Etty Hillesum, un`“anima millenaria”
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Etty Hillesum, un`“anima millenaria”
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno 5 Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes Roger Caillois Kasparhauser Semiotropie. Eredità di Barthes 13 | 2016 Contributi di Renato Barilli, Jean Molino, Giuseppe Crivella, Christian Dubois. Con sette inediti di Roland Barthes 1 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes Kasparhauser Semiotropie Eredità di Roland Barthes 13 | 2016 A cura di Giuseppe Crivella Rivista di cultura filosofica. Redazione: Marco Baldino, Guido Cavalli, Giuseppe Crivella, Jacopo Valli. Si ringrazia per la preziosa collaborazione la Dott.ssa Maria Gaia Crivella che ha curato le traduzioni dei testi di Jean Molino, Christian Dubois e del saggio Una problematica del senso di Roland Barthes. Tutte le altre traduzioni sono di Giuseppe Crivella. Un grazie doveroso va inoltre al Professor Renato Barilli. Pubblicazione on line protetta dal diritto d’autore. La distribuzione avviene a mezzo rete ed è gratuita. Non è consentita la commercializzazione del materiale qui raccolto. Kasparhauser ISSN 2282-1031 2 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes Indice Renato Barilli Incontri e scontri con Roland Barthes 5 Roland Barthes Lo Srtraniero, romanzo solare 11 Jean Molino Sul metodo di Roland Barthes 16 Roland Barthes L’Utopia 38 Roland Barthes D’un sole reticente 40 Giuseppe Crivella I. Un remous minéral dans l’imposture du Sens achevé. Barthes, Blanchot e la solitaria sfinge dell’écriture 42 Giuseppe Crivella II. Metacritica della critica (della ragion) letteraria. Barthes e Adorno: il linguaggio è la sua ombra 58 Roland Barthes Una problematica del senso 81 Giuseppe Crivella III. Ecolalie di un ordigno iconico. La Semiologia come decostruzione della linguistica in Barthes e Pasolini 97 Giuseppe Crivella IV. Scenografie logoclaste. Barthes e Benjamin di fronte all’immagine 115 3 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes Indice Roland Barthes Artaud: scrittura/figura 136 Roland Barthes Bernard Faucon 140 Philippe C. Dubois Barthes e l’immagine 142 Roland Barthes Dalla parola alla scrittura 158 4 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno 5 Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes Roger Caillois Incontri e scontri con Roland Barthes di Renato Barilli I miei rapporti con Roland Barthes cominciano, fine anni ‘50, nel segno dell’ammirazione e del rispetto, procuratimi da suoi contributi quali Le degré zéro de l’écriture, e soprattutto dal saggio Littérature objectale, che erano un modo intelligente e vivace di accompagnare l’emergere del Nouveau roman, e in particolar modo della parte rilevante tenuta in esso da Robbe-Grillet, da cui ero affascinato. Barthes coglieva alla perfezione quello che poi per me sarebbe stato un cavallo di battaglia lungo la mia carriera di critico militante, volto in primis a individuare la differenza tra le avanguardie del primo e del secondo Novecento, al di là dello stesso fenomeno della narrativa francese, ma con pronta estensione ad ogni altro campo, a cominciare da quello delle arti visive, in cui in definitiva apparivo coinvolto in via più diretta. In ogni ambito dello sperimentalismo, ovvero di una neoavanguardia, si doveva praticare quella che Alfredo Giuliani, all’atto di teorizzare il fenomeno di punta dei Novissimi, avrebbe definito una “riduzione dell’io”, il soggetto doveva farsi magro magro, fino al punto di apparire addirittura scomparso, a vantaggio della presenza degli oggetti. Sartre, a nome della generazione precedente, era stato il profeta di questa svolta epocale, quando, in uno dei saggi poi raccolti nelle varie tappe di Situations, aveva dichiarato “eccoci liberati di Proust”, oppure aveva lodato quella che per lui, e per tutti noi al suo seguito, appariva come l’idea portante di Husserl e di tutta la fenomenologia, l’intenzionalità, che appunto voleva dire spostare l’attenzione dal soggetto e dalla sua interiorità 5 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes riversandole sulle cose, secondo la formula che proprio Robbe-Grillet stava proclamando con tono autoritario, “Les choses sont là”, cui, nelle arti visive, avrebbero fatto eco i vari movimenti in sequenza quali il Nouveau Réalisme francese, il New Dada e poi la Pop Art a prevalente matrice statunitense. È vero che già allora la pur felice proclamazione di Barthes a favore di questo spirito riduttivo aveva qualche ambiguità. Riduzione o addirittura cancellazione? La prima tesi apparteneva a noi fenomenologi, che ritenevamo, con Sartre e Merleau-Ponty, che in realtà un indice di soggettività, per quanto minimizzato, non poteva uscire di scena, anzi quel suo farsi piccolo piccolo gli permetteva di rendersi esteso e penetrante. In fondo, il fondatore dei Novissimi, il già ricordato Giuliani, si affrettava ad aggiungere che la riduzione dell’io non doveva rimanere fine a se stessa ma dare adito a un leopardiano “accrescimento di vitalità”. Fare un passo indietro, ma per abbracciare una più larga fetta di orizzonte. Invece Barthes pareva auspicare una cancellazione, il che, ambiguamente, poteva aprire la strada a letture di marxismo “impegnato”, che collegavano quella scomparsa dell’io all’avvento del neocapitalismo e del suo afflato spersonalizzante, con il dio merce chiamato a vincere su ogni altro interesse. Dietro questa interpretazione etico-politica, era pronta ad affacciarsi anche quella di carattere epistemologico. Insomma, fenomenologia o positivismo logico, alla Carnap e alla Wittgenstein? Era il caso di proclamare una tautologia: le cose sono le cose, punto e basta? Purtroppo Barthes, in definitiva felicemente ambiguo nella sua fase iniziale, e in possesso di un linguaggio critico sempre deliziosamente fresco, capace di trovare la parola giusta al momento giusto, trasportato dal suo stesso bisogno di fare comunque ordine e pulizia nel suo dettato andava progressivamente a infilarsi nel buco stretto della 6 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes semiotica, scegliendola, a mio avviso inopportunamente, nella versione “dura e pura” sviluppata dal danese Hjelmslev, del tutto succube proprio della lezione di Carnap e del positivismo logico. Io magari non ero del tutto alieno dal riconoscere i buoni uffici della semiotica, ma li ricercavo, semmai, nelle concezioni larghe e generose del Saussure, dove sopravviveva malgrado tutto la buona dialettica di derivazione fenomenologia, dove cioè il significante doveva sempre misurarsi col termine opposto del significato, e il sistema codificato della lingua manteneva la via di fuga affidata all’atto individualista e liberatorio della parole. Invece Barthes, ahimé, adottava la via massacrante stabilita appunto da Hjelmslev e del connesso trionfo del formalismo, con la suddivisione dei vari piani di indagine, tra forma e contenuto, ma entrambi parcellizzati, ridotti a scorrere in parallelo e a non incontrarsi. Il che avveniva perché Hjelmsev sceglieva come sistema-guida, cui ogni altro ambito espressivo doveva conformarsi, quello della lingua, con le sue proprietà difficilmente esportabili in altri territori: la presenza di una serie ridotta di elementi primari, le lettere, le quali inoltre si combinano tra loro in modi rigidi e prefissati. Sistema certo di grande razionalità ed efficienza, ma assai arduo da esportare. Eppure, il neofita Barthes ci si provò, con zelo puntiglioso, andando ad applicare questa formula in campi che viceversa le erano avversi, come in effetti io cominciai a rinfacciargli, mutando le ragioni di deferente assenso fin lì intrattenute in motivi di disputa e di polemica. Barthes infatti andava a rilanciare la vecchia retorica, e fin qui l’accordo poteva rimanere in piedi, anch’io, dalla metà dei ‘60, avvertivo l’opportunità di riaccreditare la vecchia signora, ma proprio per la sua predicazione a favore di vie di interpretazione aperte, informali, probabiliste, tali da negare in partenza il metodo analitico di specie hjemsleviana. In altre parole, la retorica da me amata era 7 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes quella di cui ci parlava il belga Charles Perelman, provenendo da studi giuridici, e dunque ricordandoci che quello strumento si può applicare utilmente solo là dove viene esclusa la dimostrazione rigorosa e analitica. Le figure retoriche, secondo una simile concezione, vengono a rimorchio. Invece, sempre nel Belgio, era nata la Scuola di Liegi, capeggiata da Philippe Minguet, detta anche Gruppo mi (greco), che procedeva a una minuziosa catalogazione di tutti i tropi possibili. Ricordo che io andai a parlare a casa loro, riscontrando proprio una sostanziale differenza di metodi, poi andai a Bruxelles, invitato dalla spirito del tutto solidale di Perleman, e anche i membri di quel Gruppo vennero a sentirmi, poi concludendo che in effetti la loro non era una teoria generale di Nouvelle rhétorique, ma solo una complessa “tropologia”, proprio sulla scorta del modello barthesiano, Che poi si applicò con furore raddoppiato sul Système de la mode, e qui di nuovo io condussi una contestazione puntigliosa, sulle pagine di “Quindici”, sostenendo che il letto di Prouste o la camicia di forza dell’alfabeto, con tutte le sue cesure e frantumazioni, mal si conveniva alle esigenze fluide proprie della moda, che oltretutto rappresenta, con la sua sfuggente indeterminatezza, i caratteri precipui di ogni sistema iconico, difficilmente segmentabile. Ovvero, ci sono modalità espressive che per loro natura rifuggono dalle misure “discrete” e scompositive. Infatti le schiere dei semiotici, senza dubbio trascinati dalla guida carismatica di Barthes, mossero baldanzosamente alla conquista del segno iconico, ma incontrarono su quel terreno suppergiù le stesse difficoltà contro cui i loro colleghi del settore retorico erano andati a sbattere. Si può ben dire che la sconfitta dell’impresa semiotica, nella sua spinta totalizzante, ha cominciato a sperimentare gli ostacoli, le impossibilità, proprio di fronte all’ambito continuativo, sfumato, informale per eccellenza delle immagini. 8 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes Per qualche tempo i semiotici si sono rifugiati dietro l’alibi del chiedere tempo: aspettate, lasciateci provare, e vedrete che arriveremo alla conclusione, piegheremo anche il mondo delle icone alle regole impietose della glossematica hjelmseviana. Ma mi pare che da tempo ci sono rassegnati a levare l’assedio a quella cittadella rivelatasi imprendibile. Un altro punto del mio dissenso sempre più accentuato rispetto alle mosse, pur sempre affascinanti a livello linguistico, di Barthes è avvenuto sul fronte della narrativa. A un certo momento egli ha diretto la sua acribia su un racconto di Balzac, Sarrazine, ma anche in questo caso prendendo una strada sbagliata e inopportuna. Quel racconto non è certo una delle opere migliori del grande narratore francese, che sembra essere tributario della passione del suo predecessore Stenhal per cupe storie italiane colme di delitti e male imprese, esercitati attorno a una “voce bianca”, a un castrato, secondo il barbo uso di quei tempi per cui le donne non potevano calcare le scene, sostituite da poveri maschi sottoposti a una evirazione, per dare qualche soldo alle famiglie di provenienza, e così facendo di loro dei cantanti aggraziato, Una di queste femminelle, Zambonella, si viene a trovare al centro di un gioco di intrighi, su cui Barthes si butta con delizia, cercando di ricavarne una “grammatica” di scambi incrociati. Si può ricordare in proposito che anche un nostro critico di grande spessore, Cesare Segre, per qualche tempo fu attratto dalla sirena semiotica nella fattispecie barthesiana e si diece quindi a ricavare la “grammatica” addirittura del Decamerone boccacciano. Ma in entrambi i casi io mi sono permesso di dire che i due partigiani di una semiotica rigida, costruita more linguae, sbagliavano l’obiettivo cui rivolgersi, sia Boccaccio sia Balzac sono grandi non certo quando abborracciano trame, in genere rubate a tradizioni prevedenti, bensì quando tracciano 9 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes vigorosi ritratti psicologici con precisa ambientazione nei relativi contesti sociali. La femminella amata da Sarrazine raggiunge tutta la sua rilevanza narrativa quando, ormai vecchia, compare in un salotto parigino accolta da eredi che vivono alle sue spalle e quindi devono pur rendere qualche gesto di rispetto verso quell’essere mostruoso, né uomo né donna, che compare in scena, triste ed enigmatico dominatore. Barthes, e i vari Nouveaux essais critiques che al suo seguito si sono infilati nelle maglie strette del sistema semiotico-linguistico, a un certo punto ne hanno avvertito con sofferenza la soffocante ristrettezza, e dunque hanno intrapreso una marcia di “anabasi”, di fuoruscita, cercando di riguadagnare un “più spirabil aere”, ma, come succede in questi casi, da un troppo di rigore e di chiusura sono passati a praticare discorsi caratterizzati invece da eccessi di indeterminatezza. A Barthes spetta il solito merito di essere stato il primo a intraprendere questa via di fuga, se si pensa ai Fragments d’un discours amoureux, e alla Chambre claire, da lui stesa quasi in punto di morte. I vari suoi seguaci, ai tempi della prigionia semiotica, quali i pur validi Julia Kristeva e Tzvetan Todrov lo avrebbero seguito abbracciando cause umanitarie, femministe, pacifiste, scivolando cioè in discorsi improntati a quella retorica come teoria dell’argomentazione che Perelman contrapponeva ai suoi giovani connazionali, chiusi nel culto stretto della tropologia. 10 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno 5 Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes Roger Caillois Lo Straniero, romanzo solare* di Roland Barthes Lo straniero è senza dubbio il primo romanzo classico del dopoguerra (intendo primo non solo cronologicamente ma anche per qualità). Apparso nel 1942, letto da tutti nelle fasi successive alla liberazione, questo piccolo romanzo ha dato ad Albert Camus la gloria: si è rimasti legati ad esso come a una di quelle opere perfette e significative che compaiono durante certe cerniere della storia per segnalare una rottura e riassumere una sensibilità nuova. Nessuno ha protestato, tutti sono rimasti conquistati, quasi innamorati. L’apparizione de Lo straniero è stato un fatto sociale e il suo successo ha avuto la stessa consistenza sociologica dell’invenzione della pila elettrica o quella della stampa del cuore. Il libro sembrava all’epoca, forse più di ora, propugnare una filosofia nuova, quella dell’assurdo. È il momento in cui il mito della coscienza spaesata «fa presa», si solidifica, passa dalla penna dei precursori alla consumazione del grande pubblico intellettuale; Kierkegaard, l’esistenzialismo tedesco, Kafka, i romanzieri americani, Sartre, tutta una costellazione di pensatori o di creatori di origini e di epoche diverse, si riunisce alla rinfusa nella coscienza del pubblico per definirvi un mito nuovo della libertà: l’uomo privato dei suoi alibi; rescisso tramite la sua lucidità dai suoi rifugi precedenti (Dio, la Ragione), gettato senza volerlo in una * Prima apparizione in Bulletin du club du livre français, aprile 1954. Ora in R. Barthes, Œuvres complètes I, E. Marty, ed du Seuil Paris 2005, p. 478-481. Da ora in nota sempre abbreviato con OC seguito dal numero romano di riferimento del volume 11 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes solitudine così grande che egli non aveva potuto fino ad oggi guardare in faccia, egli arriva a riconoscere in essa fino al tragico la sua solidarietà con un mondo che non comprende. Al momento della sua pubblicazione, Lo straniero ha costituito una sorta di Digest di tutti questi temi: il suo eroe, Meursault, collocato nella quotidianità più mediocre, quella del piccolo impiegato, non vi si rivolta affatto; egli accetta senza alcuna rimostranza tutti i servilismi e compie tutti i gesti apparenti del conformismo sociale; ottempera anche ai riti dei grandi sentimenti, la filialità, l’amicizia. Ma tutto questo campionario di gesti proprio della passività Meursault lo riassume in una sorta di stato secondo, che è quello di una indifferenza fondamentale rispetto alle ragioni del mondo. Per esempio, Meursault seppellisce sua madre ma a ogni gesto convenzionale che egli compie lascia scorgere la lacerazione del rituale, egli accondiscende alla scena, non all’alibi morale che tutti vogliono attribuire ad essa. Ed è precisamente ciò che la società non gli perdona: Meursault, ribelle, la società lo avrebbe ammesso; Meursault opaco è il mondo rimesso in questione, la società non può che rigettarlo con l’orrore più vivo, come un oggetto sporcato dalla propria alterità, come il glomerulo intollerabile di un mondo che non si sopporta se non in famiglia e si sente minacciato così da voltarsi al minimo sguardo estraneo che vede posarsi su di sé. Ciò che Meursault fa cessare con il suo sguardo è quindi una connivenza: il suo silenzio sulle buone ragioni del mondo è puro al punto da sottrarlo alla complicità e da lasciare davanti a lui il mondo allo scoperto: il mondo diviene l’oggetto di uno sguardo ed è proprio questo che il mondo non può tollerare: Meursault diventerà un assassino e il suo processo non sarà tanto rivolto ad un atto, ma ad uno sguardo: è il voyeur che è 12 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes condannato in Meursault, non il criminale. È evidente come tale promozione dell’uomo, del tutto nuova, poiché essa è il ritrarsi dello Sguardo e non più rivolta del Gesto o della Parola, come nella mitologia romantica, nitzscheana o rivoluzionaria, sembrava accordarsi con i grandi temi della nuova filosofia: qui come lì, l’uomo non abbandona né la società per Dio, né Dio per il Male, né l’uno e l’altra per una utopia: l’uomo resta al suo posto, solidario con un mondo in cui è tuttavia assolutamente solo. Naturalmente per questo nuovo tema era necessario un nuovo racconto. Poiché la singolarità di Meursault è legata al disaccordo dei suoi gesti e dei suoi sguardi, l’atto è promosso al rango di unità fondamentale del tempo romanzesco e non più le ragioni dell’atto, come nella psicologia del romanzo tradizionale. Meursault non è, propriamente parlando, né attore né moralista: egli non parla di ciò che fa; egli compie i gesti di tutto il mondo, ma questi gesti familiari sono privati di ragioni, di alibi, così che è la brevità stessa dell’atto, la sua opacità, che comunica la solitudine di Meursault. Non è più un atto in eco che Camus ci propone, un atto completamente assorbito nella massa delle cause, delle giustificazioni, delle conseguenze e delle durate; è un atto puro, inconseguente, separato dai suoi vicini, sufficientemente solido per manifestare una sottomissione all’assurdo del mondo e sufficientemente breve per far esplodere il rifiuto di compromettersi in illusorie giustificazioni di tale assurdo. Dieci anni fa l’attualità de Lo straniero era eclatante. Oggi questo piccolo libro, trasfuso in una forma cara ai francesi, il romanzo denso e minuto come un monile (La Princesse de Clèves, Adolphe) possiede una potenza ancora intatta. Senza dubbio il cammino tracciato da Camus è stato calcato in seguito da molti; tutta una letteratura lazaréenne, secondo la giusta formula di 13 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes Cayrol, si è sviluppata, la quale dà all’uomo, credente o non, la saggezza e la solitudine di un resuscitato. E tuttavia Lo straniero è ancora un’opera fresca, questo libro splende oltre le mode che ne hanno potuto accompagnarne l’apparizione. Lo rileggevo ultimamente ed ero colpito da ciò che Peguy avrebbe chiamato, con un termine di elogio, il suo invecchiamento: l’opera invecchia bene, matura, segue il tempo e lascia apparire a poco a poco dei poteri nascosti. Dieci anni, accaparrato come molti altri dalla tesi del momento, ne avevo colto soprattutto l’ammirevole silenzio che lo eguagliava alle grandi opere classiche, tutte prodotte da un’arte della litote. Ora, ai miei occhi, vi si rivela tutto un calore e vi scorgo un lirismo che sarebbe stato senza dubbio rimproverato di meno nelle altre opere di Camus se si fosse stati capaci di vederlo nel suo primo romanzo. Ciò che fa de Lo straniero un’opera e non una tesi è il fatto che l’uomo vi si trova dotato non solo di una morale, ma anche di un umore. Meursault è un uomo carnalmente sottomesso al Sole e io credo che si debba intendere questa sottomissione in un senso quasi sacrale. Esattamente come nelle mitologie antiche o la Phèdre di Racine, il Sole è qui esperienza così profonda del corpo che ne diviene il destino; esso fa la storia e dispone, nella durata indifferente di Meursault, alcuni momenti generatori di atti. Non v’è uno dei tre episodi del romanzo (la sepoltura, la spiaggia, il processo) che non sia dominato da questa presenza del sole; il fuoco solare funziona qui con il rigore stesso della Necessità antica. Come in ogni opera autentica, l’elemento mitico non cessa di sviluppare le sue figure e non è certo, per essere precisi, lo stesso sole a condurre Meursault nei tre momenti del suo racconto. Il sole funerario dell’inizio chiaramente non è altro che la condizione di un torpida densità vischiosa della materia: sudore dei visi o 14 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes trasudamento del catrame sulla strada torrida ove va il carro, tutto qui è immagine di un ambiente vischioso; Meursault, come non si scolla dai riti, così non si distacca dal Sole e il fuoco solare ha la funzione di rischiarare e di assorbire l’assurdo della scena. Sulla spiaggia un’altra figura del sole: questo però non liquefa, indurisce, trasforma ogni materia in metallo, il mare in una spada, la sabbia in acciaio, il gesto in assassinio: il sole è arma, lama, triangolo, mutilazione, opposto alla carne molle e sorda dell’uomo. E nella sala di assise in cui Meursault è giudicato ecco infine un sole secco, un sole-polvere, il raggio vetusto dell’ipogeo. Questo misto di sole e di nulla sostiene il libro ad ogni parola: Meursault non è solo alle prese con una idea del mondo, ma anche con una fatalità – il Sole – estensiva a tutto un ordine ancestrale di segni, poiché il sole qui è tutto: calore, assopimento, festa, tristezza, potenza, follia, causa e spiegazione. È quindi tale ambiguità tra il Sole-Calore e il SoleLucidità che fa de Lo straniero una tragedia. Come nello Edipo a Colono o nel Riccardo III di Shakespeare la condotta di Meursault è doppiata da un itinerario carnale che ci fa aderire alla sua magnifica e fragile esistenza. Il romanzo è così fondato non solo filosoficamente ma anche sotto il profilo letterario: dieci anni dopo la sua pubblicazione qualcosa in questo libro continua a cantare, qualcosa continua a lacerarci, poiché è proprio questo il doppio potere di ogni bellezza. 15 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno 5 Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes Roger Caillois Sul metodo di Roland Barthes* di Jean Molino 0.1. SCOPO. Partendo dal «corpus» costituito da tre pagine critiche di Roland Barthes dedicate a Racine1, vorremmo tentare di analizzare il senso e i risultati del metodo critico utilizzato. Dunque non si tratta di formulare un giudizio generale sul metodo di Barthes, che implicherebbe uno studio dello stesso tipo dedicato a tutte le opere critiche di Barthes, e soprattutto un confronto con i suoi saggi teorici; in effetti, nulla a priori permette d’affermare che la sua pratica critica corrisponda esattamente al suo programma teorico, così come è esposto per esempio nell’ultima parte di Sur Racine, Histoire ou littérature, o in Critique et vérité. Noi eviteremo dunque ogni incursione al di fuori del corpus sopra delimitato e ci proponiamo di cogliere le procedure, esplicite o implicite, utilizzate nelle tre pagine indicate. 0.2. NOTA. Se ci è permesso, in effetti, di porci per un istante sul terreno delle affermazioni che non tenteremo di giustificare nel corso di questa esposizione, ma che ci sembrano essenziali, nulla può risultare più utile che un tipo d’analisi rigorosa, che tenti di ridurre in procedure oggettive, riproducibili, e, al limite, meccanizzabili, dei «discorsi critici» la cui ambiguità fondamentale risiede in una doppia pretesa: il rigore dell’approccio scientifico da una parte e la libertà della creazione letteraria; ora, allo stato attuale del lavoro scientifico — solo criterio valido * In La Linguistique, vol 5, fasc 2, 1969, pp. 141-154. 1 Sur Racine: a) «Il y a trois Méditerranées… Le vent ne se léve pas»; b) Cette géograhie soutient un rapport... tout ce qui n’est pas elle-même. 16 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes delle procedure — ci sembra impossibile e pericoloso conciliare queste due esigenze.2 METODO. Non è possibile, per uno studio parziale, esporre e fondare il metodo che andiamo a utilizzare, e che d’altronde giustificheremo. Ma è necessario indicare un certo numero di principi e di presupposti senza i quali il nostro metodo apparirebbe esso stesso come soggettivo o non fondato. I. Ogni studio stilistico — e ciò si intende per tutte le forme di spiegazione del testo, come pure i diversi tipi di ricerche censite per esempio da H. Hatzfeld (Bibliografia crítica de la nueva estilística) — fa parte di ciò che possiamo chiamare la parafrasi: cioè (definizione approssimativa e non corretta in una prospettiva di formalizzazione) ogni procedimento che consiste nel rendere conto di un testo attraverso un’organizzazione diversa — e più spesso «estrattiva» — dei suoi significanti. In effetti, tutti i moderni metodi di studio stilistico sembrano accordarsi su un primo principio metodologico: rendere conto del testo mediante il testo stesso. Anche se poi le strade divergono, e spesso non sono più fedeli con esattezza a questa esigenza tuttavia proclamata, la si può considerare come una necessità di ogni studio stilistico. Così, se ci si pone secondo un punto di vista che abbraccia tutti i metodi (statistico, psicanalitico, ecc.) utilizzati, appare che, formalmente, essi consistono nell’estrarre da un corpus C un insieme di elementi E (la cui unità può risiedere in un qualsiasi I.1. 2 Ringrazio J.-C. Gardin, senza il cui insegnamento non avrei avuto l’idea di una tale analisi, G.-G. Granger e G. Mounin di avermi dato l’opportunità di trarre profitto dalla loro scienza e dalle loro osservazioni. Il metodo di Michel Riffaterre, al quale deve essere dedicato uno studio indipendente, e per il quale si pongono problemi diversi, sarà qui lasciato volontariamente da parte. 17 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes carattere che li accomuni), considerato come «particolarmente significativo» (è impossibile qui precisare in anticipo questa nozione, che obbligherebbe a entrare nel dettaglio delle strade utilizzate dai diversi critici) e ad affermare, più o meno nettamente, che la «chiave» dell’opera, la sua significazione, è data dall’insieme di elementi E e, all’occorrenza, dalla struttura interna di questo campo di elementi. Si tratta dunque, per la maggior parte del tempo, di una procedura d’estrazione, a partire da C, di una frazione qualsiasi degli elementi significanti che lo costituiscono — è questa procedura in generale che noi chiamiamo parafrasi, che possiamo schematizzare nel modo seguente: C (corpus) = un insieme finito di termini che, per semplificare e in maniera non rigorosa, diremo essere parole (ma che possono essere anche elementi delle parole ecc.) costituenti una serie: C=n parole, o C=n M sotto la forma M1+M2+M3 (+ significante la successione lineare). La parafrasi consiste, sia nell’organizzare in modo diverso il testo: M1+M2+M3…→ M2+M3…, sia, più spesso, a estrarre, mediante procedure più o meno rigorose, un sottoinsieme E di elementi: C=M1+M2+M3+M4+M5, da cui l’estrazione: E=M2+M4+M6 (si tratta qui di una procedura elementare d’estrazione, ma l’operazione può essere rappresentata attraverso una scelta operata nell’insieme delle parole del testo). Più semplicemente, stante un corpus come serie di parole, la parafrasi consiste sia in una permutazione di questa serie, sia nell’attrazione di una sottoserie, seguita o no da una permutazione. La «stilistica» appare nell’affermazione, più o meno netta, che questo sottoinsieme estratto E «fa meglio comprendere il testo», «chiarisce il senso del testo», «lo spiega» (altrettante espressioni vaghe che non possiamo studiare qui), ne fornisce, se si vuole, un «modello» più o 18 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes meno valido3. Noi non entreremo qui nello studio del senso che possiamo attribuire a questa procedura: ammettiamo provvisoriamente che questa estrazione fornisca un «modello descrittivo» del testo. I.2. Vediamo allora il primo problema che si pone allo studioso di stile o al critico: quello della scelta. Noi intendiamo con ciò la procedura che permette di estrarre dalla serie C una serie E. Nella maggioranza dei casi — salvo gli studi statistici di cui Guirard e più recentemente Muller hanno fornito esempi — il critico non propone nessuna procedura rigorosa. La procedura che si basa su «categorie grammaticali» non è da ritenere «meglio fondata» di altre o, per esempio, quella che si sviluppa per nuclei semantici. In ogni caso, esse devono essere coscienti della loro ambiguità e della loro insufficienza metodologica. Il procedimento che ci sembra rendere conto in modo più ampio della effettiva condotta del critico è il concetto proposto da Starobinski di «lettura attenta», che ritroviamo ugualmente in Raymond, Poulet o Mauron: si tratta di lasciarsi pervadere dal testo fino a vedere o sentire emanare delle regolarità, delle ricorrenze di parole, di espressioni, di schemi di parallelismi o di opposizioni, di microstrutture ecc. I.3. Il secondo problema da risolvere per la critica è quello della strutturazione dell’insieme E estratto. Neanche qui sembra in genere essere utilizzata una procedura rigorosa: vediamo apparire schemi presi in prestito dalla linguistica (opposizioni ecc) ma senza che sia proposto un protocollo d’organizzazione dell’insieme. 