, si è prefisso, fin dal primo numero, di fare non solo poesia, ma di abbracciare attraverso essa quelle branchie dello scibile nano che si incastrano fra di loro per trasmettere la voglia del sapere. Quest’ultimo numero si è voluto presentare per evidenziare e spiegare i motivi della scelta di una veste tipografica diversa. Infatti, le prime tre uscite sono state caratterizzate dal lavoro artigianale anche nell’impaginazione, se si è scelto diversamente è perché i componenti della redazione hanno pensato bene di dedicare questo tempo alla lezione accurata del materiale che arriva sempre più copiosa in seno alla “Stanza del Poeta”, cercando di dare, così, al lettore non solo una qualità sempre maggiore ma una chiarezza ferma sulle immagini che caratterizzano i nostri tempi. Comunque, la scelta della nuova veste tipografica non lascia indietro l’idea stessa del “Quaderno” e il suo aspetto artigianale. A spiegare questo incontro è intervenuta per la prima volta Barbara Marchio, giornalista nonché Direttore Responsabile del “Quaderno”, ed ha relazionato il prof. Vincenzo Ferraro, Dirigente Scolastico del Liceo Classico di Rende. Sono intervenuti Michele Chiodo, il quale ha sottolineato le problematiche che assillano da anni la Biblioteca Civica di Cosenza e nelle quali va cercato uno dei motivi del mancato decollo culturale di Cosenza, Anna Mazzeo e Monica Lanzillotta. La serata si è conclusa con la lettura di poesie di alcuni componenti della stessa “Stanza”: Franco Gordano, Franco Araniti, Patrizia Altomare, Luigi Mandoliti, Anna Petrungaro, Gianpaolo Furgiuele, Sergio Valentini e Alessandro Sicilia. voluzionerebbe tutti gli attuali equilibri interni. Penso, ad esempio, a quante resistenze possano nascere contro un processo che liberalizzi società in cui ci sono ceti che sfruttano bestialmente altri ceti e non hanno interesse ad ammettere la libertà sindacale, società in cui la donna è tenuta in stato di servaggio e non molti sono pronti a riconoscerne il diritto alla parità, società in cui la principale ricchezza dell’epoca moderna, il petrolio serve unicamente ad arricchire a dismisura sceicchi che non hanno interesse ad innescare un processo di affermazione delle libertà civili e democratiche. L’odio contro l’occidente e contro il modernismo è funzionale al mantenimento dello stato attuale di mancanza di democrazia, la quale è a sua volta funzionale del mantenimento del dominio e dello sfruttamento di alcuni ceti su altri. Far credere che la fame sia una responsabilità degli occidentali distrae gli affamati dai responsabili reali (e vicini) di tanta miseria. Il fascismo fece credere agli italiani che responsabili della miseria e delle privazioni erano gli stati che avevano deciso le sanzioni contro l’avventura in Etiopia e non invece la folle politica bellicista che faceva divorare il bilancio della nazione nelle spese di riarmo. Oggi Saddam fa credere ai suoi concittadini che la responsabilità della miseria in cui versano sia l’embargo deciso contro la sua politica aggressiva e non invece il suo folle bruciare tutte le risorse del paese nelle spese militari. L’odio contro gli altri è stato sempre sperimentato con successo dai dittatori che dovevano distrarre i loro popoli dagli errori tremendi che commettevano. Il processo di sviluppo dei popoli, che deve restare autonomo (anche se stimolato), presuppone un contemporaneo sviluppo della democrazia e della graduale attuazione dei principi universali stabiliti dall’ONU. Non è un caso che la mappa della miseria nel mondo coincida con la mappa dei regimi totalitari. Un popolo non può svilupparsi senza democrazia: quale sviluppo può generarsi se è impedita la libertà di pensiero e di ricerca, se vige un sistema mostruoso di persecuzione contro il dissenso, se una metà della popolazione (le donne) è tenuta in stato di schiavitù, se la circolazione delle idee è impedita dalle proibizioni a TV, internet, cinema e se il fanatismo della teocrazia sbarra il passo alla razionalità dello stato laico? Questo il processo da mettere in moto. Per cui è necessario liberarci da ogni semplificazione che porta ad illuderci che con un po’ di buon cuore da parte nostra quei popoli raggiungeranno il loro progresso. Quei popoli devono affrontare e risolvere i problemi dei nuovi traguardi democratici e civili da conquistare. E noi sappiamo quanto è stato difficile liberarci dai retaggi del fascismo. OGGI famiglia mensile del centro socio culturale “VITTORIO BACHELET” DIRETTORE: Vincenzo Filice VICE DIRETTORE: Domenico Ferraro DIRETTORE RESPONSABILE: Franco Bartucci COORDINATORE E AMMINISTRATORE: Antonio Farina SEGRETARIA DI REDAZIONE: Mariella Spagnuolo IN REDAZIONE: Vincenzo Altomare, Rosa Capalbo, Giovanni Cimino, Giulia Fera, Vincenzo Napolillo, Antonino Oliva, Lina Pecoraro, Teresa Scotti, Luigi Verardi, Davide Vespier ELABORAZIONE DATI: Francesco Terracina SPEDIZIONE: Egidio Altomare, Rachele Mazzei, Carmelo Silano, Emilio Marigliano, Franco Silano STAMPA: Grafica Cosentina - Via Bottego, 7 - Cosenza IMPAGINAZIONE: T.&P. Editoriale - Via Adua, 16 - Cosenza Articoli e Corrispondenze da spedire a C.P. 500 COSENZA o Redazione - Via Salvemini, 17 - Tel. 0984 483050 www.centrobachelet.it - E-mail: [email protected] — Aut. Trib. Cosenza n° 520 del 9 maggio 1992 — OGGI famiglia 3 “Come far sì che in una stessa società possano coesistere divergenti stili di pensiero?” (ELENA BEIN RICCO) Ottobre 2002 (penso addirittura che, rispetto al dibattito sulla laicità, il cristianesimo debba sentirsi a casa propria). Laicità vuol dire: dialogo, reciproco riconoscimento, reciproca contaminazione, apertura sincera all’altro per imparare poiché su questo punto nessuno è maestro - a convivere pacificamente e progettualmente. Tutto questo non implica affatto che per convivere occorra rinunciare alla propria visione del mondo, anzi! Si tratta (come ci hanno ricordato, recentemente Rawls, Habermas e Taylor) di integrare - o, almeno, affiancare - la nostra particolare concezione della vita in uno sfondo più ampio e generale, uno ‘spazio comune’ elaborato e costruito da tutti e fatto di valori e regole condivise. Oggi questo ‘spazio pubblico’ ci è offerto dalla Costituzione e la democrazia è il mezzo e il terreno per rispettarla e criticarla - modificandola - lì dove la dignità della persona umana e i diritti di ‘cittadinanza’ delle minoranze non sono tutelati. Mi ritrovo pienamente nelle parole di Elena Bein Ricco: “individui diversi per provenienza, eredità culturale, appartenenza religiosa imparano a diventare cittadini, discutendo tra loro e accordandosi su norme uguali per tutti, e lo Stato, di conseguenza, viene a configurarsi come la ‘casa comune’, la ‘patria’ in senso moderno. Quest’ultima, infatti, non è un fatto, ma un patto, poiché essa non è una comunità compatta e omogenea, basata su uniformità etniche, linguistiche o religiose, ma può essere, al contrario, solo l’esito di un progetto collettivo, in cui il legame che unisce i cittadini è un vincolo di regole liberamente sottoscritte (...) L’unica regola fondamentale, appunto laica, da rispettare è quella di non pretendere di imporre le proprie credenze a tutti e di veder tradotte in leggi universali le proprie posizioni particolari”. FILOSOFIA DELLA LAICITÀ - I Due letture della laicità 1. ‘Laicità’: una parola ambigua Tra le parole più usate e (forse) più abusate del nostro lessico compare, senza dubbio, la parola ‘laicità’. Con essa ci identifichiamo, benché non vi attribuiamo tutti il medesimo significato. Si definisce laico chi non ha una visione religiosa o cristiana della vita, ma anche chi è cristiano per scelta più che per tradizione. Oppure - ancora - chi vuole mantenere una posizione di neutralità di fronte alle molteplici confessioni religiose, che affollano le nostre società occidentali. Insomma: laico, laicità sono parole tutt’altro che chiare e identificarsi con esse è un atto molto più complesso di quanto non si voglia ammettere. Un po’ schematicamente potremmo ricondurre le definizioni di ‘laicità’ a due matrici fondamentali: quella laicista e quella cristiana. 1.1 La visione laicista della laicità Secondo questa lettura, essere ‘laici’ vuol dire rifiutare qualsiasi visione religiosa della vita per affidarsi - nell’affrontare le sfide della storia - alla sola ragione. Questa concezione della laicità manifesta una debolezza e un punto di forza. Una debolezza, perché per comprendersi, il ‘laico’ necessita della religione, dovendo negarla per conquistare la propria identità. Chi sono io laico? Sono un non-religioso! E dunque, il laico si definisce in relazione alla religione. Il punto di forza, invece, è dato dal continuo richiamo alla ‘ragione’, come contenuto e come metodo, per dare senso alla vita e per guidare il cammino della storia. A questo indirizzo appartengono nomi prestigiosi dello scenario filosofico e sociologico odierno: Habermas, Popper, Rawls, Taylor, Giddens, Darendhorf, Bobbio, Cacciari, Galimberti, Rodotà, Jonas, Bauman e tanti altri ... Questa visione della laicità pretende di ereditare le istanze dell’illuminismo che, seppur con sano realismo, ha inteso affidare l’uomo alla forza critica e comunicativa della sua ragione. Queste istanze sono ritenute tutt’altro che supera- di Vincenzo Altomare te, motivo per cui si considerano illegittime le pretese di superamento del ‘moderno’ avanzate dalla cosiddetta ‘postmodernità’. 1.2 La visione cristiana della laicità Nel corso del XX secolo, importanti ricerche teologiche hanno mostrato che la fede cristiana è alla radice della modernità e delle sue idee guida. I1 primato e la dignità della persona umana, la sua responsabilità nel mondo e per il mondo sono solo due delle idee forza che la modernità ha appreso dalla Bibbia e che ha tradotto sul piano etico-politico e storico-giuridico (le Costituzioni europee e americane ne sono un valido esempio). Ma le sue sorgenti sono nella Croce (Mc. 2, 27; Mt. 6, 25-34). Tra i teologi che si sono distinti su questo versante della ricerca, per la profondità delle intuizioni, troviamo Bonhoeffer e Gogarten. In particolare il secondo, nel suo libro Destino e speranza dell’epoca moderna (1935) ha scritto: “l’uomo è figlio, non soltanto bimbo proprio perché ha il suo mondo, il mondo di cui è signore e per il quale, come ‘maggiorenne’ porta la responsabilità”. Secondo questa prospettiva, dunque, la laicità indica la responsabilità dell’uomo nel mondo e per il mondo. Il che non implica affatto la rinuncia ad una visione religiosa della vita, se è vero che la secolarizzazione è stata favorita proprio dalla Bibbia! 2. La laicità è un metodo, più che un contenuto! Se le cose stanno così, penso che dovremmo un po’ tutti ripensare la qualità del dibattito culturale e politico del nostro tempo. Dovremmo tutti mettere da parte i tentativi di monopolizzare e ‘colonizzare’ intere sfere della vita pubblica (Tv, stampa, scuole, università, mercati ...) e aprirci di più al dialogo. Dopo tutto, la laicità è un metodo più che un ‘contenuto’: si può ben essere ‘laici’ pur essendo cristiani • • • • CONSIGLI DI LETTURA J. HABERMAS C. TAYLOR, Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, Feltrinelli, Milano 1998 J. HABERMAS, L’inclusione dell’altro, Feltrinelli, Milano 1998 Z. BAUMAN, Voglia di comunità, Laterza, Bari 2001 G. E. Rusconi, Come se Dio non ci fosse, Einaudi, Torino 2000 Continua da pag. 1 L’identità cristiana nella cultura pluralistica Ogni vera rivoluzione comincia da Dio di Angela Cristiano Il tema dell’identità è oggi al centro di problemi psicologici, sociali e politici. Questi problemi riguardano sia le identità individuali, sia le identità collettive. Il mondo della “tarda modernità”, in cui viviamo, invita ciascuno a determinare liberamente, cioè a reinventare, la propria identità, rompendo i vincoli delle tradizioni. E’ sempre più diffuso il senso del limite sia a causa delle proprie caratteristiche personali che a causa delle particolarità delle culture. Nel mondo, emergono nuove identità legate all’aumento della mobilità sociale e dei fenomeni migratori. La mescolanza che ne consegue porta ad una nuova concezione della vita basata sulla multiculturalità, sulla multietnicità. Si fa strada, così, una forma di relativismo che investe anche l’ordinamento dei valori cui ciascun popolo si ispira e dal quale l’identità prende corpo e che assume tutte le caratteristiche della perdita dell’identità: “Ovunque accade che le società tradizionali si stanno dissolvendo”. Dal punto di vista religioso il fenomeno è avvertito molto più da vicino. Il pluralismo, vissuto come relativismo, “ha determinato il declino della religione sia nella sfera pubblica sia nelle menti degli individui”. La coesistenza, anche pacifica, di gruppi umani diversi avvia forme di interazione sociale che, per loro natura, portano a forme di contaminazione cognitiva. I diversi stili di vita, valori e credenze religiose si mescolano e le convinzioni assumo, sempre più, l’aspetto di opinioni. L’identità originaria, perciò, risulta minacciata e, pirandellianamente, ci sentiamo “uno, nessuno e centomila”. Il pluralismo, perciò, è un fenomeno che, in nome della tolleranza, può portare alla perdita di identità in un mondo dove, come nella notte, tutte la vacche sono nere. Si tratta di una sfida a mantenere le proprie convinzioni senza dissolverle in pura e semplice relatività e senza “racchiuderle nei falsi assoluti del fanatismo fondamentalista”. Si tratta, tutto sommato, di riscoprire la propria identità in termini forti per lasciarla diluire nel “brodo” culturale di un globalismo massificante e senza verità oggettiva. Questa operazione esige, come punto di partenza una definizione chiara di ciò che si intende per “identità”. L’identità cristiana, infatti, dipende da ciò che si deve intendere per “identità” in generale. Nel 1921 Wittgenstein scrive una nota che, di per sé taglia le gambe a ogni ricerca in questa direzione: “Incidentalmente: il dire che due cose sono identiche è un non senso, mentre il dire che una cosa è identica a se stessa non dice assolutamente nulla”. Wittgenstein sembra metterci in guardia dalle semplificazioni semplicistiche. In realtà resta una impresa difficile, anche se non rinunciabile, la definizione dell’identità. Per quanto ci riguarda, in questa sede, l’identità cristiana la intendiamo riferibile a tutte quelle proprietà che rendono identificabile il Cristianesimo e, a livello personale, il cristiano. L’identità cristiana, insomma, rimanda all’essenza del cristianesimo, ma non in termini astratti. Il Cristianesimo, infatti, è una essenza, è un’autocoscienza, un’esperienza di Dio originaria, che è identificabile nella “costanza di una forma”. Esso è, anche storia di crescita e di modificazioni, di giovinezza e di invecchiamento. Esso, cioè, ha una struttura dinamica che raccorda, unificandoli, nel vissuto attuale delle persone, delle istituzioni, il passato, il presente ed il futuro. L’identità cristiana, allora, non è disgiunta, come ogni identità, dalla memoria. La memoria del “chi siamo stati” ci dice chi siamo. Per cui l’identità è, anche la storia di una comune appartenenza. Le morie comuni definiscono le appartenenze e ci sentiamo, di conseguenza, distanti da tutti