canta napoli - Egea Distribution

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canta napoli - Egea Distribution
GRATUITO
musiche e culture nel mondo
primavera 2010
07
10
primavera 2011 www.mondomix.com
www.mondomix.com
AMBROGIO SPARAGNA
ORCHESTRA POPOLARE ITALIANA
N o a
canta napoli
ALITango
FARKA
TOURE
• ELENADeLEDDA
BRASILE
IN MUSICA
. Persia
. Roberto
. Recensioni
Simone•. SQUILIBRI
Dakar . Bob•Marley
Sommario
Mondomix Italia — n°10 primavera 2011
04 Editoriale
05 / 13 AttualitÀ
05 - AttualitÀ-Sei domande a
MIRCO MENNA
SEBASTIANO BELL'ARTE
Lillo Miccichè
06 - AttualitÀ-Babele
07 - AttualitÀ-Profili
07 - MAHMOUD AHMED
08 - ROBERTO DE SIMONE
09 - TROBAIRITZ D'OC
10 - MASSIMO FERRANTE
12 - MARTIN CARTHY
13 - ENRIQUE MORENTE
14 / 21 MUSICA
14 - TANGO
17 - I TANGHI DI PINA
18 - TANGO NEGRO TRIO
20 - NOA
23 / 39 360°
23 - DAKAR
28 - sUONI PERSIANI
30 - raMIN SADIGHI
31 - VISIONI PERSIANE
34 - CHENNAI
35 - RENNES
36 - CULTURA POPOLARE
37 - MANRESA
38 - The Street Foodie
40 - Africa
42 - Americhe
43 - Europa
44 - Fusion
46 - Asia
48 - LIBRI
49 - Visioni
50 - La World Music che non sapevamo di avere
11
Mahmoud Ahmed
14
Tango
40 / 50 RECENSIONI
Periodico gratuito
Editore FM2
Direttore responsabile Luca Rastello
Redazione Elisabetta Sermenghi, Renzo Pognant, David Valderrama, Luca Vergano
[email protected]
Hanno collaborato Antonello Lamanna, Ciro De Rosa, Cristina Amodeo, Eddy Cilia,
Emanuele Enria, Enrico Verra, Fabrizio Giuffrida, Fulvio Luciani, Gian Franco Grilli,
Giancarlo Susanna, Giovanni De Zorzi, Giulio Cancelliere, Joelle Caimi, Luisa Perla, Mauro
Zanda, Paola Valpreda, Paolo Ferrari, Piercarlo Poggio, V. Ramnarayan, Valerio Corzani
Pubblicità [email protected]
Impaginazione Chiara Tappero / Volumina [email protected]
Redazione Corso Moncalieri 331, 10133 Torino (nuovo recapito)
Stampa Ages Arti Grafiche Corso Traiano 124, 10127 Torino
Registrazione al tribunale di Torino n° 49 del 9 luglio 2008 (periodico culturale)
Il logo e il marchio Mondomix sono registrati e di esclusiva proprietà di Mondomix Media SAS. Il
logo e il marchio Mondomix in Italia sono licenziati in esclusiva a FM2.
Solo Mondomix Media SAS e i suoi licenziatari possono utilizzare il logo Mondomix in pubblicazioni,
pubblicità e materiali promozionali.
23
Dakar
31
Persia
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Lalgudi GJR Krishnan
50
Bob Marley - Catch A Fire
04 05
Sei domande a
Mondomix.com
Mirco Menna
Cantante e compositore
Che cosa stai ascoltando in questo periodo?
Rumori, alcuni consueti ed altri allarmanti, Gheddafi che
dice resterò fino alla morte, le canzoni di Sanremo mio
malgrado, e per rifarmi le orecchie Jacques Brel che è
meno vecchio di Vecchioni. E Macareu, de Los Gaiteros
de Lisboa.
Quali sono i tuoi dischi preferiti?
Quelli, con tutto il rispetto per la filologia, commistionati
nei “generi”, nel carattere melodico armonico, nei suoni,
nelle liriche: ma sempre radicati nell’“etno”, o folk come si
diceva un tempo e come preferisco dire. Nel popolare, che
è un concetto in continua mutazione.
Due esempi tra tutti: Creuza de ma per quella invenzione di
un “tradizionale” inesistente eppure ben credibile (e per le
parole formidabili, nel suono e nel senso), e Soy Gitano, del
Camaron de la Isla con la London Simphony Orchestra.
eDITORIALE
Fuoco e fiamme.
Mentre andiamo in stampa in Nord Africa e Medio Oriente si levano alte le fiamme, bandiere bruciate, grida di giubilo, di
dolore e di sofferenza.
Il mondo come lo abbiamo conosciuto sta cambiando, ancora una volta.
Un nuovo ’89. Un altro muro sta cadendo.
Speranze stanno nascendo.
Il Nord del mondo, noi, a livello di governi e istituzioni è preoccupato solo a difendere i propri confini, il proprio recinto da
fantomatici fondamentalisti e/o epocali invasioni barbariche.
Il massacro libico agli occhi del nostro Potere significa solo fondamentalismo o immigrazione clandestina.
E le radici cristiane per le quali si è sempre pronti a battersi quando conviene?
Sotto terra a riposare. Siamo in inverno. No?
Siamo solo un piccola rivista musicale ma ogni tanto ci piacerebbe essere qualcos’altro.
Il caso ha voluto che l’Iran (il prossimo?) luogo in cui sotto la cenere brucia una forte spinta di cambiamento occupi largo
spazio in questo numero. Il cinema e la musica. Un modo per saperne di più di questa terra culla della nostra storia e
civiltà.
Noa Canta Napoli. La città dell’immondizia, ormai ridotta a simbolo e pattumiera di questo nostro paese. Ma Napoli è
stata anche altro, molto altro. Da Vico a Croce, da Eduardo a De Simone (vedi pagina 8) a Carosone a Nino D’Angelo. È
bello che una grande cantante internazionale dedichi un progetto alla musica di questa città.
Ogni tanto bisogna fermarsi a ricordare da dove veniamo.
Lo hanno fatto a Dakar dove in uno sfavillìo di luci, suoni e colori si è tenuto il Festival Mondial Des Arts Negres. Anche
l’Africa, ogni tanto, si ricorda di cosa è, da dove viene e dove può andare.
Qual’è il musicista che ammiri di più?
Quello che condivide il suo talento e non se la tira. Fermo
restando il talento, certo.
Con chi ti piacerebbe collaborare, se si creasse l’occasione?
Mah, domanda difficile… Con le persone che ammiro (vedi
sopra) ma non necessariamente con musicisti, comunque.
Con Alessandro Robecchi, per dire un nome a me caro, o
con il Gruppo delle Ocarine di Budrio che è dalle parti di
casa mia.
Quali concerti ricordi con più piacere?
Alcuni dove io stavo sul palco.
Uno dei Police e uno di Pino Daniele a Bologna all’inizio
degli Ottanta. Michel Camilo in provincia di Ferrara verso la
fine degli Ottanta. Peppe Barra, e Trilok Gurtu con gli Arché
tra i Novanta e i Duemila.
E poi molti “minori”, straordinari concerti di straordinari
amici, tutta gente che poi si trova a suonare nei miei dischi,
che bello.
Hai artisti giovani che conosci o ascoltato e che ci
consigli di seguire?
La mia amica Silvia Donati che è, come molti di noi,
un’artista giovane di lunghissima esperienza. Una cantante
che supera il canto, diciamo così. Ha appena ultimato un
bellissimo lavoro con Sandro Gibellini nuovo di zecca,
mentre rispondo non ha ancora nemmeno un titolo.
Sebastiano
Bell' Arte
Compositore, musicista,
direttore della Banda di Avola
Che cosa stai ascoltando in questo periodo?
Ascolto sempre tutto, dalla musica classica al jazz. Ad
esempio a pranzo ho ascoltato l’Offerta Musicale di Bach,
questa sera ho ascoltato Chet Baker.
Quali sono i tuoi dischi preferiti?
Ho ascoltato tantissima musica sinfonica, operistica e jazz.
Tra le opere La Bohème di Puccini e Cavalleria Rusticana
di Mascagni, come musica sinfonica la sinfonia Dal
Nuovo Mondo di Antonin Dvorak e Sherazade di Rimsky
KorsaKov. Tra i dischi jazz quello che ho ascoltato di più è
Kind of Blue di Miles e il celebre quartetto di Mulligan con
Baker alla tromba. Tra i cantanti italiani… De Andrè e Pino
Daniele.
Qual’è il musicista che ammiri di più?
Il musicista che ammiro di più è Chet Baker. Altri sono
Paquito D’ Rivera, Arturo Sandoval ecc…
Con chi ti piacerebbe collaborare, se si creasse l’occasione?
Mi piacerebbe collaborare con Caparezza. Le sue canzoni
e il suo stile li trovo molto vicino alla banda.
Quali concerti ricordi con più piacere?
Se ci si riferisce a concerti in cui ho partecipato ricordo
con piacere Il concerto che ho fatto con la Banda Ionica
al Regio di Torino, con la Banda di Avola e Mirco Menna
a Maison Musique di Rivoli e al Teatro Greco di Siracusa
con l’Orchestra Sinfonica di Washington diretta da Mitslav
Rostropovich. Se invece debbo pensare a concerti di altri
ricordo, allo stadio di Caltanissetta, Pino Daniele con Pat
Metheny.
Hai artisti giovani che conosci o ascoltato e che ci
consigli di seguire?
Ho avuto modo di ascoltare al Tenco una ragazza, Carlotta.
Fantastica. Poi conosco Beatrice Campisi, si è esibita con
Banda di Avola al MEI e so che sta cercando di far uscire
un suo lavoro discografico. È giovane e ha un buon gusto
musicale.
E poi ci vuole passione. E Tango. Ecco, cerchiamo di indicare una possibile via a questa che più che una danza è una
filosofia di vita.
E certamente anche molto altro, ma questa volta vi lasciamo il piacere della scoperta.
Anche questo numero oltre alla versione in PDF scaricabile gratuitamente dal sito www.Mondomix.com e disponibile
nella versione interattiva sperimentale sul sito www.mondomix.com con link ad esempi, musicali, negozi online e altro.
Venite a trovarci.
La redazione
[email protected]
Anche se ci riteniamo assolti siamo pur sempre coinvolti
(libero adattamento da Fabrizio De Andrè)
10 primavera 2011
Titolo ...e l'italiano ride
Etichetta Felmay / Egea
Online www.mircomenna.com
10 primavera 2011
6 FELMAYTRADIZIONE&INNOVAZIONE
Babele www.felmay.it
Mondomix.com / ATTUALITà
FELMAY
Drop Out
and Tune In
di Valerio Corzani
Timothy Leary, 1il padre della cultura
2 psichedelica, diceva:
3
“Drop Out and Tune In”, stacca la spina dal mondo e
sintonizzati con te stesso. Una dimensione spirituale che
ha il suo fascino e il suo perché anche senza l’ausilio
dell’LSD e delle filosofie orientali. “Unplugged” in effetti
è diventata una parola chiave delle società tecnologiche
d’inizio millennio. Tenere la spina staccata, o meglio trovare
il coraggio di staccarla, è una delle grandi scommesse della
7
8
civiltà odierna. Prendersi una pausa da tutte le “connessioni”
dalle quali dipendiamo. Staccare momentaneamente i fili
che ci legano al mondo, che spesso ci aiutano a vivere
meglio e ancora più spesso finiscono per opprimerci e
congestionare i nostri “voli”. C’è di mezzo anche la “moda”
ovviamente: le nuove spiritualità, l’ecologismo snob, le
bevande diet (o più semplicemente idiot), il tabacco light
10
e tutte le varie9 menate di cui i nostri
rotocalchi televisivi
si appropriano prontamente. Ma scava scava, se si va a
fondo, è indubbio che l’esigenza che muove la patina di
queste mode è scossa da un impeto autentico, sincero.
Succede anche nella musica, un ambito nel quale si è
dovuto scavare con pazienza. Aspettare la fine degli anni
novanta e lo spegnersi del malinteso new age (chitarre
morbide, melodie
lasciar decantare
11 alla melassa etc…),
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13
XP• Mondomix marzo 2010
4-03-2010
13:25
il flusso trendy del cosiddetto new-acoustic mouvement
d’inizio millennio (quando a staccare la spina si sono
catapultati in troppi), prepararsi all’arrivo di un’essenza più
autentica. Chiamiamola pure ancora unplugged, ma non
come definizione di stile, piuttosto come pura “esigenza”.
Anche solo come semplice optional potrebbe ricoprire una
funzione importante e piacevole - come la cartina della
Rizla che ti avvisa che sei a “dieci dalla fine del pacchetto”
(e dio solo sa
- ma qui
c’è
4 quanto è utile quell’avviso…)
5
6
dell’altro, qualcosa più del galateo, qualcosa più di una
gentilezza, sonora e non. Staccare la spina dai vincoli
della tecnologia è una sorta di boccaglio che ti permette
di gustare appieno il tuo personalissimo snorkeling
biografico e culturale. Ascoltare il suono purissimo delle
voci bulgare o la filigrana aguzza delle corde vocali di
Dona Dimitru Siminică equivale a partire alla scoperta del
Rio delle Amazzoni in canoa o attraversare l’Islanda coi
racchettoni da sci. Rivalutare il suono avvolgente di un
pianoforte acustico può diventare un’avventura estrema,
mentre riscoprire il calibro del rumore puro (provocato da
un tamburo o da un bidone) è un altro esercizio di grande
coraggio un-plugged. Un’estensione della percezione che
utilizza antenne analogiche o meglio, biologiche: minerali,
vegetali, animali.
Potete partire da Souad Massi o da Stephan Micus, dal
Dem Trio o dalla Vegetable Orchestra... non ha molta
importanza. L’importante è che dopo il salutare tuffo
neoacustico, non perdiate la curiosità del riattaccare la
spina per ascoltare anche una cumbia elettrificata, Mercan
Dedé o i Konono No.1...
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Pagina 2
15
thiopiques
FELMAYTRADIZIONE&INNOVAZIONE
www.felmay.it
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vol. 5 - Tigrigna Music
1970-75
Trobairitz d'Oc
Lo mau d'amor
vol. 10 - Tezeta - Ethiopian
Blues and Ballads
vol. 6 - Mahmoud Ahmed
Almaz 1973
vol. 15 - Europe meets
Ethiopia - Jump to Addis
Trobairitz d’Oc voci
vol. 21 - Emahoy Tsegué
& Maryam Guèbrou
Piano Solo
fy 8180
vol. 2 - Azmaris urbains
des annèes 90
Benignivol. 16 - Asnaqètch Wèrqu
vol. 11 - Alèmu Aga - TheValeria
Paola Lombardo
Claudio Carboni
sax
The Lady
with the Krar
Harp of King David
1. Colorina de ròsa Tradizionale 3.47
2. La cançon e la pluma Valeria Benigni / Gaël Princivalle 2.52
3. La femme d’un tambour Tradizionale 2.29
4. Lo mau d’amor Tradizionale 4.22
5. Lo rossinhòu messatgier Tradizionale 4.25
6. Intro luerda Claudio Carboni 1.12
7. La femna luerda Tradizionale 3.13
8. Miton Paola Lombardo 2.31
9. Serpol Paola Lombardo / Sergio Berardo 4.01
10. Sinfonia de Margòt Paola Lombardo 1.45
11. La masurca de Sant Andiòu Tradizionale / Charlon Rieu 2.46
12. Minon-minauna Tradizionale 2.44
13. L’aiga de ròca Tradizionale 4.07
14. A stacada d’Brelh, valsa finala Tradizionale 3.25
1-02-2011 12:04:43
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2010
P Felmay 2009
vol. 17 - Tlahoun Gèssèssè
vol. 12 - Konso Music
vol. 7 - Mahmoud 10
Ahmed
vol. 3 - L'age d'or de la9
& Songs
vol. 18 - Asguèbba !
Erè mèla mèla 1975
musique ethiopienne
Una formazione
originale, due voci
e
sassofono,
che
da
nuova
vita ad un
vol. 13 - The Golden
vol. secolare.
19 - Mahamoud Ahmed
moderne 1969-1975
repertorio
popolare
vol. 8 - Swinging Addis
Seventies - Ethiopian Groove
1974 - Alèmyè
La
musica
Occitana
come
non
l'avete
mai
sentita.
vol. 4 - Mulatu Astatke
1969-1974
vol. 14 - Gètatchèw Mèkurya vol. 20 - Either Orchestra &
Ethio Jazz & Musique
FELMAY
Guests - Live in Addis
Instrumentale, 1969-1974 vol. 9 - Alèmayehu Eshété Negus of Ethiopian Sax
felmay
Voce dall'Etiopia
di Paolo Ferrari
È il 5 maggio 1941. A bordo dell’Alfa Romeo del colonnello inglese Wingate, Sua Maestà il Negus Hailé Selassié I
percorre le strade di Addis Abeba tra due ali di folla festante: sconfitta, l’Italia si è ritirata. Il dominio di Roma sull’Abissinia
è finito, e l’Inghilterra riconsegna il trono al suo alleato etiope. Tre giorni dopo, l’8 maggio, nella stessa città nasce Alemye
Mahmoud Ahmed. I destini dell’Imperatore e del neonato si sfiorano; le loro strade si incroceranno ventuno anni dopo.
Le origini
Di origine gurage, ceppo etnico minoritario radicato
nel Sud Ovest del paese, Mahmoud si arrangia da
ragazzino con un mestiere che davvero più blues si
muore: lustrascarpe, per le velleità da City e da capitale
notturna della “swingin’Addis”. Quel mondo lo seduce, e
la maniera più semplice di metterci piede è farsi assumere
in un locale. Gli riesce con l’Arizona Club: basti il nome
per farsi un’idea dell’aria cosmopolita che si respirava
nella capitale negli anni compresi tra il 1955 e il 1974,
quelli dell’ottimismo e dello swing, delle tentazioni latine
e dell’eredità melodica italiana, dei ricami di scuola araba
e del soul di fonte americana. Lì Ahmed parte dal basso, è
una sorta di factotum addetto alle pulizie, alle riparazioni,
alla tinteggiatura. Ma canta bene, molto. La proprietà
se ne accorge, e tra il 1960 e il 1961 gli offre le prime
chance di esibirsi di fronte al pubblico. Il tempo di onorare
l’appuntamento con Sua Maestà, mancato di poche ore
nel 1941, è maturo: nel 1962 il ventunenne Mahmoud viene
aggregato alla Imperial Bodyguard Band, fiore all’occhiello
del paese non solo per blasone regale.
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file under
trobairitz d’oc
occitany
italy
world music
vol. 1 - L'age d'or de la
musique ethhiopenne
moderne 1969-1975
Mahmoud Ahmed
Yo Yo Mundi
Munfrâ
new
new
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«Sto ascoltando dal mio Monferrato […] questo magnifico disco degli Yo Yo Mundi
dedicato a queste terre (loro e mie).
[…] Su questi antichi sobbalzi in due quarti e tre quarti, gli Yo Yo hanno lavorato
con eccellenti orchestrazioni che infiammano e corteggiano la scatola magica, la
fisarmonica, torre di Babe e regina di Saba.»
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(Paolo Conte)
1
vol. 22 - Alèmayèhu Eshèté
1972/1974
vol. 23 - Orchestra Ethiopia
vol. 24 - L'age d'or de la
musique ethiopienne
moderne 1969-1975
vol. 25 - Modern Roots
1971/1975
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7
Profili
I favolosi anni 70
Ascoltare le quattordici tracce del volume 26 della collana
Éthiopiques, curato come sempre con rigore, passione
e ricchezza di informazioni dal direttore Francis Falceto
per Buda Musique, illumina quanti, come noi occidentali,
sono abituati a vedere le guardie del corpo come persone
lontane dall’idea stessa d’arte, quanto estranee alle
dinamiche innovative. La voce di Ahmed, carica di soul,
d’Oriente e swing, colori e sapori senza passaporto,
è scortata da arrangiamenti stupefacenti. Il periodo in
questo caso è l’ultimo col sodalizio imperiale, ma il succo
non cambia; in assenza di capitali privati, come spesso
accade nel Sud del Mondo, lo stato (radio, bande militari,
balletti ufficiali) è stato per molti lustri l’unico riferimento
affidabile sotto il profilo della qualità dei materiali. Oltre
al cd, testimone però del periodo 1972 – 1974, la serie
ha dedicato alla star di Addis altre due monografie, né
potrebbe essere altrimenti: Falceto non fa mistero di
dovere a Mahmoud l’idea stessa dell’impresa discografica
etiope, il cui germe nacque in seguito all’ascolto di una
sua vecchia cassetta.
Alla conquista del mondo
Prima dei suoi studi e delle sue pubblicazioni, l’unico album
di musica etiope noto all’Occidente era Ère Mèla Mèla,
gioiello pubblicato nel 1975 come riuscito esame di maturità
dopo l’uscita dalla Imperial Bodyguard Band, meritoriamente
proposto in Europa nel 1986 dalla Crammed e rilanciato, con
le estensioni e le note in stile Éthiopiques, come volume 7 del
percorso, dopo un sesto ellepi intitolato Almaz, incisioni con
la Ibex Band parallele all’ultimo periodo imperiale. Ère Mèla
Mèla: il disco decisivo nell’anno della morte di Hailé Selassié,
ancora un incrocio fatale. Il più “americano” e internazionale
dei dischi di Ahmed resta Alèmyé, targato 1974 e al centro del
volume 19 della saga Falceto, con soluzioni esplicitamente
soul. Se altre tracce dell’uomo danno soddisfazione nei cd
3, 8 e 10 della collana, farciti di 45 giri delle varie epoche, è
bene ricordare l’attualità di Mahmoud Ahmed, tra i pochissimi
artisti etiopi (con Aster Aweke, però migrata negli States,
con Gigi, aiutata da sodalizio con Bill Laswell, e con l’icona
rock Mulatu Astatqe) entrati nell’Olimpo della musica africana
di peso globale. Ecco allora l’Award per la World Music,
conferitogli nel 2007 da BBC Radio 3, e un maturo Live In
Paris, messo in circolazione nel 1998 dalla Long Distance.
Éthiopiques intanto annuncia l’imminente pubblicazione di
Shèkla, ultimo vinile pubblicato dal cantante nel 1978 sulla
propria etichetta Mahmoud Records prima di arrendersi al
formato cassetta. Meno seducente, ma più economico e
adatto a filtrare tra la gente negli anni bui della censura. Tra
storia e futuro, il presente di Mahmoud Ahmed si chiama
attualità permanente.
Online www.budamusique.com
Ethiopiques volume 6
Buda / Egea
Ethiopiques volume 7
Buda / Egea
Ethiopiques volume 26
Buda / Egea
10 primavera 2011
8 Son sei sorelle
Le Trovatrici D’Oc(ccitania)
Rituali e canti
della tradizione in Campania
Trobairitz d'Oc alle prese con il mal d'amore
di Fabrizio Giuffrida
“Saranno queste registrazioni la celebrazione dell’assenza. Ma
saranno, esse, la cartina di tornasole per evidenziare le innumerevoli
mistificazioni e contraddizioni, operate in nome di un mondo estinto?”
Con queste note dolenti sulla scomparsa di una cultura
millenaria che già trent’anni fa era in declino si apre il
nuovo lavoro di Roberto De Simone, Son sei sorelle.
Compositore, scrittore, regista teatrale, drammaturgo
e musicologo, De Simone è stato la mente della Nuova
Compagnia di Canto Popolare, che fonda nel 1967 assieme
a Giovanni Mauriello, Eugenio Bennato e Carlo d'Angiò.
Grazie a ricerche sul campo nei luoghi dove in quegli anni
le tradizioni ancora sopravvivono, e allo studio delle fonti
scritte che descrivono forme poetico-musicali del passato,
come strambotti, villanelle e laudi, De Simone e la NCCP
sviluppano un ricco repertorio musicale che sarà poi
alla base di opere teatrali come La cantata dei pastori e
La gatta Cenerentola del 1976. In quegli anni De Simone
incide i repertori musicali incontrati durante le sue ricerche,
chiedendo agli interpreti tradizionali di eseguirle in studio.
Il frutto di quelle registrazioni viene pubblicato nel 1979 in
un cofanetto di sette LP, La tradizione in Campania, ormai
da lungo tempo esaurito.
La tradizione in Campania
09
Profili
Mondomix.com / ATTUALITà
Son sei sorelle ripropone quelle preziose registrazioni in
studio, con l’aggiunta di numerose altre effettuate sul
campo, raddoppiando di fatto la durata dell’edizione del
1979: “si tratta di nastri incisi proprio nel momento rituale
delle feste, magari privi di perfezione tecnica, ma ricchi di
una coralità dirompente, di una verità espressiva, di uno
spessore rituale, religioso, rappresentato al massimo”.
Ed effettivamente da questi CD emergono brani di rara
intensità, eseguiti da cantatori e suonatori che avevano
profonda conoscenza della loro tradizione, per averla
vissuta tutta una vita nel suo contesto originario, al di
fuori di qualsiasi intenzione spettacolare o tentazione
di protagonismo. Cantatori e suonatori il cui ruolo era
riconosciuto dalla comunità per l’altissimo livello che essi
avevano raggiunto: Antonio Torre, Giovanni Coffarelli, Rosa
Nocerino, Giulia Ciletti, per citarne solo alcuni. Musica
rurale, eseguita nei momenti e nei contesti prescritti e non
occasionalmente, secondo il capriccio dell’interprete. È
questo il segno dell’autenticità del canto, sigillo di verità di
un’emozione espressa tramite una ritualità e una sacralità
che purtroppo scompaiono con la morte di questi grandi
esecutori. Emozione e intensità che traspaiono anche dalle
splendide foto scattate da Mimmo Jodice, riportate sulla
copertina dei singoli CD e del volume.