3 È in questo momento in effetti che la critica, per «spiegare» il testo, mette in rapporto la «struttura» (termine usato qui in senso vago) di questo insieme E con la situazione dell’autore, la sua biografia, il suo inconscio, il suo ambiente, la tradizione letteraria ecc. 19 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes I.4. Infine, ed ecco il termine e quasi la prova della procedura critica, mettiamo in rapporto l’insieme strutturato E e il corpus C considerando il primo come modello «valido» del secondo: questo rapporto costituisce il terzo problema della critica, che non è affatto risolto con un approccio preciso o oggettivabile. I.5. Al termine di questo rapido inventario appaiono le articolazioni della ricerca critica che conviene analizzare più nello specifico per rendere conto dell’approccio di questo o quel critico, e dunque le questioni che conviene porre: 1) quale è il corpus C da cui parte? 2) che scelta opera e secondo quale procedura per formare l’insieme E estratto? 3) come struttura questo insieme E? 4) come, infine, mette in relazione questo insieme E e il corpus di partenza? I.6. Nel corso dell’analisi del metodo di Barthes, separeremo dall’analisi i commenti personali — e non giustificati dal metodo che utilizziamo — che saremo portati a fare, facendoli precedere dall’indicazione COMMENTO. II.1. Il Corpus C, da cui Barthes parte nel saggio scelto, pone già dall’inizio un problema. La prima frase di Barthes è: Il y a trois Méditerranées dans Racine: l’antique, la juive et la byzantine. A partire da questa prima frase, l’analisi si pone su tre livelli: quello del significante linguistico (che è, lo sottolineiamo, mare e mai Mediterraneo nell’opera di Racine), quello del significato (il «mare», insieme di tratti che liberano n occorrenze di «mare» nelle tragedie di Racine) e quello del referente (ambito di ciò che gli antichi filologi chiamavano i realia in Omero o Virgilio, e che è qui il mare-oggetto, che si arricchisce di tratti non derivati da occorrenze della parola, ma presi in prestito da un sapere dell’oggetto esterno all’opera di Racine). 20 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes La serie del primo paragrafo di pagina 15 si pone espressamente al terzo livello, quello del referente: «ces lieux que Racine n’avait jamais vus», ai quali viene a mescolarsi in due riprese il testo di Racine: «Trézène, où Phèdre se meurt…», e «dans Iphigénie, tout un peuple reste prisonnier de la tragédie». Il Corpus C di Barthes è dunque allo stesso tempo: 1) il «testo» delle tragedie di Racine, 2) i presunti significati organizzati e coerenti del teatro di Racine, 3) il contesto in senso lato, cioè il «mondo», referente che indica o al quale allude il testo del teatro di Racine. COMMENTO: a) è dunque permesso, fin d’ora, di rimpiangere l’ambiguità essenziale dell’approccio critico di Barthes che, in questo momento, non ci appare né rigoroso, né strutturale nel senso corrente del termine: non è possibile sapere, in nessun momento, a quale livello d’analisi si ponga Barthes. b) La classificazione in tre Mediterranei è «presente» nell’opera di Racine, cioè rivelabile mediante un’analisi semantica del teatro? Non ci viene fornita alcuna indicazione al riguardo. c) I tratti ricordati per evocare la Grecia sono quelli della Grecia di oggi («il suffit de visiter aujourd’hui la Grèce pour comprendre la violence de la petitesse…») e si afferma, senza dimostrazione, che corrispondono («s’accorde») alla natura della tragedia raciniana: un approccio rigoroso avrebbe richiesto qui uno studio sistematico dei «tratti» del paesaggio raciniano, a partire dal teatro-corpus, e una «omologia» di struttura di questo paesaggio con il paesaggio della Grecia così come può descriverlo un geografo o un turista di oggi. d) Possiamo evidentemente pensare che, per noi, la tragedia di Racine evoca la Grecia, e siccome la Grecia, per noi, è questa Grecia di oggi, «tertre aride, fortifié de pierraille», la tragedia di Racine è dunque questa Grecia di oggi. Vediamo dunque apparire un altro livello, il quarto, quello del significato dell’opera di Racine per noi, oggi. In effetti, non c’è alcun dubbio che noi «vediamo» un po’ attraverso Nietzsche, un po’ attraverso Lord Evans ecc. L’analisi di Barthes potrebbe dunque condurre a uno studio di tipo psicosociale: quale è l’immagine della Grecia nella borghesia 21 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes intellettuale francese del 1960? Così si costituirebbe un elemento di questo studio, mai svolto o poco più, di rifrazioni diverse di un’opera letteraria in società e a epoche diverse. e) Solo, se lo si colloca nell’ambito della letteratura, converrebbe entrarvi e porre la domanda: per Racine e per i suoi contemporanei (non si tratta qui della personalità di Racine, ma di un’immagine intermedia in un certo strato della società in un certo momento), la Grecia era la stessa Grecia che è per noi? Questo sarebbe l’oggetto di un altro studio, dello stesso tipo del precedente, e di cui bisognerebbe confrontare i risultati prima di costruire una Grecia mista, che sia allo stesso tempo immagine di ieri e di oggi. f) In effetti, e senza pregiudicare i risultati di una tale ricerca, si può pensare che la Grecia descritta da Barthes in questo primo paragrafo è una Grecia «vista» attraverso Hölderlin, Nietzsche, ecc, e non la Grecia, che costituirebbe miracolosamente un’idea assoluta, atemporale e definitiva, e che sarebbe allo stesso tempo la nostra Grecia, la Grecia di Racine, e la Grecia eterna. II.2. Il seguente paragrafo di Barthes è il primo di una serie di quattro che portano il titolo comune: «La Chambre». Con questo paragrafo appare un nuovo ambito, che ci obbliga a far entrare un nuovo elemento nel corpus C da cui Barthes parte per studiare Racine: «Cette géographie soutient un rapport particulier de la maison et de son extérieur, du palais racinien et de son arrière-pays» (p. 15). Come dire che deve essere preso in considerazione come elemento significativo dell’opera, lo «scenario» dell’opera di Racine. Ma questo scenario è esso stesso considerato da molteplici punti di vista, che non sono mai nettamente separati: il primo livello, che non è mai esplicitamente menzionato da Barthes ma che è inestricabilmente legato agli altri, è quello delle indicazioni sceniche espressamente citate dall’autore (o, si potrebbe aggiungere, dai macchinisti dell’epoca di Racine); in secondo luogo, ci sono le indicazioni che possiamo trarre dallo stesso testo delle tragedie di Racine. (Cf. la nota 1 di pag. 16: la funzione della Camera reale è ben espressa in questo verso di Esther: 22 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes «Au fond de leur palais leur majesté terrible Affecte à leur sujets de se rendre invisible; Et la mort est le prix de tout audacieux Qui sans être appelé se présente à leurs yeux»4 (I, 3). Infine, il terzo livello è quello del referente, gli oggetti camera, anti-camera e porta, provvisti di tutta la ricchezza di una significazione extralinguistica multipla, giunta da tutte le impronte del sapere (in particolare, dalla sociologia dei miti e dei riti alla psicanalisi, come testimoniano i termini «trasgressione», «simbolo dello sguardo mascherato» ecc.) Questi oggetti sono d’altronde esplicitamente dotati di uno statuto particolare, che li isola dal contesto e li innalza come entità: la maiuscola con cui iniziano testimonia che sono Camera, Anti-Camera e Porta ipostatizzati, che partecipano dell’essenza di una Cerimonia tragica. COMMENTO: a) questa estensione del testo agli elementi della scena pare legittima nel suo principio: quale che sia la difficoltà inerente al compito di determinare con precisione gli elementi significativi di un allestimento (cf. le difficoltà che si incontrano provando a costituire una semiologia dell’immagine o del cinema), è necessario fare entrare questi elementi in una descrizione, in una “spiegazione” dell’opera teatrale. b) Ma il metodo utilizzato da Barthes ci aiuta a realizzare questo studio? Non mi sembra. Infatti, il risultato più chiaro del passaggio continuo da un livello di significazione a un altro è di rendere, nel senso pieno del termine, gli enunciati di Barthes indecidibili. Prendiamo la frase seguente: «il y a d’abord la chambre: reste de l’antre mythique, c’est le lieu invisible et redoutable où la Puissance est tapie: chambre de Néron, palais d’Assuérus, Saint des Saints où loge le Dieu juif; cet antre a un substitut fréquent : l’exil du Roi, menaçant parce qu’on ne sait jamais si le Roi 4 Nel profondo del loro palazzo la loro terribile maestà/ finge di rendersi ad essi invisibile;/ e la morte è il prezzo di tutti gli audaci/ che senza esser chiamati si presentano ai loro occhi (I, 3). 23 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes est vivant ou mort (Amurat, Mithridate, Thésée)» (pp. 15 e 16). Si possono (senza tentare qui di esplicitare tutti i rapporti che costituiscono «il senso» di questa frase) estrarre almeno le proposizioni seguenti: 1) c’è la camera, 2) questa camera si ritrova, in forme analoghe, nella camera di Nerone, il palazzo di Assuero, il Santo dei Santi del Dio ebraico, 3) questa camera è il luogo invisibile e temibile in cui la Potenza è appostata; 4) essa è il resto dell’antro mitico; 5) questa camera ha un sostituto frequente (la proposizione espressa da Barthes «cet antre a un substitut fréquent» implica un’importante precisazione apportata a 4), cioè: 6) la Camera è antro mitico; 7) l’esilio del Re è un sostituto della Camera-Antro; 8) questo esilio è minaccioso poiché non si sa mai se il re è vivo o morto. Ritroviamo allora l’inestricabile diversità dei livelli d’analisi: A) le proposizioni 1 e 2 rinviano a un dato d’ordine lessicale: c’è un significante camera nel corpus raciniano (testo e scena). B) le proposizioni 1 e 2, così come le proposizioni 3, 6 e 8, rinviano a un’analisi semantica dei “valori” connotativi della Camera e dell’esilio del Re nel corpus raciniano. C) Le proposizioni 5 e 7 affermano che c’è equivalenza tra la Camera e l’esilio del Re all’interno del corpus raciniano: livello d’analisi del contenuto che implica una procedura di “sostituzione” o di equivalenza. D) Infine, la preposizione 4 fa uscire dal campo del testo di Racine e fa allusione a un sapere d’ordine storico e sociologico. È dunque impossibile pronunciarsi sul valore di verità della frase citata, poiché è composta da una molteplicità di proposizioni che prendono il loro valore in ambiti diversi. Si spiegano senz’altro così le difficoltà nel “criticare” un tale lavoro: ci sono poche possibilità che frase oggetto di critica, critica e risposta si pongano sullo stesso livello d’analisi. II.3. Conclusione parziale: il “corpus” su cui lavora Barthes in queste tre pagine è dunque costituito principalmente da 24 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes 1) il testo di Racine considerato secondo tre livelli d’analisi: A) significanti linguistici, B) significati linguistici più o meno sistematizzati all’interno del testo, C) “referenti” del testo raciniano secondo A e B. 2) Lo scenario di Racine, considerato anch’essa secondo tre livelli: A) scena espressamente indicata in quanto tale; B) scenario “indotto” dal testo di Racine; C) referenti di tale scena secondo A e B. III.1. Il secondo problema è ora di chiarire le procedure attraverso cui Barthes, all’interno del corpus C così costituito, sceglie un sottoinsieme E (o una serie di insiemi E) cui conducono poi la sua analisi e la sua spiegazione. III.2. Il principio che guida la scelta è qui un principio che si pone al livello semantico: Barthes estrae dal corpus le indicazioni in rapporto ai “luoghi tragici” (p. 15). COMMENTO: Contrariamente alle apparenze, la scelta guidata da un principio semantico non è meno “esatta” né meno giustificabile rispetto a un principio grammaticale (morfologico o sintattico). Se gli esperti di stile preferiscono partire da un’analisi fondata sullo studio di una categoria morfologica o sintattica, è nel pensiero che gli inventari sono, in questo caso, limitati, e che la procedura di scelta (questa parola deve entrare o no nell’inventario?) è, almeno di diritto, processo di decisione, nel senso logico del termine. Ma, ciò che qui è “guadagnato” in esattezza è perduto sotto altri profili, poiché lo studioso di stile, a partire dall’inventario di significanti, deve poi fare un “salto” nel senso: le garanzie che circondavano la procedura di scelta non vengono più in soccorso. Si spiega forse così il carattere deludente degli studi di stile troppo esclusivamente fondati su categorie grammaticali. Ad ogni modo, un principio semantico di scelta non sembra meno valido di un altro . III.3. Dunque come si fa questa scelta? Ci limiteremo a considerare il paragrafo (p. 15-16) che studia il primo luogo tragico, la camera. Secondo quanto già evidenziato sopra, gli elementi rilevati si pongono indifferentemente al 25 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes livello del significante, del significato e del referente, del testo e della scena. Ma, ammettendo la confusione dei livelli che conferisce uno stesso valore a tutti questi elementi, in che modo Barthes ritiene che tali elementi abbiano un “rapporto semantico” con la camera? Sembra che ci sia un inventario del campo semantico “camera” nel corpus raciniano che si articola in due modi di procedere: A) c’è un significato “camera” nelle tragedie Britannicus, Esther e Athalie. B) in altre tragedie di Racine, c’è un “sostituto” della camera, l’esilio del Re, come in Mithridate, Phèdre e Bajaset. Ora, esistono undici tragedie di Racine; possiamo domandarci se Barthes ha proceduto per campionamento, o se l’analisi non porti che a queste sei tragedie; è stupefacente notare che in La Thebaïde, Alexandre le Grand (esempi forse discutibili nella misura in cui queste sono opere giovanili) e soprattutto in Andromaque, Bérénice e Iphigénie, non c’è né esilio del Re, né “le lieu invisible et redoutable où la Puissance est tapie”: Pirro, Tito e Agamennone sono qui, la loro potenza si manifesta nel gran giorno, e non ha bisogno di nascondersi, né di essere “un segreto”, né di essere “invisibile”. In ogni modo, ammettendo che Barthes possa provare che le altre cinque tragedie di Racine offrono lo stesso luogo tragico, la camera, ciò non potrebbe essere che al prezzo di una nuova sostituzione che, come la prima (la sostituzione camera-esilio reale), non avrebbe valore preciso se non nella misura in cui si indichi una procedura di commutazione o di equivalenza. III.4. La stessa analisi potrebbe essere condotta sui due paragrafi seguenti, che considerano un altro luogo tragico, l’Anti-Camera, e la Porta che separa la camera dall’AntiCamera. Non c’è dunque alcuna procedura precisa di scelta nel corpus, neanche il vecchio principio lansoniano 26 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes degli inventari completi che, nel caso di Racine, non sono impossibili. IV.1. il terzo problema posto è quello di determinare le procedure grazie alle quali Barthes struttura il sottoinsieme (o i sottoinsiemi) così “estratti” dal corpus. COMMENTO: a) è dunque più fondato qui fare riferimento a questo problema poiché il titolo della sezione a cui sono improntate le pagine studiate è “I. La Structure”. Lo scopo perseguito da Barthes è dunque proprio di strutturare l’insieme di elementi definiti secondo il termine di scelta in precedenza individuato. b) Il senso delle parole “struttura” e “strutturare” pone evidentemente un problema preliminare. Rinviamo al libro di Granger, Pensée formelle et sciences de l’homme, e alla prefazione della riedizione; il termine struttura deve essere, per il momento, riservato alle strutture matematiche e alle strutture fonologiche. Georges Mounin attira l’attenzione sui pericoli di un utilizzo frettoloso e approssimativo dello strutturalismo linguistico nelle scienze umane (La Nouvelle Critique, settembre 1967). IV.2. Lasciando da parte la prima struttura presentata in queste pagine, quella dei “tre Mediterranei”, ci limiteremo alla strutturazione dei “luoghi tragici”; Barthes, dalle indicazioni che estrae dal corpus eterogeneo che abbiamo studiato, ricava l’esistenza di tre luoghi tragici: la Camera, l’Anti-Camera, e l’Esterno. COMMENTO: Il punto di partenza, ancora qui, e come avviene spesso nell’opera di Barthes, è interessante, poiché supera e cerca di approfondire le prospettive tradizionali: «Bien que la scène soit unique» vi sono più luoghi tragici. Cioè la scena propriamente detta non può essere isolata dagli altri luoghi che essa evoca, interno del palazzo e mondo esterno; la scena — lo abbiamo già detto molto tempo fa — è per il teatro classico un’anticamera, un luogo di passaggio. È dunque logico interessarsi ai rapporti che intercorrono tra questi due “luoghi tragici”: possiamo da questo parlare di struttura? No. Si tratta per il momento solo di una descrizione allargata, che ha lo scopo di mostrare il peso dell’esterno in senso lato (palazzo, camera o mare) sui personaggi e l’azione 27 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes della tragedia. Non c’è struttura (o piuttosto sistema) se non a partire dal momento in cui questi luoghi tragici, oggetti definiti, intrattengono rapporti definiti e costanti; la struttura, secondo una definizione minima, è «un ensemble de rapports considérés comme caractéristiques et définis sans ambiguité». IV.3. Barthes definisce ciascuno dei luoghi tragici. Prendiamo come esempio la definizione della camera: «Cette chambre est à la fois le logement du Pouvoir et son essence, car le Pouvoir n’est qu’un secret: sa forme épuise sa fonction; il tue d’être invisible; dans Bajazet, ce sont les muets et le noir Orcan qui portent la mort, prolongent par le silence et l’obscurité l’inertie terrible du Pouvoir caché» (p. 16). Il susseguirsi delle proposizioni si presenta come una definizione d’oggetto, o piuttosto di una categoria d’oggetto ipostatizzata, la camera: una tale definizione deve dunque poter essere sottoposta — e ci scusiamo per dover esplicitare tali evidenze — a verifica, cioè tutte le camere della tragedia raciniana devono rispondervi. Senza tornare alle tragedie in cui tale camera sembra difficile da rintracciare, possiamo dire che la “camera” così descritta è un equivalente, un “sostituto” dell’esilio del Re? Nel caso di Teseo per esempio, come affermare e come giustificare che «le Pouvoir n’est qu’un secret: sa forme épuise sa fonction; il tue d’être invisible». Solo tre tragedie — Britannicus, Esther e Athalie — presenterebbero una Camera che corrisponde alla definizione: ci si potrebbe ancora legittimamente domandare cosa voglia dire, nel senso normale del termine, la proposizione «sa forme épuise sa fonction» e a quale contenuto esplicito essa rinvii. Ultimo problema: perché dare il nome di “camera” a questo luogo di soggiorno della Potenza? Barthes enumera: “chambre de Néron, palais d’Assuérus, Saint des Saints où loge le Dieu juif”. «Camera» è ben lontano dall’essere denominatore comune di questi tre luoghi, e 28 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes vediamo chiaramente quali connotazioni psicanalitiche introduca tale termine, privilegiato senza che sia fornita alcuna giustificazione. COMMENTO: si vede d’altronde abbastanza facilmente come si costruiscono le analisi di Barthes: attraverso una sorta di pressappoco e di scivolamenti, si parte da una frase, una scena, una parola di Racine, una battuta di spirito o più spesso una metafora, da cui si estrae un “être de raison” che viene generalizzato senza alcuna verifica. Qui, l’idea del Dio nascosto, l’immagine del serraglio e i lavori di Mauron sono sufficienti a costruire una Camera, luogo della Potenza, che, come abbiamo visto, non si ritrova in Andromaque né Bérénice. Ora, poiché un’esperienza (un contro-esempio) contraddice un’ipotesi, sembra naturale — per il critico come per l’uomo di scienza — cambiare l’ipotesi... IV.4. lo studio del secondo luogo tragico, l’Anti-Camera, conduce alle stesse conclusioni: la definizione fornita è, a rigore, soddisfacente solo per un numero limitato di tragedie. COMMENTO: sottolineiamo innanzitutto, oltre al gioco delle maiuscole di cui Alain direbbe che fa parte di questi mezzi di cui fanno uso gli Importanti per approfittare degli ingenui, l’ortografia caratteristica: Anti-Camera in due parole — con due maiuscole — è un ritorno all’etimologia? (ma cosa rivela questo ritorno?) sembra ben chiaro che l’anticamera si trova prima, davanti alla camera…). Qui, l’Anti-Camera è definita come «espace éternel de toutes les sujétions, puisque c’est là qu’on attend». Certo, è in qualche modo vero; ma è anche, esattamente, il luogo in cui ci si incontra, ci si ritrova, (“oui, puisque je retrouve un ami si fidèle…”). È da dire che tali definizioni, vere qui e false là, vere in un senso e false in altro, non hanno alcun interesse, alcun valore se esse non si propongono esplicitamente di rendere conto di un insieme dato di elementi, cioè se esse non offrono nello stesso tempo un estratto completo di qusti elementi e una procedura di 29 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes verifica delle ipotesi. Si può dire dell’Anti-Camera di Racine esattamente ciò che si vuole; ciò avrà sempre un valore eccitante per lo spirito, potrà raggiungere con più o meno frutto dei risultati inattesi: mai una tale definizione avrà un senso valido né utilizzabile. COMMENTO: la mancanza di rigore nella costituzione del corpus o nella scelta di un sotto-insieme all’interno del corpus non invalida necessariamente la tappa seguente: in effetti, allo stato attuale dei metodi d’analisi, è permesso proporre, in modo del tutto empirico, un modello (oggetti e strutture) ottenuto senza rigore ma efficace per rendere conto del corpus. È allora necessario che oggetti e strutture siano definiti in modo chiaro e distinto. Non è questo il caso. IV.5. In cosa consiste dunque la “struttura” dei luoghi tragici? Per il momento, le due definizioni non costituiscono una struttura. I rapporti tra Camera e AntiCamera sono materializzati mediante la Porta. È sorprendente costatare che le relazioni tra Camera e AntiCamera sono esse stesse definite come un oggetto tragico: la struttura appare come una semplice configurazione in cui il solo rapporto è quello della successione lineare; ci sono tre oggetti-luogo: Camera, Porta e Anti-Camera che si succedono d’infilata e che i personaggi percorrono in tutti i sensi. COMMENTO: ritroviamo evidentemente le difficoltà già riscontrate per definire con precisione questo nuovo oggettorelazione, che è il supporto di determinazioni ora comodamente contraddittorie («la contiguité et l’échange»), ora troppo vaghe («on y veille, on y tremble»); in ogni modo, non si sfugge mai, in base all’estratto di tutte queste determinazioni, alla conclusione secondo cui si tratta di elementi improntati a quello o a un altro passaggio di un’opera, e impropriamente dati come caratteristici della totalità dell’opera di Racine. Allo stesso modo, la procedura che permette di “sostituire” il Velo o il Muro alla Porta non è in alcun modo indicata. 30 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes IV.6. c’è dunque un altro livello in cui gli oggetti intrattengono tra loro relazioni: è quello in cui questi oggetti tragici — luoghi che definiscono una geografia — sono a loro volta il terreno in cui agiscono dei personaggi e il simbolo incessante delle loro azioni reciproche. I rapporti tra luoghi tragici non esistono che nella misura in cui si iscrivono nello spazio e simbolizzano le relazioni tra personaggi. La struttura dei luoghi tragici non è che l’incarnazione spaziale di modi di essere o di situazioni psicologiche divenuti cose. Sarebbe a dire che la Porta non è più porta, il Muro non è più muro — e allora capiamo perché Barthes scrive queste parole con la maiuscola — la Porta, il Muro non sono più niente di materiale (“le Voil … n’est pas une matière inerte …”), bensì la concrezione ingannevolmente materiale di una significazione esclusivamente psicologica. COMMENTO: vediamo dunque l’ambiguità fondamentale di una tale “struttura”: come struttura spaziale, offre la resistenza e la coerenza di un’anatomia che supporta la tragedia; ma qui, il contenuto specificamente spaziale della struttura è pura successione, cioè la struttura più povera che si possa immaginare e che non ci apporta alcun chiarimento sulla tragedia. Inoltre, dietro e sotto i termini spaziali si nascondono realtà psicologiche (qui psicanalitiche), cosificate e indurite per diventare oggetti. Si tratta di riprendere approssimativamente i risultati d’analisi come quelle di Mauron e, per eliminare ciò che potrebbe apparire come uno psicologismo, di trasportare il contenuto di queste analisi nella definizione di oggetti e luoghi del mondo. Straordinario avatar di uno psicologismo che, per evitare la tradizionale analisi psicologica del teatro classico, psicologizza totalmente il mondo della tragedia. Comprendiamo così come tali “strutture” possono presentarsi di volta in volta come analisi “rigorosa” di oggetti e come ricche di senso tragico che veicolano i personaggi; lo pseudo rigore dell’analisi conduce tutta la “significazione” molteplice e irriducibile delle passioni e delle relazioni umane. 