Ott - Centro Socio Culturale

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Ott - Centro Socio Culturale
OGGI
famiglia
ANNO XIV N°9
Ottobre
2002
Sped. Abb. Post. 45%
Art. 2 Comma 20/b
Legge 662/96
Filiale di Cosenza
ORGANO DEL CENTRO SOCIO CULTURALE “V. BACHELET” COSENZA - AL SERVIZIO DELLA FAMIGLIA IN CALABRIA
Ogni vera rivoluzione
comincia da Dio
I regimi teocratici islamici
non sono per Dio, ma contro Dio
di Vincenzo Filice
A
bbattere un regime
è facile. Basta essere il più forte in
armi e strategie. Tutta la
storia delle rivoluzioni e
delle guerre combattute,
o in nome del dominio, o
in nome della libertà e
della giustizia, o della democrazia, ci testimonia
questa verità solare. E’
stato sempre così. Abbattere, invece, una cultura
è difficile. La cultura tocca l’ethos di un popolo: i
valori in cui crede e per
cui si batte, i suoi ordinamenti civili e religiosi, i
suoi costumi, la sua filosofia di vita, la sua mentalità.
er abbattere la cultura di un popolo (quello di Ben-Laden), occorre
convincerlo che la sua
non è l’unica possibile,
occorre
rivangare, ab
imis, il suo ethos, cioè, il
suo terreno di coltura che
come l’humus corrotto di
un bosco, alimenta le
male piante della storia
umana (sete di dominio,
violenza, arretratezza e
ignoranza, degenerazione
religiosa e morale) e ne
impedisce i percorsi di civilizzazione. La guerra,
ogni guerra, rimescola,
solo, le carte del potere,
ma, difficilmente, tocca la
cultura. Il terrorismo
stesso, è, nella sua sostanza, una guerra di
conservazione. Esso camuffa la difesa ad oltranza del potere costituito
con la difesa della cultura
del proprio popolo. Dio
stesso viene brandito come una spada e viene
trasformato in vindice del
suo popolo, anzi lotta a
fianco a fianco di esso
contro il Dio falso e bugiardo degli altri, considerati “infedeli”. La lotta
politica, così, si trasforma, facilmente, in lotta
tra gli dei.
P
In questo clima di “corruzione culturale” la lotta
per il dominio di un popolo
sull’altro assume la dimensione apocalittica della lotta
“finale” tra due “imperi del
male”. La lotta fisica si trasforma in lotta metafisica e
il Dio creduto fonte di legittimazione del potere costituito e dei suoi ordinamenti
sociali guida la guerra e
spinge “i fedeli” alla guerra.
E’ inutile, a questo punto,
parlare di fanatismo. Qui
occorre un disincanto (M.
Weber) che, solo un processo di secolarizzazione appropriato può provocare.
L’Occidente, animato dalla
rivelazione Cristiana, sia
pure tra mille contraddizioni, devianze oscurantistiche
e ricadute nella logica del
dominio, è riuscito, a decretare la “morte di Dio”. Il
“vecchio Dio” di Nietzsche,
infatti, era il Dio morale,
antilibertario, antiumano,
goffo garante di ordinamenti millennari, ingiusti e perversi, che in esso avevano
trovato una potente fonte di
legittimazione e di intoccabilità.
L
a rivoluzione illuministica, abbattendo gli
ordinamenti delle monarchie assolute, provocò, è
vero, una semplice sostituzione di essi. Ma il
mondo, culturalmente e
religiosamente, non fu
più lo stesso. La vera rivoluzione che ha portato i
popoli alla democrazia e
al riscatto umano delle
masse popolari dall’ignoranza e dalla miseria, avvenne in seguito, dopo
l’abbattimento del “Dio
garante” e teocratico.
Quella rivoluzione, prima
che politica fu culturale.
E’ sempre così: prima di
riformare il mondo, anzi
per riformarlo, bisogna
cominciare da Dio.
’immagine che l’uomo,
in ogni tempo, si fa di
Dio è simbolica e il simbolo, come si sa, è solo
allusivo, non è la realtà.
Esso, per questo, assume
il colore e i contenuti di
una data cultura storica.
Per questo, se non si demolisce la rappresentazione di Dio, che fa da
supporto al potere costituito, a nulla valgono le
rivoluzioni armate e gli
atti terroristici. Se l’uomo
muore, Dio non cè. Nessun Dio ci solleva dalla
L
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ROCCA DI PAPA: Più di 160 coppie provenienti da tutt’Italia riscoprono
La centralità del sacramento nuziale
di Francesca e Gianluca Pallone
È
cominciato all’insegna dei numeri il
IV° Incontro nazionale dei responsabili diocesani di pastorale familiare che si è tenuto a
Rocca di Papa tra il 17 e
il 20 ottobre sul tema
“L’Ufficio diocesano di
pastorale familiare: priorità e progetto”.
Ed i numeri, si sa,
quando si parla di famiglia non sono - ahimè poco confortanti: così il
dottor Francesco Belletti,
Direttore del CISF (Centro Italiano Servizi alle
Famiglie), dopo il saluto
di S. E. Mons. Giuseppe
Betori, (Segretario Generale della CEI) e di S. E.
Mons. Dante Lanfranconi
(Presidente della Commissione Episcopale per
la Famiglia e la Vita), ci
ha descritto attraverso i
dati statistici il quadro
della situazione attuale
della famiglia in Italia (e
non c’è da sperare in meglio negli altri Paesi europei e non).
La freddezza dei numeri non è riuscita però
a dissolvere quell’atmosfera di calore e di emozione che si era creata
sin dall’inizio tra i circa
trecento convegnisti venuti da tutt’Italia a rappresentare le proprie diocesi, sin da quando un
fragoroso, sentitissimo
applauso aveva salutato,
dopo otto anni di “onorato servizio”, il Direttore
dallo studio e dal confronto fatto dal parroco e
dagli sposi insieme per
arrivare a rinnovare l’anima stessa della parrocchia affinché diventi “ciò
che è”, famiglia di famiglie.
Ma oltre ad affidarci,
congedandosi,
questa
sua amata creatura, che
è il progetto parrocchiafamiglia, Don Renzo ci ha
indicato (confessa una
sorta di testamento spirituale) le “priorità per la
pastorale familiare oggi
dimissionario dell’Ufficio
famiglia della CEI, Don
Renzo Bonetti. Don Renzo va via con otto mesi di
anticipo sulla scadenza
del suo mandato e quella
passione che ha seminato in giro per l’Italia lavorando con le famiglie se
la porta ora a Bovolone,
in provincia di Verona,
nella parrocchia in cui
andrà a lavorare, convinto - come egli stesso ci ha
confidato - di poter dare
ancora e forse di più alla
pastorale della famiglia.
Il suo, però, è solo un
arrivederci e non un addio: sarà, infatti, il coordinatore nazionale del
Progetto Parrocchia-Famiglia già attivo in 32
parrocchie (tra cui la sua
ed una anche qui in Calabria), un’idea che parte
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Rocca di Papa: Centro “Mondo Migliore”,
sede del convegno
in Italia”: innanzitutto la
produzione e l’approfondimento della teologia del
sacramento delle nozze,
poi la formazione anche
attraverso la direzione
spirituale di coppia, ancora l’analisi del rapporto
tra Ordine e Matrimonio
ed infine l’educazione al-
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della Genesi (Adamo ed
Eva) e quella dell’Apocalisse (l’Agnello e la sua
Sposa) e ci ha indicato il
centro di tutto questo ed
il suo cuore nell’Ultima
Cena, cioè nell’Eucaristia; il secondo ci ha con-
✔ CONTINUA A PAGINA 12
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l’amore, visto come la sostanza, il centro della vita cristiana.
E non sono mancati a
Rocca di Papa i momenti
forti di impegno teologico, da quello “poetico” di
Don Giorgio Mazzanti a
quello “danzante” di Don
Francesco Pilloni: il primo ci ha richiamati alla
contemplazione del grande mistero nuziale suggerendoci una rilettura di
tutto il testo biblico come
una grande voluta “inclusione“ tra la coppia
tecnologia,
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OGGI
famiglia
2
Ottobre 2002
Il processo di sviluppo dei popoli
presuppone lo sviluppo della democrazia e della libertà
Non può bastare la politica della solidarietà, ma bisogna dare a tutti i popoli
la capacità autonoma di raggiungere rapidamente un alto livello tecnologico e produttivo
di Giovambattista Giudiandrea
Torno sul problema
delle sperequazioni economiche e tecnologiche
che caratterizzano il
mondo moderno, incoraggiato forse dall’articolo di Rosa Capalbo sull’ultimo numero della rivista. Avverto solo che,
per non meritarmi l’appellativo di “depensante”
coniato da Carmelo Bene, cercherò di sottoporre a verifica alcune conclusioni cui si perviene
per accettazione del comune pensare: oggi è
troppo forte la tentazione
di adeguarsi ad alcuni
luoghi comuni, per cui ci
trasformiamo - sostiene
Carmelo Bene - in “depensanti” che assumono
e ripetono i giudizi più
diffusi.
Le sperequazioni tra i
popoli sono sempre esistite ed è altamente positivo che oggi ce ne scandalizziamo, invece di accettarle: è questo un ulteriore segnale della “crescita” civile della coscienza dell’umanità che fino a
ieri giustificava il colonialismo come diritto dei
popoli forti di conquistarsi “un posto al sole” o addirittura come una applicazione del darwinismo
al campo sociale, per cui
i popoli deboli sarebbero
destinati a soccombere
come avviene in natura
tra specie forti e specie
deboli. La coscienza del
cittadino moderno si ribella a queste mostruosità che hanno alimentato la cultura degli ultimi
due secoli. Questa nuova
consapevolezza sorregge,
secondo me, la ragionevole speranza che l’umanità riesca a liberarsi
presto di ogni assurda
sperequazione, in modo
da potere pervenire all’unica forma di convivenza
possibile, quella fondata
su una distribuzione delle risorse economiche e
tecnologiche che non sia
scandalosamente sperequata come quella attuale.
Si tratta, dunque, di
elaborare strategie adeguate per realizzare il superamento delle sperequazioni, tenendo presente che di esse, nel
corso dei secoli, tutti i
popoli sono stati vittime e
responsabili in momenti
diversi: non è trascorso
molto tempo da quando
subivamo la dominazione
austriaca o quella spagnola o quella islamica e
gli stessi USA sono stati
fino a due secoli fa una
colonia inglese. In passato, l’unica strategia da
seguire per uscire dallo
stato di colonia era il ricorso alle armi per sottrarsi al dominio subito e
possibilmente imporre il
proprio dominio su altri
popoli. L’umanità oggi si
è liberata dell’aberrante
cultura del colonialismo
ed affronta il problema
della convivenza dei popoli non più in termini di
soggezione del più debole
al più forte.
Si aprono, così, prospettive interessanti e del
tutto nuove, che vanno
arricchite di progetti attuativi validi. Non basta
più fermarsi alla denunzia dello stato di miseria
in cui versano alcuni popoli, ma occorre aggiungere indicazioni adeguate
al problema da risolvere:
si tratta di dare a tutti i
popoli la capacità di raggiungere rapidamente un
alto livello tecnologico e
produttivo; non può bastare, quindi, la politica
della solidarietà (che
molti invocano) annullando i debiti contratti
(che presto potrebbero
essere nuovamente accumulati) o quella degli
“aiuti” che - alla stregua
della elemosina - possono portare un qualche
sollievo per particolari situazioni, ma non risolveranno il problema, am-
messo che non siano dirottati verso finalità perverse come l’arricchimento di singoli satrapi e
come gli armamenti per
protrarre guerre fratricide e tribali. Ben venga la
solidarietà, ma come forma di intervento immediato da accompagnare
ad una politica più organica ed incisiva, così come l’analgesico può solamente accompagnarsi alla cura, e non può avere
la pretesa di sostituirla.
La dimensione del
problema, come si vede,
è cosi grande da non ammettere approcci superficiali intonati alla sola solidarietà. E non è un caso che anche quando la
sinistra era in netta maggioranza nel G8 (Italia,
Francia, Germania, Inghilterra e USA avevano
tutti governi di sinistra)
non ha saputo andare oltre impegni per la riduzione dei debiti (che poi
nessuno manteneva) né
oltre la elargizione di aiuti che, tanto per citare un
caso, la Palestina utiliz-
zava (ed utilizza) per finanziare le famiglie dei
kamikaze o per stampare
testi scolastici con carte
geografiche da cui era
cancellato Israele.
A rendere più complessa (e direi titanica) la
politica di aiuto agli altri
popoli del mondo perché
raggiungano un livello
tecnologico e produttivo
più avanzato è la condizione irrinunciabile che
questo aiuto non assuma
mai le forme della crociata colonizzatrice o civilizzatrice (che si assomigliano come la zuppa e il
bagnato). Lo sviluppo
della tecnologia e della
capacità produttiva, d’altra parte, non è una merce che si possa esportare
in sacchi, ma è un processo autogeno da promuovere e stimolare senza mai sostituirsi al popolo che ne deve essere
l’artefice. Si aggiunga che
forze interne di questi
popoli possono avere interesse ad impedire che
si realizzi un simile processo di sviluppo, che ri-
Il “Quaderno del poeta”
cambia il volto
di Maria Domanico
Sabato, 5 ottobre, alle ore 18.00, presso la V circoscrizione comunale di
Cosenza, è stato presentato il numero doppio 4-5 del “Quaderno del Poeta”,
edito da Quartiere Due Collettivo di Teatro e curato da “La Stanza del Poeta”.
Il “Quaderno del Poeta”, nato nel marzo 2001 da un’idea di Orazio Garofalo,
si è prefisso, fin dal primo numero, di fare non solo poesia, ma di abbracciare attraverso essa quelle branchie dello scibile nano che si incastrano fra di
loro per trasmettere la voglia del sapere.
Quest’ultimo numero si è voluto presentare per evidenziare e spiegare i
motivi della scelta di una veste tipografica diversa. Infatti, le prime tre uscite
sono state caratterizzate dal lavoro artigianale anche nell’impaginazione, se si
è scelto diversamente è perché i componenti della redazione hanno pensato
bene di dedicare questo tempo alla lezione accurata del materiale che arriva
sempre più copiosa in seno alla “Stanza del Poeta”, cercando di dare, così, al
lettore non solo una qualità sempre maggiore ma una chiarezza ferma sulle
immagini che caratterizzano i nostri tempi. Comunque, la scelta della nuova
veste tipografica non lascia indietro l’idea stessa del “Quaderno” e il suo aspetto artigianale. A spiegare
questo incontro è intervenuta per la prima volta
Barbara Marchio, giornalista nonché Direttore
Responsabile del “Quaderno”, ed ha relazionato
il prof. Vincenzo Ferraro,
Dirigente Scolastico del
Liceo Classico di Rende.
Sono intervenuti Michele Chiodo, il quale ha
sottolineato le problematiche che assillano da anni la Biblioteca Civica di
Cosenza e nelle quali va
cercato uno dei motivi
del mancato decollo culturale di Cosenza, Anna
Mazzeo e Monica Lanzillotta. La serata si è conclusa con la lettura di
poesie di alcuni componenti della stessa “Stanza”: Franco Gordano,
Franco Araniti, Patrizia
Altomare, Luigi Mandoliti, Anna Petrungaro,
Gianpaolo
Furgiuele,
Sergio Valentini e Alessandro Sicilia.
voluzionerebbe tutti gli
attuali equilibri interni.
Penso, ad esempio, a
quante resistenze possano nascere contro un
processo che liberalizzi
società in cui ci sono ceti
che sfruttano bestialmente altri ceti e non
hanno interesse ad ammettere la libertà sindacale, società in cui la
donna è tenuta in stato
di servaggio e non molti
sono pronti a riconoscerne il diritto alla parità,
società in cui la principale ricchezza dell’epoca
moderna, il petrolio serve
unicamente ad arricchire
a dismisura sceicchi che
non hanno interesse ad
innescare un processo di
affermazione delle libertà
civili e democratiche.
L’odio contro l’occidente e contro il modernismo è funzionale al
mantenimento dello stato
attuale di mancanza di
democrazia, la quale è a
sua volta funzionale del
mantenimento del dominio e dello sfruttamento
di alcuni ceti su altri. Far
credere che la fame sia
una responsabilità degli
occidentali distrae gli affamati dai responsabili
reali (e vicini) di tanta miseria. Il fascismo fece
credere agli italiani che
responsabili della miseria e delle privazioni erano gli stati che avevano
deciso le sanzioni contro
l’avventura in Etiopia e
non invece la folle politica bellicista che faceva
divorare il bilancio della
nazione nelle spese di
riarmo. Oggi Saddam fa
credere ai suoi concittadini che la responsabilità
della miseria in cui versano sia l’embargo deciso
contro la sua politica aggressiva e non invece il
suo folle bruciare tutte le
risorse del paese nelle
spese militari.
L’odio
contro gli altri è stato
sempre sperimentato con
successo dai dittatori che
dovevano distrarre i loro
popoli dagli errori tremendi che commettevano.
Il processo di sviluppo dei popoli, che deve
restare autonomo (anche se stimolato), presuppone un contemporaneo sviluppo della democrazia e della graduale attuazione dei principi
universali stabiliti dall’ONU. Non è un caso
che la mappa della miseria nel mondo coincida
con la mappa dei regimi
totalitari. Un popolo non
può svilupparsi senza
democrazia: quale sviluppo può generarsi se è
impedita la libertà di
pensiero e di ricerca, se
vige un sistema mostruoso di persecuzione
contro il dissenso, se
una metà della popolazione (le donne) è tenuta
in stato di schiavitù, se
la circolazione delle idee
è impedita dalle proibizioni a TV, internet, cinema e se il fanatismo
della teocrazia sbarra il
passo alla razionalità
dello stato laico?
Questo il processo da
mettere in moto. Per cui
è necessario liberarci da
ogni semplificazione che
porta ad illuderci che con
un po’ di buon cuore da
parte nostra quei popoli
raggiungeranno il loro
progresso. Quei popoli
devono affrontare e risolvere i problemi dei nuovi
traguardi democratici e
civili da conquistare. E
noi sappiamo quanto è
stato difficile liberarci dai
retaggi del fascismo.