MUSICA E TESTO
Son sei sorelle rovescia il consueto rapporto esistente in
questo tipo di pubblicazioni: di solito il centro del progetto
è il libro, “corredato” da uno o più dischi “illustrativi”. Qui
è l’esatto contrario: il testo è un prezioso commento alla
musica contenuta nei CD, vera protagonista di quest’opera
di De Simone. Il libro si apre con una sezione dedicata alla
descrizione degli strumenti, delle forme poetiche e delle
forme musicali esistenti in area campana, fornendo gli
elementi di base per un ascolto consapevole dei dischi. La
seconda sezione, che da sola costituisce il 90 % del testo,
è un’analisi approfondita dei singoli brani, con indicazione
di interpreti, data e luogo dell’incisione, seguita dalla
trascrizione e traduzione dei testi cantati. In un arco di
tempo che va dal 1973 al 2003, De Simone ha raccolto
testimonianze sonore in buona parte del territorio campano,
spaziando dai canti sul tamburo, ai lamenti funebri, dalle
fronne ai canti di lavoro, dalle tarantelle ai canti religiosi. In
appendice, quattro articoli che De Simone ha scritto per
il quotidiano Il Mattino, nei quali constata dolorosamente
la scomparsa di tradizioni che aveva documentato negli
anni ’70, come il pellegrinaggio a Montevergine, ma
scopre anche con entusiasmo il perdurare di altre, come
a Montemarano, dove la processione resiste, malgrado
tutto.
di Ciro De Rosa
Dopo aver esordito nel 2007 con Margot voupadançar,
album che ha riscosso ampi consensi di critica di settore,
soprattutto in Francia, le “trovatrici” del XXI secolo Paola
Lombardo e Valeria Benigni, attive come duo vocale
dal 2004, si riconfermano come una delle proposte più
significative di quel variegato universo sonoro che si
riconosce nella area culturale occitanica. Lo mau d‘amor è
frutto del loro incontro con il soffio dei sassofoni di Claudio
Carboni, pilastro di Banditaliana.
trobairitz
In lingua occitana trobairitz significa per l’appunto trovatrici.
Le due cantanti sono state ammaliate dalle gentildonne
poetesse d’epoca medievale che componevano nell’idioma
d’oc. Valeria, di formazione jazzistica, è divenuta la voce
degli alfieri della musica occitanica d’Italia Lou Dalfin,
Paola ha un lungo un percorso artistico di matrice folk.
Quest’ultima ci dice: “La lingua occitana è molto sonora,
con fonemi che sono veramente piacevoli da cantare. La
osserviamo e la studiamo, cercando di cogliere i colori e le
diversità delle varie parlate. Pur vivendo a Torino, ai piedi
delle valli occitane, abbiamo acquisito familiarità con una
lingua che non è quella natìa respirando l’atmosfera delle
valli e ascoltato i vinili di ricerca e riproposta di questo
repertorio”.
Le Trobairitz d’Oc non attingono al repertorio duecentesco
della grande poesia in lingua d’oc, matrice della tradizione
lirica dell’Europa moderna, ma riprendono materiali
trasversali, riconducibili agli ultimi due secoli, dalla
Linguadoca al Delfinato, fino alla piemontese Val Chisone.
In questo album, inoltre, si cimentano nella composizione
in lingua occitana, senz’altro una svolta rispetto all’esordio
costellato di brani tradizionali. “Per ora i nostri brani sono
legati al vissuto individuale, sia per la musica che per i
testi”, aggiunge Paola. “Le canzoni sono state scelte prima
di andare in studio, dove abbiamo apportato modifiche
se sentivamo la vocina che ci diceva: 'Magari suona
meglio così…!' Ricordo che il primo incontro con Claudio
è avvenuto a casa sua sull’Appennino, per l’occasione
avevamo portato un abbozzo del primo brano Colorin de
ròsa, un tradizionale che ci ha rapito quando lo abbiamo
ascoltato dalla voce di Rosina De Peira. Lui, che è un
entusiasta di natura, ha iniziato a buttare giù qualche nota
con il baritono. Le cose sono più o meno proseguite così
per gli altri brani... Per la maggior parte dei brani abbiamo
lavorato insieme, in alcuni casi invece chi aveva già in
mente l’architettura della canzone ha portato le parti”.
Se Claudio Carboni ha conosciuto la musica occitana
suonando con Patrick Vaillant e incontrato, tramite
Riccardo Tesi, il repertorio del gran cantore Jean-Marie
Carlotti, quali sono i punti di riferimento occitanici di Paola
e Valeria? “Per l’audacia e la fantasia ci hanno ispirato i
Lo Còr de la Plana, per l’innovazione nella tradizione i
Perlimpinpin Folk e Patrick Vaillant, per l’espressività e il
calore vocale Rosina e Martina De Peira”.
di affinità e di contrasti che sfocia in quella che veramente
io intendo per world music. Non scimmiotto gli strumenti
abituali di questa musica, ma cerco di inserire quella
che è la mia dialettica musicale nella poesia di queste
splendide melodie”. I sax soprano e baritono incrociano
superbamente la compattezza vocale delle due cantanti
che si avvalgono qua e là di percussioni e del battito delle
mani. Gli strumenti di Carboni sono ora rinforzo ritmico ora
terza voce, diventano controcanto o morbido appoggio
su cui ricamano le splendide ugole. Tutto ciò, mettendo
sempre al centro il suono d’insieme. Lasciamo ancora la
parola a Claudio: “Col baritono eseguo parti più ritmiche
e incalzanti, quasi come se fosse una batteria. Mi piace
utilizzare molto anche lo slap, così che non si senta la
mancanza di altri strumenti anche nei brani di maggior
groove. Col soprano diventiamo una sorta di trio vocale,
la voce del sax dialoga e contrasta con le voci e si prende
spesso la libertà di improvvisare”.
Le tracce
Le quattordici tracce iniziano con la già citata Colorina
de ròsa, dove il sax sottolinea il canto o agisce da
controcanto ritmico. Atmosfere morbide jazzate in La
cançon e la pluma, musicata da Valeria Benigni su testo
di Gael Princivalle. Nel tradizionale La famme d’un tambur,
storia del suonatore di tamburo che preferisce i piaceri
dell’osteria ai doveri familiari, le voci incalzanti trovano
sponda facile nel guizzo ritmico e nello slancio melodico
del sax. Si libra piacevole e leggiadro Lo mau d’amor,
distinto dalla solarità dei sassofoni che ora ornano le voci
ora si producono in terza voce. L’accompagnamento
lirico del pianoforte impreziosisce il canto trovadorico
Lo rossinhòu messatgier. Dopo il bel solo introduttivo di
Carboni parte La femna luerda, versione occitana della
Maria Giuana piemontese. Miton è un gustoso elogio
della zuppa di contadini e pastori fatta con latte e pane
raffermo del giorno prima. Si parla del timo serpillo dal
quale si produce un distillato, in Serpol, siglata da Paola
Lombardo su liriche di Sergio Berardo, dai passaggi vocali
che riprendono i modi del canto sardo. Sinfonia de Margòt
richiama il disco di debutto. Ancora gioco di incastri
sonori ne La masurca de Sant Andiòu, col sax di Claudio
che si ritaglia un gustoso assolo. I tamburi a cornice sono
protagonisti nella ninna nanna percussiva Minon-minauna
che profuma di Mediterraneo, mentre nella scottish L’aiga
de ròca il trio divide la scena con gli archi di Santa Vittoria,
protagonisti di sequenze bartokiane. Finale col tradizionale
A stacada d’brelh, dove il sax soprano oscilla tra sognante
impronta garbarekiana e valzer di sapore appenninico.
Dal duo al trio
Titolo Son sei sorelle.
Rituali e canti della tradizione in Campania
Etichetta Squilibri
Online www.squilibri.it
10 primavera 2011
Tra i pregi di Lo Mau d‘Amor, l’abilità che hanno i tre artisti
di interagire secondo modalità assolutamente inusitate.
Claudio Carboni ha raccolto la sfida con curiosità ed
entusiasmo: “Quello che ho cercato di fare è di plasmare
il mio linguaggio, adattandolo ai brani, creando un gioco
Titolo Lo mau d’amor
Etichetta Felmay / Egea
Online www.felmay.it
10 primavera 2011
10 11
Profili
Mondomix.com / ATTUALITà
Il folksinger in cerca
di forme poetiche
Intervista a Massimo Ferrante sul nuovo cd
Jamu: sonorità tradizionali del Sud Italia
di Antonello Lamanna
Ai due successi discografici U Ciucciu del 2005 e Ricùordi del 2006 ora si aggiunge Jamu il nuovo lavoro di Massimo
Ferrante distribuito dalla Felmay. Jamu in calabrese significa “andiamo” che rimanda in un certo senso a “come on”,
uno dei riff più famosi del blues di Chicago. Ferrante è un affermato musicista calabrese che vive a Napoli dagli anni
Settanta, e da allora ha assimilato tutto di questa terra: la sensibilità, la creatività, e la versatilità qualità con le quali è
riuscito ad appropriarsi di una cultura antica attraverso la sua anima popolare. Dodici brani incastonati tra due parti di
una nota poesia di Ignazio Buttitta, Lingua e dialettu, tramutata in canzone grazie all’arrangiamento e ai corposi interventi
strumentali di Antonello Paliotti. Il resto del disco si gusta brano dopo brano come un piacevole mosaico sonoro. Lo
abbiamo raggiunto telefonicamente mentre era impegnato in una delle sue presentazioni del nuovo disco.
Sei in piena tournée con tutta la band, come sta andando?
La tournée è già partita da un pezzo e sta andando molto
bene, se consideriamo che è iniziata questa estate. Le
tappe ora diminuiscono sia perchè in questo periodo vivo
a Napoli e quindi diventa tutto problematico, e sia perchè
in inverno la richiesta di live entra in una specie di letargo
stagionale. Nel disco ci sono molte collaborazioni artistiche
importanti come quelle con Antonello Paliotti, Lutte Berg,
Lello Petrarca, Enrico del Gaudio Angelo De Falco insieme
agli E Zezi. Attualmente, però, sto presentando Jamu con
delle riduzioni del gruppo: in duo, o trio, a seconda del
club in cui suono.
Ci puoi fare un esempio?
Mi riferisco a un recupero importante che ho voluto inserire
in questo disco: la Strina du judeo, un canto calabrese
tradizionale atipico proposto con un bel arrangiamento di
Lutte Berg alla chitarra elettrica, di Lello Petrarca al basso
e di Enrico Del Gaudio alla batteria. Le strine sono canti
augurali eseguiti durante il periodo natalizio, ma questa che
ho raccolto a Joggi (in provincia di Cosenza) si caratterizza
invece per i toni provocatori e caustici verso tutti, e in
particolare verso le istituzioni.
In Jamu c’è una sorta di sintesi della tua esperienza
artistica, come nasce l’idea di questo nuovo viaggio
nel Sud Italia, è nostalgia o voglia di scoprire altro?
Le mie ricerche sono sempre legate un po’ al territorio,
quindi prendo qualcosa dalla mia terra, dalla mia Calabria
dalla zona dell’Alto Cosentino, e poi ascolto molti
vecchi nastri e dischi introvabili che non hanno nessuna
distribuzione. È un materiale interessante, fonte non
esclusiva delle mie produzioni musicali.
Quando si crea un nuovo lavoro, si pensa sempre ad una
struttura, e la mia idea è stata quella di un viaggio nei
repertori musicali poco esplorati, un viaggio intimo nei suoni
e nelle storie di un’Italia che rischia di essere dimenticata, e
dove un patrimonio culturale molto vasto rischia di essere
sminuito e snaturato. Creare per me significa appunto
ascoltare la propria sensibilità e lasciarsene guidare. Jamu
è un progetto basato su un attento e accurato lavoro di
recupero e rielaborazione di brani editi ed inediti in vario
modo reperiti, in cui metto in evidenza la ricerca di un
equilibrio fra tradizione e modernità.
So che stai lavorando ad un interessante progetto, di
che si tratta?
Si, ci sto lavorando da diverso tempo. Dopo gli impegni
per la tournée del disco in Italia, vorrei dedicarmi a formare
una corposa band popolare di fiati, zampogne, tamburelli,
per presentarla all’estero.
10 primavera 2011
In tutti i tuoi dischi, e soprattutto in questo, si nota la
ricerca di forme musicali originali e poco conosciute,
come mai questa scelta?
É una battaglia che combatto da molti anni. Diffido molto e
ho sempre mantenuto una certa distanza da certe tendenze
modaiole che si consumano velocemente e che offuscano
il vero patrimonio musicale tradizionale. Mi interessano
le forme dei dialetti calabresi e i diversi aspetti legati alle
minoranze linguistiche che fanno parte della nostra identità
culturale. Non inseguo mode, ma tento di far emergere
forme musicali poco conosciute. Nel Sud non ci sono solo
le tarantelle, le tammurriate e le pizziche.
Titolo Jamu
Etichetta Felmay / Egea
Online www.felmay.it
10 primavera 2011
12 13
Profili
Mondomix.com / MUSICA
Martin Carthy
Il re del folk inglese
di Giancarlo Susanna
Il secondo folk revival inglese, letteralmente esploso nella
seconda metà degli anni ’60, ha dimostrato come non solo
fosse possibile riprendere la tradizione in modo corretto e
credibile, ma anche scrivere canzoni nuove usando quel
linguaggio poetico e musicale. Forse qualche intellettuale
conservatore considerò con sufficienza cantautori come
Nick Drake, John Martyn, Allan Taylor e Sandy Denny o
gruppi come i Pentangle e i Fairport Convention, ma quello
che questi giovani musicisti facevano non era poi così
distante dal lavoro prezioso del grande (e severo) padre del
folk revival britannico Ewan MaColl, che nel 1973 aveva
vinto il prestigioso premio Ivor Novello con la sua The
First Time I Ever Saw Your Face. È quasi inutile ricordare
quanto fosse difficile in quegli anni seguire tutto quel che
accadeva oltremanica, ma il fascino di certi dischi – da
Liege & Lief dei Fairport a Basket of Light dei Pentangle,
per citarne appena un paio - era troppo forte per chi aveva
avuto l’occasione di scoprirli.
la scoperta
Il primo album di Martin Carthy che acquistai è un’antologia
della serie This is… della Philips. Si intitola The Bonny
Black Hare and Other Songs e sulla copertina c’è un bel
disegno della bella lepre nera protagonista dell’omonima
canzone. Lo trovai nel ‘74 nell’unico negozio romano che
all’epoca aveva dischi d’importazione. Qualche mese
dopo partii per il mio primo viaggio a Londra e fu all’ombra
della Roundhouse, a Camden, in uno dei tanti club che
all’epoca richiamavano piccole schiere di appassionati,
che assistetti a un suo concerto. Carthy era già una
star del folk revival. Famoso per una lunga e brillante
collaborazione con il violinista Dave Swarbrick e per la
sua decisiva presenza nei primi Steeleye Span, aveva la
dote più importante dei performer solitari: il carisma. Fu
preceduto dai “residents” del club e tenne un concerto
bellissimo. Mi colpì non solo per la voce e per lo stile
chitarristico, ma anche perché utilizzò un diapason per
accordare la sua Martin e per prendere l’intonazione giusta
nei pezzi solo vocali. In Italia non avevo mai visto e sentito
niente del genere. Noi non avevamo nessuno che fosse in
grado di riproporre la tradizione in un modo tanto efficace.
Due anni dopo lo rividi, sempre a Londra: la serata fu
aperta come consuetudine dai “residents”, ma prima del
set di Carthy cantarono anche i Watersons, il quartetto
solo vocale formato da Mike Waterson e dalle sue sorelle
Lal e Norma, cui si aggiunse, al posto di John Harrison, lo
stesso Carthy.
Enrique Morente
l’ultimo profeta flamenco
Scomparso all’età di 67 anni uno dei massimi esponenti
della canzone andalusa
di David Valderrama
i fenomenali Brass Monkey (insieme a John Kirkpatrick) e
i Waterson Carthy (essenzialmente un trio con la moglie
Norma Waterson e la figlia Eliza Carthy), Martin ha lasciato
un segno indelebile nel “suono” inglese.
Già ai tempi del duo con Swarbrick e dei suoi dischi da
solo – Carthy è un chitarrista dallo stile inconfondibile,
percussivo ed essenziale – la sua musica aveva influenzato
personaggi immensamente più noti di lui come Bob Dylan
e Paul Simon. Con quest’ultimo, che si era appropriato
senza mai dichiararlo dell’arrangiamento di Scarborough
Fair, ha avuto una controversia durata decenni e conclusa
con una rappacificazione solo in tempi recenti. Nominato
dalla Regina Elisabetta “Member of the British Empire”,
Martin Carthy è giustamente considerato come uno dei più
importanti e influenti folksinger della sua generazione.
Online www.watersoncarthy.com
Martin Carthy
Signs of Life
Topic, 1998
Waterson Carthy
Common Tongue
Topic, 1997
La carriera
Nato il 21 maggio del 1941 a Hatfield, nell’Hertfordshire,
Carthy cominciò a coltivare il suo amore per la musica
cantando nel coro della scuola e studiando pianoforte e
trombone. Come molti giovani inglesi (compresi i Beatles),
Carthy fu contagiato dalla moda dello skiffle e mentre
lavorava come stage manager per alcune compagnie
teatrali fece le sue prime esperienze come chitarrista nei
club dell’area di Londra. Fu un concerto di Sam Larner,
un anziano pescatore e folksinger di Norfolk, a spingerlo
verso il revival. Da allora la sua vicenda artistica non ha
conosciuto soste.
Con i Thameside Four e in duo con il prodigioso Dave
Swarbrick, con gli Steeleye Span (in cui suonava anche la
chitarra elettrica) e la Albion Country Band, con i Watersons,
10 primavera 2011
Brass Monkey
Sound & Rumour
Topic, 1998
Martin Carthy
The Carthy Chronicles
Box antologico di 4 cd, Free Reed, 2001
Il giorno di Natale avrebbe compiuto sessantotto anni
ma il destino ha voluto che la vita del cantante flamenco
Enrique Morente si fermasse prima. Alla notizia della sua
scomparsa, lo scorso tredici dicembre, una profonda
commozione ha attraversato in lungo e in largo la Penisola
Iberica. Basti leggere i titoli dei principali quotidiani
spagnoli: l’ultimo poeta flamenco titolava El Mundo, morte
di uno sciamano per El Pais, o il cantante che rinnovò il
flamenco per il quotidiano Publico. Ma è a Granada che il
tributo popolare al suo illustre cittadino è diventato pianto
collettivo con oltre seimila persone accorse alla camera
ardente in un susseguirsi di amici, di vicini di casa, di
parenti e di colleghi di una vita andati a salutare per l’ultima
volta il maestro. Quando la figlia Estrella, su versi di Lorca,
ha intonato l’ultimo saluto recitando Il pianto della chitarra,
un brivido ha scosso l’intera sala.
L'apprendistato
La sua storia artistica ha inizio presto, quando appena
quindicenne viaggia a Madrid facendo da apripista a
tanti altri artisti, da Camaron a Paco de Lucia, alle sorelle
Utrera, soltanto per citarne alcuni. Nel fermento musicale
e artistico della capitale Enrique muoverà i primi passi da
interprete e conoscerà i maestri del tempo Don Antonio
Chacón e Pepe de la Matrona.
Più ancora delle sue innate qualità, del registro vocale
e della capacità di affinare il canto, sarà la curiosità e il
desiderio di imparare e di esplorare nuove strade a offrire
la chiave del successo al cantante granadino. A differenza
della spontanea e vulcanica bravura di Camaron, Enrique
Morente sarà sempre un artista dedito alla ricerca e al
perfezionamento quasi maniacale della propria opera.
Il Successo
Il successo non tarda ad arrivare. Già nel 1964 viaggia a
New York e Washington, l’anno successivo è in tournée
europea; ingaggiato presso i prestigiosi tablaos Zambra
e Caffé de Chinitas si guadagna l’ammirazione di un
pubblico esperto ed esigente. Con il primo premio al
Festival di Malaga e la pubblicazione del primo album,
Cante flamenco, arriva anche la notorietà al grande
pubblico. Gli anni successivi saranno caratterizzati dal
sodalizio musicale con il chitarrista Manolo Sanlucar che
gli consentirà di qualificare maggiormente la propria opera
e lo porterà a concepire ambiziosi spettacoli dal vivo
come Andalucia hoy nel 1981 o il monumentale El loco
romantico basato sul Chisciotte de la Mancha presentato
a Granada nel 1988. Gli anni novanta si apriranno con
la pubblicazione di Misa flamenca, prima di una serie di
opere dedicate al conterraneo Federico Garcia Lorca.
il maestro
Insieme ai tanti successi personali non va dimenticato
il grande impegno profuso dall’artista in favore della
diffusione del flamenco a livello internazionale e del
sostegno ai giovani talenti. La sua naturale curiosità l’ha
condotto a esplorare e spingere il flamenco dove nessuno
aveva mai osato. E l’ha fatto non per compiacere se stesso
ma perché convinto e della versatilità e della necessità
di aggiornare il flamenco al proprio tempo. Ad esempio,
Morente è arrivato a tentare esperimenti stravaganti come
suonare con la rock band underground dei Sonic Youth o a
promuovere incontri con musicisti africani e latinoamericani.
D’altronde, al costante impegno per la ricerca artistica ha
sempre affiancato una forte propensione alla ribellione. In
un’occasione andò a cantare a Parigi nella sede dell’allora
esiliato partito comunista spagnolo, anni dopo accettò di
cantare di fronte al re Juan Carlos e gli dedicò una canzone
repubblicana.
L’ultima intervista rilasciata al settimanale Vanity Fair, poco
prima di morire, è un commuovente ritratto di Enrique e
di sua figlia, la cantante Estrella Morente, vera erede del
cantante andaluso. La morte di Enrique Morente giunge
a meno di un mese dal riconoscimento del flamenco,
da parte dell’UNESCO, quale Patrimonio Culturale
Immateriale dell’Umanità. Un bel congedo per un artista
che a quest’arte ha dedicato la vita.
Online www.enriquemorente.com
Cante flamenco
Hispavox
Omega
Acqua
Homaje a D. Antonio Chacon
Emi
10 primavera 2011
14 Guida
di Emanuele Enria
minima
a l Ta n g o Ta n g h i a r i t r o s o
È la vita condensata in tre minuti. C’è chi lo racconta così
un tango. Una interpretazione estetica della vita, direbbe il
poeta Horacio Ferrer, magazzino in cui si sono accumulati,
in azzardoso e tumultuoso stivaggio, esseri umani, stili di
vita, modi d’amare un dio o un altro, modi di fare il pane,
l’amore, il commercio e le case.
origini
Nato pellegrino tra le rive del Rio de la Plata, mescolando
nella sua ibridazione, figlia dell’immigrazione di fine
Ottocento in Sud America, la voce italiana, spagnola,
tedesca, ebrea, polacca (e qui non si può non prestare
subito orecchio alla voce rauca e inconfondibile di Roberto
Goyeneche accompagnata dal bandoneon di Annibal
Troilo) all’Africa degli schiavi presenti soprattutto in
Uruguay. È la sua stessa parola a dircelo: tango, come il
battito delle percussioni, come il suono del tamburo (tangò
venivano chiamati) nel candombe, come il luogo in cui
danzavano su questi ritmi (Tangò), fino al nome del Dio
Xangó, il Dio guerriero secondo il culto afroamericano degli
Orixa. Senza tralasciare il tango andaluz. Sarà Juan Carlos
Caceres a rievocare mirabilmente nel suo Tango Negro del
2003 questa parte negra del tango, ricercandone il suono
che facevano i tre tamburi, tambor piano, tambor chico,
tambor repique: borocotò-borocotò-borocotò-chaschás.
Candombe che diventa milonga, milonga che si tuffa
dentro il più ampio universo che oggi chiamiamo tango, tra
generi, stili, nuovi meticciaggi.
Il Bandoneon
I suoi albori con la voce dei payadores, i cantastorie,
accompagnati da chitarra, flauto e violino. Il viaggio di uno
strumento come il bandoneon, creato in Germania intorno
al 1835, ad opera probabilmente di un tale Heinrich Band,
per sostituire l’organo delle chiese di campagna, che
finisce invece nella Pampa, trasportato forse per la prima
volta da un marinaio brasiliano di nome Bartolo, forse da
un inglese di nome Moore o semplicemente venduto da un
immigrato tedesco in una balera. Storie dentro una storia
che fanno capire perché oggi tango sono anche le parole
di Paolo Conte, innamorato di queste cavalcate mitiche tra
il caso, il nome di un perfetto sconosciuto e gli afrori di un
luogo. È quella sua massima: “Così come la lucertola è il
riassunto del coccodrillo, il tango è il riassunto della vita”.
La solitudine della Pampa, i quartieri di Buenos Aires,
Montevideo danno a uno strumento nato in Germania,
il bandoneon, la giusta tonalità. Come se il canto
dell’Europa, ormai imbalsamato nelle sue macerie, avesse
avuto bisogno di partire ancora una volta per cantare la
sua nostalgia, che oggi non è più soltanto “un pensiero
triste che si balla” come lo definiva il più sublime paroliere
del tango, Enrique Santos Discepolo, ma è anche, e di
nuovo, ritmo, gioia, sensualità, danza nell’apertura delle
sue sfumature, dei luoghi in cui il tango si ferma: Giappone
o Turchia, Inghilterra come Finlandia. E dei generi con cui
si incontra.
(bandoneones, violini, pianoforte, contrabbasso) che
appare dai primi decenni del ’900 in poi e tocca la sua
epoca d’oro negli Anni Trenta Quaranta: quella di Osvaldo
Fresedo (e quella chicca che è la versione di Vida mia con
Dizzy Gillespie alla tromba), Juan D’Arienzo, Rodolfo
Biagi, Francisco Canaro, fino a quegli autentici giganti
che sono Annibal Troilo, non a caso maestro anche di
Piazzola, Osvaldo Pugliese e Carlos Di Sarli. Senza
tralasciare l'armonica di Hugo Diaz.
Difficile davvero fare una scelta dentro a un repertorio
OSVALDO PUGLIESE
From Argentina to the world
Emi
Il pianista Osvaldo Pugliese ci porta
con la sua orchestra a toccare
le vertigini della sua epressività
poliritmica.
Cambi
di
tempo,
impetuose accelerazioni, pause come
respiri. Un capolavoro assoluto
FRANCISCO CANARO
Poema
Suramusic
Musicista autodidatta, nato dal
nulla, ha sofferto molto riuscendo
poi a giungere alla vetta con una
produzione quasi sconfinata. È
considerato uno dei capisaldi della
tradizione, con un’orchestra che
arriva a superare i 50 elementi.