quelli con cui non abbiamo memorie comuni. Quando parliamo di “identità cristiana”, allora, ci riferiamo alla esperienza del Risorto fatta dalla prima comunità discepolare di Gesù di Nazareth e che è pervenuta fino a noi, senza soluzione di continuità. Questa esperienza è memoria ma, anche, ripresentazione di ciò che avvenuto nel passato. Poiché il Risorto, è una presenza viva, questa esperienza continua e può essere fatta da chiunque accoglie il seme della Parola “seminato in lui”. L’identità cristiana è l’essenza del Cristianesimo: l’esperienza della risurrezione. Questa coscienza, più o meno vissuta lungo i secoli, ha assunto vari “rivestimenti”, varie “forme” storiche che, a volte, sono stati identificanti con l’essenza. Il Cristianesimo ha assunto una “forma religioso-sacrale e teocratica” che ci ha, paradossalmente, allontanati dal Risorto. Per il futuro si tratta di riscoprire e rinverdire l”identità cristiana” imparando a concepirla non come una via dell’uomo a Dio, ma come la via di Dio all’uomo, come evento, personale e comunitario, che, come un avventoaccadimento, ci raggiunge dal futuro inteso come “pienezza” esperienziale e compiuta di Dio verso il quale siamo incamminati nella duplice prospettiva del già e del non ancora. Il futuro, all’interno di questa identità ritrovata, non si identifica con ciò che verrà, ma con ciò che avviene, che accade. Esso la pienezza, l”identità raggiunta e posseduta nel suo “pleròma” che, oggi, irrompe, non improvvisa e preconfezionata, ma assume il cammino umano storico, il divenire. L’identità cristiana, dal homo viator, è già posseduta, ma è, anche ricercata e, perciò, essa è perennemente in crisi: muore e risorge. responsabilità di essere “custodi di nostro fratello” (Gn 4,2-16). Giovanni Paolo II avverte: “Chi attenta alla vita dell’uomo, in qualche modo, attenta a Dio stesso” (EV, 8). La rivoluzione operata da Gesù, infatti, non fu armata e violenta, ma fu profondamente religiosa (vorrei dire, teologica), perciò, culturale e coscenziale. Egli predicò, e per questo morì, il “cambiamento del cuore” e fece intravedere la falsità della rappresentazione di Dio su cui si reggeva tutto l’ordinamento della teocrazia giudaica del suo tempo. Gesù è un esempio per sempre. La rivoluzione illuministica, nelle sue rotture, fu laicista, ateistica, materialistica. Essa, tuttavia, non fu, come tanti pensarono, una rivolta contro Dio, toutcourt, ma contro quel Dio che garantiva (facendo da coperta) l’oppressione dei popoli e la schiavitù della coscienza. Anche Gesù fu accusato di ateismo e di sovvertimento dell’ordo religiosus teocratico del Tempio. La triade valoriale: liberté, egalité, fraternité, fatta propria dalla rivoluzione francese, era figlia della verità cristiana, di un Dio che Gesù rivelò come Padre di tutti, soprattutto, dei poveri e dei deboli del mondo e che sfugge ad ogni tentativo umano di sacralizzazione fissista. uesto discorso bisogna fare all’ISLAM e al mondo islamico e a tutti i credenti delle duemila religioni che ammorbano il mondo e che resistono alla luce del messaggio cristiano. Bisogna purificare la rappresentazione di Dio che “congiura contro la vita”. C’è sempre un Dio di cui dobbiamo diventare atei. L’ISLAM deve capire questo e deve essere aiutato a purificare l’idea di Dio ereditata dalla sua tradizione culturale. Terrorismo e guerra al terrorismo, per cambiare il mondo e dare a tutti i popoli la dignità di una vita veramente umana e umanizzante, non possono prescindere da Dio. alla teocrazia bisogna passare al teocentrismo. D’accordo, Dio non può essere il garante di un “ordine” creato dall’uomo, né c’è un “ordine” divino al quale l’uomo deve sacrificare se stesso. Ma c’è un “ordine” che va sempre “convertito” e riformato come relativo e commisurato alla crescita umana dell’uomo, dovunque esso si trovi. Un “ordine” non divino, ma con Dio e mai senza Dio, o contro Dio. La storia umana, la stessa vita e i fatti che la riguardano, non sono mai ultime, ma penultime. E, questo, deve capirlo anche l’Occidente cristiano che, sull’onda lunga, di una modernità deviata, pretende di instaurare un “ordine del mondo” dove a regnare è chiamato il dio-denaro del capitalismo egoista e senz’anima. Vincenzo Filice Q D OGGI famiglia 4 Ottobre 2002 DISPERATO GESTO D’AMORE - Il caso di Pier Ezio Patterlini di Rosa Capalbo Nella nostra società, basata sull’apparenza, non c’è più posto per le pietà, quella PIETAS che era alla base della civiltà classica! No! Non c’è posto per la pietà, per la solidarietà, in un mondo dove hanno diritto d’appartenenza solo le persone sane, belle, giovani, gli altri ne sono esclusi. Quando sentiamo una notizia dolorosa la rimuoviamo subito, intralcia il nostro progetto di vivere senza problemi, i problemi degli altri non ci appartengono, sono Loro a doverli risolvere! Ed il suo dramma, un padre, uomo intelligente, lucido, l’ha risolto con un gesto disperato, ha staccato il respiratore che teneva in vita il suo piccolo Jacopo di nove anni, ha aperto la porta vetrata che dà sul balcone, nella casa dove non c’era nessun altro, entrava una ventata d’aria fresca, quell’aria che il figlio non avrebbe potuto mai respirare da solo. Solo un attimo: Pier Ezio Patterlini, 42 anni, ha preso in braccio il figlio e si è lanciato dal terzo piano. L’ultima disperata carezza, il piccolo Jacopo l’ha avuta dalla nonna, una carezza piena di pianto per una vita che non era mai stata tale. Jacopo, figlio unico, di nove anni, in coma da tre, era condannato da una malattia genetica, rara e spietata. Un piccolo essere inanimato, destinato ad una morte lenta dalla paralisi dei muscoli, ma intanto, per mesi e mesi, trattenuto in vita (se è vita essere forzati a respirare da una macchina e alimentati con un sondino), dalla dedizione dei genitori. E’ stato dapprima detto che, intorno a Jacopo, si era costituita una catena di solidarietà, poi smentita. Io mi appello alle coscienze di tutti coloro che si vantano di essere “volontari”, ai politici che dovrebbero aiutare in tutto e per tutto le persone handicappate e coloro che li assistono. Sono certissima che se ci fosse stata, veramente, una catena di solidarietà, il papà di Jacopo non si sarebbe tolto la vita e non l’avrebbe tolta al figlio per quanta menomata essa fosse. Persino il parroco don Adelmo, che ben conosce la sacralità della vita, ma, altrettanto, la tortuosità dei sentimenti, ha affermato: “E’ un gesto disperato dettato da tantissimo amore”. Proprio questo sentimento di amore ha ispirato l’ultima lettera scritta da Pier Ezio alla moglie, uscita per andare dallo psicologo. Gli inquirenti dicono: “Non sono parole sconclusionate, il discorso è coerente: c’è la richiesta del perdono e una dichia- razione di amore”. Nove anni di completa dedizione da parte di due genitori ostinati e tenaci, che hanno sempre lottato per il figlio. La mamma, di professione infermiera, da tempo aveva smesso di lavorare ed era infermiera, madre, assistente a tempo pieno del suo bambino. Era assistita da uno psicologo, il padre non ne aveva sentito la necessità, credeva di essere forte per tutti e tre, in realtà era un uomo disperato che non riusciva a vedere uno spiraglio di luce al suo tormento di genitore. I familiari sono rimasti impietriti, travolti da una sventura che si è abbattuta su una vita che sembrava già la più sventurata. La malattia di Jacopo (atrofia muscolare spinale del tipo più grave) aveva cominciato a tormentare il bambino a sei mesi, facendosi ogni giorno più spietata, perché la paralisi dei muscoli non perdona, fino a ridurlo su una carrozzina. Tre anni fa un episodio che poteva risultare fatale. I1 bimbo è restato quasi soffocato da un boccone. I rianimatori sono riusciti a salvarlo in extremis, ma il prezzo è stato devastante: coma irreversibile, da quel momento la battaglia diventa ancora più logorante, più faticosa. Non c’è neppure la speranza: solo questione di tempo, la medicina sa che il male non concede speranza. Pier Ezio, un insegnante di scienze, era abituato a stare con i giovani, era attento nel vederli crescere, capace di seguirne gli entusiasmi, non era remissivo. Sapeva che suo figlio non avrebbe mai avuto la vita spensierata dei ragazzi, ma non si era piegato e nemmeno sua moglie. Lottavano per ottenere dall’Asl più assistenza per il piccolo malato, si sono spinti a ricorrere al tribunale per far passare le loro ragioni. La villetta dei Patterlini (ci abitano anche i nonni e altri familiari) è in via Campioni, oltre il fiume, zona popolare. Tutti, nel quartiere, conoscevano lo strazio continuo dell’esistenza, dentro l’appartamento, al terzo piano, dove sembrava resistere l’attesa del miracolo. I1 professore, dopo l’insegnamento con incarichi annuali in un liceo di Borgotaro, adesso aveva un impegno ridotto in due scuole di città, per organizzarsi la vita con una dedizione totale al piccolo malato. Tenaci battaglie senza possibilità di vittoria, con eroi silenziosi a volte attratti da soluzioni estreme. Ricordano Romano Magrini, che da vent’anni assiste sua figlia in coma, che appena saputa la tragedia ha trovato il coraggio di mormorare: “Appena sen- to che mi mancano le forze, farò la cosa che oggi, solo per la mia vigliaccheria, non riesco a fare”. Quando il papà di Jacopo ha trovato la sua forza, la Rai sul secondo canale stava trasmettendo un telefilm della serie “E. R. Medici in prima linea”, con le storie di un bambino handicappato abbandonato in ospedale e quella di un uomo che sceglie di suicidarsi. “Si muore quando si è soli, quando il nostro disperato grido di aiuto non è ascoltato da nessuno, quando quelli che potevano non hanno fatto niente per aiutarti nella vita, quando il tuo dolore passa quasi inosservato, quando hai cominciato a sentirti in colpa perché avevi dei problemi”. Eppure basterebbe poco per aiutare: una parola di solidarietà, un aiuto fisico se necessario, un pensare, ogni giorno, che VENTI ANNI TRASCORSI INVANO Sono passati venti anni e dei mandanti e degli esecutori del barbaro omicidio dell’illustre avvocato Silvio Sesti non si sa davvero con certezza nulla. Sono e rimarranno impuniti per sempre. Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur. Mentre a Cosenza nei vari uffici giudiziari, in questura, si discuteva di rafforzare le forze dell’Ordine, di avere più funzionari preparati, nel Palazzo di città di avere più uomini a presiedere la città, ed indugiavano in inutili e interminabili discussioni, la malavita organizzata non dava tregua. Altri efferati delitti furono commessi e tantissimi rimasero impuniti. Originariamente si è accusato Franco Pino come mandante dell’efferato delitto, ma poi è stato definitivamente assolto dall’imputazione. E Francesco Pagano, presunto autista degli esecutori del barbaro omicidio, è stato ucciso in un giorno assolato del mese di luglio del 1991 in un auto lavaggio della popolosa Via Popilia. Non potrà, quindi, confermare o smentire l’imputazione. Non potrà nemmeno confermare se effettivamente, come affermò Franco Pino durante il processo “Garden” che gli esecutori furono Sergio Bianco e Alfonso Pinelli, venuti da lontano, al servizio del boss del camorrista di San Lucido Nelso Basile. E non si possono più imputare del delitto Bianco e Pinelli accusati da Pino di essere stati gli esecutori materiali. Svaniti. Scomparsi nel nulla. Nessuno sa dove siano andati a finire. Uccisi pure loro? Probabilmente. E perché? Per non farli parlare? Forse davvero loro potevano dire la verità su questo barbaro omicidio che sconvolse Cosenza e non solo Cosenza. Francesco Pagano è stato ucciso, Bianco e Pinelli svaniti, cosa resta ormai dell’inchiesta e dell’istruttoria riguardante l’uccisione dell’avv. Sesti che tanto scalpore suscitò all’epoca dei fatti? Nulla. Un barbaro omicidio senza colpevoli. Un caso insoluto che rimarrà tale per sempre. Che gli esecutori del delitto fossero giunti, poi, in Viale Alimena a bordo di un’auto e precipitosamente scappati e che avessero sparato con una pistola calibro 7,65, era così evidente che non c’era bisogno di nessuna rivelazione dei pentiti. Le perizie della Magistratura e delle Forze dell’Ordine subito erano giunte a queste conclusioni. Un proiettile trovato nell’abitazione dell’avvocato Sesti durante la perquisizione domiciliare lo ha confermato. E che gli esecutori del delitto venissero da fuori lo si è desunto dal fatto che quando bussarono al citofono si espressero con una inflessione napoletana. Lo fecero per imbrogliare le acque? Per depistare le indagini? A questa domanda nessuno fino ad oggi ha saputo dare una plausibile risposta. L’Avv. Silvio Sesti era nato in San Pietro in Amantea il 15 febbraio 1932. Il padre era il Dott. Francesco Saverio Sesti, medico condotto del paese e la madre donna Gaetani Rosa. Ave- ed un cognome ai killer che si pensa siano venuti da lontano. Ci sono stati in passato altri delitti ed altri omicidi clamorosi nella città di Cosenza e provincia, ma l’assassinio dell’Avv. Silvio Sesti è stato il più clamoroso. Non solo perché l’avv. Sesti era il più famoso avvocato del Foro Cosentino, ma anche per il modo in cui è stato assassinato. E’ stato assassinato nel suo studio e gli esecutori del barbaro delitto hanno finanche citofonato e parlato col figlio della vittima per farsi aprire il portone di casa. Alcuni giornalisti hanno avanzato alcune ipotesi, forse uno sgarro. Conoscevo l’Avv. Silvio Sesti sin dalla nascita, conoscevo la sua preparazione e la sua dimestichezza nell’affrontare i problemi legati alla sua professione forense, si è sempre comportato con tutti in modo leale e corretto, quindi l’ipotesi dello sgarro o che abbia dato fastidio a qualche clan mafioso lo escluderei categoricamente. Volevano dargli una lezione? Volevano dargli un avvertimento? Se fosse stato così avrebbero sparato alle gambe per gambizzarlo e ferirlo in modo non grave. Hanno invece mirato alla testa per ucciderlo, per eliminarlo. Chi l’ha voluto eliminare? Qualche banda criminale i cui componenti non erano stati difesi adeguatamente? Oppure perché aveva difeso in Tribunale un componente della banda rivale e per dargli una lezione l’hanno ucciso? I1 pm Stefano Tocci non ha voluto credere all’accusa di Ruà giudicando banale il movente. E allora perché è stato ucciso l’Avv. Sesti? Su quel barbaro omicidio c’è parecchio da capire e approfondire. L’omicidio, fino ad oggi, è rimasto un caso insoluto e forse lo rimarrà purtroppo per sempre. Killer e mandanti svaniti nel nulla, ingoiati dall’oblio. Nessuno, però, in questi venti anni ha osato avanzare un’altra ipotesi. A qualcuno forse sembrerà assurda. Quale? E se fosse stato eliminato perché troppo intelligente, troppo preparato e quindi toglieva spazio agli altri colleghi meno bravi e meno richiesti nei processi in Tribunale ed in Corte d’Assise? E l’uccisione dell’Avv. Silvio Sesti aveva qualche relazione con i vari attentati che si erano verificati a Cosenza negli anni precedenti? Una bomba era stata fatta esplodere davanti l’abitazione dell’avv. Orlando Mazzotta e numerosi colpi di pistola furono esplosi contro l’abitazione dell’avv. Ernesto D’Ippolito. Loro due se la sono cavata con danni alle abitazioni, l’avv. Sesti, purtroppo, ci ha rimesso la vita, lasciando