OGGI
famiglia
mensile del centro socio culturale
“VITTORIO BACHELET”
DIRETTORE: Vincenzo Filice
VICE DIRETTORE: Domenico Ferraro
DIRETTORE RESPONSABILE: Franco Bartucci
COORDINATORE E AMMINISTRATORE: Antonio Farina
SEGRETARIA DI REDAZIONE: Mariella Spagnuolo
IN REDAZIONE: Vincenzo Altomare, Rosa Capalbo,
Giovanni Cimino, Giulia Fera, Vincenzo Napolillo,
Antonino Oliva, Lina Pecoraro,
Teresa Scotti, Luigi Verardi, Davide Vespier
ELABORAZIONE DATI: Francesco Terracina
SPEDIZIONE: Egidio Altomare, Rachele Mazzei,
Carmelo Silano, Emilio Marigliano, Franco Silano
STAMPA: Grafica Cosentina - Via Bottego, 7 - Cosenza
IMPAGINAZIONE: T.&P. Editoriale - Via Adua, 16 - Cosenza
Articoli e Corrispondenze da spedire a C.P. 500 COSENZA
o Redazione - Via Salvemini, 17 - Tel. 0984 483050
www.centrobachelet.it - E-mail: [email protected]
— Aut. Trib. Cosenza n° 520 del 9 maggio 1992 —
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“Come far sì che in una stessa
società possano coesistere divergenti stili di pensiero?”
(ELENA BEIN RICCO)
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(penso addirittura che, rispetto al
dibattito sulla laicità, il cristianesimo debba sentirsi a casa propria). Laicità vuol dire: dialogo,
reciproco riconoscimento, reciproca contaminazione, apertura
sincera all’altro per imparare poiché su questo punto nessuno
è maestro - a convivere pacificamente e progettualmente.
Tutto questo non implica affatto che per convivere
occorra rinunciare alla propria visione del mondo, anzi! Si tratta (come ci hanno ricordato, recentemente
Rawls, Habermas e Taylor) di integrare - o, almeno,
affiancare - la nostra particolare concezione della vita
in uno sfondo più ampio e generale, uno ‘spazio comune’ elaborato e costruito da tutti e fatto di valori e
regole condivise.
Oggi questo ‘spazio pubblico’ ci è offerto dalla Costituzione e la democrazia è il mezzo e il terreno per rispettarla e criticarla - modificandola - lì dove la dignità della persona umana e i diritti di ‘cittadinanza’
delle minoranze non sono tutelati.
Mi ritrovo pienamente nelle parole di Elena Bein
Ricco: “individui diversi per provenienza, eredità culturale, appartenenza religiosa imparano a diventare
cittadini, discutendo tra loro e accordandosi su norme
uguali per tutti, e lo Stato, di conseguenza, viene a
configurarsi come la ‘casa comune’, la ‘patria’ in senso moderno. Quest’ultima, infatti, non è un fatto, ma
un patto, poiché essa non è una comunità compatta e
omogenea, basata su uniformità etniche, linguistiche
o religiose, ma può essere, al contrario, solo l’esito di
un progetto collettivo, in cui il legame che unisce i cittadini è un vincolo di regole liberamente sottoscritte
(...) L’unica regola fondamentale, appunto laica, da rispettare è quella di non pretendere di imporre le proprie credenze a tutti e di veder tradotte in leggi universali le proprie posizioni particolari”.
FILOSOFIA DELLA LAICITÀ - I
Due letture della laicità
1. ‘Laicità’: una parola ambigua
Tra le parole più usate e (forse) più abusate del nostro lessico
compare, senza dubbio, la parola ‘laicità’.
Con essa ci identifichiamo, benché non vi attribuiamo tutti il medesimo significato. Si definisce laico
chi non ha una visione religiosa o cristiana della vita,
ma anche chi è cristiano per scelta più che per tradizione. Oppure - ancora - chi vuole mantenere una posizione di neutralità di fronte alle molteplici confessioni religiose, che affollano le nostre società occidentali.
Insomma: laico, laicità sono parole tutt’altro che
chiare e identificarsi con esse è un atto molto più
complesso di quanto non si voglia ammettere.
Un po’ schematicamente potremmo ricondurre le
definizioni di ‘laicità’ a due matrici fondamentali:
quella laicista e quella cristiana.
1.1 La visione laicista della laicità
Secondo questa lettura, essere ‘laici’ vuol dire rifiutare qualsiasi visione religiosa della vita per affidarsi - nell’affrontare le sfide della storia - alla sola ragione.
Questa concezione della laicità manifesta una debolezza e un punto di forza. Una debolezza, perché per
comprendersi, il ‘laico’ necessita della religione, dovendo negarla per conquistare la propria identità. Chi
sono io laico? Sono un non-religioso! E dunque, il laico si definisce in relazione alla religione.
Il punto di forza, invece, è dato dal continuo richiamo alla ‘ragione’, come contenuto e come metodo,
per dare senso alla vita e per guidare il cammino della storia. A questo indirizzo appartengono nomi prestigiosi dello scenario filosofico e sociologico odierno:
Habermas, Popper, Rawls, Taylor, Giddens, Darendhorf, Bobbio, Cacciari, Galimberti, Rodotà, Jonas, Bauman e tanti altri ...
Questa visione della laicità pretende di ereditare le
istanze dell’illuminismo che, seppur con sano realismo, ha inteso affidare l’uomo alla forza critica e comunicativa della sua ragione.
Queste istanze sono ritenute tutt’altro che supera-
di Vincenzo Altomare
te, motivo per cui si considerano illegittime le pretese
di superamento del ‘moderno’ avanzate dalla cosiddetta ‘postmodernità’.
1.2 La visione cristiana della laicità
Nel corso del XX secolo, importanti ricerche teologiche hanno mostrato che la fede cristiana è alla radice della modernità e delle sue idee guida. I1 primato e
la dignità della persona umana, la sua responsabilità
nel mondo e per il mondo sono solo due delle idee forza che la modernità ha appreso dalla Bibbia e che ha
tradotto sul piano etico-politico e storico-giuridico (le
Costituzioni europee e americane ne sono un valido
esempio).
Ma le sue sorgenti sono nella Croce (Mc. 2, 27; Mt.
6, 25-34).
Tra i teologi che si sono distinti su questo versante della ricerca, per la profondità delle intuizioni, troviamo Bonhoeffer e Gogarten. In particolare il secondo, nel suo libro Destino e speranza dell’epoca moderna (1935) ha scritto: “l’uomo è figlio, non soltanto
bimbo proprio perché ha il suo mondo, il mondo di cui
è signore e per il quale, come ‘maggiorenne’ porta la
responsabilità”.
Secondo questa prospettiva, dunque, la laicità indica la responsabilità dell’uomo nel mondo e per il
mondo. Il che non implica affatto la rinuncia ad una
visione religiosa della vita, se è vero che la secolarizzazione è stata favorita proprio dalla Bibbia!
2. La laicità è un metodo, più che un contenuto!
Se le cose stanno così, penso che dovremmo un po’
tutti ripensare la qualità del dibattito culturale e politico del nostro tempo. Dovremmo tutti mettere da parte i tentativi di monopolizzare e ‘colonizzare’ intere sfere della vita pubblica (Tv, stampa, scuole, università,
mercati ...) e aprirci di più al dialogo.
Dopo tutto, la laicità è un metodo più che un ‘contenuto’: si può ben essere ‘laici’ pur essendo cristiani
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CONSIGLI DI LETTURA
J. HABERMAS C. TAYLOR, Multiculturalismo. Lotte
per il riconoscimento, Feltrinelli, Milano 1998
J. HABERMAS, L’inclusione dell’altro, Feltrinelli,
Milano 1998
Z. BAUMAN, Voglia di comunità, Laterza, Bari 2001
G. E. Rusconi, Come se Dio non ci fosse, Einaudi,
Torino 2000
Continua da pag. 1
L’identità cristiana nella cultura pluralistica Ogni vera rivoluzione comincia da Dio
di Angela Cristiano
Il tema dell’identità è oggi al centro
di problemi psicologici, sociali e politici. Questi problemi riguardano sia le
identità individuali, sia le identità collettive. Il mondo della “tarda modernità”, in cui viviamo, invita ciascuno a
determinare liberamente, cioè a reinventare, la propria identità, rompendo
i vincoli delle tradizioni. E’ sempre più
diffuso il senso del limite sia a causa
delle proprie caratteristiche personali
che a causa delle particolarità delle
culture. Nel mondo, emergono nuove
identità legate all’aumento della mobilità sociale e dei fenomeni migratori.
La mescolanza che ne consegue porta
ad una nuova concezione della vita
basata sulla multiculturalità, sulla
multietnicità. Si fa strada, così, una
forma di relativismo che investe anche l’ordinamento dei valori cui ciascun popolo si ispira e dal quale l’identità prende corpo e che assume
tutte le caratteristiche della perdita
dell’identità: “Ovunque accade che le
società tradizionali si stanno dissolvendo”.
Dal punto di vista religioso il fenomeno è avvertito molto più da vicino.
Il pluralismo, vissuto come relativismo, “ha determinato il declino della
religione sia nella sfera pubblica sia
nelle menti degli individui”. La coesistenza, anche pacifica, di gruppi umani diversi avvia forme di interazione
sociale che, per loro natura, portano a
forme di contaminazione cognitiva. I
diversi stili di vita, valori e credenze
religiose si mescolano e le convinzioni
assumo, sempre più, l’aspetto di opinioni. L’identità originaria, perciò, risulta minacciata e, pirandellianamente, ci sentiamo “uno, nessuno e centomila”.
Il pluralismo, perciò, è un fenomeno che, in nome della tolleranza, può
portare alla perdita di identità in un
mondo dove, come nella notte, tutte la
vacche sono nere. Si tratta di una sfida a mantenere le proprie convinzioni
senza dissolverle in pura e semplice
relatività e senza “racchiuderle nei falsi assoluti del fanatismo fondamentalista”. Si tratta, tutto sommato, di riscoprire la propria identità in termini
forti per lasciarla diluire nel “brodo”
culturale di un globalismo massificante e senza verità oggettiva.
Questa operazione esige, come
punto di partenza una definizione
chiara di ciò che si intende per “identità”. L’identità cristiana, infatti, dipende da ciò che si deve intendere per
“identità” in generale. Nel 1921 Wittgenstein scrive una nota che, di per sé
taglia le gambe a ogni ricerca in questa direzione: “Incidentalmente: il dire
che due cose sono identiche è un non
senso, mentre il dire che una cosa è
identica a se stessa non dice assolutamente nulla”. Wittgenstein sembra
metterci in guardia dalle semplificazioni semplicistiche. In realtà resta
una impresa difficile, anche se non rinunciabile, la definizione dell’identità.
Per quanto ci riguarda, in questa sede, l’identità cristiana la intendiamo
riferibile a tutte quelle proprietà che
rendono identificabile il Cristianesimo
e, a livello personale, il cristiano.
L’identità cristiana, insomma, rimanda all’essenza del cristianesimo,
ma non in termini astratti. Il Cristianesimo, infatti, è una essenza, è
un’autocoscienza, un’esperienza di
Dio originaria, che è identificabile nella “costanza di una forma”. Esso è,
anche storia di crescita e di modificazioni, di giovinezza e di invecchiamento. Esso, cioè, ha una struttura dinamica che raccorda, unificandoli, nel
vissuto attuale delle persone, delle
istituzioni, il passato, il presente ed il
futuro. L’identità cristiana, allora,
non è disgiunta, come ogni identità,
dalla memoria. La memoria del “chi
siamo stati” ci dice chi siamo. Per cui
l’identità è, anche la storia di una comune appartenenza. Le morie comuni
definiscono le appartenenze e ci sentiamo, di conseguenza, distanti da
tutti quelli con cui non abbiamo memorie comuni.
Quando parliamo di “identità cristiana”, allora, ci riferiamo alla esperienza del Risorto fatta dalla prima comunità discepolare di Gesù di Nazareth e che è pervenuta fino a noi, senza soluzione di continuità. Questa
esperienza è memoria ma, anche, ripresentazione di ciò che avvenuto nel
passato. Poiché il Risorto, è una presenza viva, questa esperienza continua e può essere fatta da chiunque
accoglie il seme della Parola “seminato in lui”.
L’identità cristiana è l’essenza del
Cristianesimo: l’esperienza della risurrezione. Questa coscienza, più o
meno vissuta lungo i secoli, ha assunto vari “rivestimenti”, varie “forme” storiche che, a volte, sono stati
identificanti con l’essenza. Il Cristianesimo ha assunto una “forma religioso-sacrale e teocratica” che ci ha,
paradossalmente, allontanati dal Risorto.
Per il futuro si tratta di riscoprire
e rinverdire l”identità cristiana” imparando a concepirla non come una
via dell’uomo a Dio, ma come la via di
Dio all’uomo, come evento, personale
e comunitario, che, come un avventoaccadimento, ci raggiunge dal futuro
inteso come “pienezza” esperienziale
e compiuta di Dio verso il quale siamo
incamminati nella duplice prospettiva del già e del non ancora. Il futuro,
all’interno di questa identità ritrovata, non si identifica con ciò che verrà,
ma con ciò che avviene, che accade.
Esso la pienezza, l”identità raggiunta
e posseduta nel suo “pleròma” che,
oggi, irrompe, non improvvisa e preconfezionata, ma assume il cammino
umano storico, il divenire. L’identità
cristiana, dal homo viator, è già posseduta, ma è, anche ricercata e, perciò, essa è perennemente in crisi:
muore e risorge.
responsabilità di essere “custodi di nostro fratello” (Gn
4,2-16). Giovanni Paolo II avverte: “Chi attenta alla vita dell’uomo, in qualche modo, attenta a Dio stesso”
(EV, 8). La rivoluzione operata da Gesù, infatti, non fu
armata e violenta, ma fu profondamente religiosa (vorrei dire, teologica), perciò, culturale e coscenziale. Egli
predicò, e per questo morì, il “cambiamento del cuore”
e fece intravedere la falsità della rappresentazione di
Dio su cui si reggeva tutto l’ordinamento della teocrazia giudaica del suo tempo. Gesù è un esempio per
sempre. La rivoluzione illuministica, nelle sue rotture,
fu laicista, ateistica, materialistica. Essa, tuttavia, non
fu, come tanti pensarono, una rivolta contro Dio, toutcourt, ma contro quel Dio che garantiva (facendo da
coperta) l’oppressione dei popoli e la schiavitù della coscienza. Anche Gesù fu accusato di ateismo e di sovvertimento dell’ordo religiosus teocratico del Tempio.
La triade valoriale: liberté, egalité, fraternité, fatta propria dalla rivoluzione francese, era figlia della verità
cristiana, di un Dio che Gesù rivelò come Padre di tutti, soprattutto, dei poveri e dei deboli del mondo e che
sfugge ad ogni tentativo umano di sacralizzazione fissista.
uesto discorso bisogna fare all’ISLAM e al mondo
islamico e a tutti i credenti delle duemila religioni
che ammorbano il mondo e che resistono alla luce del
messaggio cristiano. Bisogna purificare la rappresentazione di Dio che “congiura contro la vita”. C’è sempre
un Dio di cui dobbiamo diventare atei. L’ISLAM deve
capire questo e deve essere aiutato a purificare l’idea di
Dio ereditata dalla sua tradizione culturale. Terrorismo
e guerra al terrorismo, per cambiare il mondo e dare a
tutti i popoli la dignità di una vita veramente umana e
umanizzante, non possono prescindere da Dio.
alla teocrazia bisogna passare al teocentrismo.
D’accordo, Dio non può essere il garante di un “ordine” creato dall’uomo, né c’è un “ordine” divino al
quale l’uomo deve sacrificare se stesso. Ma c’è un “ordine” che va sempre “convertito” e riformato come relativo e commisurato alla crescita umana dell’uomo,
dovunque esso si trovi. Un “ordine” non divino, ma con
Dio e mai senza Dio, o contro Dio. La storia umana, la
stessa vita e i fatti che la riguardano, non sono mai ultime, ma penultime. E, questo, deve capirlo anche
l’Occidente cristiano che, sull’onda lunga, di una modernità deviata, pretende di instaurare un “ordine del
mondo” dove a regnare è chiamato il dio-denaro del
capitalismo egoista e senz’anima.
Vincenzo Filice
Q
D
OGGI
famiglia
4
Ottobre 2002
DISPERATO GESTO D’AMORE - Il caso di Pier Ezio Patterlini
di Rosa Capalbo
Nella nostra società,
basata
sull’apparenza,
non c’è più posto per le
pietà, quella PIETAS che
era alla base della civiltà
classica!
No! Non c’è posto per la
pietà, per la solidarietà, in
un mondo dove hanno diritto d’appartenenza solo
le persone sane, belle, giovani, gli altri ne sono
esclusi.
Quando sentiamo una
notizia dolorosa la rimuoviamo subito, intralcia il
nostro progetto di vivere
senza problemi, i problemi
degli altri non ci appartengono, sono Loro a doverli
risolvere!
Ed il suo dramma, un
padre, uomo intelligente,
lucido, l’ha risolto con un
gesto disperato, ha staccato il respiratore che teneva
in vita il suo piccolo Jacopo di nove anni, ha aperto
la porta vetrata che dà sul
balcone, nella casa dove
non c’era nessun altro, entrava una ventata d’aria
fresca, quell’aria che il figlio non avrebbe potuto
mai respirare da solo. Solo
un attimo: Pier Ezio Patterlini, 42 anni, ha preso
in braccio il figlio e si è
lanciato dal terzo piano.
L’ultima disperata carezza, il piccolo Jacopo
l’ha avuta dalla nonna,
una carezza piena di pianto per una vita che non era
mai stata tale.
Jacopo, figlio unico, di
nove anni, in coma da tre,
era condannato da una
malattia genetica, rara e
spietata. Un piccolo essere
inanimato, destinato ad
una morte lenta dalla paralisi dei muscoli, ma intanto, per mesi e mesi,
trattenuto in vita (se è vita
essere forzati a respirare
da una macchina e alimentati con un sondino),
dalla dedizione dei genitori.