Per questo è da salutare con gioia l’uscita del libro di
Elisa Guzzo Vaccarino, Il tango, edito da L’Epos, che
riesce finalmente a leggerne, grazie alla sua enorme
competenza come critico di danza, ballerina lei stessa di
tango, la complessità contemporanea, fornendo quei punti
di contatto che ancora mancavano per capire come entri
anche in un balletto di Bejart, di Pina Bausch, nella musica
elettronica così come nella psicanalisi.
Gli anni Venti Trenta sono legati alla voce di Carlos Gardel,
l’usignolo del tango, che incide alcuni dei brani più celebri
della storia del tango, come Volver, Mi Buenos Aires
Querido, dando alla sua voce quel qualcosa che Horacio
Ferrer paragona al chamuyo, termine lunfardo che indica il
corteggiamento con le parole.
Si contano qualcosa come millesettecento autori e
centomila registrazioni, di cui settantamila realizzate
tra il 1902 e il 1995, prima dell’era digitale. Il rischio
è che molte di queste vadano perdute: per questo il
musicista e compositore Ignacio Varchuasky ha costituito
l’associazione Tango Via (www.tangovia.org) con cui le
trasferisce da disco in formato digitale contattando i vari
collezionisti e possessori.
Se in Europa dici tango, si pensa subito al genio di Astor
Piazzola, mentre c’è invece tutto un ascolto da percorrere
tra le grandi orchestre, elaborazione del sexteto tipico
così vasto. Ringrazio Dario Moffa e
la sua associazione Essentia (www.
tangosensibile.it/chi_siamo.php),
che propone interessantissimi corsi
di tango e ascolto della musica, per
aver accettato di “giocare” con me a
comporre questa selezione. Da abbinare
alla lettura di:
Elisa Guzzo Vaccarino, Il tango,
L’Epos, Palermo, 2010
ANNIBAL TROILO
Yo soy el tango
BMG
ANNIBAL TROILO PICHUCO
ROBERTO GOYENECHE
El gordo y el polaco
DBN
Il bandoneon per eccellenza, quello di Annibal Troilo,
detto el Pichuco, forse il musicista che più di tutti ha
saputo far uscire da questo strumento quell’inconfondibile
lamento, come recita uno dei tanghi più celebri, Quejas
de bandoneon. Da ascoltare sia con la sua orchestra che
mentre accompagna la voce grumosa e sotterranea di
Roberto Goyeneche.
CARLOS DI SARLI
100 años
RCA Victor
La pura eleganza di un’orchestra
come questa, tra ritmo e melodia,
regala le più belle versioni di Bahia
Blanca, Don Juan, Verdemar
HUGO DIAZ
Tangos
Acqua Records
L’armonica di Hugo Diaz che
reinterpreta i più celebri tanghi di
Gardel, da Volver a Arrabal amargo,
Melodia de arrabal, Por una
cabeza. Accompagnata da piano,
contrabbasso e chitarra è una
musica che sorprende chiunque ancora non lo conosca.
JUAN D'ARIENZO
Instrumental Vol. 1
BMG
Scoppiettante. Era bellissimo da
vedere mentre dirigeva come un
indemoniato il coro di bandoneon
della sua orchestra. Da ballare,
camminare, una musica che marca
il passo con precisione millimetrica
ASTOR PIAZZOLLA
Libertango
Gold collection
Una carrelata da brivido dei classici
piazzoliani. Da Fuga y mysterio,
Adiós Nonino a Jeanne y Paul, uno
dei pezzi più belli in assoluto del
genio di Piazzola.
OSVALDO FRESEDO
Rendezvous porteno
Acqua Records
Uno dei grandi maestri della prima
generazione, riconoscibile per un
suono allegro, ritmato, nel suo
incontro con la tromba di Dizzy
Gillespie. Una versione di Vida mia
che rimarrà in eterno.
JUAN CARLOS CACERES
Tocá Tango
Discos CNR
Il viaggio che compie Caceres da
anni verso le radici africane del
tango arriva qui a toccare la parte
più nera del suo lavoro, grazie
all’attenzione che dedica alla parte
ritmica. Non a caso il titolo prende
spunto dai tamburi del candombe.
Il tango
10 primavera 2011
15
Tango
Mondomix.com / MUSICA
10 primavera 2011
16 17
Tango
Mondomix.com / MUSICA
Wilfried Krüger
I tanghi di Pina
Un piccolo viaggio tra le musiche degli
spettacoli di Pina Bausch e il suo
W u p p e r t a l e r Ta n z t h e a t e r
di Emanuele Enria
AA VV
The Tango Lesson
Sony Classical
Un modo facile per avere un piccolo
riassunto di alcuni dei più bei tanghi da
ballare ed ascoltare. Colonna sonora del
film Lezioni di Tango di Sally Potter, regala all’ascolto il
valzer Amor y celos di D’Arienzo, la Yumba di Pugliese,
Quejas de bandoneón di Troilo e molto altro.
ASTOR PIAZZOLLA / HORACIO FERRER
Edición crítica: en persona
RCA Victor
La poesia di Horacio Ferrer recitata dallo
stesso e accompagnata dal bandoneon
di Astor Piazzolla. Poesia per le orecchie
e il cuore, oltre che una lezione di musicalità tra voce e
strumento.
AA VV
Sulle rive del tango
Microcosmodischi
Una compilation composta di tanghi per
così dire “involontari”. Il disco è un viaggio
che inizia da Napoli e tocca le sponde
dell’America Latina, Sicilia, Sardegna, dei Balcani, ma è
capace di trovare spunti anche in Norvegia e in Polonia.
Un viaggio che racchiude esperienze e generi musicali
molto diversi tra loro.
RICARDO TANTURI Y SU ORQUESTA TÍPICA
Tangos de mi ciudad
BMG
Pianista, direttore e compositore, la
produzione di Tanturi è sempre associata
ai suoi cantanti, in questo caso la voce
di Alberto Castello. Una piacevolissima carrellata di
tanghi, milonghe e vals da parte di uno dei maestri della
tradizione.
ASTOR PIAZZOLLA / GERRY MULLIGAN
Reuníon cumbre
Music Hall
Il connubio tra Astor Piazzolla e Gerry
Mulligan è quanto di più straordinario
potesse produrre l’incontro tra due generi
musicali: tango e jazz. Ne nasce una musica che affonda,
all’interno di due voci così importanti come quella del
bandoneon e del sax baritono, il tango dentro il ritmo
sincopato del jazz, senza tralasciare gli impeti sonori di
uno Stravinskij
10 primavera 2011
RODOLFO BIAGI
La Orquesta Y Sus Cantores
Emi
Un altro maestro della tradizione. La
semplicità delle melodie al suo massimo
livello, meravigliosi sono i suoi vals.
Inconfondibile il suo piano che dialoga con l’orchestra, un
vero ballo tra gli strumenti.
ENRIQUE RODRIGUEZ
Tangos con Armando Moreno
Emi
Ha una grandissima produzione. Quella con
Armando Moreno sembra rappresentare
al meglio il suo timbro, la sua sonorità,
un’orchestra all’unisono incentrata sulla melodia degli
strumenti e la voce del cantante.
GOTAN PROJECT
La revancha del Tango
XL,
Inutile negarlo. C’è un prima e dopo Gotan
Project. Un autentico rinnovamento del
tango attraverso la musica elettronica
attuata da un gruppo di musicisti, quasi
tutti residenti a Parigi, che ha dimostrato che si poteva
riesplorare l’intero repertorio del tango e le sue radici con
un linguaggio nuovo.
DANIEL MELINGO
Santa Milonga
Mañana
Inconfondibile la voce di Melingo. Il suo
Narigon è una delle milonghe più eccitanti,
africane, suburbane. Ma è tutto l’album
a disegnare una perfetta ricerca tra la
sonorità urbana, il ritmo africano e l’uso del lunfardo nel
cantato.
TITA MERELLO
Milongón Porteño, da Grandes del Tango 40
Pattaya
Una delle figure femmili più importanti
e rappresentative dei primi decenni del
Novecento (che ha vissuto fino in fondo,
essendo morta solo nei primi anni del Duemila) a Buenos
Aires. Attrice e cantante, la sua è un’interpretazione quasi
giocosa, gorgheggiante, di tanghi in cui c’è sempre chi
scappa, si lamenta o si vanta. Come nella milonga Se
dice de mi, dove per una volta a giocare la parte dello
“spaccone” è una donna.
Il metodo
Dopo i primi lavori ancora legati al linguaggio della danza
tradizionale (e comunque già straordinari), con una musica
che ha una storia da raccontare (Ifigenia in Tauride, Orfeo
ed Euridice, le Sacre du Printemps) svilupperà, dal 77’ in
poi, il suo celebre metodo di improvvisazioni che nascono
da domande, tante domande, evocazioni, che ad ogni
nuova creazione, pone ai suoi ballerini: di che cosa hai
paura? Che cos’è la primavera? Tenerezza. Presentati.
Cosa fai quando ti piace qualcuno? A cui ogni ballerino
risponde con parole e gesti, consegnando parte del suo
vissuto personale a Pina. Solo lei sa dove vuole arrivare
ogni volta. “...Le domande che poniamo ci conducono
a esperienze che sono molto più antiche, che non
appartengono soltanto alla nostra cultura e al qui e ora. È
come se ritornasse a noi una conoscenza che da sempre
ci appartiene, ma della quale non siamo più consapevoli
e contemporanei. Ci fa ricordare qualcosa che è comune
a tutti noi”. La musica è parte di questa scatola magica,
deve evocare paesaggi, sentimenti, stati d’animo. Non è la
stessa dall’inizio delle prove fino allo spettacolo compiuto,
ma va componendosi pian piano, per assemblaggio,
montaggio, estrazione di tutto il materiale sonoro che è
stato raccolto. Questo significa che i ballerini non provano
su una musica già stabilita, ma che musica e danza sono
come due compagni che si cercano e si scoprono nel
tempo della creazione.
Un pò di tango
Dentro questa ampissima scelta, mi piace ricordare
quanto il tango sia stato un “luogo” preferenziale (a cui
ha anche dedicato un intero spettacolo, Bandoneon)
in cui Pina Bausch ha esplorato la possibilità di incontro
tra individui, tra uomo e donna, attraverso un codice
di gesti, camminate, abbracci. Nel 1978 porta in scena
Kontakthof, un lavoro che riproporrà poi nella versione
con intepreti di età over 60 e in una terza versione con
ragazzi sotto i 18 anni, documentata poeticamente nel
recente documentario Les reves dansant di Anne Linsel
et Rainer Hoffmann (e a breve da un lavoro più ampio di
Wim Wenders). Rimangono, come in un film di Fellini, quei
motivetti di tutto lo spettacolo. La melanconica melodia
estratta dal film il Terzo Uomo di Carol Reed e composta
da Anton Karas, suonatore di zither. O i tanghi tedeschi
di Juan Llosas, come Oh, Fräulein Grete, Blonde Claire...
Ascoltandoli, sembrerà di entrare sempre in quel mondo
che ci ha regalato Pina Bausch, dove anche una semplice
carezza è già danza.
un incontro
Mi è sembrato doveroso rendere un piccolo omaggio a Pina
Bausch andando ad incontrare Matthias Burkert e Andreas
Eisenschneider durante il passaggio del Wuppertaler
Tanztheater a Montecarlo, nel mese di dicembre, mentre
riportava in scena Cafè Muller, creato nel lontano 1978,
il solo dove Pina Bausch abbia anche danzato, e Le
Sacre du Printemps. Sono loro i volti che hanno dato ad
ogni spettacolo le musiche: un lavoro da antropologo,
musicologo, artigiano, artista. Un autentico viaggio nelle
musiche del mondo, soprattutto da quando la compagnia ha
iniziato a lavorare su invito nei vari paesi, creando spettacoli
ispirati ai luoghi: come Viktor a Roma, Palermo Palermo,
Wiesenland all’Ungheria, Masurca Fogo a Lisbona, Agua
al Brasile, Nefés alla Turchia, e ancora.
Angelos Giotopoulos
E non vi fossero bastati…
Uno dei primi giorni di luglio del 2009 Pina Bausch se ne
è andata all’improvviso. La sua compagnia, il Wuppertaler
Tanztheater, silenziosamente preparata a quel momento,
ha continuato con grande amore e coraggio a portare in
giro per il mondo l’universo bauschiano: “..Certe cose si
possono dire con le parole, altre con i movimenti. Ma ci
sono anche dei momenti in cui si rimane senza parole,
completamente perduti e disorientati, non si sa più che
fare. A questo punta comincia la danza, e per motivi del
tutto diversi dalla vanità… Si deve trovare un linguaggio
– con parole, con immagini, movimenti, atmosfere – che
faccia intuire qualcosa che esiste in noi da sempre”, aveva
detto la stessa Pina Bausch durante il discorso per la
laurea ad honorem assegnatale dall’Università di Bologna
nel 1999.
Online www.pina-bausch.de/en/index.php
www.juanllossas.de/Discher%20CD1.htm
10 primavera 2011
18 19
Mondomix.com / MUSICA
No Me Rompas
Las Bolas
Ta n g o N e g r o Tr i o
di Gian Franco Grilli
"Borocotó, borocotó, chas chas,… Tango negro, tango
negro,
los tambores no suenan más,… los gringos fueron
cambiando tu manera de bailar". In questi versi ritmati
di Tango Negro, brano lievemente ritoccato per il nuovo
album No Me Rompas Las Bolas, c’è tutta l’essenza e
l’estetica dell’audace ed eretico progetto del poliedrico
Juan Carlos Cáceres, pianista, trombonista, compositore,
cantautore e leader del Tango Negro Trio che punta:
primo, a dimostrare la facciata invisibile del tango, quella
nera, dimenticata, con il tambor africano in cattedra
(omaggiato anche in Suena el tambor e Toca tango,
tracce 1 e 13) scomparso, assieme ad altri elementi con
l’estinzione della popolazione afroargentina, e sostituito
da tonalità e timbriche occidentali (dei gringos = europei)
come recitano i versi suddetti; secondo, a valorizzare altri
protagonisti della regione rioplatense, tra Buenos Aires e
Montevideo, come murga, candombe, milonga, habanera,
musiche europee e il rapporto che intercorre con le altre
espressioni popolari afro-americane.
il tango negro
Il terzo CD appena pubblicato – davvero dirompente, fin
dal titolo, a quattro anni di distanza da La Vuelta del Malon
e a sei da Tango Negro Trio - colpisce più che mai il centro
del bersaglio estetico che l’artista argentino, residente a
Parigi dal 1968, va ricercando da molto tempo. E stavolta
il maestro Cáceres scuote sia i tangueros più ortodossi, sia
la moltitudine di semplici appassionati o musicisti (tra cui
anche tanti cultori di sound latino, credetemi), gente che
non aveva mai saputo di altre verità o conoscenze sul tango
oltre quelle imperanti e inossidabili ricevute attraverso il
mito di Carlos Gardel, Osvaldo Pugliese, il nuevo tango
del bandoneonista Astor Piazzolla, quello elettronico dei
Gotan Project, eccetera. Così il tango, che un tempo parlò
e ritmò mandinga, congo e mina, l’indomabile e combattivo
cantautore - oltre che jazzista - porteño lo fa nuovamente
rivivere in queste quindici coinvolgenti tracce mediante
l’originale racconto storico-sociale, cantato e musicato
in chiave milonguera (il punto di partenza dei suoi viaggi)
e incrociato con altri linguaggi. Una specie di itinerario
sonoro camaleontico, in cui è facile perdersi perché l’opera
si trasforma di continuo, assorbendo le diverse modalità
ritmico-melodico-armoniche imbarcate lungo la infinita
navigazione del Tango Negro Trio, che arriva a toccare le
foci caraibiche dova sbocca il Mississippi con le tinte jazz
del trombone di Cáceres intersecate dall’accordeon nella
malinconica Camila (tr.11).
di No Me Rompas Las Bolas. Un disco che suona diverso
da quelli precedenti, che miscela con equilibrio il sound
serioso del tango con l’allegria caraibica, in modo marcato
e in modo sorprendente per il sabor gioioso di Girotto (di
solito il suo linguaggio è più triste, ma stupendo) con la
vibrante voce del sax baritono che contrappunta il canto
nel cadenzato calypso-son di Que Milonga mi amor (tr. 6).
latin jazz
Che dire ancora, che il timoniere Cáceres va avanti con la
forza di un fiume in piena che a mio avviso lo porta dritto
e in modo deciso nel comparto molto variegato del jazz
latino, e in cui i progetti di Tango Negro Trio meritano di
stare e per le ragioni poc’anzi descritte, e per le strutture
jazzistiche disegnate dal piano del leader, e per le articolate
spirali e i ricami dell’inconfondibile sassofonista Javier
Girotto, e per il solido groove del multipercussionista
uruguaiano Marcelo Russillo e del bassista Carlos “el tero”
Buschini, binomio fisso della band che si destreggia alla
grande tra le più diverse sonorità del mondo. Un esempio,
tra i tanti, che tutti possiamo ascoltare qui, è il raffinato
incastro ritmico creato con due diversi disegni di cascara
(tipico della rumba), volta a sollecitare l’elegante piano e a
stimolare la narrazione vocale che guida Sudacas (tr.10),
composizione dedicata agli argentini, cileni e uruguaiani
esiliati in Spagna (ma non solo) negli anni Settanta, quando
il “Sudamerica era triste e stava piangendo”.
Per concludere. Alla realizzazione di questo album hanno
contribuito numerosi ospiti di ottimo livello, tra i quali, oltre
al già citato Javier Girotto, l’eccellente improvvisatore e
bandoneonista David Pecetto e l’ex rocker, polistrumentista,
Daniel Melingo, oggi considerato il moderno ambasciatore
del tango-canción con vocalità che scende tra i registri più
profondi, virile, un artista che ricorda un po’ Tom Waits e
Nick Cave.
Unico neo di questo affascinante disco (altrimenti
sarebbe perfetto) è la mancanza di un booklet, con i testi
e qualche dettaglio informativo in più, sul tango negro e
sulla distribuzione degli strumenti impiegati nei vari pezzi.
La completezza ci aiuta a saperne di più su sonorità che
meritano di essere riscattate, e che speriamo altri giovani
sappiano poi continuare le ricerche dell’ultrasettantenne
pianista e cantante argentino che piace a buona parte del
pubblico nostrano per la somiglianza con Paolo Conte, ma
se la mettiamo così ogni tanto spunta anche il Bongusto
che fa Fred!
Daniel Melingo courtesy Mañana
recorded at
4ur studio - Angera Italy by Davide Primiceri
Orfeo studio - Buenos Aires, Argentina by Edgar Gonzales
mixed & mastered at
R&R studio - Civitavecchia Italy by Max Rosati
supervision by Hideto panchito Nishimura
cover image Juan Carlos Caceres
photos Francesco Truono
produced by Tango Negro Trio & Ass. Cult. Musica dei Popoli
JUAN CARLOS CACERES piano, voice, trombon
MARCELO RUSSILLO drums, percussion
CARLOS el tero BUSCHINI bass
feat
Javier Girotto sax
David Pecetto bandoneon, accordeon
Olivier Manoury accordina
Alejandro Caraballo bombo murguero
Martin Bruhn cajon
Natalio Mangalavite choir
fy 8175
Tango Negro Trio
No Me Rompas Las Bolas
feat
Javier Girotto
David Pecetto
Olivier Manoury
Alejandro Caraballo
Martin Bruhn
Natalio Mangalavite
special guest
15 Plaza de Mayo
4.10
DANIEL MELINGO
Felmay
•roncaglia
strada
16
• 15033
san germano AL • italy
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• strada
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16 • 16
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• AL
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• strada
16•roncaglia
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sangermano
germano
AL• italy
• italy
0142fax
50577
fax50780
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ph.ph.
+39 +39
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Felmay • strada roncaglia 16 • 15033 san germano AL • italy
FELMAY
FELMAY
FELMAY
FELMAY
FELMAY
FELMAY
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+39
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50780
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P Felmay 2009
P Felmay 2009
PP Felmay
Felmay 2009
2011
P Felmay 2009
P Felmay 2009
All tracks Buschini / Caceres
except 9,10,11,12,13 Caceres; 8,15 Buschini; 14 Maciel / Blomberg
fy 8175
Tango Negro Trio
bonus track
JUAN CARLOS CACERES
MARCELO RUSSILLO
CARLOS el tero BUSCHINI
Tango Negro Trio
No Me Rompas Las Bolas
No Me Rompas Las Bolas
10 primavera 2011
8175 digipack.indd 1
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FELMAY
FELMAY
FELMAY
3.53
4.05
4.43
3.15
4.24
3.48
4.15
2.20
3.50
3.30
4.29
3.06
2.51
2.46
Titolo No Me Rompas Las Bolas
Etichetta Felmay / Egea
Online www.felmay.it
contact for Asia
NPO Tiempo Iberoamericano Japan
ph 81-92-762-4100 fax 81-92-762-4104
[email protected] www.tiempo.jp
P Felmay 2009
booking europe
www.cultureworks.at
+ 43 - 664 -5132367
+43 - 1- 5223522
Suena el tambor
Mandinga milonga
No me rompas las bolas
La Maga
Paso el tiempo
Que milonga mi amor
En Paris me quedo
Quemaste todo (solo piano)
Tango negro
Sudacas
Camila
Murga cruel
Toca tango
La Pulpera de Santa Lucia
Tango Negro Trio
info & comments
+39- 437 - 434 8130
[email protected]
www.myspace.com/tangonegrotrio
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14
file under
tango negro trio
italy
world music
Hace unos meses decidimos emprender la realizacion del 3 CD del TANGO
NEGRO TRIO. A la iniciativa y bajo la supervision de Hideto “Panchito”
Nishimura, desde Japon una nueva experiencia.
Con nuevos temas y algunos clasicos de nuestro repertorio.
Siguiendo con la propuesta de la reivindicacion de los ritmos olvidados,
nuevos sonidos y una fuerte impronta milonguera han mantenido latente
la linea comenzada hace anos en pro de hacer conocer un repertorio inedito
en el ambito de la musica rioplatense.
El tango, la milonga, la habanera, la murga, y el candombe representan las
formas emblematicas de la cultura urbana de Buenos Aires y Montevideo,
el trio TANGO NEGRO TRIO se siente comprometido con esa estetica.
Quiero agradecer la participacion de Melingo, Tero, Marcelo, Javier, Olivier,
Natalio, Martin y Alejandrito. musicos comprometidos en la difusion de
nuestra musica en el mundo.
J C Caceres.
P Felmay 2009
Difficile a volte stabilire i punti di confine dell’indagine
musicale, ma la sintassi, gli accenti e i ritmi incorporati nel
solido concetto milonguero che si distaccano con un ruolo
importante in questo progetto provengono dalla scuola
afrocubana, con i cicli ritmici di clave, di cascara rumbera
e montuno. Figurazioni e concetti che esercitano una
sorta di dittatura nella musica popolare cubana, poi, per
estensione, nell’afrocuban-jazz (oggi latin jazz), modalità
adottate anche da altre scuole afrolatine e non solo. E
ora questi elementi di grammatica musicale afro-latinocaraibica si ritrovano spesso a condurre le onde ritmiche
special guest
DANIEL MELINGO speaking voice
i caraibi
18-11-2010 18:27:18
10 primavera 2011
20 NOA CANTA NAPOLI
Intervista alla cantante israeliana simbolo del pacifismo internazionale
di David Valderrama
Noa, al secolo Achinoam Nini, è una delle cantanti più celebri d’Israele e contemporaneamente una delle artiste di fama
internazionale più impegnate in favore della causa del popolo palestinese. Lo confermano il suo costante impegno in
favore della Pace e le sue tante dichiarazioni che lancia costantemente dal suo blog. Per questo ha ottenuto grandi
riconoscimenti internazionali e nel 2007 il Presidente della Repubblica Napolitano l’ha insignita del Cavalierato della
Repubblica.
Nata a Tel Aviv da una famiglia di origini yemenite è cresciuta tra New York - dove attualmente vive insieme al marito e ai
tre figli - e Israele, dove a diciassette anni si trasferì per prestare servizio militare. Dotata di una voce vellutata e cristallina
e di una genuina quanto instancabile volontà di sperimentare e conoscere culture, stili, generi, ha all’attivo tredici dischi in
studio e una infinità di collaborazioni. La sua carriera artistica è legata a doppio filo con quella del compositore, arrangiatore
e produttore israeliano Gil Dor. E a giudicare dal successo ottenuto Gil è un vero e proprio portafortuna.
Nel 1997 debutta in Italia prestando la sua voce nella canzone portante della colonna sonora del film La vita è bella di
Roberto Benigni e nel 2006 partecipa al Festival di Sanremo in duo con Carlo Fava, ottenendo il Premio della Critica.
Oggi, quasi a restituzione del calore e l’affetto che il pubblico le ha sempre riservato nel nostro Paese, torna con un nuovo
incantevole album: Noapolis. Un’opera che da prova della disinvolta versatilità che da sempre la contraddistingue e che l’ha
portata a studiare con rigore il vernacolo partenopeo. Il disco è un vero e proprio tributo alla canzone classica napoletana e
include brani indimenticabili come, tra gli altri, Era de maggio e Torna a Surriento. Gli arrangiamenti, a firma di Gil Dor e dei
napoletani Solis String Quartet, sembrano un vestito di seta confezionatole su misura.
L’abbiamo raggiunta a poche settimane dall’uscita italiana del disco ed è emersa una conversazione a tutto tondo sulla sua
musica, sugli affetti ma anche sulla questione mediorientale e sulla necessità di uno scatto d’orgoglio per la bella Napoli…
Ai tanti riconoscimenti artistici ricevuti si sono anche
aggiunte numerose onorificenze pubbliche per il tuo
impegno in favore della Pace e il dialogo interreligioso.
In particolare, nel 2007, il Presidente Giorgio Napolitano,
ti ha insignita del Cavalierato della Repubblica. Cosa
comporta un simile impegno?
Sono molto orgogliosa di essere Cavaliere della
Repubblica italiana. L’Italia è diventata da oltre quindici
anni la mia seconda casa, amo profondamente il vostro
Paese e la vostra cultura. Detto questo, devo dire che i
riconoscimenti non sono così importanti per me. É più
importante la mia attività e il mio impegno. Mi onora
sapere che attraverso il mio ruolo di artista possa catturare
l’attenzione della gente per cercare di trasmettere quelle
idee e quei valori in cui credo...
Credo nell’importanza della comunicazione e della
compassione, nel sogno della pace e nella strada da
imboccare per raggiungerla.