orfani Francesco e Adriana in tenera età e la moglie Sig.ra Franca, vedova, afflitta e sconsolata per l’immatura scomparsa del suo giovane ed illustre consorte. Loro hanno perso un padre tenero ed affettuoso ed un marito premuroso, noi abbiamo perso un amico sincero che ancora oggi a distanza di venti anni lo ricordiamo con stima ed affetto. L’omicidio dell’Avv. Silvio Sesti di Francesco Gagliardi va frequentato il liceo classico “Bernardino Telesio” di Cosenza e si era laureato giovanissimo presso la Facoltà di Giurisprudenza di Napoli. Morì a Cosenza la sera del 21 giugno 1982, ucciso da due o tre sicari nel suo studio di Viale Alimena, che tutti dicono siano venuti da fuori città, perché avevano un accento tipicamente napoletano. L’efferato delitto destò molto scalpore non solo in San Pietro in Amantea, suo paese natio, dove immancabilmente veniva a trascorrere tutti i weekend e le festività, in Cosenza dove risiedeva con la moglie Franca Perri e i due figli Francesco e Adriana, ma anche in tutta la Calabria. Era conosciuto in tutti i Fori Calabresi, perché era il penalista più preparato, uscito dalla scuola e dallo studio dell’Avvocato Orlando Mazzotta e sempre presente nei processi più importanti. Gli organi di informazione locali e nazionali ne parlarono diffusamente e misero la notizia in prima pagina. Quanta stima ci fosse nel mondo culturale e forense per l’avv. Sesti, lo si è potuto constatare non solo dal rilievo che ha dato la stampa locale e nazionale, dai grandi giornali ai più piccoli, alla notizia della sua prematura scomparsa, ma anche dalla folla numerosa che ha reso omaggio alla salma esposta presso il Tribunale di Cosenza nel giorno dei suoi funerali. E non erano tutti cancellieri, avvocati e magistrati. E’ stata una testimonianza vera, sentita, affettuosa, verso un uomo di cultura e verso un penalista tra i più affermati e più noti del Foro Cosentino. In San Pietro in Amantea abbiamo appreso la notizia la mattina di martedì 22 giugno ed è stata accolta dalla gente con stupore, incredulità, rabbia, dolore e sbigottimento infinito. Era uno dei figli più illustri del nostro paese. Ero un suo amico. Siamo cresciuti insieme. Insieme abbiamo incominciato a tirare quattro calci prima con un pallone di pezza sull’aia del Cav. Francesco Sconza e poi con un pallone di cuoio nello spiazzo antistante la chiesa della Madonna delle Grazie. Sempre affabile, gentile, sempre gioviale, sempre col sorriso sulle labbra. La commemorazione funebre si è svolta a Cosenza presso il Tribunale. E’ stato commemorato dal suo maestro l’avv. Orlando Mazzotta, Presidente della Camera Penale . Sono passati quasi venti anni e del barbaro assassinio del nostro caro amico Avv. Silvio Sesti regna ancora un fitto e impenetrabile mistero. Gli assassini non si sono trovati e neppure i veri mandanti individuati. Gli inquirenti ancora oggi barcollano nel buio più profondo e non hanno saputo dare con certezza un nome il dolore o la sventura non sono appannaggio di pochi, ma tutti ne possiamo essere colpiti! I1 buon Samaritano del Vangelo, non ha guardato altrove quando ha trovato l’uomo ferito, l’ha portato alla Locanda dopo avergli prestato le prime cure, poi, ha dato, al locandiere, una grossa somma di denaro per ospitarlo fin quando non si sarebbe rimesso. Quanti di noi avrebbero fatto cosi? In un mondo che conosce quasi solo l’egoismo, non c’è posto per chi è meno fortunato, per chi non è sano! Dobbiamo ribaltare il nostro modo di pensare, imparare ad aiutare gli altri, solo cosi aiuteremo noi stessi. Solo così non ci saranno mamme che, come quella di Jacopo, si tortureranno per essere allontanate anche solo per poco. OGGI famiglia 5 Ottobre 2002 La fiaba nel processo di crescita educativa del bambino di Domenico Ferraro La teorizzazione concettuale della fiaba s’inserisce nella complessità costruttiva della personalità del bambino e le riflessioni che se ne deducono servono a chiarire e ad interpretare dei messaggi, che non hanno solo una valenza conoscitiva della mente umana, ma, anche, una funzione stimolatrice ed educativa. Nell’analisi delle strutture soggettive si evidenzia come formazione mentale dell’individuo, che inizia a crescere nel confronto di una realtà. Essa viene trasformata da un’immaginazione, che rivitalizza non una sua trasposizione fotografica, ma una unificazione di elementi, che assumono nella visione infantile, la concretezza. Per l’adulto potrebbe rasentare l’incongruenza, ma, per il bimbo, esprime solo ed esclusivamente una fantastica creatività, che interpreta e rappresenta il mondo. In questa simbiosi tra soggettività e oggettività si correla una fattività, che serve a rapportare il mondo, le esperienze, la natura alle capacità cognitive dell’infanzia e a creare quelle situazioni di globalità, che mentre si presentano in modo indistinto, confusionario, sincretico, interpretano, in una originalità creativa, le esperienze, che sono, poi, il vissuto degli esseri viventi e degli oggetti materiali. In questa vivificante animazione, il bambino s’inventa la natura e diventa oggetto delle sue cognitività e, perciò, processo educativo e formativo della sua personalità, delle sue capacità intellettuali, delle sue forme espressive, della sua gestualità, del suo linguaggio interpretativo, della sua comunicabilità sociale. La sua fantasia si sostituisce, in un certo senso, alle sue possibilità di indagine cognitiva ed esprime il potere intuitivo ed istintivo di appropriarsi della sostanzialità concreta della oggettualità e oggettività esperienziale per trasformarla in immaginosa creatività originale, che sintetizza il conosciuto e l’istintività percettiva dei sentimenti, che animano la vivificazione di tutto ciò che può circondarlo e costituisce il palcoscenico ideale sul quale ricerca la concretezza delle sue visioni. Allora, il raffronto con l’immaginario è la prima forma e la più importante nella formazione della sua mentalità e nello stile di saper interpretare le esperienze esistenziali e di saper leggere le proprie conoscenze e la ge- stualità del proprio vissuto. La fiaba, nella costruzione della cultura di un bimbo, è la struttura su cui si forma l’originalità della sua personalità e vi si stabiliscono i moduli obiettivi per poter analizzare, sintetizzare, schematizzare le proprie costruzioni mentali, che sono una adeguata rappresentazione e interpretazione della oggettualità esistente. Senza ripercorrere una esperienza ancestrale si può comprendere come il bimbo riesce a reinventarsi il suo mondo e a ripercorrere un’inconscia e inconsapevole esperienza che, poi, ristruttura, secondo canoni conoscitivi ed esplicativi. Quando sarà in grado di saper raffrontare, evidenziare le differenze ed analizzare i presupposti, che costituiscono il cognitivo e l’immaginario, li trasforma in linguaggio interpretativo e in possibilità comunicativa. Allora, il fantastico stimola le capacità mentali, la socialità di rapporti tra sé e gli oggetti, tra gli oggetti e il contesto extracorporeo, tra il pro- prio modo di vedere e la loro interpretazione. Seguendo la disamina concettuale ed interpretativa della funzione della fiaba nel processo educativo, si può veramente comprendere come essa debba essere considerata uno strumento essenziale nella crescita di una personalità e nello sviluppo di tutte le capacità, mentali e intuitive del bambino, che, nella molteplicità delle esperienze fantastiche, riesce a costruire le sue emozioni, i suoi sentimenti, il modo con cui successivamente guarderà il mondo degli uomini, degli animali, della natura. Le caratterizzazioni della fiaba si adeguano alle funzioni educative e, in tutta la sua complessa unitarietà, esplicano il ruolo storico, psicologico, comunicativo, espressivo, cognitivo, conoscitivo nello sviluppo della personalità infantile e orientano nella scoperta dell’oggettualità e nell’intensificazione espansiva l’”io” e la sua struttura compositiva. La fiaba viene a configurarsi come un testo ampliato e articolato, che per il lettore e per lo sviluppo del suo essere, per le esperienze concrete che vive, per le conoscenze che acquisisce, per le emozioni che percepisce, assume un’importanza fondamentale e insostituibile nel processo evolutivo della personalità. Inoltre, non bisogna trascurare di sottoporre la fiaba ad una diagnosi razionale per evidenziare come essa deve rapportarsi agi interessi vivi e cocenti del lettore infantile. Egli, in definitiva, deve apprendere un metodo didattico del leggere, del capire, dell’ascoltare, del raccontare, del verificare per rielaborare i contenuti, assimilare le suggestioni che si scatenano nell’impatto con la scrittura del testo. Deve saper manifestare le emozioni che vive quando legge, esprimere i sentimenti che suscita mentre la fantasia ripercorre in modo creativo i fatti e li reinventa autonomamente. Seguendo tutti quei fantasmi il cuore li ammanta di amorevoli sentimenti e la mente li sviluppa in sequenze irrazionali e incongruenti per poterli tradurre in immaginazione fantastica. Essi assumono la configurazione di fantasmi, che penetrano nei più riposti nascondigli del cuore, dove vanno ad accumulare una ricchezza ancestrale. Nell’inconscia e inconsapevole ereditarietà culturale, emergono e si connotano i nostri sentimenti, i nostri costumi, il nostro modo di vivere, le nostre esperienze esistenziali, il nostro modo di apprendere, conoscere, comunicare ed esprimere il nostro linguaggio più originale e più personale. Lo fiaba, in conclusione, racchiude un po’ i segreti del cuore umano e ne costituisce l’inconscio istintuale e remoto della sua natura di essere vivente e di essere sociale. Il fegato di Piacenza: una bussola per orientarsi tra gli dei del Pantheon etrusco di Gianluca Vivacqua Oggetto che riprende simbolicamente la forma dello strumento - principe del mondo dell’aruspicina o modello già pronto per il consulto divinatorio. È con questi due approcci interpretativi che ci si può accostare al fegato di Piacenza, uno dei ritrovamenti più affascinanti e, per così dire, curiosi, della storia della etruscologia, importante anche come documento, in quanto costituisce un vero e proprio “lessico sagomato” delle divinità del popolo etrusco. Le dimensioni della foto riportata a fianco non ingannino, però: visto “dal vivo” il fegato si rivela non più grande di un sottobicchiere, e anche per questo si potrebbe propendere a considerare vera la prima delle due ipotesi interpretative riguardo all’utilità dell’oggetto che riportavamo sopra, e cioè che esso sia legato soltanto formalmente all’atto operativo dell’aruspicina, ma in realtà abbia una funzione che non si discosta molto da quella di un ex - voto o, forse meglio, di una nomenclatura ficta o scuplta, in cui il supporto artistico ha un legame del tutto arbitrario col contenuto, magari in dotazione a un collegio di sacerdoti, visto che cosa indicano i nomi, o di aruspici, che potevano servirsene come promemoria al momento di invocare gli dei sotto la cui protezione o per sapere la cui volontà venivano presi gli auspici (gli auspici, quelli autentici era più professionale trarli da un organo epatico bovino vero e proprio). Negli anni immediatamente successivi al suo rinvenimento, poi, avvenuto nel 1877 nella località Settima del comune di Gossolengo, non si era neanche tanto sicuri che la forma dell’oggetto fosse realmente quella di un fegato: c’era chi pensò a un fagiolo, guardando più che altro alla faccia posteriore dell’oggetto che, a chi ama le valutazioni artistiche di tipo impressionistico, potrebbe anche apparire come una statuetta paleolitica di Venere vista da tergo), c’era chi pensò a un rene umano tagliato a metà. Si deve a uno studioso teutonico, Deccke, l’identificazione del piccolo bronzo con un fegato bovino, in base, più che alla conformazione complessiva, a tre elementi escrescenti che caratterizzano la faccia superiore, e che egli riconobbe rispettivamente come il lobas caudatus (la piramidina), la vesica fellea (il coneto), il processus papillaris (il piccolo spicchio), parti anatomiche caratteristiche dello iecur del bue. E’ dunque grazie alla geniale deduzione analogica di Deccke che possiamo dire il fegato di Piacenza è un fegato. E tanto basti quanto alla forma e alla funzione del bronzo. Resta ora da fare un cenno sostanziale sul contenuto di esso, che, ripartito in quaranta caselle inscritte, dicevamo essere consistente in una serie di nomina numinis pressoché esaustiva del pantheon della religione della civiltà che si vorrebbe abbia avuto origine in Lidia. Il bordo è diviso in quattro regioni, quelle di cielo, di terra, di mare e degli inferi con le relative divinità, cioè a dire presenta una ripartizione geografica delle divinità; la parte centrale propone invece una bipartizione degli dei che segue quella tra pars farniliaris (l’ambito dei problemi interni di uno stato) e pars hostilis (l’ambito delle guerre e dei rapporti con gli altri stati), in base alla sfera di “patronato” di ciascuno di essi (ma c’è anche una zona mediana). Senza tenere conto delle regioni a cui appartengono, mi pare interessante dare qui di seguito in ordine alfabetico i nomi delle divinità più importanti che è stato possibile de- cifrare sul bronzo. Si vedrà che buona parte dell’onomastica latina relativa agli dei affonda le sue radici nella religione etrusca. Catha = divinità del sole Cels = dea madre terra (cfr lat. Tellus) Cilens = dea della fortuna (cfr. lat Fortuna) Fuflus = dio del vino (cfr. lat. Bacchus) Maris Laran = dio della guerra Neth = dio del mare (cfr. lat. Neptunus) Satres = dio padre degli dei (cfr. lat. Saturnus) Selva = dio dei boschi (cir. lat. Silvanus) Tina = dio del cielo (cfr. lat Iupitter) Tinsth Neth = dio della pioggia Tivs = luna Uni Mae = consorte di Tina (cfr. lat. Iuno) Usils = sole Vetisl = dio degli inferi La tesi conclusiva dunque è che il fegato di Piacenza è una bussola della religione etrusca costruita secondo la disposizione degli dei nel cosmo, ad uso dell’aruspice (da qui l’ambientazione su una riproduzione di fegato) che di tale disposizione nella sua attività faceva lo schema orientativo di base: conosciuta la natura dei segni, infatti, egli doveva individuare a quale dio risalissero e andarlo a trovare per consultarlo nella sua collocazione nello spazio. A voler rischiare, perciò, si può anche dire che esso è una tavola - manuale di esercitazione per apprendisti aruspici. OGGI famiglia 6 Ottobre 2002 LA NOSTRA VOCE pagina G I O VA N I L’uomo: ambasciatore di Dio di Vito Alfarano Eraclito (filosofo greco) affermava: “... tutto passa e nulla permane”. Questa teoria dimenticava il valore del tempo e dello spazio, in quanto nel Presente c’è tanto di Passato, e nel Futuro tanto di Presente. Di tutt’altra teoria furono Socrate e il suo discepolo Platone, i quali fissavano la loro attenzione sulla posizione dell’Uomo, cui assegnavano il posto più elevato nella gerarchia evolutiva del mondo animale. Non sbagliavano centro, questi filosofi, perché il loro soggetto non era, e non è, soltanto una fabbrica di cellule umane, ma anche un laboratorio, in cui si confeziona la forza creativa del pensiero e quella, serena, della spiritualità. Infatti, l’Uomo non è solo un intrigato complesso