RELAZIONE GAVARINI 60° FABI

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RELAZIONE GAVARINI 60° FABI
60° F.A.B.I.
Celebrazioni del sessantennale della fondazione della FABI
Roma, 13 novembre 2008
Relazione del Segretario Generale
Enrico Gavarini
Inizierò in modo forse inusuale, questo intervento.
Rivolgendo primariamente non già un saluto a chi è qui, ma ricordando affettuosamente a tutti
coloro che sono stati della FABI e che oggi non sono fra noi, perché il tempo della loro vita si è
arrestato.
A molti maestri di sindacato e di vita, che hanno saputo donare sé stessi agli altri.
Sono tutti nei nostri cuori, perché una grande organizzazione non si dimentica mai delle donne e
degli uomini che si sono riconosciuti nei suoi valori fondanti.
Ed ora, voglio ringraziare tutti coloro che con la loro presenza, con le loro parole, con i loro auguri,
hanno voluto, oggi, rispondere al nostro invito.
Ed infine, ultimo, ma non ultimo, un particolare ringraziamento desidero rivolgerlo a Stefano Sassi
che con grande maestria ha condotto questa nostra giornata, un grazie ed un applauso .
13 novembre 2008
Una giornata di festa.
E questa è davvero una giornata di festa.
Volutamente semplice, iniziata con i nostri lavori in mattinata normale ed eccezionale insieme,
normale, ma non per questo meno calorosa,
Festa.
La festa, è di per sé, momento gioioso, un momento che gli antichi celebravano con danze, canti e
conviti.
Tralasciando le danze, alle quali mi sento in verità poco idoneo, e pure i canti, ci limiteremo con
buona pace di tutti ai soli conviti, ma, prima di affrontare i conviti, penso, vi sia ancora il tempo, e
spero, la voglia, di ascoltare alcune riflessioni ed un premessa che sarà breve.
Breve perché da noi in FABI, la capacità di sintesi è regola di vita.
Ecco la premessa.
Che è poi una risposta.
Immagino , che vi sarete chiesti, il significato di questo allestimento.
Perché mai questo arredo inusuale e non la solita sfilata di giacche scure.
E’ presto detto.
Il leggio trasparente rappresenta il sindacato ideale. Il sindacato dev’essere una casa trasparente.
Noi vogliamo che così sia la FABI.
I cubi sono la solidità, e nel contempo la modernità.
Inoltre le figure geometriche identificano la costruzione che va edificata giorno dopo giorno. Una
struttura sempre in divenire, sempre da migliorare e nella quale tut ti trovano spazio .
Ultima ma non ultima la scrivania.
Un po’ datata, affatto lussuosa. Una scrivania dietro la quale, idealmente, possiamo immaginare che
abbiano lavorato intere generazioni di persone.
Anche di sindacalisti. Chi preparando comunicati. Chi studiando leggi e decreti, chi analizzando
contratti e circolari.
Non vi sarà sfuggito poi un particolare… non c’è una sedia.
Non c’è perché il sindacato non è potere, ma lavoro e dedizione.
Servizio e non occupazione di spazi.
La scrivania simbolo del lavoro, peraltro non sta arroccata, è posizionata in un luogo aperto, perché
fare sindacato è soprattutto stare fra la gente.
Detto dei simboli, ed i simboli hanno pure una loro efficacia, veniamo alle riflessioni altrettanto
brevi che ho in animo di trasmettervi.
La prima riflessione riviene dalla visione stessa del filmato.
(davvero un bravo sincero va al gruppo diretto da Benni, che ha realizzato un filmato di ottimo
livello, professionale, con una nota particolare per il nostro Marco, spirito, non spiritello, pratico di
questa iniziativa, ed a Gianfranco, che ha tradotto l’idea in parole e’ stata davvero una bella
esperienza di lavoro in equipe proprio come si deve lavorare nel sindacato)
Il film ci trasmette numerose sensazioni, fra le tante, la visione di un sogno.
Le parole della canzone “ I have a dream” identificano con assoluta precisione questo momento.
Torno al sogno.
Il sogno.
Si dice che il sogno si possa esprimere con maggiore chiarezza se vede sé stesso in una immagine.
Così è sempre stato sin nella notte dei tempi, quando le ragazze andavano da una strega che
mostrava loro il volto dello sposo, ed il volto sognato, appariva, nel così detto specchio della terra.
I padri fondatori della FABI, guardarono il loro sogno, nel manifesto che indirizzarono ai Bancari.
Scarno , efficace, comprensibile, un esempio perfetto di comunicazione scritta, che indicava già una
chiara vocazione Fabiana, quella negoziale.
La FABI sindacato del contratto, dei contratti, della concertazione.
Quel sogno, era un sogno non di nicchia. Non il sogno di un gruppo elitario, poiché la FABI non è
mai stata avulsa dal contesto sociale.
Il sogno dei FABIANI fondatori, stava nel sogno collettivo del paese.
Si voleva rivedere, dopo un periodo oscuro, dopo la guerra, dopo le lacerazioni della guerra civile,
dopo la fame, dopo le sofferenze, e soprattutto dopo che erano state violate le più elementari regole
di libertà, si voleva rivedere la luce.
Quello era il sogno.
Non solo, e non soltanto dare un contratto ai bancari, ma creare i presupposti per una democrazia
vera.
In quell’humus così vitale, così coinvolgente, così eticamente esaltante, germogliò la FABI, come
germogliarono tutte le grandi forze sociali che fecero la storia del Paese dal 1948 ad oggi.
Forze, con le quali la FABI intende oggi, come allora, percorrere un cammino.