10 primavera 2011
21
Noa
Mondomix.com / MUSICA
La tua partecipazione, nel maggio del 2009, al 54°
Eurofestival come rappresentante di Israele e le tue
dure prese di posizione contro Hamas sono state
accompagnate da dure critiche da parte di esponenti
del mondo arabo e del pacifismo israeliano. Come
rispondi a queste prese di posizione?
Sono molto orgogliosa di aver partecipato all’Eurofestival
insieme alla mia collega israelo-palestinese Mira Awad.
La nostra canzone, There must be another way, ha
avuto un forte impatto su migliaia e migliaia di persone
in tutto il mondo e tantissime sono le lettere ricevute di
apprezzamento e sostegno. Per quanto riguarda la mia
posizione su Hamas posso dire che sono e resto contro
Hamas rimanendo una grande sostenitrice della necessità
di aiutare il popolo Palestinese nella sua missione per
l’Indipendenza, l’autodeterminazione e la pace. Se credete
potete leggere sul mio blog un mio intervento intitolato
“alcuni chiarimenti sulla mia infamante lettera durante la
guerra di Gaza del 2009”. Credo che lì troverete le risposte
a questa domanda.
Sarei felice se voleste leggere altri articoli del mio blog,
anche più recenti, come “life” o “an important petition..”
Parliamo del tuo nuovo album, Noapolis. Com’è nata
l’idea di interpretare i grandi classici della canzone
napoletana?
Ho incominciato a cantare canzoni napoletane tanti
anni fa, chiudendo alcuni concerti in Italia. La prima
canzone che ho arrangiato insieme a Gil Dor è stata
Torna Surriento, si sono poi aggiunte I’te Vurria Vasà e
Santa Lucia Lontana. É stato un modo per ringraziare
il pubblico italiano per l’affetto e il supporto che ci
dimostrava ad ogni esibizione. La reazione del pubblico
è stata straordinariamente positiva. Alcuni anni più tardi
abbiamo ricevuto una proposta da Caserta per dare vita
a un progetto su canzoni napoletane in compagnia del
Solis String Quartet con cui stavamo già lavorando. Il
quartetto Solis ha quindi arricchito il nostro repertorio
con altre canzoni e con degli arrangiamenti meravigliosi.
Gil Dor aggiunse nuovi arrangiamenti e tradusse i brani
in ebraico, così nacque il disco Napoli - Tel Aviv. Ora,
finalmente, abbiamo registrato le canzoni in dialetto
napoletano originale e il risultato, Noapolis, è davanti a
voi.
Come ha fatto una madrelingua inglese a diventare
una perfetta “scugnizza” napoletana capace di
interpretare alla perfezione brani come I’te Vurria
Vasà o Torna a Surriento?
Grazie assai! Beh, innanzitutto ricordo che sono una
madrelingua inglese che parla un ebraico dal background
yemenita! Quindi un mix di culture è già nel mio DNA. A
parte questo, ho un buon orecchio musicale capace di
cogliere le sfumature del linguaggio e ottimi amici come
Solis, Pompeo Bennincasa, Lauro Attardi, Massimo
Torrefranca e tanti altri che mi hanno aiutato a migliorare
il mio dialetto, tutt’altro che perfetto. Ma, al di la di tutto,
sono l’amore e il rispetto ad avermi aiutato. Ai miei occhi
sono questi gli elementi più importanti. Il grande amore
e il profondo rispetto che nutro per queste canzoni, per i
loro creatori, per la gente di Napoli e dell’Italia intera.
Il tuo legame con Napoli parte da lontano, nel 2006 hai
pubblicato Napoli-Tel Aviv. Cosa unisce il mezzogiorno
d’Italia alla cultura ebraica?
Tantissime cose.. L’essere entrambi di piccole dimensioni,
con una popolazione non troppo grande che ha patito per
le guerre, le conquiste e altre tragedie come la povertà,
l’oppressione e le epidemie rimanendo sempre ottimisti.
Uno spirito che rifiuta la morte! Si tratta di genti che hanno
dovuto emigrare, attraversando il mare alla ricerca di un
futuro migliore e che hanno conservato ostinatamente la
propria cultura ovunque la vita li portasse, arricchendo
quelle società che li accettava. Quell’inguaribile
romanticismo, quella nostalgia per la propria Patria e quel
raro senso dell’umorismo che si sviluppa dalla sofferenza.
Tutto questo unisce le nostre culture.
Oltre alla presenza del tuo inseparabile amico e
musicista Gil Dor, in questo album collabori con il
quartetto napoletano Solis String Quartet. Raccontaci
di questo sodalizio…
I Solis sono degli incredibili musicisti e delle persone
meravigliose. Il loro stile è inimitabile. Loro ci hanno
proposto una selezione di canzoni stupende che non
conoscevamo prima. Insieme a loro abbiamo scelto il
repertorio che più ci interessava e, insieme a Gil, hanno
fatto degli arrangiamenti unici e meravigliosi.
Parliamo di Napoli. L’emergenza rifiuti, i numerosi
scandali, la mala vita organizzata hanno ammaccato
l’immagine di questa città. Credi che la musica possa
contribuire al suo riscatto? E come?
La musica, come ogni arte, è l’elevazione dello spirito
sopra la materia. È il culto della bellezza, della purezza,
dell’integrità e dell’indipendenza espressiva. Di certo
il popolo di Napoli ha bisogno ora più che mai di tutto
questo. Ma, al tempo stesso, invito il popolo di Napoli, a
me tanto caro, a prendere il proprio destino in mano senza
lasciarlo a quelle forze che minacciano di distruggere
questa stupenda città.
L’anno scorso è nata Yum, la tua terza figlia. É difficile
conciliare la vita familiare con gli impegni lavorativi?
Si, è molto difficile ma fortunatamente sono circondata
da tante persone che mi aiutano: da mio marito, ai miei
genitori, ai colleghi e gli amici. Per i miei bambini darei
volentieri la mia vita..
Diamo spazio ai sogni nel cassetto. Quali sono i
progetti o le collaborazioni che vorresti realizzare in
futuro?
In realtà è molto semplice. Il mio desiderio è di continuare
a produrre musica e di farlo sempre con il cuore, di vedere
crescere i miei figli sani e felici e di poter essere presente,
cantando, al momento della firma ufficiale del trattato di
Pace tra Israele e Palestina. Inshallah!
Prima di congedarci ci racconti qualche aneddoto
della tua carriera?
Ce ne sono tanti... Quello che posso dirvi è che sono stata
molto fortunata al di la delle mie personali convinzioni e
che fino ad ora la mia vita è stata molto interessante e
piena di amore e di avventure. Per saperne di più dovrete
attendere la mia biografia ufficiale che la casa editrice
Rizzoli sta preparando e che verrà pubblicata alla fine
dell’anno.
Titolo Napoli - Tel Aviv
Etichetta Sud Music / Egea
Online www.noasmusic.com
10 primavera 2011
special guest
DANIEL MELINGO speaking voice
JUAN CARLOS CACERES piano, voice, trombon
MARCELO RUSSILLO drums, percussion
CARLOS el tero BUSCHINI bass
feat
Javier Girotto sax
David Pecetto bandoneon, accordeon
Olivier Manoury accordina
Alejandro Caraballo bombo murguero
Martin Bruhn cajon
Natalio Mangalavite choir
FELMAY
FELMAY
FELMAYTRADIZIONE&INNOVAZIONE
Cuba
23
Dakar
www.felmay.it
Tango Negro Trio
Tango Negro Trio
file under
tango negro trio
italy
world music
ury
raballo
alavite
Chaiyya Chaiyya
«Il mio lavoro di ricerca si
radica profondamente nel mio
patrimonio culturale. Sono
estremamente
affascinato dalla 3
2
vitalità della cultura popolare
argentina»
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Non teme i toni enfatici il drammaturgo afro-britannico
Kwame Kwei-Armah - coordinatore artistico del Festival
Mondial des Arts Negres - nel tracciare un profilo storicista
dell’attesa terza edizione. L’epocale kermesse panafricana,
dopo 44 anni, è tornata infatti lo scorso dicembre nel luogo
in cui venne originariamente concepita dal presidentepoeta Leopold Sedar Senghor: Dakar, Senegal. Sette
miliardi di euro spesi, 6000 artisti coinvolti, delegazioni
provenienti da 80 paesi del mondo. Un evento sontuoso,
non c’è dubbio. A ben guardare, non solo in termini storici
o numerici; rappresentazione ipertrofica e ambiziosa
di un’Africa differente, fiera e programmaticamente
“rinascimentale”.
Per questo ritorno in grande stile, la rassegna ha scelto
infatti uno sguardo contemporaneo, legato con orgoglio alle
proprie radici, ma rivolto senza troppa nostalgia alla forza
propulsiva del qui e ora africano. Un fermento culturale,
artistico e in parte economico, che per molti prefigura
ormai un autentico rinascimento. Uno sguardo rivolto
scientemente all’intera diaspora, sorta di internazionalismo
nero che ha visto coinvolti anche artisti e intellettuali cubani,
afro-americani e brasiliani; quest’ultimi ospiti d’onore di un
Festival che – tra le altre cose – anticipava l’apertura del
Centro de Música Negra a Salvador de Bahia, prevista per
luglio 2011.
È un carattere inscritto nel suo Dna sin dalla prima edizione,
1966, che ospitava Duke Ellington, Clementina de Jesus
e il grande capoeirista bahiano Mestre Pastrinha; così
come nella seconda, FESTAC 77 a Lagos, che vide tra i
suoi protagonisti Stevie Wonder e Gilberto Gil. Altri
due aspetti rilevanti sono stati il taglio multidisciplinare,
e la dislocazione multifocale. Fedele alla sua vocazione
universalista, la kermesse ha inteso infatti raccontare la
contemporaneità delle arti nere nella sua accezione più
ampia. E così, accanto al potentissimo vettore musicale,
hanno goduto di piena cittadinanza anche moda,
letteratura, poesia, cinema, design, arte visuale e urbana,
architettura tradizionale, artigianato, danza, teatro, nuove
tecnologie e sport (con la mitica lotta senegalese in prima
fila). Una giostra d’espressività nera a 360°, completamente
gratuita, che non poteva che prender forma secondo una
disposizione a macchia di leopardo che ha invaso tutta la
città, ma anche la vicina Isola di Gorèe e la celeberrima
Saint Louis, località turistica a circa 4 ore a Nord di Dakar.
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24 Per ovvie ragioni di sintesi, in questa sede ci limiteremo a
menzionare solo i luoghi principali che hanno animato le
tre settimane: in primis la Place de l’Obélisque nel quartiere
popolare della Medina dove - dal principe mandingo Salif
Keita al giovane Seun Kuti, passando per il pioniere del
reggae africano Alpha Blondy - si sono alternati tutti o
quasi i grandi nomi della musica africana; con il pieno di
presenze (oltre 100.000) fatto registrare durante la sera del
29 dicembre, che ha sfoderato una micidiale coppia d’assi
come Youssou N’Dour (nato proprio a Medina), e il profeta
del conscious reggae Tiken Jah Fakoly, tornato a Dakar
dopo circa due anni e mezzo d’interdizione, all’indomani
di una controversia con le autorità senegalesi che ha finito
per etichettarlo persona non grata.
In mezzo a tanta grandeur, il pubblico - appassionato e
partecipe come non ci capitava di vedere da tempo – ha
inevitabilmente incarnato un meraviglioso spettacolo in sé:
giovani e giovanissimi fan pronti a cantare ogni strofa, a
ballare ogni singolo passo di danza, a godere fino all’ultimo
respiro quei benedetti giorni di festa. Un misto di gioia,
sfogo ed esuberante follia che non si è mai tradotto in un
attimo di tensione, sempre alimentato piuttosto dall’amore
smodato di chi, da troppo tempo, conosce figure di
riferimento sempre e solo in ambito musicale.
Altro luogo cardine attorno al quale si sono tenuti concerti,
mostre e performance di danza tradizionale è stata la
Maison de la Culture Douta Seck, anch’essa a Medina;
in particolare val la pena segnalare un paio di eventi:
lo spettacolare contest di danza e percussioni sabar e,
soprattutto, la strepitosa installazione audio/video sulla
storia della musica nera curata dai nostri fratelli maggiori
di Mondomix Francia; un percorso interattivo che muoveva
dalle icone nere di ogni tempo e luogo, raccontava nel
dettaglio la musica africana (attraverso una scelta di tipo
25
Dakar
Mondomix.com / 360°
geografico e antropologico), e approdava infine in un
non-luogo animato dai frutti prelibati dei sincretismi afrodiasporici. Un excursus altamente suggestivo pensato e
realizzato in sinergia con i partner senegalesi e brasiliani,
che si trasferirà presto armi e bagagli proprio nel nascente
Centro de Música Negra a Salvador de Bahia.
Impossibile non citare poi la Biscuiterie nel quartiere Grand
Dakar, ex fabbrica di biscotti riconvertita in stile berlinese a
centro polifunzionale underground, con ristorante, musica
e mostre permanenti. Proprie queste ultime - al di là dello
spazio musicale, trasformato durante le tre settimane in
una vetrina sui nuovi stili urbani, comprese performance di
slam poetry – hanno rappresentato la principale attrattiva
del posto: afro-design da adattamento creativo, visual arts,
esposizioni fotografiche e brillanti installazioni letterarie
hanno di fatto costituito l’epicentro culturale dell’intero
Festival. Che però prevedeva anche l’area cinema a Place
du Souvenir lungo la Corniche ouest, e un importante stage
musicale presso il Monumento de la Renaissance Africaine,
totalmente appannaggio dei Black Virtuoses; lì il 27
abbiamo assistito ad una serata realmente speciale che ha
visto alternarsi dapprima il balafonista ivoriano Aly Keita,
poi il delizioso quartetto afro-jazz di Toumani Diabate e
infine l’immenso Sekou ‘Diamond Fingers’ Diabate,
chitarrista fondatore dei leggendari Bembeya Jazz, che
assieme ad un pirotecnico quintetto (3 chitarre, basso e
batteria) ha dato vita all’esibizione forse più divertente,
geniale e trascinante dell’intera rassegna musicale; un
concentrato di perizia tecnica, istrionismo teatrale ed
improvvisi cambi di registro che ha letteralmente finito
per infiammare la folla, fino a poco prima impietrita suo
malgrado da un’improvvisa ventata d’aria gelida.
Rinascimento africano si diceva. Più o meno il sottotesto
esplicito di questa terza, sfarzosa edizione del Festival.
Seun Kuti
Uno slogan d’impatto, va da sé; di certo a forte rischio
retorico. All’interno delle mille round-table aperte sul tema,
però, se ne è provato a discutere anche in seri termini
economici. In particolare si è mostrato particolarmente
fiducioso l’economista egiziano Samir Amin, direttore del
Third World Forum, che ha sostenuto con forza la «crescita
dolce e costante» del motore economico continentale
e ribadito con assoluta convinzione l’idea che l’Africa
rivestirà un ruolo di primaria importanza negli scenari
mondiali prossimi venturi.
Dunque tutti contenti, tutto perfettamente calibrato e
riuscito? Ad onor del vero, no. Con un presidente a dir poco
ingombrante come Abdoulaye Wade - 84 anni, fama da
boss e prossimo alla terza candidatura - le polemiche non
mancano mai. Perché è vero che il Senegal rappresenta
una delle governance africane storicamente più stabili, ma
è altrettanto vero che nella classifica della corruzione di
Transparency è piazzato decisamente male: quota 105 su
178 Paesi. Un paese che vive attorno alla soglia di povertà
(740 euro l’anno di reddito procapite) e che, dinanzi alla
maestosa opulenza dispiegata dalla macchina del Festival,
ha giustamente chiesto conto dei costi di quest’abile
operazione di marketing culturale. Il presidentissimo, dal
canto suo, si è affannato più volte a sottolineare che una
parte di essi era stata coperta dagli sponsor privati e che
c’era comunque stato un importante indotto turistico;
ovviamente magnificato e amplificato ogni ora all’unisono
dalle generose tv di Stato. La cosa però, a conti fatti, si è
rivelata solo parzialmente vera, perché di turisti in giro se ne
sono visti pochini e le stanze negli alberghi sono sembrate
per lo più disponibili durante tutte e tre le settimane. Tutto
ciò non ci esime però dall’esprimere, seppur dall’esterno,
un concetto netto, senza perifrasi: l’assoluto bisogno di
siffatti azzardi culturali. Lo necessita il resto del mondo,
intrappolato in una visione dell’Africa troppo spesso
artefatta o manichea, tutta fame, carestie, povertà e carità
pelose; lo necessitano forse gli africani stessi, logorati nel
migliore dei casi da politiche di aggiustamento strutturale
che han finito tutt’al più per conservare l’esistente. C’è
bisogno di rilanci spavaldi e forse anche un po’ incoscienti
per ricordare al globo intero l’ineluttabile centralità africana:
le sue incommensurabili ricchezze culturali, l’inesauribile
fucina di talenti, l’influenza diretta o indiretta che il
continente continua ad esercitare su artisti d’ogni risma e
luogo. Certi che non passeranno altri 23 anni per assistere
alla quarta edizione, curiosi di capire se si tradurranno in
realtà i rumours che oggi indicano nel Brasile la prossima
casa mondiale delle arti nere.
Salif Keita
10 primavera 2011
10 primavera 2011
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Abruzzo
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Puglia
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Toscana
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Friuli Venezia Giulia
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28 Particolari ed esclusivi della tradizione sciita sono
alcuni rituali come la Rowzeh, ciclo lirico di carattere
devozionale dedicato agli episodi di martirio dei primi
imam sciiti, eseguiti da cantori specialisti, durante incontri
che si tengono all’interno di moschee o in case private
e che conducono i presenti a forti stati emozionali. Più
complesso e articolato è il “dramma sacro” ta‘ziyeh, nel
quale vengono ripercorsi (e rivissuti) alcuni episodi relativi
al martirio dell’Imam Hossein, eseguiti da gruppi di devoti
o da compagnie di cantori e musicisti professionisti
Suoni Persiani
di Giovanni De Zorzi
La musica e la poesia sono state nei millenni il fiore
della cultura di lingua persiana, di riferimento in un’area
geoculturale che va dal Caucaso al mondo ottomano/turco
sino all’Asia centrale, ai territori afgani e indopakistani, alla
Cina nord occidentale.
Per poter entrare in quest’area si consiglia al viaggiatore
di non farsi confondere da due cartelli stradali: “Iran”
e “Persia”. Il primo nasce poco fa, il 22 Marzo 1935, e
non porta molto lontano: in quei tempi ribattezzare “Iran”
il paese noto sin dal VII a.C. come “Persia” (Fars) aveva
soprattutto un valore politico; ricollegarsi alle remote genti
indoeuropee dette “arie” o “ariane” (ârya), giunte dalla
piana indogangetica verso il terzo millennio a.C., significava
invece voler ritornare alle proprie “origini”, mitiche e
mitizzate, per ricominciare giovani e forti lasciando da
parte il lungo passato culturale “persiano” finito il giorno
prima. Qualcosa di simile era successo quando nel 1923
la Turchia si ribattezzava Turkiye Cumhuryieti rifacendosi
alle antiche genti turche (türk) d’origine centroasiatica,
cancellando d’un solo colpo il suo plurisecolare passato
ottomano. In entrambi i casi, però, le arti si erano formate
durante il periodo persiano, oppure ottomano. Ora, benché
da alcuni decenni gli iraniani definiscano la loro musica
come “musica iraniana”, generalmente si considera più
corretto parlare di musica, di poesia, di calligrafia, di
miniatura “persiana”, integrando eventualmente il termine
con “iraniano” ad indicare gli svolgimenti post-1935 e la
contemporaneità.
Come per le tradizioni musicali di quelle società che gli
antropologi definiscono “società complesse”, anche per
la musica persiano/iraniana si distinguono oggi alcune
correnti principali che questa guida minima può solo
indicare come farebbe una Lonely Planet: la raffinata
tradizione di musica “classica”, “colta” (dastgâhi, radifî);
i generi e le composizioni sorte per animare gli incontri
spirituali dei dervisci (samâ, zekr); i repertori “della
moschea”; la tradizione delle zurkhâne; le tradizioni
“regionali” o “etniche”; la musica urbana leggera (motrebî)
e il vitalissimo “pop” sviluppatosi nella diaspora iraniana
di Los Angeles (losanjelesî), importato e consumato più o
meno di nascosto in Iran.
La tradizione classica
La musica classica persiana viene detta “del radîf” (radîfî),
termine che significa “sistema, struttura, ordinamento” ed
indica l’ordinamento sistematico dello sparso materiale
melodico preesistente di tradizione orale. Un simile
ordinamento iniziò verso la seconda metà del XIX secolo,
quando alcuni grandi maestri formularono il proprio
particolare radîf nel quale sistematizzavano le molte melodie
dette gushe (“sezione”), giunte loro dal proprio maestro, in
un sistema di dodici/quattordici modi musicali detti dastgâh
e avâz. Di solito si trova il termine radîf accompagnato dal
nome del maestro al quale si deve la raccolta, preceduto dal
nome dello specifico dastgâh adottato, che può contenere
dalle 10 alle 60 gushe. Si avrà, ad esempio: dastgâh-e
Shur, radîf di Sabâ; dastgâh-e Mahûr, radîf di Aqâ Hossein
Qoli, e così via.
Tra i leggendari maestri vanno ricordati ‘Ali Akbar Farahâni
(m. 1857), famoso suonatore di liuto târ, i suoi due figli
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Persia
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Hoseyn Qoli (m. 1915) e Mirzâ ‘Abdollâh (1845-1918)
insieme a suo fratello Aqâ Gholâm Hoseyn che li educò
dopo la sua prematura scomparsa. Tra i maestri della
generazione seguente vanno ricordati Darvish Khân (18721926) e Abolhasan Sabâ (1902-1957). La loro scuola fu
continuata da Hâjji Aqâ Mohammad Irâni (1871-1971),
Yusof Forutan (1901-1979), Musâ Ma‘rufi (1889-1964), Nur
‘Ali Borumand (?-1976), Dariush Talâ‘i (n. 1952). Come per
la maggioranza delle tradizioni musicali classiche sorte in
area islamica, anche nel radîf è fondamentale il concetto di
“forma ciclica”, o di “suite” così che in un concerto i vari
brani sono inanellati fra loro.
Tradizioni dei dervisci
Nel IX secolo d.C., tra i circoli di dervisci che si riunivano
nella vicina Baghdad, nasceva un particolare tipo di
incontro cerimoniale detto samâ (audizione, ascolto,
concerto spirituale) assai diffuso ancor oggi tra le molte
confraternite sufi che percorrono il mondo islamico. Durante
i primi samâ si ascoltava soprattutto la cantillazione del
Corano in uno stato di profondo raccoglimento interiore. In
quest’atmosfera sospesa, per diversi motivi gradualmente
l’ascolto si spostò sulla poesia e sul suono di strumenti
musicali ascoltati “con un altro orecchio”, come avrebbe
detto più tardi Mowlana Jalâl ud-Dîn Rûmî (1207-1273).
Da un simile ascolto potevano nascere stati alterati di
coscienza sui quali si sofferma la trattatistica. Nella
concezione sufi sviluppatasi nei secoli il samâ è gadhâ-yi
rûh, (“nutrimento dello spirito”) e la pratica della musica
è una via di affinamento interiore. Al di fuori di singole
confraternite, l’estetica della musica persiana è sempre
permeata dal sufismo (tasavvof) sin dagli stessi testi
cantati, prevalentemente composti su temi di carattere
erotico/mistico.
Oltre al samâ l’altra grande tradizione sonora diffusa tra
i dervisci è lo zekr (arabo classico dhikr) traducibile con
“ricordo, ripetizione, menzione”. Nel corso dei secoli
all’interno di ogni confraternita si venne formando un
proprio autonomo e particolare tipo di zekr, vocale (jâhri)
o silente (khâfi), individuale o collettivo, caratterizzato
da determinate sequenze di nomi divini, inframmezzati
da invocazioni, preghiere, canti, poesie e spesso
accompagnati da strumenti musicali. Vanno ricordati gli
specifici repertori per il samâ e per lo zikr sorti in seno a
confraternite quali la qâdiriyya o gli ‘Ahl-i Haqq, entrambe
centrate nel Kurdistan iraniano, oppure tra i qalandari del
Baluchistan.
Tradizioni “della moschea”
Repertori vocali come la recitazione del Corano oppure il
richiamo alla preghiera (azan) non sono considerati “canto”
e ancor meno “musica” dai religiosi. Per quanto riguarda la
sofisticata, melodizzata, recitazione del Corano gli studiosi
adoperano allora il termine “cantillazione”, ad indicare una
pratica che sta tra canto e recitazione. Nell’Islam iraniano
la cantillazione coranica è stata il modello estetico di
riferimento per ogni tipo di “canto” secolare e molti tra i
maggiori cantanti professionisti ebbero una formazione
iniziale come qâri‘ (“recitatore coranico”) o proseguirono
parallelamente questa loro attività.
e dai contenuti “leciti” - hanno conosciuto una vera e
propria moda, così che per la prima volta nella storia vi
sono registrazioni e Festival interamente dedicati a questi
generi. Strumenti musicali dei repertori “regionali” vengono
ora accolti negli ensembles di musica classica, con effetti
curiosi che solo il tempo saprà valutare.
La musica urbana leggera (motrebî) e il losanjelesî
Sin dai primi decenni del 1900 nacque un “genere urbano
leggero” detto motrebî di gran successo sino alla rivoluzione
islamica del 1979 che lo considerò “riprovevole”. Da allora
sino a pochi anni fa l’Iran ha infatti esercitato una stretta
censura sulla musica che nasceva all’interno del paese
così come sulle musiche che giungevano dall’estero, con
punte paradossali sull’import/export di strumenti musicali.
Oggi il mercato musicale sembra essere più aperto, o
forse più permeabile, nonostante rimangano vive forti
censure verso generi come l’hard rock, il rap o certo pop.
Una prova di questa permeabilità è data dalla diffusione
in Iran di un genere nato tra le comunità della diaspora
iraniana negli USA come quella di Los Angeles. Di fronte
all’invasione della canzone losanjelesî in Iran, via etere o
tramite la rete, si è finito per autorizzare la produzione di
una “musica per i giovani” che è tutta “Made in Iran”, ma
con testi “corretti” secondo i canoni esposti qui a fianco
da Sadighi, che lasciano il tempo che trovano mentre tutto
scorre e muta sull’amato altipiano.