di sentimenti, che si identifica nella generosità, nella carità, nella comprensione come nella tirchieria, nella falsità, nell’odio, nella vendetta, nella presunzione Per questi poteri ricevuti dalla genesi, sembra che giochi con le luci dell’indifferenza e della superficialità. E’ vero che Egli fu programmato, non solo con gli slanci d’amore, per frenare gli istinti diversi, ma anche per usare l’intelligenza nell’esprimere un pensiero, un affetto, una continua e controllata responsabilità operativa, come un’arma di una possibile autogiustificazione per salvarsi. In questa esposizione Egli è il sale della salvezza e si riconosce autore e personaggio della propria storia sulla terra. È parte viva della creazione in quanto diventa la memoria dell’Amore divino, che dà inizio al perdono e alla misericordia. Concludo: l’Uomo è solo e tutto il Bene, il Male non è di Dio. Infatti, Egli fu programmato per letiziare con il prossimo Laura Comi Riccardo di Cosmo: la speranza poggia su di loro Romeo e Giulietta; cor. Cranko; mus. Prokofiev; Corpo di Ballo dell’Opera di Roma., Teatro dell’Opera. di Davide Vespier Nel panorama del balletto italiano l’Opera di Roma prosegue lenta la sua ascesa, riuscendo a rinnovarsi ad ogni spettacolo, offrendo produzioni sempre più soddisfacenti tra le quali brilla il Romeo e Giulietta di Jhon Cranko per più di una ragione. La scenografia concede vivezza al mondo parallelo ricreato donando una percezione di dinamismo drammatico di più vasto respiro grazie alla disposizione scenica su due piani, ripercorrendo il solco della migliore tradizione teatrale shakespeariana: se il balcone di Giulietta si materializza come l’immagine - simbolo dei due amanti di Verona, tale balcone ora diventa la terrazza da cui tutta Verona si affaccia a fare da coro all’intera vicenda Così i costumi, di tessitura aerea all’unisono con gli ampi tendaggi delle arcate che sostengono il soppalco, rompono i limiti dello spazio nei velati, e del rigore nel respiro del loro scorrere. La favola drammatica, nella traduzione coreografica di Cranko, creata su misura per la Fracci, la richiama nel gesto di plasticità “italiana”, diremmo, sorgente più che dall’assetto di linee estreme, da un equilibrio ben ponderato di parti ben disposte, così che la danza sembri avvolgere la persona tutta intera più che il singolo arto, come l’esasperato tecnicismo di oggi (vedi Guillem) ci ha invece abituato ad applaudire. e, usando il cuore, per arrecare aiuto al fratello più sfortunato. Gli venne insegnato a dire sempre la verità e a difenderla; ad ascoltare gli inviati di Dio e farne tesoro attraverso le dirette esperienze. Insomma: l’Uomo venne lasciato crescere con i simili affinché venisse riconosciuto il più diretto ambasciatore di Dio che, nella sua preziosa sapienza e nella dinamica della creazione, disse: “...facciamo l’uomo: sia simile a Noi, sia la Nostra immagine... “(Genesi 1, 26). Quindi l’Uomo non è il soggetto che non lascia tracce di sé lungo il cammino della propria esistenza; non è soltanto un corpo che andrà in disfacimento, ma è anche un’anima che si rinnova giorno dopo giorno, attraverso le esperienze belle e brutte, non solo per essere presente nel domani, ma anche per poter tornare a quella “immagine” che lo attende. Laura Comi interpreta Giulietta in maniera vivida e sincera, se pur timorosa, con grazia minuta del corpo minuto. Riesce nel ruolo perché dosa con perizia doti calibrate alla qualità della sua danza che non vuole stupire quanto essere misurata ed elegante. Riccardo di Cosmo come Mercuzio già lo conoscevamo per presenza scenica elegante, rivelandosi probabilmente il migliore danzatore della compagnia per classe e doti drammatiche, proprio le qualità che mancano, invece, al Romeo - Mario Marozzi, sebbene di tecnica più solida. Purtroppo, infatti, sia Comi che Di Cosmo non godono di una padronanza tecnica, dominata quanto basta per sostenere il ruolo, riverberata però da un “senso” della danza che manca agli altri e conferisce armonia al movimento, da un accademismo reinterpretato in chiave personale, anche perché eretto tutt’intorno alle proprie debolezze, che lascia scaturire un’impressione di completezza e uniformità. Fatuo ottimismo, che spinge ad aspettarci grandi cose dal balletto romano, o solo un desiderio appassionato o, ancora, speranza motivata? Solo il tempo saprà dirlo! Vi odio, cari studenti Permettetemi di appropriarmi del titolo di una bellissima poesia di Pier Paolo Pasolini, per rivolgermi chiaramente, in modo provocatorio, a tutti quegli adolescenti “impegnati”, in questi giorni, a rendere invisibili gli edifici scolastici. Dietro a questi atti di vandalismo, non c’è certo una protesta propositiva, l’esigenza di una scuola diversa, né un piano diabolico di discendenti di Attila, flagello di Dio, per sovvertire le istituzioni. Qualcuno penserà che è solo la voglia di “tirare filone” da parte di pochi, ma quasi la totalità ne resta poi facilmente contagiata. Questa ipotesi è della “non appartenenza” alla vita scolastica. Erich Fromm, nel libro “L’amore per la vita”, affronta il tema del superfluo e della sazietà, significa “eccessivo, inutile, sprecato, il secondo, invece è strettamente connesso a “nausea”, in francese “ennui”, derivante dal latino “innodiare” che significa “essere in odio”, l’idea che la sovrabbondanza generi noia, nausea, odio. A questo punto viene da chiedersi se tanti giovani bivacchino in una società contraddistinta dal superfluo. E come si vive da ospite estranei in famiglia, a maggior ragione a scuola. E se la passività tende a cronicizzarsi, l’attività, al contrario, è intesa come “qualcosa che prova ad esprimere forze insite nell’uomo, qualcosa che dà vita, che fa da leva a potenzialità sia somatiche che affettive e intellettuali”. Bisogna continuare a far sì che la pecorella smarrita trascini con sé le novantanove ignave? E sempre, restando in tema di gregge, continueranno le pecorelle ad uscire dal chiuso “ad una due tre e tutte le altre stanno // timidette atterrando l’occhio e il muso, e ciò che fan le prime, le altre fanno // addossandosi a lei, s’ella s’arresta // semplici e quete, e lo ‘mperché non sanno…? (purgatorio, canto III). Certo Dante Alighieri non pensava che una professoressa, tentata di gettare la spugna, potesse avvalersi dei suoi versi per dare una strattonata alla categoria studenti, ma forse anche alla sua, per non cadere nella trappola della resa. Cari studenti, non chiedeteci, ancora una volta, di capirvi in toto: è tempo di sottoscrivere diritti, ma soprattutto doveri. Cordialmente Zia Lina “Serata romantica” al teatro dell’Opera di Davide Vespier L’accostamento del Corpo di Ballo del Teatro dell’Opera di Roma a titoli di repertorio impegnativi, spesso proprio perché inconsueti sembra mosso dal gusto del suo direttore, per la scelta di balletti nei quali si riconosce un genere congeniale allo spirito ed alle qualità che furono e sono di Carla Fracci. Se si volesse scorgere, nella storia della danza degli ultimi cinquant’anni, un’interprete ideale di ruoli come Giselle o la Silphide (ma come scordare Aurora o Giulietta!), il nome della Fracci risuonerebbe tra i primi. Colei che ha incarnato uno stile di danza sospesa sotto le specie di creatura insolita, trasumanata, dalle braccia infinite e dal volto di maschera etrusca. Danza sospesa: non solo stile leggiadro di danza ma vera e propria filosofia delle punte, sulle quali si sale non per slancio dei muscoli ma per graduale ascensione, graduale distacco dalle leggi di gravità... o almeno così deve apparire! Su questo valore si fonda ogni autentico equilibrio che, lungi dal misurarsi solo dalle porzioni di secondi nei quali si rimane in aplomb, così come ci hanno ormai abituato le varie Guillem satellitanti nel mondo, supera meri criteri quantitativi per fondarsi su criteri altamente quantitativi per i quali si distingue l’artificio tecnico, teso all’allusione della metafora, come segno distintivo di danza aerea al calor bianco, ideale per affron- tare una Serata Romantica come questa. Erano presentati brani da la Silphide, Notre Dame de Paris, Giselle, ma anche i più remoti La Péri e Kermesse à Bruges. Una cultura che risale a una frequentazione assidua con l’ovattato odore di pece, l’immagine studiata allo specchio fino alla punta delle dita nei lenti adagi, tanto da farne scaturire non solo una tecnica ma pure uno stile. A cominciare dallo storico Passo a Quattro, creato per quattro divine (Taglioni, Cerrito, Grisi, Grhan) riproposto in una chiave dimessa ma che ne rende i tratti salienti. Sebbene la Taglioni di Gaia Straccamore sia un po’ ingessata, linee e aplomb sono potenzialità ancora da considerare per questa giovane e bella danzatrice; la Grisi di Laura Comi è tanto equilibrata... da dimenticarne a volte la presenza sulla scena, come la Grhan di Gudrun Bjesen, lievemente anonima, dotata di una tecnica completa ma non rifinita nella punteggiatura vibratile, nel trillo degli changements. Quanto a personalità e temperamento compensava la vispa Cerrito di Loma Feijòo (ma, a ben vedere, troppo vispa!), vi- setto vivace da folletto. Tutto sommato era l’incanto dell’esploratore che scopre quasi senza volerlo, scostando appena una siepe, quattro rarae aves. Apprezzabile la competenza tecnica della coppia Gudrun BoiesenThomas Lund in Kermesse à Bruges, ma soprattutto quella della Peijòo con Nelson Madrigal nel passo a due da Esmeralda La padronanza sovrana non è boria di prima donna ma slancio musicale e brio fino nei fouttés taglienti di lei, negli slanci di lui sferzati da uno atletismo sfiancante, da vigore muscolare aggressivo di falco, salti che erano “do” di petto. Spirito ben diverso dal James di Riccardo Di Cosmo nella Suite dal II atto della Sylphide, gentile e affascinante come sempre. Nient’altro da considerare se non l’allure della pianista Elizabeth Cooper, esemplare maestra di musica “per la danza” che ne conosce e spiega ogni risvolto. Un occhio sulla tastiera e due sulla scena a seguire i “suoi” danzatori accompagnati dalla sala prove al palco senza soluzione di continuità, quasi uno spaccato sulla vita segreta della danza PENSIERINI DELLA SERA – La vera allegria è silenziosa: risiede più nel cuore che nella lingua (H. FIEDING) – Se un uomo si comporta sempre seriamente e non si permette mai un po’ di divertimento e di distrazione, impazzirà senza saperlo (ERODOTO V SEC. a.C.) OGGI famiglia 7 Ottobre 2002 La tecnologia mediale nell’8° Circolo di Cosenza Il Progetto De Matera Advanced: “PROGETTO KIDSLINK” La rete telematica scolastica metterà in connessione aule, laboratori, uffici e tutti i plessi di Loredana Ciglio L’introduzione delle tecnologie informatiche ad uso didattico nella scuola è relativamente recente. In questo campo, tuttavia, l’evoluzione dell’hardware, del software e le relative applicazioni è così rapida, da rendere necessari tempestivi aggiornamenti del personale e l’ammodernamento continuo delle dotazioni strumentali. Per utilizzare una metafora: il vecchio pc è la preistoria in rapporto alle reti di computer o alla “rete delle reti” (Internet); il laboratorio scolastico multimediale è il medioevo a confronto della possibilità di interattività che internet offre ad alunni, docenti, genitori, cittadini. Grazie alle tecnologie dell’informatica e della comunicazione, nelle scuole si aprono spazi di scambio di esperienze tra docenti, anche molto distanti tra loro, che fino a non molto tempo fa erano impensabili. Scambio di esperienze che devono essere estese agli alunni, i quali hanno la possibilità, in teoria, di dialogare con i loro coetanei di tutto il mondo. I rapporti collaborativi tra scuola e famiglia, iniziati con ingresso dei rappresentati dei genitori negli Organi Collegiali, avrà nello “spazio virtuale” creato da Internet un altro luogo di incontro, non sottoposto alle restrizioni del tempo e dello spazio, molto più efficiente, rapido, democratico. Interazione, comunicazione, interattività sono le parole chiave della rete telematica che sarà realizzata con il “Progetto DeMatera Advanced Kidslinks”, promosso dalla Dirigente Scolastica dell’VIII Circolo di Cosenza Loredana Ciglio che si avvale del supporto indispensabile e qualificato del Gruppo di Progetto, composto dai Docenti Paola Bisonni e Loredana Rovito; dai Direttori dei Servizi Generali ed Amministrativi Eva Ricci e Aldo Iacobini e dall’Ingegnere Annunciato Imbrogno, senza le cui competenze tecniche e professionali non si sarebbe potuto predisporre, avviare, realizzare il Progetto stesso. La rete telematica scolastica di tipo avanzato, che si attiverà con i finanziamenti regionali POR (Fondo Sociale Europeo e Fondo Euro- peo di Sviluppo Regionale), metterà in connessione aule, laboratori, uffici e tutti i plessi, per rafforzare l’interesse e la motivazione dei bambini verso i cambiamenti e le innovazioni. Il Comune di Cosenza, con il quale la Direzione Didattica dell’VIII Circolo ha stabilito rapporti di partnerariato, assume un ruolo di primaria importanza per la realizzazione di un progetto così innovativo ed arduo da mettere in pratica, a causa della sua complessità tecnica; vi è da sottolineare che sarà creata una rete telematica interna ed esterna in tutte le Scuole Materne ed Elementari del Circolo, la prima in tutto il territorio e nella nostra provincia. La sensibilità dell’Amministrazione Comunale verso le problematiche della scuola, ritenuto settore primario per la crescita culturale e sociale della Città, vero investimento per la formazione di futuri cittadini consapevoli, è testimoniata dal Sindaco Eva Catizone, dall’assessore alle Scuole Maria Francesca Corigliano, con l’ausilio e l’assistenza dei tecnici e del Dirigente dell’Ufficio del Piano. Grazie al loro contributo, l’VIII Circolo potrà dotarsi di strumenti di comunicazione all’avanguardia La Scuola Materna ed Elementare “Giuseppina de Matera”, La Scuola Elementare “Giovanni e Francesca Falcone”, le Scuole Materne “Collodi” e “Madre Teresa di Calcutta” sono frequentate da oltre mille alunni, le cui esigenze sono differenziate; Dirigente, docenti, personale amministrativo ed ausiliario rispondono ai loro bisogni formativi, programmando percorsi didattici, strategie, metodi, tempi, finalizzati all’individualizzazione del processo di insegnamento/apprendimento. Le risorse strumentali, per quanto attiene alle tecnologie informatiche (due aule multimediali), attraverso questo Progetto saranno adeguate al numero degli alunni e dei docenti e alle loro necessità; si potranno organizzare delle attività che possano essere coordinante in maniera veloce ed efficiente, con la divulgazione di materiali ipertestuali, tramite supporti ed infrastrutture basati sui protocolli internet. In tal modo, le attività connesse all’utilizzo delle reti telematiche rafforzeranno l’interesse e le motivazioni degli alunni, consentendo loro l’acquisizione delle conoscenze e delle competenze richieste oggi dalla nostra società avanzata ed in continuo mutamento. Le attività didattiche saranno basate anche sulla comunicazione via posta elettronica ed ogni alunno e docente avrà una propria casella, attraverso un server scolastico che non sarà solo uno strumento, ma sarà porta di comunicazione, il