31 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes V.1. Ultimo problema: come si attua la messa in rapporto tra la strutturazione di E operata secondo procedure in precedenza evocate e l’insieme del corpus raciniano? Cioè come e in cosa E rende conto di C e lo “spiega”? COMMENTO: ecco dunque una delle articolazioni essenziali di ciò che chiamiamo — impropriamente — lo strutturalismo nelle scienze umane; è anche l’elemento che segna più nettamente la differenza tra le strutture in senso stretto, matematiche e fonologiche, e le strutture in senso ampio (sistemi nel senso stabilito da Granger e pseudo-strutture). La struttura matematica ha un senso immanente, precisamente localizzato nella struttura stessa, con appena questo margine di significazione (nel senso di Granger) che è il residuo non tematizzabile su cui si fonda il contenuto dell’evidenza di una relazione o di un processo. Al contrario, la “struttura” nelle scienze umane ha un suo senso al di fuori di se stessa: inizialmente sembra avere la funzione di “spiegare” un oggetto o una costellazione di oggetti; sembrerebbe dunque dare il senso di questo insieme di oggetti. Infatti, ci si accorge presto che la struttura qui non può esistere da sola: essa non esiste che nel rapporto e attraverso il suo rapporto con gli oggetti di cui deve rendere conto. Una struttura di gruppo o ad anello ha un senso interamente (o quasi) fondato su assiomi che la definiscono; allo stato attuale del lavoro scientifico, una struttura, nelle scienze umane, non ha senso che attraverso gli scambi furtivi che intrattiene con gli oggetti che vuole strutturare. Il “senso” di queste strutture è intriso di “significazioni” improntate agli oggetti che si vogliono spiegare. Da ciò il procedimento strutturalista: esso consiste nell’affermare una “omologia” tra strutture improntate a livelli diversi di oggettività; così Goldmann mette in relazione una struttura ideologica, quella delle tragedie di Racine o delle Pensées di Pascal, con una struttura sociale, quella del giansenismo di toga nella Francia del XVII secolo. Cosa significa qui il termine “omologia”? Si tratta di un’analogia in senso vago: la struttura è stata definita mediante relazioni ambigue tra oggetti non rigorosamente definiti, in modo da costituire un essere misto che, al prezzo di incessanti scivolamenti, può adattarsi sia a realtà ideologiche sia a realtà sociali; non c’è “omologia” di struttura poiché la struttura è stata costituita per rendere conto di una corrispondenza tra due ambiti di realtà e grazie 32 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes a determinazioni che partecipano più o meno nettamente dei due ambiti. Ora, la descrizione di un ambito di oggettività e, all’occorrenza, la sua organizzazione in struttura non hanno valore se non si separa il risultato dai processi attraverso cui questo è stato raggiunto; per il momento, non c’è somiglianza tra le procedure della storia della letteratura, della sociologia della conoscenza, della storia della mentalità e degli studi sociali: è solo a prezzo di un’ipostasi, che separa e isola i risultati dal protocollo sperimentale o teorico del procedimento, che possiamo “mettere in rapporto” oggetti e relazioni che sono, in senso stretto, incommensurabili. Da ciò, la necessaria e fondamentale ambiguità di questa messa in rapporto che non sembra spiegare un livello di oggettività mediante un altro se non laddove la struttura che permette questo passaggio era, fin dall’inizio, fatta “a piacere” per renderlo possibile. Lo “strutturalismo” di oggi si fonda su una perpetua e essenziale metábasis eis állo génos. V.2. Abbiamo visto che la “strutturazione” dei luoghi tragici in Camera, Anti-Camera ed Esterno non poteva essere considerata come una “immagine” utilizzabile e valida del Corpus raciniano. La volontà di spiegare era già presente nella scelta e nella strutturazione dell’insieme di elementi considerati come pertinenti. Si potrebbe abbastanza logicamente riprendere il termine alla moda di “lettura” per definire tale metodo, più o meno consciamente applicato oggi, ma senza riflessioni sulle sue implicazioni metodologiche: si tratta, come abbiamo visto, di affermare che tale o tal’altra strutturazione locale di un’opera è la “chiave” di quest’opera. Ora, la struttura locale che costituisce l’analisi dei luoghi tragici non potrà servire a spiegare, decriptare o descrivere l’opera di Racine, se non nella misura in cui essa veicola surrettiziamente tutta la significazione di cui essa vuol rendere conto. Le analisi precedenti lo hanno mostrato a sufficienza, la strutturazione dei luoghi tragici figurata da Barthes spiega il teatro di Racine in e attraverso ciò che essa aveva improntato al contenuto di questo teatro: essa ritrova nel teatro ciò che essa aveva già preso all’inizio del 33 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes procedimento e già trasformato a priori per i bisogni della sua “lettura”. COMMENTO: è dunque consentito distinguere in questa pagine di Barthes da una parte un metodo, dall’altra delle intuizioni, degli avvicinamenti, delle spiegazioni. Il metodo non può apparire come la descrizione precisa e rigorosa dell’Homo racinianus (p. 9), non può essere considerato più come metodo “strutturale” (p. 9) in senso stretto. Resta così solo un’utilizzazione frammentaria e approssimativa della tematica psicanalitica; Barthes procede a una “lettura” psicanalitica ma senza mai procedere secondo le norme del metodo psicanalitico. È qui che appare la contraddizione essenziale tra i due aspetti inseparabili dell’impresa: congiungere al metodo più informale e soggettivo le affermazioni più categoriche di rigore metodologico. CONCLUSIONI. Si potrebbe, al termine di questa analisi, indirizzare una critica di fondo alla nostra ricerca: perché l’opera di Barthes avrebbe bisogno di procedure esterne al suo procedimento, e che Barthes potrebbe rifiutare a priori considerandole come non valide per rendere conto del suo metodo critico? Se abbiamo aspettato fino alla fine per rispondere a questa obiezione, è che ci sembra che la ricerca stessa debba incaricarsi di rispondere nella misura in cui essa sarà stata correttamente condotta. In effetti questa ricerca può sembrare che forzi il testo di Barthes e che gli ingiunga di spiegarsi: molto semplicemente perché è necessario oggi, nell’analisi dello stile o in critica letteraria come in ogni scienza o in ogni disciplina che aspiri ad uno status di scientificità, più che di ottenere dei risultati, di essere cosciente dei metodi utilizzati per ottenerli. L’analisi dello stile e la critica letteraria, allo stesso ritmo delle scienze umane, vedono moltiplicarsi i lavori più eterogenei, più brillanti e più appassionanti in molti casi: cosa ne resta? La scienza si costituisce a partire da processi di accumulazione, cioè precisamente quando un risultato è stato ottenuto al termine di un processo VI. 34 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes assolutamente riproducibile da qualsiasi ricercatore: ciò permette in ogni momento di andare più lontano poiché ci si è assicurati la verità sempre garantita di ciò che precede. La critica letteraria è lontana da questa situazione poichè, al contrario, essa è luogo di tutte le confusioni, di tutti i guizzi, di tutte le sottigliezze di metodo non rigorose. Barthes precisamente proclama il diritto a questa soggettività senza limiti: “Le critique doit lui-même se faire paradoxal, afficher le pari fatal qui lui fait parler de Racine d’une façon et non d’une autre”5. Ironizza sulla contraddizione che scopre tra positivismo e stregoneria nella critica letteraria tradizionale6. Ma Barthes, più di ogni altro, si mette in questa contraddizione perpetua: se afferma di tenere fede alla scommessa della soggettività, dice anche che «la première règle objective est ici d’annoncer le système de lecture, étant entendu qu’il n’en existe pas de neutre». Allo stesso modo, nella Prefazione a Sur Racine, Barthes scrive: «Ce que j’ai essayé de reconstituer est une sorte d’anthropologie racinienne, à la fois structurale et analytique: structurale dans le fond, parce que la tragédie est traitée ici comme un système d’unités (les “figures”) et de fonctions»7. Se le parole sistema e struttura hanno un senso — soprattutto poiché nella nota 3 di pag. 9 Barthes vuole riprendere dei “termini strutturali” (?) — ciò che si può e si deve domandare alle analisi di Barthes non è la Verità; per restare sulle sue posizioni metodologiche gli si chiede la validità: cioè che la sua lettura, il suo sistema quali che siano devono essere validi per l’insieme degli oggetti di cui essi vogliono rendere conto, cioè il teatro di Racine. C’è, anche lì, un’esigenza positivista o pseudoscientifica, che dir si voglia. Se Barthes vuol presentare un sistema, una struttura, facendo a più riprese allusione a questo tipo di 5 Sur Racine, Histroire ou letterature. Ibid., pp. 161-162. 7 Ivi, p. 9. 6 35 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes strutture che sono le strutture linguistiche, bisogna che questa struttura sia definita, coerente e renda conto degli oggetti che pretende di strutturare: noi pensiamo di averlo mostrato su un campione, le strutture di Barthes non possiedono alcuna di queste proprietà. È ci sembra, una causa molto più confusa di quella della critica letteraria tradizionale: il metodo di Barthes riflette l’ambiguità del metodo della critica letteraria (e delle scienze umane in molti casi) oggi: da una parte, l’acuta consapevolezza della necessità, per la critica, se non di trasformarsi ipso facto in scienza, cosa che sarebbe inquietante, almeno di tentare di appoggiarsi su un procedimento rigoroso. Ma a questa esigenza si mescola l’affermazione di un altro principio: «Notre réponse ne sera jamais qu’éphémère, et c’est pour cela qu’elle peut etre entière»; Barthes parte dall’evidente constatazione che l’opera del critico è relativa al suo tempo, al suo mondo, per estrarne un principio di relatività assoluta: «Bref, il faut qu’à la duplicité fatale de l’écrivain, qui interroge sous couvert d’affirmer, corresponde la duplicité du critique, qui répond sous couvert d’interroger». Si vede qui allora ciò che è lasciato totalmente da parte: è il problema della verità. Barthes ha buon gioco nel ridicolizzare la concezione banale della verità, di una — adaequatio rei et intellectus in cui l’oggetto e lo spirito — qui l’opera e la critica — potrebbero immediatamente ritrovarsi e corrispondersi perfettamente. Sembra dunque possibile introdurre una procedura più modesta e non meno rigorosa: non che il discorso critico abbia qualche pretesa di raggiungere la verità, ma si tratta di mantenere in ogni istante la garanzia offerta da una procedura di validazione. Lo abbiamo già sottolineato: in senso stretto, le frasi di Barthes sono indecidibili, poiché si pongono al di fuori di ogni procedura di riproduzione. Possiamo provare a imitare Barthes, ma non possiamo rifarlo o correggerlo in 36 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes un certo momento del procedimento: la volontà di rigore strutturalista non è che un aspetto, un momento di un metodo che, non può nasconderlo, non si vuole essenzialmente diverso da quello del creatore letterario o artistico. Posizione comoda, bisogna dirlo; opponiamo al critico il rigore della scienza, allo scienziato la libertà del creatore: Je suis oiseau: voyez mes ailes… Je suis souris: vivent les rats!8 L’intelligenza e il talento di Barthes non sono in discussione: ci sembra che renda un cattivo servizio sia alla scienza che alla letteratura. I saggi, come le critiche, hanno il loro posto e il loro senso: costituiscono spesso, oltre il loro interesse intrinseco, come l’annuncio “metafisico” di una scienza futura; ma se un giorno qualcosa come una scienza della letteratura deve vedere la luce, ciò non potrà essere che grazie a un insieme di ricerche e procedimenti il cui primo carattere sarà di essere garantiti dal rigore di un metodo oggettivamente riproducibile e giustificabile secondo una procedura di validazione. 8 Sono un uccello; vedete le mie ali/Sono un topo; vivono i ratti! 37 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno 5 Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes Roger Caillois L’Utopia* di Roland Barthes L’Utopia è il campo del desiderio, di fronte al Politico che è il campo del bisogno. Da qui i rapporti paradossali di questi due discorsi: essi si completano ma non si intendono: il Bisogno rimprovera al Desiderio la sua irresponsabilità, la sua futilità; il Desiderio rimprovera al Bisogno le sue censure, il suo potere riduttivo; a volte vi sono degli attraversamenti delle Frontiere: il Desiderio perviene ad esplodere nel Politico: è il maggio 1968, momento storico raro: quello di una utopia immediata: la Sorbonne occupata e vissuta per un mese in uno stato di utopia (in effetti essa non era «in alcun luogo»). Il Desiderio deve essere senza sosta ricondotto nel Politico. Ciò significa non soltanto che le utopie sono giustificate, ma anche che esse sono necessarie; è inoltre indice della piattezza dei nostri tempi la nostra impotenza attuale a scrivere utopie; si direbbe che siamo trattenuti dall’immaginare: il grande super-io politico ci fa la lezione. A dire il vero non sono le grandi linee di una società futura che noi temiamo di tratteggiare: ciò è reperibile e nel Politico stesso; sono i dettagli di questa società ed è proprio in questo che noi manchiamo l’utopia e il desiderio; poiché l’Utopia — e questa è la sua specificità — è minuziosa, immagine orari, luoghi, pratiche; è romanzesca, come il fantasma, di cui essa è in sostanza forma politica. L’Utopia è sempre ambivalente: essa rovina il tempo presente, si appoggia senza sosta su ciò che non va nel mondo e nello stesso tempo, nello stesso modo inventa * Cfr. OC IV, p. 531-332. 38 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes immagini di bontà: le inventa nei loro colori, nella loro precisione, nel loro franto sfavillio, nella loro stessa assurdità; essa possiede il coraggio più raro: quello della gioia. È questo coraggio che hanno avuto i due più grandi utopisti che io conosca: Sade e Fourier. Di certo, come sistema effettivo, nessuna utopia possiede la minor possibilità di applicazione: il falansterio fourierista e il castello sadiano sono letteralmente impossibili; ma sono gli elementi, le inflessioni, gli sviamenti, i nascondigli del sistema utopico che ritornano nel nostro mondo come i lampi del desiderio, come dei possibili esaltanti; se noi riuscissimo ad afferrarli meglio essi impedirebbero al Politico di rapprendersi in sistema totalitario, burocratico, moralistico. 39 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno 5 Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes Roger Caillois D’un sole reticente* di Roland Barthes Il pittore Eugène Delacroix diceva che per ritrovare ai nostri giorni l’abbigliamento greco in tutta la sua nobiltà bisognava andare in Marocco. Forse, nello stesso modo, è dal marocchino Zaghlul Morsy1 che noi riceviamo qualcosa di un certo lirismo francese e come il segno superlativo del nostro stesso linguaggio: la deviazione che riconduceva il pittore alla Grecia antica attraverso una civiltà estranea alla nostra tradizione, è la medesima che Morsy ci obbliga a intraprendere per considerare la nostra lingua francese attraversata da un’esteriorità nella sua essenza stessa. Il poema plurale di Morsy è scandito dalla doppia civiltà, il doppio linguaggio, l’islamico e l’occidentale, il magrebino e il francese, ma tale duplicità Morsy non la rappresenta affatto: egli non dettaglia la lacerazione, non ne fa il bilancio, non l’interiorizza, non la civilizza: si accontenta di iscriverla continuamente nel suo linguaggio. Da una parte una fonte magrebina costante e tuttavia appena reperibile dietro la metafora variata del sole e del velo (non si tratta di una «ispirazione» esplicita o di una nostalgia etnica): dall’altra parte uno stile in cui si mescolano molteplici origini, vari riferimenti, tutto un fondo di citazioni da cui le virgolette sono eliminate, mediante questo gioco superiore e pericoloso (o scandaloso) che ogni scrittura deve assumere. In una parola, qui si raccolgono molteplici lingue: in primis la lingua francese, di cui si direbbe che nel giro di poche pagine è percorsa in tutti i suoi anfratti, riconosciuta * 1 Su Le Nouvel Observateur, 17 giugno 1969. Cfr OC III, 102-103. Z. Morsy, D’un soleil réticent, Grasset 1969. 40 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes nelle sue parole rare, nel suo lampeggiamento particolare, nei meandri più civilizzati della sua sintassi; in seguito la lingua poetica, deposito di tutte le poesie anteriori, immagine fantastica (o fantasmatica) di un patrimonio che non è quello dell’autore e che egli svia per renderne sospetta la proprietà nel modo migliore: infine la lingua culturale, che riferisce esplicitamente i poemi a Eraclito, Hölderlin, Al-Hirrâlî e ai loro luoghi di origine, Marrakech, Firenze, Parigi. Lo spazio citazionale di Morsy (senza il quale non v’è scrittura) esclude senza dubbio altri modelli: il surrealismo, per esempio: ma tali limiti non sono per nulla da leggere come le costrizioni che vengono da una certa cultura (islamo-occidentale), iscritte in ogni lingua, fosse pure poetica, come le sue rubriche obbligatorie. Ciò che è presente nel libro di Morsy, ciò che è assente da esso, designano quindi proprio ciò che si traspone, si trascrive o, al contrario, si arresta, tace, passando da un paese all’altro, da una lingua all’altra. Il poema allora ci mostra come l’altra lingua (la nostra) è intesa, messa in opera dall’altro lato: questa volta siamo noi ad essere di fronte: di fronte a partire dalla nostra stessa lingua. 41 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno 5 Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes Roger Caillois I. Un remous minéral dans l’imposture du Sens achevé. Barthes, Blanchot e la solitaria sfinge dell’écriture. di Giuseppe Crivella Nell’arco di tempo che va dalle opere degli anni ‘50 fino agli ultimi testi della fine degli anni ’70 le occorrenze del nome di Blanchot e i riferimenti espliciti alla sua opera all’interno della produzione barthesiana si moltiplicano in modo rilevante. Il nome dell’autore de L’entretien infini poco a poco diventa sempre più frequente, ricorre in interviste, citazioni, testi estemporanei, saggi. Perfino nell’ultimo testo edito in vita da Barthes e dedicato alla fotografia Blanchot occupa inaspettatamente un posto di rilievo, dal momento che il suo nome e il brano di un suo testo — tratto da Le livre à venir — appaiono verso la metà del quarantaquattresimo paragrafo allo scopo di fornire una decifrazione retorse dell’essenza dell’immagine e dello sguardo.1 Già nell’opera d’esordio di Barthes inoltre Blanchot appariva come uno degli autori chiave per capire le tesi lì esposte. E tuttavia, intervistato nel 1971 da Jean Thibaudeau2 a proposito degli autori che avevano costituito per lui un punto di riferimento durante le fasi salienti della sua formazione intellettuale, cioè nel periodo immediatamente anteriore a Le degré zéro de l’écriture, Barthes omette il nome di Blanchot, affermando recisamente che al tempo non lo conosceva e non aveva letto ancora nulla di suo. Si tratta di una affermazione piuttosto strana, la quale si spiega soltanto considerando che molto probabilmente 1 2 OC V, p. 938. OC III, p. 1028. 42 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes Barthes ha aggiunto il nome di Blanchot e i riferimenti espliciti a suoi testi solo in un momento avanzato di stesura dell’opera, avendo quasi sicuramente incontrato il suo nome mentre stava già raccogliendo il materiale per il saggio del 1953. Letta in questo senso la risposta di Barthes a Thibaudeau pertanto da una parte spiegherebbe l’apparente incongruenza, dall’altra rimarcherebbe la rilevanza immediata e prolungata che il pensiero di Blanchot ha indubbiamente avuto sul suo. Scrittura, scomparsa del soggetto, implosione del libro nella forma dispersiva del textum, immagine come elusione della ressemblance ed evocazione di un fuori, impersonalità della parola letteraria, letteratura come vacanza del senso sono solo alcuni dei temi che i due autori hanno in comune. È difficile tra l’altro stabilire chi abbia influenzato chi, poiché se è vero che Blanchot è più grande di Barthes di otto anni e che inizia a pubblicare i primi testi di saggistica tra la fine degli anni trenta e la metà degli anni quaranta, va anche detto che entrambi gli autori compiono quella svolta decisiva che li porterà a focalizzarsi sulla écriture più o meno nello stesso periodo, cioè alla metà degli anni ’50, Barthes proprio coll’opera evocata poco sopra, Blanchot con un dittico destinato a influenzare buona parte della cultura francese successiva: L’espace littéraire (1955) e Le livre à venir (1959). Sono in particolare gli scritti su Kafka ad impressionare Barthes e saranno quindi proprio questi ad essere richiamati ne Le degré zéro de l’écriture: Blanchot ha notato a proposito di Kafka che l’elaborazione del racconto impersonale (osserveremo in relazione a questo termine che la terza persona è sempre data come un grado negativo della persona) era un atto di fedeltà all’essenza del linguaggio, poiché questo tende naturalmente verso la propria distruzione. Comprendiamo allora come /il/ sia una vittoria su /io/, nella misura in cui esso realizza uno stato simultaneamente più letterario e più assente. Tuttavia la vittoria è senza sosta compromessa: la convenzione letteraria 43 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes dello /il/ è necessaria all’indebolimento della persona ma rischia ad ogni istante di ingombrarla con uno spessore inatteso. La Letteratura è come il fosforo: brilla al massimo nel momento in cui essa cerca di morire.3 Nel 1953 Barthes, tramite Blanchot, ha già messo in campo un sistema di nozioni che non cesserà di elaborare fino alla morte. In queste poche righe i temi principali della sua riflessione si trovano già tutti convocati, quasi chiamati in rassegna per essere poi sviscerati e approfonditi, permutati e messi in tensione l’uno con l’altro e l’uno dopo l’altro, nelle varie raccolte di saggi che egli pubblicherà fino a La chambre claire. Blanchot e Barthes a questo punto diventano quasi indistinguibili, agitano le acque, fino ad allora forse un po’ stagnanti, della critica letteraria francese innescando quella rivoluzionaria opera di rinnovamento della riflessione sulla letteratura che sfocerà nella nascita della Nouvelle critique e che troverà nello strutturalismo, nella semiologia, nel decostruzionismo la giusta controparte teorica a quel lavoro indefesso di rilettura che essi compiranno sui testi. Vi sono però anche delle linee di frattura tra i due, come ad esempio il catalogo di autori prediletti: Blanchot ha tra i suoi Rilke, Hölderlin, Kafka, Char, Eraclito (nella formidabile interpretazione di Ramnoux), Henry Miller, Broch, Woolf, Celan; Barthes da subito individua due poli: Brecht e Robbe-Grillet, poi si sposta su Racine, Michelet e La Bruyère, torna nel Novecento con Cayrol e Sollers. Entrambi hanno alle spalle Bataille — il quale è molto più presente in Blanchot — e de Saussure — della cui lezione è impregnato soprattutto Barthes. Si tratta quindi di una vicinanza variabile, come due corpi celesti che finiscano con l’attrarsi quasi per contrasto, nelle forme di una collisione sempre sfiorata, sempre trasformata in 3 OC I, pp. 193-194. Traduzione e corsivi nostri. 44 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes insensibile sfioramento, in incontro frontale che eluda però ogni sguardo diretto, almeno fino alla fine degli anni ‘60, periodo durante il quale l’autore degli Essais critiques inizia a palesare in modo sempre più chiaro i suoi debiti nei confronti di Blanchot4, chiamato in causa sia nel testo introduttivo al corso sul neutro, che Barthes stava preparando poco prima di morire5, sia nella sofferta ricostruzione del fallimento della progettazione della rivista Arguments, in cui Blanchot viene designato, con espressione ironicamente ambigua, «un leader de la négativité avec un grand N»6. Anche a fronte delle divergenze, rimane però assodato che la écriture è ciò che mette in stretta relazione i due autori in un percorso di pensiero per lo più speculare e parallelo, ma che a volte conosce anche degli improvvisi accavallamenti probabilmente fecondi per entrambi. Ma allora che cos’è l’écriture? Sia in Barthes che in Blanchot poco a poco essa assurge a frammentario assoluto della parola letteraria, ineludibile rovina del senso, labirintica voce di una persona loquens smarrita senza possibilità di salvezza nella trappola scorsoia di un eloquio che non le appartiene più. Dalla enunciazione risalente agli anni ’50 riguardante l’esistenza di una presunta écriture blanche7 fino al testo su Sollers, Barthes insegue questa nozione, cerca di definirla assimilandola ad una pratica quasi ascetica di volontario e deliberato smarrimento del senso, di rinuncia a ciò che si ritiene soltanto di possedere, di imponderabile contatto col vuoto, di penetrazione in quella etrangété che si sperimenta nel lasciarsi osservare da una parola come da un essere 4 In quello stesso anno Blanchot pubblicava uno dei romanzi più enigmatici della sua produzione: Celui qui ne m’accompagnait pas. 5 OC, V, p. 531. 6 Vie et mort des Revues, intervista del 1979, pubblicata solo nel 1982, cfr. ivi, pp. 778-780. Per una intellezione piena di questa idea della négativité blanchotiana cfr OC II, p. 616. 7 OC I, p. 194. 45 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes vivente, il cui sguardo però si sia ritratto nel geometrico naufragio di ogni rassomiglianza familiare. L’écriture è portatrice di quella immagine immediatamente sensibile, affascinante, che regna grazie all’attrazione selvaggia della sua presenza, la quale è presenza di qualcosa che non dovrebbe essere lì — che in verità non è presente — e davanti alla quale è impossibile tenersi fermi, restare immobili: presenza di un’immagine che ci trasforma nell’enigma stesso di un’immagine8. L’écriture pone così la domanda più profonda, la quale non può essere compresa, ma solo ripetuta, riflessa su un piano ove essa non riesce ad essere risolta, ma solo dissolta, rinviata dal vuoto da cui è sorta, chiamata a dissiparsi nel linguaggio stesso che l’ha generata e che ora non è più in grado di intenderla. Per questo motivo l’écriture non è linguaggio, ma è piuttosto l’esperienza del linguaggio — da intendersi al tempo stesso come genitivo attivo e come genitivo passivo9 — vissuta come una regione senza orizzonte ove l’io sia ridotto — o amplificato — a una puntualità non personale e oscillante tra nessuno e qualcuno, sembiante di qualcosa che soltanto la relazione esorbitante trasforma silenziosamente e momentaneamente nell’istanza di un iosoggetto con cui quella puntualità sembra voler corrispondere unicamente per simulare l’identico, affinché a partire da esso si annunci, proprio tramite la scrittura, il segno e la ferita di un Altro che sia l’assolutamente nonidentico.10 Per Barthes e per Blanchot inoltre la scrittura appartiene alla esperienza di una estinzione: quella del libro per il primo, ecceduto dall’inesorabile illimitatezza del farsi textum della scrittura quale esorbitante magma di M. Blanchot, Thomas l’obscur, Gallimard, Paris 1950, p. 18. EI, p. 103. 10 M. Blanchot, Le dernier homme, Gallimard, Paris 1957. 8 9 46 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes testi che accerchiano il soggetto11 e lo espellono dal loro gioco differenziale, tramutandolo in una funzione episodica della loro meccanica linguistica e riducendolo ad una emergenza estemporanea e dilaniata in seno ad essa, ad un punto di condensazione trasparente delle virtualità della langue, subito riassorbito nella sua fredda incoscienza omeostatica. Estinzione dell’opera per il secondo, intesa come désœuvrement12, luogo di quella esperienza-limite in cui l’écriture ha le movenze sibilline e felpate di un avvento notturno nel quale il linguaggio tace perpetuandosi nella rarefatta imminenza di un abbagliante oblio privo di rapporti col tempo e col ritorno di qualcosa che appartiene al trascorso senza mai essere stato presente, disastro13 che de-scrive i limiti della propria impossibile origine e del suo inavvertibile allontanamento in un altrove del tempo da cui la parola arriva per ripetersi, replicarsi, ripercuotersi in un istante che preceda ogni fenomeno, ogni manifestazione, ogni apparire. Disastro immobile e immemoriale è allora la écriture, che espone chi la sperimenta alla necessità di riconoscersi nella sfera di una vorace anonimia, attraversata dalla bianca estenuazione del soggetto adibito a pura perdita, a inattingibile passività, la quale lo affetta da un fuori ove sia possibile reperire soltanto un simulacro di unità: scrittura del disastro come interruzione dell’incessante in cui si perpetua l’eccesso dell’infigurabile in seno a ciò che Blanchot chiama «l’ancien du maintenant».14 In tal modo l’écriture risplende del lucore tenebroso di un linguaggio diafano e desolato, di un linguaggio che in tanto parla in quanto esprime in primis l’espulsione del 11 Cfr. OC III, pp. 908-916 e OC IV, pp. 718-720. Ma anche Blanchot, EI, p. 628. 12 M. Blanchot, L’entretient infini, Minuit, Paris 1969, pp. Da ora in nota sempre con EI. 13 M. Blanchot, L’écriture du désastre, Gallimard, Paris 1980. 14 Ivi, p. 65. 47 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes soggetto dalle proprie dinamiche intestine, l’evacuazione del mondo dal proprio schematismo di significazione, l’espunzione di una regione definita di sensi docilmente trasmissibili mediante esso. L’écriture di Blanchot e Barthes espone il pensiero alla raggelata immobilità di un linguaggio radicato nelle lacere vastità generate a partire da un gioco lugubre di reiterate risonanze tra segni, i quali gravitano nella porosa identità di una notte15 il cui protrarsi infinito assomiglia al flebile intervallo di un tremito che attraversi la cadaverica pienezza di ogni assoluto. Ecco perché per Blanchot frequentare l’écriture significa «tracer un cercle à l’intérieur duquel viendrait s’inscrire le dehors de tout cercle»16. La scrittura allora diventa la ferita invisibile di un pensiero che non riesce più a pensarsi, di un pensiero che si tramuta all’improvviso in qualcosa che tutt’altro rispetto ad esso, simile ad una notte inondata di immagini le quali ne costituiscano però la densa oscurità. L’écriture vale qui come un’assenza di visione che assurge a punto culminante di ogni sguardo e ove l’occhio, divenuto ormai inutile per la vista, assume dimensioni straordinarie, sviluppandosi in modo smisurato, dilatandosi oltre i confini del reale in modo da lasciar filtrare in seno ad esso la notte, al fine di raccoglierne l’ultima luce, percepita come un riflesso che rechi impressa l’immagine totale di un mondo ove sia rappresentata l’assenza di ogni figura immaginabile: l’écriture quindi intesa come «un vide qui contemple».17 Va detto che Blanchot non ha mai negato le marcate sfumature mistiche18 che la sua concezione della scrittura sembra assumere, sempre prossima ad una sorta di fosca 15 Sulla centralità del tema della notte cfr H. Choplin, Chercher en silence avec Maurice Blanchot, Harmattan, Paris 2013, pp. 49-80. 