E’ stato dapprima detto
che, intorno a Jacopo, si
era costituita una catena
di solidarietà, poi smentita. Io mi appello alle coscienze di tutti coloro che
si vantano di essere “volontari”, ai politici che dovrebbero aiutare in tutto e
per tutto le persone handicappate e coloro che li assistono. Sono certissima
che se ci fosse stata, veramente, una catena di solidarietà, il papà di Jacopo
non si sarebbe tolto la vita
e non l’avrebbe tolta al figlio per quanta menomata
essa fosse.
Persino il parroco don
Adelmo, che ben conosce
la sacralità della vita, ma,
altrettanto, la tortuosità
dei sentimenti, ha affermato: “E’ un gesto disperato dettato da tantissimo
amore”.
Proprio questo sentimento di amore ha ispirato l’ultima lettera scritta
da Pier Ezio alla moglie,
uscita per andare dallo
psicologo. Gli inquirenti
dicono: “Non sono parole
sconclusionate, il discorso
è coerente: c’è la richiesta
del perdono e una dichia-
razione di amore”. Nove
anni di completa dedizione
da parte di due genitori
ostinati e tenaci, che hanno sempre lottato per il figlio.
La mamma, di professione infermiera, da tempo
aveva smesso di lavorare
ed era infermiera, madre,
assistente a tempo pieno
del suo bambino. Era assistita da uno psicologo, il
padre non ne aveva sentito
la necessità, credeva di essere forte per tutti e tre, in
realtà era un uomo disperato che non riusciva a vedere uno spiraglio di luce al
suo tormento di genitore.
I familiari sono rimasti
impietriti, travolti da una
sventura che si è abbattuta su una vita che sembrava già la più sventurata.
La malattia di Jacopo
(atrofia muscolare spinale
del tipo più grave) aveva
cominciato a tormentare il
bambino a sei mesi, facendosi ogni giorno più spietata, perché la paralisi dei
muscoli non perdona, fino
a ridurlo su una carrozzina.
Tre anni fa un episodio
che poteva risultare fatale.
I1 bimbo è restato quasi
soffocato da un boccone. I
rianimatori sono riusciti a
salvarlo in extremis, ma il
prezzo è stato devastante:
coma irreversibile, da quel
momento la battaglia diventa ancora più logorante, più faticosa. Non c’è
neppure la speranza: solo
questione di tempo, la medicina sa che il male non
concede speranza.
Pier Ezio, un insegnante di scienze, era abituato
a stare con i giovani, era
attento nel vederli crescere, capace di seguirne gli
entusiasmi, non era remissivo. Sapeva che suo
figlio non avrebbe mai
avuto la vita spensierata
dei ragazzi, ma non si era
piegato e nemmeno sua
moglie. Lottavano per ottenere dall’Asl più assistenza per il piccolo malato, si
sono spinti a ricorrere al
tribunale per far passare
le loro ragioni.
La villetta dei Patterlini
(ci abitano anche i nonni e
altri familiari) è in via
Campioni, oltre il fiume,
zona popolare. Tutti, nel
quartiere, conoscevano lo
strazio continuo dell’esistenza, dentro l’appartamento, al terzo piano, dove
sembrava resistere l’attesa
del miracolo. I1 professore, dopo l’insegnamento
con incarichi annuali in
un liceo di Borgotaro,
adesso aveva un impegno
ridotto in due scuole di
città, per organizzarsi la
vita con una dedizione totale al piccolo malato.
Tenaci battaglie senza
possibilità di vittoria, con
eroi silenziosi a volte attratti da soluzioni estreme.
Ricordano Romano Magrini, che da vent’anni assiste sua figlia in coma, che
appena saputa la tragedia
ha trovato il coraggio di
mormorare: “Appena sen-
to che mi mancano le forze, farò la cosa che oggi,
solo per la mia vigliaccheria, non riesco a fare”.
Quando il papà di Jacopo
ha trovato la sua forza, la
Rai sul secondo canale
stava trasmettendo un telefilm della serie “E. R. Medici in prima linea”, con le
storie di un bambino handicappato abbandonato in
ospedale e quella di un uomo che sceglie di suicidarsi.
“Si muore quando si è
soli, quando il nostro disperato grido di aiuto non
è ascoltato da nessuno,
quando quelli che potevano non hanno fatto niente
per aiutarti nella vita,
quando il tuo dolore passa
quasi inosservato, quando
hai cominciato a sentirti in
colpa perché avevi dei problemi”.
Eppure basterebbe poco per aiutare: una parola
di solidarietà, un aiuto fisico se necessario, un
pensare, ogni giorno, che
VENTI ANNI TRASCORSI INVANO
Sono passati venti anni e dei
mandanti e degli esecutori del
barbaro omicidio dell’illustre avvocato Silvio Sesti non si sa davvero con certezza nulla. Sono e rimarranno impuniti per sempre.
Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur. Mentre a
Cosenza nei vari uffici giudiziari,
in questura, si discuteva di rafforzare le forze
dell’Ordine, di avere più funzionari preparati,
nel Palazzo di città di avere più uomini a presiedere la città, ed indugiavano in inutili e interminabili discussioni, la malavita organizzata non dava tregua. Altri efferati delitti furono
commessi e tantissimi rimasero impuniti.
Originariamente si è accusato Franco Pino
come mandante dell’efferato delitto, ma poi è
stato definitivamente assolto dall’imputazione.
E Francesco Pagano, presunto autista degli
esecutori del barbaro omicidio, è stato ucciso
in un giorno assolato del mese di luglio del
1991 in un auto lavaggio della popolosa Via Popilia.
Non potrà, quindi, confermare o smentire
l’imputazione. Non potrà nemmeno confermare
se effettivamente, come affermò Franco Pino
durante il processo “Garden” che gli esecutori
furono Sergio Bianco e Alfonso Pinelli, venuti
da lontano, al servizio del boss del camorrista
di San Lucido Nelso Basile.
E non si possono più imputare del delitto
Bianco e Pinelli accusati da Pino di essere stati gli esecutori materiali. Svaniti. Scomparsi nel
nulla. Nessuno sa dove siano andati a finire.
Uccisi pure loro? Probabilmente. E perché? Per
non farli parlare? Forse davvero loro potevano
dire la verità su questo barbaro omicidio che
sconvolse Cosenza e non solo Cosenza.
Francesco Pagano è stato ucciso, Bianco e
Pinelli svaniti, cosa resta ormai dell’inchiesta e
dell’istruttoria riguardante l’uccisione dell’avv.
Sesti che tanto scalpore suscitò all’epoca dei
fatti? Nulla. Un barbaro omicidio senza colpevoli. Un caso insoluto che rimarrà tale per sempre.
Che gli esecutori del delitto fossero giunti,
poi, in Viale Alimena a bordo di un’auto e precipitosamente scappati e che avessero sparato
con una pistola calibro 7,65, era così evidente
che non c’era bisogno di nessuna rivelazione
dei pentiti. Le perizie della Magistratura e delle
Forze dell’Ordine subito erano giunte a queste
conclusioni. Un proiettile trovato nell’abitazione dell’avvocato Sesti durante la perquisizione
domiciliare lo ha confermato. E che gli esecutori del delitto venissero da fuori lo si è desunto dal fatto che quando bussarono al citofono si
espressero con una inflessione napoletana. Lo
fecero per imbrogliare le acque? Per depistare
le indagini? A questa domanda nessuno fino ad
oggi ha saputo dare una plausibile risposta.
L’Avv. Silvio Sesti era nato in San Pietro in
Amantea il 15 febbraio 1932. Il padre era il
Dott. Francesco Saverio Sesti, medico condotto
del paese e la madre donna Gaetani Rosa. Ave-
ed un cognome ai killer che si
pensa siano venuti da lontano.
Ci sono stati in passato altri delitti ed altri omicidi clamorosi nella
città di Cosenza e provincia, ma
l’assassinio dell’Avv. Silvio Sesti è
stato il più clamoroso. Non solo
perché l’avv. Sesti era il più famoso avvocato del Foro Cosentino,
ma anche per il modo in cui è stato assassinato. E’ stato assassinato nel suo studio e gli esecutori del barbaro delitto hanno finanche citofonato e parlato col figlio della vittima per farsi aprire il portone di casa.
Alcuni giornalisti hanno avanzato alcune
ipotesi, forse uno sgarro. Conoscevo l’Avv. Silvio Sesti sin dalla nascita, conoscevo la sua
preparazione e la sua dimestichezza nell’affrontare i problemi legati alla sua professione
forense, si è sempre comportato con tutti in
modo leale e corretto, quindi l’ipotesi dello
sgarro o che abbia dato fastidio a qualche clan
mafioso lo escluderei categoricamente.
Volevano dargli una lezione? Volevano dargli un avvertimento? Se fosse stato così avrebbero sparato alle gambe per gambizzarlo e ferirlo in modo non grave. Hanno invece mirato
alla testa per ucciderlo, per eliminarlo. Chi l’ha
voluto eliminare? Qualche banda criminale i
cui componenti non erano stati difesi adeguatamente? Oppure perché aveva difeso in Tribunale un componente della banda rivale e per
dargli una lezione l’hanno ucciso? I1 pm Stefano Tocci non ha voluto credere all’accusa di
Ruà giudicando banale il movente. E allora
perché è stato ucciso l’Avv. Sesti? Su quel barbaro omicidio c’è parecchio da capire e approfondire. L’omicidio, fino ad oggi, è rimasto
un caso insoluto e forse lo rimarrà purtroppo
per sempre. Killer e mandanti svaniti nel nulla,
ingoiati dall’oblio.
Nessuno, però, in questi venti anni ha osato avanzare un’altra ipotesi. A qualcuno forse
sembrerà assurda. Quale? E se fosse stato eliminato perché troppo intelligente, troppo preparato e quindi toglieva spazio agli altri colleghi
meno bravi e meno richiesti nei processi in Tribunale ed in Corte d’Assise?
E l’uccisione dell’Avv. Silvio Sesti aveva
qualche relazione con i vari attentati che si erano verificati a Cosenza negli anni precedenti?
Una bomba era stata fatta esplodere davanti
l’abitazione dell’avv. Orlando Mazzotta e numerosi colpi di pistola furono esplosi contro l’abitazione dell’avv. Ernesto D’Ippolito. Loro due se
la sono cavata con danni alle abitazioni, l’avv.
Sesti, purtroppo, ci ha rimesso la vita, lasciando orfani Francesco e Adriana in tenera età e la
moglie Sig.ra Franca, vedova, afflitta e sconsolata per l’immatura scomparsa del suo giovane
ed illustre consorte.
Loro hanno perso un padre tenero ed affettuoso ed un marito premuroso, noi abbiamo
perso un amico sincero che ancora oggi a distanza di venti anni lo ricordiamo con stima ed
affetto.
L’omicidio dell’Avv. Silvio Sesti
di Francesco Gagliardi
va frequentato il liceo classico “Bernardino Telesio” di Cosenza e si era laureato giovanissimo
presso la Facoltà di Giurisprudenza di Napoli.
Morì a Cosenza la sera del 21 giugno 1982, ucciso da due o tre sicari nel suo studio di Viale
Alimena, che tutti dicono siano venuti da fuori
città, perché avevano un accento tipicamente
napoletano.
L’efferato delitto destò molto scalpore non
solo in San Pietro in Amantea, suo paese natio,
dove immancabilmente veniva a trascorrere
tutti i weekend e le festività, in Cosenza dove
risiedeva con la moglie Franca Perri e i due figli Francesco e Adriana, ma anche in tutta la
Calabria. Era conosciuto in tutti i Fori Calabresi, perché era il penalista più preparato,
uscito dalla scuola e dallo studio dell’Avvocato
Orlando Mazzotta e sempre presente nei processi più importanti.
Gli organi di informazione locali e nazionali
ne parlarono diffusamente e misero la notizia
in prima pagina. Quanta stima ci fosse nel
mondo culturale e forense per l’avv. Sesti, lo si
è potuto constatare non solo dal rilievo che ha
dato la stampa locale e nazionale, dai grandi
giornali ai più piccoli, alla notizia della sua prematura scomparsa, ma anche dalla folla numerosa che ha reso omaggio alla salma esposta
presso il Tribunale di Cosenza nel giorno dei
suoi funerali. E non erano tutti cancellieri, avvocati e magistrati. E’ stata una testimonianza
vera, sentita, affettuosa, verso un uomo di cultura e verso un penalista tra i più affermati e
più noti del Foro Cosentino. In San Pietro in
Amantea abbiamo appreso la notizia la mattina
di martedì 22 giugno ed è stata accolta dalla
gente con stupore, incredulità, rabbia, dolore e
sbigottimento infinito. Era uno dei figli più illustri del nostro paese. Ero un suo amico. Siamo cresciuti insieme. Insieme abbiamo incominciato a tirare quattro calci prima con un
pallone di pezza sull’aia del Cav. Francesco
Sconza e poi con un pallone di cuoio nello
spiazzo antistante la chiesa della Madonna delle Grazie. Sempre affabile, gentile, sempre gioviale, sempre col sorriso sulle labbra.
La commemorazione funebre si è svolta a
Cosenza presso il Tribunale. E’ stato commemorato dal suo maestro l’avv. Orlando Mazzotta, Presidente della Camera Penale .
Sono passati quasi venti anni e del barbaro
assassinio del nostro caro amico Avv. Silvio Sesti regna ancora un fitto e impenetrabile mistero. Gli assassini non si sono trovati e neppure
i veri mandanti individuati. Gli inquirenti ancora oggi barcollano nel buio più profondo e
non hanno saputo dare con certezza un nome
il dolore o la sventura non
sono appannaggio di pochi, ma tutti ne possiamo
essere colpiti!
I1 buon Samaritano
del Vangelo, non ha guardato altrove quando ha
trovato l’uomo ferito, l’ha
portato alla Locanda dopo
avergli prestato le prime
cure, poi, ha dato, al locandiere, una grossa somma di denaro per ospitarlo
fin quando non si sarebbe
rimesso.
Quanti di noi avrebbero fatto cosi?
In un mondo che conosce quasi solo l’egoismo,
non c’è posto per chi è meno fortunato, per chi non è
sano!
Dobbiamo ribaltare il
nostro modo di pensare,
imparare ad aiutare gli altri, solo cosi aiuteremo noi
stessi.
Solo così non ci saranno mamme che, come
quella di Jacopo, si tortureranno per essere allontanate anche solo per poco.
OGGI
famiglia
5
Ottobre 2002
La fiaba nel processo di crescita educativa del bambino
di Domenico Ferraro
La teorizzazione concettuale della fiaba s’inserisce nella complessità
costruttiva della personalità del bambino e le riflessioni che se ne deducono servono a chiarire e
ad interpretare dei messaggi, che non hanno solo una valenza conoscitiva della mente umana,
ma, anche, una funzione
stimolatrice ed educativa.
Nell’analisi
delle
strutture soggettive si
evidenzia come formazione mentale dell’individuo, che inizia a crescere
nel confronto di una
realtà. Essa viene trasformata da un’immaginazione, che rivitalizza
non una sua trasposizione fotografica, ma una
unificazione di elementi,
che assumono nella visione infantile, la concretezza. Per l’adulto potrebbe rasentare l’incongruenza, ma, per il bimbo, esprime solo ed
esclusivamente una fantastica creatività, che interpreta e rappresenta il
mondo.
In questa simbiosi tra
soggettività e oggettività
si correla una fattività,
che serve a rapportare il
mondo, le esperienze, la
natura alle capacità cognitive dell’infanzia e a
creare quelle situazioni
di globalità, che mentre
si presentano in modo indistinto, confusionario,
sincretico, interpretano,
in una originalità creativa, le esperienze, che sono, poi, il vissuto degli
esseri viventi e degli oggetti materiali.
In questa vivificante
animazione, il bambino
s’inventa la natura e diventa oggetto delle sue
cognitività e, perciò, processo educativo e formativo della sua personalità, delle sue capacità
intellettuali, delle sue
forme espressive, della
sua gestualità, del suo
linguaggio interpretativo,
della sua comunicabilità
sociale.
La sua fantasia si sostituisce, in un certo senso, alle sue possibilità di
indagine cognitiva ed
esprime il potere intuitivo ed istintivo di appropriarsi della sostanzialità
concreta della oggettualità e oggettività esperienziale per trasformarla
in immaginosa creatività
originale, che sintetizza il
conosciuto e l’istintività
percettiva dei sentimenti,
che animano la vivificazione di tutto ciò che può
circondarlo e costituisce
il palcoscenico ideale sul
quale ricerca la concretezza delle sue visioni.
Allora, il raffronto con
l’immaginario è la prima
forma e la più importante nella formazione della
sua mentalità e nello stile di saper interpretare le
esperienze esistenziali e
di saper leggere le proprie conoscenze e la ge-
stualità del proprio vissuto.
La fiaba, nella costruzione della cultura di un
bimbo, è la struttura su
cui si forma l’originalità
della sua personalità e vi
si stabiliscono i moduli
obiettivi per poter analizzare, sintetizzare, schematizzare le proprie costruzioni mentali, che sono una adeguata rappresentazione e interpretazione della oggettualità
esistente.
Senza
ripercorrere
una esperienza ancestrale si può comprendere
come il bimbo riesce a
reinventarsi il suo mondo
e a ripercorrere un’inconscia e inconsapevole
esperienza che, poi, ristruttura, secondo canoni conoscitivi ed esplicativi. Quando sarà in grado di saper raffrontare,
evidenziare le differenze
ed analizzare i presupposti, che costituiscono il
cognitivo e l’immaginario, li trasforma in linguaggio interpretativo e
in possibilità comunicativa.
Allora, il fantastico
stimola le capacità mentali, la socialità di rapporti tra sé e gli oggetti,
tra gli oggetti e il contesto
extracorporeo, tra il pro-
prio modo di vedere e la
loro interpretazione.
Seguendo la disamina
concettuale ed interpretativa della funzione della fiaba nel processo educativo, si può veramente
comprendere come essa
debba essere considerata
uno strumento essenziale nella crescita di una
personalità e nello sviluppo di tutte le capacità,
mentali e intuitive del
bambino, che, nella molteplicità delle esperienze
fantastiche, riesce a costruire le sue emozioni, i
suoi sentimenti, il modo
con cui successivamente
guarderà il mondo degli
uomini, degli animali,
della natura.