sistema informativo, il sito web, l’ufficio postale. L’intera scuola sarà dotata di un’infrastruttura telematica, costituita da un server e da una LAN di Circolo che connetta i laboratori, le aule e gli uffici. Il cablaggio strutturato consentirà la creazione di una rete veloce, efficiente e adattabile ai cambiamenti, favorirà lo scambio di informazioni ad alto contenuto tecnologico, economiche e facilmente gestibili ed integrabili nella futura “Rete Nazionale della Scuola”. “SCUOLA AL CINEMA. I BAMBINI DEL TERZO MILLENNIO” All’8. Circolo Didattico di Cosenza coinvolti ragazzi delle materne, delle elementari e delle medie Poco meno di 6 mila ragazzi delle materne (420), delle elementari (4.760) e delle medie (513), appartenenti a venti diversi istituti e distribuiti su trentaquattro plessi. E, ancora, decine di docenti, più alcuni esperti esterni. È il quadro riassuntivo che esibisce, nella nostra provincia, il progetto “Scuola al cinema. I bambini del terzo Millennio”. Promosso e finanziato da Cinecittà Holding, in collaborazione con il centro studi formazione superiore, il progetto si avvale del contributo del ministero per i beni culturali (dipartimento dello spettacolo), d’intesa con quello dell’istruzione e in accordo con l’Agiscuola. Formare ed educare lo spettatore bambino all’immagine attraverso la scoperta attiva dell’arte cinematografica, a partire dalla visione in sala di film appartenenti al patrimonio culturale e contemporanei. Questo il primo scopo dell’iniziativa che ha come scuola-pilota, nel Cosentino, l’8. Circolo del capoluogo (sede in via Aldo Moro, altri plessi in Viale Parco “Giacomo Mancini” e in prossimità dell’Autostazione). Questi le altre principali finalità dell’iniziativa. Offrire opportunità di formazione continua agli insegnanti e agli esercenti cinematografici che aderiscono al progetto, sostenendoli con materiali di formazione e di approfondimento. Incrementare lo spazio dedicato all’educazione all’immagine con lo scopo di accrescere la sensibilità estetica dei bambini, facilitando la decodificazione del linguaggio filmico attraverso una visione “guidata”. Contribuire in modo originale e consistente al processo di innovazione che si sta attuando in Italia nell’ambito della formazione scolastica. Sostenere e facilitare la realizzazione di iniziative formative locali, promuovendo il lavoro di produzione creativa da parte dei bambini. Su quest’ultimo “fronte”, i ragazzi del Cosentino partecipanti al progetto hanno elaborato due anni fa una serie di “cartoni” con riproduzioni di situazioni in frequenza, l’anno scorso invece hanno realizzato un cd-rom. Il tutto immesso nella “rete” delle scuole aderenti al progetto (dislocate su 23 province). L’obiettivo di quest’anno è di produrre un vero e proprio cortometraggio. Il progetto va avanti sul nostro territorio sin dal primo varo a livello nazionale (nell’anno 2000 2001) sotto l’occhio vigile della dirigente scolastica Loredana Ciglio, con il coordinamento, quale referente provinciale, dell’insegnante Maria Fava. Il progetto impegna in ruoli di primo piano anche le insegnanti Paola Bisonni (formazione dei docenti) e Loredana Rovito (supporti multimediali). Collaborano, inoltre, gli esperti esterni Enzo Pellino e Ivan Battista Miraglia. Questi i film che i ragazzi delle scuole partecipanti al progetto avranno la possibilità di vedere quest’anno nella sale cinematografiche convenzionate: “Shrek” (scuola dell’infanzia e 1. ciclo delle elementari), “Momo” (scuola dell’infanzia e 1. ciclo elementari), “Le avventure di Pinocchio”, regia di Comencini (scuola dell’infanzia e elementari 1. ciclo), “Non uno di meno” (elementari 2. ciclo) “E.T.” (elementari 2. ciclo), “Capitani coraggiosi” (elementari 2. ciclo e scuola media), “Il cielo cade” (elementari 2. ciclo) “La guerra dei bottoni” (media) “Jona che visse nella balena” (media). (a.g.) (dalla Gazzetta del Sud del 17-10-2002) Su due portali “con angeli” pronte rimaste dei suddetti rilievi e in particolare, nel portale carpanzanese, la parte posteriore destra Andando in Cosenza e provincia danneggiata incisivamente, parte ad osservare e studiare le opere in cui si trovava l’angelo mancante; d’arte, ho notato, fra l’altro, che il lo scalpellatore che ha eliminato i portale principale della Chiesa Maresidui dell’angelo sul portale cartrice di Carpanzano presenta un panzanese è stato più accurato nel solo angelo in rilievo, mentre il porsuo lavoro, mentre quello che ha tale principale della Chiesa di Sanoperato sul portale cosentino è stata Maria della Sanità a Cosenza to meno accurato e direi grossolamanca, attualmente, dei due angeno. li che originariamente lo decoravaNon conosciamo le cause dei no in alto. danneggiamenti subiti da queste Si tratta in entrambi i casi di opere d’arte di scultura architettodue mancati restauri e della eliminica, ma certamente se restaurate nazione, nel primo caso, dei residui in tempo opportuno potevano essedi un angelo; nel secondo caso delre salvate; invece con il passare del la eliminazione dei residui dei due tempo si pensò di eliminarne comangeli. pletamente i residui o parti rimaGli Angeli del Signore scolpiti ste. sui portali delle chiese rimandano Il portale principale della Chiesa ad antichi esempi classici di raffiMatrice di Carpanzano, dedicata a gurazioni alate. San Felice, è anche detto “portale Ancora oggi è possibile, ad un degli Aragona”, poiché dedicato da attento osservatore, vedere le imalcuni membri di questa illustre famiglia nel 1548 e successivamente, ampliandolo, nel 1662. La tipologia di questo portale è quella ad arco di trionfo, a fornice inquadrato, derivato dall’arco di trionfo romano; è in pietra arenaria e accoglie motivi strutturali e decorativi romano-imperiali, medievali, rinascimentali e barocchi. Il portale principale Carpanzano - Particolare del portale della Chiesa di San Felice (G. Cimino) della Chiesa di San- di Giovanni Cimino Carpanzano - Il portale di Santa Maria della Sanità a Cosenza (G. Cimino) ta Maria della Sanità è un lavoro in pietra arenaria del Seicento; presenta un arco a tutto sesto inquadrato accogliente motivi strutturali e decorativi soprattutto rinascimentali e barocchi. L’angelo mancante del portale carpanzanese è possibile immaginarlo visivamente guardando quello superstite; gli angeli del portale cosentino è possibile ricostruirli visivamente guardando i portali principali delle rispettive chiese cosentine di San Gaetano e quella dedicata a S. Maria di Gerusalemme, detta “delle Cappuccinelle”, poiché i portali di queste ultime chiese presentano strette analogie con quello della Chiesa di Santa Maria della Sanità. OGGI famiglia 8 Ottobre 2002 QUARANTA ANNI FA NASCEVANO I “BEATLES” (ovvero gli scarafaggi) di Rosa Capalbo Sono stati un mito, hanno attraversato intere generazioni, la loro musica ha cambiato completamente uno stile ed è diventata oltre che stile musicale unico ed irrepetibile, anche stile di vestire, vivere, rompere con la tradizione. Oggi, a quarantadue anni dalla loro nascita, sono una leggenda che non conosce confini, sono “I BEATLES, ed il comune di Roma gli dedica manifestazioni, mostre, concerti e spettacoli. Era l’11 settembre del 1962 quando quattro ragazzi di Liverpool si sono riuniti a Londra, in una delle sale d’incisione della Emi, per registrare il loro primo 45 giri. Sul lato A suonava Love me do; sul lato B P.S. I love you. Le canzoni sono elementari nell’armonia e nella melodia, sostenute da una voce pulita ma scolastica, a tratti coadiuvata dall’intervento di un secondo cantato che dà vita a un effetto polifonico gradevole. Solo due pezzettini di rock’n’roll che si aggiungono alle tante canzoni che dal 1955 - anno ufficiale della nascita del genere, ad opera di Bill Haley - dominano le hit parade europee e americane. Ma qualcosa di strano succede - critici musicali, sociologi ed esperti di costume stanno ancora interrogandosi – e quell’11 settembre è destinato a essere ricordato come il momento della nascita di un mito: quello dei Beatles. Da allora ai nostri giorni, nonostante il gruppo si sia sciolto nel 1970, lo stile, la musica, le facce di John Lennon, Paul McCartney, George Harrison e Ringo Starr diventano una parte indivisibile della vita di almeno tre generazioni: i sessantenni, che li hanno vissuti; i quarantenni, che li hanno solo sfiorati ma che han potuto seguire le gesta solistiche di Lennon e di McCartney; i ventenni, che hanno saccheggiato le discoteche dei predecessori e che (ad onta degli anni che sono passati) ne hanno riconosciuto la grandezza e l’attualità. Sui Beatles è stato scritto più che su ogni altro gruppo o artista rock. Il critico musicale Gino Castaldo ha affermato: “I Beatles hanno espresso un’epoca, o sono stati espressione di un’epoca?”. Prima dei Beatles ci sono stati i Quarrymen, un gruppo di quindicenni fondato, sempre a Liverpool, da John Lennon. Vi fanno parte tutti i suoi più cari amici, che con lui condividono intere giornate all’insegna del teppismo e dell’insubordinazione. Un manipolo di teddy-boys, affascinati dall’ esempio di James Dean. Lennon e i suoi amici si pettinano come lui, ne scimmiottano gli atteggiamenti da “ribelle senza causa”, si pongono fuori da quel contesto di regole sociali che imbalsama gli anni Cinquanta non solo per le famiglie piccolo borghesi, ma anche per quelle della working class (classe lavoratrice), della quale fanno parte i Lennon. Fortunatamente, John e i suoi amici non emulano completamente le gesta di James Dean, e decidono di darsi a un’attività che, in quegli anni, va per la maggiore: la musica. Stimolati dal rock’n’roll, da Cliff Richard, Chuck Berry, Elvis Presley, i ragazzi cominciano a strimpellare qualche strumento: chitarra, basso, banjo, batteria. Per dare qualcosa in più alla sezione ritmica inseriscono nel gruppo un asse da lavare, riecheggiando le washboard bands che ai primordi del jazz fecero di New Orleans un luogo mitico. La musica dei Quarrymen, però, è ben diversa da quella suonata dalle prime orchestrine jazz, e si basa su pochi accordi, tanto rumore. Tuttavia, la ventata di novità che spira dal gruppo fa sì che vi sia chi, in occasioni di matrimoni o feste di fine anno scolastico, sia disposto a ingaggiarli. In una di queste feste è presente PaulMcCartney, che si dimostra interessato alla musica dei Quarrymen e che, alla fine del concerto, sale sul palco per complimentarsi con i musicisti e accennare con loro a qualche IMPRESA EDILE Vincenzo Mazzei Ristrutturazione fabbricati Ammodernamento appartamenti Lavori edili in genere Via Silana, 100 — PARENTI (CS) Tel. 0984 - 965602 - 965123 accordo di chitarra. In quell’occasione conosce John Lennon ed una settimana più tardi, Paul entra nel gruppo e comincia a scrivere canzoni a quattro mani con John, dando vita a quella che sarebbe divenuta la più prolifica coppia di autori che la musica, classica e leggera, abbia mai conosciuto. I due rappresentano il più tipico dei binomi: ribelle e rock John; posato e melodico Paul. Quest’ultimo, infatti, viene da una famiglia piccolo borghese che sogna, per il figlio, un avvenire da avvocato o da scrittore. Paul frequenta ottime scuole: il ginnasio e i liceo classico all’antichissimo Liverpool Institute, vera officina delle giovani leve borghesi e aristocratiche della città. so a trentadue denti. Quello che accade negli anni successivi è la storia del gruppo musicale più famoso di tutti i tempi, che scatena una rivoluzione musicale, sociale e, in minima parte, anche politica. Per quel che riguarda questo ultimo aspetto, viene subito alla mente il conferimento del titolo di Members of British Empire (M.B.E.) che la regina Elisabetta conferisce loro nel 1965, all’apice di quel fenomeno che è stato chiamato Beatlemania. Gli (scarafaggi), quindi, diventano baronetti. Ciò suscita, nell’opinione pubblica mondiale, un clamore senza eguali, ma anche le stizzite reazioni dei più conservatori tra tutti gli insigniti di onorificenze britanniche, tre dei quali le restituiscono. no stati un fenomeno di rottura con l’ordine costituito come lo sono stati altri cantanti o altri gruppi: basti pensare agli americani Bill Haley (il cui pezzo più noto, Rock around the clock, era la colonna sonora del film Il seme della violenza), Jerry Lee Lewis (che fa scandalo quando annuncia il matrimonio con una sua cugina tredicenne), agli Inglesi Rolling Stones, eterni rivali dei Beatles, che mostrano di se stessi un’immagine molto più maledetta. I Beatles, invece, sono i ragazzi della porta accanto. Una cronaca di Natalia Aspesi per Il Giorno, datata 24 giugno 1965, li ritrae a bordo del treno che da Torino li porta Milano, dove i Fab four (i favolosi quattro) sono attesi per un con- Il mitico gruppo dei “Beatles” durante il primo tour negli Stati Uniti Al gruppo si aggiunge Ringo Starr (il cui nomignolo viene dalla sua smodata passione per i rings, gli anelli), l’immagine dei Beatles acquista un’impronta definitiva e completa. Quattro ragazzi, uniti da un’esperienza musicale comune ma con attitudini e caratteri completamente differenti: Paul, quello borghese e ben educato; John, il ribelle della working class; George, il silenzioso e il più dotato tecnicamente; Ringo, il brutto anatroccolo ma anche il più simpatico. Quest’ultimo, in particolare, è un vero e proprio miracolato. A soli sei anni viene colpito da una peritonite che lo costringe a dieci settimane di coma e a una convalescenza di più di un anno. Ma forse è proprio il fatto di aver superato una prova così difficile che lo porta a vedere sempre il lato più bello delle cose: è simpatico, premuroso e regala bontà a chiunque conosca. Nell’agosto del ‘62, la vita mostra, a Ringo ed ai suoi compagni, un sorri- I meriti dei Beatles, sotto un profilo formale, sono meramente commerciali: con le loro vendite, hanno contribuito a incrementare le entrate grazie all’esportazione di un tipico prodotto britannico. La forma, però, cela una sostanza ben diversa: come ha scritto Marco Pastonesi nel suo libro Beatles, il conferimento dell’M.B.E. “...era il tentativo dell’autorità di apparire più vicina e sensibile alle esigenze dei giovani, e contemporaneamente lo sforzo di inglobare il fenomeno musicale e sociale come una delle espressioni - libere del sistema democratico”. Tra le voci che si levano contro il gesto della Corona britannica, vi sono anche quelle di chi sottolinea che l’accettazione di tale onore da parte dei Beatles significherebbe l’adesione della musica rock a quell’establishment che essa tenta di scardinare a colpi di chitarra e batteria. E’ un discorso, cha a dire il vero, non trova appigli. Da un punto di vista sociale, i Beatles non so- certo al velodromo Vigorelli che entrerà nella storia. John, Paul, George e Ringo vengono descritti come quattro giovanotti, bravi ragazzi, che trasgrediscono solo portando i capelli più lunghi del normale, e scatenano nelle ragazzine - ma anche in non pochi ragazzi un’isteria come mai si sono conosciute in precedenza. L’ universalità dei Baetles è ottenuta con un beat semplice e incisivo, con dei suoni effervescenti di chitarra e con degli eleganti impasti vocali. I Beatles, in sintesi, sono un cocktail in cui musica, sociologia, immagine e un pizzico di