Iran. Les maîtres de la musique
traditionnelle, Volume 1
Ocora Radio France
La tradizione delle Zurkhâne
Zurkhâne significa letteralmente “casa della Forza” e
indica un luogo paragonabile al ginnasio del mondo greco
ellenistico, nel quale gli atleti si impegnano ancor oggi in
esercizi ginnici e in arti marziali di remota tradizione. Gli
esercizi sono tutti ritmati da un tamburo “a calice” zarb più
grande del normale detto zarb-e zurkhâne. Sullo strumento
si accompagna un cantore (morshed) depositario di un
patrimonio di versi provenienti dalla poesia medioevale e
dall’epica preislamica.
Le tradizioni etniche o “regionali”
Nell’attuale Iran esistono numerosi gruppi etnici, spesso
nomadi, e le musiche regionali sono strettamente correlate
con le molte lingue parlate. La lingua persiana (farsi) non è
l’unica lingua indoeuropea parlata in Iran: vi sono le lingue
kurde Sorani e Kurmanji e il Baluch. Molte sono le lingue
turche: tra esse l’azero, assai diffuso nel Nord Ovest del
paese, ai confini con l’Azerbaijan, così come la lingua dei
Qashqa’i, tribù che vivono nell’Iran centrale, o quella dei
turkmeni, che vivono tra il Mar Caspio e il Khorasan. A
prescindere dalle rispettive lingue, questi gruppi etnici
sono legati al concetto di “area” più che di nazione, e
vivono al di là, o al di qua, di dati confini sorti in tempi
recenti. La musica dei Baluchi, ad esempio, risuona tra
Iran e Pakistan; quella del Khorasan tra Afghanistan
e Iran nordorientale. Le musiche dei kurdi d’Iran sono
comuni con quelle dei kurdi di Turchia, Siria, Armenia e
Iraq. Trasversale alle svariate culture musicali regionali è
la presenza del cantastorie/bardo/trovatore detto spesso
ashıq (“amante, folle d’amore”).
Di recente le tradizioni “etniche” - vive, ritmate, colorate
Iran. Les maîtres de la musique
traditionnelle, Volume 2
Ocora Radio France
Iran. Les maîtres de la musique
traditionnelle, Volume 3
Ocora Radio France
Iran. Mohammad Reza Shadjarian.
Musique classique Persane
Ocora Radio France
Iran. Bardes du Khorassan
a cura di Ameneh Youssefzadeh
Ocora Radio France
Jean During
Musiche d’Iran.
La tradizione in questione
Ricordi / BMG
10 primavera 2011
30 Chiacchierando con Ramin Sadighi
di Giovanni De Zorzi
Quando e com è nata l’etichetta Hermes?
La musica è sempre stata la mia occupazione principale;
avendo un padre musicista, Fereydoun Sadighi, posso dire
di aver cominciato sin dall’infanzia. Più tardi, notando come
l’intera industria discografica di qui fosse concentrata solo
sulla musica classica persiana, su quella Folk e sul Pop,
mi sono reso conto di come esistesse una vasta area di
musiche che semplicemente non avevano la possibilità
di raggiungere un pubblico. Pensando che il tesoro
musicale persiano potesse essere un ottimo trampolino
per sperimentazioni e approcci nuovi, mi sono tuffato, e
invece di fare musica io stesso ho cominciato a cercare
di facilitare gli altri. Ho cominciato nel 1999 esponendo la
mia visione ai molti amici musicisti; l’idea piaceva a tutti e
con quegli amici collaboro ormai da molti anni. Ci fu anche
un forte incoraggiamento da parte dei musicisti amici di
mio padre. Insomma: molti di quelli che collaborano con
la Hermes sono miei amici oppure artisti che provengono
dalla cerchia di mio padre.
Quali sono i generi musicali che intende registrare?
Difficile da dire. Direi che so solo cosa non voglio fare:
Pop, musica classica persiana e Folk. Il resto è campo
aperto. Se oltre al lato estetico vogliamo comprendere
negli obiettivi anche l’aspetto amministrativo, allora direi
che l’obiettivo è quello di proteggere i diritti dei musicisti
e facilitarli nell’essere creativi in un contesto gioioso.
Ma altri direbbero che più che altro facciamo musica
d’avanguardia…
D’avanguardia?
Sì, so bene che il termine è stato usato e logorato nelle
maniere più diverse, ma non saprei descrivere altrimenti
quello che facciamo. Il nostro slogan è: “Musica per la
Musica” ed è l’unica cosa in cui credo. Per sperimentazione
intendo il cercare di non fare musica classica persiana
standard ma, invece, tentare nuove interpretazioni che
possono accogliere influenze jazz, musica moderna,
cercare commistioni, fusioni…
Com’è la vita di un’etichetta nell’Iran contemporaneo?
Ci sono regole che rendono il fare musica una cosa molto
burocratica! E talvolta problematica. Dalla rivoluzione
islamica in poi per pubblicare un disco serve un permesso
che dev’essere accordato dal Dipartimento per la Musica
del Ministero della Cultura. Per poter pubblicarlo devi
innanzitutto spedire il lavoro al comitato. Se danno il loro
benestare, ti viene data una licenza di stampa e puoi
passare alle fasi successive: stampa e distribuzione. I
criteri fondamentali per la commissione giudicatrice del
Ministero sono quattro, e sono connessi soprattutto con la
musica vocale: i contenuti del testo non devono offendere
la religione; non devono offendere il governo; non devono
essere troppo erotici e non possono essere cantati da
una voce di donna (…ma se la melodia viene cantata da
due donne, o da un coro misto di uomini e donne allora
è lecito!...) Naturalmente nei decenni c’è stata una grande
battaglia su questo punto, ma il governo proibisce ancor
oggi alle cantanti di cantare in pubblico: non chiedermene
la ragione, non la sappiamo nemmeno noi! Al di là della
censura, l’altra grande guerra è quella di tutte le altre
etichette del mondo: il mercato, le basse percentuali di
guadagno e la pirateria…pensa che l’Iran non ha firmato
10 primavera 2011
31
Persia
Mondomix.com / 360°
Visioni Persiane
Agit prop all’iraniana
nessuna delle norme sul diritto d’autore…la pirateria
è davvero il problema maggiore. È triste come proprio il
settore governativo del mercato sia quello che beneficia
maggiormente di questa situazione lacunosa: le emittenti
nazionali (in Iran non ci sono emittenti private) usano
musica senza autorizzazione e senza pagare diritti.
Com’è la situazione musicale nell’Iran contemporaneo?
Creativa e in movimento. All’inizio non pensavo che ci
fosse un simile entusiasmo tra i musicisti persiani per la
sperimentazione, ma oggi la scena è davvero carica e
anche l’interesse all’estero sta crescendo.
Chi sono tra i giovani i solisti e gli interpreti che
preferisci?
Nella mia lista di musicisti favoriti ci sono: Peyman
Yazdanian, Hooshyar Khayam, Martin Shamoonpour,
Ankido Darash, Ali Boustan e Christophe Rezai.
di Enrico Verra
Iran 1979: sotto i colpi della rivoluzione komeinista cade il
regime dello Scià.
Nel 1980 la neonata repubblica teocratica lancia la
rivoluzione culturale per affermare il sogno, totalizzante, di
una cultura islamica, nazionale e indipendente, in radicale
opposizione alle tendenze filo occidentali che avevano
caratterizzato il regime di Reza Pahlavi.
A partire dalla fine degli anni 80 il cinema iraniano, prodotto
dalle strutture pubbliche dello stato degli ayatollah, conosce
uno sviluppo e un successo senza precedenti sul piano
internazionale. Non c’è festival, da Berlino a Cannes, a
Venezia, che non selezioni e premi i film della new wave
iraniana. Nomi del calibro di Abbas Kiarostami, Dariyush
Mehrijui, Moshen e Samira Makhmalbaf, Jafar Panahi
diventano i nuovi idoli della cinefilia internazionale.
Nel dibattito teologico sulle arti figurative che caratterizza
il mondo mussulmano, l’islam sciita iraniano, a differenza
dell’islam sunnita dei paesi arabi, ritiene che nel Corano
non ci sia esplicita proibizione di creare immagini di esseri
umani. Inoltre molti religiosi sciiti rivendicano una specificità
nazionale che affonda le sue radici nella straordinaria cultura
figurativa persiana e nella tradizione della miniatura.
Per lo stato iraniano il cinema diventa così lo strumento
ideale per dare visibilità al nuovo ordine islamico,ordine
che il vecchio regime “ateo” e “immorale” aveva rinnegato.
Il sogno della dirigenza komeinista è quindi l’invenzione e
la diffusione massiccia di un cinema che non è lo specchio
antropologico della società, ma la proiezione ideale della
società iraniana.
costumi verificano che un uomo non stia per troppo tempo,
e da solo, vicino a una donna, nemmeno per ragioni
professionali, che non discutano, che non ridano.
La rigida separazione dei sessi impone una sala trucco per
gli uomini e una per le donne, un truccatore per gli attori e
una truccatrice per le attrici.
Davanti alla cinepresa non si possono riprendere le donne
senza velo e quindi è quasi impossibile girare scene con
donne in interni, perché in casa le donne stanno a capo
scoperto. Non si possono inquadrare contatti fisici di
nessun genere tra uomo e donna perché, se nella finzione
sono ad esempio marito e moglie, nella realtà i due attori
che li interpretano non sono consanguinei.
Si arriva al surreale con lo scandalo che suscitò nel
regime la premiazione di Kiarostami a Cannes quando
la Deneuve lo baciò consegnandoli la Palma d’Oro. Un
contatto inamissibile secondo le regole correnti in Iran,
con l’aggravante di essere stato ripreso dalle telecamere di
mezzo mondo.
E da un paradosso all’altro va fatto notare che, nelle sale
cinematografiche iraniane, anche nei momenti di più forte
contrasto con il satana americano hanno continuato ad
essere proiettati i western hollywoodiani. Il western è il
cinema americano per eccellenza ma agli ayatollah andava
benissimo: è molto maschile e le donne non solo hanno ruoli
secondari ma sono sempre castigatissime.
Ovviamente il controllo sulla vita privata degli attori è
fortissimo.
E quando il film arriva in sala i manifesti che lo promuovono
non devono avere figure femminili in primo piano. La sala,
poi, è divisa, come i ristoranti, in un settore per uomini e
in uno per donne accompagnate da un consanguineo. Non
sono previste donne sole. Un rappresentante della polizia
islamica circola con una pila nel buio della sala di proiezione
per verificare che non si realizzino strani contatti tra i
sessi…
Attraverso la censura lo stato si concentra sui comportamenti
e sull’apparenza fisica, una generazione di registi di
grande talento si è trovata ad inventare un proprio stile e
un linguaggio confrontandosi e scontrandosi con i limiti
imposti dalla censura. Sono nate così specifiche immagini e
particolari modi di raccontare che sono diventati il marchio
di fabbrica della nuova ondata iraniana..
Strategie
Abbas Kiarostami
Censure
La rivoluzione komeinista, per dare visibilità al suo nuovo
ordine ha bisogno di produrre un cinema islamico che non
esiste da nessuna parte e impone al cinema il diritto di
cittadinanza in cambio della sua islamizzazione.
Questo si traduce in una sola parola: censura. O meglio,
censure, perché investe ogni fase della realizzazione di un
film, dalla sua scrittura alla sua uscita in sala.
La sceneggiatura deve essere sottoposta al vaglio di
specifiche commissioni per poter essere finanziata e
realizzata. Sul set membri della polizia di controllo dei
Il sistema politico iraniano è un sistema bicefalo. Accanto
agli elementi classici (parlamento, presidente della
repubblica, governo) c’è una Guida della rivoluzione, figura
con una vocazione di orientamento spirituale, il cui peso
politico supera enormemente quello attribuitogli dalla
costituzione. Questo crea un parallelismo di poteri, dai piani
alti dello stato fino alle più lontane ramificazioni. Parallelismo
che si traduce nella costituzione di una serie di organi e
gruppi islamici, che verificano ossessivamente la conformità
dei comportamenti, in tutti gli ambiti, pubblici e privati, ai
dettati dell’islam. Una vera e propria polizia esecutiva del
verbo della guida. Esempio di questo dualismo è il controllo
sul cinema che è diviso tra il Ministero della Cultura e
dell’Orientamento Islamico, statale, e il Gran Consiglio della
Rivoluzione Culturale alle dirette dipendenze della guida.
Ovviamente ogni istituzione cerca di difendere la propria
10 primavera 2011
32 autonomia rispetto all’altra e questo contrasto ha permesso
l’apertura di spazi di confronto e opposizione atipici in un
sistema autoritario
Di fronte a una censura imperante , sfruttando abilmente
i contrasti istituzionali, spesso si è potuto avere da un
istituzione il denaro e l’autorizzazione a realizzare un film
che un’altra aveva proibito.
Jafar Panahi
Jafar Panahi
Queste strategie nel corso degli anni, in contemporanea con
lo sclerotizzarsi del sistema, hanno spinto la situazione a un
punto di rottura.
I successi internazionali si sono rivelati, per la repubblica
islamica, un inatteso strumento diplomatico da sfruttare a
fondo per dare un immagine diversa dell’Iran all’estero, al
punto che film proibiti in patria erano scaltramente inviati
a rappresentare il paese nei festival internazionali. Ma ora
la maggior parte degli autori iraniani sono stati costretti
all’esilio per poter continuare a esprimersi. Il grande cinema
porta con sè lo spettro della libertà, spettro diventato troppo
ingombrante e terrificante per Ahmadinejad e Khamenei.
Al punto tale che il 10 Marzo 2010 i servizi di sicurezza
hanno arrestano il più interessante e provocatorio dei registi
iraniani contemporanei Jafar Panahi voce e cinepresa
dell’opposizione “verde” iraniana.
Panhai è il regista che più di tutti ha sfruttato il suo stile per
giocare a rimpiattino con la censura.
Esordisce con Il Palloncino Bianco nel ’95, su sceneggiatura
di Kiarostami e si aggiudica subito la Camera d’Or al festival
di Cannes.
Razieh, una bambina di sette anni, riceve dalla madre dei
soldi per comprare un pesce rosso con cui festeggiare il
capodanno, ma lungo la strada tra casa e il negozio perde
il denaro in un tombino. Il film racconta la lotta per riuscirlo
a recuperare. Comincia 85 minuti prima dello scoccare
dell’anno nuovo, dura 85 minuti ed è ritmato da questo
angosciante conto alla rovescia.
Ma l’angoscia che il film racconta dietro l’apparente
leggerezza è quella della controllatissima quotidianità
iraniana in cui la bambina porta una boccata di liberatoria
e anarchica aria fresca. Scegliere come protagonista una
bambina è un perfetto escamotage per dribblare lacci
e lacciuoli della censura. Una bambina può permettersi
un’infinità di cose proibite a una donna adulta. A cominciare
dal vestito: una gonna rossa (colore vietatissimo dalla
censura perché troppo sensuale ) e sopra il ginocchio che si
oppone alle lunghe e informi tuniche nere cui sono obbligate
le donne. È un cinema del sottinteso che usa l’infanzia come
alibi per parlare degli adulti.
Ma il non detto del primo film diventa l’urlato de Il Cerchio,
10 primavera 2011
33
Persia
Mondomix.com / 360°
il film con cui Panahi si aggiudica il Leone d’Oro a Venezia
nel 2000.
Nel cinema iraniano c’è ovviamente una difficoltà di
costruzione del personaggio femminile. Le donne sono
il proibito per eccellenza e tuttavia hanno i ruoli principali
in più di metà dei film prodotti in Iran ultimi venti anni.
Per superare la censura i registi si sono trovati obbligati a
costruirle come personaggi assolutamente positivi e questo
ha finito per trasformarle nel motore dei racconti, facendo di
loro delle protagoniste.
Ma Panahi va oltre e attraverso la storia di otto donne, quasi
tutte uscite dal carcere, redige un crudo e straordinario
racconto sulla maledizione che è nascere donna in Iran. Tutto
girato in esterni e in luoghi pubblici perché Panahi si rifiuta di
filmare la surreale situazione delle donne coperte dal velo in
casa propria. È un film di fughe continue. Sempre di corsa:
contro il tempo (bus da prendere o aborto da fare) e contro
gli ostacoli (poliziotti da evitare, barriere amministrative da
superare) in uno stato di tensione emotiva quasi intollerabile.
La cinepresa di Panahi non si posa mai su niente. Resta
incollata alle sue protagoniste che ansiogenamente sono
sempre intente a scappare da qualcosa. Arriva come una
ventata d’aria fresca la spavalderia dipinta sul viso della
prostituta che chiude il film.
Una spavalderia che nasce tutta dallo stile con cui è girato.
I dispositivi della censura preventiva iraniana mostrano,
come in altri sistemi autoritari, una grande attenzione alla
sceneggiatura e trascurano il potere evocatore dell’immagine
filmata. La censura ha cercato di regolamentare l’immagine
della donna sullo schermo ma Panahi è giunto attraverso il
suo stile a restituire la sensualità del corpo femminile.
Come conseguenza bloccano sine die l’uscita del film che a
tutt’oggi è stato visto in Iran solo in rare proiezioni private.
Genere classico del cinema iraniano nato dopo la rivoluzione
komeinista è il dramma sociale che con realismo duro e
spesso sordido evoca i temi legati alla miseria in cui lo scià
aveva lasciato il paese.
Questo realismo non sembra fatto per glorificare il regime
nonostante caratterizzi film prodotti dallo Stato. Ma la
rivoluzione si è fatta a nome dei diseredati (mostaz’afân)
e sarebbe stato politicamente scorretto fare film sui ceti
benestanti..
Come conciliare diseredati e ottimismo politico? È una
contraddizione irrisolvibile che Panahi sfrutta a suo
vantaggio per realizzare Oro Rosso nel 2003, film che è
il suo capolavoro. Sceneggiato da Kiarostami, un po’ film
noir nel suo prendere spunto da un episodio di cronaca
nera, un po’ Taxi Driver per come racconta la solitudine nel
mondo (iraniano) contemporaneo è costruito come un lungo
flash back. Il film inizia con la fine: una tragica rapina in una
gioielleria in cui Hussein, il protagonista, resta imprigionato
da una grata attivata dal sistema antifurto e si uccide
Attore non professionista, afflitto da leggeri disturbi mentali,
il protagonista ha qualcosa di Thelonius Monk: un berretto
sempre schiacciato in testa, un fisico grassoccio da adultobambino, un’attitudine di opposizione muta al mondo e
all’ingiustizia. Proletario dei quartiere poveri di Teheran,
vive consegnando pizze a domicilio nelle zone ricche della
città. Con il suo stile peculiare Panahi non molla un attimo il
pedinamento del suo protagonista e ci obbliga a un viaggio
incubo nelle disfunzioni dell’Iran contemporaneo. Portando
pizze Hussein intravede al di là degli usci l’opulenza di una
borghesia nascente che fa in casa quello che gli è proibito
fuori. Tipica schizofrenia iraniana uno spazio pubblico
costantemente controllato e uno spazio privato in cui si
leggono i libri proibiti, si vedono i film occidentali comprati
al mercato nero e si fa festa. Ma ciò che Hussein vede non
gli piace per nulla. Vede il fallimento delle illusioni di una
rivoluzione che aveva promesso il riscatto dei diseredati.
Vede il paradosso di un sistema sclerotizzato che cerca di
fare rispettare un ordine assurdo a una società, anche in Iran,
ormai totalmente dominata dal denaro. Vede il disprezzo dei
ricchi verso i poveri.
Con il procedere del film nasce una formidabile empatia
esistenziale tra lo spettatore e il protagonista. Arriviamo a
condividere un sentimento di ingiustizia e solitudine senza
via d’uscita.
L’unica uscita possibile è una rapina fallimentare. E non
resta che spararsi.
Jafar Panahi più in là non poteva andare. Il film viene
totalmente proibito in Iran e Panahi gira il suo ultimo
lavoro praticamente in clandestinità, realizzando in video
una sceneggiatura diversa rispetto a quella che aveva
consegnato alle autorità: Off Limits
Otto giugno 2006 partita di qualificazione per i mondiali di
calcio: Iran contro Bahrein.
Le donne non possono entrare nello stadio. Quelle che
riescono ad infiltrarsi clandestinamente vengono acciuffate
e trattenute in una sorta di recinto costruito a ridosso dello
stadio stesso sotto l’occhio vigile di alcuni soldati. Scandito
dalla cronaca della partita che si svolge a pochi metri da
loro ma che non possono vedere il film racconta il rapporto
che si costruisce tra questo manipolo di donne e i soldati
che le tengono in arresto. Donne ben diverse da quelle del
Cerchio, donne che non accettano la loro condizione e
cercano di ribellarsi. Donne di un possibile Iran futuro.
Ultima tappa della coraggiosa ribellione di un regista.
Il dieci marzo 2010 Panahi è arrestato sotto l’accusa di
attentare alla sicurezza dello stato. Dichiara ai giudici :
“Non capisco il delitto di cui sono accusato. Se queste
accuse sono vere, non sono solo io a essere processato,
ma la coscienza sociale e artistica del cinema iraniano, un
cinema che cerca di tenersi al di là del bene e del male, un
cinema che non giudica, né si arrende al potere o denaro,
ma cerca di riflettere onestamente un’immagine realistica
della società.”
Il 20 dicembre 2010 Jaffar Panahi è stato condannato a 6
anni di carcere e al divieto di dirigere, scrivere e produrre
film, viaggiare e rilasciare interviste sia all’estero che
all’interno dell’Iran per 20 anni.
10 primavera 2011
34 La stagione musicale di Chennai
Per orientarsi in quella che è forse la più ricca stagione
musicale del mondo.
di V. Ramnarayan
Tutto cominciò nel 1927 come parte dell’Incontro Annuale
dell’Indian National Congress che quell’anno si tenne nella
città a quei tempi chiamata Madras e che oggi è Chennai.
Alcuni dei principali leader del partito nazionalista pensarono
che fosse venuto il momento di introdurre ai delegati la
grande tradizione musicale della regione, conosciuta come
musica Carnatica. Venne imbastito il programma di una
settimana durante la quale i migliori cantanti e strumentisti
del tempo tennero diversi concerti ognuno dei quali aveva
una durata di almeno tre ore. Quella serie di concerti portò
alla nascita della Stagione Musicale della Music Academy di
Madras ed ha continuato ad aumentare, in quantità e durata,
fino a raggiungere l’odierna edizione che prevede due
settimane di incontri e dimostrazioni ogni mattino e quattro
concerti al giorno i quali, seguendo un ordine crescente
di importanza e anzianità degli artisti, vanno dal primo
pomeriggio fino a sera. Inoltre molte altre organizzazioni
chiamate sabhas (letteralmente congregazioni), si sono
aggiunte alla Music Academy ed oggi la famosa Stagione
Musicale di Chennai inizia ai primi di novembre e dura quasi
due mesi distribuendosi in molteplici locali della città e del
suo circondario.
Gli strumenti
Il tipico concerto di musica Carnatica dura
approssimativamente due ore e mezza. Un concerto vocale
– l’evento più comune – presenta un cantante, uomo o
donna, a volte un duo di cantanti, accompagnato da un
violinista, seduto alla sinistra, e uno o più percussionisti,
posti alla destra. Lo strumento a percussione più
importante è un tamburo cilindrico, il mridangam, posto
orizzontalmente di fronte al musicista.
Il ghatam, una vaso di terracotta e la kanjira, piccolo
tamburello a cornice, completano il gruppo. Il numero
degli strumenti sul palco può variare ma il mridangam è
obbligatorio. Il formato standard minimo del gruppo è
costituito da voce-violino-mridangam.
Mentre il violino occidentale si è adattato con successo
alla musica Carnatica, altri strumenti molto popolari come
il nagaswaram, un lungo oboe di legno, la veena, strumento
a corde, il venu, flauto di bambù, sono da considerarsi tipici
dell’India. Questi strumenti solisti non accompagnano i
cantanti e per quanto la musica strumentale abbia nel corso
degli anni perso popolarità, strumenti occidentali come
chitarra, mandolino, clarinetto e sassofono compaiono
sempre più spesso nei concerti anche se sono ben lungi
dall’aver raggiunto il livello di diffusione del violino.
Tutti i musicisti sul palco stanno seduti, a gambe incrociate,
in genere su cuscini. Un concerto comprende sia musica
composta che improvvisata dando la possibilità a ciascun
musicista sul palco di mostrare la sua creatività durante le
varie fasi del programma musicale.
Il repertorio
Oggi il programma di un concerto di musica Carnatica
inizia con un varnam, una breve composizione con un testo
ed una parte di vocalizzi (sol-fa) cantata a diverse velocità.
Seguono alcune composizioni conosciute come kritis o
kirtanas, canzoni in genere di contenuto devozionale o
spirituale in Sanscrito o in una delle lingue dell’India del
Sud, generalmente in Telugu (lingua dell’Andhra Pradesh).
10 primavera 2011
35
Chennai / Rennes
Mondomix.com / 360°
T. M. Krishna
Ciascuna di queste composizioni contiene elementi
improvvisati incluse elaborazioni senza parole del raga,
variazioni su una singola riga del testo o combinazioni
ripetute delle sillabe sol-fa.
Tutte queste componenti creative sono rese in misura
più estesa nella composizione principale del concerto,
la cui durata può superare l’ora, e che offre anche al
percussionista (o ai percussionisti) la possibilità di mostrare
la sua (loro) maestria tecnica e creatività in assolo non
accompagnati da voce o violino.
La composizione è spesso seguita da quello che i puristi
considerano il piatto forte della musica Carnatica, il ragamtanam-pallavi, che è costituito da musica completamente
improvvisata.
Brani più leggeri seguono il corpo principale del programma
o il ragam-tanam-pallavi ed il concerto termina con un
mangalam, un brano conclusivo di buon auspicio.
conferito dalla Music Academy, è sicuramente il più
prestigioso e paragonabile all’Oscar.
Ogni quotidiano aggiunge supplementi speciali per
l’occasione mentre i canali televisivi estendono la loro
copertura degli eventi principali ed alcuni organizzano
addirittura a loro volta dei concerti.
La critica
I critici, sempre pronti a stroncare o esaltare questo
o quel musicista, oggi si trovano di fronte degli artisti
colti, estremamente preparati tecnicamente, in grado di
controbattere alle critiche ricevute.