Le caratterizzazioni
della fiaba si adeguano
alle funzioni educative e,
in tutta la sua complessa
unitarietà, esplicano il
ruolo storico, psicologico,
comunicativo, espressivo, cognitivo, conoscitivo
nello sviluppo della personalità infantile e orientano nella scoperta dell’oggettualità e nell’intensificazione
espansiva
l’”io” e la sua struttura
compositiva.
La fiaba viene a configurarsi come un testo
ampliato e articolato, che
per il lettore e per lo sviluppo del suo essere, per
le esperienze concrete
che vive, per le conoscenze che acquisisce, per le
emozioni che percepisce,
assume un’importanza
fondamentale e insostituibile nel processo evolutivo della personalità.
Inoltre, non bisogna
trascurare di sottoporre
la fiaba ad una diagnosi
razionale per evidenziare
come essa deve rapportarsi agi interessi vivi e
cocenti del lettore infantile. Egli, in definitiva,
deve apprendere un metodo didattico del leggere,
del capire, dell’ascoltare,
del raccontare, del verificare per rielaborare i
contenuti, assimilare le
suggestioni che si scatenano nell’impatto con la
scrittura del testo. Deve
saper manifestare le
emozioni che vive quando legge, esprimere i sentimenti che suscita mentre la fantasia ripercorre
in modo creativo i fatti e
li reinventa autonomamente. Seguendo tutti
quei fantasmi il cuore li
ammanta di amorevoli
sentimenti e la mente li
sviluppa in sequenze irrazionali e incongruenti
per poterli tradurre in
immaginazione fantastica. Essi assumono la
configurazione di fantasmi, che penetrano nei
più riposti nascondigli
del cuore, dove vanno ad
accumulare una ricchezza ancestrale. Nell’inconscia e inconsapevole ereditarietà culturale, emergono e si connotano i nostri sentimenti, i nostri
costumi, il nostro modo
di vivere, le nostre esperienze esistenziali, il nostro modo di apprendere,
conoscere, comunicare
ed esprimere il nostro
linguaggio più originale e
più personale.
Lo fiaba, in conclusione, racchiude un po’ i
segreti del cuore umano
e ne costituisce l’inconscio istintuale e remoto
della sua natura di essere vivente e di essere sociale.
Il fegato di Piacenza: una bussola per orientarsi tra gli dei del Pantheon etrusco
di Gianluca Vivacqua
Oggetto che riprende simbolicamente la
forma dello strumento - principe del mondo
dell’aruspicina o modello già pronto per il
consulto divinatorio. È con questi due approcci interpretativi che ci si può accostare
al fegato di Piacenza, uno dei ritrovamenti
più affascinanti e, per così dire, curiosi, della storia della etruscologia, importante anche come documento, in quanto costituisce
un vero e proprio “lessico sagomato” delle
divinità del popolo etrusco.
Le dimensioni della foto riportata a fianco non ingannino, però: visto “dal vivo” il fegato si rivela non più grande di un sottobicchiere, e anche per questo si potrebbe propendere a considerare vera la prima delle
due ipotesi interpretative riguardo all’utilità
dell’oggetto che riportavamo sopra, e cioè
che esso sia legato soltanto formalmente all’atto operativo dell’aruspicina, ma in realtà
abbia una funzione che non si discosta molto da quella di un ex - voto o, forse meglio,
di una nomenclatura ficta o scuplta, in cui il
supporto artistico ha un legame del tutto arbitrario col contenuto, magari in dotazione a
un collegio di sacerdoti, visto che cosa indicano i nomi, o di aruspici, che potevano servirsene come promemoria al momento di invocare gli dei sotto la cui protezione o per
sapere la cui volontà venivano presi gli auspici (gli auspici, quelli autentici era più
professionale trarli da un organo epatico bovino vero e proprio).
Negli anni immediatamente successivi al
suo rinvenimento, poi, avvenuto nel 1877
nella località Settima del comune di Gossolengo, non si era neanche tanto sicuri che la
forma dell’oggetto fosse realmente quella di
un fegato: c’era chi pensò a un fagiolo, guardando più che altro alla faccia posteriore
dell’oggetto che, a chi ama le valutazioni artistiche di tipo impressionistico, potrebbe
anche apparire come una statuetta paleolitica di Venere vista da tergo), c’era chi pensò a un rene umano tagliato a metà.
Si deve a uno studioso teutonico,
Deccke, l’identificazione del piccolo bronzo
con un fegato bovino, in base, più che alla
conformazione complessiva, a tre elementi
escrescenti che caratterizzano la faccia superiore, e che egli riconobbe rispettivamente
come il lobas caudatus (la piramidina), la vesica fellea (il coneto), il processus papillaris
(il piccolo spicchio), parti anatomiche caratteristiche dello iecur del bue. E’ dunque grazie alla geniale deduzione analogica di
Deccke che possiamo dire il fegato di Piacenza è un fegato. E tanto basti quanto alla
forma e alla funzione del bronzo. Resta ora
da fare un cenno sostanziale sul contenuto
di esso, che, ripartito in quaranta caselle inscritte, dicevamo essere consistente in una
serie di nomina numinis pressoché esaustiva del pantheon della religione della civiltà
che si vorrebbe abbia avuto origine in Lidia.
Il bordo è diviso in quattro regioni, quelle di cielo, di terra, di mare e degli inferi con
le relative divinità, cioè a dire presenta una
ripartizione geografica delle divinità; la parte centrale propone invece una bipartizione
degli dei che segue quella tra pars farniliaris
(l’ambito dei problemi interni di uno stato) e
pars hostilis (l’ambito delle guerre e dei rapporti con gli altri stati), in base alla sfera di
“patronato” di ciascuno di essi (ma c’è anche
una zona mediana).
Senza tenere conto delle regioni a cui appartengono, mi pare interessante dare qui di
seguito in ordine alfabetico i nomi delle divinità più importanti che è stato possibile de-
cifrare sul bronzo. Si vedrà che buona parte
dell’onomastica latina relativa agli dei affonda le sue radici nella religione etrusca.
Catha = divinità del sole
Cels = dea madre terra (cfr lat. Tellus)
Cilens = dea della fortuna (cfr. lat Fortuna)
Fuflus = dio del vino (cfr. lat. Bacchus)
Maris Laran = dio della guerra
Neth = dio del mare (cfr. lat. Neptunus)
Satres = dio padre degli dei (cfr. lat. Saturnus)
Selva = dio dei boschi (cir. lat. Silvanus)
Tina = dio del cielo (cfr. lat Iupitter)
Tinsth Neth = dio della pioggia
Tivs = luna
Uni Mae = consorte di Tina (cfr. lat. Iuno)
Usils = sole
Vetisl = dio degli inferi
La tesi conclusiva dunque è che il fegato
di Piacenza è una bussola della religione
etrusca costruita secondo la disposizione
degli dei nel cosmo, ad uso dell’aruspice (da
qui l’ambientazione su una riproduzione di
fegato) che di tale disposizione nella sua attività faceva lo schema orientativo di base:
conosciuta la natura dei segni, infatti, egli
doveva individuare a quale dio risalissero e
andarlo a trovare per consultarlo nella sua
collocazione nello spazio. A voler rischiare,
perciò, si può anche dire che esso è una tavola - manuale di esercitazione per apprendisti aruspici.
OGGI
famiglia
6
Ottobre 2002
LA NOSTRA VOCE
pagina
G I O VA N I
L’uomo: ambasciatore di Dio
di Vito Alfarano
Eraclito (filosofo greco) affermava: “... tutto
passa e nulla permane”.
Questa teoria dimenticava il valore del tempo e
dello spazio, in quanto
nel Presente c’è tanto di
Passato, e nel Futuro
tanto di Presente.
Di tutt’altra teoria furono Socrate e il suo discepolo Platone, i quali
fissavano la loro attenzione sulla posizione dell’Uomo, cui assegnavano
il posto più elevato nella
gerarchia evolutiva del
mondo animale.
Non sbagliavano centro, questi filosofi, perché
il loro soggetto non era, e
non è, soltanto una fabbrica di cellule umane,
ma anche un laboratorio,
in cui si confeziona la
forza creativa del pensiero e quella, serena, della
spiritualità. Infatti, l’Uomo non è solo un intrigato complesso di sentimenti, che si identifica
nella generosità, nella
carità, nella comprensione come nella tirchieria,
nella falsità, nell’odio,
nella vendetta, nella presunzione Per questi poteri ricevuti dalla genesi,
sembra che giochi con le
luci dell’indifferenza e
della superficialità. E’ vero che Egli fu programmato, non solo con gli
slanci d’amore, per frenare gli istinti diversi, ma
anche per usare l’intelligenza nell’esprimere un
pensiero, un affetto, una
continua e controllata responsabilità operativa,
come un’arma di una
possibile autogiustificazione per salvarsi. In
questa esposizione Egli è
il sale della salvezza e si
riconosce autore e personaggio della propria storia sulla terra. È parte viva della creazione in
quanto diventa la memoria dell’Amore divino, che
dà inizio al perdono e alla misericordia.
Concludo: l’Uomo è
solo e tutto il Bene, il Male non è di Dio. Infatti,
Egli fu programmato per
letiziare con il prossimo
Laura Comi
Riccardo di Cosmo:
la speranza
poggia su di loro
Romeo e Giulietta; cor. Cranko;
mus. Prokofiev; Corpo di Ballo
dell’Opera di Roma., Teatro dell’Opera.
di Davide Vespier
Nel panorama del balletto italiano
l’Opera di Roma prosegue lenta la sua
ascesa, riuscendo a rinnovarsi ad ogni
spettacolo, offrendo produzioni sempre
più soddisfacenti tra le quali brilla il
Romeo e Giulietta di Jhon Cranko per
più di una ragione.
La scenografia concede vivezza al
mondo parallelo ricreato donando una
percezione di dinamismo drammatico
di più vasto respiro grazie alla disposizione scenica su due piani, ripercorrendo il solco della migliore tradizione
teatrale shakespeariana: se il balcone
di Giulietta si materializza come l’immagine - simbolo dei due amanti di Verona, tale balcone ora diventa la terrazza da cui tutta Verona si affaccia a
fare da coro all’intera vicenda
Così i costumi, di tessitura aerea
all’unisono con gli ampi tendaggi delle
arcate che sostengono il soppalco,
rompono i limiti dello spazio nei velati,
e del rigore nel respiro del loro scorrere.
La favola drammatica, nella traduzione coreografica di Cranko, creata su
misura per la Fracci, la richiama nel
gesto di plasticità “italiana”, diremmo,
sorgente più che dall’assetto di linee
estreme, da un equilibrio ben ponderato di parti ben disposte, così che la
danza sembri avvolgere la persona tutta intera più che il singolo arto, come
l’esasperato tecnicismo di oggi (vedi
Guillem) ci ha invece abituato ad applaudire.
e, usando il cuore, per arrecare aiuto al fratello più
sfortunato. Gli venne insegnato a dire sempre la
verità e a difenderla; ad
ascoltare gli inviati di Dio
e farne tesoro attraverso
le dirette esperienze. Insomma: l’Uomo venne lasciato crescere con i simili affinché venisse riconosciuto il più diretto ambasciatore di Dio che,
nella sua preziosa sapienza e nella dinamica
della creazione, disse:
“...facciamo l’uomo: sia simile a Noi, sia la Nostra
immagine... “(Genesi 1,
26). Quindi l’Uomo non è
il soggetto che non lascia
tracce di sé lungo il cammino della propria esistenza; non è soltanto un
corpo che andrà in disfacimento, ma è anche
un’anima che si rinnova
giorno dopo giorno, attraverso le esperienze belle e
brutte, non solo per essere presente nel domani,
ma anche per poter tornare a quella “immagine”
che lo attende.
Laura Comi interpreta Giulietta in
maniera vivida e sincera, se pur timorosa, con grazia minuta del corpo minuto. Riesce nel ruolo perché dosa con
perizia doti calibrate alla qualità della
sua danza che non vuole stupire quanto essere misurata ed elegante. Riccardo di Cosmo come Mercuzio già lo conoscevamo per presenza scenica elegante, rivelandosi probabilmente il migliore danzatore della compagnia per
classe e doti drammatiche, proprio le
qualità che mancano, invece, al Romeo
- Mario Marozzi, sebbene di tecnica più
solida. Purtroppo, infatti, sia Comi che
Di Cosmo non godono di una padronanza tecnica, dominata quanto basta
per sostenere il ruolo, riverberata però
da un “senso” della danza che manca
agli altri e conferisce armonia al movimento, da un accademismo reinterpretato in chiave personale, anche perché
eretto tutt’intorno alle proprie debolezze, che lascia scaturire un’impressione
di completezza e uniformità.
Fatuo ottimismo, che spinge ad
aspettarci grandi cose dal balletto romano, o solo un desiderio appassionato o, ancora, speranza motivata? Solo
il tempo saprà dirlo!
Vi odio,
cari studenti
Permettetemi di appropriarmi del titolo di una bellissima poesia di Pier
Paolo Pasolini, per rivolgermi chiaramente, in modo provocatorio, a tutti quegli adolescenti “impegnati”, in questi
giorni, a rendere invisibili gli edifici scolastici. Dietro a questi atti di vandalismo, non c’è certo una protesta propositiva, l’esigenza di una scuola diversa,
né un piano diabolico di discendenti di
Attila, flagello di Dio, per sovvertire le
istituzioni. Qualcuno penserà che è solo
la voglia di “tirare filone” da parte di pochi, ma quasi la totalità ne resta poi facilmente contagiata. Questa ipotesi è
della “non appartenenza” alla vita scolastica. Erich Fromm, nel libro “L’amore
per la vita”, affronta il tema del superfluo e della sazietà, significa “eccessivo,
inutile, sprecato, il secondo, invece è
strettamente connesso a “nausea”, in
francese “ennui”, derivante dal latino
“innodiare” che significa “essere in
odio”, l’idea che la sovrabbondanza generi noia, nausea, odio. A questo punto
viene da chiedersi se tanti giovani bivacchino in una società contraddistinta
dal superfluo. E come si vive da ospite
estranei in famiglia, a maggior ragione
a scuola.
E se la passività tende a cronicizzarsi, l’attività, al contrario, è intesa come “qualcosa che prova ad esprimere
forze insite nell’uomo, qualcosa che dà
vita, che fa da leva a potenzialità sia
somatiche che affettive e intellettuali”.
Bisogna continuare a far sì che la
pecorella smarrita trascini con sé le novantanove ignave? E sempre, restando
in tema di gregge, continueranno le pecorelle ad uscire dal chiuso “ad una due
tre e tutte le altre stanno // timidette atterrando l’occhio e il muso, e ciò che fan
le prime, le altre fanno // addossandosi a lei, s’ella s’arresta // semplici e
quete, e lo ‘mperché non sanno…? (purgatorio, canto III). Certo Dante Alighieri
non pensava che una professoressa,
tentata di gettare la spugna, potesse
avvalersi dei suoi versi per dare una
strattonata alla categoria studenti, ma
forse anche alla sua, per non cadere
nella trappola della resa. Cari studenti,
non chiedeteci, ancora una volta, di capirvi in toto: è tempo di sottoscrivere diritti, ma soprattutto doveri.
Cordialmente
Zia Lina
“Serata romantica” al teatro dell’Opera
di Davide Vespier
L’accostamento del
Corpo di Ballo del Teatro
dell’Opera di Roma a titoli di repertorio impegnativi, spesso proprio perché
inconsueti sembra mosso
dal gusto del suo direttore, per la scelta di balletti nei quali si riconosce
un genere congeniale allo
spirito ed alle qualità che
furono e sono di Carla
Fracci. Se si volesse scorgere, nella storia della
danza degli ultimi cinquant’anni, un’interprete
ideale di ruoli come Giselle o la Silphide (ma come scordare Aurora o
Giulietta!), il nome della
Fracci risuonerebbe tra i
primi. Colei che ha incarnato uno stile di danza
sospesa sotto le specie di
creatura insolita, trasumanata, dalle braccia infinite e dal volto di maschera etrusca.
Danza sospesa: non
solo stile leggiadro di
danza ma vera e propria
filosofia delle punte, sulle
quali si sale non per
slancio dei muscoli ma
per graduale ascensione,
graduale distacco dalle
leggi di gravità... o almeno così deve apparire! Su
questo valore si fonda
ogni autentico equilibrio
che, lungi dal misurarsi
solo dalle porzioni di secondi nei quali si rimane
in aplomb, così come ci
hanno ormai abituato le
varie Guillem satellitanti
nel mondo, supera meri
criteri quantitativi per
fondarsi su criteri altamente quantitativi per i
quali si distingue l’artificio tecnico, teso all’allusione della metafora, come segno distintivo di
danza aerea al calor
bianco, ideale per affron-
tare una Serata Romantica come questa. Erano
presentati brani da la
Silphide, Notre Dame de
Paris, Giselle, ma anche i
più remoti La Péri e Kermesse à Bruges. Una cultura che risale a una frequentazione assidua con
l’ovattato odore di pece,
l’immagine studiata allo
specchio fino alla punta
delle dita nei lenti adagi,
tanto da farne scaturire
non solo una tecnica ma
pure uno stile. A cominciare dallo storico Passo
a Quattro, creato per
quattro divine (Taglioni,
Cerrito, Grisi, Grhan) riproposto in una chiave
dimessa ma che ne rende
i tratti salienti. Sebbene
la Taglioni di Gaia Straccamore sia un po’ ingessata, linee e aplomb sono
potenzialità ancora da
considerare per questa
giovane e bella danzatrice; la Grisi di Laura Comi
è tanto equilibrata... da
dimenticarne a volte la
presenza sulla scena, come la Grhan di Gudrun
Bjesen, lievemente anonima, dotata di una tecnica completa ma non rifinita nella punteggiatura
vibratile, nel trillo degli
changements.
Quanto a personalità
e temperamento compensava la vispa Cerrito di
Loma Feijòo (ma, a ben
vedere, troppo vispa!), vi-
setto vivace da folletto.
Tutto sommato era l’incanto dell’esploratore che
scopre quasi senza volerlo, scostando appena
una siepe, quattro rarae
aves.