politica si emulsionano dando vita a un gusto irripetibile. Soprattutto sotto il profilo musicale. Per decenni, migliaia di critici si sono chiesti come sia stata possibile quella creatività, che li portava a esplorare ogni genere e a uscirne ogni volta vincitori. Una domanda alla quale rispondere diventa ancora più difficile, nonostante siano passati decenni dallo scioglimento del gruppo, avvenuto nel 1970. Lo straordinario talento inventivo di Lennon e McCartney trova un sapiente direttore in George Martin, il loro produttore, dotato di solida cultura musicale e grande tecnica di improvvisazione. Solo così riesce a spiegarsi la genesi di canzoni quali Yesterday, Michelle, Norwegian Wood (la prima canzone pop in cui trova spazio un sitar), Drive my car, o di album quali Revolver e Sergeant Pepper’s Lonely Heert Club Band, vere pietre miliari nella storia del rock, dischi che non sono semplici raccolte di canzoni ma che raccontano una storia con un principio e una fine, come se fossero delle opere letterarie. I Beatles sono stati soprattutto musica. Una musica di qualità eccelsa, che però era suonata da quattro ragazzi che hanno acceso la miccia di una rivoluzione non solo nel campo delle sette note, bensì anche in quello della società di allora, allentandone con grazia e senza troppi scossoni i freni inibitori. Senza di loro, che pure hanno avuto illustri predecessori (tra tutti, Elvis) non avremmo avuto la splendida musica degli anni Sessanta e Settanta, carica di significati esplosivi che si sposavano a meraviglia con la qualità delle esecuzioni. Possiamo affermare che i Beatles sono stati il “motore immobile” di tutto quel che è accaduto in quei due decenni (entusiasmanti ma, per un verso, anche tragici). E ci viene da ridere quando, di fronte alle stesse scene di isterismo che oggi si verificano al passaggio dei Ricky Martin, dei Robbie Williams, dei Boyzone (o che dieci anni fa si verificavano davanti ai Duran Duran o agli Spandau Ballet), sentiamo qualche genitore affermare “Succedeva la stessa cosa per i Beatles”: vuol dire che non ha capito niente di quel che stava accadendo. Al di là di ciò che poi è successo dopo il 1970: la morte per opera di un fanatico di John Lennon, la morte per cancro avvenuta pochi anni fa di Harrison che sembrava aver riunito quel che restava dei Beatles non toglie nulla alle splendide canzoni che hanno scritto, ad un’epoca che conserva ancora, intatto il suo fascino. Risentirli e comprendere che la musica se bella rimane tale per sempre. OGGI famiglia 9 Ottobre 2002 Storia, vicissitudini e battaglie della “Casa Editrice Pellegrini” di Franco Michele Greco La storia dei cinquant’anni di attività della prestigiosa casa editrice calabrese “Luigi Pellegrini Editore”, è la storia di un’avventura umana e letteraria, etica e morale condotta in maniera straordinaria dal suo fondatore e dai suoi numerosi collaboratori. Riesce difficile, a tanta distanza di tempo, ricreare il clima degli esordi, e dunque capire quanta temerarietà ci sia voluta per pensare alla fondazione di una casa editrice nella Calabria del 1952. Sin dagli esordi, il giovane Pellegrini enunciò alcuni propositi che sono stati poi pienamente confermati: il suo interesse alle opere di poesia dialettale e agli studi sulla “questione meridionale”. Avviava, pertanto, la pubblicazione di alcune antologie, quali quelle curate da Pietro Pizzarelli e dallo stesso editore, in collaborazione con Giorgio Giuseppe Ravasini, esperto traduttore della lingua tedesca, con l’intento di diffonderle in Europa e all’estero. La casa editrice si è consolidata in Calabria con la pubblicazione di una rivista letteraria, dedicata principalmente all’informazione sui libri, riuscendo anche a diventare - nel contempo una palestra essenziale del libero pensiero dei giovani intellettuali: il “Letterato”. Sin dagli esordi della sua attività editoriale, Luigi Pellegrini si dedicò alla pubblicazione di studi sui problemi del Mezzogiorno, e della Calabria in particolare. Nel 1960, Pellegrini fondò e diresse la “Gazzetta di Calabria”, un settimanale d’informazione locale che, nel 1980, divenne la “Nuova Gazzetta di Calabria”, attraverso la quale Pellegrini e i suoi collaboratori continuarono a combattere le loro battaglie in difesa della libertà e della democrazia. La “Gazzetta di Calabria”, in definitiva, voleva essere la voce di quei calabresi che non ne avevano più una, nel coro conformista della stampa calabrese. Negli anni sessanta, Pellegrini fondò e diresse un mensile di vita scolastica, nato per invogliare a scrivere i ragazzi: “Il Domani di noi ragazzi”; nel 1962 nasceva “Corrispondenza Meridionale”, un giornale di attualità meridionalistica; il 1964 fu l’anno di “Telestampa”, agenzia di notizie politiche e culturali. All’inizio del 1962 diede vita alla collana “Scuola”, diretta dallo stesso, che accolse i contributi dei più autorevoli studiosi del momento. Il 1963 fu l’anno di due prestigiose collane: “Studi meridionali” e “Cultura politica e sociale”. Dei volumi usciti in queste collane, vorrei citare, fra gli autori: Leonida Repaci, Fortunato Seminara, Enzo Misefari, Tobia Cornacchioli, Pasquino Crupi, Michele Salerno, Tommaso Fiore. Pellegrini ha sempre proposto pubblicazioni nuove e ricercate: ha concepito una Storia della letteratura calabrese, un Dizionario artistico ed archeologico, una Guida bibliografica e toponomastica della Calabria, ricerche sulle origini di movimenti politici locali e alcune ristampe di grandi opere, come il “Vocabolario del dialetto calabrese” di Luigi Accattatis e la “Storia dei cosentini” di Davide Andreotti. Affidò poi ad Antonio Piromalli, uno dei maggiori critici della letteratura calabrese, l’arduo compito di curare una “letteratura calabrese”, che viene pubblicata nell’ottobre del 1965. Il 1° maggio del 1963 Luigi Pellegrini decise, insieme a Tommaso Fiore, Davide Catarinella, Pietro Pizzarelli, Leonida Repaci, Cesare Baccelli, Antonio Corte, di fondare e diffondere, in particolar modo nella realtà meridionale, la rivista “Incontri Meridionali”. Alla rivista, che lo stesso Luigi Pellegrini diresse fino al 1976, vi collaborarono qualificate firme del giornalismo e anche del mondo politico, fra cui: Pietro Nenni, Francesco De Martino, Gaetano Greco-Naccarato, Pitigrilli, Franco Volpe, tanto per citare qualche nome. La rivista cambiò veste, impostazione redazionale e tematica nel 1977, e diventò “I.M., rivista di studi storici”. La redazione, sempre con la responsabilità di Pellegrini, fu affidata a Saverio Di Bella, dell’Istituto di Storia Medioevale e Moderna della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Messina. “Incontri Meridionali” restò di proprietà della Pellegrini fino al 1981. Da ricordare nel 1964 la rivista “Nuova Rassegna di Cultura”, il cui comitato di redazione fu ristretto ai nomi di Cesare Mulè, che ne assunse, per la prima serie, la direzione, e di Antonio Palumbo, Domenico Teti e dallo stesso editore. La rivista, che ebbe periodicità trimestrale, cambiò, dopo alcuni anni, la testata in “Nuova Rassegna di Studi Meridionali” allo scopo di poter incidere con maggio- re risalto nella complessa problematica del Mezzogiono. Tra le novità editoriali della casa editrice nei “mitici” anni sessanta, è da annoverare certamente quella relativa alla realizzazione dell’annuario “Terra di Calabria”,(sei volumi relativi agli anni 1963-1968). Nel 1967, nella stessa collana “Terra di Calabria”, si inseriva una fondamentale pubblicazione che richiese per la sua realizzazione un grande impegno e una straordinaria pazienza: “I Comuni della Calabria”, la prima opera di documentazione amministrativa che sia stata dedicata a questa regione. Nel 1969, l’editore, che si appassionava alla ricerca di scritti inediti dei più illustri conterranei, curò la pubblicazione, in volume, delle novelle dello scrittore Nicola Misasi (1850-1923). L’Antologia presentata da Gerardo Gallo, ha raccolto novelle inedite, rintracciate tra le carte del “cantore della Sila” dallo stesso Luigi Pellegrini. Alla fine del 1969, Pellegrini fondò il bimestrale “Contenuti”, il cui interesse è rivolto principalmente alla letteratura e all’arte e la cui direzione fu affidata al saggista Francesco Bruno. Nel 1982, con la scomparsa di Bruno, la direzione di “Contenuti” venne affidata a Francesco Grisi, autore di numerosi volumi editi da Pellegrini. Tra i collaboratori di Grisi, voglio ricordare, fra i tanti,: Domenico Cambareri, Giuseppe Prezzolini, Diego Fabbri, Roberto Gervaso, Augusto Del Noce. La pubblicazione del bimestrale cessò due anni addietro con l’immatura scomparsa di Francesco Grisi. Nel 1972 venne realizzato il dizionario corografico “Calabria” (Guida artistica e archeologica, con tavole illustrative) di Emilio Barillaro. Dello stesso Barillaro, nel 1976, uscì il “Dizionario bibliografico e toponomastico della Calabria”. Nel 1976 Luigi Pellegrini propose la ristampa in volume antologico di alcune opere di Nicola Misasi (In Magna Sila; Giosafatte Tallarico; Il Gran Bosco d’Italia), curate da Pasquino Crupi, che collocano, finalmente e meritatamente, la figura e l’opera del romanziere calabrese, nella storia della letteratura italiana, accostandolo sempre di più alla corrente verista e al suo esponente più autorevole che è Giovanni Verga. Nel quadro delle iniziative intraprese negli anni settanta Luigi Pelle- grini inseriva la pubblicazione della collana “Fonti e ricerche per la storia della Calabria e del Mezzogiorno” (Problemi del Sottosviluppo), diretta da Saverio Di Bella. Fra i contributi più autorevoli, mi piace ricordare: “La Rivoluzione del 1848 nella Calabria” di Benedetto Musolino; “Cosenza e la sua provincia dall’Unità al Fascismo” di Enzo Stancati; “L’insurrezione calabrese nel 1806 e l’assedio di Amantea” di Autori Vari; “Terra e potere in Calabria dai borboni alla Repubblica: la questione silana” di Saverio Di Bella. La casa editrice si rafforzò particolarmente negli anni ottanta, grazie ad altre collaborazioni, ricercate nel mondo accademico, e con nuove importanti iniziative, quali: la pubblicazione de “L’Agenda della Calabria”, l’ultima sua novità editoriale prima di passare il timone a suo figlio Walter, ormai inserito da tempo e con competenza nell’azienda di famiglia; la nascita di una linea editoriale rivolta al fenomeno mafioso, un filone, questo, che l’editore, in collaborazione con il “Centro studi sulla criminalità mafiosa” e dell’”Istituto di Studi e Iniziative sulle società contadine in Calabria”, ha esplorato nella sua drammaticità, ponendo all’attenzione dei lettori la collana “Il filo d’Arianna”. La collana ha ospitato i volumi dei più autorevoli esperti del fenomeno mafioso in Italia, quali: Mercadante, Rizzo Nervo, Di Bella. L’editore Pellegrini ha fondato la rivista trimestrale “Qualeducazione” la cui direzione scientifica, con la responsabilità di Walter Pellegrini, fu affidata a Giuseppe Serio, autorevole pedagogista e autore di molte pubblicazioni a carattere scientifico. Affiancano la rivista preziose collane come: ‘Pedagogia-EticaEducazione’; ‘La scuola che cambia’; ‘Il momento della pedagogia’; ‘Storia dell’educazione’. La vasta produzione degli anni ottanta annovera la nascita di preziosissime collane di volumi, come quelle dedicate a “I grandi calabresi”: ‘Francesco da Paola’ di Nicola Giunta; ‘Nicola Manfroce’ di Domenico Ferraro; ‘Vincenzo Padula’ di Vincenzo Julia, ecc. Il 1985 è stato l’anno della collana “Zaffiri” preziosa nei contenuti come nella ricercata veste editoriale, con i suoi libri per bibliofili e da collezionisti, come il ‘Bestiemetafore’ di Alfonso Il Prof. Luigi Pellegrini, pioniere dell’editoria calabrese Cardamone e ‘Paul Harris’ di Coriolano Martirano; e della collana “Biblioteca emigrazione”, la cui direzione venne affidata per un lustro a Carmine Abate e a Mike Behrmann. Entrambi sono, peraltro, gli autori del primo volume, ‘I Germanesi’ (presentazione di Norbert Elias), a cui fecero seguito, fra gli altri: “Un popolo in fuga” di Pasquino Crupi e “Italiani senza patria” di Alfredo Strano. Il gruppo periodici Pellegrini si intensificò con la pubblicazione di una rivista giuridica, “Il Foro cosentino”. Nel 1994, Pellegrini diede spazio, con una nuova collana: “Massonerie e Massoni: tradizione e storia”, la cui direzione, nel 2001, venne affidata ad Aldo Alessandro Mola. Il direttore è tra i più noti massonologi europei. Nella collana sono ospitati, fra gli altri, tre volumi sulle “Tavole massoniche” di Rocco Ritorto, e di Ferdinando Cordova “La Massoneria in Calabria-Personaggi e documenti(18631950). Nel 1996 la casa editrice ha dato l’avvio alla pubblicazione della collana “Scienza pedagogica” con la direzione di Michele Borrelli. Nel 1998, è nato, in collaborazione con l’Istituto Calabrese di Storia dell’Antifascismo e dell’Italia contemporanea, il “Giornale Calabrese di storia contemporanea’, con periodicità semestrale e la cui direzione è stata affidata a Ferdinando Cordova. Dal 1982 Walter Pellegrini ha potenziato con sempre maggiore impegno, il settore dei periodici specializzati, avvalendosi dei contributi e degli stimoli offerti dai direttori e collaboratori delle prestigiose riviste “Campi Immaginabili”, “Incontri Mediterranei”, “Letteratura e società”, “Iride”. Queste, in sintesi, le vicissitudini della Luigi Pellegrini Editore, le battaglie di un viaggio lungo e bellissimo attraverso cinquant’anni di storia e di mutamenti della società, delle mode letterarie e del costume. A Luigi Pellegrini va il merito di aver saputo scegliere i “compagni di strada”, tutti collaboratori di prim’ordine, seguendo il cammino di una società in continua evoluzione, e di aver dato voce, attraverso il suo “patrimonio librario”, alla Calabria e di averla aiutata nella sua difficile trasformazione . Chianello OGGI famiglia 10 Dopo le grida disperate di Agamennone morente, compare sulla scena Clitennestra, fiera di aver ucciso il marito e di aver vendicato il sacrificio dell’innocente Ifigenia. Finalmente, dopo dieci anni di lunga attesa, ella può sfogare tutto il suo odio per quell’uomo che aveva sacrificato l’amore e la pietà al dovere e alla gloria militare; non esita a vantarsi del suo delitto e svela gli inganni orditi per compiere la sua vendetta: “Per me questa è la lotta, da tempo vagheggiata, di un’antica contesa: ed è giunta infine al suo momento. Io sto qui, dove l’ho colpito ed ho compiuto l’opera”; ed ancora: “Questo è Agamennone, il mio sposo, morto, opera di questa mano, ministra di giustizia”. Ma dopo un primo momento di esultanza, Clitennestra comincia a sentire il peso di quel delitto, da cui a poco a poco sarà definitivamente schiacciata. Inutilmente cerca la pace: Dike, figlia di Zeus Onnipotente, si affretta a punire gli empi, Clitennestra ed Egisto, che con la frode hanno versato il sangue di Agamennone. Anche i vecchi Argivi del Coro sanno che la giustizia non dimentica il suo dovere e gridano insieme: “Da qualche parte vede forse Oreste la luce, così che divenga, tornato qui con sorte benevola, uccisore invincibile di entram- Ottobre 2002 Lettura delle Coefere di Eschilo di Fiorangela D’Ippolito bi costoro?”