Il pensiero che accomuna la maggior parte dei critici è
che oggi la musica Carnatica sia viva e che goda di ottima
salute anche se a fungere da contraltare permane tuttavia
una schiera di nostalgici che continua a lamentare la
scomparsa dei grandi miti del passato.
Fra i musicisti stessi le opinioni sullo stato attuale della
musica Carnatica sono divergenti. Alcuni di loro parlano
dei «bei tempi in cui i rasika (appassionati) erano veramente
seri e competenti e non frequentavano i concerti solo per
moda come invece accade oggi visto che ormai quel tipo
di pubblico non esiste più», mentre altri sostengono che
«oggi il pubblico è più esigente. Ci sostiene tutto l’anno a
fare bene, a dare il nostro meglio».
Coloro che hanno preso parte a una o più edizioni
della Stagione Musicale di Chennai saranno d’accordo
nell’affermare che oggi in India non esiste nulla di
paragonabile a questa manifestazione sia per il
livello musicale che per la grande varietà e lo spirito
particolarmente festaiolo che la caratterizza. Forse
addirittura a livello mondiale non esiste oggi qualcosa di
Dove Chennai, India
Quando novembre - dicembre 2011
Online www.sruti.com
U. Srinivas
Les Transmusicales
di Paolo Ferrari
tra i piedi. C’è da riflettere. E da ballare la Colombia
analogica di Bomba Estereo, come pure la cumbia
digitale, tellurica dei Systema Solar. Scortati dal kuduro
di Mpula, persino, con l’Angola touch a soppiantare lo
storico french locale. Ma non è finita, perché con i Dengue
Fever il funk reggae americano è inopinatamente cantato
in khmer dalla cambogiana Chhom Nimol, tra le stelle
indipendenti del festival. Ci sarebbero anche i Filewile,
ma che siano in parte sudafricani lo si evince solo dalla
lingua; e la Phenomenal Handclap Band, debole però
rispetto agli Antibalas di cui è cugina prima. Un consiglio,
infine, al gruppo pop inglese Egyptian Hip Hop: vadano al
Cairo a suonare il loro indie neo rave di maniera, magari là
l’ingiustificata strafottenza del nome che hanno scelto sarà
più apprezzata.
December Season
La Stagione di Dicembre (December Season), come
continua ad esser chiamata malgrado la sua durata
trascenda questo limite temporale, è il momento in cui gli
appassionati locali ma anche gli Indiani- non-Residenti
(NRI) che ogni inverno arrivano a frotte a Chennai,
corrono di sala in sala per assistere ad uno o più kutcheri
(la definizione locale dei concerti di musica Carnatica)
organizzati con logistica e programmazione più che
collaudate. La competizione fra le sabhas per presentare
la miglior musica Carnatica al pubblico della città crea una
sorta di frenesia di programmi che porta una buona parte
dei musicisti ad esibirsi ogni giorno durante la stagione
del festival. Unico deterrente la temperatura, fresca
secondo qualsiasi standard e piuttosto ingannevole, con la
raucedine che purtroppo può colpire in qualsiasi momento
provocando diverse cancellazioni.
Le cucine chiudono in molte case. Non c’è tempo per
cucinare o per pulire, neppure durante la sosta fra un
concerto e l’altro, se poi si tiene conto dei deliziosi
manicaretti ed aromatici pranzi disponibili presso i punti
di ristoro organizzati nelle varie parti della città, cucinare
diventa superfluo.
C’è un considerevole eccitamento nell’aria, questa è
l’occasione per artisti affermati, come per i nuovi arrivati,
di dare il meglio di sé e del proprio repertorio, a volte
preparando programmi speciali per l’occasione.
Molte sabhas conferiscono premi e riconoscimenti agli
artisti o agli insegnanti più affermati. Il Sangita Kalanidhi,
simile in quanto a dimensione e diversità. Anche questo fa
di Chennai una destinazione per eccellenza sia per il turista
che per quegli Indiani residenti all’estero che provano
nostalgia della loro immensa cultura.
Mai si erano visti tanti live extra anglosassoni né
riconducibili strettamente al rock e alla techno nel festival
bretone giunto alla 32° edizione. Buon segno, il concetto
di «musiche attuali» su cui si basa la kermesse da 50.000
persone per 95 concerti si amplia. E il gusto ci guadagna. A
fine manifestazione, tutti concordano sull’eleggere Oy, un
ragazza proveniente dal Ghana via Svizzera, a rivelazione:
tra giocatoli trasformati in strumenti, suoni tradizionali e
digitali il suo show è frizzante e seducente. Come pure dal
Ghana arriva Blitz The Ambassador: un rapper residente a
New York, è vero; ma nel cui set irrompono l’hi-life di casa,
citazioni esplicite di Miriam Makeba e Fela Kuti, adrenalina
e consapevolezza. Mélange sontuoso anche quello dei
Donso, che dal Mali portano gli ngoni da incrociare alla
black statunitense più sanguigna, senza house per turisti
Dove Rennes, Francia
Quando dicembre 2011
Online www.lestrans.fr
10 primavera 2011
36 La giornata nazionale della Rete
Italiana di Cultura Popolare
di Luisa Perla
La cultura popolare ci ricorda chi siamo, la nostra identità,
rappresenta un patrimonio di alto valore, è storia viva,
l’anima dei luoghi e delle persone, memoria collettiva
delle tradizioni e delle radici che tessono l’esistenza e la
peculiarità di un territorio. In un mondo dove tutto è veloce
e molti aspetti della vita sono insicuri il 13 dicembre ci
fermiamo e ritroviamo noi stessi, riscopriamo il piacere di
raccontarci storie e di vivere emozioni forse dimenticate…
13 Dicembre 2010
4° Giornata nazionale della rete italiana di cultura popolare
Durante il giorno di Santa Lucia riaccendiamo le luci sulla
cultura popolare: migliaia di persone, che sono alla base di
una rinata volontà, scelgono di sostenere la salvaguardia
delle proprie identità e della cultura che la esprime, nel
continuo confronto con le altre. La Rete Italiana di Cultura
Popolare è un organismo di soggetti locali che svolge un
lavoro di sistema, e che, nel rispetto delle singole peculiarità,
attua politiche culturali nazionali ed internazionali, nelle
quali i territori condividono azioni, risorse e valori in
progetti comuni, creando sinergie tra soggetti diversi. La
Rete Italiana svolge contemporaneamente attività di studio
e ricerca, di progettazione e programmazione di azioni
mirate alla individuazione, tutela e valorizzazione, nel solco
della modernità, delle tradizioni e delle diverse espressioni
di socialità culturale. La Rete è dunque una realtà, un
punto di riferimento essenziale per chi voglia affrontare in
Italia il tema della cultura popolare. Proteggere ciò che è
particolare, attraverso la sua comunicazione e fruizione,
attraverso il sistema di “territori in rete” (che non ha eguali
in Italia), per veicolare quei saperi che vengono spesso
trasmessi solo oralmente, ma al tempo stesso farlo uscire
dall’isolamento intessendo relazioni che costruiscono un
sistema. Di più. Non solo valorizzare saperi volatili, ma
affermare la Cultura dei territori, il rispetto per i Maestri
del sapere popolare, il rinnovato interesse dei giovani
per la Tradizione: adoperarsi affinché si affermi una vera
globalizzazione delle diversità culturali. In un luogo in cui i
saperi si sono sedimentati, reinventati, sovrapposti a quelli
di molti altri, il compito della Rete è quello di comunicare
10 primavera 2011
37
Manresa
Mondomix.com / 360°
portando in piazza e in ogni luogo d’Italia danze, musiche,
teatro, artigianato ed enogastronomia per rappresentare,
trasmettere alcuni principi della tradizione, che in sé
avevano già il germe del “tradimento”. Il tradimento è un
modello positivo nella costruzione di un rapporto con la
propria o qualsivoglia radice: nel momento in cui un “attore”
riporta al pubblico un racconto o un canto, ometterà alcuni
particolari e ne includerà altri, lo trasformerà in una sua
personale interpretazione. Diversa la grana della voce e
diversa la fisicità di chi agisce.
Lunedi 13 Dicembre in Italia si riaccendono le luci....
Proclamata la “Giornata Nazionale della Rete Italiana di
Cultura Popolare” il 13 Dicembre è una giornata di festa
e di feste, nel quale si celebra la cultura popolare e nel
quale si illumina la Tradizione attraverso la sua tutela, la
reinterpretazione e l’innovazione. Associazioni, artisti,
scuole, musei, enti locali, biblioteche e singoli cittadini,
tutta la cultura in rete non solo virtuale, si attivano sul
proprio territorio. Ogni manifestazione si unisce alla miriadi
di espressioni organizzate e distribuite sull’intera penisola
italiana, lanciando un forte messaggio per la valorizzazione
di una componente fondamentale del nostro patrimonio
culturale: La Cultura Popolare e i beni immateriali.
Molteplici eventi in contemporanea ramificati in tutta Italia
evocano, raccontano e registrano rituali, comportamenti,
prodotti dell’immaginario ed espressività, a dimostrazione
di come la cultura popolare sia radicata ai territori, con
usi, costumi, tradizioni che mutano da area ad area. Ma
nell’insieme c’è vitalità, c’è relazione, un unicum dei saperi
popolari. Incontri, spettacoli, racconti, poesie, musiche
e danze in musei, biblioteche e una miriade di spazi di
Piemonte, Toscana, Veneto, Lazio, Abruzzo, Campania,
Puglia e Sicilia. Una vivacissima giornata che unisce
zampogne, pupi, poeti a braccio, arpe celtiche e courente
occitane.
Online www.facebook.com/profile.php?id=1796947704
XIII Fira Mediterrània
di Paolo Ferrari
Per metà dedicata alla musica e per il resto atomizzata
tra teatro, circo, attività pedagogiche e turistiche, la Fiera
Mediterranea invade la cittadina catalana a una sessantina
di chilometri da Barcellona con l’appeal del festival folk di
livello europeo e la forza fisica della sagra di paese. Una
miscela che conquista fin dal primo assaggio, quando
si attraversano gli stand gastronomici e artigianali per
raggiungere il teatro Kursaal, sede dei live di punta che
fanno regolarmente registrare il tutto esaurito.
È lì che sfilano due delle tre regine del festival: venerdì
sale sul palco la palestinese Rim Banna, combattiva
nei contenuti a favore del suo popolo, magnetica nella
presenza scenica, impeccabile nelle esecuzioni vocali
ma un po’ penalizzata da arrangiamenti innocui; sabato
sale in cattedra Franca Masu, che incanta scalza con la
sua Sardegna di casa in Catalogna, con un soul senza
passaporto che si tinge di jazz, swing, lirica e trova nel
piano di Mark Harris un formidabile compagno di viaggio
sorretto dal contrabbasso di Salvatore Maltana e dalle
percussioni di Roger Soler. La terza sovrana la incontriamo
giovedì all’aeroporto di El Prat, da cui raggiunge con noi il
gruppo per lo show della sera stessa. È l’algerina Hasna
El Becharia, e il suo concerto nel tendone più suggestivo
per collocazione, sulla Plaça del Milcentenari, si presenta
diviso in due. La prima parte sciorina blues arabo, con la
chitarra elettrica tra le mani della signora; il secondo tempo
sale verso la trance, con la sciantosa a dettare il ritmo sul
guembri e la sontuosa ballerina del gruppo scesa in mezzo
al pubblico per guidare le danze. Lo stesso spazio compete
venerdì sera alla sempre convincente Amsterdam Klezmer
Band, il cui rodato set non ha problemi a sganciarsi dal
Danubio e dal Mare del Nord per immergersi nel bacino
del Mediterraneo. Scenario comune anche a Moussu T
E Lei Jovents, vecchi animali notturni per nulla intimoriti
all’idea di esibirsi sabato notte alle 2, e che gigioneggiano
mischiando i brani del disco più recente a quelli dei tre
precedenti, ormai classici a tutti gli effetti della nuova
canzone d’autore glocal europea.
Questa cittadina a saliscendi di 75.000 abitanti, dominata
da monumenti imponenti come la Basilica di Santa Maria
de la Seu e la Cova in cui visse Sant’Ignazio di Loyola, è in
realtà un paese dei balocchi per i bambini. Ci sono giochi
ovunque, e 1.300 scolari partecipano alle attività ludico
educational della Fiera. Né mancano i piccoli spettatori
al live pomeridiano di Mimmo Epifani & Epifani Barbers,
catapultati con pizzica e mandolino sul palco dell’area
gastronomica. Tra birre artigianali e crocchette di baccalà,
il loro set conquista un’audience trasversale; ci sono
curiosi, ballerini d’istinto e gran feeling diffuso, mentre
sotto il profilo artistico piace l’utilizzo contemporaneo
di fisarmonica e organetto diatonico. Tra le glorie locali,
guidate dallo scontato bagno di folla per Miquel Gil, la vera
sorpresa sono gli itineranti Residual Gurus, riciclatori di
materiali in disuso che con i loro strumenti inediti giocano
alla riproduzione meccanica dei ritmi techno.
Il resto è Loggia Professionale, ovvero stand, contatti,
presentazioni, incontri. Lì ci imbattiamo nello spazio
M.E.I., kermesse nostrana sempre più attenta alla galassia
world, come pure nell’edizione numero 44 del colombiano
Festival de la Leyenda Vallenata, spettacolare kermesse
di organetti diatonici in programma a Valledupar dal 26 al
30 aprile 2011. Nonché nel lancio in grande stile dei suoi
targati Baleari e in un meccanismo della Fira Mediterrania
molto apprezzato dai delegati: gli iscritti sono obbligati a
richiedere i biglietti gratuiti spettacolo per spettacolo, in
modo che ciascun promoter sappia quali degli operatori
presenti hanno scelto il suo artista e possa contattarli in
futuro per feedback, proposte e nuovi progetti.
Dove Manresa, Spagna
Quando 3-6 novembre 2011
Online www.firamediterrania.cat
10 primavera 2011
38 Un incontro piccante
di Luca Vergano
illustrazioni Cristina Amodeo
Per favore, mi porta un’altra ciotola di peperoncino?
Non sono ancora arrivate le prime portate che Shujaat ha
già finito una ciotola di peperoncino. Qualche cucchiaio
accompagnato da nuvole di drago, altri accompagnati
soltanto da schiocchi di labbra di piena soddisfazione. Non
male, penso, ma non così sorprendente visto che il titolo di
un suo disco è Ammoré (sic) e in copertina è raffigurato un
grande cuore fatto di peperoncini.
Non posso farci niente – mi dice – mi piace mangiare
speziato. Sono cresciuto così, la cucina di casa nostra era
molto speziata, persino per le abitudini indiane.
Un istante dopo Shujaat è di nuovo immerso nella
conversazione. Al tavolo ci sono Renzo, che sta producendo
il suo disco, Fabio (che si occupa della registrazione),
Federico, che sul disco suonerà le tabla e che si rivolge
come ogni allievo deve fare chiamando Shujaat guruji.
Loro parlano di raga, di tempi, battono le dita sul tavolo e
contano. Io continuo ad osservare affascinato la quantità
di peperoncino che Shujaat continua ad ingurgitare.
Shujaat suona il sitar, per capirci quello strumento a corde
che a un certo punto l’hippie Franchino sfoggia in Fantozzi
Subisce Ancora. Solo che, a differenza di Franchino,
Shujaat proviene da una delle dinastie di musicisti classici
più famose ed importanti dell’India, addirittura risalente al
musicista di corte dell’imperatore Moghul Akhbar, attorno
1600. Lui stesso è un Ustad, un maestro. Un po’ come
essere a tavola con Benedetti Michelangeli, ecco.
A tavola però il peso di tutta questa
dinastia scompare. Ustad Shujaat è
molto molto divertente, in un modo
asciutto e anche un pò sarcastico.
Qualche tempo fa gli è stato
presentato un ragazzo italiano che
suona il sitar e che si era esibito in
Vaticano.
Shujaat stringendogli la mano lo
guarda e gli dice, estremamente
serio, So, I am classic sitarist and you
are pope sitarist. C’è voluto un attimo
per tutti per capire la battuta. Ma
poi c’era gente a cui il peperoncino
usciva dal naso, dal ridere.
Ovviamente il peso della dinastia
si sente quando Ustad Shujaat si
siede e comincia a registrare. Non
capisco niente di musica indiana,
ho l’approccio contadinesco mi
piace/non mi piace. Ma lui è davvero
entusiasmante. Per la sua capacità
di rendere i lunghissimi brani tipici di
questa musica qualcosa che passa
alla velocità della luce, per la sua
capacità di far seguire una dietro
l’altra frasi morbide, estremamente
melodiche. Come uno che spiega il
Mahabarata ad un bambino senza che
il linguaggio semplice ne diminuisca
di un grammo la forza poetica.
Nel frattempo arrivano i piatti e su
ogni raviolo cinese Ustad Shujaat
mette due cucchiaiate di peperoncino.
Ne aggiunge persino sul pollo in
agrodolce, che già aveva specificato
desiderare very spicy.
Improvvisamente capisco perché
mi faccia così sorridere la sua
propensione al peperoncino. Il
maestro mi ricorda moltissimo il
personaggio di un libro che ho appena
finito, il detective Vish Puri. Vish Puri,
della Investigatori Privatissimi Ltd. ha
10 primavera 2011
39
The Street Foodie
Mondomix.com
una passione notevole per il cibo, grande classico della
letteratura poliziesca. Ma è in altre cose che Ustad Shujaat
e Vish Puri si assomigliano.
È solo che è un po’… tasteless (insipido).
Anche il detective Vish Puri ha una grande cultura classica.
Anche Vish Puri tende ad una certa pinguedine. E anche
Vish Puri adora il peperoncino, in particolare la qualità
Naga Morich, che sembra essere quella più piccante del
mondo. Non so se Ustad Shujaat li coltivi sul tetto di casa
sua come Vish Puri. Ma non oso del tutto chiederglielo.
D’altronde nessuno chiederebbe a Benedetti Michelangeli
se mangia la caponata come Montalbano, no? Però gli
chiedo delle spezie.
Quando lo racconto a Shujaat, si mette a ridere. Sì,
probabilmente è vero – dice.
Le spezie in India ovviamente hanno un valore igienico
altissimo – dice. Aiutano a conservare il cibo, aiutano a
digerire meglio, aiutano a stare bene in un posto che a
livello climatico è molto difficile.
So long, orgoglio italo-centrico.
Anche mio padre amava magiare molto speziato – mi dice
quando la discussione al tavolo si sposta dalla musica.
Il cibo a casa nostra ha sempre avuto un forte valore
simbolico. Mia madre cucinava moltissimo quando mio
padre tornava dalle tournée, cucinava quando riceveva
qualche riconoscimento particolare. E ovviamente cucinava
nelle grandi occasioni.
Ma la questione è ancora più ampia a quanto pare. Shujaat
si rivela abbastanza ferrato e in grado di approfondire il
discorso gastronomico. Ovviamente senza interrompere
di mangiare, aggiungendo cucchiaiate di peperoncino su
ogni piatto.
Anche il mangiare seduti con la schiena dritta, come viene
insegnato fin da bambini, è per far sì che la digestione
incominci immediatamente. E poi tutte le regole su cosa
mangiare in quale stagione… L’alimentazione è una
questione complessa in una cultura complessa come
quella indiana, mi dice mentre avvicina alla bocca una
cucchiaiata di riso.
Effettivamente, mentre ero ad Ahmedabad qualcuno mi
aveva detto, ad esempio, che è meglio non mangiare
cibo fritto nella stagione dei monsoni. Perché l’umidità
e i cambi di tempo improvvisi rendono estremamente
difficile digerire i cibi più pesanti. Io ovviamente me ne ero
guardato bene adorando in maniera smodata i Samosa
ed essendo curioso di assaggiare le ricette di uova degli
eunuchi raccontate nel capitolo uno. Ma Ustad Shujaat di
questa regola sembra non saperne niente.
Questa cosa non l’ho mai sentita – dice – ma potrebbe
essere. D’altronde ogni stato ha le sue particolarità
culturali.
E non solo ogni stato, mi sembra. Gli chiedo del curry,
che qui molti considerano una spezia mentre è in realtà
un metodo di cottura basato su una miscela di spezie, che
addirittura cambia di casa in casa.
Sì è vero! E a casa mia era sempre molto piccante.
Non ne dubitavo, a dire il vero, ma mi trattengo dal dirlo.
Però questo mi dà qualche indizio sul perché della scarsa
attrattiva della cucina italiana nei confronti degli indiani.
Scarso entusiasmo riscontrato più di una volta, soprattutto
quella volta che, ad Ahmedabad, io e altri italiani
decidemmo di ringraziare la nostra amica Mansi – che
aveva cucinato per noi strepitose Aloo Paratha e altre cose
buonissime – con la più tradizionale delle spaghettate.
Eravamo persino riusciti a trovare il parmigiano, anche se
quello già grattuggiato.
Buono – aveva detto Mansi, molto gentile ma poco
convincente.
Sei sicura? - le abbiamo chiesto – non sembri così
contenta…
Ma allora qual è il suo piatto preferito?
Il Biryani che faceva mia madre. Era il piatto delle occasioni
più speciali. Da piccolo quando sentivo che si avvicinava
il momento di mettersi a tavola. Ancora adesso non sono
riuscito a trovare nessuno che riuscisse a rendere la carne
così saporita, così morbida. Si scioglieva in bocca.
Ecco. La cucina di mammà. E mentre Ustad Shujaat
si alza per ritornare in studio di registrazione penso al
titolo del suo disco. E penso che forse, sarebbe stato più
appropriato That’s Amoré.
Cosa The Street Foodie è un progetto di Luca Vergano e
Cristina Amodeo. Luca scrive e Cristina illustra.
Online www.thestreetfoodie.com
Chi Shujaat suona, canta, viaggia, compone. Potete leggerel
la recensione di Dil, il suo ultimo CD, a pagina 46
Dove Il ristorante in cui è avvenuta questa conversazione è a
Torino, si chiama La Via Della Seta ed è molto buono, non il
solito cinese convenzionale..
10 primavera 2011
40 Recensioni
Mondomix.com / RECENSIONI
Mario Lucio
Lëk Sèn
Lusafrica / IRD
Black Eye
Kreol
Harry
Belafonte,
Pablo
Milanés,
Cesaria Evora, Toumani Diabate,
Teresa Salgueiro, Milton Nascimento, Mario Canonge,
Ralph Thamar, Awa Sangho, Gorée Afro Djembé. Questa
la lista dei partecipanti al viaggio del musicista, autore,
avvocato e parlamentare di Capo Verde che in diciassette
tracce, maturate lungo 92.482 chilometri, cuce Africa e
Sudamerica nell’ideale cerniera lampo culturale, sonora e
umana dell’Oceano Atlantico. Al grande mare, Matrimonio
dell’Umanità, è dedicato l’ambizioso colossal, esaltazione
della natura creola delle persone e delle cose come
moltiplicatore di ispirazione e opportunità. Un concept album
limpido negli intenti e, ovviamente, assai articolato nello
svolgimento. Si resta a bocca aperta di fronte all’incanto
eterno della voce di Milton Nascimento, vinificato in purezza
nella liquida Mar di Tarrafal; e ci si culla nel languore di una
Hora de Andorinha sospesa in cielo da Teresa Salgueiro e
Pedro Joia. Affonda nello spirito il Planet con voce narrante
engagé di Harry Belafonte; nuota in onde fresche il Mar
azul, proprio quello, condiviso con la maestra Evora. Vive di
grandi intrecci a tutta corda la Mae Mother di cui è complice
Toumani Diabate; e muore in cielo all’inizio la sontuosa
produzione da messa creola senza strumenti Na Capella.
Quando c’è da infondere brio a Santa Catarina Ossiana o
a Come Black, ecco pronti i disinibiti Gorée Afro Djembé,
dalla memoria lunga. Kreol è un disco che a ogni ascolto
rivela nuovi dettagli, sfumature, colori; non scadrà mai.
Paolo Ferrari
Puoi scaricare gratuitamente il PDF di
Mondomix Italia dal sito
www.mondomix.com
Trouble In Jerusalem
Enja / Egea
Un piccolo miracolo quello che si
verificava nel 1996 quando, in archivi
russi, veniva rinvenuto un esemplare di un classico del
cinema muto tedesco, Nathan il saggio, opera del 1922 di
Manfred Noa che era stata messa al bando dal nazismo per
il suo invito alla tolleranza religiosa. Accusata di simpatie
per l’ebraismo, tutte le copie rintracciate venivano distrutte.
Restaurato con il patrocinio di ZDF e Arté, il film è tornato
recentemente a nuova vita anche grazie alle musiche qui
contenute. Non si sarebbe potuto scegliere un autore più
adatto alla bisogna di questo compositore libanese virtuoso
dell’oud, da sempre propenso alla contaminazione della
tradizione mediorientale con influssi europei e di jazz.
Questa immersione in un ambito sinfonico patisce qualche
momento un po’ ingessato, ma nel complesso regala
suggestioni non banali.
Eddy Cilìa
10 primavera 2011
41
Burn
Brucia davvero il talento del giovane
cantautore senegalese, in rampa di
lancio per un exploit in Francia e non solo. Da quelle parti
lo sta aiutando la fiducia di Tiken Jah Fakoli, che se lo
porta spesso e volentieri in tour: ovunque pesa l’attestato
di stima di Amadou Bagayoko, la metà maschile della
coppia d’assi Amadou & Mariam, qui presente come ospite
in Massamba, ossessiva progressione in mirabile equilibrio
tra groove da club, profondità blues e ispirazione rurale.
Il ragazzo arriva infatti da un contesto extra urbano, un
villaggio di pescatori dalle parti di Dakar chiamato Ngor;
transitato dalla capitale, è subito approdato a Parigi. Dove
gli incontri sono stati tanti e proficui. Il reggae, innanzitutto:
senza essere un artista di genere, Sèn vi attinge sia per
piglio vocale, a partire dai primi secondi dell’iniziale,
calorosa e radiofonica Life, che per connessione diretta
con la Giamaica, il cui temperamento è rappresentato da
Kiddus I, a sua volta agile nel districarsi in contesti ritmico
melodici spiazzanti come quelli che lo mettono alla prova
in Sa Nitee, intrisa di mala, e Nekaal, addirittura una ballata
acustica il cui approccio rimanda a Buju Banton o Anthony
B. Spalle larghe sotto il profilo della formazione musicale, e
grana vocale di impressionante maturità: Burn è la canzone
giusta, tra sufferin alla Burning Spear e poetica alla Pierre
Aquendengué, per apprezzare il peso specifico di un
ragazzo ben sostenuto in produzione dai Dirty District e da
una band imbottita di ospiti di prima scelta.