16 EI, p. 112. 17 M. Blanchot, Thomas l’obscur, p. 128. 18 M. Blanchot, L’écriture..., p. 211, ove si parla esplicitamente dell’Uno dei mistici. 48 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes illuminazione in grado di metterci in contatto con ciò che egli chiama trans-descendence quale luogo della neutralizzazione ripetitiva dell’io a cui bisogna aspirare per pervenire a quella soggettività senza soggetto che ai suoi occhi costituisce l’unico possibile titolare della scrittura. Si tratta in Blanchot di un lascito permanente che deriva senza dubbio dalla vicinanza con Bataille, il quale non a caso viene più volte richiamato in questi termini in numerose parti dell’opera blanchotiana19. In effetti in Barthes questo aspetto arriva in maniera decisamente attenuata, ma ciò non vuol dire che egli non sappia farne tesoro e metterlo a profitto in seno alla sua teoria della letteratura intesa come pratica della déplétion du sens.20 È proprio in questi termini infatti che negli Essais Critiques Blanchot viene esplicitamente chiamato in causa. Ecco quindi come Barthes presenta l’autore de L’entretien infini: vediamo che, anche attraverso la critica della significazione [signification], vi è una evanescenza progressiva del significato che sembra essere la sfida di tutto questo dibattito critico; tuttavia i significanti sono sempre presenti, attestati qui dalla loro realtà di significato [signifié], là dal découpage dell’opera secondo una pertinenza che non è più estetica ma strutturale. Qui è possibile opporre […] tutta questa critica al discorso di Blanchot, inteso d’altronde come linguaggio, piuttosto che come metalinguaggio, cosa che conferisce a Blanchot un posto indeciso tra la critica e la letteratura. Tuttavia, rifiutando ogni solidificazione semantica all’opera, Blanchot si limita a tracciare in negativo [dessiner en creux] il senso, ed è questa una impresa la cui difficoltà concerne sempre la critica della significazione [...]. Fare senso è facile, tutta la cultura di massa lo elabora indefessamente; sospendere il senso è già un’operazione infinitamente più complicata, è, se vogliamo, un ‘arte; ma 19 20 Ivi, soprattutto p. 139. OC II, p. 455. Il saggio è dedicato a Robbe-Grillet. 49 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes annientare il senso è un progetto disperato, proporzionato alla sua impossibilità [...]. L’opera di Blanchot (critica o romanzesca) rappresenta quindi a suo modo […] una sorta di epopea del senso, adamitico se si vuole, poiché è quella del primo uomo anteriormente al senso.21 Sono pagine estremamente illuminanti, poiché se da una parte rivelano l’ammirazione di Barthes per la scrittura blanchotiana, dall’altra ne prendono immediatamente le distanze, sottolineando come la sua posizione sia piuttosto collocabile in una zona mediana tra l’impresa estrema di Blanchot — esperienza di una evacuazione radicale del senso — e l’ipertrofia dei significati precostituiti della produzione di massa, posizione questa che porterà Barthes a parlare della letteratura come di un oggetto parassitario22 in seno alla cultura di massa, nonché come di un veicolo mediante cui mettere in campo un sistema di significazione déceptif, che sia cioè in grado di porre e frustrare il senso nello stesso tempo.23 Ma la presenza felpata e consistente di Blanchot continuerà ad agitarsi sotto la scrittura di Barthes: il suo nome ricorrerà sempre più di frequente e quasi sempre affiancato a quello di Mallarmé o di Kafka. L’opera dell’autore dell’Entretien infini costituirà per Barthes una sorta di affascinante soglia critica da costeggiare e corteggiare senza mai valicare o mettere in discussione. La sua écriture blanche rappresenta quindi la fase avanzata di una sperimentazione del senso che rischia sempre di essere eccessiva, estrema, aberrante e pericolosa. Se Blanchot, con ostinazione certosina, trasforma la scrittura in un iperbolico orizzonte filosofico che, lavorando dall’interno stesso della lingua e del pensiero, corrode ogni ordine prestabilito puntando ad un delirante assoluto di linguaggio che appaia come lo spazio-zero 21 Ivi, p. 518-519. Traduzione nostra. Ivi, p. 512. 23 Ivi, p. 514. 22 50 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes dalla profondità del quale interrogare l’eco silenziosa di una parola impotente, a partire dalla quale si perpetui e si cancelli simultaneamente l’ellittico, frammentario, sconosciuto profilarsi del mondo nella regolata follia di un tempo di manifestazione capace di eludere ogni presenza, Barthes preferirà mantenersi sempre in posizione arretrata, in una sorta di sorvegliatissima retroguardia attenta a non condurre troppo a fondo, quasi verso un punto di non ritorno, la risalita alle fonti del senso. Per questo motivo, quando Blanchot evocherà Barthes, in uno dei saggi della terza sezione de L’entretien infini consacrata proprio all’assenza di libro, la sue considerazioni saranno un po’ tiepide, si accosteranno a Barthes quasi obliquamente, senza citarlo mai24, intrise di una certa perplessità che Blanchot non espliciterà mai, ma che è avvertibile nel fatto che egli, optando per un serrato vis-à-vis con gli autori a lui contemporanei sul modo di intendere la letteratura, non riserverà mai un posto privilegiato a Barthes, il quale invece, come abbiamo visto, guarderà con ammirazione Blanchot come il termine ultimo di una ricerca forse esposta ad uno scacco destinato ad apparire paradossalmente come l’unico risultato possibile, interiormente agitato da quel «mouvement de l’interminable […], jusqu’à ce mot de trop où défaille le langage».25 Eppure non si può non restare sorpresi di fronte ad un fatto abbastanza evidente: se si cerca di interpretare la produzione narrativa di Blanchot ricorrendo alla fluida mobilità dei terminali critici messi a punto da Barthes le congruenze26 tra le due concezioni risultano maggiori rispetto alle difformità. Non possiamo qui dilungarci 24 EI, p. 586. Ivi, p. 505. 26 Sebbene Barthes non evochi mai Blanchot, nei passi dedicati alla scrittura del frammento è impossibile non risentire gli inconfondibili echi de L’entretien infini, cfr OC IV, pp. 670-672. 25 51 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes troppo su questo aspetto che meriterebbe una disamina estremamente capillare, ma vogliamo proporre tuttavia una sorta di esperimento-pilota al fine di mostrare quanto l’écriture espressa dai récits di Blanchot diventi pienamente trasparente se vagliata con le teorie sull’écriture di Barthes. Selezionando quindi tre blocchi narrativi da tre romanzi del primo cercheremo di mostrare quanto le riflessioni del secondo si attaglino ad esse. La scelta degli estratti verrà compiuta tenendo presente tre connotati propri della écriture dell’autore dell’Entretien infini, connotati che naturalmente tenteremo di reperire anche in Barthes. I. L’écriture come ipertopia disgregante del linguaggio27: parole immobili che io ora sento a causa di questa immobilità che mi avverte della presenza di qualcosa e le rende pesanti, leggere? Troppo leggere per colui che, invece di lasciarle venire da sole, non può che fissarle, senza lo spazio vivente in cui esse prenderebbero vita [...]. Egli mi ignora, io lo ignoro, per questo egli mi parla, avanza le sue parole in mezzo a molte altre che dicono soltanto ciò che noi diciamo, sotto questa doppia ignoranza che ci preserva, con un leggerissimo brancolamento che rende la sua presenza così sicura e così dubbiosa. Forse egli non fa altro che ripetere me stesso. Forse sono io che, in anticipo, lo confermo. Forse questo dialogo è il ritorno periodico di parole che si cercano, si chiamano senza fine e non si incontrano che una volta. Forse non siamo qui né l’uno né l’altro e, da questa assenza, essa è sola a portare il segreto, che ci sottrae.28 Furtivo e obliquo, il linguaggio obbedisce qui a quella legge di abolizione che Barthes isola nella scrittura di Sollers29. In esso l’écriture spinge il locutore a scivolare sempre indefessamente sulla frontiera sfaccettata delle Cfr anche F. Collin, Maurice Blanchot et la question de l’écriture, Gallimard, Paris 1986. 28 M. Blanchot, Le dernier homme, pp. 48-49. Traduzione nostra. 29 OC, p. 594. 27 52 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes parole, assumendo una struttura aperta che non è quella della grammatica generativa, ma piuttosto quella di una vertigine degenerativa inscritta nel linguaggio come una matrice occulta che lo travaglia e lo attraversa, facendone una immensa geologia da cui la narrazione emergerebbe come la scena di un gesto verbale composto di frammenti, lacerti, rovine. Sovraccarico di interstizi, eccessivo e al tempo stesso vacante, sempre in preda al molteplice disordine delle parole che designano lo sfacelo minuto delle proprie significazioni, il linguaggio qui è colto sempre allo stato nascente, ora prossimo a rapprendersi in una sonnolenta spontaneità da cui nessuna retorica potrebbe redimerlo, ora prossimo a liquefarsi in una specularità tautologica dei propri processi semantici che eludono ogni struttura di rinvio, per rinchiudersi nella neutralizzazione preziosa di ogni referente. Il linguaggio si profila come una caosmografia di parole, un dramma che mette in scena l’evento stesso della parola chiamata a mostrarsi nella sua ostinata superficie di segno, la quale denega ogni spessore semiologico che non verta unicamente sulla propria natura linguistica. Esso secerne così una nuova lingua nel corpo stesso della lingua, assurge a schermo mobile ove però nessuna rappresentazione viene a iscriversi o a tracciarsi, formicolante di un peso referenziale che assomiglia alla leggera tumescenza di un segno sorto al limite del senso. Sia in Blanchot che in Barthes, il linguaggio si dispiega e si amplifica a partire da una costellazione franante di soglie differenziali raccordanti segni in traslazione perpetua: simile a un immenso corpo vivente, nella sua vasta unità di orizzonte privo di radicamento, esso si raccoglie tutto sul confine infinito che lo separa dal mondo, diventandone riflesso inverso, figura parassitaria incapsulata in esso sotto le sembianze d’un metalinguaggio che non spiega o prescrive le matrici di senso necessarie per esprimere il reale, ma le svuota dall’interno, 53 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes le porta al tracollo, le fa crollare su se stesse, ne svela e ne sventa l’inganno e l’incanto analogico-rappresentativo, producendo in esso l’iniziazione ad uno strappo che, simile ad un metronomo bloccato in grado di arrestare il tempo, faccia della écriture la scenografia intransitiva, ove linguaggio e mondo coincidono senza rassomigliarsi, si attraversano senza sfiorarsi, tramite quella siderale forma di prossimità che la écriture intrattiene col proprio oggetto ridotto ad una evanescenza informe la quale infetta la parola nel momento stesso in cui questa palesa la propria innata intimità con la più alta idea di assenza. 2. L’écriture come circolare afocalità del soggetto30: vi è qui come una increspatura unica dello spazio, in qualche modo io la vedo, e il fatto che essa sia lì, come una irregolarità discordante, dovrebbe costituire un avvertimento, ma già senza preoccuparmene io mi rovescio leggermente, gioiosamente, confidando nello spazio, nella sua indifferenza e inattenzione. Così si compie quest’ultimo movimento, con una facilità che esprime la mia allegria, ma appena si afferma, tutta la potenza del vuoto si chiude attorno a me, mi stringe, mi trattiene e mi respinge nella profondità di una caduta senza fondo, in modo che la lacerazione nella quale cado ha esattamente le dimensioni del mio corpo, è il mio corpo in cui io non ho la possibilità di cadere e contro il quale urto in questo istante come contro una presenza fredda, straniera, che mi respinge dove sono. È questo l’inizio, mi dicevo, le cose sono iniziate così. Sì, tale è il sogno e ciò che esso vorrebbe farmi scoprire, lo sospetto: se ora mi è vietato stendermi è perché sono già steso in quel punto ove però io non sono più, ma un altro vi è. 31 Un uomo perduto in una galleria di specchi ove però la sua immagine sia l’unica mancante, ecco che cos’è lo scrivente nella écriture blanchotiana. Il testo nasce, si forma, nel momento stesso in cui quello si dissolve, scompare 30 31 Cfr. anche H. Choplin, Chercher en silence... M. Blanchot, Celui qui ne..., pp. 116-117. Traduzione nostra. 54 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes nell’incessante espandersi di una parola plurale e polverizzata al tempo stesso. Il soggetto è afocale perché, se si manifesta in seno al linguaggio, è solo per rivestirvi una funzione privativa, di evacuazione dalla lingua della propria presenza accidentale. Il soggetto però parla, ma solo da un punto di irradiazione sotterraneo che non riesce mai ad occupare a pieno, attante infranto di una matrice operativa — la locuzione — dalla quale esso si trova ad essere estromesso nell’istante medesimo in cui sembra incarnarne le funzioni. Portavoce della narrazione non è quindi la persona loquens, ma l’apersonne32, intesa come quella inassegnabile parte di identità che assiste dal margine alla propria deforme generazione dagli atti di enunciazione di cui si credeva autore, titolare e signore: il soggetto quindi come la costitutiva utopia di ogni linguaggio, «en sorte que toute écriture qui ne ment pas désigne, non les attributs intérieurs du sujet, mais son absence».33 3. L’écriture come epilettico tremito dell’immagine34: io sono visto. Poroso, identico alla notte che non si vede, io sono visto […]. Egli è questo sguardo che continua a vedermi nella mia assenza. È l’occhio che la mia scomparsa, mano a mano che diventa più completa, esige sempre di più per perpetuarmi come oggetto di visione. Nella notte noi siamo inseparabili. La nostra intimità è questa notte stessa [...]. Senza colore, non iscritto in alcuna forma pensabile, non essendo altro che il prodotto di un possente cervello, io sono la sola immagine necessaria. Sulla retina dell’occhio assoluto io sono la piccola immagine rovesciata di ogni cosa. Io gli do, tramite le mie fattezze, la visione personale non solo del mare, ma dell’eco della collina che risuona del grido del primo uomo. Là tutto è distinto, tutto è confuso. Un’unità 32 OC V, p. 589. OC II, p. 796. Corsivi di Barthes. 34 Cfr anche J-L Lannoy, Langage, perception, mouvement. Blanchot et Merleau-Ponty, ed Milon, Paris 2008. 33 55 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes perfetta, per il prisma che io sono, restituisce la dissipazione infinita che permette di vedere tutto senza vedere nulla. 35 Per Blanchot l’inizio del tempo è già una ripetizione, è il reiterarsi variato di un principio che assomiglia a qualcosa che si sia già prodotto infinite volte, che lo ha preceduto incrinandone in tal moda la natura di evento aurorale. L’immagine appartiene a questa sfera di replica simulacrale, di sdoppiamento incongruo e insondabile che fende il tempo in una sfaldata deriva di istanti sovrapposti e non più successivi. Il tempo quindi non scorre, va in stallo, si arena nella ottusa ciclicità di un inizio che rimanda sempre ad una anteriorità acefala, priva di principio, dilatatasi in una durata che ha qualcosa di calcificato, di decrepito, di mortuario. L’immagine non appartiene però alla sfera dello sguardo. Essa appare dinanzi ad esso per occluderne le possibilità di visione, per richiamarlo indietro, per sollecitarlo a una risalita furiosa e impossibile verso una origine percettiva in cui le cose hanno perso la loro ottusa crosta di sembianti per diventare esse stesse particole impazzite di visioni senza soggetto, immagini accecate dotate di occhi che d’improvviso si schiudono dal dormiente fondo materiale di un’ombra che abbia la prossimità inaccessibile di uno specchio posto dinanzi alla inerme cecità della notte. L’immagine blanchotiana è sinonimo di una lacuna incassata nel cuore dell’invisibile, insaturabile lacuna che può essere occupata solo da un soggetto che cessi di essere semplicemente vedente per farsi esso stesso voyance, immagine di questa voyance, emanazione nuda di un’evidenza senza volto e identità che irradia la propria densità di infigurabile a partire da uno sguardo che non serve più per vedere, ma unicamente per apparire, per farsi vedere, esattamente come quello che Roland Barthes ravvisa e decifra in uno scatto di Kertész 35 M. Blanchot, Thomas l’obscur, p. 125-126. Traduzione nostra. 56 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes in cui esso, come trattenuto da qualcosa di interiore all’immagine stessa, si limita a mostrarsi come come puro sguardo.36 36 OC V, p. 880. 57 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno 5 Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes Roger Caillois II. Metacritica della critica (della ragion) letteraria Barthes e Adorno: il linguaggio è la sua ombra di Giuseppe Crivella È noto a tutti l’intento di Bouvard et Pécuchet: elevare ad un livello di trascrizione cosmica la loro micrologica attività di copisti in modo da imbrigliare tutto l’esistente nella fitta tabulazione di una nomenclatura cartesiana e trasparente, simile a una sorta di puntiforme enciclopedia del dato isolato che, letta dall’interno stesso della configurazione in cui si iscrive, trasforma il mondo in uno spazio desolato di realtà respinte in una lontananza astratta e rarefatta, le quali, osservate col distacco di una visione d’en haut, appaiono come un gremitissimo cimitero di sarcofagi vuoti. Da una parte quindi abbiamo la tensione esasperante di uno spoglio compilativo indefesso, totalizzante, certosino e vorace, dall’altra invece troviamo la speculazione pura e senza presa sulle cose che cerca di mettere a punto un disegno classificatorio esatto e coerente, privo di lacune o sbavature, sagomato su un mondo ridotto alla più completa mansuetudine, levigato chiaro, docilmente amministrabile e senza tortuosità scomode, irregolarità improvvise, margini sfrangiati o tratti ambigui. Bouvard et Pécuchet sono i protagonisti di una storia che racconta la ossessiva impresa di sistematizzazione del sapere, la quale paradossalmente finisce coll’avvitarsi attorno ad un insanabile dimidiamento interno, ad una sorta di labilissima lacerazione intestina che l’attraversa, facendo della nomenclatura messa in opera lo spazio-zero di una realtà divenuta ormai afona e insignificante, delle partizioni enciclopediche le celle mortuarie di un pensiero 58 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes smembrato e informe, dell’ansia compilativa che agita e anima questo progetto il capriccio totalitario di uno sguardo disumano il quale contempla la realtà come un immenso cadavere da sezionare prima e tumulare poi. Un’euforia archivistica venata di un denso fremito necrofilo possiede e scandisce l’opera dei due copisti, i quali ordinano, vagliano, selezionano, confrontano, registrano, trascrivono, equiparano e suddividono facendo calare sull’indistinta massa dell’esistente le affilatissime partizioni teoriche di una segmentazione del sapere che fa del pensiero il prodotto finito di un pathos calligraficamente tassonomico, da cui nulla può sfuggire o sottrarsi. Bouvard et Pécuchet incarnano a pieno titolo la versione parodistica del sapere assoluto hegeliano, che nel pervenire a se stesso finisce col ridurre la realtà allo splendore devitalizzato di un corpo esposto a mummificazione. Essi stendono così sulle cose una scrittura che assomiglia ad un vasto sudario funebre, il quale si sagoma perfettamente sul profilo di ciò che ricopre impedendogli di respirare, soffocandolo e imprigionandolo sotto le forme di una aderenza linguistica che sostituisce alla presenza piena del mondo la inerme superficie bianca di una febbrile ostinazione compilativa, le cui enigmatiche apparenze denunciano con furibondo silenzio lo scarso credito con cui sono stati considerati i diritti dell’informe a cui essa ha sottratto ogni legittimità. Per Bouvard et Pécuchet tutta l’opera di attenta narcotizzazione prima e cassazione poi dell’inclassificabile è però doppiata da un’impresa perfettamente simmetrica e inversa, che la solca e la travaglia con una grazia perversa e ostinata, costringendola ad arrestarsi e a ritornare su di sé, ripiegandosi sul proprio esercizio continuo di decomposizione analitica, disordinandone le suddivisioni logiche, aprendo temibili brecce nel processo di serrata 59 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes catalogazione, facendo inoltre saltare le varie partizioni disciplinari, producendo microscopiche catastrofi nella possente topologia di quella sistematizzazione compatta che presumeva di conoscere e possedere il mondo solo a patto di sostituirsi ad esso. Ecco quindi affiorare una falda di scrittura incongrua al progetto iniziale: la piena organizzazione del reale in una astrazione precisa inizia a manifestare zone di indecifrabilità, grumosità refrattarie alla penetrazione razionale, ruvidi punti di addensamento che ingorgano la trasparente digestione logica con cui il pensiero classificatorio supponeva di poter fagocitare l’esistente. In Bouvard et Pécuchet disegno teorico e attuazione pratica ad un certo punto si disgiungono, ostentano una inconciliabilità costitutiva, diventano piani repulsivi, si fronteggiano in un principio di inevitabile collisione ed esclusione reciproca. A poco a poco Bouvard et Pécuchet si rendono conto che classificare significa falsificare, produrre una mistificazione che tocca e altera la natura interna del dato; irreggimentare il reale pertanto non produce sapere, ma lo annebbia, lo dilania e lo ridistribuisce secondo ordini di articolazione impropri all’oggetto conosciuto. A questo punto il loro lavoro di copisti, invece di subire una battuta d’arresto, compie una sorta di acrobatico volteggio su se stesso e inizia a riflettere sulla propria natura, sulle proprie pratiche di attuazione, sulla propria destinazione e realizzabilità. È qui che la scrittura letteraria rivela quella natura aporeticamente paralinguistica che Adorno così tratteggia: il linguaggio è nemico del particolare e tuttavia è rivolto alla sua salvezza. Esso possiede il particolare, mediatogli dalla universalità e nella costellazione dell’universale, ma ai propri universalia il linguaggio rende giustizia solo quando essi non si irrigidiscono apparentandosi con l’apparenza del loro essere per sé, bensì si concentrano all’esterno su ciò che 60 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes va specificamente espresso. Gli universalia del linguaggio ricevono la loro verità da un processo che corre nella direzione a loro contraria [...]. Nell’arte gli universali sono al massimo della loro forza lì dove l’arte si avvicina di più alla lingua: dice qualcosa e questo qualcosa, mentre viene detto, oltrepassa il proprio hic et nunc: ma tale trascendenza riesce all’arte solo in virtù della sua tendenza alla particolarizzazione capillare; e le riesce col non dire nient’altro che ciò che può dire in forza della propria formazione integrale, nel processo immanente1. L’opera si scinde allora in uno sdoppiamento riflessivo, di cui la scrittura di Flaubert non si libererà più: mano a mano che il romanzo procede, la narrazione è colta da un capogiro concentrico sempre più vasto e destabilizzante. Mentre Bouvard et Pécuchet scrivono, Flaubert de-scrive la loro stessa scrittura, ne decodifica il portato manipolatore e ideologizzante; mentre essi trascelgono e suddividono, Flaubert rileva devianze, fa emergere resistenze, solleva dubbi e incongruenze che non possono essere assimilati o risolti, rende franoso e cedevole il suolo speculativo sul quale i due personaggi cercano di edificare la loro cattedrale di conoscenze, che Flaubert inquadra in controluce mostrando come essa in realtà proietti l’ombra di un immenso mausoleo del pensiero. Scopertasi priva di presa sulle cose e pertanto destituita di ogni funzione, la scrittura di Bouvard et Pécuchet diventa soltanto una maschera cava. È proprio per questo motivo che Barthes può affermare: ciò spiega forse l’impotenza nella quale siamo di produrre oggi una letteratura realista: non è più possibile riscrivere Balzac, Zola, Proust o gli scadenti romanzi socialisti, sebbene le loro descrizioni si fondino su una divisione 1 Th. W. Adorno, Teoria estetica, ed a cura di E. de Angelis, Einaudi, Torino 1971, pp. 342-343. Corsivi nostri. Inoltre sempre Adorno conia l’espressione qui adeguatissima di «pensiero topologico, che di ogni fenomeno sa in che casella rientri, ma di nessuno che cosa sia», cfr Th. W. Adorno, Prismi, Saggi sulla critica della cultura, trad it di E. de Angelis, Einaudi, Torino 1981, p. 21. 61 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes sociale che è ancora presente. Il realismo è sempre timido è vi è troppa sorpresa in un mondo che l’informazione di massa e la generalizzazione della politica hanno reso così profuso che è possibile raffigurarlo in modo proiettivo: il mondo, come oggetto letterario, sfugge; il sapere diserta la letteratura, che non può più essere né Mimesis, né Mathesis, ma solo Semiosis, avventura dell’impossibile linguistico, in una parola Testo (è falso sostenere che la nozione di testo raddoppi quella di letteratura: la letteratura rappresenta un mondo finito, il testo figura l’infinito del linguaggio).2 Simultaneamente elevata a potenza rispetto a se stessa e parassitaria nei confronti delle proprie funzioni, la letteratura è una matrice obliqua di contestazione endogena ai suoi stessi processi di generazione del senso. Bouvard et Pécuchet narra un fallimento che affetta senza requie lo sforzo di mettere in campo una parola schiettamente e seccamente denotativa la quale indichi l’oggetto o la relazione — vera, presunta o artefatta — che esso intrattiene con gli altri e, nell’indicarlo, riesca a subentrare surrettiziamente ad esso dissolvendolo, diventandone prima copia conforme e poi simulacro deforme, caricatura grottesca. È insediandosi in questa oscillazione paradossale e vitale che la scrittura si affranca dalla sua funzione referenziale per divenire letteraria, per scoprire uno strato di linguaggio chiamato ad essere indefettibilmente immanente a sé e a quelle pratiche di designazione che vorrebbero espellerla o emarginarla, disinnescarne il portato sottilmente eversivo. Ed è in tal senso inoltre che, se all’inizio la scrittura di Bouvard et Pécuchet tende a solidificarsi in Libro, a compattarsi strenuamente nella conchiusa totalità di un sapere, di una Mathesis che sia anche e soprattutto Mimesis fedele e esauriente, nel momento preciso del fallimento di tale progetto quella 2 OC IV, p. 694. Qui Barthes fa riferimento alla sua lezione inaugurale tenuta al Collège de France nel 1977, cfr CO V, pp. Corsivi di Barthes. Traduzione nostra. 62 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes stessa scrittura diviene testo, proliferazione infinita di una Semiosi che contesta i saperi specifici, mettendoli in continua frizione, dissocia le forme di razionalità acquisita rivelandone le latenti infiltrazioni ideologiche, sorprende la scienza alla spalle trasformandola da piana mappatura del reale mutilato in una trascrizione mobile di segni che déferlent su di esso.3 È quindi con la letteratura che il linguaggio inizia a pensare e a interrogare se stesso, divenendo in tal modo corrosivo e critico nei confronti delle forme e delle forze più o meno occulte, sotterranee e inapparenti che gestiscono e scandiscono in modo necessariamente coattivo il percorso del senso e l’uso dei segni. La prima scrittura di Bouvard et Pécuchet risponde esattamente ad un regime di puntuale somiglianza sebbene eterodiretta da criteri di organizzazione che la infestano senza possederla, poiché essa segretamente e quasi inconsciamente conserva e cova un nucleo immanente di liberazione ed emancipazione irriducibile e propulsivo, il quale nel momento in cui entra in azione non smette di generare all’infinito una seconda scrittura — quella appunto letteraria — che riesce ad abolire la falsa/buona coscienza di ogni linguaggio. Osserva Barthes, proprio in merito a Bouvard et Pécuchet: presso il farmacista di Falaise Bouvard et Pécuchet sottopongono la pasta di jojoba alla prova dell’acqua, «essa prese l’aspetto di una cotenna di lardo, cosa che denotava della gelatina». La denotazione sarebbe un mito scientifico: quello di uno stato “vero” del linguaggio, come se ogni frase avesse in sé un etymon (origine e verità). Denotazione/connotazione: questo doppio concetto non ha valore che all’interno del campo della verità. Ogni volta che io ho bisogno di verificare un messaggio (di demistificarlo) io lo sottopongo a qualche istanza esteriore, lo riduco a una 3 Ciò che più o meno qualche anno prima Pasolini aveva chiamato infinitosemia, cfr P. P. Pasolini, Empirismo eretico, Garzanti, Milano, 1991, p. 209. 