Apprezzabile la competenza tecnica della
coppia Gudrun BoiesenThomas Lund in Kermesse à Bruges, ma soprattutto quella della Peijòo
con Nelson Madrigal nel
passo a due da Esmeralda La padronanza sovrana non è boria di prima
donna ma slancio musicale e brio fino nei fouttés
taglienti di lei, negli slanci di lui sferzati da uno
atletismo sfiancante, da
vigore muscolare aggressivo di falco, salti che
erano “do” di petto. Spirito ben diverso dal James
di Riccardo Di Cosmo
nella Suite dal II atto della Sylphide, gentile e affascinante come sempre.
Nient’altro da considerare se non l’allure della
pianista Elizabeth Cooper, esemplare maestra
di musica “per la danza”
che ne conosce e spiega
ogni risvolto. Un occhio
sulla tastiera e due sulla
scena a seguire i “suoi”
danzatori accompagnati
dalla sala prove al palco
senza soluzione di continuità, quasi uno spaccato sulla vita segreta della
danza
PENSIERINI DELLA SERA
– La vera allegria è silenziosa: risiede più nel cuore che nella lingua
(H. FIEDING)
– Se un uomo si comporta sempre seriamente e
non si permette mai un po’ di divertimento e di
distrazione, impazzirà senza saperlo
(ERODOTO V SEC. a.C.)
OGGI
famiglia
7
Ottobre 2002
La tecnologia mediale nell’8° Circolo di Cosenza
Il Progetto De Matera Advanced:
“PROGETTO KIDSLINK”
La rete telematica scolastica metterà in connessione
aule, laboratori, uffici e tutti i plessi
di Loredana Ciglio
L’introduzione delle
tecnologie informatiche
ad uso didattico nella
scuola è relativamente
recente. In questo campo, tuttavia, l’evoluzione dell’hardware, del
software e le relative
applicazioni è così rapida, da rendere necessari tempestivi aggiornamenti del personale e
l’ammodernamento
continuo delle dotazioni
strumentali.
Per utilizzare una
metafora: il vecchio pc è
la preistoria in rapporto
alle reti di computer o
alla “rete delle reti” (Internet); il laboratorio
scolastico multimediale
è il medioevo a confronto della possibilità di
interattività che internet offre ad alunni, docenti, genitori, cittadini.
Grazie alle tecnologie dell’informatica e
della comunicazione,
nelle scuole si aprono
spazi di scambio di
esperienze tra docenti,
anche molto distanti
tra loro, che fino a non
molto tempo fa erano
impensabili. Scambio
di esperienze che devono essere estese agli
alunni, i quali hanno la
possibilità, in teoria, di
dialogare con i loro coetanei di tutto il mondo.
I rapporti collaborativi tra scuola e famiglia, iniziati con ingresso dei rappresentati dei
genitori negli Organi
Collegiali, avrà nello
“spazio virtuale” creato
da Internet un altro
luogo di incontro, non
sottoposto alle restrizioni del tempo e dello
spazio, molto più efficiente, rapido, democratico.
Interazione, comunicazione,
interattività
sono le parole chiave
della rete telematica
che sarà realizzata con
il “Progetto DeMatera
Advanced Kidslinks”,
promosso dalla Dirigente Scolastica dell’VIII
Circolo di Cosenza Loredana Ciglio che si avvale del supporto indispensabile e qualificato
del Gruppo di Progetto,
composto dai Docenti
Paola Bisonni e Loredana Rovito; dai Direttori
dei Servizi Generali ed
Amministrativi Eva Ricci e Aldo Iacobini e dall’Ingegnere Annunciato
Imbrogno, senza le cui
competenze tecniche e
professionali non si sarebbe potuto predisporre, avviare, realizzare il
Progetto stesso.
La rete telematica
scolastica di tipo avanzato, che si attiverà con
i finanziamenti regionali POR (Fondo Sociale
Europeo e Fondo Euro-
peo di Sviluppo Regionale), metterà in connessione aule, laboratori, uffici e tutti i plessi, per rafforzare l’interesse e la motivazione
dei bambini verso i
cambiamenti e le innovazioni.
Il Comune di Cosenza, con il quale la Direzione Didattica dell’VIII
Circolo ha stabilito rapporti di partnerariato,
assume un ruolo di primaria importanza per
la realizzazione di un
progetto così innovativo
ed arduo da mettere in
pratica, a causa della
sua complessità tecnica; vi è da sottolineare
che sarà creata una rete telematica interna ed
esterna in tutte le
Scuole Materne ed Elementari del Circolo, la
prima in tutto il territorio e nella nostra provincia.
La sensibilità dell’Amministrazione Comunale verso le problematiche della scuola,
ritenuto settore primario per la crescita culturale e sociale della
Città, vero investimento
per la formazione di futuri cittadini consapevoli, è testimoniata dal
Sindaco Eva Catizone,
dall’assessore
alle
Scuole Maria Francesca
Corigliano, con l’ausilio
e l’assistenza dei tecnici
e del Dirigente dell’Ufficio del Piano.
Grazie al loro contributo, l’VIII Circolo potrà dotarsi di strumenti
di comunicazione all’avanguardia
La Scuola Materna
ed Elementare “Giuseppina de Matera”, La
Scuola
Elementare
“Giovanni e Francesca
Falcone”, le Scuole Materne “Collodi” e “Madre
Teresa di Calcutta” sono frequentate da oltre
mille alunni, le cui esigenze sono differenziate; Dirigente, docenti,
personale amministrativo ed ausiliario rispondono ai loro bisogni formativi, programmando percorsi didattici, strategie, metodi,
tempi, finalizzati all’individualizzazione
del
processo di insegnamento/apprendimento.
Le risorse strumentali, per quanto attiene
alle tecnologie informatiche (due aule multimediali),
attraverso
questo Progetto saranno adeguate al numero
degli alunni e dei docenti e alle loro necessità; si potranno organizzare delle attività
che possano essere
coordinante in maniera
veloce ed efficiente, con
la divulgazione di materiali ipertestuali, tramite supporti ed infrastrutture basati sui
protocolli internet.
In tal modo, le attività connesse all’utilizzo delle reti telematiche
rafforzeranno l’interesse e le motivazioni degli
alunni, consentendo loro l’acquisizione delle
conoscenze e delle competenze richieste oggi
dalla nostra società
avanzata ed in continuo
mutamento.
Le attività didattiche
saranno basate anche
sulla comunicazione via
posta elettronica ed
ogni alunno e docente
avrà una propria casella, attraverso un server
scolastico che non sarà
solo uno strumento, ma
sarà porta di comunicazione, il sistema informativo, il sito web, l’ufficio postale.
L’intera scuola sarà
dotata di un’infrastruttura telematica, costituita da un server e da
una LAN di Circolo che
connetta i laboratori, le
aule e gli uffici.
Il cablaggio strutturato consentirà la creazione di una rete veloce,
efficiente e adattabile ai
cambiamenti, favorirà
lo scambio di informazioni ad alto contenuto
tecnologico, economiche e facilmente gestibili ed integrabili nella
futura “Rete Nazionale
della Scuola”.
“SCUOLA AL CINEMA. I BAMBINI DEL TERZO MILLENNIO”
All’8. Circolo Didattico di Cosenza coinvolti ragazzi
delle materne, delle elementari e delle medie
Poco meno di 6 mila
ragazzi delle materne
(420), delle elementari
(4.760) e delle medie
(513), appartenenti a venti diversi istituti e distribuiti su trentaquattro
plessi. E, ancora, decine
di docenti, più alcuni
esperti esterni.
È il quadro riassuntivo
che esibisce, nella nostra
provincia, il progetto
“Scuola al cinema. I bambini del terzo Millennio”.
Promosso e finanziato
da Cinecittà Holding, in
collaborazione con il centro studi formazione superiore, il progetto si avvale del contributo del ministero per i beni culturali (dipartimento dello spettacolo), d’intesa con quello dell’istruzione e in accordo con l’Agiscuola.
Formare ed educare lo
spettatore bambino all’immagine attraverso la
scoperta attiva dell’arte
cinematografica, a partire
dalla visione in sala di
film appartenenti al patrimonio culturale e contemporanei. Questo il primo
scopo dell’iniziativa che
ha come scuola-pilota, nel
Cosentino, l’8. Circolo del
capoluogo (sede in via Aldo Moro, altri plessi in
Viale Parco “Giacomo
Mancini” e in prossimità
dell’Autostazione).
Questi le altre principali finalità dell’iniziativa.
Offrire opportunità di formazione continua agli insegnanti e agli esercenti
cinematografici che aderiscono al progetto, sostenendoli con materiali di
formazione e di approfondimento. Incrementare lo
spazio dedicato all’educazione all’immagine con lo
scopo di accrescere la
sensibilità estetica dei
bambini, facilitando la decodificazione del linguaggio filmico attraverso una
visione “guidata”. Contribuire in modo originale e
consistente al processo di
innovazione che si sta attuando in Italia nell’ambito della formazione scolastica. Sostenere e facilitare la realizzazione di iniziative formative locali,
promuovendo il lavoro di
produzione creativa da
parte dei bambini.
Su quest’ultimo “fronte”, i ragazzi del Cosentino
partecipanti al progetto
hanno elaborato due anni
fa una serie di “cartoni”
con riproduzioni di situazioni in frequenza, l’anno
scorso invece hanno realizzato un cd-rom. Il tutto
immesso nella “rete” delle
scuole aderenti al progetto (dislocate su 23 province).
L’obiettivo di quest’anno è di produrre un vero e
proprio cortometraggio.
Il progetto va avanti
sul nostro territorio sin
dal primo varo a livello
nazionale (nell’anno 2000
2001) sotto l’occhio vigile
della dirigente scolastica
Loredana Ciglio, con il
coordinamento, quale referente provinciale, dell’insegnante Maria Fava.
Il progetto impegna in
ruoli di primo piano anche le insegnanti Paola
Bisonni (formazione dei
docenti) e Loredana Rovito (supporti multimediali).
Collaborano, inoltre, gli
esperti esterni Enzo Pellino e Ivan Battista Miraglia.
Questi i film che i ragazzi delle scuole partecipanti al progetto avranno
la possibilità di vedere
quest’anno nella sale cinematografiche convenzionate: “Shrek” (scuola
dell’infanzia e 1. ciclo delle elementari), “Momo”
(scuola dell’infanzia e 1.
ciclo elementari), “Le avventure di Pinocchio”, regia di Comencini (scuola
dell’infanzia e elementari
1. ciclo), “Non uno di meno” (elementari 2. ciclo)
“E.T.” (elementari 2. ciclo), “Capitani coraggiosi”
(elementari 2. ciclo e
scuola media), “Il cielo cade” (elementari 2. ciclo)
“La guerra dei bottoni”
(media) “Jona che visse
nella balena” (media).
(a.g.)
(dalla Gazzetta del Sud
del 17-10-2002)
Su due portali “con angeli”
pronte rimaste dei suddetti rilievi e
in particolare, nel portale carpanzanese, la parte posteriore destra
Andando in Cosenza e provincia
danneggiata incisivamente, parte
ad osservare e studiare le opere
in cui si trovava l’angelo mancante;
d’arte, ho notato, fra l’altro, che il
lo scalpellatore che ha eliminato i
portale principale della Chiesa Maresidui dell’angelo sul portale cartrice di Carpanzano presenta un
panzanese è stato più accurato nel
solo angelo in rilievo, mentre il porsuo lavoro, mentre quello che ha
tale principale della Chiesa di Sanoperato sul portale cosentino è stata Maria della Sanità a Cosenza
to meno accurato e direi grossolamanca, attualmente, dei due angeno.
li che originariamente lo decoravaNon conosciamo le cause dei
no in alto.
danneggiamenti subiti da queste
Si tratta in entrambi i casi di
opere d’arte di scultura architettodue mancati restauri e della eliminica, ma certamente se restaurate
nazione, nel primo caso, dei residui
in tempo opportuno potevano essedi un angelo; nel secondo caso delre salvate; invece con il passare del
la eliminazione dei residui dei due
tempo si pensò di eliminarne comangeli.
pletamente i residui o parti rimaGli Angeli del Signore scolpiti
ste.
sui portali delle chiese rimandano
Il portale principale della Chiesa
ad antichi esempi classici di raffiMatrice di Carpanzano, dedicata a
gurazioni alate.
San Felice, è anche detto “portale
Ancora oggi è possibile, ad un
degli Aragona”, poiché dedicato da
attento osservatore, vedere le imalcuni membri di questa illustre famiglia nel 1548 e
successivamente,
ampliandolo,
nel
1662.
La tipologia di questo portale è quella
ad arco di trionfo, a
fornice inquadrato,
derivato dall’arco di
trionfo romano; è in
pietra arenaria e accoglie motivi strutturali e decorativi
romano-imperiali,
medievali, rinascimentali e barocchi.
Il portale principale
Carpanzano - Particolare del portale
della Chiesa di San Felice (G. Cimino)
della Chiesa di San-
di Giovanni Cimino
Carpanzano - Il portale di Santa
Maria della Sanità a Cosenza
(G. Cimino)
ta Maria della Sanità è un lavoro in
pietra arenaria del Seicento; presenta un arco a tutto sesto inquadrato accogliente motivi strutturali
e decorativi soprattutto rinascimentali e barocchi.
L’angelo mancante del portale
carpanzanese è possibile immaginarlo visivamente guardando quello superstite; gli angeli del portale
cosentino è possibile ricostruirli visivamente guardando i portali principali delle rispettive chiese cosentine di San Gaetano e quella dedicata a S. Maria di Gerusalemme,
detta “delle Cappuccinelle”, poiché
i portali di queste ultime chiese
presentano strette analogie con
quello della Chiesa di Santa Maria
della Sanità.
OGGI
famiglia
8
Ottobre 2002
QUARANTA ANNI FA NASCEVANO I “BEATLES”
(ovvero gli scarafaggi)
di Rosa Capalbo
Sono stati un mito,
hanno attraversato intere
generazioni, la loro musica ha cambiato completamente uno stile ed è
diventata oltre che stile
musicale unico ed irrepetibile, anche stile di vestire, vivere, rompere con la
tradizione. Oggi, a quarantadue anni dalla loro
nascita, sono una leggenda che non conosce
confini, sono “I BEATLES, ed il comune di
Roma gli dedica manifestazioni, mostre, concerti
e spettacoli.
Era l’11 settembre del
1962 quando quattro ragazzi di Liverpool si sono
riuniti a Londra, in una
delle sale d’incisione della Emi, per registrare il
loro primo 45 giri. Sul lato A suonava Love me do;
sul lato B P.S. I love you.
Le canzoni sono elementari nell’armonia e
nella melodia, sostenute
da una voce pulita ma
scolastica, a tratti coadiuvata dall’intervento di
un secondo cantato che
dà vita a un effetto polifonico gradevole. Solo due
pezzettini di rock’n’roll
che si aggiungono alle
tante canzoni che dal
1955 - anno ufficiale della nascita del genere, ad
opera di Bill Haley - dominano le hit parade europee e americane.
Ma qualcosa di strano
succede - critici musicali,
sociologi ed esperti di costume stanno ancora interrogandosi – e quell’11
settembre è destinato a
essere ricordato come il
momento della nascita di
un mito: quello dei Beatles.
Da allora ai nostri
giorni, nonostante il
gruppo si sia sciolto nel
1970, lo stile, la musica,
le facce di John Lennon,
Paul McCartney, George
Harrison e Ringo Starr
diventano una parte indivisibile della vita di almeno tre generazioni: i
sessantenni, che li hanno vissuti; i quarantenni,
che li hanno solo sfiorati
ma che han potuto seguire le gesta solistiche di
Lennon e di McCartney; i
ventenni, che hanno saccheggiato le discoteche
dei predecessori e che (ad
onta degli anni che sono
passati) ne hanno riconosciuto la grandezza e l’attualità.
Sui Beatles è stato
scritto più che su ogni altro gruppo o artista rock.
Il critico musicale Gino
Castaldo ha affermato: “I
Beatles hanno espresso
un’epoca, o sono stati
espressione di un’epoca?”. Prima dei Beatles ci
sono stati i Quarrymen,
un gruppo di quindicenni
fondato, sempre a Liverpool, da John Lennon. Vi
fanno parte tutti i suoi
più cari amici, che con
lui condividono intere
giornate all’insegna del
teppismo e dell’insubordinazione. Un manipolo
di teddy-boys, affascinati
dall’ esempio di James
Dean.
Lennon e i suoi amici
si pettinano come lui, ne
scimmiottano gli atteggiamenti da “ribelle senza causa”, si pongono
fuori da quel contesto di
regole sociali che imbalsama gli anni Cinquanta
non solo per le famiglie
piccolo borghesi, ma anche per quelle della
working class (classe lavoratrice), della quale
fanno parte i Lennon.
Fortunatamente,
John e i suoi amici non
emulano completamente
le gesta di James Dean, e
decidono di darsi a un’attività che, in quegli anni,
va per la maggiore: la
musica. Stimolati dal
rock’n’roll, da Cliff Richard, Chuck Berry, Elvis Presley, i ragazzi cominciano a strimpellare
qualche strumento: chitarra, basso, banjo, batteria. Per dare qualcosa
in più alla sezione ritmica inseriscono nel gruppo un asse da lavare, riecheggiando le washboard
bands che ai primordi del
jazz fecero di New Orleans un luogo mitico. La
musica dei Quarrymen,
però, è ben diversa da
quella suonata dalle prime orchestrine jazz, e si
basa su pochi accordi,
tanto rumore. Tuttavia,
la ventata di novità che
spira dal gruppo fa sì che
vi sia chi, in occasioni di
matrimoni o feste di fine
anno scolastico, sia disposto a ingaggiarli.
In una di queste feste
è presente PaulMcCartney, che si dimostra interessato alla musica dei
Quarrymen e che, alla fine del concerto, sale sul
palco per complimentarsi
con i musicisti e accennare con loro a qualche
IMPRESA EDILE
Vincenzo Mazzei
Ristrutturazione fabbricati
Ammodernamento appartamenti
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Via Silana, 100 — PARENTI (CS)
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accordo di chitarra. In
quell’occasione conosce
John Lennon ed una settimana più tardi, Paul
entra nel gruppo e comincia a scrivere canzoni
a quattro mani con John,
dando vita a quella che
sarebbe divenuta la più
prolifica coppia di autori
che la musica, classica e
leggera, abbia mai conosciuto.