Paolo Ferrari
AA VV
Capo Verde Terra d’Amore 2
Microcosmo Dischi / Edel
Rabih Abou-Khalil
AFRICA
Capo Verde Terra d’Amore. Basta solo il
titolo per richiamare alla mente suoni e
immagini assolutamente inconfondibili. Voci di morna, voci
dal suono carezzevole che cantano della malinconia vestita
di gioia caratteristica dell’arcipelago. Voci indimenticabili
che abbiamo conosciuto nel corso degli anni fra le quali
spicca, regina incontrastata, quella di Cesaria Evora, ma
anche quelle della giovane Lura e del grande compositore
Teofilo Chantre. Questo album è ricco di collaborazioni
con importanti figure della scena pop nostrana e non solo.
Da Ron (che duetta con Cesaria Evora) a Bruno Lauzi o
al duo Magoni-Spinetti (Musica Nuda). Da Peppino di
Capri a Frankie Hi-Nrg Mc, da Massimo Ranieri a Franca
Masu includendo anche il pianista cubano Omar Sosa e la
cantante polacca Kayah che qui canta in italiano duettando
con Teofilo Chantre. Un ponte musicale fra la melodia
cantata in lingua italiana e i suoni creoli capoverdiani. Se
può essere utile a dischiudere le orecchie ottuse di alcuni
nostri compatrioti ben venga, anche se personalmente non
potremmo mai rinunciare agli originali.
Elisabetta Sermenghi
musiques et cultures dans le monde
Asmara All Stars
MIX
MON DO ma
Mi a
Eritrea Got Soul
Out / Here
Sono pienamente giustificate le ambizioni internazionali
implicite nel titolo dell’album in cui il produttore francese
Bruno Blum fa confluire una ricca messe di fonti di
ispirazione, per un risultato finale multicolore, cosmopolita
e di grande attualità. Tutto con un retrogusto inconfondibile,
quello delle scene reduci da recenti tragedie belliche
e dunque cariche di entusiasmo e motivazioni derivati
dalla sensazione diffusa di essere fuori da un periodo di
surgelamento artistico. Le stelle di questo intraprendente
firmamento indipendente provengono da esperienze
differenti, e il nome del combo lo sottolinea. Non deve
quindi stupire se l’umido e sensuale dub reggae Amajo,
condotto dalla voce di Faytinga, convive senza stridori
con il sanguigno blues Ykre Beini, cantato da Temasgen
Yared, mentre lo spirito da club espresso dal titolo del cd
si esalta nel travolgente funky jazz rap Adunia. Esperienze
trasversali, come del resto la selezione generazionale
operata da Blum sul posto, che spazia da personaggi
di grande esperienza come Brkti Weldeslassie e Ibrahim
Goret ad altri recentemente emersi. Per quanto concerne
la band, Blum ha puntato sulla massima fedeltà al suono
analogico locale, incidendo all’Asmara con ampio utilizzo
di fiati e organo da funky americano. Sotto, brucia il fuoco
di una scuola jazz etiope che dagli Anni Cinquanta ha
pochi rivali nel continente; sopra, il governo dell’Asmara
può essere soddisfatto dell’incarico affidato al produttore
francese per contribuire alla fine dell’isolamento culturale
del paese.
Paolo Ferrari
Nour - eddine
Desert contemporain
Helikonia / Egea
Autore, multistrumentista (sentir, guimbri,
tbal, dumbak, bouzouki) e vocalist,
Nour-Eddine Fatty incarna in modo originale l’espressione
contemporanea della musica marocchina aperta e attenta al
resto del mondo. Marcato in buona sostanza dalla presenza
della trance gnawa, personificata dal contributo eccellente
del quartetto Gnawa Bambara, il disco si avvale anche
dell’apporto del fiatista Davide Grottelli per indirizzare il
suono verso i territori dell’improvvisazione. È dall’apparente
contrasto tra fissità della tradizione e libertà di movimento
che sgorgano i momenti migliori dell’incisione. Le incursioni
delle tabla di Sanjay Kansa Banik concorrono ad ampliare
il quadro d’insieme. Desert contemporain è un ulteriore
esempio di produzione world, però ben congegnata.
Piercarlo Poggio
10 primavera 2011
42 AMERICHE
Mondomix.com / RECENSIONI
La Zurda
Calicanto
Acá y Ahora
Mosaico
Pirca - Live Global / Self
musiques et cultures dans le monde
MIX
MON DO ma
Mi a
AA VV
Bossa Nova
Soul Jazz / Family Affair
Può capitare che sia un libretto a fare imperdibile un
prodotto discografico? Con i signori della Soul Jazz
è quasi la norma e non certo perché musicalmente le
loro uscite risultino deficitarie. Al contrario! Pur con
qualche assenza inevitabile (una però è clamorosa)
dovendo comprimere in due CD una storia tanto ricca,
come manuale di bossa nova – presenti da Elis Regina
a Joao Gilberto, da Jorge Ben a Edu Lobo passando
per Sérgio Mendes e Baden Powell, Gilberto Gil e Maria
Bethânia, Vinícius de Moraes e Milton Nascimento –
questo doppio è uno dei migliori immaginabili e dire che
in commercio ce ne sono a decine, o più probabilmente
a centinaia. Nessuno dei quali può però farsi forte di
settantasei pagine di narrazione e analisi minuziose di
come nacque la musica pop brasiliana più sofisticata di
sempre, come conquistò il mondo, perché declinò.
Eddy Cilìa
Con questo nuovo album, prodotto da
Fabrizio Barbacci, La Zurda si ripropone
alla platea mondiale con un sound più intenso, efficace,
trasversale tra gli stili e senza quelle lievi sbavature che
erano presenti in La Zurda e Para Viajar, i primi due progetti
discografici del giovane gruppo argentino, con il quale il
pubblico italiano ha stabilito un ottimo feeling durante le
varie tournée della band nel Belpaese. Empatia dovuta al
sangue italiano che questi ragazzi hanno ricevuto dai loro
bisnonni emigrati in Sudamerica all’inizio del Novecento?
Forse, ma ciò che colpisce e piace è la modernissima
cifra stilistica di questa formazione, che si caratterizza
per un levare latineggiante molto contagioso, per delle
contaminazioni azzardate mescolando e frullando a ritmo
giusto rock alternativo, rockblues, ska, reggae, world
music, balada, accenti di tango, milonga, chacarera o
versi di bolero latino. Un percorso certamente contromano
che si evince sia dall’ampia sperimentazione di linguaggi
ma anche dal panorama di strumenti impiegati: da quelli
moderni (chitarra elettrica, batteria, piano, effetti hammond,
samples, contrabbasso, fiati) a quelli tipici sudamericani
(cuatro, charango, ronroco, cajón, bombo legüero).
Presente e passato, modernità e tradizione sono gli
ingredienti base amalgamati nella realizzazione di Acá Y
Ahora, un cd che offre un ventaglio musicale molto ampio e
variegato. A mantenere in alto lo spirito di questo piacevole
viaggio ci aiuta Paolo “Pau” Bruni, il cantante dei Negrita
intervenuto a duettare in italiano nello stupendo Como
El Rio (tr. 12, bonus track), un brano acustico energetico
con un refrain che ti conquista e comincia a canticchiarti
in testa “ogni giorno passa e va rubando il nostro tempo
/ tutto scorre e passa come il fiume”. Beh, per un po’
di giorni sei fritto, ti svegli e ti addormenti cantando o
fischiettando questa strepitosa melodia che chiude l’ottimo
Acà y Ahora.
Gian Franco Grilli
Calicanto / Felmay
musiques et cultures dans le monde
MIX
MON DO ma
Mi a
AA VV
Calabria 1 strumenti.
Zampogna e doppio flauto
Taranta / Felmay
La riedizione di questo disco, lungamente attesa,
testimonia della prima robusta ricognizione su strumenti
folklorici calabresi, condotta da Tucci, etnomusicologa
e etno-organologa, oltre 30 anni fa. L’originale
LP, corredato di un ricco apparato documentale conservato e ampliato nella riedizione -, fu pubblicato
ne I Suoni, collana ideata da Diego Carpitella, uno dei
padri della moderna etnomusicologia. Ascoltare oggi le
zampogne e i doppi flauti suonati da maestri della musica
contadina calabrese dei tardi anni ‘70 e comprenderne
l’orizzonte culturale di riferimento, è esperienza unica e
possibile - in modo consapevole e libero da arcaismi o
esotismi interni - proprio grazie alla riedizione. L’opera è
disponibile anche in forma di libro con CD, pubblicato
da Taranta-Besa.
Daniele Sestili
Shadows Tall
Celso Fonseca
Voz e Violao
Amor, Festa e Devoção ao Vivo
Biscoito Fino / Family Affair
Doppio cd dal vivo per celebrare la più
recente tournée mondiale della sovrana
del Tropicalismo e salutarne al tempo stesso 45 anni di
carriera. E Doppio merito: due cd secchi, senza il solito
pasticcio del cd + dvd; e un recital di classe immortalato
per intero.Va da sè che non sono queste li circostanze in
cui rinvenire aperture verso il futuro o ardite scommesse.
La cantante e discografica carioca incastra nel programma
qualche canzone recente, tratta dai cd complentari
Encanteria e Tua, per dare fiato nella cavalcata di 55 tutoli
a un uragano di classici. Ci sono ovviamente Explode
coração e O que é, o que é, come pure perle del fratello
Caetano Veloso della caratura di Dama do Cassino, Não
identificado e Queixa. Tutto inciso nel corso della data
casalinga del tour, tenuta il 12 e 13 marzo a Rio.
Paolo Ferrari
10 primavera 2011
Sceglie
una
veste
volutamente
sobria, Calicanto, nel presentare il
quattordicesimo lavoro in trent’anni di prestigiosa carriera.
Primi a scavare nelle storiche relazioni sonore tra le
sponde settentrionali dell’Adriatico, con accorto rigore
da ricercatori, ma senza atteggiamento pedantemente
filologico, intenti a riadattare la tradizione senza complessi
(si ascoltino Pairis/Scottish saumonée e soprattutto O fia
mia) ma non inseguendo effimere mode musicali. In più
c’è la forza onirica, simbolica, visionaria di composizioni
che sovente hanno come destinazione la scena teatrale.
Ulteriore grande novità in Mosaico l’incontro riuscito con
l’Orchestra Regionale Filarmonia Veneta e la scrittura del
compositore Gianluca Baldi. L’iniziale Grechesca, ispirata
a danze adriatiche dei secoli XV e XVI su testo plurilingue,
o la speziata Vento di tramontana/Moresca arcana sono
emblemi di un bel disco di gusto raffinato e fortemente
stratificato sotto il profilo timbrico, contenente liriche
tradizionali o di autori del territorio veneto (Andrea Zanzotto,
Biagio Marin, Hugo Pratt): storie di ieri e di oggi di Venezia,
della laguna, di genti adriatiche e mediterranee.
Ciro De Rosa
Jeana Leslie &
Siobhan Miller
Puoi scaricare gratuitamente il PDF di
Mondomix Italia dal sito
www.mondomix.com
Maria Bethânia
43
EUROPA
Microcosmo Dischi / Edel
Una voce che canta in una lingua
molto dolce (il portoghese brasiliano) e
il suono della chitarra che l’accompagna. Celso Fonseca
con questo suo nuovo lavoro Voz e Violao (CD + DVD)
riesce a creare un’atmosfera talmente intima che più
che alla registrazione live di un suo concerto tenutosi a
Rio de Janeiro nel settembre 2009, si ha la sensazione
di partecipare ad una serata fra amici con un omaggio ai
successi dei più grandi nomi della musica brasiliana. Una
volta tanto, l’affermato compositore anziché cantare brani
di sua produzione si diverte a rileggere la musica altrui. Dei
diciannove brani presenti, infatti, solo tre sono stati scritti
da lui (Slow Motion Bossa Nova, Sorte e Febre). Pescando
nell’immenso mare delle produzioni brasiliane Fonseca
propone brani di Vinícius Cantuária, Erasmo e Roberto
Carlos, Gilberto Gil e molti altri, oltre a una versione bossa
di The fool on the hill dei Beatles. La colonna sonora ideale
per un uggioso pomeriggio d’inverno.
Elisabetta Sermenghi
La Banda di Ruvo di Puglia
Musica sacra della
Settimana Santa
Enja / Egea
La scrittura bandistica dell’Italia del
Sud, rivalutata in anni recenti, ha suscitato un inaspettato
interesse nel mondo discografico e festivaliero legato alla
musica world. Gli effetti dell’onda lunga sono percepibili
anche nella presente produzione (tedesca), testimonianza
di un live andato in scena nel 2009 nella basilica di SaintDenis. In programma sei marce funebri di Luigi Cirenei e
dei fratelli Antonio e Alessandro Amenduni affidate alle
cure della Banda di Ruvo di Puglia (con Pino Minafra al
flicorno) diretta da Michele di Puppo. Le esecuzioni
sono di alta qualità e non soffrono l’estrapolazione dal
contesto originario della processione. Pathos, emozione e
sentimento del dolore si intersecano e si sovrappongono
senza sosta, innescando quel connubio tra sacro e profano,
spirituale e materia a cui è impossibile restare indifferenti.
Piercarlo Poggio
Greentrax / IRD
Sono alla seconda prova discografica,
dopo l’interessante debutto del 2008, le
due pluripremiate giovani folksinger scozzesi uscite dalla
Royal Scottish Academy Of Music. Isolana delle Orkney
Jeana (voce, violino, Hardanger, piano, armonium), originaria
dell’area di Edimburgo Siobhan (voce, piano, danza). Il duo
si concentra su un repertorio di ballate tradizionali scozzesi
ed irlandesi e di canzoni contemporanee. Non difettano
di personalità vocale le due cantanti, accompagnate da
chitarre, mandolino, contrabbasso e percussioni. Shadows
Tall guadagna pienezza e fantasia negli arrangiamenti, di
piglio quasi sempre energico. Cattura l’apertura di Johnnie
o’ Braidisleys, protagonista il pianoforte. Si prosegue con
i passaggi aggressivi di chitarra elettrica in Trooper and
the Maid. Ancora sequenze vincenti di piano nell’antiwar song The King’s Shilling e in Alexander, dove splende
l’ugola di Jeana. Armonie vocali perfette in Buttermilk Hill,
ma altrove cala un po’ il tasso di creatività e trapela un
certo accademismo. Segna ancora un picco il medley
strumentale orcadiano The Giant Set, dove svetta il violino,
mentre nelle splendide Who Will Sing Me Lullabies? e The
Great Valerio, rispettivamente firmate da Kate Rusby e
Richard Thompson, restiamo ammaliati dalla superba voce
di Siobhan.
Ciro De Rosa
10 primavera 2011
44 FUSION
Mondomix.com / RECENSIONI
45 ASIA
Paolo Fresu, A Filetta
Corsican Voices, Daniele
di Bonaventura
Mistico Mediterraneo
Ecm / Ducale
musiques et cultures dans le monde
MIX
MON DO ma
Mi a
AA VV
Tradi – Mods vs. Rockers
Crammed / Materiali Sonori
La moderna tradizione dell’arcipelago Konono N° 1
e Kasai Allstars faceva gola a dj, produttori e remixer
di tutto il mondo, per cui l’etichetta titolare dell’onda
Congotronics ha pensato di organizzare la materia in
un’uscita dal titolo un po’ stiracchiato ma dalla sicura
resa emotiva. Ci sono nomi importanti del rinnovamento
conosciuto nelle ultime stagioni dal mondo dei club,
di cui si percepiscono gioia e rispetto nell’affrontare i
manufatti d’Africa: Animal Collective in punta di piedi,
Juana Molina in stile artigianato intergalattico, Skeletons
enfatico nel sottolinearne i pregi ipnotici. Nel secondo
disco, dominano la scena i 10’ di Shackleton su Kasai
Allastars, seguiti da Eye contro Konono; ma in generale
l’assortimento è vario e le soddisfazioni fioccano, non
solo sulla pista da ballo.
Paolo Ferrari
On the way to Damascus
Renaud García-Fons
Méditerranées
Enja / Egea
Nato per mischiare musiche e unire
e trascendere mondi il francese (di
origini spagnole e italiane qui orgogliosamente rivendicate)
Renaud García-Fons, “il Paganini del contrabbasso a
cinque corde”, come lo ha soprannominato qualcuno: studi
classici al conservatorio (e prima ancora di entrarvi suonava
pianoforte e chitarra), un flirt con il rock nell’adolescenza, la
passione per il jazz che finisce per prendere il sopravvento
ma è un jazz in sempiterno dialogo con altre musiche.
Principalmente etniche ma non solo, principalmente del
Mediterraneo ma non solo. Qui invece sì ed è un viaggio
straordinariamente fascinoso, che dal punto più a sud della
penisola iberica giunge sino al Bosforo, per poi andare
in Egitto e completare il cerchio tornando a Gibilterra.
Eccellenti i musicisti che si rendono complici del Nostro,
ma è il suo strumento il mattatore.
Eddy Cilìa
musiques et cultures dans le monde
Barbès Records / Crammed / Materiali Sonori
Strepitoso secondo volume di cumbias peruviane risalenti
alla fine degli anni sessanta. Questa raccolta, che prende il
nome da un liquore a bassa gradazione alcolica di origine
Inca (Chicha), in realtà non è da considerarsi un sequel
del precedente The roots of Chicha – 2007 ma piuttosto
una integrazione al già pregevole lavoro uscito tre anni
fa. In questo secondo volume, a dispetto delle originali
sonorità amazzoniche, vengono presi maggiormente
in considerazione l’aspetto urbano e le prime influenze
cubane e andine che hanno avuto un ruolo fondamentale
nell’evoluzione di questo tipo di musica. Esplosa alle fine
degli anni sessanta nella città disseminate lungo la parte
amazzonica del Perù, la cumbia amazzonica (poi chicha)
fu un fenomeno profondamente urbano, incorporava
folklore andino, musica creola di discendenza hispanica,
guajira cubana e sintetizzatori moderni. Sedici brani
molto gradevoli e trascinanti che ci condurranno a zonzo
fra epoche e altitudini diverse.
Elisabetta Sermenghi
Nuova, fresca, giovane musica fiorita nello spirito
del radîf classico, così che ritorna alla mente il verso
del poeta Mowlana Jalâl ud-Dîn Rûmî (1207-1273):
“In realtà dal frutto è nato l’albero”. Nella sua chiara
sobrietà si dispiega qui quella naturalezza, elegante
e senza tempo, dalla quale si sono allontanate le
artificiose composizioni di certi gruppi alla ricerca di
“nuovi approcci”. I brani composti dal direttore e solista
Reza Ghassemi rifulgono in due suites – la prima in
Bayat-e Tork, la seconda in Rast Panjgah – grazie ad
un organico insolito: quattro liuti setâr (Ghassemi, Aydin
Bahramlou, Babak Moayedoddin, Sepideh Raissadat)
e il flauto ney haftband suonato da Javid Yahyazadeh.
Su questo tessuto svettano i versi della poesia persiana
classica (Mowlana, Sa’di, Hafez, e il più recente Savoji)
cantati dalla giovane, toccante, magistrale voce di
Sepideh Raissadat.
Giovanni De Zorzi
Emin Yagci
Tulum.
A sound from the Black Sea
Vijay Iyer / Prasanna /
Nitin Mitta
FELMAY
Act
Lunghissimo, storicamente consolidato
e nondimeno sempre fonte di sorprese il rapporto fra jazz
e musica indiana, “due etichette inadaguate – ricorda Iyer
stesso nelle note di copertina – a racchiudere una massa di
informazioni e un archivio di conoscenze immensi… orizzonti
di possibilità sconfinati”. Pianista di genitori indiani ma nato
e vissuto sempre a New York, Vijay Iyer getta su questi
orizzonti uno sguardo ovviamente precipuo, ben diverso –
per dire – da quello di un John McLaughlin ma per certo
non lo stesso nemmeno del pianista Prasanna, originario
di Madras, o del tablista Nitin Mitta, di Hyderabad. Risiede
probabilmente proprio nel confronto fra sensibilità diverse,
ma capaci di trovare un’armoniosa sintesi, il segreto del
successo di un disco che innesta le spigolosità del bebop
nel contesto di intimismo cameristico che è del raga.
Eddy Cilìa
8173_digipack0236.indd 1
10 primavera 2011
Felmay / Egea
Felmay • strada roncaglia 16 • 15033 san germano AL • italy
ph. +39 0142 50577 fax +39 0142 50780 [email protected] www.felmay.it
P Felmay 2009
L’instancabile
settantaquattrenne
Lee “Scratch” Perry, una delle ultime
icone del reggae internazionale, nel 2010 è tornato nelle
sale d’incisione per proporci la sua Revelation. Grazie ai
musicisti Steve Marshall e George Clinton il disco è ricco di
arrangiamenti in perfetto stile dub ma l’eclettismo generale
legato a un turbine infinito di parole buttate alla rinfusa non
rende giustizia delle glorie passate del suo autore. Rispetto
al precedente The Mighty Upsetter il vecchio Scratch
sembra aver perso parecchio smalto.
David Valderrama
Buda Records / Felmay
P Felmay 2011
Politur / Egea
14
Cheerful
Pieces.
Quatorze morceaux pour un
redécollage
fy 8173
10 primavera 2011
Revelation
Ensemble Moshtaq
The Roots of Chicha 2 –
Psychedelic cumbias
from Peru
Tirtha
Lee "scratch" Perry
MIX
MON DO ma
Mi a
AA VV
Dodici Lune / IRD
Da millenni la via di Damasco
suggerisce ispirazioni a chi la percorre,
anche solo con la fantasia. Nonostante questi tempi di
disorientamento, restano gli artisti ad indicarci la direzione
e Luigi Campoccia guarda verso est. Dopo avere acquisito
strumenti e metodo dell’occidente, il pianista , tastierista
e compositore toscano, usa gli ampi margini espressivi
del jazz per inserirvi profumi e suoni che riportano ad una
tradizione più antica, quella mediterranea, di cui Damasco è
il simbolo e che affonda le sue radici nelle terre d’oriente. Da
laggiù, dalla Turchia in particolare - Paese che si è sempre
distinto per fattori linguistici, religiosi e sociali dal resto
del Vicino Oriente - giungono il chitarrista Önder Focan (di
formazione montgomeryana) e lo specialista di ney (antico
flauto anatolico) Aziz S. Filiz, i quali adattano le rispettive
tecniche e ispirazioni ad un progetto ibrido (oltre al jazz,
echeggia il tango), contaminato e variegato. Da ascoltare
sorseggiando te alla menta.
Giulio Cancelliere
musiques et cultures dans le monde
MIX
MON DO ma
Mi a
file under
emin yağci
turkey
world music
Luigi Campoccia
In Corsica la corale A Filetta rappresenta una delle migliori
espressioni della polifonia isolana. L’ensemble diretto
da Jean-Claude Acquaviva nell’occasione incontra in
campo aperto le improvvisazioni di Paolo Fresu e Daniele
di Bonaventura. L’etnojazz che ne scaturisce è piuttosto
lontano dalle solite forme di crossover e punta con decisione
verso il dettaglio delle coloriture e la cura dei particolari
timbrici. Situazioni ad effetto non ve ne sono: l’interazione
fra le voci incantatorie di A Filetta, il flicorno di Fresu e il
bandoneon di Di Bonaventura è improntata a un’intimità
fatta di ascolti reciproci. E se Mistico Mediterraneo può
per certi versi essere accostato a esempi illustri (Garbarek/
Hilliard, ad esempio) per altri se ne distacca decisamente
in virtù di una maggiore concretezza.
Piercarlo Poggio
L’anno si apre per la Felmay con un
disco pionieristico, tutto dedicato ad uno strumento
poco noto e ben poco registrato come la zampogna
(organologicamente un “aerofono a sacco con bordoni”)
tulum, diffusa in Turchia lungo coste del Mar Nero. Il tulum
risuona soprattutto, ma non esclusivamente, tra i Lazi
(Lazlar) gruppo etnico che vive lungo le regioni costiere del
Mar Nero a cavallo tra Turchia e Georgia, in repertori per
la festa e la danza. All’ascolto del primo brano si è colpiti
dalla vicinanza con il mondo macedone, bulgaro, quasi
il tulum fosse un testimone sonante dell’antica Tracia.
Riporta al presente l’energia e l’intensità dello straordinario
performer, cantore e poeta Emin Yagci, spesso affiancato
da altri strumenti tradizionali come il liuto baglama o la viella
kemençe, registrato ad Ankara grazie ad una complessa
iniziativa coordinata da Francesco Martinelli e Cenk Güray
ai quali si devono le esaustive note di copertina.
Giovanni De Zorzi
24-11-2010 14:41:04
fy 81676
Mondomix.com / RECENSIONI
file under
lalgudi GJR krishnan
anil srinivasan
south india
world music
Felmay / Egea
fy 81676
22-11-2010 12:45:19
Ravi Shankar
Ustad Shujaat Husain Khan
Felmay • strada roncaglia 16 • 15033 san germano AL • italy
ph. +39 0142 50577 fax +39 0142 50780 [email protected] www.felmay.it
Pejman Hadadi
Hermes Records / Egea
Hossein Alizadeh (1950) è forse il
più popolare solista (liuti târ e setâr),
compositore e didatta della nuova musica persiana.
La fama gli deriva soprattutto dalle composizioni assai
amate in patria. Monad, invece, è tutto incentrato
sull’improvvisazione e sull’irripetibile, unico, istante senza
tempo che Alizadeh definisce “monade” con termine della
filosofia classica. La registrazione coglie l’incontro con il
più giovane, sensibile e attento percussionista Pejman
Hadadi (1969) avvenuto nella primavera del 2007 in due
sessioni dal vivo: la prima in avâz-e Dashti, la seconda in
avâz-e Isfahan. L’incontro viene poi suddiviso in 15 tracce/
quadri impressionisti dalla mirabile resa sonora (marchio
Hermes). Svincolata dall’aspetto funzionale che essa può
svolgere in una suite, l’improvvisazione dilatata sembra
qui illustrare il motto della Hermes “musica per la musica”
e, allo stesso tempo, il particolare gusto – appassionato,
tutto di chiaroscuri – con il quale Alizadeh si allontana dalla
sobrietà dei classici.