. Oreste, ora lontano da casa, è l’unica loro speranza e salvezza, lo strumento della punizione divina, pronta ad abbattersi sulla casa dell’Atride, per frenare la tracotanza dello spregevole Egisto e la hybris di Clitennestra. Già nelle ultime battute dell’Agamennone, quindi, si prepara l’atmosfera delle Coefore. Il pathos, che era prima cresciuto con la visione profetica dell’omicidio avuta da Cassandra e che aveva raggiunto il suo culmine nel momento dell’uccisione del re e nella soddisfazione manifesta di Clitennestra per l’azione compiuta, qui comincia nuovamente a salire ed a tenere in tensione lo spettatore. Si attende la punizione di Zeus, segno di liberazione per il popolo argivo e terribile incubo per Clitennestra, ma nessuno sa quando e come Dike vorrà compiere i suoi disegni: per questo l’animo di ognuno è inquieto e, mentre medita sulla morte di Agamennone, non può non pensare ai mali che si preparano per la casa dell’Atride. Non c’è possibilità di uscita da questa situazione: solo la fede in RISTORANTE Il Celicotto LA NOSTRA VALIDITÀ Il valore del nostro locale deriva essenzialmente dall’ospitalita’ e ha due aspetti determinanti: il primo riguarda la qualita’ dei cibi e dei vini, il secondo quello collegato al fatto che gli alimenti e le bevande riflettono sempre la storia, la vita, le tradizioni ed il carattere della nostra gente. Il Celicotto a 12 km da Cosenza Per le prenotazioni dei tavoli telefonare allo (0984) 434314 - 435831 Zeus può rassicurare gli uomini che tutto finirà bene, se si obbedirà al volere divino. In questo modo, Eschilo riesce a muovere i sentimenti religiosi dello spettatore e lo spinge a sperare solo nella divinità. Finalmente Oreste, assetato di vendetta e inviato dal dio Apollo, giunge presso la tomba di Agamennone. Quando egli compare sulla scena, il volere divino sembra manifestarsi del tutto: la sorella Elettra e le ancelle del Coro gioiscono della sua vista, poiché è giunto il loro salvatore. Ha inizio a questo punto un lungo commos, un canto lirico, in cui si alternano le voci di Oreste, di Elettra e del Coro tutte: invocano vendetta, tutte chiedono il soccorso di Agamennone nell’azione che Oreste dovrà compiere. Ciò che si vuole sottolineare è il fatto che la vendetta è giusta, perché, come esclama il Coro, “è legge che stille di sangue versate sul terreno chiedano altro sangue: l’Erinni reclama sciagura, conducendo su Ate un’altra Ate, voluta dai morti precedenti”. Ogni colpa chiama a sé una pena che è colpa nello stesso tempo: è questo il destino che si prepara per Oreste e che già il Coro gli preannunzia: “In cambio di colpo mortale, mortale colpo sia restituito: chi ha compiuto soffra”. Il commos è tutto un incitamento alla vendetta, sia quando si ricorda che il volere degli dei è quello di punire Clitennestra ed Egisto, sia quando Oreste presenta alla sua mente, ma soprattutto al suo cuore, la terribile immagine della madre, paragonata ad una vipera mostruosa che ha privato del padre i figli dell’aquila. Insieme ad Elettra egli invoca il padre, affinché ascolti i lamenti “pieni di lacrime”della sua cara prole e si ricordi della rete inestricabile in cui la moglie lo ha tratto, delle insidie di lei e dell’oltraggio ricevuto dal prepotente Egisto. Oreste adesso è pronto per compiere la missione divina; a rendere manifesto il suo destino contribuisce il Coro, narrandogli l’incubo che affligge la madre assassina: in sogno pare a Clitennestra di mettere al mondo un serpente, il quale, quando la donna gli offre la mammella, ne succhia il latte ed anche un grumo di sangue. Quale orribile profezia è questa, che non tarderà ad avverarsi! Oreste, infatti, si avvia subito con l’amico Pilade verso casa sua. Entra con l’inganno, dicendo di essere un forestiero della Focile ed a Clitennestra porta la fal- sa notizia della morte di Oreste. La madre non riesce a trattenere il suo dolore e la disperazione per la maledizione che grava sulla reggia e che continua a strapparle gli affetti più cari. Anche Oreste, dunque, come Clitennestra, vuole uccidere con la frode e riesce a fingere perfettamente: non fa trapelare i suoi sentimenti, ma aspetta il momento giusto per colpire. Mentre il Coro inneggia a Zeus e a Dike e sostiene Oreste, chiamandolo ephedros, ultimo lottatore, si sentono le grida di Egisto, colpito a morte. Ha inizio la scena più drammatica, quella in cui tutte le passioni si sfogano e la Giustizia ottiene la vittoria. Al servo, che si dispera per la morte del padrone Egisto, Clitennestra chiede cosa sia successo e questi risponde con un triste presagio di morte: “Io dico che i morti uccidono i vivi”. Clitennestra sente che la punizione degli dei è giunta; lei stessa è consapevole della sua azione scellerata e amaramente confessa: “Con l’inganno periremo, così come abbiamo ucciso”. Troppo tardi, però, si accorge del male compiuto e Oreste, infatti, non mostrerà alcuna pietà nei suoi confronti. Quando, mostratole il cadavere di Egisto, Clitennestra si lascia sfuggire dalle labbra un grido di affetto nei confronti del drudo, Oreste non può tollerare più che la madre continui ad amare quell’uomo e non suo padre, mille volte superiore ad Egisto, e le rinfaccia la sua scellerata passione desiderando con tutto il cuore che essi muoiano insieme così come insieme hanno ucciso. A questo punto, Clitennestra si rivela in tutta la sua femminilità e cerca di distogliere il figlio dalla vendetta, affinché abbia rispetto del seno che lo nutrì da piccolo. Oreste qui tentenna un po’: non può non ricordarsi del fatto che Clitennestra gli ha dato la vita e lo ha nutrito; è preso da un amletico dubbio: bisogna ubbidire al volere degli dei, anche quando essi puniscono, oppure continuare a vivere, in questo caso, senza cercare giustizia? Anche se è ispira- to da Apollo, egli si assume la responsabilità della propria azione. E’ proprio tale consapevolezza che fa indugiare Oreste, ma Pilade interviene e richiama l’amico alla sua missione: “Fatti nemici tutti quanti piuttosto che gli dei”. Clitennestra non cessa di chiedere pietà al figlio, ma invano gli confessa il desiderio di invecchiare insieme a lui, di vivere una vita tranquilla, di dimenticare le pene sofferte. Oreste, infatti, dopo l’incitamento di Pilade, acquista ancora più forza ed ha con la madre un dialogo serratissimo. A Clitennestra ricorda che la Moira vuole la sua morte e che egli non terrà conto delle maledizioni materne, poiché, già nascendo, è stato gettato nella sventura. Senza tregua Oreste, con parole che spirano odio, grida le ragioni della sua vendetta e strazia il cuore della madre con le parole prima ancora di ucciderla con le mani. Alla fine, Clitennestra, che aveva sempre cercato di dissuadere il figlio dal matricidio, ricordandogli tutto l’amore che ebbe per lui e che vuole le sia ricambiato, prende coscienza che Oreste è deciso a compiere il folle gesto: “Io credo che tu ucciderai tua madre, o figlio”. Ed Oreste risponde: “Tu ucciderai te stessa, non io”. E’ stata Clitennestra, dunque, a firmare la propria condanna a morte col sangue di Agamennone. Ai suoi occhi Oreste ormai non appare più come un figlio: è costretta a dimenticare ogni dolce ricordo della sua maternità e si accorge di aver generato una serpe. Il sogno di Clitennestra si è avverato, tutto è compiuto ed Oreste soffoca con la spada le ultime parole della madre, esclamando: “Tu hai ucciso chi non dovevi, soffri ora ciò che non dovresti”. E’ la legge del pathei mathos - imparare per mezzo della sofferenza - che già era stata preannunciata nella parodos dell’Agamennone: “Chi canta con devozione epinici per Zeus otterrà tutto quello che ha in cuore: lui che avviò gli uomini alla saggezza e che dispose di avere come principio che attraver- so il soffrire si giunge alla comprensione”. Proprio questo dovrà sperimentare adesso Oreste. Dapprima egli si mostra trionfante sul cadavere della madre e su quello di Egisto. Ricorda una per una tutte le loro colpe, si vanta della missione divina compiuta, ma a poco a poco, dopo un momentaneo senso di sicurezza, presenta il matricidio come un’azione voluta solo dagli dei e ripete di essere innocente, ma già le cagne della madre, le Erinni che colano sangue dagli occhi, lo cercano per straziarlo. Bisogna notare che i personaggi di Eschilo non sono totalmente abbandonati nelle mani del Fato: per Oreste non vi era possibilità di salvezza; non poteva scegliere fra il Bene e il Male, ma tra due mali. Se non avesse ucciso la madre, gli dei lo avrebbero punito in modo ancora più grave se l’avesse fatto. Tuttavia, commesso il matricidio, egli resterà colpevole e potrà riscattarsi solo se dimostrerà segno di pentimento oppure rimarrà dannato per sempre. Oreste, dunque, si trova libero di decidere, pur essendo nella necessità. Da lui stesso, e non dal Fato o da un altro dio, dipenderà la sua sorte, ma per poter ottenere il perdono degli dei dovrà soffrire ancora. Con il matricidio egli ha rinnovato la hybris antica: è giusto che ora, mediante pathos, impari. E’ proprio questo uno dei motivi fondamentali della poesia di Eschilo, il quale, con la sua sublime arte drammatica, riesce a delineare il destino dell’uomo che si abbandona alla hybris e che deve con le sue forze cercare la purificazione. Né Agamennone aveva voluto compiere un tale sforzo, né Clitennestra vi è riuscita, ma Oreste si libererà delle Erinni, che diventeranno così Eumenidi, cioè benevoli, e giungerà alla catarsi. Ed a testimonianza della eternità della poesia di Eschilo, il lettore moderno, a cui potrebbe sembrare lontana quest’antica storia, rimane colpito dalle stupende immagini create dal poeta, dalla potenza espressiva, dalle gigantesche passioni che si agitano sulla scena, e viene purificato nell’animo e sollevato nello spirito, così come avveniva allo spettatore antico. CAMILLO SIRIANNI Industria arredamenti scuola e uffici Forniture complete di arredamenti per: • • • • Scuole materne / Elementari / Medie Enti e Comunità Uffici operativi e direzionali Sale convegni Località Scaglioni - SS 19 - Tel. 0968:662147 88049 Soveria Mannelli (CZ) OGGI famiglia 11 Ottobre 2002 REGALATE UN LIBRO AL CENTRO DI LETTURA DEL CENTRO SOCIO-CULTURALE “V. BACHELET” Le Case Editrici sono invitate a inviare pubblicazioni a “Oggi famiglia”. La rubrica è a cura di Domenico Ferraro La storia, la cultura, le tradizioni di un’antica comunità calabrese: BIANCO Il pensiero educativo di Rosa Agazzi e la scuola materna odierna di Domenico Ferraro di Domenico Ferraro Nel lavoro storiografico di Antonio Fotia si evidenziano molte caratterizzazioni metodologiche di ricerca, una severa correttezza scientifica, una individuazione delle fonti più autorevoli e, infine, un riferimento continuo alle testimonianze della cultura materiale. La molteplicità delle illustrazioni, che arricchiscono il testo, contribuisce a far emergere delle realtà, che, molte volte, si disperdono per la trascuratezza degli uomini, per l’inconsapevole dimenticanza del tempo e per la distruzione delle intemperie e dei cataclismi naturali. Il recupero delle conoscenze storiche e degli eventi, che hanno interessato le popolazioni di Bianco, è analizzato da Fotia come fonte originaria e originale dei comportamenti sociali attuali della popolazione. La complessità dello studio, anche dal punto di vista di introspezione psicologica, e la ricchezza delle notizie sono dovute proprio a questa capacità di indagine, confortata sempre da una pluralità di riflessioni, la cui verità dev’essere riposta nell’esperienza della ricerca culturale, o nel riferimento archeologico, o nell’analisi di tradizioni o deduzioni storiche. Dalla ricerca se ne ricava una suggestione che ci fa intuire come queste zone abbiano dato origine a culture, a civiltà che, poi, si sono maggiormente diffuse in altri territori, vicini e lontani. Per l’intuizione di questa impostazione culturale ed ideologica, l’opera di Antonio Fotia si trasforma in una ricerca intellettuale, che contribuisce a costruire il variegato e complesso mosaico della civiltà dei popoli meridionali. La suddivisione in capitoli ben precisi facilita il compito dello studioso, che si è impegnato a completare la ricerca seguendo la successione del tempo sino alla attualità. In questa strutturazione tematica ha potuto convogliare tutti gli avvenimenti storici, le testimonianze che si riferiscono al contesto storiografico dell’Italia e del meridione, in particolare. Si ha, così, una visione completa della società di Bianco, della sua cultura, della sua civiltà, della sua storia civile e religiosa, dei suoi costumi, delle sue tradizioni, anche attuali. Infatti, per la grande capacità di analisi di Fotia, per il suo gusto letterario, per la correttezza e facilità del linguaggio espressivo e comunicativo, per la scelta delle tematiche, per le problematiche che riesce a far emergere, per le sottili ed elaborate argomentazioni, per i contenuti che arricchiscono il testo, ti fa operare una ricognizione completa delle esperienze esistenziali della gente di Bianco. Inoltre, le prospetta in un contesto più ampio, di modo che la suggestione che se ne ricava, oltrepassa gli interessi di un ambiente ben circostanziato ed assume una prospettiva, che s’inserisce in una problematizzazione culturale storiografica più vasta, come è quella meridionale. La sua analisi contribuisce a chiarire la complessa e tormentata storia dei nostri Paesi, la lenta formazione della loro specificità culturale antropologica, l’accumulo dei loro variegati costumi, l’addensarsi delle loro contrastanti e contraddittorie tradizioni, che costituiscono il simbolo di una contaminazione culturale e sociale. Questo processo di sublimazione comportamentale si è verificato durante tutti i secoli della loro storia per gli scambi culturali con altri popoli, per i rapporti commerciali, per essere stati supporti strategici militari, facile via di transito per i territori interni, per aver subito lunghe diversificate dominazioni, per aver assimilato linguaggi, costumi, tradizioni, la cui ricognizione costituisce l’origine antica della nostra mentalità, e contribuisce a spiegarci l’originalità del nostro costume culturale e delle nostre problematiche esistenziali. La storia di Bianco, così, è il risultato serio è riflessivo di un appassionato studioso che, alla vivace correttezza espositiva, alla controllata raccolta di notizie, alla scrupolosa analisi delle fonti, aggiunge una viva partecipazione ai fatti che racconta e che si manifestano nella suggestione del linguaggio, nello stile sempre ricco, carico di emozioni e di vivaci interessi, di calore umano e di tutte quelle caratterizzazioni, che contraddistinguono la natura culturale e la vita dei popoli meridionali. Fotia, oltre alla storia civile s’interessa di descrivere il modo in cui sono stati vissuti e manifestati i sentimenti religiosi e quale attrattiva hanno operato sui sentimenti della gente, quale contributo hanno espresso per modificare e condizionare la storia civile, ma, anche, i costumi, la mentalità, la cultura e i comportamenti. L’opera di Fotia è capace di suscitare intensi sentimenti di vera partecipazione alle vicissitudini di una popolazione che ha saputo vivere esperienze esistenziali, che perdurano ancora nella storia della sua quotidianità e nella prospettiva di una vivacità