I due rappresentano il
più tipico dei binomi: ribelle e rock John; posato
e melodico Paul. Quest’ultimo, infatti, viene
da una famiglia piccolo
borghese che sogna, per
il figlio, un avvenire da
avvocato o da scrittore.
Paul frequenta ottime
scuole: il ginnasio e i liceo classico all’antichissimo Liverpool Institute,
vera officina delle giovani
leve borghesi e aristocratiche della città.
so a trentadue denti.
Quello che accade negli
anni successivi è la storia del gruppo musicale
più famoso di tutti i tempi, che scatena una rivoluzione musicale, sociale
e, in minima parte, anche politica. Per quel che
riguarda questo ultimo
aspetto, viene subito alla
mente il conferimento del
titolo di Members of British Empire (M.B.E.) che
la regina Elisabetta conferisce loro nel 1965, all’apice di quel fenomeno
che è stato chiamato
Beatlemania. Gli (scarafaggi), quindi, diventano
baronetti. Ciò suscita,
nell’opinione pubblica
mondiale, un clamore
senza eguali, ma anche le
stizzite reazioni dei più
conservatori tra tutti gli
insigniti di onorificenze
britanniche, tre dei quali
le restituiscono.
no stati un fenomeno di
rottura con l’ordine costituito come lo sono stati
altri cantanti o altri
gruppi: basti pensare agli
americani Bill Haley (il
cui pezzo più noto, Rock
around the clock, era la
colonna sonora del film Il
seme della violenza),
Jerry Lee Lewis (che fa
scandalo quando annuncia il matrimonio con
una sua cugina tredicenne), agli Inglesi Rolling
Stones, eterni rivali dei
Beatles, che mostrano di
se stessi un’immagine
molto più maledetta.
I Beatles, invece, sono
i ragazzi della porta accanto. Una cronaca di
Natalia Aspesi per Il
Giorno, datata 24 giugno
1965, li ritrae a bordo del
treno che da Torino li
porta Milano, dove i Fab
four (i favolosi quattro)
sono attesi per un con-
Il mitico gruppo dei “Beatles” durante il primo tour negli Stati Uniti
Al gruppo si aggiunge
Ringo Starr (il cui nomignolo viene dalla sua
smodata passione per i
rings, gli anelli), l’immagine dei Beatles acquista
un’impronta definitiva e
completa. Quattro ragazzi, uniti da un’esperienza
musicale comune ma con
attitudini e caratteri
completamente differenti: Paul, quello borghese
e ben educato; John, il
ribelle della working
class; George, il silenzioso e il più dotato tecnicamente; Ringo, il brutto
anatroccolo ma anche il
più simpatico.
Quest’ultimo, in particolare, è un vero e proprio miracolato. A soli sei
anni viene colpito da una
peritonite che lo costringe a dieci settimane di
coma e a una convalescenza di più di un anno.
Ma forse è proprio il fatto
di aver superato una prova così difficile che lo
porta a vedere sempre il
lato più bello delle cose: è
simpatico, premuroso e
regala bontà a chiunque
conosca.
Nell’agosto del ‘62, la
vita mostra, a Ringo ed ai
suoi compagni, un sorri-
I meriti dei Beatles,
sotto un profilo formale,
sono meramente commerciali: con le loro vendite, hanno contribuito a
incrementare le entrate
grazie all’esportazione di
un tipico prodotto britannico. La forma, però, cela
una sostanza ben diversa: come ha scritto Marco Pastonesi nel suo libro
Beatles, il conferimento
dell’M.B.E. “...era il tentativo dell’autorità di apparire più vicina e sensibile alle esigenze dei giovani, e contemporaneamente lo sforzo di inglobare il fenomeno musicale e sociale come una delle espressioni - libere del sistema democratico”. Tra le voci che si levano contro il gesto della
Corona britannica, vi sono anche quelle di chi
sottolinea che l’accettazione di tale onore da
parte dei Beatles significherebbe l’adesione della
musica rock a quell’establishment che essa tenta
di scardinare a colpi di
chitarra e batteria. E’ un
discorso, cha a dire il vero, non trova appigli.
Da un punto di vista
sociale, i Beatles non so-
certo al velodromo Vigorelli che entrerà nella
storia.
John, Paul, George e
Ringo vengono descritti
come quattro giovanotti,
bravi ragazzi, che trasgrediscono solo portando i capelli più lunghi del
normale, e scatenano
nelle ragazzine - ma anche in non pochi ragazzi un’isteria come mai si sono conosciute in precedenza.
L’ universalità dei
Baetles è ottenuta con
un beat semplice e incisivo, con dei suoni effervescenti di chitarra e con
degli eleganti impasti vocali.
I Beatles, in sintesi,
sono un cocktail in cui
musica, sociologia, immagine e un pizzico di
politica si emulsionano
dando vita a un gusto irripetibile.
Soprattutto
sotto il profilo musicale.
Per decenni, migliaia di
critici si sono chiesti come sia stata possibile
quella creatività, che li
portava a esplorare ogni
genere e a uscirne ogni
volta vincitori.
Una domanda alla
quale rispondere diventa
ancora più difficile, nonostante siano passati
decenni dallo scioglimento del gruppo, avvenuto
nel 1970.
Lo straordinario talento inventivo di Lennon
e McCartney trova un sapiente direttore in George
Martin, il loro produttore, dotato di solida cultura musicale e grande tecnica di improvvisazione.
Solo così riesce a spiegarsi la genesi di canzoni
quali Yesterday, Michelle,
Norwegian Wood (la prima canzone pop in cui
trova spazio un sitar),
Drive my car, o di album
quali Revolver e Sergeant
Pepper’s Lonely Heert
Club Band, vere pietre
miliari nella storia del
rock, dischi che non sono
semplici raccolte di canzoni ma che raccontano
una storia con un principio e una fine, come se
fossero delle opere letterarie.
I Beatles sono stati
soprattutto musica. Una
musica di qualità eccelsa, che però era suonata
da quattro ragazzi che
hanno acceso la miccia
di una rivoluzione non
solo nel campo delle sette note, bensì anche in
quello della società di allora, allentandone con
grazia e senza troppi
scossoni i freni inibitori.
Senza di loro, che pure hanno avuto illustri
predecessori (tra tutti,
Elvis) non avremmo avuto la splendida musica
degli anni Sessanta e
Settanta, carica di significati esplosivi che si sposavano a meraviglia con
la qualità delle esecuzioni.
Possiamo affermare
che i Beatles sono stati il
“motore immobile” di tutto quel che è accaduto in
quei due decenni (entusiasmanti ma, per un
verso, anche tragici). E ci
viene da ridere quando,
di fronte alle stesse scene
di isterismo che oggi si
verificano al passaggio
dei Ricky Martin, dei
Robbie Williams, dei Boyzone (o che dieci anni fa
si verificavano davanti ai
Duran Duran o agli
Spandau Ballet), sentiamo qualche genitore affermare “Succedeva la
stessa cosa per i Beatles”: vuol dire che non
ha capito niente di quel
che stava accadendo.
Al di là di ciò che poi è
successo dopo il 1970: la
morte per opera di un fanatico di John Lennon, la
morte per cancro avvenuta pochi anni fa di
Harrison che sembrava
aver riunito quel che restava dei Beatles non toglie nulla alle splendide
canzoni che hanno scritto, ad un’epoca che conserva ancora, intatto il
suo fascino.
Risentirli e comprendere che la musica se
bella rimane tale per
sempre.
OGGI
famiglia
9
Ottobre 2002
Storia, vicissitudini e battaglie
della “Casa Editrice Pellegrini”
di Franco Michele Greco
La storia dei cinquant’anni di attività
della prestigiosa casa
editrice calabrese “Luigi
Pellegrini Editore”, è la
storia di un’avventura
umana e letteraria, etica
e morale condotta in maniera straordinaria dal
suo fondatore e dai suoi
numerosi collaboratori.
Riesce difficile, a tanta distanza di tempo, ricreare il clima degli esordi, e dunque capire
quanta temerarietà ci sia
voluta per pensare alla
fondazione di una casa
editrice nella Calabria
del 1952.
Sin dagli esordi, il
giovane Pellegrini enunciò alcuni propositi che
sono stati poi pienamente confermati: il suo interesse alle opere di poesia dialettale e agli studi
sulla “questione meridionale”. Avviava, pertanto,
la pubblicazione di alcune antologie, quali quelle
curate da Pietro Pizzarelli e dallo stesso editore,
in collaborazione con
Giorgio Giuseppe Ravasini, esperto traduttore
della lingua tedesca, con
l’intento di diffonderle in
Europa e all’estero.
La casa editrice si è
consolidata in Calabria
con la pubblicazione di
una rivista letteraria, dedicata principalmente
all’informazione sui libri,
riuscendo anche a diventare - nel contempo una palestra essenziale
del libero pensiero dei
giovani intellettuali: il
“Letterato”.
Sin dagli esordi della
sua attività editoriale,
Luigi Pellegrini si dedicò
alla pubblicazione di
studi sui problemi del
Mezzogiorno, e della Calabria in particolare. Nel
1960, Pellegrini fondò e
diresse la “Gazzetta di
Calabria”, un settimanale d’informazione locale
che, nel 1980, divenne la
“Nuova Gazzetta di Calabria”, attraverso la quale
Pellegrini e i suoi collaboratori continuarono a
combattere le loro battaglie in difesa della libertà
e della democrazia.
La “Gazzetta di Calabria”, in definitiva, voleva essere la voce di quei
calabresi che non ne
avevano più una, nel coro conformista della
stampa calabrese. Negli
anni sessanta, Pellegrini
fondò e diresse un mensile di vita scolastica,
nato per invogliare a
scrivere i ragazzi: “Il Domani di noi ragazzi”; nel
1962 nasceva “Corrispondenza Meridionale”,
un giornale di attualità
meridionalistica; il 1964
fu l’anno di “Telestampa”, agenzia di notizie
politiche e culturali.
All’inizio del 1962
diede vita alla collana
“Scuola”, diretta dallo
stesso, che accolse i contributi dei più autorevoli
studiosi del momento. Il
1963 fu l’anno di due
prestigiose collane: “Studi meridionali” e “Cultura politica e sociale”. Dei
volumi usciti in queste
collane, vorrei citare, fra
gli autori: Leonida Repaci, Fortunato Seminara,
Enzo Misefari, Tobia
Cornacchioli, Pasquino
Crupi, Michele Salerno,
Tommaso Fiore.
Pellegrini ha sempre
proposto pubblicazioni
nuove e ricercate: ha
concepito una Storia
della letteratura calabrese, un Dizionario artistico ed archeologico, una
Guida bibliografica e toponomastica della Calabria, ricerche sulle origini di movimenti politici
locali e alcune ristampe
di grandi opere, come il
“Vocabolario del dialetto
calabrese” di Luigi Accattatis e la “Storia dei
cosentini” di Davide Andreotti. Affidò poi ad Antonio Piromalli, uno dei
maggiori critici della letteratura calabrese, l’arduo compito di curare
una “letteratura calabrese”, che viene pubblicata
nell’ottobre del 1965.
Il 1° maggio del 1963
Luigi Pellegrini decise,
insieme a Tommaso Fiore, Davide Catarinella,
Pietro Pizzarelli, Leonida
Repaci, Cesare Baccelli,
Antonio Corte, di fondare e diffondere, in particolar modo nella realtà
meridionale, la rivista
“Incontri Meridionali”.
Alla rivista, che lo
stesso Luigi Pellegrini diresse fino al 1976, vi collaborarono qualificate
firme del giornalismo e
anche del mondo politico, fra cui: Pietro Nenni,
Francesco De Martino,
Gaetano Greco-Naccarato, Pitigrilli, Franco Volpe, tanto per citare qualche nome. La rivista
cambiò veste, impostazione redazionale e tematica nel 1977, e diventò “I.M., rivista di
studi storici”. La redazione, sempre con la responsabilità di Pellegrini, fu affidata a Saverio
Di Bella, dell’Istituto di
Storia Medioevale e Moderna della Facoltà di
Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di
Messina. “Incontri Meridionali” restò di proprietà della Pellegrini fino al 1981.
Da
ricordare
nel
1964 la rivista “Nuova
Rassegna di Cultura”, il
cui comitato di redazione fu ristretto ai nomi di
Cesare Mulè, che ne assunse, per la prima serie, la direzione, e di Antonio Palumbo, Domenico Teti e dallo stesso editore. La rivista, che ebbe
periodicità trimestrale,
cambiò, dopo alcuni anni, la testata in “Nuova
Rassegna di Studi Meridionali” allo scopo di poter incidere con maggio-
re risalto nella complessa problematica del Mezzogiono.
Tra le novità editoriali della casa editrice nei
“mitici” anni sessanta, è
da annoverare certamente quella relativa alla realizzazione dell’annuario “Terra di Calabria”,(sei volumi relativi
agli anni 1963-1968).
Nel 1967, nella stessa
collana “Terra di Calabria”, si inseriva una
fondamentale pubblicazione che richiese per la
sua realizzazione un
grande impegno e una
straordinaria pazienza:
“I Comuni della Calabria”, la prima opera di
documentazione amministrativa che sia stata
dedicata a questa regione. Nel 1969, l’editore,
che si appassionava alla
ricerca di scritti inediti
dei più illustri conterranei, curò la pubblicazione, in volume, delle novelle dello scrittore Nicola Misasi (1850-1923).
L’Antologia presentata da Gerardo Gallo, ha
raccolto novelle inedite,
rintracciate tra le carte
del “cantore della Sila”
dallo stesso Luigi Pellegrini. Alla fine del 1969,
Pellegrini fondò il bimestrale “Contenuti”, il cui
interesse è rivolto principalmente alla letteratura
e all’arte e la cui direzione fu affidata al saggista
Francesco Bruno. Nel
1982, con la scomparsa
di Bruno, la direzione di
“Contenuti” venne affidata a Francesco Grisi,
autore di numerosi volumi editi da Pellegrini.
Tra i collaboratori di Grisi, voglio ricordare, fra i
tanti,: Domenico Cambareri, Giuseppe Prezzolini, Diego Fabbri, Roberto Gervaso, Augusto
Del Noce. La pubblicazione del bimestrale cessò due anni addietro con
l’immatura scomparsa di
Francesco Grisi.
Nel 1972 venne realizzato il dizionario corografico “Calabria” (Guida
artistica e archeologica,
con tavole illustrative) di
Emilio Barillaro. Dello
stesso Barillaro, nel
1976, uscì il “Dizionario
bibliografico e toponomastico della Calabria”.
Nel 1976 Luigi Pellegrini propose la ristampa in volume antologico
di alcune opere di Nicola
Misasi (In Magna Sila;
Giosafatte Tallarico; Il
Gran Bosco d’Italia), curate da Pasquino Crupi,
che collocano, finalmente e meritatamente, la figura e l’opera del romanziere calabrese, nella
storia della letteratura
italiana, accostandolo
sempre di più alla corrente verista e al suo
esponente più autorevole che è Giovanni Verga.
Nel quadro delle iniziative intraprese negli
anni settanta Luigi Pelle-
grini inseriva la pubblicazione della collana
“Fonti e ricerche per la
storia della Calabria e
del Mezzogiorno” (Problemi del Sottosviluppo),
diretta da Saverio Di
Bella. Fra i contributi
più autorevoli, mi piace
ricordare: “La Rivoluzione del 1848 nella Calabria” di Benedetto Musolino; “Cosenza e la sua
provincia dall’Unità al
Fascismo” di Enzo Stancati; “L’insurrezione calabrese nel 1806 e l’assedio di Amantea” di Autori Vari; “Terra e potere
in Calabria dai borboni
alla Repubblica: la questione silana” di Saverio
Di Bella.
La casa editrice si
rafforzò particolarmente
negli anni ottanta, grazie
ad altre collaborazioni,
ricercate nel mondo accademico, e con nuove
importanti
iniziative,
quali: la pubblicazione
de “L’Agenda della Calabria”, l’ultima sua novità
editoriale prima di passare il timone a suo figlio
Walter, ormai inserito da
tempo e con competenza
nell’azienda di famiglia;
la nascita di una linea
editoriale rivolta al fenomeno mafioso, un filone,
questo, che l’editore, in
collaborazione con il
“Centro studi sulla criminalità
mafiosa”
e
dell’”Istituto di Studi e
Iniziative sulle società
contadine in Calabria”,
ha esplorato nella sua
drammaticità, ponendo
all’attenzione dei lettori
la collana “Il filo d’Arianna”.
La collana ha ospitato i volumi dei più autorevoli esperti del fenomeno mafioso in Italia, quali: Mercadante, Rizzo
Nervo, Di Bella.
L’editore Pellegrini ha
fondato la rivista trimestrale “Qualeducazione”
la cui direzione scientifica, con la responsabilità
di Walter Pellegrini, fu
affidata a Giuseppe Serio, autorevole pedagogista e autore di molte
pubblicazioni a carattere
scientifico. Affiancano la
rivista preziose collane
come: ‘Pedagogia-EticaEducazione’; ‘La scuola
che cambia’; ‘Il momento
della pedagogia’; ‘Storia
dell’educazione’. La vasta produzione degli anni ottanta annovera la
nascita di preziosissime
collane di volumi, come
quelle dedicate a “I grandi calabresi”: ‘Francesco
da Paola’ di Nicola Giunta; ‘Nicola Manfroce’ di
Domenico Ferraro; ‘Vincenzo Padula’ di Vincenzo Julia, ecc.
Il 1985 è stato l’anno
della collana “Zaffiri”
preziosa nei contenuti
come nella ricercata veste editoriale, con i suoi
libri per bibliofili e da
collezionisti, come il ‘Bestiemetafore’ di Alfonso
Il Prof. Luigi Pellegrini, pioniere dell’editoria calabrese
Cardamone e ‘Paul Harris’ di Coriolano Martirano; e della collana “Biblioteca emigrazione”, la
cui direzione venne affidata per un lustro a Carmine Abate e a Mike
Behrmann.