63 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes sorta di cotenna disgraziata che ne forma lo strato vero. L’opposizione è quindi utile solo nel quadro di una operazione critica analoga a un esperimento di analisi chimica: ogni volta che io credo alla verità ho bisogno della denotazione.4 La denotazione appartiene quindi all’ambito di una verità ancora non vagliata, non messa alla prova, una verità a cui crediamo senza sottoporla all’onere della verifica. È per questo motivo che in Bouvard et Pécuchet la prima scrittura è utopica, mentre la seconda è atopica. Si tratta di una distinzione sottilissima che Barthes stesso a volte disattende o finge di dimenticare. Ad ogni modo, per come essa viene a prospettarsi nella fase tarda del suo pensiero5, suddetta distinzione può essere esposta nel modo seguente: Scrittura “utopica”: è tale perché, partendo dalla presunzione di poter inquadrare il dato reale nella sua oggettività, in effetti si propone unicamente di rettificare surrettiziamente il mondo, presentandolo diverso da come appare, suggerendone una versione edulcorata e sottoposta ad una operazione di accorta cosmesi non immediatamente avvertibile. Tale tipo di scrittura allinea l’esistente alle proiezioni immaginarie della ideologia a cui essa si richiama e dalla quale deriva secondo una matrice forzosamente genetica. La scrittura utopica incarna e inscena le contraffazioni di un potere che lavora la realtà dell’interno, trasfigurandola sulla base di un principio perversamente adulterante che risulta tanto più operativo quanto più esso si sforza di presentare la scrittura che genera e che lo rappresenta come imbevuta di una ratio schiettamente referenziale.6 I. 4 Ivi, p 646. Traduzione nostra. Ivi, p. 629. 6 Barthes ha sempre intrattenuto un rapporto, se non conflittuale, di certo polemico con la nozione di utopia e su di essa è tornato più volte 5 64 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes Scrittura atopica: non ha collocazione o posizione precisamente assegnata o assegnabile, se non quella che la situa mercurialmente all’interno della prima scrittura, immanente ad essa, rivestita del compito di farla implodere lentamente e quasi inavvertitamente. L’utopia ha qualcosa di reattivo e di strategicamente stabilizzante. L’atopia esibisce a tutti i livelli un’indole molesta, deforma dell’interno il coeso complesso di immagini offerte dalla prima scrittura, pone quest’ultima dinanzi a se stessa costringendola a riflettersi infinitamente come al centro di una illimitata fuga di specchi che finiscono col dissolvere l’oggetto che hanno di fronte. II. L’utopia dunque è referenziale-analogica, rappresenta ciò che le incrociate tassonomie del potere hanno già selezionato come ammissibile. L’atopia è ellittica, rappresenta la spaventosa libertà di un linguaggio che non conosce e non ammette alcuna comune misura obbligata con l’oggetto preformato dalla ottusa pervasività del potere. La prima scrittura nasce e deriva da una operazione di previa irreggimentazione e addomesticamento ideologico che identifica una certa quota di esistete — autorizzato ad essere tale — con una certa dimensione di dicibile, mentre nello stesso tempo esclude nella sfera dell’imparlabile7 — termine, come noto, amatissimo da Pasolini — tutto ciò che essa ravvisa come inconciliabile con la sua dimensione di dominio. Essa è inoltre modificando spesso i suoi punti di vista in merito. Optiamo però qui per una caratterizzazione velatamente negativa del lemma perché è lo stesso Barthes a suggerirla in un testo tardo – cfr, OC V, p. 629 – e perché nella lezione inaugurale del 1977 tra i due termini egli sceglierà /atopia/ per indicare quel luogo al di fuori delle classificazioni proprie della parola gregaria verso cui il Testo spinge il senso, cfr OC V, p. 441. Sull’utopia cfr anche OC IV, pp. 652 e 531 e OC V, pp. 436. 7 Cfr P. P. Pasolini, Descrizioni di descrizioni, Mondadori, Milano 1977, pp. 77, nonché P. P. Pasolini, Empirismo eretico; Garzanti, Milano, 1991, p. 257. 65 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes denotativa in quanto ha già prodotto un immaginario collettivo, condiviso e socializzato, che non ammette deroghe e non aspetta altro che di essere comunicato e diffuso. La seconda scrittura non ha antecedenti ad essa allotri rispetto alla classe di trasformazioni semiotiche che essa propone e comporta. Il suo ruolo fisiologico è quello di rappresentare la prima scrittura nel momento in cui questa viene colta nel suo spessore di artefatto ideologico, espressione pregiudizialmente pilotata di una pseudonatura che sorge dall’oltraggio certosino e insistito del naturale: unico spazio del dicibile ove sia ancora presente ciò che Barthes chiama il «frisson du sens»: il senso, prima di abolirsi nella in-significanza, è ancora attraversato da un brivido: c’è del senso, ma questo non senso non si lascia prendere; resta fluido, fremente di una leggera ebollizione. Lo stato ideale della socialità allora si dichiara: un immenso e perpetuo brusio anima sensi innumerevoli che scoppiano, crepitano, sfolgorano senza mai prendere la forma definitiva di un segno tristemente appesantito dal suo significato: tema felice e impossibile, poiché questo senso idealmente rabbrividente si vede impietosamente riafferrato da un senso solido (quello della Doxa8) o da un senso nullo (quello delle mistiche della liberazione).9 In tal senso la seconda scrittura è l’immanenza critica di una forma inflessibilmente eretica rispetto alla eteronomia che la minaccia. Ma che cosa vuol dire qui immanenza critica? Perché parlare di immanenza? Immanenza di cosa e rispetto a che cosa? Si tratta di una serie di domande che ci permettono di vedere i numerosi punti di contatto tra Barthes e Adorno poiché, tra i primi aspetti che dobbiamo 8 9 Alla Doxa Barthes dedica analisi molto acute, cfr OC V, 631. Brano intitolato proprio Le frisson du sens, Ivi, p. 674. 66 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes rilevare, entrambi esplicitamente più o meno negli stessi anni si servono della formula di «critica immanente».10 Per quanto riguarda Barthes è in due loci testuali degli Essais critiques che troviamo questa espressione11; con essa si vuole intendere in primis la focalizzazione della critica letteraria su quella tecnica decettiva del senso che Barthes va enucleando nel corso di buona parte della sua ricerca più che ventennale. L’analisi immanente in secondo luogo ha un triplice aspetto che deve essere precisato: È fenomenologica, in quanto esplicita delle potenzialità riposte o latenti del testo e della sua scrittura senza limitarsi a spiegare soltanto le presunte intenzioni dell’autore, spesso ricostruite post hoc e quindi senza possibilità di una verifica fattuale.12 I. È tematica, poiché interroga e porta alla luce il sistema di metafore interne all’opera in modo da sviluppare un’analisi del linguaggio letterario che sia in grado di muoversi lungo vari livelli di strutturazione, cioè da quello immediatamente legato ai significanti a quello iperconnotato dei metalogismi ricorrenti.13 2. È strutturale, in quanto è chiamata a scomporre il fatto linguistico non tanto sulla base di una matrice elementaristica, ma piuttosto secondo un asse di indagine 3. 10 Basti un esempio per Adorno: nelle 400 pagine della sua Teoria estetica i richiami ad una logica immanente propria della critica letteraria sono oltre settanta. Già alla fine degli anni ‘40 Adorno aveva iniziato a parlare di critica immanente, cfr Th. W. Adorno, Prismi, pp. 15 e sgg. 11 OC II, pp. 500 e 518. 12 Ivi, p. 500. 13 È probabile che qui Barthes più che Mauron o Richard, grandi esponenti della critica tematica, avesse presente il padre di quest’ultima, ovvero Gaston Bachelard. 67 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes che ne privilegi le complesse caratteristiche funzionali.14 e interdipendenti Ciò comporta due conseguenze necessarie e rilevanti: il linguaggio a questo punto diventa nello stesso tempo modello dell’analisi, strumento elettivo per condurre quest’ultima nei meandri delle varie scritture, ma anche problema, quindi oggetto di quell’indagine che esso ha il compito di gestire e scandire. Al tempo stesso esso si trova collocato, senza possibilità di liberazione, nello spazio mediano di una opposizione che non deve essere risolta, di una opposizione che lo vede ora come elemento positivo, quindi attivamente fungente all’interno dei processi dell’analisi, ora invece come componente negativa, ovvero percepito quale concrezione sospetta che necessita di una ulteriore operazione di vaglio e segmentazione per ripulirlo da eventuali infiltrazioni o sedimentazioni adulteranti. Il linguaggio diviene la frontiera di due pratiche gemelle e corrispondenti, di due attività di selezione e scomposizione che trovano in esso allo stesso tempo uno strumento e un banco di prova. Inoltre tale stato di cose dimostra che non esiste un linguaggio a livello elementare, così come non esiste un linguaggio ridotto o riducibile al suo grado zero. Colto in questa problematica accezione15 esso deve sempre essere trattato come il prodotto di una classificazione proveniente da forze ad esso estranee, seppure densamente costitutive della sua eterogenea compagine, e quale terminale critico per smontare e far implodere dall’interno queste 14 Su questo soprattutto OC II, 418. Barthes stesso parla di linguaggio-problema, cfr Ivi, 523. Barthes non smetterà di tornare su questo punto e i riferimenti nella sua sua opera sono innumerevoli, ad esempio nella celebre lezione inaugurale del 1977 parla della sua semiologia come di «una decostruzione della linguistica», e del textum come di un indice di dépouvoir, in grado cioè di sottrarsi a quel tipo di lingua travagliato dal potere, OC V, pp. 439441. 15 68 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes classificazioni. Per questa ragione più volte Barthes parla esplicitamente di una natura parassitaria del linguaggio proprio della sua critica letteraria16, natura parassitaria che non può quindi non generare una critica del linguaggio immanente al linguaggio stesso. Ma arrivati a questo punto, che cos’è allora il linguaggio per Barthes? Una totalità funzionale che si struttura in modo capillare quale forma di forme, complementari, plastiche e inclusive le une rispetto alle altre. Ciò significa che l’intervento della critica immanente finisce col disfare il linguaggio — sezionandolo nella sua anodina duplicità — nel momento stesso in cui essa riesce ad inquadrare il mondo nel suo farsi senso plurale, indocile, non addomesticabile. La critica immanente si colloca nel luogo preciso di questa inaggirabile antinomia funzionale del linguaggio: gli ordini intellegibili che questo veicola sono sottoposti allora a traslazione perpetua, la quale ridistribuisce i significati attribuiti agli oggetti secondo una pratica di attenta ritrascrizione semantica della realtà. Catene associative, corrispondenze referenziali, strutture di equivalenze logiche vengono illuminante nella loro concreta dinamica funzionale per essere mandate in stallo, per essere messe in mora, per essere attentamente e capillarmente déjouées; la critica immanente non deve mostrare come funziona il linguaggio, ma perché funzioni in un certo modo e quali possibilità vi siano in esso perché funzioni in tutt’altra maniera. Lasciando la parola a Barthes possiamo quindi vedere che la letteratura possiede uno statuto particolare, il quale le deriva dall’essere fatta di linguaggio, ovvero di una materia che è già significante rispetto al momento in cui la letteratura se ne impossessa; è necessario allora che essa scivoli in un sistema che non le appartiene ma che funziona nonostante 16 Ivi, p. 512. 69 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes tutto in base ai suoi stessi fini, ovvero comunicare. Ne consegue che le sfilacciature tra linguaggio e letteratura formano in qualche modo l’essere stesso della letteratura: quando voi leggete un romanzo, voi non consumate da principio il significato /romanzo/; l’idea di letteratura non è il messaggio [...] che voi ricevete: è un significato che voi recepite in più, marginalmente; voi lo sentite fluttuare vagamente in una zona para-ottica, ciò che consumate sono in breve le unità, i rapporti, le parole e la sintassi del primo sistema [la lingua]; e tuttavia l’essere di questo discorso che leggete (il suo reale) è proprio la letteratura e non l’aneddoto che esso vi trasmette; insomma, qui è il sistema parassita ad essere principale, poiché esso detiene la intelligibilità ultima dell’insieme: altrimenti detto, è lui ad essere reale. Tale sorta di inversione perversa delle funzioni spiega le note ambiguità del discorso letterario: è un discorso al quale si crede senza credere, poiché l’atto di lettura è fondato su una sorta di giravolta incessante tra i due sistemi: vedete le mie parole, sono linguaggio, vedete il mio senso, sono letteratura.17 È proprio per questo motivo inoltre che Barthes dedica uno dei saggio più importanti della sua raccolta del 1964 al fait divers, ovvero al fatto di cronaca18 la cui analisi rivela una falsa innocenza dell’oggetto il quale viene inserito in una concatenazione narrativa che ostenta la più chiara dipendenza da una causalità aleatoria sotto la quale però la critica immanente svela la manipolazione chirurgica di un’opera mirata della significazione, la quale trasforma e trasfigura tutto nella compatta fisionomia di una vicenda sapientemente lavorata dai processi di una coincidenza ordinata propria dei sistemi di comunicazione di massa. Senza alcun timore di forzare la mano, Barthes afferma con grande sicurezza che la letteratura è affine ad una mantica19, dal momento che essa è allo stesso tempo intellegibile e interrogante, parlante e silenziosa, impegnata nel mondo tramite quel cammino del senso che 17 Ivi, p. 512-513. Traduzione nostra. Structure du fait divers, Ivi, pp. 442-451. 19 Ivi, p. 475. 18 70 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes questa compie insieme ad esso e simultaneamente emancipata dai sensi contingenti a cui che il mondo elabora e da cui è esso stesso elaborato: risposta che interroga e domanda che risponde. In tal senso il linguaggio secondo della scrittura letteraria riesce a connotare il reale senza denotarlo, senza inchiodarlo o ridurlo cioè ad un pattern di sensi stabilizzati e selezionati a monte; per dir meglio, il ruolo svolto dalla critica immanente fa in modo che il mondo sia riletto sulla base di un fitto reticolo di segni refrattari ad ogni solidificazione o cristallizzazione. Per questo motivo, in ultimo, se da una parte la critica immanente è chiamata a sdoppiare sempre il linguaggio rivelandone la duplice natura transitiva e intransitiva, dall’altra essa ha per vocazione costitutiva quella di scindersi immancabilmente in una critica dell’opera e in una critica di stessa, restando quindi sempre immanente alle sue stesse strutturazioni di senso, che devono essere mantenute senza sosta in uno stato di sospensione, a partire dalla quale sarà poi possibile riattivare di conseguenza i sensi sclerotizzati o già necrotizzati imposti alla realtà. È invece nei saggi raccolti sotto il titolo palesemente mendelsohniano di Noten zur Litteratur20 che Adorno parla per la prima di critica immanente. Tale formula, variata in innumerevoli occorrenze, verrà poi ripresa e ampiamente sviluppata nel corso della monumentale Teoria estetica, pubblicata postuma nel 1970. L’accezione nella quale il filosofo tedesco intende quella formula è molto affine a quella barthesiana, sebbene nessuno dei due autori citi mai l’altro. Anche qui la critica immanente si muove partendo dal linguaggio, lavorando su di esso e in esso, facendo di esso un teatro mobile di commistioni e contrazioni logiche che sfociano nella instaurazione di un 20 Th. W. Adorno, Note per la letteratura I e II, ed it a cura di E. de Angelis, Einaudi, Torino 1977, passim. 71 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes campo densamente tensivo di dilaniamenti silenziosi tra ciò che può essere espresso e ciò che deve essere detto, quali attestazioni latenti dei poteri della ideologia in opera nel linguaggio fin dalla sua strutturazione minimale. Proprio alla luce di ciò Adorno può affermare che la lingua seconda espressa dalla letteratura «incarna, anche come tollerata nel mondo amministrato, ciò che non si lascia organizzare e che l’organizzazione totale reprime».21 L’immanenza qui si configura da subito quindi come l’ombra che il linguaggio stesso proietta su di sé; in essa la parola dispiega il suo doppio fondo di segno e di oggetto, di parametro funzionale interno ad una struttura regolata di transizioni logiche che lavorano secondo una precisa predisposizione calcolata ab ovo, nonché di attrattore strano di compagini aberranti di senso. L’epifania del linguaggio22 che viene a consumarsi nella letteratura fa sì che questa diventi una sorta di controverso sensorium semantico carico di informazioni corollarie e periferiche rispetto a quelle solitamente veicolate dal linguaggiostrumento proprio della ideologia: esso infatti colto secondo questa prospettiva parassitaria inizia a significare in forza di una sotterranea organizzazione metastatica che coinvolge e oltrepassa le delimitazioni e le prescrizioni esplicite della ideologia; non è un caso allora che Adorno affermi a distanza di poche pagine che «l’arte è mimesis spinta alla coscienza di se stessa» e che essa «ha il suo altro nella propria immanenza».23 Per questo motivo il linguaggio si manifesta oscuramente come il volto egizio della scrittura, la cui natura pretestuosamente mimetica è chiamata a riconoscersi, a riflettersi e a sdoppiarsi nella sospetta identità con se stessa e non con un referente esterno. Adorno chiama tale stato di cose momento 21 Th. W. Adorno, Teoria estetica..., p. 391. Th. W. Adorno, Note II..., p. 212. 23 Th. W. Adorno, Teoria estetica, pp. 432-433. 22 72 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes paralinguistico24 della lingua, il quale non va confuso con l’aspetto meta-linguistico proprio della linguistica, che ne è forse l’esatto contrario, dal momento che se quest’ultimo è una sorta di preliminare censimento logico delle possibilità generative del senso contenute nel funzionamento della macchina linguistica, il paralinguismo indica invece esattamente quell’inaspettato risorgere di costellazioni profonde, le quali appaiono come un segreto coacervo di condotte disfunzionali che mandano in frantumi il metalinguaggio, deviando le prestazioni della macchina linguistica verso una permanente catastrofe semantica. Il paralinguismo quindi non smette di svilupparsi a partire da una precisa finalità immanente: distruggere ciò che tramite la predeterminazione dei sensi familiari viene offerto come ovvio e naturale, necessario e immutabile. Tale finalità immanente assume allora una doppia sfumatura: negativa in quanto essa mira a disfare risolutamente i prodotti della ratio dominante mettendone in subbuglio gli elementi chiave, riportandosi cioè alle loro configurazioni nucleari, ormai cristallizzate, e rifluidificandole in modo da revocare la violenza stessa della razionalità, frammentandone le sintesi con la stessa forza con la quale essa le produsse e le propagandò quali formazioni originarie dell’essere. Ma suddetta finalità immanente assume anche una finalità positiva in quanto il paralinguismo si propone di mantenere le forme in posizione di labilità, cerca di rimanere sempre eterogeneo ad esse esibendo ed ostentando la sua natura di pura costruzione25, in modo da rilevare quanto quelle stesse forme ad esso presuntivamente opposte gli siano in realtà 24 Ibidem. È per questa ragione che lo scenario lugubremente negativo di Fin de partie di Beckett alla fine dispiega una forza di affermazione che nessuna opera piattamente positiva possiede, cfr Th. W. Adorno, Note I..., pp. 267-308, ma anche Teoria estetica, pp. 415-416. 25 73 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes affini quali prodotti di un pensiero che seleziona a monte la dicibilità del reale. Il paralinguismo quindi lavora all’interno del linguaggio con movenze da talpa26, costringendolo ad una progressiva decomposizione. Alla luce di tale lettura, necessariamente interpretazione, commento e critica devono operare di concerto, cospirando verso questa dinamica immanente, la quale mira a fare del linguaggio la scena ove la forma appare come un intricatissimo campo di collassi e ove sia possibile far regredire le operazioni di orchestrazione ideologica ad una fase apertamente aporetica27 della loro generazione, così che il contenuto stesso diventi la negazione esplicita del senso veicolato. Pertanto alla costruzione del paralinguismo appartiene immanentemente la propria relativizzazione, in forza della quale [essa] deve strutturarsi sì da poter all’apparenza interrompersi sempre quando lo voglia. Pensa in frammenti perché frammentaria è la stessa realtà, trova la propria unità attraverso le fratture, non attraverso il loro appianamento. L’unitarietà dell’ordinamento logico mistifica l’essenza antagonistica della realtà a cui fu imposto [...]. Suddetta costruzione logora le teorie che le sono vicine; la sua tendenza è sempre rivolta a liquidare l’opinione, anche quella con la quale essa inizia. [Il paralinguismo] è al forma critica per eccellenza, e cioè in quanto critica immanente di produzioni spirituali e confrontazione di quel che esse sono col loro concetto, critica della ideologia [...]. Perciò la legge formale del [paralinguismo] è l’eresia. Grazie alla violazione dell’ortodossia del pensiero si rende visibile nella cosa ciò la cui persistenza nella invisibilità costituisce in segreto lo scopo obiettivo della ortodossia.28 26 Celeberrima immagine che Adorno usa per indicare il lavoro di spoglio testuale proprio del metodo benjaminiano, cfr Note II..., 246. 27 A proposito del «compito aporetico», cfr Teoria estetica..., p. 357. 28 Th. W. Adorno, Note I..., pp. 21, 24 e 30. 74 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes Ritornando al nostro esempio iniziale, possiamo dire che la prima scrittura di Bouvard et Pécuchet è una forma di linguaggio ancora non cariato dal paralinguismo; pertanto essa si presenta come una mimesi del mondo, ma del mondo inteso quale immagine secreta dalla ideologia. Il paralinguismo interviene in seconda battuta, assumendo una posizione ulteriore rispetto alla prima scrittura e assurgendo così a mimesi della mimesi del mondo delle immagini prodotte della ideologia. La sua intromissione, la sua interferenza nella linearità della concatenazione linguaggio-mimesi-ideologia, fa in modo che questa finisca con l’annodarsi improvvisamente in se stessa e su se stessa, portando così in emersione tutti i malcelati procedimenti di mistificazione che la ratio amministrante ha messo in opera per rendersi contemporaneamente attiva e invisibile. Da quanto appena detto in merito ad Adorno discendono due conclusioni simmetriche, a loro volta ciascuna sdoppiata in una duplice alternativa. La prima coppia di conclusioni riguarda il soggetto, il quale si colloca in seno a tale stato di cose secondo una postura quasi indefinibile perché radicalmente scissa tra due possibilità reciprocamente esclusive l’una dell’altra: La prima possibilità è quella dell’azzeramento, dell’«autospegnimento»29 nel linguaggio e tramite il linguaggio. Modello di questa tipologia è il narratore dei romanzi di Proust, di Kafka e di Joyce, il quale si forma come un precipitato anomalo dalla fine di due grandi tradizioni: quella del narratore dalla presenza dilagante e soverchiante la vicenda narrata — da non confondere però col narratore onnisciente, ma piuttosto con una fisionomia I. 29 Ivi, p. 78. In più punti Adorno naturalmente sottolinea che tale concezione non ha assolutamente in comune con la visione heideggeriana di una ontologizzazione del linguaggio come ascolto dell’Essere. 75 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes affine a quella della persona loquens dei romanzi di Stendhal — e quella del narratore livellato alle convenzioni di una esposizione oggettivistica. Per Adorno il narratore contemporaneo deve essere equidistante da questi due eccessi simmetrici e ugualmente mistificanti e rilevarsi in forza della sua impotenza la quale gli permette di far tornare il mondo delle cose al centro del suo monologare. Cesellatore di un linguaggio secondo che sembra nascere dai cascami delle due tradizioni appena rievocate, tale narratore deve servirsi di una decaduta lingua oggettuale associativa la quale sarebbe in grado di esprimere il mondo da una prospettiva pre-individuale, in una sorta di lacunoso monologo collettivo.30 2. La seconda postula la formazione di un soggetto veuilleur, animato cioè da una sorta di strenua vigilanza mediata dal suo uso obliquo del linguaggio, di cui esempio impeccabile è agli occhi di Adorno Valéry, dal momento che la sua arte incarna la resistenza della pressione indicibile che il semplice esistente esercita sull’umano. Essa si schiera dalla parte di ciò che noi potremmo un giorno essere. Non lasciarsi istupidire, non lasciarsi addormentare, non essere complici: queste sono le condizioni sociali che si sono sedimentate nell’opera di Valéry, opera che si rifiuta di stare al gioco della falsa umanità […]. Costruire opere d’arte per lui significa rifiutarsi all’oppiaceo in cui la grande arte sensoriale si è trasformata dall’epoca di Wagner, Baudelaire e Manet: rifiutarsi all’onta che rende le opere mezzi di comunicazione e del consumatori fa delle vittime della trattazione psicotecnica.31 La seconda coppia di conclusioni riguarda invece la tipologia di letteratura possibile proprio sulla base di 30 31 Ivi, p. 44. Ivi, p. 119. 76 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes quell’uso obliquo. Anche qui quindi Adorno propone due versioni parallele e inconciliabili: I. La prima idea di linguaggio è rinvenibile nelle Tracce di Bloch. Ad esso l’autore dedica un lungo saggio nella prima raccolta: la parola qui è dolorosamente attraversata dalla insanabile vulnerabilità del finito; ripiegato sulla dura resistenza che la particolarità delle cose oppone al pensiero e alle sue manipolazioni, il linguaggio delle Tracce blochiane esprime senza requie la persistente frattura tra soggetto e oggetto svelando, attraverso il ricorso ad un espressionismo viscerale e multiforme, che tutte le forme di millantata abolizione della reificazione in realtà finiscono col raggelarsi a mera ideologia. In tal modo Bloch mette a punto una topologia della metafisica intesa come «fenomenologia dell’immaginario», ove la trascendenza è trascritta in termini di profanità e proiettata nello spazio chiuso di una dialettica soggetta a pseudomorfosi. Il linguaggio che ha in mente Adorno interroga questo spazio, facendone emergere delle immagini enigmatiche a partire dalle quali è necessario pensare la fine come radice del mondo, in grado di muovere e sollecitare l’ente, e ove la fine stessa è intesa in termini di telos.32 II. La seconda idea di linguaggio si trova invece in Beckett. Al drammaturgo irlandese Adorno dedica uno dei saggi più corposi e brillanti dei due volumi: il linguaggio qui serve unicamente a illuminare e inquadrare la putrescenza dei fenomeni e della cultura; in tal modo esso regredisce e regredendo corrode e demolisce tutto quello che tocca. La parola pertanto non opera più nel segno della dicibilità degli oggetti ma li enuncia e li enumera puntando sempre 32 Cfr Le «Tracce» di Bloch, Ivi, pp. 220-237. 