Crescere nelle idee, è il motto della nostra conferenza, cresce non da soli, ma insieme.
Il sogno, quel sogno, del 1948, trovò la sua realizzazione.
Ed e pure bello, credere e sapere, che i sogni, a volte, non sono solo immagini notturne, ma
sensazioni, che possono trova re corpo nel giorno che avanza.
E quel giorno che avanzava era segnato da un preciso codice.
Un codice che prevedeva per gli adepti della prima ora, l’impegno rigoroso, ed il desiderio di
dedicarsi agli altri con genuino spirito di sacrificio.
Fare sindacato, in quegli anni, non era affatto facile non vi era lo Statuto dei lavoratori, né altre
forme di tutela.
Si pagava, e si rischiava, di tasca propria sotto tutti i punti di vista.
Si rischiava il posto di lavoro, si rischiava l’emarginazione ed il solo essere iscritti ad un sindacato
poteva rappresentare un rischio.
Le riunioni sindacali si facevano di notte o nei giorni festivi erano quasi carbonare.
Ma proprio perché così sofferte, quelle riunioni, erano vere, partecipate, emozionanti.
Ripensare a quei fermenti, a quei valori, che permeavano il paese, penso sia fortemente educativo, e
motivo di riflessio ne soprattutto per uscire dal nostro confuso presente.
Gli ideali non vanno mai dimenticati, ma rinnovati e rinsaldati.
E dal confuso presente, transito, al secondo spunto, che è poi l’ultimo che ho in scaletta, e l’ultimo,
ma non ultimo pensiero, e non poteva che essere così, è rivolto al domani, a quello che viene
definito, il lussureggiante, (forse anche troppo) campo dei problemi che abbiamo da risolvere.
Colgo questa occasione.
Carpe diem.
Afferro l’attimo, quello di avere qui una parte importante e buona del nostro mondo per ampliare
l’orizzonte ed andare oltre i rituali ed i convenevo li.
Ecco il pensiero.
Oggi molto si parla di cambiamento di necessità di cambiare.
Change è termine diventato di moda.
Persino negli USA, dove due sono i Party,
uno dei conservatori-conservatori
un’altro dei moderati conservatori
Si parla di cambiamento.
Non sono un politologo, non so predire quale sarà il cambiamento che avverrà negli USA, ma spero
che sia, per la gente di tutto il mondo, nel solco delle parole pronunciate da un antico presidente
degli USA.
Thomas Jefferson
Che disse:
se una libera società, non può aiutare i molti che sono poveri, non dovrebbe salvare i pochi
che sono ricchi.
Condivido queste parole, ma sorge spontanea la domanda: cosa possiamo fare, noi, per contribuire a
risolvere la miriade di problemi che affliggono gran parte dell’umanità?
Intanto non scambiare la consapevolezza della dimensione dei problemi con l’inerzia.
E’ fondamentalmente sbagliato e riduttivo ritenersi impotenti, e finire così per non fare nulla.
Infatti è provato, che anche un gesto, ritenuto a torto marginale, può determinare grandi
cambiamenti come accade nell’ormai arcifamoso effetto Butterfly.
Mi piace ricordare, per provare l’affermazione, un fatto, siamo nel 1955, Montgomery Alabama.
Una donna di 40 anni, Rosa Parks, decide, in una tardo pomeriggio, di non alzarsi per cedere il suo
posto sull’autobus ad un bianco, così com’era previsto dalle Leggi segregazioniste.
Grazie a quell’apparentemente banale gesto, Rosa Parks, sconvolse una intera nazione.
Da lì nacquero i comitati per diritti sociali di Martin Luther King e forse, l’elezione oggi di Barak
Obama è dovuta anche a quel piccolo insignificante gesto.
Piccoli, grandi gesti.
Il mondo è fatto da piccoli grandi gesti e da piccole grandi persone.
Allora non sentiamoci mai troppo piccoli per modificare il mondo, e credo, traendo anche spunto
dalla crisi, ritenuta, temo, un po’ superficialmente, finanziaria, ma che invece è crisi sociale, che
cambiare possa volere dire, anche, abbandonare l’avidità degli egoismi.
E lavorare per far sì che la finanza avida, preconizzata vent’anni fa, nel film Wall street, dove
l’interprete principale affermava:
Greed is good, venga battuta.
Neppure le imprese possono ritenersi isole produttrici di ricchezza per pochi.
Così come non sono isole le persone, e non vi sarà né stabilità, e sicurezza, né per le persone, né
futuro per le imprese, se non sapremo, andare oltre, respingendo l’avidità non alimentandola mai.
Guardiamo al nostro sogno possibile.
Forse, per taluno, che si sente un po’ come i vecchi navigli, con troppe incrostazioni nella chiglia,
queste idee, potrebbero apparire simili, o assimilabili, alla speranza.
In fondo, la speranza, a volte ci appare davvero come una nube. La vediamo librarsi, aerea nei cieli,
poi, quando vola via, ci rituffiamo con la testa dentro la terra, dimenticandoci del suo passaggio.
Propongo di non guardare più alla speranza come ad una nube effimera.
Cambiare significherà, allora, se lo vorremo, ciascuno per la sua parte, penetrare la speranza.
Farla nostra.
Realizzare il sogno.
Un sogno diverso, eppure simile, a quello che seppero vedere nel 1948 i Fabiani fondatori con
uguale spirito libertario e con passione.
Perché solo la passione, sì proprio la passione, ha saputo trasforma re le prime pagine in bianco e
nero del filmato, attraverso anni di lotte e sacrifici, in emozioni intense e colorate.
Le nostre emozioni.