Entrambi
sono, peraltro, gli autori
del primo volume, ‘I Germanesi’ (presentazione
di Norbert Elias), a cui
fecero seguito, fra gli altri: “Un popolo in fuga”
di Pasquino Crupi e “Italiani senza patria” di Alfredo Strano.
Il gruppo periodici
Pellegrini si intensificò
con la pubblicazione di
una rivista giuridica, “Il
Foro cosentino”.
Nel 1994, Pellegrini
diede spazio, con una
nuova collana: “Massonerie e Massoni: tradizione e storia”, la cui direzione, nel 2001, venne
affidata ad Aldo Alessandro Mola. Il direttore è
tra i più noti massonologi europei. Nella collana
sono ospitati, fra gli altri, tre volumi sulle “Tavole massoniche” di Rocco Ritorto, e di Ferdinando Cordova “La Massoneria in Calabria-Personaggi e documenti(18631950).
Nel 1996 la casa editrice ha dato l’avvio alla
pubblicazione della collana “Scienza pedagogica” con la direzione di
Michele Borrelli.
Nel 1998, è nato, in
collaborazione con l’Istituto Calabrese di Storia
dell’Antifascismo e dell’Italia contemporanea, il
“Giornale Calabrese di
storia contemporanea’,
con periodicità semestrale e la cui direzione è
stata affidata a Ferdinando Cordova.
Dal 1982 Walter Pellegrini ha potenziato con
sempre maggiore impegno, il settore dei periodici specializzati, avvalendosi dei contributi e
degli stimoli offerti dai
direttori e collaboratori
delle prestigiose riviste
“Campi Immaginabili”,
“Incontri Mediterranei”,
“Letteratura e società”,
“Iride”.
Queste, in sintesi, le
vicissitudini della Luigi
Pellegrini Editore, le battaglie di un viaggio lungo
e bellissimo attraverso
cinquant’anni di storia e
di mutamenti della società, delle mode letterarie e del costume. A Luigi Pellegrini va il merito
di aver saputo scegliere i
“compagni di strada”,
tutti collaboratori di
prim’ordine, seguendo il
cammino di una società
in continua evoluzione, e
di aver dato voce, attraverso il suo “patrimonio
librario”, alla Calabria e
di averla aiutata nella
sua difficile trasformazione .
Chianello
OGGI
famiglia
10
Dopo le grida disperate di Agamennone morente, compare sulla scena Clitennestra, fiera di
aver ucciso il marito e di
aver vendicato il sacrificio dell’innocente Ifigenia. Finalmente, dopo
dieci anni di lunga attesa, ella può sfogare tutto
il suo odio per quell’uomo che aveva sacrificato
l’amore e la pietà al dovere e alla gloria militare;
non esita a vantarsi del
suo delitto e svela gli inganni orditi per compiere
la sua vendetta: “Per me
questa è la lotta, da tempo vagheggiata, di un’antica contesa: ed è giunta
infine al suo momento. Io
sto qui, dove l’ho colpito
ed ho compiuto l’opera”;
ed ancora: “Questo è
Agamennone, il mio sposo, morto, opera di questa
mano, ministra di giustizia”. Ma dopo un primo
momento di esultanza,
Clitennestra comincia a
sentire il peso di quel delitto, da cui a poco a poco sarà definitivamente
schiacciata. Inutilmente
cerca la pace: Dike, figlia
di Zeus Onnipotente, si
affretta a punire gli empi, Clitennestra ed Egisto, che con la frode hanno versato il sangue di
Agamennone. Anche i
vecchi Argivi del Coro
sanno che la giustizia
non dimentica il suo dovere e gridano insieme:
“Da qualche parte vede
forse Oreste la luce, così
che divenga, tornato qui
con sorte benevola, uccisore invincibile di entram-
Ottobre 2002
Lettura delle Coefere di Eschilo
di Fiorangela D’Ippolito
bi costoro?”. Oreste, ora
lontano da casa, è l’unica loro speranza e salvezza, lo strumento della
punizione divina, pronta
ad abbattersi sulla casa
dell’Atride, per frenare la
tracotanza dello spregevole Egisto e la hybris di
Clitennestra.
Già nelle ultime battute dell’Agamennone,
quindi, si prepara l’atmosfera delle Coefore. Il
pathos, che era prima
cresciuto con la visione
profetica dell’omicidio
avuta da Cassandra e
che aveva raggiunto il
suo culmine nel momento dell’uccisione del re e
nella soddisfazione manifesta di Clitennestra
per l’azione compiuta,
qui comincia nuovamente a salire ed a tenere in
tensione lo spettatore. Si
attende la punizione di
Zeus, segno di liberazione per il popolo argivo e
terribile incubo per Clitennestra, ma nessuno
sa quando e come Dike
vorrà compiere i suoi disegni: per questo l’animo
di ognuno è inquieto e,
mentre medita sulla
morte di Agamennone,
non può non pensare ai
mali che si preparano
per la casa dell’Atride.
Non c’è possibilità di
uscita da questa situazione: solo la fede in
RISTORANTE
Il Celicotto
LA NOSTRA VALIDITÀ
Il valore del nostro locale
deriva essenzialmente
dall’ospitalita’ e ha
due aspetti determinanti:
il primo riguarda la qualita’
dei cibi e dei vini,
il secondo quello collegato
al fatto che gli alimenti
e le bevande riflettono
sempre la storia, la vita,
le tradizioni ed il carattere
della nostra gente.
Il Celicotto
a 12 km
da Cosenza
Per le prenotazioni
dei tavoli telefonare
allo (0984)
434314 - 435831
Zeus può rassicurare gli
uomini che tutto finirà
bene, se si obbedirà al
volere divino. In questo
modo, Eschilo riesce a
muovere i sentimenti religiosi dello spettatore e
lo spinge a sperare solo
nella divinità.
Finalmente Oreste,
assetato di vendetta e inviato dal dio Apollo,
giunge presso la tomba
di Agamennone. Quando
egli compare sulla scena,
il volere divino sembra
manifestarsi del tutto: la
sorella Elettra e le ancelle del Coro gioiscono della sua vista, poiché è
giunto il loro salvatore.
Ha inizio a questo punto
un lungo commos, un
canto lirico, in cui si alternano le voci di Oreste,
di Elettra e del Coro tutte: invocano vendetta,
tutte chiedono il soccorso di Agamennone nell’azione che Oreste dovrà
compiere. Ciò che si vuole sottolineare è il fatto
che la vendetta è giusta,
perché, come esclama il
Coro, “è legge che stille di
sangue versate sul terreno chiedano altro sangue:
l’Erinni reclama sciagura,
conducendo su Ate un’altra Ate, voluta dai morti
precedenti”. Ogni colpa
chiama a sé una pena
che è colpa nello stesso
tempo: è questo il destino che si prepara per
Oreste e che già il Coro
gli preannunzia: “In
cambio di colpo mortale,
mortale colpo sia restituito: chi ha compiuto
soffra”. Il commos è tutto
un incitamento alla vendetta, sia quando si ricorda che il volere degli
dei è quello di punire Clitennestra ed Egisto, sia
quando Oreste presenta
alla sua mente, ma soprattutto al suo cuore, la
terribile immagine della
madre, paragonata ad
una vipera mostruosa
che ha privato del padre
i figli dell’aquila. Insieme
ad Elettra egli invoca il
padre, affinché ascolti i
lamenti “pieni di lacrime”della sua cara prole e
si ricordi della rete inestricabile in cui la moglie
lo ha tratto, delle insidie
di lei e dell’oltraggio ricevuto dal prepotente Egisto.
Oreste adesso è pronto per compiere la missione divina; a rendere
manifesto il suo destino
contribuisce il Coro, narrandogli l’incubo che affligge la madre assassina: in sogno pare a Clitennestra di mettere al
mondo un serpente, il
quale, quando la donna
gli offre la mammella, ne
succhia il latte ed anche
un grumo di sangue.
Quale orribile profezia è
questa, che non tarderà
ad avverarsi! Oreste, infatti, si avvia subito con
l’amico Pilade verso casa
sua. Entra con l’inganno,
dicendo di essere un forestiero della Focile ed a
Clitennestra porta la fal-
sa notizia della morte di
Oreste. La madre non
riesce a trattenere il suo
dolore e la disperazione
per la maledizione che
grava sulla reggia e che
continua a strapparle gli
affetti più cari. Anche
Oreste, dunque, come
Clitennestra, vuole uccidere con la frode e riesce
a fingere perfettamente:
non fa trapelare i suoi
sentimenti, ma aspetta il
momento giusto per colpire. Mentre il Coro inneggia a Zeus e a Dike e
sostiene Oreste, chiamandolo ephedros, ultimo lottatore, si sentono
le grida di Egisto, colpito
a morte. Ha inizio la scena più drammatica,
quella in cui tutte le passioni si sfogano e la Giustizia ottiene la vittoria.
Al servo, che si dispera
per la morte del padrone
Egisto,
Clitennestra
chiede cosa sia successo
e questi risponde con un
triste presagio di morte:
“Io dico che i morti uccidono i vivi”. Clitennestra
sente che la punizione
degli dei è giunta; lei
stessa è consapevole della sua azione scellerata e
amaramente confessa:
“Con l’inganno periremo,
così come abbiamo ucciso”. Troppo tardi, però,
si accorge del male compiuto e Oreste, infatti,
non mostrerà alcuna
pietà nei suoi confronti.
Quando, mostratole il
cadavere di Egisto, Clitennestra si lascia sfuggire dalle labbra un grido
di affetto nei confronti
del drudo, Oreste non
può tollerare più che la
madre continui ad amare
quell’uomo e non suo padre, mille volte superiore
ad Egisto, e le rinfaccia
la sua scellerata passione desiderando con tutto
il cuore che essi muoiano insieme così come insieme hanno ucciso. A
questo punto, Clitennestra si rivela in tutta la
sua femminilità e cerca
di distogliere il figlio dalla vendetta, affinché abbia rispetto del seno che
lo nutrì da piccolo. Oreste qui tentenna un po’:
non può non ricordarsi
del fatto che Clitennestra
gli ha dato la vita e lo ha
nutrito; è preso da un
amletico dubbio: bisogna
ubbidire al volere degli
dei, anche quando essi
puniscono, oppure continuare a vivere, in questo
caso, senza cercare giustizia? Anche se è ispira-
to da Apollo, egli si assume la responsabilità della propria azione. E’ proprio tale consapevolezza
che fa indugiare Oreste,
ma Pilade interviene e richiama l’amico alla sua
missione: “Fatti nemici
tutti quanti piuttosto che
gli dei”.
Clitennestra non cessa di chiedere pietà al figlio, ma invano gli confessa il desiderio di invecchiare insieme a lui,
di vivere una vita tranquilla, di dimenticare le
pene sofferte. Oreste, infatti, dopo l’incitamento
di Pilade, acquista ancora più forza ed ha con la
madre un dialogo serratissimo. A Clitennestra
ricorda che la Moira vuole la sua morte e che egli
non terrà conto delle maledizioni materne, poiché, già nascendo, è stato gettato nella sventura.
Senza tregua Oreste, con
parole che spirano odio,
grida le ragioni della sua
vendetta e strazia il cuore della madre con le parole prima ancora di ucciderla con le mani.
Alla fine, Clitennestra, che aveva sempre
cercato di dissuadere il
figlio dal matricidio, ricordandogli tutto l’amore
che ebbe per lui e che
vuole le sia ricambiato,
prende coscienza che
Oreste è deciso a compiere il folle gesto: “Io credo che tu ucciderai tua
madre, o figlio”. Ed Oreste risponde: “Tu ucciderai te stessa, non io”. E’
stata Clitennestra, dunque, a firmare la propria
condanna a morte col
sangue di Agamennone.
Ai suoi occhi Oreste ormai non appare più come un figlio: è costretta a
dimenticare ogni dolce
ricordo della sua maternità e si accorge di aver
generato una serpe. Il
sogno di Clitennestra si è
avverato, tutto è compiuto ed Oreste soffoca con
la spada le ultime parole
della madre, esclamando: “Tu hai ucciso chi non
dovevi, soffri ora ciò che
non dovresti”. E’ la legge
del pathei mathos - imparare per mezzo della
sofferenza - che già era
stata preannunciata nella parodos dell’Agamennone: “Chi canta con devozione epinici per Zeus
otterrà tutto quello che ha
in cuore: lui che avviò gli
uomini alla saggezza e
che dispose di avere come principio che attraver-
so il soffrire si giunge alla
comprensione”. Proprio
questo dovrà sperimentare adesso Oreste. Dapprima egli si mostra
trionfante sul cadavere
della madre e su quello
di Egisto. Ricorda una
per una tutte le loro colpe, si vanta della missione divina compiuta, ma a
poco a poco, dopo un
momentaneo senso di sicurezza, presenta il matricidio come un’azione
voluta solo dagli dei e ripete di essere innocente,
ma già le cagne della madre, le Erinni che colano
sangue dagli occhi, lo
cercano per straziarlo.
Bisogna notare che i
personaggi di Eschilo
non sono totalmente abbandonati nelle mani del
Fato: per Oreste non vi
era possibilità di salvezza; non poteva scegliere
fra il Bene e il Male, ma
tra due mali. Se non
avesse ucciso la madre,
gli dei lo avrebbero punito in modo ancora più
grave se l’avesse fatto.
Tuttavia, commesso il
matricidio, egli resterà
colpevole e potrà riscattarsi solo se dimostrerà
segno di pentimento oppure rimarrà dannato
per sempre. Oreste, dunque, si trova libero di decidere, pur essendo nella
necessità. Da lui stesso,
e non dal Fato o da un
altro dio, dipenderà la
sua sorte, ma per poter
ottenere il perdono degli
dei dovrà soffrire ancora.
Con il matricidio egli ha
rinnovato la hybris antica: è giusto che ora, mediante pathos, impari.
E’ proprio questo
uno dei motivi fondamentali della poesia di
Eschilo, il quale, con la
sua sublime arte drammatica, riesce a delineare il destino dell’uomo
che si abbandona alla
hybris e che deve con le
sue forze cercare la purificazione. Né Agamennone aveva voluto compiere un tale sforzo, né
Clitennestra vi è riuscita, ma Oreste si libererà
delle Erinni, che diventeranno così Eumenidi,
cioè benevoli, e giungerà alla catarsi.
Ed a testimonianza
della eternità della poesia di Eschilo, il lettore
moderno, a cui potrebbe
sembrare lontana quest’antica storia, rimane
colpito dalle stupende
immagini create dal poeta, dalla potenza espressiva, dalle gigantesche
passioni che si agitano
sulla scena, e viene purificato nell’animo e sollevato nello spirito, così
come avveniva allo spettatore antico.
CAMILLO SIRIANNI
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OGGI
famiglia
11
Ottobre 2002
REGALATE UN LIBRO AL CENTRO DI LETTURA DEL CENTRO SOCIO-CULTURALE “V. BACHELET”
Le Case Editrici sono invitate a inviare pubblicazioni a “Oggi famiglia”. La rubrica è a cura di Domenico Ferraro
La storia, la cultura, le tradizioni
di un’antica comunità calabrese:
BIANCO
Il pensiero educativo di Rosa Agazzi
e la scuola materna odierna
di Domenico Ferraro
di Domenico Ferraro
Nel lavoro storiografico di Antonio Fotia si
evidenziano molte caratterizzazioni metodologiche di ricerca, una severa correttezza scientifica,
una individuazione delle
fonti più autorevoli e, infine, un riferimento continuo alle testimonianze
della cultura materiale.
La molteplicità delle
illustrazioni, che arricchiscono il testo, contribuisce a far emergere
delle realtà, che, molte
volte, si disperdono per
la trascuratezza degli
uomini, per l’inconsapevole dimenticanza del
tempo e per la distruzione delle intemperie e dei
cataclismi naturali.
Il recupero delle conoscenze storiche e degli
eventi, che hanno interessato le popolazioni di
Bianco, è analizzato da
Fotia come fonte originaria e originale dei comportamenti sociali attuali della popolazione.
La complessità dello
studio, anche dal punto
di vista di introspezione
psicologica, e la ricchezza delle notizie sono dovute proprio a questa capacità
di
indagine,
confortata sempre da
una pluralità di riflessioni, la cui verità dev’essere riposta nell’esperienza
della ricerca culturale, o
nel riferimento archeologico, o nell’analisi di tradizioni o deduzioni storiche.
Dalla ricerca se ne ricava una suggestione
che ci fa intuire come
queste zone abbiano dato origine a culture, a civiltà che, poi, si sono
maggiormente diffuse in
altri territori, vicini e
lontani.
Per l’intuizione di
questa impostazione culturale ed ideologica, l’opera di Antonio Fotia si
trasforma in una ricerca
intellettuale, che contribuisce a costruire il variegato e complesso mosaico della civiltà dei popoli meridionali.
La suddivisione in
capitoli ben precisi facilita il compito dello studioso, che si è impegnato a completare la ricerca seguendo la successione del tempo sino alla
attualità.
In questa strutturazione tematica ha potuto
convogliare tutti gli avvenimenti storici, le testimonianze che si riferiscono al contesto storiografico dell’Italia e del
meridione, in particolare.
Si ha, così, una visione completa della società
di Bianco, della sua cultura, della sua civiltà,
della sua storia civile e
religiosa, dei suoi costumi, delle sue tradizioni,
anche attuali.
Infatti, per la grande
capacità di analisi di Fotia, per il suo gusto letterario, per la correttezza e
facilità del linguaggio
espressivo e comunicativo, per la scelta delle tematiche, per le problematiche che riesce a far
emergere, per le sottili ed
elaborate argomentazioni, per i contenuti che
arricchiscono il testo, ti
fa operare una ricognizione completa delle
esperienze esistenziali
della gente di Bianco.
Inoltre, le prospetta
in un contesto più ampio, di modo che la suggestione che se ne ricava, oltrepassa gli interessi di un ambiente ben
circostanziato ed assume una prospettiva, che
s’inserisce in una problematizzazione culturale storiografica più vasta, come è quella meridionale.