77 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes al non-sense, alla fuga dal senso, o meglio, alla feroce e serissima parodia del dare senso a cose e vicende: il procedimento di costruzione dell’insensato non si arresta neppure davanti alle molecole del linguaggio [così che comprendere Fin de Partie] vuol dire comprenderne l’incomprensibilità, ricostruirne concretamente il nesso significante, che consiste nel rendersi conto che esso non ne ha […]. Il pensiero di trasforma in una sorta di materia di secondo grado.33 Soggetto e linguaggio in Adorno sembrano fronteggiarsi per l’ultima volta prima dell’abolizione reciproca e speculare. Il soggetto infatti si colloca nella lingua come una infestazione, saturandola di significati logori di cui esso però non è padrone e all’interno dei quali esso si muove come un elemento derivato, come un necrotizzante effetto di superficie. Riassorbirsi nel linguaggio significa allora ridestare la parola verso una primordialità del dicibile solo postulatorio, sebbene pulsante nel rovescio di ogni linguaggio. Per Adorno quest’ultimo deve essere condotto fino al proprio collasso interno, al proprio eccesso furioso di indicibilità affastellate e intricate; Beckett e Bloch, come visto, segnano la via per l’attuazione di questo disegno, additando con le loro opere diversissime il convulso spazio scenico di una fisiognomica espressiva che conserva sempre qualcosa di enigmatico, una sorta di frastornato sonnambulismo del dire, il quale spinge il linguaggio a polarizzarsi unicamente intorno allo stadio terminale del suo deteriorarsi ad incessante ripetizione di un amalgama di elementi contratti nell’opprimente staticità di una realtà ormai disgregatasi. Partendo da tale stato di cose, l’esprimibile non allude più alle cose, ma nasce dallo sfacelo delle proprie forme vuote, da una grammatica dismessa il cui contenuto sia declinabile solo all’ablativo, priva di ogni contatto con lo 33 Ivi, pp. 267-268. Corsivo nostro. 78 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes spessore della parola e quindi orfana della propria elettiva funzione di sintesi. Per Beckett, e di riflesso per Adorno, usare il linguaggio significa fare una partita a scacchi ove i pezzi siano frammenti informi di oggetti ormai irriconoscibili e la scacchiera un logoro quadrato monocromo.34 Critica immanente e paralinguismo arrivano a coincidere, si corrispondono perfettamente nei metodi e negli intenti, esattamente come in Barthes collimano senza resto critica immanente e semiologia, intesa come capillare decostruzione della linguistica. Da ciò deriva inoltre un’altra affinità tra i due pensatori, quella cioè che li porta ad intendere la critica letteraria come responsabilità delle forme35, come inesausta riflessione su un impegno che scelga di estrinsecarsi applicandosi sul modo in cui un’opera è fatta, sui criteri che essa adotta per infrangere il «potere reprimente della forma» — per dirla con Adorno36 — al fine di liberare quella «vasta immaginazione del linguaggio» che per Barthes finisce col dare luogo — in autori come Sollers, ad esempio — ad una letteratura concepita quale aurorale «cosmogonia della parola».37 In Barthes quindi la critica immanente fa in modo che le varie traiettorie del dispositivo ideologico prendano a 34 Qualche anno prima rispetto ai due saggi da noi presi in esame, Adorno aveva già affrontato la vexata quaestio riguardante i rapporti soggetto-linguaggio arrivando a dire: «la soggettività sa di non essere più il centro vivificatore del cosmo. Essa si abbandona a quel meraviglioso che accadrebbe se i meri contenuti, abbandonati dal significato, vivificassero per forza propria la soggettività che si va estinguendo. Non sono le cose a cedere come simboli della soggettività, ma è la soggettività che cede come simbolo delle cose, pronta a irrigidirsi infine in se stessa divenendo quella cosa in cui viene comunque già trasformata dalla società», cfr. Th. W. Adorno, Prismi, p. 229, il saggio è dedicato al carteggio tra Stefan George e Hugo von Hofmannsthal e risale alla fine degli anni ’30. 35 OC V, p. 601. 36 Th. W. Adorno, Teoria estetica..., p. 431. 37 OC V, pp 597 e 599. 79 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes sfaldarsi secondo delle linee di frattura divergenti: il linguaggio si ripiega su se stesso e genera una scrittura che svuota felicemente e perversamente le proprie raffinatissime logiche di produzione del senso. Il mondo viene così restituito a una sua sorda opacità di oggetti inassimilabili alle disseccate e annichilenti codificazioni della lingua, mentre la nozione di mimesi galleggia lacera e negletta sulla superficie delle cose con le lemuriche movenze di un fantasma prossimo al dissolvimento definitivo.38 Che la letteratura pertanto sia concepita quale immanente sabotaggio del linguaggio che utilizza non esprime in ultimo null’altro se non la più alta forma di consapevolezza concernente il fatto che siamo costretti a vivere in un’epoca in cui a nessuna verità è ormai più concesso di essere innocente o, ancor peggio, innocua. 38 In questo senso vanno lette le riflessioni di Adorno in merito alla necessità di una narrativa che prenda atto del radicale irrealismo a cui questo stato di cose la espone, cfr Note I..., 133-149. 80 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno 5 Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes Roger Caillois Una problematica del senso* di Roland Barthes I problemi del senso sono diventati molto attuali da una decina d’anni; ciò è avvenuto per effetto di più fattori, innanzitutto per lo sviluppo abbastanza straordinario della linguistica negli ultimi trent’anni. Nel XIX secolo la ricerca linguistica, molto importante, si è sviluppata soprattutto nel senso di una linguistica storica e di una linguistica comparatista. All’inizio di questo secolo, verso il 1915, Ferdinand de Saussure ha posto storicamente le fondamenta di quella che potremmo definire una linguistica del linguaggio, e non più una linguistica delle lingue, cioè della funzione di parole e non più di questo o quel gruppo di lingue. La linguistica saussuriana è stata ripresa e sviluppata dal danese Hjelmslev e di recente il corso della linguistica ha preso ancora un nuovo slancio con i lavori dell’americano Noam Chomsky. Si è avuto uno sviluppo o, più esattamente, un’estensione dei metodi di analisi linguistica a partire dal linguaggio articolato che parliamo a tutt’altra specie di linguaggi che esistono nella vita sociale ma che non hanno come supporto il linguaggio articolato; è così che è iniziato lo studio, servendosi di concetti analitici provenienti dalla linguistica, di messaggi o insiemi di messaggi costituiti dalle immagini; per esempio, l’immagine fissa nel caso della fotografia o del disegno, l’immagine mobile, il cinema (ma potremmo citare anche alcuni lavori in corso sul teatro). Lascio da parte per ora il problema della pittura, del disegno artistico e quello dei gesti che non ho ancora ben studiato. * Apparso in Cahiers Média, Centre régional de documentation pédagogique, Bordeaux 1970. Cfr. OC III, 507-519. 81 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes Chiamiamo “semiologia” questa scienza generale dei segni concepita poco a poco a partire dalla linguistica; a dire il vero, sarebbe meglio chiamarla “semiotica” perché la parola “semiologia” è già utilizzata in campo medico (scienza del riconoscimento di segni e sintomi). Tuttavia sarebbe molto comodo avere due parole: si potrebbe utilizzare semiotica per indicare sistemi particolari di messaggi. Avremmo dunque una semiotica dell’immagine fissa, una semiotica dell’immagine cinematografica, una semiotica del gesto; chiameremmo semiologia la scienza generale che riunirebbe tutte queste semiotiche. Tra tutti questi campi d’estensione della linguistica, ricorderei in modo particolare l’estensione dei metodi d’analisi strutturale (nella misura in cui la linguistica è stata strutturale da circa trent’anni) al discorso, cioè a un insieme di parole, proposizioni superiori alla frase; la linguistica attuale è una scienza che si ferma alla frase. Il linguista non descrive mai insiemi superiori a una frase, considerata come l’unità materiale di catene parlate o scritte. Ben inteso, il testo letterario è stato soggetto a metodi d’analisi che si sono diversificati nei secoli, dalla retorica antica fino ai metodi più estetici o, al contrario, più positivisti; ma un insieme di frasi che si può definire discorso non era mai stato studiato da un punto di vista propriamente semiotico; ora siamo sulla buona strada. Naturalmente si tratta di ricerche poco note al grande pubblico, che non hanno ancora condotto a libri decisivi; ciò avviene nei centri di ricerca, nelle tesi di dottorato di III ciclo; è ancora una ricerca preliminare ma che ha già un buon approccio. Un’altra estensione, a partire dal focus linguistico, è quella che oggi chiamiamo strutturalismo. La parola struttura è molto antica. Si può dire che non ha avuto alcuna pertinenza negli ultimi cento anni; tutte le scienze 82 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes erano più o meno strutturali, dall’architettura alla biologia alla grammatica; ma credo che attualmente il nome strutturalismo debba essere riservato a un movimento metodologico che confessa precisamente il suo legame diretto con la linguistica. Questo sarebbe secondo me il criterio di definizione più preciso; si incontrano evidentemente scienze umane apparentemente molto lontane dalla linguistica ma di cui si sa ora che possono essere affrontate con metodi d’analisi e concetti operativi che vengono dalla linguistica. D’altronde, le due ricerche strutturali più personali, le più marcate, le più tipiche attualmente sono, da una parte, quella di Lévi-Strauss in etnologia e in antropologia, e dall’altra quella del dottor Lacan in psicanalisi, che ha avvicinato in modo estremamente suggestivo il mondo della psiche dei concetti linguistici, postulando, secondo la frase che gli è attribuita, che l’inconscio stesso, in una prospettiva psicanalitica, sia strutturato come un linguaggio. Si obietta talvolta che questa attualità dei problemi del senso è, in fondo, un puro fenomeno di moda; si è arrivati a dire che questa attualità era in rapporto con il gollismo poiché, a prima vista, questa appare come un insieme di metodi che sembrano disinteressarsi della storia, del concreto, del sociale con una apparenza formale e formalizzante. Nel loro successo, si vede una sorta di segno di depoliticizzazione della ricerca intellettuale; questa proposizione è estremamente grossolana: a mio parere, l’attualità dei problemi di senso è molto più che un’attualità. È l’onda di fondo della civiltà della seconda metà del XX secolo. Mentre la seconda metà del XIX secolo, nel campo delle scienze umane, è stato dominato dalla nozione di fatto, dalla ricerca e dall’istituzione del fatto, dalla dominazione del fatto, nel XX secolo la ricerca è dominata dal senso: vi è una sorta di progetto storico collettivo molto grande che ci supera e che fa sì che attualmente 83 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes consideriamo un po’ il linguaggio nel senso più profondo ed esteso del termine; il linguaggio è il continente da esplorare, come se l’esplorazione planetaria dei cosmonauti dovesse corrispondere, sul piano dell’interiorità, all’esplorazione di un territorio molto mal conosciuto e che è precisamente il linguaggio o, se preferite, la significazione, il senso. Il senso è un termine generale, poco preciso; ma si può dire di sapere abbastanza bene cos’è il senso secondo uno schema estremamente elementare al quale bisogna ogni giorno ritornare: il senso è l’unione di un significante e di un significato. I caratteri dell’uno e dell’altro sono abbastanza ben conosciuti, abbastanza ben classificati, soprattutto quelli del significante; ciò che ancora è meno chiaro è il significato. Dove comincia e dove finisce il senso? È sempre qui il problema. Naturalmente possono essere fornite delle soluzioni, ideologiche o estetiche, al problema del limite del senso, ma una risposta tecnica, precisa, è molto più difficile. È assolutamente chiaro che un solo e uno stesso significato può avere diversi significanti, ciò che in senso proprio chiamiamo polisemia, una sorta di ineguaglianza tra i due termini, significante e significato. Attualmente, nella linguistica del linguaggio, si distinguono due parti essenziali: la sintassi e la semantica (il senso delle parole). La linguistica della sintassi si è sviluppata e ha fatto progressi sorprendenti, specie di recente con Chomsky. Ma la semantica strutturale mostra qualche difficoltà a elaborarsi, a costituirsi. Ci sono eccellenti semantici (Greimas, per esempio), ma non si può dire che esista attualmente una semantica strutturale tanto ben fondata quanto la grammatica generativa di Chomsky. È evidente che questa sorta di blocco della semantica nella scienza linguistica è dovuto precisamente al fenomeno della polisemia. È proprio perché esiste la 84 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes polisemia che è estremamente difficile studiare il senso propriamente detto. Possiamo studiare delle relazioni, compito della sintassi, ma i sensi sono molto difficili da studiare; d’altronde, su un piano maggiormente operativo, più tecnico, meno speculativo, i progressi delle macchine per traduzioni sono frenati da questo problema della polisemia. È a causa della polisemia che sorgono problemi nel costruire efficienti macchine per traduzioni. Ed è per tentare di integrare questo temibile problema della polisemia che si elaborano periodicamente sistemi simbolici di interpretazione; l’ultimo, in ordine di tempo, almeno il più importante, era la psicanalisi, sistema d’interpretazione nel senso proprio del termine, che tenta precisamente di pensare, di sistematizzare la polisemia. La psicanalisi lavora sul postulato fondamentale che certi fenomeni hanno più sensi, o certi sintomi, nell’ambito psichico, hanno più sensi: sono polisemici. Al contrario, ciò che attesta l’intensità spesso scottante di questo problema del senso e specialmente della polisemia, è costituito dal fatto che le istituzioni o l'istituzione stessa, l’istituzione sociale si dà sempre come compito di sorvegliare il senso, di sorvegliare la proliferazione di sensi. Per esempio, lo sviluppo considerevole della formalizzazione matematica nel linguaggio delle scienze umane è un modo di lottare contro i rischi di polisemia; in un altro contesto, nell’interpretazione dei testi letterari si esercita anche una sorta di sorveglianza da parte dell’istituzione, all’occorrenza dell’Università, sulla libertà d’interpretazione dei testi, cioè sul carattere in qualche modo polisemico infinito di un testo letterario; insomma, la filologia sarebbe questa scienza incaricata di sorvegliare gli eccessi polisemici che sono nella natura stessa del senso. E se consideriamo il senso in questo modo, cioè nei suoi rapporti con l’istituzione o le istituzioni, ci si rende conto che è in realtà un problema molto cocente: quasi tutti i dissidi ideologici dell’umanità, 85 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes in ogni caso dell’umanità occidentale, da secoli, sono sempre dissidi del senso. È sempre intorno a un’interpretazione, che sia in teologia, in sociologia, o precisamente in filologia, che sorgono polemiche e scontri molto violenti. È dunque in rapporto a questo problema del limite del senso che vorrei tentare di proporre, in un giro d’orizzonte molto vasto e di conseguenza molto poco rigoroso, una sorta di classificazione di quello che chiamerei i diversi regimi antropologici del senso. Ne abbiamo tre. Monosemia Il primo regime è quello che quello della monosemia, sistema ideologico sociale o istituzionale o estetico in cui si ritiene che i messaggi o i significanti abbiano un solo senso, che è quello giusto. Questa monosemia, cioè il postulare che ci sia un solo senso, è una forma di ciò che i patologi del linguaggio chiamano asimbolia. È un regime in cui si ha una sorta di cecità o sordità al simbolo. Utilizzo “simbolo” in una accezione estremamente semplice e ampia: come coesistenza di due sensi; là dove coesistono almeno due sensi, si ha un simbolo. Se, di conseguenza, si postula che non ci sia che un solo senso, ci si dichiara in qualche modo chiusi, sordi o ciechi al simbolo. Sarebbe d’altronde interessante ricordare che l’asimbolia è precisamente ricordata dagli specialisti del linguaggio come un tratto patologico. Il fatto di essere sordo o chiuso o cieco al simbolo è, in qualche modo, il segno di qualcosa che non va bene. Attualmente, si arriva abbastanza bene a situare in una prospettiva al contempo psicanalitica e psicosomatica l’importanza di questa asimbolia presso certi individui. La scuola di psicosomatica a Parigi ha condotto studi molto interessanti che sembrano mostrare che i malati 86 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes psicosomatici sono appunto persone che non simbolizzano in sé stessi, che hanno un’impotenza a simbolizzare, e specialmente a simbolizzare gli stessi loro corpi; di conseguenza, non possono dire nulla, non possono parlare, o meglio non possono immaginare. L’immaginazione è il regno del simbolo. È perché non immagina che il malato avrebbe questa forma d’affezione psicosomatica. La conseguenza, paradossale ma evidente, è che per trattare un malato psicosomatico, bisogna trovare il modo di restituirgli l’attitudine a simbolizzare, l’attitudine a immaginare, l’attitudine a vivere nel simbolo. Il modo di guarirlo consisterebbe nel fornirgli una nevrosi, poiché la nevrosi è appunto il regno del simbolo, dell’immagine. Il simbolo è un fenomeno propriamente umano. Ora il problema del linguaggio degli animali è molto di moda. Ma dopo aver creduto effettivamente che gli animali parlassero o avessero in ogni caso un linguaggio che si potrebbe ricostruire (si è partiti dalle api, per poi proseguire con i corvi, le taccole e ora i delfini), non si è ora sicuri che ci sia un linguaggio degli animali; ciò che è sicuro è che esiste una comunicazione animale, ma ciò che distingue l’uomo dall’animale è che l’uomo è il solo a simbolizzare. L’asimbolia è dunque una malattia tipicamente umana. È grave a livello individuale sotto il profilo psicosomatico di cui ho appena parlato, ma sarebbe altrettanto grave, al livello di una civiltà, arrivare, per una serie di artifici della storia, a uno stato collettivo di asimbolia. Non è il nostro caso, benché il potere mitologico e mitico sia estremamente nascosto nella nostra civiltà tecnica. Si incontrano evidentemente forme istituzionali di questa monosemia. Sono tutte le discipline o piuttosto i linguaggi che postulano, in modo estremamente fermo, che un linguaggio, un messaggio o un discorso o un significante non hanno che un solo senso e che, di conseguenza, c’è una lettera, una letteralità del senso alla quale bisogna attenersi. In realtà, se in certi casi 87 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes precisi la monosemia è utile, se è garanzia di rigore e di lucidità in certi tipi di linguaggio, in senso generale e più ampio, essa comporta gravi inconvenienti. Nello specifico, un discorso che fosse interamente monosemico o asimbolico sarebbe alla fine del tutto tautologico. Polisemia Il regime di polisemia è la forma di linguaggio, nel senso più ampio del termine, delle società che accettano il linguaggio mitico, quello che Hegel chiamava «il brivido del senso»1. Hegel diceva che gli antichi Greci attribuivano sensi multipli a tutti i fenomeni naturali e umani: ai boschi, alle fonti, alle foreste, ai fiumi, tutto era dotato di senso e, di conseguenza, la natura intera appariva all’uomo, e appare all’uomo mitico, come animata da una sorta di fremito del senso. L’espressione è molto bella e indica precisamente questo potere simbolico, polisemico delle società, soprattutto delle società mitiche. Il problema non è di elaborare il simbolo, il simbolo è dovunque, ma di accettarlo. Ecco, per esempio, tre forme diverse di questa polisemia. Innanzitutto, la versione in qualche modo arcaica, etnologica della polisemia o del simbolismo, della simbolia nel senso pieno del termine: tutte queste società mitiche per le quali tutto è significante: natura, piante, animali, architettura, racconti, legami di parentela. Il senso è dovunque ed è riconosciuto essere dovunque. In secondo luogo, il regime della polisemia gerarchizzata cioè dei modi di pensare che accettano l’idea che un segno abbia più sensi, ma che pensano che in tutti questi sensi ve ne sia uno privilegiato, vero. Come esempio si potrebbe indicare la concezione del senso nella teologia medievale, e specialmente in Dante. Ritroviamo 1 «Le frisson du sens», cfr. OC III, p. 512, nonché OC IV, p. 674. 88 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes questa teoria per tutto il Medioevo a proposito delle Scritture, realtà essenziale su cui riflette l’uomo del Medioevo. È la teoria dei quattro sensi. La teologia ammette che il Vangelo, le Scritture o una parabola o anche solo una frase del Vangelo stesso, abbiano quattro sensi contemporaneamente: un senso letterale, quello delle parole stesse, quindi un senso storico che si lega all’umanità di Gesù, più oltre un senso morale che implica l’etica, il dovere dell’uomo, e infine, come quarto, il più importante, il senso ultimo, il più profondo, il più segreto, il più nascosto ma vitale, quello che si chiama senso anagogico, perché è quello che si raggiunge attraverso gli altri. Terza forma possibile è quella dei regimi di senso che ammettono l’interpretazione, il diritto a interpretare il segno: è dunque la forma di polisemia che le società laiche, razionali si permettono. Una società come la nostra ammette l’interpretazione. Non l’ammette sempre, talvolta limita singolarmente il diritto di interpretare un messaggio ma infine, diciamo che, proprio perché la parola esiste, l’interpretazione è una sorta di riconoscimento laico, razionale e limitato del diritto alla polisemia. Per esempio, ritroviamo questo nei diritti della critica letteraria, quando sono riconosciuti. Di certo, non possiamo attualmente immaginare una semiotica dell’immagine che non sia una semiotica della polisemia. L’immagine è, per natura, costitutiva di un messaggio polisemico. Non si può ridurre l’immagine a un solo senso e, di conseguenza, per fare una semiologia dell’immagine, occorre innanzitutto riconoscere la virtù, la costituzione, la natura polisemica di ogni immagine: specialmente a proposito dell’immagine che sembra la più oggettiva e la più reale: la fotografia. Sappiamo bene che la fotografia è un messaggio polisemico come gli altri. 89 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes Asemia Una terza forma di regime del senso sarebbe un regime di asemia, cioè l’assenza di senso, o meglio, di esenzione dal senso. Al livello molto generale in cui ci collochiamo, l’asemia, cioè la non-simbolia, che vediamo essere molto diversa dall’asimbolia, rappresenta un’esperienza limite, sul piano delle società, delle civiltà, che bisogna interrogare. Si tratta di sforzi, ben localizzati in certe civiltà, in certe società, per arrivare a ciò che chiamo l’esenzione totale dal senso. Ciò non ha nulla a che fare, strutturalmente, con l’assurdo; l’assurdo o l’assurdità è un senso, precisamente il senso dell’assurdo, l’esenzione dal senso è dunque uno stato del senso infinitamente più difficile da realizzare, è una sorta di vuoto del senso o piuttosto il senso sentito e letto come vuoto, che non è il caso dell’assurdo. Questo vuoto del senso dove si trova? Possiamo darne qualche esempio? Tutti i linguaggi formalizzati, specie il linguaggio matematico e logico, sono linguaggi vuoti di senso. Sono costituiti da pure relazioni; ma in queste relazioni non è inserita alcuna pienezza di senso. Sarebbe come una lingua che non esisterebbe se non attraverso la sua sintassi e non attraverso il suo lessico. Ecco, pressappoco cosa sarebbe questo vuoto, questo linguaggio vuoto di sistemi formalizzati. Altra zona molto lontana nello spazio, se non nel tempo, in cui noi possiamo ravvisare l’idea di un linguaggio vuoto, di un senso vuoto, sarebbe nell’ambito delle esperienze mistiche. Ma aggiungo subito che non è nelle descrizioni della mistica cristiana, benché esse giochino molto con questa idea del vuoto e del senso del vuoto, della notte, in mistici come San Giovanni della Croce o Teresa d’Avila, che andrò a cercare il migliore esempio, ma nel campo delle esperienze delle religioni non monoteiste; perché il monoteismo ha un rapporto molto 90 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes preciso con un certo uso e una certa concezione del senso, del monosenso, se così posso dire. Il monoteismo non fornisce un buon esempio di questa sorta di liberazione totale del senso e dell’esenzione dal senso, cui tento di avvicinarmi ora. Bisogna cercare questo vuoto, questa esenzione dal senso sul versante di esperienze come quelle del buddismo Zen (buddismo giapponese). Tutta l’ascesa dello Zen è precisamente diretta verso una sorta di svuotamento, di vedovanza del senso, e i teorici dello Zen hanno ben capito che l’impresa più difficile al mondo non è di dare un senso (lo facciamo naturalmente) ma, al contrario, di sottrarre senso. Ed è questo che assume valore nella prospettiva dell’ascesi spirituale. Esiste nello Zen un esercizio (i termini occidentali sono molto imprecisi, sono solo semplici approssimazioni) di meditazione che è veramente un esercizio di liberazione dal senso assolutamente impressionante. È l’esercizio in cui il bonzo dà a colui che vuole affrontare l’esercizio, all’esercitante, che può essere un altro bonzo o anche un laico che si presenta per un ritiro, una specie di frase o aneddoto apparentemente assurdo da meditare. La meditazione non consiste nel trovare finalmente un senso alla frase assurda, ma al contrario, attraverso l’assurdità della frase, fare l’esperienza del vuoto di senso. Infine, paradossalmente, c’è un terzo ambito in cui attualmente possiamo imbatterci nell’esercizio dell’esenzione dal senso, cioè una certa avanguardia letteraria. Oggi, per esempio, i testi e il pensiero di un gruppo come quello della rivista Tel Quel girano intorno a una specie di distruzione della leggibilità, del leggibile. Possiamo qui inserire una definizione del leggibile. Chomsky distingue nello studio della lingua tra frasi grammaticali e frasi agrammaticali. Una frase grammaticale deve rispettare le norme e le regole sintattiche di una lingua. Ma questa frase, che è grammaticale perché soddisfa le regole della sintassi, può 91 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes essere perfettamente spogliata di senso, pensa Chomsky. Chomsky ha fornito un esempio ora abbastanza famoso: «incolori idee verdi dormono furiosamente»2. Ecco una frase che è perfettamente grammaticale in francese ma è perfettamente priva di senso, pensa Chomsky, e ciò lo conduce a distinguere tra frasi grammaticali e frasi non interpretabili. La frase citata è grammaticale ma non sarebbe interpretabile. Chomsky ha lavorato unicamente su frasi grammaticali lasciando da parte il problema del senso del lessico, di cui abbiamo visto poco fa che era in ritardo rispetto al problema della sintassi. Jakobson ha risposto a Chomsky che in realtà c’è sempre un momento in cui questa frase che Chomsky dichiara priva di senso può avere un senso. Ciò dipende dal contesto, e quand’anche una frase resistesse al più gran numero di contesti che si possa immaginare, ci sarebbe comunque un contesto poetico in cui essa potrebbe di nuovo essere interpretabile. Il problema diventa interessante quando lo si trasferisce al discorso: cos’è un discorso classico nel senso più ampio del termine? Per esempio, un paragrafo di Balzac, Stendhal, o una strofa di Baudelaire o un paragrafo di Camus o di Omero? In tutta questa letteratura, le serie di frasi hanno precisamente un carattere interpretabile e non solo ogni frase. È il carattere interpretabile del discorso che formerebbe il leggibile, e di conseguenza è questo leggibile, questa leggibilità che, nella maggior parte delle volte, giudichiamo perfettamente universale e naturale; è questa leggibilità che è in qualche modo rimessa in discussione da certe esperienze dell’avanguardia letteraria che si appoggiano a testi che non hanno questo carattere d’interpretabilità. L’opera di Lautréamont sarebbe un 2 /Colourless green ideas sleep furiously/, noto sintagma coniato da Chomsky a cui Jakobson dedica penetranti analisi, cfr. R. Jakobson, Saggi di linguisica generale, ed. it. a cura di L. Hillman, Feltrinelli, Milano 1973, p. 71 e sgg. 92 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes esempio di discorso non interpretabile e che ci rappresenterebbe la possibilità di un discorso in qualche modo illeggibile nel senso proprio del termine. In questa avanguardia letteraria c’è una riflessione molto interessante sulla leggibilità, sui limiti del leggibile. È un’esperienza di asemia o di ricerca di un discorso che sarebbe in qualche modo liberato dall’ipoteca del senso o, in ogni caso, dell’antico governo del senso. Quale è la posta di queste riflessioni o di questi problemi? Mi pare che si possano collocare questi problemi