culturale autentica e ricca di una sua propria spiccata originalità. Antonio Fotia, Bianco, antico, vecchio e nuovo, Antonio Sicilia Editore, Piano Lago - Mangone (CS) Ringraziamenti Si ringraziano gli autori per i seguenti volumi: 1) Marisa Fasanella, L’ombra lunga dei moroni, Rubbettino Editore 2) Marisa Fasanella, Maschere e lenzuola del vicolo Santa Croce, Periferia Editrice 3) Marisa Fasanella, Gineceo, Tullio Pironti Editore 4) Francesco Gagliardi, Nell’inferno di Corea – Dura esperienza di un giovane calabrese, TipoLito Editoriale C. Biondi, Cosenza L’opera è stata realizzata da S. S. Macchietti, B. Rossi, S. Angori, R. Cuccurullo e C. Moseoni. E’ la ricostruzione critica del pensiero pedagogico di Rosa Agazzi. La rivisitazione, che ne consegue, dimostra quanto sia stato ricco e carico di prospettive future. Infatti, l’ambientazione storica riflette le caratteristiche sociali del tempo. Si possono intravedere quanto esso sia stato innovativo e quale realtà abbia saputo rappresentare se si confronta con la situazione con cui si è dovuto rapportare. Ma ciò che si evidenzia maggiormente in ogni singolo saggio è la dimensione prospettica e la pluralità delle sperimentazioni che ha saputo promuovere e sollecitare. Il raffronto che ne consegue con gli Orientamenti del’91 non costituisce una forzatura o una imposizione antistorica, poiché potrebbe rappresentare un’inutile celebrazione. Ogni aspetto del pensiero di Rosa Agazzi viene approfondito ed analizzato nelle sua portata e, poi, ogni riferimento viene strutturato nella nuova realtà e interpretato per la sua ricchezza. Naturalmente ne consegue anche una diversa e più aggiornata ricostruzione della sua vita, la sua formazione culturale ed educativa e viene evidenziata la sua capacità rivoluzionaria nell’aver saputo definire una propria concezione dell’infanzia. Si denota in ogni saggio la constatazione che la realizzazione della sua opera sia stata sollecitata non da uno studio teorico e da una ricerca di dottrine filosofiche o pedagogiche decorse, ma dalla riflessione quotidiana, che defluiva dalla situazione concreta in cui operava e da quelle esperienze innovative che giorno dopo giorno andava attuando con i suoi bambini. Allora, si manifesta la fattibilità operativa di una grande educatrice, che sapeva confrontarsi con una realtà sociale, una delimitazione economica di una comunità e una indifferenza culturale, che non potevano in nessun modo costituire una sollecitazione e una promozione educativa di un processo, che permaneva costantemente isolato. La sperimentazione andava così realizzandosi nella riflessione di un’au- tocritica operativa e si arricchiva ogni giorno di più di quelle esperienze culturali che, molte volte, in modo spontaneo e improvvisato, dimostravano la possibilità di uno sviluppo, la capacità di una crescita realizzatrice, la concretezza di saper indicare un nuovo modo di rapportarsi all’infanzia, di interpretarne le esigenze più profonde, di saperne esaltare la capacità di crescita interiore, senza opprimerla con condizionamenti ideologici di nessun genere. Naturalmente la descrizione dei principi educativi, la ricerca e la individuazione della scoperta di ciò che veramente è stata la novità educativa di Rosa Agazzi, sospinge gli autori della pubblicazione a confrontare la sua realizzazione con i principi teorici, che caratterizzano gli Orientamenti della scuola materna odierna. Si constata praticamente quanta intuizione e quanta ricchezza pedagogica e metodologica era implicita e sottostava a un’esperienza, la cui novità non sempre è stata analizzata nella sua complessa e dinamica varietà educativa. Il raffronto viene concepito per esaltare maggiormente quelle novità che, poi, la scienza, il progresso, il rinnovamento culturale, la concezione ideologica di una pedagogia, che, usufruendo dell’esperienza del passato, si era arricchita del contributo di nuove conoscenze e discipline che hanno dato adito ad un’operatività, che riflette le esigenze di una società tecnologica e di una infanzia, il cui contesto sociale è completamento rinnovato e mutato. L’importanza di Rosa Agazzi consiste nell’aver saputo intuire ed attuare principi che, poi, in un contesto sociale completamente diversificato, avrebbero dimostrato tutta la loro ricca capacità innovativa. Certo, la riconsidera- zione dell’infanzia, successivamente, fu accresciuta da una pluralità di discipline scientifiche, che non erano minimamente sospettate di poter contribuire a sollecitare una conoscenza scientifica dell’infanzia e una ricognizione culturale in senso antropologico dell’ambiente, anche perché permaneva un condizionamento ideologico filosofico su tutto il processo educativo e su tutta la concezione teorica della pedagogia. La liberazione dell’infanzia, la sua autonomia, la libertà di crescita originale e spontanea, il rispetto di ogni singola personalità, l’aderenza alla concretezza dell’ambiente sociale e naturale, il riconoscimento che ogni bambino costituisce un proprio mondo, che va rispettato e sollecitato a crescere, una metodologia didattica che interpreti concretamente le esigenze più profonde dell’infanzia, il riferimento costante ad un’educazione, che si realizzi nella bellezza della natura, sono stati, secondo le possibilità dello sviluppo scientifico e le caratteristiche sociali dell’ambiente, pienamente intuite e realizzate da Rosa Agazzi. Allora, il rapporto e l’intersecarsi delle intuizioni agazziane con quanto interpretano la dottrina o la filosofia che struttura gli Orientamenti del ‘91 non possono essere poste sullo stesso piano operativo, poiché hanno dato adito ad un prosieguo attuativo completamente differenziato e, molte volte, contrastante. La pubblicazione, nonostante la diversità degli studiosi e gli aspetti diversificati che ognuno di loro ha sviluppato, risulta unitaria e ricca di tante suggestioni culturali e sospinge ad una rilettura e riflessione delle opere di Rosa Agazzi, poiché, ancora oggi, il suo pensiero può sollecitare gli educatori e gli studiosi a modificare il proprio modo di rapportarsi all’infanzia e a riscoprire intuizioni, che possono rivoluzionare la conoscenza, la dottrina e la concezione della pedagogia moderna. Marilena Bagnalasta Barlaam (a cura di), Scuola materna: gioia di vivere, crescere, apprendere Il progetto agazziano e i vigenti Orientamenti, Istituto”Pasquali-Agazzi”, Comune di Brescia, Brescia, 1996, pagg. 240, senza prezzo OGGI famiglia 12 Ottobre 2002 • Girate • Girate • Girate • La centralità del sacramento nuziale dotto attraverso un excursus storico-teologico che parte dal Concilio Vaticano II per arrivare a concludere che tutte le forme di vita possono essere ricondotte all’unica categoria della nuzialità: non solo gli sposi ma anche i celibi consacrati, i sacerdoti e i religiosi, i vedovi. È una teologia questa della sponsalità con la quale si comincia pian piano a prendere confidenza, una teologia che privilegia in modo esclusivo l’immagine nuziale come unica svelatrice del mistero di Dio, un Dio che nel creare la coppia, Adamo ed Eva, li ha creati dal nulla, cioè da null’altro oltre a sé, come se la coppia fosse il miglior modo di rappresentare Se Stesso, questo suo Mistero che lo lega al Figlio attraverso lo Spirito in una coinvolgente, armoniosa danza d’amore. Prezioso è stato anche l’intervento del Direttore della Caritas italiana insieme al Dottor Marco Lora dell’Ufficio nazionale per la pastorale della famiglia, in particolare per la presentazione di un progetto che - siamo sicuri - farà parlare di sé: è il PRONTO FAMIGLIA, un numero verde che sarà messo al servizio delle famiglie per offrire loro risposte qualificate in ambito pastorale, etico, giuridico, psicologico, amministrativo e quant’altro, un amico al telefono che si sta cercando di costruire in modo efficiente, capillare, e non o non solo, emergenziale. Interessanti sono state anche le relazioni per così dire tecniche: quella di Don Franco Lanzolla che insieme ai coniugi Ancis di Cagliari ci ha detto “Come costruire e far crescere l’Ufficio diocesano e la Commissione di pastorale familiare”; o quella di Don Eduardo Algeri sui “Contenuti e i processi della formazione”. A Rocca di Papa è intervenuto anche il Forum delle Associazioni Familiari attraverso il suo Presidente Dott.ssa Luisa Santolini che ha offerto una relazione appassionata, oltre che edificante, sulle radici, le sfide e i progetti delle famiglie come progetto sociale. Una lingua che muore è una fonte di sapere che si perde Un po’ di chiarezza sui tanto dileggiati dialetti di Giovanni Chilelli Don Vincenzo Filice (secondo da sinistra) direttore dell’Ufficio Famiglia della Diocesi di Cosenza La coppia Pino e Nandino Sergio responsabili dell’Ufficio Famiglia della Diocesi di Cosenza (seconda fila a sinistra) Mons. Renzo Bonetti, direttore uscente dell’Ufficio Famiglia nazionale (CEI) Importanti anche i momenti per così dire più distensivi: i lavori di gruppo, prezioso scambio di esperienze e di progetti, la proiezione del film “Casomai” del bravo regista D’Alatri, la drammatizzazione della poesia “Il canto della Madre” di Don Giorgio Mazzanti, ma anche tutti gli altri momenti di incontro e di condivisione tra famiglie negli spazi delle preghiere animati dal nuovo Direttore del- AUTOSTOP l’Ufficio Don Sergio, del pranzo o della cena, al bar o nel giardino meraviglioso di questo istituto che ci ospitava, con vista sul lago. Un istituto il cui nome - Mondo Migliore - sia veramente un auspicio per la famiglia del Terzo Millennio: ognuno è chiamato all’impegno e alla responsabilità, ogni famiglia può diventare una candelina accesa per costruire e vivere in un mondo davvero migliore. Il termine “dialetto”, nei cui confronti si mostra una scarsa considerazione se non, addirittura, un vero e proprio senso di disprezzo, altro non è che un sistema linguistico usato in un territorio geograficamente ben delimitato. D’altronde, la sua non opinabile etimologia, ci dice che “dialetto” deriva dal termine greco dialektos, “discussione”, ovvero da dialégein “parlare” attraverso (dia) “discutere”. Pertanto, una qualsiasi forma di dialetto, oppure, se si preferisce, una particolarità linguistica, ha tutti i crismi da meritare rispetto da parte di tutti e giammai delle valutazioni negative, che non di rado, collimano con la noncuranza e/o con l’oltraggio. Chiariamo subito che nessuno può minimamente dubitare che l’unificazione linguistica, nell’ambito territoriale d’una Nazione, rappresenti sempre una conquista culturale e civile di portata storica. I cittadini di uno Stato, infatti, debbono poter comunicare agevolmente tra loro per ragioni sociali, polito-amministrative, commerciali, eccetera. Per cui la conoscenza teoretica e pratica della lingua nazionale è, e rimanere, il punto d’arrivo delle varie identità linguistiche regionali e anche di limitate zone geografiche di un Paese. Ma ciò non può affatto soffocare i dialetti fino a provocarne la morte in nome di un malinteso sentimento nazionale. Giustamente la Scuola e i mezzi di comunicazione di massa provvedono a privilegiare l’idioma della comunità nazionale, ma nessuno ha il diritto di mortificare le lingue locali, anche se con un malcelato senso di intolleranza nei loro confronti. L’omologazione delle lingue, secondo i due studiosi, di cui diremo tra poco, presenta due facce: una, come sopra riconosciuto, è quella di facilitare la comunicabilità tra tutti i cittadini d’una collettività nazionale; l’altra, in verità, molto più criptata, e quella di invogliare a ri- INTRIER TOUR cusare le lingue locali, senza alcuna giustificazione. Pochi, credo, siano a conoscenza di un fenomeno di importanza planetaria, che in pochi decenni, ha portato alla morte, in diverse zone della terra, degli idiomi nativi di intere popolazioni. Si pensi che gran parte delle 250 lingue dell’Australia sono già definitivamente scomparse. Oppure alle ex repubbliche sovietiche del Baltico, che dopo l’indipendenza dalla ex Unione Sovietica, hanno subito voluto riaffermare la loro autonomia linguistica contro il russo; l’annosa disputa tra il francofono Québec e il resto del Canadà di predominio anglofono. Due studiosi inglesi hanno denunciato tale fenomeno con un loro saggio, dal titolo abbastanza significativo: “Voci del silenzio”. Si tratta dell’antropologo Daniel Nettle e della professoressa Suzanne Romaine dell’Università di Oxford. Questi due personaggi, in proposito, scrivono che “Se qualche lingua fosse una rara specie di uccelli o un banco di coralli in pericolo, forse se ne preoccuperebbe un gran numero di persone”. Il principio su cui si fonda la loro denuncia, trae origine dalla consapevolezza che “più lingue significano più democrazia”. Innanzitutto perché il linguaggio, come invenzione esclusivamente umana, ha reso possibile tutto ciò che conta per la nostra specie: la cultura, l’arte, la musica, lo stesso progresso tecnologico e scientifico. E poi perché, con la scomparsa delle “lingue” si perdono delle notevoli forme di informazione non solo di natura storica, ma anche di interesse antropologicoculturale di non trascurabile importanza. Oppure, più semplicemente, è bene ricordarci che i vocaboli dei dialetti sono, indubbiamente, espressioni uniche per indicare oggetti e azioni che ci fanno comprendere meglio il nostro passato. La Società attuale, invece, considera il plurilinguismo come un ostacolo per la comunicazione stessa, per lo sviluppo economico e, più in generale, per la medesima modernizzazione. Tale considerazione, inequivocabilmente, contiene una verità non facilmente contestabile giacché una diversità di linguaggio sarebbe di nocumento alla identità di un Popolo. Ma ciò ripetiamo, non giustifica per nulla il voler discriminare, per principio, gli idiomi locali fino a decretarne la loro totale scomparsa. I Romani di Cesare (lo ricordiamo bene) imponevano, ai popoli vinti, la loro lingua, i loro costumi, le loro leggi. Allo stesso modo, nella seconda metà del Novecento, si è imposta, quasi in tutto il globo, una lingua sola, l’inglese. E si badi che si è trattato di “una selezione naturale cui è sopravvissuta la lingua più adatta” bensì il risultato di una scelta politico-economica da cui è emerso l’idioma del più forte. Secondo i due studiosi inglesi, l’uniformità linguistica, che trascura aprioristicamente le identità dei dialetti, non solo significa un impoverimento di culture e di conoscenze, ma rappresenta anche un pericoloso passo verso sistemi meno democratici. Infatti, gli Autori del saggio sostengono che i totalitarismi potrebbero attecchire con più facilità in situazioni di omologazione linguistica e culturale. Nessuno, ritengo, possa mettere in dubbio la musicalità, la freschezza delle immagini, l’intraducibilità di certi vocaboli dialettali, che rivelano sì un “mondo” limitato, ma assai ricco di contenuti emotivi. Con la propria lingua, ricordiamolo, l’uomo non solo descrive, ma crea il suo universo, proprio come aveva intuito il filosofo austriaco Ludwig Wittegestein. La difesa della lingua, pertanto, va considerata, in primis, una battaglia di civiltà per il motivo che la loro scomparsa, significherebbe una “fonte di sapere” che svanisce per sempre. SI.GE.I. s.r.l.