La sua analisi contribuisce a chiarire la complessa e tormentata storia dei nostri Paesi, la
lenta formazione della
loro specificità culturale
antropologica, l’accumulo dei loro variegati costumi, l’addensarsi delle
loro contrastanti e contraddittorie tradizioni,
che costituiscono il simbolo di una contaminazione culturale e sociale.
Questo processo di
sublimazione comportamentale si è verificato
durante tutti i secoli della loro storia per gli
scambi culturali con altri popoli, per i rapporti
commerciali, per essere
stati supporti strategici
militari, facile via di
transito per i territori interni, per aver subito
lunghe diversificate dominazioni, per aver assimilato linguaggi, costumi, tradizioni, la cui ricognizione costituisce
l’origine antica della nostra mentalità, e contribuisce a spiegarci l’originalità del nostro costume culturale e delle nostre problematiche esistenziali.
La storia di Bianco,
così, è il risultato serio è
riflessivo di un appassionato studioso che, alla
vivace correttezza espositiva, alla controllata
raccolta di notizie, alla
scrupolosa analisi delle
fonti, aggiunge una viva
partecipazione ai fatti
che racconta e che si
manifestano nella suggestione del linguaggio,
nello stile sempre ricco,
carico di emozioni e di
vivaci interessi, di calore
umano e di tutte quelle
caratterizzazioni,
che
contraddistinguono la
natura culturale e la vita
dei popoli meridionali.
Fotia, oltre alla storia
civile s’interessa di descrivere il modo in cui
sono stati vissuti e manifestati i sentimenti religiosi e quale attrattiva
hanno operato sui sentimenti della gente, quale
contributo
hanno
espresso per modificare
e condizionare la storia
civile, ma, anche, i costumi, la mentalità, la
cultura e i comportamenti.
L’opera di Fotia è capace di suscitare intensi
sentimenti di vera partecipazione alle vicissitudini di una popolazione
che ha saputo vivere
esperienze esistenziali,
che perdurano ancora
nella storia della sua
quotidianità e nella prospettiva di una vivacità
culturale autentica e ricca di una sua propria
spiccata originalità.
Antonio Fotia, Bianco, antico, vecchio e nuovo, Antonio Sicilia Editore, Piano Lago - Mangone (CS)
Ringraziamenti
Si ringraziano gli autori per i seguenti volumi:
1) Marisa Fasanella, L’ombra lunga dei moroni,
Rubbettino Editore
2) Marisa Fasanella, Maschere e lenzuola del vicolo Santa Croce, Periferia Editrice
3) Marisa Fasanella, Gineceo, Tullio Pironti Editore
4) Francesco Gagliardi, Nell’inferno di Corea –
Dura esperienza di un giovane calabrese, TipoLito Editoriale C. Biondi, Cosenza
L’opera è stata realizzata da S. S. Macchietti,
B. Rossi, S. Angori, R.
Cuccurullo e C. Moseoni.
E’ la ricostruzione critica
del pensiero pedagogico
di Rosa Agazzi.
La rivisitazione, che
ne consegue, dimostra
quanto sia stato ricco e
carico di prospettive future.
Infatti, l’ambientazione storica riflette le caratteristiche sociali del
tempo. Si possono intravedere quanto esso sia
stato innovativo e quale
realtà abbia saputo rappresentare se si confronta con la situazione con
cui si è dovuto rapportare. Ma ciò che si evidenzia maggiormente in ogni
singolo saggio è la dimensione prospettica e la
pluralità delle sperimentazioni che ha saputo
promuovere e sollecitare.
Il raffronto che ne
consegue con gli Orientamenti del’91 non costituisce una forzatura o
una imposizione antistorica, poiché potrebbe
rappresentare un’inutile
celebrazione.
Ogni aspetto del pensiero di Rosa Agazzi viene
approfondito ed analizzato nelle sua portata e,
poi, ogni riferimento viene strutturato nella nuova realtà e interpretato
per la sua ricchezza.
Naturalmente ne consegue anche una diversa
e più aggiornata ricostruzione della sua vita, la
sua formazione culturale
ed educativa e viene evidenziata la sua capacità
rivoluzionaria nell’aver
saputo definire una propria concezione dell’infanzia.
Si denota in ogni saggio la constatazione che
la realizzazione della sua
opera sia stata sollecitata
non da uno studio teorico e da una ricerca di
dottrine filosofiche o pedagogiche decorse, ma
dalla riflessione quotidiana, che defluiva dalla situazione concreta in cui
operava e da quelle esperienze innovative che
giorno dopo giorno andava attuando con i suoi
bambini.
Allora, si manifesta la
fattibilità operativa di
una grande educatrice,
che sapeva confrontarsi
con una realtà sociale,
una delimitazione economica di una comunità e
una indifferenza culturale, che non potevano in
nessun modo costituire
una sollecitazione e una
promozione educativa di
un processo, che permaneva costantemente isolato.
La sperimentazione
andava così realizzandosi
nella riflessione di un’au-
tocritica operativa e si arricchiva ogni giorno di
più di quelle esperienze
culturali che, molte volte,
in modo spontaneo e improvvisato, dimostravano
la possibilità di uno sviluppo, la capacità di una
crescita realizzatrice, la
concretezza di saper indicare un nuovo modo di
rapportarsi all’infanzia,
di interpretarne le esigenze più profonde, di
saperne esaltare la capacità di crescita interiore,
senza opprimerla con
condizionamenti ideologici di nessun genere.
Naturalmente la descrizione dei principi
educativi, la ricerca e la
individuazione della scoperta di ciò che veramente è stata la novità educativa di Rosa Agazzi, sospinge gli autori della
pubblicazione a confrontare la sua realizzazione
con i principi teorici, che
caratterizzano gli Orientamenti della scuola materna odierna.
Si constata praticamente quanta intuizione
e quanta ricchezza pedagogica e metodologica era
implicita e sottostava a
un’esperienza, la cui novità non sempre è stata
analizzata nella sua complessa e dinamica varietà
educativa.
Il raffronto viene concepito per esaltare maggiormente quelle novità
che, poi, la scienza, il
progresso, il rinnovamento culturale, la concezione ideologica di una
pedagogia, che, usufruendo dell’esperienza
del passato, si era arricchita del contributo di
nuove conoscenze e discipline che hanno dato
adito ad un’operatività,
che riflette le esigenze di
una società tecnologica e
di una infanzia, il cui
contesto sociale è completamento rinnovato e
mutato.
L’importanza di Rosa
Agazzi consiste nell’aver
saputo intuire ed attuare
principi che, poi, in un
contesto sociale completamente
diversificato,
avrebbero
dimostrato
tutta la loro ricca capacità innovativa.
Certo, la riconsidera-
zione dell’infanzia, successivamente, fu accresciuta da una pluralità di
discipline scientifiche,
che non erano minimamente sospettate di poter
contribuire a sollecitare
una conoscenza scientifica dell’infanzia e una ricognizione culturale in
senso antropologico dell’ambiente, anche perché
permaneva un condizionamento ideologico filosofico su tutto il processo
educativo e su tutta la
concezione teorica della
pedagogia.
La liberazione dell’infanzia, la sua autonomia,
la libertà di crescita originale e spontanea, il rispetto di ogni singola
personalità, l’aderenza
alla concretezza dell’ambiente sociale e naturale,
il riconoscimento che
ogni bambino costituisce
un proprio mondo, che
va rispettato e sollecitato
a crescere, una metodologia didattica che interpreti concretamente le
esigenze più profonde
dell’infanzia, il riferimento costante ad un’educazione, che si realizzi nella
bellezza della natura, sono stati, secondo le possibilità dello sviluppo
scientifico e le caratteristiche sociali dell’ambiente, pienamente intuite e realizzate da Rosa
Agazzi.
Allora, il rapporto e
l’intersecarsi delle intuizioni
agazziane
con
quanto interpretano la
dottrina o la filosofia che
struttura gli Orientamenti del ‘91 non possono essere poste sullo stesso
piano operativo, poiché
hanno dato adito ad un
prosieguo attuativo completamente differenziato
e, molte volte, contrastante.
La pubblicazione, nonostante la diversità degli studiosi e gli aspetti
diversificati che ognuno
di loro ha sviluppato, risulta unitaria e ricca di
tante suggestioni culturali e sospinge ad una rilettura e riflessione delle
opere di Rosa Agazzi, poiché, ancora oggi, il suo
pensiero può sollecitare
gli educatori e gli studiosi a modificare il proprio
modo di rapportarsi all’infanzia e a riscoprire
intuizioni, che possono
rivoluzionare la conoscenza, la dottrina e la
concezione della pedagogia moderna.
Marilena Bagnalasta
Barlaam (a cura di), Scuola materna: gioia di vivere, crescere, apprendere Il progetto agazziano e i
vigenti Orientamenti, Istituto”Pasquali-Agazzi”,
Comune di Brescia, Brescia, 1996, pagg. 240,
senza prezzo
OGGI
famiglia
12
Ottobre 2002
• Girate • Girate • Girate •
La centralità
del sacramento nuziale
dotto attraverso un excursus storico-teologico
che parte dal Concilio
Vaticano II per arrivare a
concludere che tutte le
forme di vita possono essere ricondotte all’unica
categoria della nuzialità:
non solo gli sposi ma anche i celibi consacrati, i
sacerdoti e i religiosi, i
vedovi. È una teologia
questa della sponsalità
con la quale si comincia
pian piano a prendere
confidenza, una teologia
che privilegia in modo
esclusivo l’immagine nuziale come unica svelatrice del mistero di Dio, un
Dio che nel creare la coppia, Adamo ed Eva, li ha
creati dal nulla, cioè da
null’altro oltre a sé, come
se la coppia fosse il miglior modo di rappresentare Se Stesso, questo
suo Mistero che lo lega al
Figlio attraverso lo Spirito in una coinvolgente,
armoniosa danza d’amore.
Prezioso è stato anche
l’intervento del Direttore
della Caritas italiana insieme al Dottor Marco
Lora dell’Ufficio nazionale per la pastorale della
famiglia, in particolare
per la presentazione di
un progetto che - siamo
sicuri - farà parlare di sé:
è il PRONTO FAMIGLIA,
un numero verde che
sarà messo al servizio
delle famiglie per offrire
loro risposte qualificate
in ambito pastorale, etico, giuridico, psicologico, amministrativo e
quant’altro, un amico al
telefono che si sta cercando di costruire in modo efficiente, capillare, e
non o non solo, emergenziale.
Interessanti sono state anche le relazioni per
così dire tecniche: quella
di Don Franco Lanzolla
che insieme ai coniugi
Ancis di Cagliari ci ha
detto “Come costruire e
far crescere l’Ufficio diocesano e la Commissione
di pastorale familiare”; o
quella di Don Eduardo
Algeri sui “Contenuti e i
processi della formazione”.
A Rocca di Papa è intervenuto anche il Forum
delle Associazioni Familiari attraverso il suo Presidente Dott.ssa Luisa
Santolini che ha offerto
una relazione appassionata, oltre che edificante,
sulle radici, le sfide e i
progetti delle famiglie come progetto sociale.
Una lingua che muore
è una fonte di sapere che si perde
Un po’ di chiarezza sui tanto dileggiati dialetti
di Giovanni Chilelli
Don Vincenzo Filice (secondo da sinistra) direttore
dell’Ufficio Famiglia della Diocesi di Cosenza
La coppia Pino e Nandino Sergio responsabili
dell’Ufficio Famiglia della Diocesi di Cosenza
(seconda fila a sinistra)
Mons. Renzo Bonetti, direttore uscente
dell’Ufficio Famiglia nazionale (CEI)
Importanti anche i
momenti per così dire
più distensivi: i lavori di
gruppo, prezioso scambio di esperienze e di
progetti, la proiezione
del film “Casomai” del
bravo regista D’Alatri, la
drammatizzazione della
poesia “Il canto della
Madre” di Don Giorgio
Mazzanti, ma anche tutti gli altri momenti di incontro e di condivisione
tra famiglie negli spazi
delle preghiere animati
dal nuovo Direttore del-
AUTOSTOP
l’Ufficio Don Sergio, del
pranzo o della cena, al
bar o nel giardino meraviglioso di questo istituto che ci ospitava, con
vista sul lago. Un istituto il cui nome - Mondo
Migliore - sia veramente
un auspicio per la famiglia del Terzo Millennio:
ognuno è chiamato all’impegno e alla responsabilità, ogni famiglia
può diventare una candelina accesa per costruire e vivere in un
mondo davvero migliore.
Il termine “dialetto”,
nei cui confronti si mostra una scarsa considerazione se non, addirittura, un vero e proprio
senso di disprezzo, altro
non è che un sistema linguistico usato in un territorio geograficamente
ben delimitato. D’altronde, la sua non opinabile
etimologia, ci dice che
“dialetto” deriva dal termine greco dialektos, “discussione”, ovvero da
dialégein “parlare” attraverso (dia) “discutere”.
Pertanto, una qualsiasi
forma di dialetto, oppure, se si preferisce, una
particolarità linguistica,
ha tutti i crismi da meritare rispetto da parte di
tutti e giammai delle valutazioni negative, che
non di rado, collimano
con la noncuranza e/o
con l’oltraggio. Chiariamo subito che nessuno
può minimamente dubitare che l’unificazione
linguistica, nell’ambito
territoriale d’una Nazione, rappresenti sempre
una conquista culturale
e civile di portata storica.
I cittadini di uno Stato,
infatti, debbono poter comunicare agevolmente
tra loro per ragioni sociali, polito-amministrative,
commerciali, eccetera.
Per cui la conoscenza
teoretica e pratica della
lingua nazionale è, e rimanere, il punto d’arrivo
delle varie identità linguistiche regionali e anche di limitate zone geografiche di un Paese. Ma
ciò non può affatto soffocare i dialetti fino a provocarne la morte in nome di un malinteso sentimento nazionale. Giustamente la Scuola e i
mezzi di comunicazione
di massa provvedono a
privilegiare l’idioma della
comunità nazionale, ma
nessuno ha il diritto di
mortificare le lingue locali, anche se con un
malcelato senso di intolleranza nei loro confronti. L’omologazione delle
lingue, secondo i due
studiosi, di cui diremo
tra poco, presenta due
facce: una, come sopra
riconosciuto, è quella di
facilitare la comunicabilità tra tutti i cittadini
d’una collettività nazionale; l’altra, in verità,
molto più criptata, e
quella di invogliare a ri-
INTRIER TOUR
cusare le lingue locali,
senza alcuna giustificazione. Pochi, credo, siano
a conoscenza di un fenomeno di importanza planetaria, che in pochi decenni, ha portato alla
morte, in diverse zone
della terra, degli idiomi
nativi di intere popolazioni. Si pensi che gran
parte delle 250 lingue
dell’Australia sono già
definitivamente scomparse. Oppure alle ex repubbliche sovietiche del
Baltico, che dopo l’indipendenza dalla ex Unione Sovietica, hanno subito voluto riaffermare la
loro autonomia linguistica contro il russo; l’annosa disputa tra il francofono Québec e il resto
del Canadà di predominio anglofono. Due studiosi inglesi hanno denunciato tale fenomeno
con un loro saggio, dal titolo abbastanza significativo: “Voci del silenzio”.
Si tratta dell’antropologo
Daniel Nettle e della professoressa Suzanne Romaine dell’Università di
Oxford. Questi due personaggi, in proposito,
scrivono che “Se qualche
lingua fosse una rara
specie di uccelli o un
banco di coralli in pericolo, forse se ne preoccuperebbe un gran numero di
persone”. Il principio su
cui si fonda la loro denuncia, trae origine dalla
consapevolezza che “più
lingue significano più democrazia”. Innanzitutto
perché il linguaggio, come invenzione esclusivamente umana, ha reso
possibile tutto ciò che
conta per la nostra specie: la cultura, l’arte, la
musica, lo stesso progresso tecnologico e
scientifico. E poi perché,
con la scomparsa delle
“lingue” si perdono delle
notevoli forme di informazione non solo di natura storica, ma anche di
interesse antropologicoculturale di non trascurabile importanza. Oppure, più semplicemente, è bene ricordarci che i
vocaboli dei dialetti sono,
indubbiamente, espressioni uniche per indicare
oggetti e azioni che ci
fanno comprendere meglio il nostro passato. La
Società attuale, invece,
considera il plurilinguismo come un ostacolo
per la comunicazione
stessa, per lo sviluppo
economico e, più in generale, per la medesima
modernizzazione. Tale
considerazione, inequivocabilmente, contiene
una verità non facilmente contestabile giacché
una diversità di linguaggio sarebbe di nocumento alla identità di un Popolo. Ma ciò ripetiamo,
non giustifica per nulla il
voler discriminare, per
principio, gli idiomi locali fino a decretarne la loro totale scomparsa. I
Romani di Cesare (lo ricordiamo bene) imponevano, ai popoli vinti, la
loro lingua, i loro costumi, le loro leggi. Allo
stesso modo, nella seconda metà del Novecento, si è imposta, quasi in
tutto il globo, una lingua
sola, l’inglese. E si badi
che si è trattato di “una
selezione naturale cui è
sopravvissuta la lingua
più adatta” bensì il risultato di una scelta politico-economica da cui è
emerso l’idioma del più
forte.
Secondo i due studiosi inglesi, l’uniformità
linguistica, che trascura
aprioristicamente
le
identità dei dialetti, non
solo significa un impoverimento di culture e di
conoscenze, ma rappresenta anche un pericoloso passo verso sistemi
meno democratici. Infatti, gli Autori del saggio
sostengono che i totalitarismi potrebbero attecchire con più facilità in
situazioni di omologazione linguistica e culturale.
Nessuno,
ritengo,
possa mettere in dubbio
la musicalità, la freschezza delle immagini,
l’intraducibilità di certi
vocaboli dialettali, che rivelano sì un “mondo” limitato, ma assai ricco di
contenuti emotivi. Con la
propria lingua, ricordiamolo, l’uomo non solo
descrive, ma crea il suo
universo, proprio come
aveva intuito il filosofo
austriaco Ludwig Wittegestein. La difesa della
lingua, pertanto, va considerata, in primis, una
battaglia di civiltà per il
motivo che la loro scomparsa, significherebbe
una “fonte di sapere” che
svanisce per sempre.
SI.GE.I.
s.r.l.