del senso a tre livelli: prima, il livello psicologico: qui bisogna rifarsi ancora una volta ai lavori di Lacan. Lacan ha descritto la psiche umana come un campo in cui si elaborano catene di significanti, di significanti in successione, ogni significante diventa il significato di un altro significante che lo conduce più lontano. Sono catene di simboli, costruite secondo una forma metaforica (poiché la metafora stessa è una catena di significanti) che strutturerebbero in qualche modo l’inconscio e che avrebbero in fondo un solo significato ultimo. Il mondo psichico nel suo complesso sarebbe un mondo occupato da significanti a tutti i livelli; e tutti questi significanti rinvierebbero allora, nell’inconscio, a un significato unico e ultimo che Lacan chiama metafora paterna. Ma, e qui Lacan ha formulato le cose in un modo nuovo, per Lacan il significato ultimo, che è in qualche modo al termine o all’inizio, nell’inconscio di queste catene di significanti, è una mancanza, un vuoto. È, in termini psicanalitici, la mancanza fallica, il fallo come sesso maschile preso nel suo valore significante, in quanto simbolo; questa mancanza fallica è precisamente legata al fondamentale complesso di castrazione che sarebbe all’inizio o alla fine di questa catena di significanti. La nostra psiche, che sia normale o patologica, passerebbe il tempo a elaborare simboli e significanti a partire da un vuoto, quello definito in termini psicanalitici dalla 93 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes castrazione. Ciò è nuovo e importante poiché si oppone in qualche modo a tutte le psicologie della pienezza, a tutte le psicologie dell’essenza e delle essenze psicologiche. Ciò costituisce una riflessione estremamente nuova sui rapporti del senso e del vuoto. Un secondo livello è il livello metafisico così come lo vediamo attualmente esplorato nei testi di Jacques Derrida. Sappiamo, da Saussure in poi, con molta chiarezza, che il segno è una differenza. Perché ci sia un segno, occorre che ci sia differenza, differenza tra due significanti (gioco paradigmatico). Saussure aveva detto per primo, in modo rivoluzionario, che la lingua era un sistema di differenze; Derrida ha spinto le cose fino all’estremo e ha visto che il segno è una differenza, l’innesco di una sorta di processo infinito, che spinge infinitamente indietro il significato. Si pensava fino a oggi che ci fosse bisogno di questa specie di arresto del senso. Si pensava che i segni fossero una mescolanza di significanti e significati, ma che una volta raggiunto il significato, il segno si arrestasse, una volta che fosse tutto pieno, tutto colmo, tutto normale. Ora si comincia a intravedere che i sistemi di segni non possono mai arrestarsi, che non possiamo mai fermare questi sistemi su significati ultimi o su un significato ultimo. È qui evidentemente l’inizio di una riflessione metafisica che arriva molto lontano e che è in realtà profondamente atea, poiché i sistemi teologici fanno di Dio il significato ultimo. Sarebbe difficile concepire che Dio sia il significante di qualche cosa; Dio è ciò che è significato, è lui che è all’origine in quanto significato ultimo ed è lui che è in qualche modo all’inizio di tutte le catene di simboli e trasformazioni significanti. A partire dal momento in cui si afferma che non c’è alcun significato ultimo e che i segni sono sempre sistemi infinitamente arretranti di differenze, è evidentemente una contestazione radicale portata alla teologia e alla nozione stessa di origine. È un modo di 94 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes pensare o esaurire3 l’origine, poiché, in un processo infinito di differenze, non si può più pensare l’origine stessa. Una struttura, finora, è stata sempre pensata come dotata di un centro. Ora, con ricerche e formulazioni come quelle di Lacan, Lévi-Strauss, Derrida si è ancor più obbligati a tentare di pensare strutture decentrate, perché il linguaggio è diventato qualcosa di estremamente importante. Non è una questione di moda o di casualità ma perché effettivamente il linguaggio appare come esempio di una struttura decentrata. In un dizionario, ad esempio, si può ricostruire la struttura delle parole o dei sensi tra di essi ma non si può mai, per esempio, definire una parola con l’aiuto di altre parole. È dunque teoricamente un oggetto vertiginoso. Se non lo maneggiamo come un oggetto vertiginoso, è per una ragione di pura contingenza, poiché ci fermiamo di colpo al primo segno che ci dà la definizione di una parola, ma se volessimo trattare teoricamente il dizionario per ciò che è, a ogni parola che ci serve a definirne un’altra bisognerebbe risalire alla definizione di questa parola e così di seguito. Di conseguenza non si arriverebbe mai a strutturare, a centrare la struttura. Infine, un terzo livello di responsabilità di tutti questi problemi è quello offerto da questa avanguardia letteraria di cui ho già parlato e che chiamerò livello politico. Possiamo domandarci effettivamente se non ci sia una sorta di rapporto macrostorico, al livello delle grandi tipologie di società o di civiltà, tra una certa elaborazione dei sensi, dei sistemi di sensi e degli strumenti di potere o di produzione come il denaro. C’è forse una sorta di rapporto tra il senso e il denaro, una stessa concezione del valore, del valente per. È un fenomeno molto significativo che termini che si applicano all’economia e alla moneta si 3 Gioco di parole basato su /penser/ e /dépenser/. 95 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes applichino ugualmente al linguaggio e, da quando de Saussure ha voluto cercare un termine di paragone per spiegare cosa fosse la lingua, molto innocentemente, ha preso come metafora l’economia politica. Ora, se studiassimo meglio certi sistemi di segni della nostra società di consumo centrata sul denaro, ci accorgeremmo dei rapporti stretti e dei rapporti organici tra certi regimi di senso e certe leggi del consumo. È ciò che volevo tentare di suggerire studiando il linguaggio della moda. Nella moda, in realtà, ciò che fa vendere non sono solo rappresentazioni di tipo onirico legate a forme d’abbigliamento, nonostante gli sforzi dei giornali di moda su questo aspetto. In realtà, ciò che costituisce la moda come oggetto di mercato è che essa è costituita come un sistema di segni. Nella moda, non è il sogno, ma il senso che fa vendere. 96 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno 5 Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes Roger Caillois III. Ecolalie di un ordigno iconico La Semiologia come decostruzione della linguistica in Barthes e Pasolini1 di Giuseppe Crivella Più o meno negli stessi anni in cui si compiva per Barthes la decisiva transizione verso il territorio delle immagini, anche un altro intellettuale in modo sempre più radicale si stava muovendo secondo la stessa traiettoria. Se per il primo si trattava di spostarsi da una semiologia di stampo prettamente saussuriano, e quindi linguistico, verso una fenomenologia selvaggia, per il secondo lo slittamento avveniva in vista di quella che egli stesso di lì a qualche anno avrebbe definito «Linguaggio Scritto della Realtà» o anche «soliloquio vitale della realtà con se stessa».2 Sia Barthes che Pasolini ad un certo punto avvertono quindi l’angustia dei limiti metodologici e teorici della nascente semiotica e così da una parte sentono che il segno frustra senza remore l’esistenza inquieta dell’oggetto, mentre dall’altra notano che esso, trasferito nel campo proprio della immagine, è in grado di dispiegare delle potenzialità critiche e speculative inedite e inattingibili, se limitato al solo medium linguistico. Se per Barthes il rapporto con l’immagine si inscrive all’interno di una fitta rete di perplessità, per Pasolini l’immagine erompe al centro della sua riflessione col carattere liberatorio di una rivoluzione inaspettata e felice, non priva tuttavia di ambiguità che esporranno il poeta bolognese a non poche critiche da parte di molti semiologi italiani – è, ad esempio, molto nota la querelle nata con L’espressione Semiologia come «decostruzione della linguistica» è di Barthes, cfr OC V, p. 439. 2 P. P. Pasolini, Empirismo eretico, Garzanti, Milano, 1991, pp. 191 e 244. Da ora in nota sempre con EE. 1 97 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes Umberto Eco a proposito dell’esistenza o meno di una doppia articolazione3 in seno al linguaggio cinematografico — nonché a sinceri apprezzamenti soprattutto oltralpe, dove studiosi come Metz e Deleuze più volte esprimeranno la loro ammirazione nei confronti degli studi di Pasolini sull’immagine cinematografica.4 Si prenda Roland Barthes par Roland Barthes, testo del 1975, exemplum di una ricostruzione autobiografica che cerca di alleggerire la funzione e la nozione di soggetto/scrittore: la meditazione che apre il volume testimonia immediatamente una fascinazione anodina ed oscura che l’autore accusa dinanzi alle immagini, quella fascinazione che Barthes più volte nel corso della sua opera tarda chiamerà sidération5, alludendo con tale espressione ricorrente a una sorta di potere meduseo di cooptazione sibillina dello sguardo e del pensiero connaturato alle immagini, del tutto opposto invece a quella jouissance du Texte che Barthes aveva avuto modo di sperimentare e di riconoscere come strutturale a certi tipi di scritture pochi anni prima ne Le plaisir du texte6. Per Barthes sembra che l’immagine affiori come qualcosa di spettrale da un fosco fondo di irredimibile passato, intriso di un’atmosfera che risuona con accenti struggentemente funerei. L’immagine però qui non rappresenta una minaccia, piuttosto costituisce una sorta di tenebroso turbine di immobilità ove la memoria rischia di insabbiarsi come un relitto deragliato fuori dal tempo. È forse proprio per questo motivo che l’autore suddividerà quel formidabile miroir d’encre7 che è Roland Barthes par Roland Barthes in due sezioni ben distinte: la prima 3 Cfr. U. Eco, La struttura assente, Bompiani, Milano 1969, pp. 276280. 4 Cfr. G. Deleuze, L’image-mouvement, Minuit, Paris 1983, p. 46. 5 «Images qui me sidèrent», cfr OC IV, p. 581. 6 OC IV, pp. 216-265. 7 Riprendiamo qui la formula dal bel testo di Beaujour, Miroirs d’encre, Seuil, Paris 1980. 98 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes dominata dalle immagini, ove il testo solo a fatica riesce a star dietro alle fotografie che cercano di ricostruire in modo frammentario e quasi episodico l’épars di una vita che ci si sforza di vedere dall’esterno, la seconda “fatta” solo di scrittura, dove non c’è più posto per le immagini. Anche applicata all’immagine quindi la semiologia barthesiana rimane una semiologia del testo contro l’opera, del senso progettato e vissuto come molteplice volume in fuga contro lo strato contratto dei significati ossificati di una tassonomia linguistica prima e culturale poi che non ammette evasioni o effrazioni. Ciò accade perché ancora nel ‘75 l’immagine per Barthes appartiene al dominio dell’analogico puro8, alla dimensione protervamente mimetica di un segno asservito alla aderenza piena del reale, appartiene quindi ad una pratica di generazione precostituita del senso ove forse è possibile scorgere a ben guardare una sorta di velato crittogramma del potere. Sappiamo tuttavia che Barthes di lì a poco supererà questa diffidenza — questo timore — per l’analogia, da una parte orientandosi sempre più verso il cinema dei russi e la scrittura di Diderot, dall’altra facendo della sua mirabile scrittura, prensile e manipolatrice, una sorta di piccolo museo privato e trasversale ove ospitare riflessioni sulle opere di Réquichot e Masson, Arcimboldo e Erté, von Gloeden e Cy Twombly9, ravvisando soprattutto in quest’ultimo un connotato particolare dell’immagine, la quale viene a collocarsi su quella frontiera invisibile che Barthes aveva lungamente percorso e meditato durante il suo soggiorno nipponico10 e lungo la quale il segno è colto 8 In Roland Barthes par Roland Barthes vi è un testo dedicato proprio a ciò che l’autore chiama, riprendendo un’’espressione di Mallarmé, Démon de l’analogie e che inizia dicendo: «la bestia nera di Saussure era l’arbitrario (del segno). La [mia] è l’analogia». Cfr. OC IV, p. 624. 9 Tutti scritti poi raccolti ne L’obvie et l’obtus, Seuil, Paris 1982. 10 Cfr. L’empire des signes, «testo e immagini, nel loro incrocio, vogliono assicurare la circolazione, lo scambio di tali significanti: il 99 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes da un vacillamento felice e irriducibile che lo porta a fare della parola un disegno epurato d’ogni obbligo referenziale e del disegno una parola liberatasi ormai di ogni precostituita disposizione semantica, una specie rarissima e fugace di scrittura apolide e policefala la quale confonde i domini che attraversa, scompagina i significati che veicola, disorienta e sventa l’entrata in gioco di ogni ratio seccamente rappresentativa, facendo del segno una figura anfibia che galleggia e scompare all’incrocio di innumerevoli codici, ormai frananti l’uno sull’altro, l’uno nell’altro. Anche nei confronti del cinema Barthes non ha poche resistenze: lo schermo prima bianco e poi nero, solcato da lampi e bagliori, rappresenta per il suo occhio uno spazio periclitante di visioni ingannevoli; l’immagine divora lo sguardo, dispiega un’area di ingestibile captazione ove la vista finisce con lo sprofondare nel non-luogo di una figura che, nel tendere il proprio tranello ricorrendo ai protocolli della più schietta verosimiglianza, insuffla di concerto in esso le forme sibilline di un immaginario impersonale, sottilmente trans-elaborato dalle sapienti e inapparenti logiche sottocutanee della ideologia: l’immagine filmica che cos’è? Un inganno [leurre]. Bisogna intendere questo termini nel senso analitico. Io sono chiuso con l’immagine come se fossi preso nella famosa relazione crudele che fonda l’Immaginario. L’immagine è lì, dinanzi a me, per me: coalescente (il suo significante e il suo significato sono ben fusi), analogica, globale, pregnante; è un inganno perfetto: io mi precipito su di essa come l’animale sul lembo di panno rassomigliante che gli si tende.11 corpo, il viso, la scrittura, e leggervi il ritrarsi dei segni», cfr. OC III, pp. 348-445. 11 Si tratta un breve scritto del 1975 intitolato appunto Uscendo dal cinema. Cfr. OC IV, p. 782. Traduzione nostra. Va detto però che già nel luglio del 1964 Barthes per la rivista Image et son aveva affrontato il problema del rapporto tra cinema e semiologia – cfr. OC II, p. 622628 – in un intervento nel corso del quale egli, dopo aver messo in luce 100 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes Analogico e ideologico per Barthes sono legati da una ferrea alleanza, vigorosa e vischiosa: la rassomiglianza strangola il pensiero, ingabbia il senso, ne arresta la fuga assiderandolo nelle anguste maglie di un linguaggio piattamente figurativo che non ammette deroghe o infrazioni, tranquillizzante perché condiviso, condiviso perché stereotipo. L’immagine però ad un certo punto smette di essere tale, la sagomatura sul reale è condotta talmente in profondità che essa subentra a quello. L’immagine aderisce senza resto alla carne della verità, consumandone ogni spessore riposto. Lo spettatore si trova così incollato alle cose stesse tramite il medium imitativo, che a poco a poco scompare erodendo ogni spazio di distanza critica tra l’occhio e la figura. La coscienza dello spettatore è così portata a coincidere senza resto, in una identificazione morbidamente coatta con ciò che crede essere il proprio immaginario e che invece non è null’altro che il prodotto messo a punto dalla ideologia, la quale dispiega sullo schermo le proprie potenzialità di sottile contraffazione. Ipnosi, fascinazione, siderazione: il vocabolario di Roland Barthes ruota attorno ad una vicenda di minuto scollamento del soggetto dalla propria facoltà immaginativa, dalla propria visione, dal proprio occhio, che diventa l’insituabile spazio di contaminazione e collisione tra flussi di immagini eterogenei e tuttavia in grado di fondersi e trasfondersi in un processo di coalescenza inavvertibile, la quale schiaccia l’io stesso dell’individuo sulle immagini dello schermo. i limiti effettivi di una ipotesi di trasponibilità dei parametri esplicativi della linguistica ai codici filmografici, si soffermava sulla necessità di analizzare in primis l’image seule. Alla luce dei suoi studi futuri sull’immagine fotografica e sul fotogramma, ci sembra che Barthes già in questo primo scritto avesse le idee piuttosto chiare su come avvicinarsi alla dimensione dell’immagine tramite un arsenale critico desunto dalla linguistica e della semiologia. 101 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes Ecco che si viene a creare ciò che Barthes, con una espressione felicissima, chiama circolo duale12: il soggetto si trova collocato al centro di uno spazio concreto, materiale — la sala del cinema — che in realtà esiste solo all’interno dello spazio immaginario dell’io, come una presenza malignamente parassitaria che alligni in esso sostituendosi ad esso. È proprio per questo motivo che Barthes si concentra molto sullo schermo e su ciò che precede l’apparizione delle figure su di esso. La stessa malizia decostruttiva che egli aveva messo in opera nei confronti della scrittura, ora egli la applica al cinema, approntando una sorta di fluido e lacunoso metalinguaggio filmografico che scompone il meccanismo di proiezione negli elementi che lo costituiscono, disponendoli e allineandoli in una sorta di instabile asse paradigmatico di eterocliti tratti pertinenti, in modo da poterli analizzare anteriormente alla loro flessione sintagmatica: in questo cubo opaco, una luce: il film, lo schermo? Sì, certo. Ma anche (ma soprattutto?) visibile e non percepito, questo cono danzante che buca il nero, come un raggio laser. Questo raggio si converte, secondo la rotazione delle sue particelle, in figure mutevoli; noi giriamo il nostro sguardo verso la moneta di una vibrazione brillante il cui imperioso getto passa radente sul nostri cranio, sfiora […] una capigliatura, un volto. Come nelle vecchie esperienze di ipnotismo, siamo affascinati, senza vederlo frontalmente, da questo luogo brillante, immobile e danzante [...]. Tutto accade come se un lungo stelo di luce venisse a sagomare una serratura e noi vi guardassimo attraverso, siderati da questo buco.13 Cinque anni prima di questo testo, è noto, Barthes aveva dedicato un piccolo saggio ad Ejzenštein, intitolato Le troisième sens14. I due scritti vanno letti insieme: il primo nasce come riflessione sulle possibilità di liberazione del senso, mentre il secondo è una meditazione sulle 12 Ivi, p. 781. Ivi, p. 780. Traduzione e corsivo nostri. 14 OC III, pp. 485-526. 13 102 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes dinamiche di frustrazione e castrazione del senso. Il film adesca l’occhio e il pensiero, allude ad una seconda natura che viene confusa con la prima. Lo spettatore è proiettato in una emanazione illusoria che non riesce a recepire e a vivere come tale. Per questo è necessario quel capillare smontaggio genetico che il saggio su Ejzenštein mette in campo, i cui scritti teorici sul cinema appaiono agli occhi di Barthes altrettanto importanti per déjouer gli inganni dei linguaggi figurali come lo era stato decenni prima per lui la lettura e lo studio del Cours saussuriano. E non è un caso che egli vada ad analizzare il fatto cinematografico partendo dal fotogramma, riducendolo quasi completamente al fotogramma, letto come un frammento esplosivo depositario di una carica semantica ad altissima potenzialità dissociativa liberata nell’attimo in cui la sequenza di immagini viene bloccata e segmentata nel fascio dei suoi formanti. La siderazione per forza di cose deve interrompersi, così come la fascinazione è messa in mora, svelata quale risultato più che sospetto, e quindi arrestata, condotta quasi a decomporsi. L’occhio vaga sulla superficie opaca del fotogramma in cerca del referente-zero che veicolerebbe il senso, rimanendo però deluso, frustrato da questa ricerca che si arena in un pulviscolo cristallizzato di figure mute. Concepita così la originalissima semiologia barthesiana pare affine ad una puntiforme e circostanziata epochè15, la quale riesce a far apparire una sorta di eidetica vuota o del vuoto, ponendo le premesse per una intuizione cieca ove il senso instillato in essa dall’inganno della morbida violenza analogizzante finisce per circolare libero da ogni rassomiglianza, si diffrange in una serie di aderenze sempre inadeguate e illogiche rispetto a quanto viene rappresentato, fino ad evaporare in una rarefatta In un testo del 1978 intitolato L’image Barthes parla esplicitamente di epochè, come sospensione delle immagini, cfr OC V, p. 518. 15 103 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes ascesi semantica molto affine a quella prodotta dal satori, nella cui fenomenologia obliqua ciò che finalmente può apparire è una geologia differenziale16 non tanto dei sensi veicolati dell’immagine quanto delle possibilità stesse dell’immagine di trasmettere sensi che ne siano la paradossale contestazione intestina. È sulla base di questa prospettiva che Barthes, durante gli ultimi anni della sua attività di critico, più meno nello stesso periodo in cui poneva mano a La chambre claire, si avvicina all’opera di Bernard Faucon e soprattutto di Daniel Boudinet, il cui scatto dal sapore lynchano intitolato Polaroid è posto in esergo al testo del 1980 sulla fotografia. E proprio per alcune immagini di Boudinet nel 1977 Barthes scrive una serie di brevi commenti che sembrano contrassegnare il momento della sua definitiva conciliazione col mondo delle immagini. Créatis è il titolo della sequenze di scatti che il fotografo aveva dedicato a paesaggi e scorsi di vita campestre ove Barthes può finalmente leggere la presenza di una natura vissuta come massa vegetale tendente all’amorfo, al non culturalizzato, espressione di una immagine che con forza e delicatezza cerca di eludere ogni ottemperanza ad una forma codificata. La bellezza della natura qui appare come qualcosa che si mostra ma non si dice, tramite segni che vanno letti unicamente come «geroglifici dell’animato»17, segni della sua stessa sospensione, tracce sparse tramite cui raggiungere una catarsi sottile dal centro della quale la rappresentazione comunica direttamente col denso mostrarsi di una natura presente e ancestrale. Non deve stupire allora che Barthes chiuda il suo commento sull’immagine ravvicinata del terreno costellato di residui organici, di frammenti d’ossa, radici annodate e foglie marce: 16 17 Ivi, p. 516. OC V, p. 526. 104 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes la terra vista da vicino: humus, rametti spezzati, acqua stagnante, frantumi: germinazione e corruzione. Un fringuello, carne dal gusto forte, un cavolo roso dalla suzione delle lumache, come un rovesciamento inevitabile della bella Natura arborea che abbiamo appena lasciato 18. Eppure, chiudete gli occhi: gli alberi restano, abbaglianti, nella nostra testa, incisi sul rovescio delle nostre palpebre; non potete disfarvene; vedete, grazie a una sorta di permanenza confusa, non questa o quella immagine, ma una sorta di distesa vegetale, sontuosa e austera, una sorta di invito silenzioso a...«filosofare».19 Completamente diverso appare il caso di Pasolini. In lui da subito l’immagine assume l’aspetto dell’effetto o dell’origine di un sommovimento espressivo che lacera la lingua, vi apre crepe, ne scava la lucida compattezza, la mette in mora a favore della Realtà che essa presume di poter elettivamente riprodurre, comunicare, enunciare. Per Pasolini la lingua è un ordine abusivo imposto alle cose, le quali, interrogate e sollecitate dalla macchina da presa, reagiscono opponendosi alla parola, sopravanzandola, intorbidandola fino al più basso grado di espressività. L’immagine si impone come qualcosa di visceralmente eruttivo, in grado quindi di infrangere la plastica compagine livellante della lingua così da neutralizzarne le diverse classificazioni: alla luce di ciò l’immagine — e soprattutto l’immagine cinematografica — può assurgere al ruolo di pratica speculativa tramite la quale perseguire una «autoterapia inconscia»20 la quale non potrà non condurre a vedere e a intendere la realtà se non come un linguaggio incodificabile. Abbiamo visto che per Barthes l’immagine è un leurre, una trappola di matrice analogica, che non lascia spazio alcuno a ciò che egli nel 1964 aveva chiamato 18 La sequenza di immagini precedenti mostrava per lo più alberi. OC V, p. 529. 20 EE, p. 137. 19 105 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes immaginazione del segno21 e che dunque non concede movimento alla vertigine semiologica poiché già disinnescata alla radice, poiché imbrigliata nel reticolo di indicazioni piattamente referenziali dirette, prodotte e scandite dal frusto protocollo di una uguaglianza infrangibile, di una gemellarità — segno/oggetto — indissociabile e castrante. Di fronte al medesimo fenomeno Pasolini sperimenta l’esatto contrario: l’immagine deflagra silenziosamente nello spazio del segno. Essa incarna l’epifania polisensa dell’inclassé — per usare un termine barthesiano – tracima al di fuori dei codici linguistici sintetizzandoli, contraendoli quasi caoticamente e geneticamente in sé, in una sorta di verticale totalizzazione semantica delle manifestazioni a cui essa dà luogo e da cui essa stessa deriva22. In Pasolini l’immagine si afferma senza mediazioni e in modo improvviso, portandosi dentro la forza informe e palingenetica dell’elementare – quella stessa forza che Barthes arriverà a decifrare solo molto tardi nelle foto di Boudinet e dopo una lunga frequentazione intrisa di scetticismo con l’immagine – dell’ingestibile, della concretezza recalcitrante alle categorizzazioni, simile a una sorda spinta materiale che non ammette alcuna conformazione espressiva definita o definitiva. In Barthes l’immagine parlava da subito il linguaggio corrotto dell’esistenza addomesticata, forse narcotizzata se non addirittura inumata nella propria indefettibile somiglianza con se stessa. In Pasolini tale somiglianza fa invece in modo che nulla la possa imbrigliare o limitare: il cinema diventa quella boîte à vision in cui le cose si 21 OC II, p. 463. Fu proprio questa ricchezza semantica trasversale, la quale salda il minerale e il culturale in un lampo visionario, che attrasse Pasolini della lirica di Zanzotto e della scrittura di Volponi, cfr P.P.Pasolini, Descrizioni di descrizioni, Garzanti, Milano 1984, pp. 369-384. 22 106 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes riappropriano di se stesse, tornano a combaciare perfettamente con la selvaggia dismisura, organica e inorganica, reattiva e repulsiva, propria della loro piena e tortuosa presenza mondana. In Barthes troviamo una estrema cautela nel porsi di fronte all’immagine: essa è l’ombra portata di una luce impersonale — quella della ideologia latente in tutto — la proiezione di un immaginario collettivo condizionante e livellante. In Pasolini di contro troviamo una sorta di organico, tellurico, corporeo rapimento estatico: il suo linguaggio sfocia nel mistico, poiché nell’immagine prende vita una ierofania23 del concreto che risulta inconcettualizzabile. La semiologia di Barthes è una semiologia della riduzione, dell’azzeramento semantico, della selezione precisa e dislocante, della segmentazione disorientante le preformate catene associative: l’immagine va epurata dalle sue trasparenti scorie ideologiche tramite la frammentazione in fotogrammi isolati, rescissi dalle logiche di denotazione diretta. La semiologia di Pasolini è una semiologia della espansione improvvisa, della amplificazione e della proliferazione semantica non sorvegliata, del concatenamento infinito: La Realtà ripresa dalla macchina è immediatamente segno bruto e non vagliato di se stessa, appare nudamente e selvaggiamente in una trama ricchissima di meri «sintagmi viventi»24 che rimandano soltanto alla loro esistenza e alla loro presenza, segni puri della loro completa immanenza a se stessi, pervenendo così a ricostruire quel «soliloquio vitale della Realtà con se stessa»25 che porta Pasolini a far coincidere la Semiologia Generale della Realtà con la semiologia del cinema26. In uno dei passi più penetranti Pasolini argomenta così: 23 Termine ricorrente in Pasolini, cfr EE, p. 263. Ivi, p. 239. 25 Ivi, p. 244. 26 Ivi, p. 252. 