Giovanni De Zorzi
Navà Ensemble
Hilat
FinisTerre / Felmay
Navà è un Ensemble che riunisce
iraniani e italiani nell’amore per la
musica persiana. Il repertorio del disco è costituito quasi
esclusivamente da nuove composizioni di Pejman Tadayon
(voce, liuti târ, setâr, bamtâr, ‘ud e…calligrafie) che si
ispirano al genere vocale tasnîf, misurato ritmicamente, di
carattere classico/leggero e affine alla “canzone”. Il gruppo
è composto poi da Reza Mohsenipoor (târ, bamtâr),
Hamid Mohsenipoor (tamburo a calice zarb/tombak),
Paolo Modugno (tamburi a cornice daf, dayereh; tamburo
cilindrico dohol) e Martina Pelosi (voce). Ospite in un
brano Shideh Fazaee al daf. I testi provengono dai maestri
della poesia persiana (Hafez, Rumi, Khayyam) e dal più
recente Nima. Registrato a Roma, all’Oasi Studio di Paolo
Modugno, il disco è un ottimo esordio per un Ensemble
nato da poco e a cui si fanno i migliori auguri.
Giovanni De Zorzi
P Felmay 2009
Hossein Alizadeh
Shujaat Husain Khan (1960) è un celebre compositore
e solista di sitar con una sessantina di incisioni
all’attivo. Non dev’essere facile portare sulle spalle una
genealogia come la sua: figlio del leggendario sitarista
Ustad Vilayat Khan, il nonno era Ustad Enayat Khan,
il bisnonno Ustad Imdad Khan, il bis-bisnonno, Ustad
Sahebdad Khan. Tutti esponenti della nobile genealogia
musicale (garana) Imdadkhani. Di questa responsabilità
Shujaat Khan sorride amabilmente sin dalla copertina
interna del mirabile disco articolato in tre brani: i primi
due (Alap e Gat) in Raga Gujiri Todi mentre il terzo, Ek
Prakar, è una ninna nanna toccante ed ispirata in Raga
Todi. Ovunque, le sue improvvisazioni dimostrano uno
stile fluente, articolato e personalissimo. Ogni parametro
dello strumento è padroneggiato, la dinamica va
dall’infrasuono alla strappata e il virtuosismo non è mai
fine a se stesso. L’invenzione è costante e profonda.
Eppure, come se non bastasse, ecco arrivare dal
nulla la sua voce sognante, rotonda e ammaliante su
versi in urdu di ispirazione sufi. Nel disco il maestro è
accompagnato dal tablista Federico Sanesi, ammirato
e lodato dai maestri indiani, faro di riferimento per ogni
musicista italiano che si confronti con una tradizione
orientale.
Giovanni De Zorzi
P Felmay 2011
Raffinate e insieme croccanti, le produzioni Accord
Croisés accontentano anche stavolta la clientela. La
nuova proposta è un documento del settembre 2008
realizzato da Frédéric Le Clair: Ravi Shankar a Parigi,
per quello che era stato programmato essere l’addio
del maestro all’Europa. Nella capitale 8176
francese,
digipack.indd che
1
lo aveva visto esibirsi in passi di danza a undici anni,
Shankar chiude il cerchio offrendo a un rapito uditorio
una speciale “lezione” sulla musica classica indiana.
Sul palco della Salle Pleyel, ironico e brillante nel
linguaggio, Shankar racconta e spiega differenze e
similitudini sonore tra il nord e il sud del suo paese.
Attorno a lui, a esemplificarne il pensiero, la figlia
Anoushka (sitar), Tanmoy Bose (tabla), Sanjeev Shankar
(shehnai), Ravichandra Kulur (flauto), Sanjay Sharma e
Kenji Ota (tanpura). Il dvd contiene in aggiunta altri due
filmati. In uno viene tratteggiata una rapida biografia
dell’artista mentre nel secondo troviamo sintesi di
concerti presentati di recente al Ravi Shankar Centre di
Nuova Delhi. In tale contesto si segnalano le esibizioni
di Manjiri Asanare-Kelkar, cantante khayal, e dei fratelli
Lalgudi, violinisti carnatici.
Piercarlo Poggio
10 primavera 2011
Felmay / Egea
22-11-2010 14:36:49
Come molti italiani, non sono amico delle lingue straniere.
Cerco di scherzarci su, dicendo che sono rigidamente
monoglotta, ma è una maniera di dissimulare il fastidio per
una cosa che, naturalmente, mi disturba. Tuttavia, sono
attratto dalle situazioni in cui la comunicazione non può
svolgersi secondo il meccanismo abituale. Quando accade,
ho l’impressione di essere in un mondo che non è proprio
quello solito. Cerco di spiegarmi. Una volta un amico voleva
convincermi a presentarmi fingendomi un altro ad un liutaio
che mi aveva promesso un violino che non arrivava mai.
Eravamo ad un punto morto: secondo il liutaio il violino
Il primo brano, Sudhamayi di Muthiah Bhagavatar, nel non era mai quello giusto per me ed io, che di violini invece
raga pentatonico Amritavarshini, che annuncia l’arrivo ne avrei concupito più d’uno, non mi sentivo di far forza
della pioggia, inizia con un ciclo armonico punteggiato dal sulla situazione per il rispetto che avevo per lui. Quel che
violino di Lalgudi. La sequenza, per qualche ragione, non sosteneva il mio amico era che se avessi osservato la realtà
Felmay
• strada
roncaglia
16 • 15033
sanè germano
AL • italy
con gli occhi di un altro forse avrei intravisto una soluzione.
sembra
funzionare
– il violino
di Krishnan
non
così sciolto
FELMAY
Per fare le cose per bene, suggeriva di fingersi straniero - io,
0142
50577 faxand
+39il 0142
[email protected] www.felmay.it
come ph.
nel+39
resto
dell’album
piano50780
è sovraccaricato.
Quando arrivano al Kriti (composizione) le cose si sono appunto, che parlo solo l’italiano -, e per rendere credibile la
recita incominciò, in un incredulo scompartimento di treno,
sistemate e il suono diventa accattivante.
Il seguente raga, Saramati, è il brano migliore dell’album ad allenarmi a parlare una lingua inventata lì per lì. Buffo, no?
basato sulle ricche armonie di Anil e sul grande controllo Del resto, tutti noi conosciamo anche lingue inconsapevoli.
Ho assistito al dialogo tra un bambino così piccolo da non
di che il violino di Lalgudi ha sul raga.
E’ interessante che il Cd comprenda una rara composizione saper ancora parlare e una bimba appena più grandicella.
di Dandapani Desikar, Arulla vendum. Il violino attraversa La bimba aveva da dirgli non so cosa, il piccolo sgranava gli
la struttura asimmetrica del raga con grande bellezza occhioni, ma non si intendevano. Alla fine la bimba è stata
atterrando al momento e nel modo giusto, e il piano è li, costretta alla resa e ha chiesto aiuto a un terzo, piccolo
insieme a lui sottolineando così perfettamente le peculiarità altrettanto: “Spiegaglielo tu, che parli la sua lingua”. E i
due, a ruttini e squittii, si sono intesi benissimo. Capirete
di Saramati.
Le percussioni Carnatiche tendono a modellare le bene che non potrei nemmeno volendo avere la pretesa di
composizioni con ritmi molto ornati. Scegliendo i leggeri spiegarvi su quale terreno si sia potuta realizzare l’intesa
sussurri della kanjira (percussione simile ad un tamburello) tra un illustre violinista dell’India meridionale, erede di una
di BS Purushottam invece che il rimbombo del più classico tradizione secolare, e un pianista che ha fatto quelli che
mridangam, Anil ha trovato la formula giusta per questo potremmo chiamare “studi regolari”. O, piuttosto, su quale
terreno si sia potuta realizzare l’intesa tra i loro strumenti,
tipo di musica.
In Akhilandeswari , il brano che segue, i tre musicisti che non si erano mai incontrati e che forse hanno guidato i
insieme creano un affascinante ambiente sonoro in cui la loro esecutori. Certo, né l’uno né l’altro, parlo del violinista
melodia a tratti, ma molto raramente, è punteggiata della e del pianista, sono stati in questa occasione quel che
sono abituati ad essere. Solo dopo aver ascoltato il disco
battito della kanjira.
per intero ho letto le note, e ho imparato di aver ascoltato
Il brano successivo, il corposo Meenakshi in raga Purvi composizioni dei più importanti musicisti della tradizione
Kalyan di Muthuswami Dikshitar è preceduto da una breve carnatica. Potevano essere improvvisazioni del violino, per
introduzione (alapana). l’accompagnamento in questa il mio orecchio di musicista classico, sostenute e in un certo
porzione toglie all’alapana la sua caratteristica mancanza senso “spiegate” dalla trama armonica del pianoforte e di
di forma, che costituisce il suo ossigeno. Quando si arriva qualche discreta percussione, racchiuse in un involucro che,
alla composizione (kriti) un senso di fatica si impossessa solo per rassicurare, conserva - o assume - della tradizione
dell’ascoltatore – non c’è abbastanza in termini di varietà occidentale qualche segnale narrativo. Per il resto, non
nell’album da mantenere l’interesse. Molte delle canzoni saprei trovare parole per descrivere il senso di sospensione
di questa musica, che lungo l’ascolto si muove su un
sono nello stesso tempo, molti ornamenti sono ripetitivi.
sentiero armonico dolcissimamente arcuato, per le ripetizioni
L’album si conclude con un Thillana in Mishra Maund, continue e mai ossessive, per quel tanto di indulgenza che
composizione del padre di Krishnan, Lalgudi G Jayaraman. mi pare di cogliere nel track 7, che inizia col solo pianoforte
Qui il piano lascia che l’alapana sia più piacevole, leggera. in un’atmosfera notturna quasi da jazz club, a cui il violino
Purtroppo l’accompagnamento del Thillana non sottolinea si unisce rinunciando ad essere la guida e, per una volta,
accompagnando. Non so, e non colgo il senso dell’inizio e
a dovere la struttura ritmica mancando le giuste cadenze.
della fine in questa musica che non so se esisteva prima e
Eternal Light si rivela così un album con i suopi momenti se esiterà in futuro, e che mi sembra potrebbe continuare
e cerco solo per la superlativa resa di Arulla Vendum e ancora chissà quanto; io l’ascolterei volentieri.
Fulvio Luciani
Akhilandeswari, vale il suo costo
è un violinista con “studi regolari”. Concepisce la sua
attività come un piccolo e specializzato laboratorio di
V. Ramnarayan
ricerca, ed è curioso di tutto. Suona quel che gli piace e lo
Caporedattore di Sruti,
interessa e insegna al Conservatorio di Milano.
la più importante rivista di musica classica indiana
Anil Srinivasan è uno dei più interessanti musicisti dell’India
del Sud. Ha studiato la musica classica Occidentale e è
cresciuto con quella Carnatica (dell’India del Sud), conosce
e risponde ai due oceani musicali.
La sua collaborazione con Sikkil Gurucharan ha creato
molta attenzione e questo CD, Eternal Light, con Lalgudi
Krishnan al violino, è un esempio del livello che Anil ha
raggiunto nell’ambito della musica Carnatica nella sua
forma più classica e nello stesso tempo aperta alle armonia
Occidentali.
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Dil
P Felmay 2009
P Felmay 2011
FELMAY
MIX
MON DO ma
Mi a
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L’extraordinaire leçon
DVD
Accord Croisés / Ducale
musiques et cultures dans le monde
MIX
MON DO ma
Mi a
P Felmay 2009
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ustad shujaat
husain khan
india
world music
musiques et cultures dans le monde
P Felmay 2011
Felmay • strada roncaglia 16 • 15033 san germano AL • italy
ph. +39 0142 50577 fax +39 0142 50780 [email protected] www.felmay.it
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FELMAY
L'incontro fra due strumenti tipici della tradizione classica
occidentale, pianoforte e violino, qui nelle mani di due musicisti
indiani alle prese con un repertorio di musica Carnatica ci ha
spinto a chiedere a due diversi recensori, uno Occidentale e
l'altro Indiano, la loro opinione sul progetto.
file under
ustad shujaat
husain khan
india
world music
Lalgudi GJR Krishnan
& Anil Srinivasan
Eternal light
8165 digipack copia.indd 1
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ASIA
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46 10 primavera 2011
48 LIBRI
Mondomix.com / RECENSIONI
tra vecchio e nuovo, storia e fiction, guerre civili e civiltà
dell’arrangiarsi, il cinquantenne autore portoghese di natali
angolani balla con maestria su una storia inevitabilmente
intrisa della propria natura intercontinentale.
Paolo Ferrari
Le donne di mio padre
José Eduardo Agualusa
La Nuova Frontiera 2010
370 pp., € 17,50
Una donna portoghese parte per
l’Africa sulle tracce di quello che le
dicono essere il suo vero padre. Un
avventuriero contrabbassista sciupa
femmine, defunto senza per questo
impedire a lettore di innamorarsene
a prima vista. Per contarne i figli, o i
presunti tali, ci va il pallottoliere; per
accogliere l’uragano di sensazioni musicali che flagella i
brevi capitoli occorrerebbe un iPod da 16 giga. Faustino
Manso e lo swing suonato con il suo saggio pianista senza
mani, lo spirito caciarone delle marrabenta mozambicane,
la furia del kuduro angolano che uno dei tre viaggiatori
porta nel cuore dai sound system d’Angola. Le due grandi
ex colonie di Lisbona sono tratti essenziali di questo
romanzo on the road, dove le piste rosse della savana si
alternano ai grandi viali sudafricani, al tratto da guscio
di noce che porta alla Ilha de Moçambique, tappa finale
(preziosa la mappa dettagliata del tour in apertura del
volume) della giovane e lacerata ciurma partita da quello
specchio dell’Africa lusofona che è il Brasile. Tra rapper
ubriachi per le strade di Luanda e inni politici, orchestrine
male in arnese e mito di Casablanca, barzellette sul
contrabbasso e vecchi 78 giri introvabili, la narrazione
scorre attuale e nervosa. Ci si affacciano persino le Brigate
Rosse, si bevono
cocktail
energetici,
i VpS A5-10-10:manchette
25/10/10
12:39
Pagina 1 si cita Bilal; in bilico
Credito ai contadini
Sovranità alimentare in Italia
Poste Italiane S.p.A. - Sped. in abb. post. DL. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art.1, comma 1 CNS/CBPA/TORINO - agosto settembre 2010 - anno XXV - foto: Bilderberg
La sfida alle oligarchie del cibo
Viaggi e altri viaggi
Antonio Tabucchi
I narratori – Feltrinelli 2010
272 pp., € 17,50
Uno strano libro di viaggi che non
parla solo di viaggi in senso stretto
ma soprattutto di emozioni e della loro
perenne trasformazione al contatto con
le situazioni che tocchiamo durante lo
spostamento. Ecco quindi un luogo
apparirci piacevole o inadeguato a
seconda della nostra disposizione
interiore verso l’incontro. Lo stesso
vale anche per le persone o le parole scritte. Un libro per
chi ama curiosare col cuore e con la mente universi attigui
filtrati dalla propria esistenza e perdersi nei meandri delle
suggestioni, dei ricordi e delle assonanze che l’autore
riesce continuamente ad evocare creando, in pratica, un
ulteriore viaggio dentro al viaggio.
Elisabetta Sermenghi
La rivista
di chi abita il mondo
Reportage e notizie dai cinque continenti, progetti di
solidarietà, ricerca volontari delle associazioni, proposte
di turismo alternativo, viaggi responsabili e molto altro...
DIVORATORI DI FUTURO
Come riappropriarci di quel che mangiamo
VpS
Volontari per lo sviluppo
La rivista di chi abita il mondo
www.volontariperlosviluppo.it
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Sfoglia anche online il nostro numero speciale su
alimentazione e agricoltura: dalle sfide italiane a
quelle mondiali, con esempi e indicazioni pratiche
per passare dall’idea di sicurezza alimentare (avere
cibo) a quella di sovranità alimentare
(avere il controllo su come procurarselo).
Cosa trovi in questo numero:
PRIMO PIANO ITALIA AFFAMATA
Latifondi e cementificazione mettono a rischio il Belpaese
REPORTAGE SEMI-LIBERTÀ
Gli effetti dei brevetti sulle sementi
DOSSIER PALATI FINI
La sovranità alimentare in Italia riconquistata dalla società civile
Per copia omaggio 011/8993823 [email protected]
Per ricevere la rivista tutto l’anno il contributo è di 28 Euro, da versare sul ccp 37515889 intestato a: Volontari per lo Sviluppo, Corso Chieri 121, Torino
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VISIONI
Hereafter 2010
Regia Clint Eastwood
Sceneggiatura Peter Morgan
Musica Clint Eastwood
Attori Matt Damon, Cécile de France, Bryce Dallas Howard
Jay Mohr, Mylène Jampanoï
Per avere il coraggio di infrangere il tabù per eccellenza
e domandarti e domandarci:‘ma cosa c’è dopo la morte?’
devi essere una leggenda vivente ottantenne che ha diretto
di tutto, dal western al biopic, alla fantascienza epica,
alla tragedia shakespeariana moderna, alla commedia
romantica, al thriller, per citare alcuni dei generi frequentati
dall’Eastwood regista, dal 1971 a oggi. Forse dopo c’è un
altro stato in cui ci ricongiungeremo alle anime dei nostri
cari, non più limitati dal corpo: così sembrano dirci le visioni
premorte di una giornalista (Cécile De France), quelle di un
sensitivo (Matt Damon) o la speranza di parlare col gemello
morto di un bambino. Non ci sono certezze nel vagare e
soffrire dei personaggi, che scoprono che si può contare
solo sulla comprensione e l’amore che ci possiamo dare
l’un l’altro finché siamo vivi. Certo il film è molto di più.
È la straordinaria sequenza in cui viviamo uno tsunami
improvviso con la giornalista Marie e ci sentiamo travolti e
sbattuti contro ogni genere di ostacolo. È il mesto George
che non vorrebbe più sentire i segreti della gente solo
prendendo loro le mani e ricevendo le voci dei loro morti
(come la veggente del bel romanzo di Matteo B. Bianchi
Apocalisse a domicilio). È la storia di Marcus, che ha perso
il fratello, affidato a una nuova famiglia, perché la madre è
tossicodipendente. Ma non temete: Eastwood continua a
saper raccontare i sentimenti con pudore e misura, senza
faciloneria. Questo bel film si interroga con onestà sulle
occasioni perdute nella nostra vita terrena e sulla speranza
nella sopravvivenza dell’anima; su un forse e su quello che,
almeno qui e ora, possiamo cercare di conquistarci.
Paola Valpreda
guatemalteco) fino a due film molto belli: Winter’s Bone
di Debra Granik (che ha vinto) e Portretul luptatorului la
tinerete di Popescu. Il primo è un ritratto di un’America
povera, violenta e brutta, pur con qualche speranza
affidata a una giovane donna e alla solidarietà femminile,
in un desolato Missouri le cui atmosfere ricordano Frozen
River. Il secondo, ambientato nella Romania degli anni
‘50, è una toccante riflessione sul tentativo di mantenere
la dignità umana sotto una dittatura; intercala disposizioni
ufficiali su come spiare tutti i cittadini e utilizzare i delatori
alle avventure di un gruppo di partigiani. Eroi giovani,
belli e coraggiosi, in mezzo a una montagna ostile ma
affascinante, braccati da un intero esercito, consapevoli
che la loro ribellione è destinata alla sconfitta. Uno di loro,
che desidera avere dei figli, dice che non vuole dover
rispondere loro, quando gli chiederanno cosa ha fatto
sotto la dittatura, un umiliante ‘niente’: riflessione che dà
da pensare anche a noi, in tempi e luoghi diversi.
Tra i film non in concorso segnaliamo, oltre a Hereafter , 127
hours di Boyle, sui limiti umani e la spettacolarizzazione, con
James Franco che, bloccato in un canyon da un masso sul
braccio, filma la sua agonia, immaginandosi protagonista
di un talk show; Kaboom di Araki, divertente, autoironica
e rutilante girandola sulla passione e paura americana per
e dei complotti planetari; The Ward di Carpenter, in cui il
maestro riesce a farci tremare con un horror vecchio stile;
Suck di Stefaniuk, con i musicisti di una band disposti per
il successo a diventare vampiri, mentre il roadie fa sparire
i cadaveri (tra gli attori Henry Rollins, Alice Cooper e Moby
come cantante di una band metallara i cui fan gettano
carne cruda sul palco); infine Caterpillar di Wakamatsu, su
un reduce di guerra giapponese che ha perso tutti gli arti,
la parola e l’udito, ridotto a un pezzo di carne e ai suoi
bisogni elementari: sua moglie, indottrinata all’orgoglio
di avere in casa un eroe di guerra, inizia a dubitare della
propaganda patriottica, quella stessa che fa credere ai
Giapponesi che vinceranno la seconda guerra mondiale
fino alla vigilia di Hiroshima.
Paola Valpreda
TFF 28
Il 28esimo Torino Film Festival (diretto da Gianni Amelio)
ha ben colto lo spirito dei nostri difficili tempi: arti
mozzati o personaggi incompleti e dolenti, amputati
psicologicamente, sono elemento comune a tanti film.
I 16 film in concorso, però, sono stati di qualità altalenante.
Si va dalla banalità da fiction televisiva di Henry di Piva,
all’ideuzza da corto strascicata a lungometraggio (Vampires,
mockumentary sulla vita quotidiana dei vampiri) alle storie
già viste e riviste (White Irish Drinkers), a lavori interessanti
come Four Lions (amara commedia su quattro scalcinati
terroristi islamici) o Las marimbas del infierno (docudrama
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Cuba
Mondomix.com
La World Music che non sapevamo di avere in casa
Catch
A Fire
B o b M a r l e y & T h e Wa i l e r s
di Eddy Cilìa
Sui perché della fama globale di Bob Marley ci si interroga
da quando nulla sembrava potesse fermarlo. Questione
certo di canzoni di poesia e innodia straordinarie e di una
presenza scenica rimarchevole, ma soprattutto una faccenda
di carisma. Predicatore sul palco con parole semplici che
tutti potevano comprendere, eppure di una profondità tale
da prestarsi a letture metaforiche. Portatore di una visione
spirituale condivisibile come afflato anche da chi è lontano
dalla fede rasta. Esempio insuperato del levarsi in piedi di
quella parte di pianeta demograficamente dominatrice ed
economicamente e culturalmente prevaricata che domanda
che la sua dignità venga infine riconosciuta. Ecco perché,
in Africa come in Asia o nell’America Latina, Robert Nesta
Marley è un simbolo di riscatto prima ancora che un divo
del pop. Nella nostra parte di mondo alla sua sopravvivenza
hanno contribuito invece il fascino romantico dell’artista
che muore giovane e la trasversalità dell’impatto. A cavallo
fra Settanta e Ottanta Marley era l’unico che metteva tutti
d’accordo: veniva ballato in discoteca ed era amato dai
punk che disprezzavano la dance ed erano stati catturati
dal reggae via Clash, era colonna sonora di feste come di
cortei, interiorizzato da ciascuno come tesoro personale,
eppure capace di riempire gli stadi. Andarono in centomila
ad ascoltarlo a San Siro nell’estate 1980, il suo concerto più
affollato e uno degli ultimi, e chi non c’era non potrà mai
capire appieno l’impatto che ebbe in quegli anni. Nondimeno
l’universalità del messaggio ha trasceso i decenni e chi si
accosta oggi alla sua musica ne può certamente restare
emozionato come chi ne fu stregato in diretta.
Anche avendo l’età giusta, pochi possono però raccontare
10 primavera 2011
1) che a fare scoprire loro Marley fu Catch A Fire e, 2), che
accadde proprio nell’anno in cui veniva pubblicato, il 1973.
Il disco in realtà non vendeva che quattordicimila copie in
Gran Bretagna nei primi dodici mesi nei negozi e molte
meno nei restanti paesi europei. Se il patron della Island
Chris Blackwell non avesse avuto una fede assoluta in un
artista che conosceva da ben prima del giorno in cui si era
presentato nel suo ufficio londinese, la storia della popular
music come oggi la conosciamo sarebbe incredibilmente
diversa. Ma Blackwell perseverava. Se Catch A Fire sul
momento vendeva pochino era perché costituiva una
novità che richiedeva tempo per essere metabolizzata.
Se non poteva in compenso che divenire in prospettiva la
pietra d’angolo della leggenda marleyana è perché in esso
gli elementi costitutivi di codesta già ci sono tutti. Ci sono
le canzoni. C’è il suono.
Saggia decisione in ogni caso, quella di Mister Island, di
mettere le mani nel missaggio. Sapeva bene, e Marley
evidentemente concordava, che le platee euro-americane
non erano avezze alle ruvide sonorità giamaicane e che,
dovendo già fare digerire loro la battuta in levare, sarebbe
stato opportuno levigarle, insaporendo nel contempo la
pietanza con le familiari spezie del rock. Se era un piccolo
colpo di genio la pensata di introdurre il cupo paesaggio
di desolazione urbana di Concrete Jungle con un preludio
di gusto psichedelico, che per qualche secondo cela
all’ascoltatore l’incedere reggae, rappresentavano intuizioni
non meno brillanti il sistemare piuttosto avanti le tastiere,
evidenziandone il piglio rhythm’n’blues, e la sovraincisione
di assoli di chitarra nella stessa title-track, nella ninna
nanna Rock It Baby, nella sinuosa e sessualmente
esplicita Stir It Up. Scrematura del repertorio dei cinque
anni precedenti con poco di nuovo in assoluto, l’album
è un’ininterrotta sfilata di classici e il ritratto più accurato
immaginabile, in nove canzoni e trentasei minuti, di quei
Wailers: qui maliziosi e là moralisti; qui evocanti la tragedia
della schiavitù sciorinando gospel su sincopi radenti il funk
(Slave Driver) e là censori su una scansione dondolante
delle drogate lordure di Londra (Kinky Reggae). Quando
non Impressions caraibici (Stop That Train) con l’astuzia
di rubare una linea di basso a Isaac Hayes e un verso ai
Beatles (No More Trouble).
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