24 107 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes mi si consenta la libertà del poeta che dice liberamente cose libere […]. Questa quercia che ho davanti a me, non è il «significato» del segno scritto-parlato «quercia». No, questa quercia fisica qui davanti ai miei sensi è essa stessa un segno: un segno non certo scritto-parlato, ma iconico-vivente o come altro si voglia definirlo. Sicché, in sostanza, i «segni» delle lingue verbali non fanno altro che tradurre i «segni» delle lingue non verbali; o, nella fattispecie, i segni delle lingue scritte-parlate non fanno altro che tradurre i segni del Linguaggio della Realtà.27 L’immagine in tal senso è la fedele trasposizione di quella sorta di immenso monologo che la Realtà intrattiene da sempre con se stessa e che fa in modo che essa non sia altro che la traduzione puntale di una enorme e inesauribile Tautologia metalinguistica in forza della quale ogni oggetto ripreso è soltanto segno di se stesso, in grado cioè di esprimere solo se stesso in una specie di traduzione per evocazione della sua presenza spontaneamente e naturalmente «cifratrice».28 Pasolini, sfoderando una imprevedibile vocazione analitica alla sistematizzazione da semiologo navigato, tra il 1965 e il 1971 muoverà risolutamente da questi assunti per giungere a enucleare i cinque principi-cardine su cui far ruotare tutta la complessa e pluristratificata ricchezza della sua pansemiologia29, incarnatasi nel linguaggio allo stato brado di una ipotetica immagine cinematografica assoluta e priva di tagli, una sorta di piano-sequenza infinito, come più volte egli stesso si trova a definirlo. Inoltre, a fronte di questi cinque principi Pasolini, incrociando i ferri con i più agguerriti semiologi, critici 27 Ivi, p. 264. Corsivi nostri. Ivi, p. 257. Titolo del saggio è res sunt nomina , quasi a postulare la possibilità teorica di una corrispondenza piena e indefettibile di funzioni tra il nome all’interno della catena sintagmatica e la cosa all’interno delle nostre serie percettive continue. 29 Ivi, p. 161. 28 108 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes letterari e scrittori del tempo30, enumererà nel saggio che chiude Empirismo eretico i nove codici che scandiscono e strutturano la messa in forma di una Realtà autosignificantesi, affine cioè a ciò che pochi anni primi Merleau-Ponty aveva definito come «ventriloquia dell’Essere».31 Dal momento che neppure Pasolini ha problematizzato ulteriormente questi nove codici, noi ci limiteremo qui ad elencarli, mentre dedicheremo nelle battute finali qualche parola in più per la precisazione dei cinque assunti. A differenza di Pasolini però noi ridurremo a cinque il numero dei codici dato che, come vedremo immediatamente, quattro di essi possono benissimo essere contratti in un unico sovra-codice32: Ur-Codice o Codice dei codici o Codice della Realtà vissuta: è il primo e il più profondo, ciò su cui poggiano tutti gli altri. È quello in cui avviene la prima. più radicale e immediata auto-cifrazione della presente concreta e vivente delle cose. I. Codice della Realtà osservata: è il momento in cui la Realtà si presenta come oggettiva a un osservatore che si limiti a contemplarla, a guardarla, senza proferire alcuna parola, senza parlarla, ovvero senza tramutare la manifestazione pura delle cose in un codice ad esso improprio, difforme ed estraneo. 2. Tra cui Eco, Segre e Moravia. C’è da dire comunque che autori come Deleuze, Metz e Bellour apprezzeranno molto le analisi di Pasolini e più volte esprimeranno la loro vicinanza ad esse. 31 M. Merleau-Ponty, Le visible et l’invisible, Gallimard, Paris 1964, p. 238. 32 EE, pp. 289-297. Elemento guida di tutta la classificazione è naturalmente l’analogia, qui intesa per forza di cose quale «segno iconico di se stessa». 30 109 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes Codice della Realtà immaginata e rappresentata: ci muoviamo qui ad un livello superiore rispetto al precedente: il terminale è sempre scandito da una prensione ottica o para-ottica, ma il pattern della Realtà riprodotto ha già ricevuto una segmentazione data dal ricordo o dalla riproduzione onirica. Le cose continuano a presentarsi nella loro pura dimensione analogica, ma il soggetto ha già trascelto tra di esse quale far apparire e quale espungere dalla raffigurazione. 3. Codice della Realtà evocata o verbale: è il momento in cui subentra la lingua, ovvero un codice del tutto diverso da quello in cui si esprime la Realtà nel suo monologare. Forzando un po’ la mano potremmo dire che si tratta di un passaggio traumatico poiché il vettore analogico qui si arresta per lasciare il posto ad altre tipologie di codificazione. 4. Codice della Realtà raffigurata o riprodotta: in effetti Pasolini suddivide questo macro-codice in quattro codici: Realtà Raffigurata, Fotografata, Trasmessa, Riprodotta. Noi però proponiamo questa formula sintetica delle quattro varianti perché crediamo che, sebbene le formule di organizzazione sintagmatica del materiale siano molto diverse tra di loro anche in relazione al medio scelto per la coordinazione, il principio che ne sta a fondamento sia il medesimo, ovvero la selezione all’interno del primo codice di una porzione limitata di Realtà, la quale quindi viene condotta a dire se stessa secondo un montaggio di elementi che rischia sempre di snaturarla o di alterarla. In questo codice quindi Pasolini torna a far operare la matrice analogica, ma sulla base di un sistema di coordinazione che non appartiene direttamente alla analogia pura del primo codice. Quest’ultima tipologia sembra una specie di ibrido tra i codici a prevalenza analogica e quello travagliato dalla lingua: la cosa si mostra nella sua 5. 110 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes presenza ma questa è inserita in una catena frastica che la strappa dalla elocuzione naturale per incassarla in un discorso che obbedisce ad altri criteri ad essa eterogenei. Queste cinque tipologie di codice hanno alla loro base cinque assunti cardinali a cui Pasolini dedica molte pagine della terza sezione di Empirismo eretico. Naturalmente non è possibile stabilire una corrispondenza biunivoca netta tra la prima serie — quella dei principi — e la seconda — vertente sulla enucleazione dei codici — ma certo è indubbio che tra le due vi sia una strettissima correlazione. I cinque assunti però si trovano allo stato sparso all’interno dell’opera, Pasolini non ha mai cercato di darne la lista completa; nonostante ciò essi sono facilmente reperibili e, come era accaduto per i codici, desumibili secondo una matrice di derivazione da quello più profondo e prossimo all’incessante mormorio della Realtà a quello più superficiale, prossimo a tecniche di messa in forma della dicibilità che rischiano di allontanarsi della prima, aurorale parola-presenza degli oggetti. Ecco dunque i cinque principi della pansemiologia pasoliniana: I. La Realtà naturale è un linguaggio costituito da segni che rivelano se stessi. L’ontologia pertanto è una sorta di immensa «tautologia autorivelantesi» presa in un continuum di processi senza evoluzione, pura e bruta diacronia. Da ciò è desumibile una «grammatica magmatica» che si esprime tramite il vettore analogico, il quale fa della percezione sensoriale l’espressione più diretta del codice sottostante a tutti degli oggetti come simboli figurali di se stessi.33 Ivi, pp. 193-197 e 279-281. «L’analogia è su superfici profonde», p. 230. 33 111 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes Tale grammatica magmatica dà luogo a delle immagini primordiali le quali esprimono una fenomenalità irriducibile del reale che non può corrispondere al linguaggio proprio del codice scritto-parlato. Pasolini chiama tale immagini im-segni o cinèmi, i quali sono in primis ingerarchizzabili e in secundis esibiscono tre caratteristiche ineliminabili: II. a. sono pre-umani (comunicano un mondo anteriore allo sguardo umano), b. sono pre-grammaticali (comunicano un mondo anteriore alla parola umana), c. sono pre-morfologici (comunicano un mondo anteriore alle concettualizzazioni umane)34. I cinèmi si muovono su una dimensione translinguistica che costituisce una sorta di infrastruttura intensiva di segni autorivelantesi in grado di esprimere forme, oggetti, stati di mondo.35 III. Vista in tal senso la Realtà va colta nella sua mera manifestazione, quale «ontologia depragmatizzata», in cui il pragma che appare è unicamente inteso in termini di enigma, carico di sfumature afferenti quasi alla sfera del numinoso, ma di un numinoso ancestrale, privo di un qualsiasi dio antropomorfo, un numinoso «vedicospinoziamo».36 IV. Anche il cinèma è analizzabile tramite doppia articolazione; usciamo qui dalle ramificazioni dell’Urcodice per entrare nelle formulazioni dei linguaggi derivati, i linguaggi integrati37. Nel caso dell’immagine V. 34 Ivi, pp. 259 e 169. Ivi, p 199. 36 Ivi, p. 280. Ivi, p. 280. 37 Ivi, p. 250. 35 112 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes cine-fotografica il cinèma per esprimere qualcosa ha bisogno di individuare un oggetto — o una forma o uno stato del mondo — sulla base di una selezione che si innesta in esso in seconda battuta: nasce in tal modo prima la pragmatica della inquadratura e poi la logica del montaggio che, nell’ottica di Pasolini, se usati a dovere possono a tutti gli effetti divenire i veicoli per una «possibile riapparizione della Realtà».38 Come è possibile vedere da questi pochi cenni, siamo molto lontani da Barthes. Bisognerà aspettare La chambre claire perché anch’egli arrivi a posizioni affini a queste di Pasolini. L’operazione di vidage du sens proposta per la letteratura verrà trapiantata nel mondo delle immagini solo nel corso del suo ultimo testo. Dedicato a L’imaginaire di Sartre, mosso da una ispirazione para-husserliana che condurrà l’autore ad individuare in certi scatti di Kertész una curiosissima «noesi senza noema»39, sarà con questo saggio del 1980 che Barthes riuscirà a trasformare la pragmatica della Spectatio in quel campo unico di osservazione intensa ove far collimare finalmente la interminabile fissazione dell’oggetto con la imponderabile fissione dei sensi.40 38 Ivi, p. 276. OC V, p. 878. 40 Ivi, p. 869. 39 113 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno 5 Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes Roger Caillois IV. Scenografie logoclaste. Barthes e Benjamin di fronte all’immagine di Giuseppe Crivella I percorsi che conducono Benjamin e Barthes a confrontarsi con la multiforme sfera di fenomeni afferenti alla dimensione dell’immagine sono estremamente differenti. Per il pensatore tedesco il primo incontro cruciale avviene di certo negli anni ’20, durante le intense e sofferte fasi di stesura del lavoro sul Dramma barocco. È stato Rolf Tiedemann ad aver ricostruito questo momento così importante per lo sviluppo successivo di tutta la riflessione del berlinese: nella sua raccolta del 1973 Studien zur Philosophie Walter Benjamins egli in più punti delle sue analisi mette in luce quanto le dinamiche di significazione legate all’allegoresi aprano dinanzi a Benjamin un nuovo orizzonte di problemi in buona parte orbitanti attorno all’universo dell’immagine, il quale tuttavia verrà attentamente esplorato da Benjamin soprattutto con il Passagenwerk e con dei saggi isolati, come ad esempio quello dedicato a Proust1. Ecco come Tiedemann verso la fine del volume compendia tale stato di cose: le immagini dialettiche [dell’opera sui Passages] sono immagini autenticamente storiche e non sono affatto delle immagini arcaiche. Esse posseggono un indice storico che però non le ascrive unicamente ad una certa epoca determinata ma fa sì che esse divengano piuttosto leggibili solo a partire da una certa epoca. Tale divenire-leggibile è il punto critico ravvisabile in seno a queste immagini […]. 1 R Tiedemann, Études sur la philosophie de Walter Benjamin, trad. fr. di R. Rochlitz, Ed du Sud, 1987, pp. 63-64, 124-125. 114 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes L’immagine dialettica del Passagenwerk è l’Idea del Dramma barocco giunta a maturazione.2 Che l’immagine stesse per assumere un ruolo sempre più preponderante nella riflessione del berlinese è evidente anche da un altro aspetto: basta vagliare brevemente la bibliografia critica che Benjamin cita in nota alla sua dissertazione sul Trauerspiel per capire quanto la ricostruzione dei problemi dell’immagine fosse capillare e oltrepassasse il semplice gusto documentario, andando a toccare invece direttamente e per la prima volta in modo così pregnante un punto sensibile della sua riflessione ancora non del tutto esplicitatosi. Non deve stupire allora che egli risalga addirittura fino al primo trattato di filosofia delle immagini, ad opera di un gesuita francese di nome Menestrier autore di una Philosophie des images edita nel 1683.3 Per quanto riguarda Barthes stabilire il momento in cui l’immagine inizia ad imporsi alla sua attenzione sembra essere più agevole. Esso dovrebbe collocarsi più o meno negli anni ’70, allorché egli inizia a interessarsi in misura crescente alla fotografia e al cinema. Ma in realtà non è così. Anche per Barthes il tramite riposto e inapparente che lo porta ad analizzare l’immagine è la letteratura: si prendano, a sostegno di tale ipotesi, i saggi consacrati a Robbe-Grillet degli anni ’60, raccolti poi in Essais Critiques: le precise disamine che egli sviluppa hanno tutte alla radice un elemento che stringe fortissimi legami con l’immagine, a tal punto che i romanzi di Robbe-Grillet vengono letti come montaggi devianti di fotogrammi instabili che non smettono di scivolare l’uno sull’altro, di accavallarsi, di sconfinare l’uno nello spazio grafico 2 Ivi, p. 164-165. Corsivi nostri. Cfr inoltre R. Tiedemann, Dialektik im Stillstand. Versuche zum Spätwerk Walter Benjamins, Suhrkamp Frankfurt 1983, pp. 101-106. 3 W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, ed. it. a cura di E. Filippini, Einaudi, Torino, 1980, p. 179 n. 115 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes dell’altro fino ad una sorta di mobile plastica figurativa che scompone i luoghi, le identità, le situazioni. Naturalmente Robbe-Grillet non è l’unico ad essere analizzato con questo formidabile filtro esegetico; più o meno una metodologia affine si trova messa in campo anche per Bataille e la sua Histoire de l’œil in cui Barthes riconosce come modello specifico della tecnica narrativa dell’autore la legge dell’immagine surrealista che disarticola4 le associazioni tradizionali di parentela tra i termini prelevando ciascuno di essi da catene semantiche e linee sintagmatiche differenti. L’effetto è quello di un tremito del senso che porta la letteratura al di fuori dell’ambito propriamente linguistico per farla deflagrare in un campo di sviamenti della significazione che solo più tardi riconoscerà nella immagine — foto/cinematografica — il proprio terreno elettivo. Più o meno sono note a tutti le osservazioni che Barthes dedicherà a questi processi di significazione consegnate nel volume che sintetizza meglio di tutti tale transizione, ovvero l’Obvie et l’obtus, nel quale l’autore raccoglie i suoi saggi su ciò che esso denomina arts dioptriques5, mentre forse meno conosciute sono le riflessioni che Barthes elabora sempre in merito all’immagine verso la metà del 1978 — cioè più o meno nello stesso periodo in cui stava raccogliendo i materiali per La chambre claire — e presenti nell’ultimo scritto dello studio su Sollers, L’oscillazione, in cui egli si esprime così: Sollers vuole evitare che l’immagine si rapprenda. Insomma tutto si gioca non al livello dei contenuti, delle opinioni, ma delle immagini: è l’immagine che la comunità vuole salvare sempre […], perché è l’immagine il suo nutrimento vitale e questo in misura sempre crescente: sovrasviluppata, la società moderna non si nutre più di credenze (come un 4 OC II, p. 493. Alfieri delle arti diottriche sono Diderot, Ejzenštejn e Brecht, cfr. R. Barthes, OC IV, pp. 456. 5 116 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes tempo), ma di immagini. Lo scandalo sollersiano deriva dal fatto che Sollers si impegna nei confronti dell’Immagine, sembra voler impedire in anticipo la formazione e la stabilizzazione di ogni Immagine.6 Va detto inoltre che tale saggio su Sollers si colloca all’interno della produzione tarda di Barthes come un vero e proprio campionario dei motivi e dei temi che negli ultimi cinque anni di vita del grande critico letterario avrebbero occupato tutta la sua attenzione e il suo lavoro. Tra di essi svetta la contestazione del principio rappresentativo di certa letteratura. In uno scritto anteriore di cinque anni all’Oscillazione infatti Barthes recupera in parte le sue analisi sulla infrazione delle catene associative svolte nel testo su Bataille per applicarle alla scrittura sollersiana: ancora una volta l’immagine spodesta la centralità del segno linguistico erodendo dall’interno quella tirannia del significato vista e vissuta dall’autore come l’impostura del senso acquisito. Destituire la rappresentazione per Barthes e Sollers significa però ridare al segno il suo giusto peso referenziale, consiste cioè nel ridisporre all’interno del linguaggio la sostanza sensuale delle cose, caricandolo di una tumescenza leggera ma insopprimibile. A qualche anno di distanza da La chambre claire Barthes pertanto sembra già alludere qui a quel «risveglio dell’intrattabile realtà»7 che chiuderà lo scritto sulla fotografia. Se torniamo un attimo allo studio di Benjamin sul Trauerspiel possiamo constatare che valutazioni affini sono ravvisabili anche presso il pensatore berlinese. Tralasciando qui i passaggi sul rebus, vorremmo qui soffermarci piuttosto sulle due sezioni della seconda parte dedicate rispettivamente alla enucleazione esplicita di una teoria delle immagini barocche e ad una messa a punto 6 7 R. Barthes, OC V, p. 620. Traduzione nostra. Ivi, p. 885. 117 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes degli Elementi di una teoria del linguaggio barocco8. A proposito di alcuni drammi di Harsdörffer Benjamin ad esempio si esprime in questi termini: dalla teologia alla filosofia della natura e dalla morale giù giù fino all’araldica, al poema d’occasione e al linguaggio amoroso il repertorio dei requisiti intuitivi è illimitato. Per ogni nuova idea il momento dell’espressione coincide con una vera e propria eruzione di immagini il cui effetto è che la massa delle metafore si presenta caoticamente sparpagliata […]: «universa rerum natura praebet huic philosophiae (imaginum)».9 Deprompta symbola chiamerà poco oltre Benjamin, prendendo l’espressione in prestito da Menestrier, questi segni ambigui, frutto di una ibridazione ostinata e radicale tra la compagine propriamente linguistica e la dimensione di immagine che in essi affiora in modo sempre più perturbante, a tal punto che la Philosophia imaginum assurge quasi a disciplina-madre da cui far discendere tutte le altre scienze, sorta di paradossale succedaneo della teologia — divenuta anch’essa ancillare alla emblematica — in un mondo dominato da quella dilazionante dilatazione della trascendenza10 dove l’uomo, privo ormai di ogni escatologia, si sente trascinato verso una cataratta mentre del metafisico non restano che vestiboli in rovina. È però nelle pagine dedicate alla teoria del linguaggio barocco che è possibile trovare qualche analogia sorprendente con quanto abbiamo detto in merito a Barthes. In questa sezione infatti il filosofo berlinese nota come i processi di allegoresi conducano in molti casi i pensieri dei personaggi a dissolversi in immagini, in serie di immagini incontrollabili, tanto che l’autore giunge ad osservare quanto queste liriche siano cariche di sfarzo materiale, per poi chiosare: 8 W. Benjamin, Op. cit., pp. 208-213. Ivi, p. 178. Il passo tra caporali proviene dal trattato di Menestrier. 10 Ivi, p. 48. 9 118 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes al dramma barocco tedesco [...] non è dato dar voce al suo elemento geroglifico. Perché la sua scrittura non si trasfigura in suono; anzi, il suo mondo resta del tutto autosufficiente, intento a dispiegare la propria veemenza. La scrittura e il suono restano contigui, compresi in una polarità carica di tensione [...]. La discrepanza tra il geroglifico significativo e l’inebriante suono delle parole costringe lo sguardo, quando il compatto massiccio del significato delle parole si dirompe, a penetrare nella profondità del linguaggio [...]. La parola ha una lussuria estranea al mondo, perduta dentro l’immagine.11 L’immagine erompe dall’interno del linguaggio stesso, il quale è così sottoposto ad una pressione interna che lo porta a dischiudersi in una sorta di complessa trama geologica del proprio farsi e disfarsi, sempre sul limite tra la sua opaca ma originaria densità sonora e la sua propulsione figurale a dissociarsi in un profluvio di designazioni che rimandano, antiteticamente rispetto alla propria natura, ad un mondo di oggetti concreti colti però in una sorta di attonita fissità minerale: in tal senso ogni cosa, potremmo dire citando Cysarz, si trova laminata a immagine.12 In Barthes e Benjamin, attraverso un movimento duplice e sottilmente ambiguo, linguaggio e immagine, scrittura e figura vengono colti in uno spostamento incrociato dei rispettivi assi di significazione, i quali entrano in contatto generando una tensione che sfocia in un sussulto affine ai contraccolpi di una sincope grazie alla quale la parola si trova trasfigurata in cosa, e il significato in un brulicare di visioni quasi prive di soggetto percipiente. Dal segno scritto vediamo quindi emergere una eruttiva immaginazione figurale che scompagina la grammaticalità del portato linguistico, così che la realtà non si trova più 11 12 Ivi, pp. 212-213 e 187. Corsivi nostri. Ivi, p. 209. 119 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes ad essere semplicemente significata da un codice ad essa estraneo, ma questa stessa realtà si assiepa dinanzi noi e dalla sua fosca compattezza un occhio invisibile a tratti affiora con l’intento sinistro e enigmatico di osservarci mentre lo fissiamo senza vederlo, ipostasi di quello «sguardo con cui le opere d’arte guardano l’osservatore» tanto caro ad Adorno.13 Ma se appaiono diversi i percorsi che conducono Benjamin e Barthes all’immagine, affini ci sembrano gli esiti a cui essi pervengono. Se le rapide osservazioni svolte finora sono corrette, non deve sorprendere in alcun modo il fatto che i due pensatori dedicheranno i loro ultimi scritti all’immagine, utilizzata come un possente e polimorfo dispositivo critico che essi utilizzano per uscire dai loro stessi procedimenti analitici messi a punto negli anni precedenti. È per questo motivo che sia Barthes che Benjamin consegnano le loro estreme riflessioni sulla Storia, sulla letteratura e la critica letteraria, sull’arte come nucleo di contestazione endogeno alle forze che la generano, sulla società, il potere e il politico ad uno studio sull’immagine, trasvalutata in una forma aporetica di razionalità che riesce a criticare e ad erodere dall’interno la ragione strumentale senza però sottrarlesi. Per Benjamin sono due i testi in cui tale impresa viene tentata: la Piccola storia della fotografia e L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica14, composti intorno al 1931 la prima e a cavallo tra il 1936 e il 1937 la seconda, con vari rimaneggiamenti successivi. 13 Th. W. Adorno, Teoria estetica, ed. it. a cura di E. de Angelis, Einaudi, Torino 1977, 207. Per un'analisi più approfondita su questi ed altri aspetti del pensiero di Benjamin cfr. soprattutto H. H. Holz, Prismatisches Denken, in Über Walter Benjamin, Suhrkamp, Frankfurt, 1968, pp. 62-110. 14 Va detto subito che l'immagine ha un ruolo più che rilevante anche in un altro testo di poco posteriore a questi due e che rappresenta per molti studiosi il vero testamento spirituale del filosofo berlinese, ovvero le Tesi di filosofia della storia. Un’analisi di quest'opera tuttavia ci porterebbe ora troppo lontano rispetto all'oggetto del nostro studio. 120 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes È difficile dire quale sia il nucleo teorico portante di questo testo, per una serie di ragioni: in primis perché Benjamin non vuole proporre una ricostruzione storica né del concetto di riproducibilità, nel della nozione controversa e instabile di opera d’arte; in secundis perché a Benjamin interessa immediatamente vedere come la messa in campo di determinate tecniche di riproduzione artistica provochino una destabilizzante torsione gnoseologica che colpisce alla radice il nostro modo di intuire e di percepire il mondo. Come è noto Benjamin fin dal lavoro sul Trauerspiel è sempre stato interessato a stabilire una linea di continuità tra il fatto estetico e quello conoscitivo; la erkenntniskritische Vorrede che apre il Dramma barocco ha la precisa funzione di svelare i riposti spessori teoretici che abitano la dimensione artistica. Nel saggio del ’37 tale presupposto si conserva in pieno, ma non si trova più raccolto ed esplicitato all’inizio della trattazione, ma piuttosto lo vediamo presente in essa in uno stato di continua perfusione che lo rende tanto più fecondo e dinamico quanto meno riusciamo a focalizzarlo con chiarezza. È proprio per questo motivo che Benjamin già dal terzo paragrafo allude al fatto che il medium in cui si organizza la percezione sensoriale umana ha per forza di cose uno sfondo e un radicamento storici e che pertanto ad ogni vicissitudine storica di rilievo subentra necessariamente «un’altra percezione»15. Lo strumento linguistico, la codificazione propria della scrittura è ormai scomparsa. Immagine, percezione, sguardo occupano tutti il campo della riflessione. Come farà Barthes circa cinquant’anni 15 W. Benjamin, L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, a cura di C. Cases, Einaudi, Torino 1987, p. 24. Da ora in nota abbreviata con ORT. Per un’analisi approfondita della concezione critico-gnoseologica di Benjamin cfr. L. Wiesenthal, Zur Wissenschaftstheorie Walter Benjamins, 1982. 121 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes più tardi, Benjamin accede qui ad una fenomenologia che non ammette mediazioni, inizia cioè a muoversi liberamente sulla soglia sfrangiata e nomade di una fenomenalità del mondo, del reale e delle cose anteriore ad ogni concettualizzazione, ad ogni ragnatela categoriale16 che possa preformare la nostra visione degli oggetti. Sul fatto quindi che la invenzione della fotografia costituisca la nascita del primo mezzo di riproduzione veramente rivoluzionario Benjamin non ha alcun dubbio17 e lo afferma a chiare lettere verso la fine del quarto paragrafo in limine a celebre passaggio sulla dimensione cultuale dell’immagine. Ma in che modo queste due nozioni vengono allora a saldarsi? Il pensatore berlinese vede nella fotografia il momento in cui il valore della esponibilità subentra a quello cultuale, ma tale sostituzione non rappresenta una degradazione dell’immagine, ma piuttosto un suo potenziamento, una imprevedibile trasvalutazione del valore espositivo, che supera quello cultuale in forza del quale una fotografia esibisce uno spazio di apparizione che si impregna di una virtualità rivelativa di cui forse nessun quadro è mai stato capace. Benjamin porta come esempio le strade vuote di Parigi catturate dagli scatti di Atget, luoghi intrisi di una sospensione metafisica in cui l’autore sembra ritrovare i caratteri di quell’insaturabile e angosciante Tiefsinn18 che ossessionava la contemplazione barocca degli emblemi. Alla proporzione analogica proposta nel quinto paragrafo per cui culto: dimensione magico-rituale — esposizione: dimensione di fruizione19 Benjamin apporta 16 Th. W. Adorno, Teoria..., p. 214. ORT, p. 26. 18 W. Benjamin, Il dramma barocco..., p. 139. 19 Su questo soprattutto F. Desideri, Walter Benjamin. Il tempo e le forme, Ed Riuniti, Roma, 1980 e F. Masini, Il travaglio del disumano, Bibliopolis, Napoli 1982. 17 122 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes immediatamente delle rettifiche che finiscono con il contestare quella equivalenza: l’esposizione della fotografia devia dall’asse della semplice fruizione per caricare l’immagine — e l’oggetto ritratto — di un alone inquietante, di una Stimmung che porta ad evidenza un irriducibile fondo di densa invisibilità contenuta nella realtà e che trasforma quest’ultima nel signacolo inaspettato di una folgorante rivelazione profana. L’immagine fotografica non sovverte violentemente e risolutamente il sistema di rapporti tra il valore cultuale, di custodia sacrale, e quello espositivo, quale presunta matrice di desacralizzazione. Essa trasforma pertanto l’esposizione nella manifestazione di un oggetto avvolto in una sfera di presentazione quasi mistica. Ma la rivoluzione dell’immagine non si limita a questo. La fotografia è solo il primo passo, poiché è col cinema che si compie definitivamente quella transizione epocale che agli occhi di Benjamin aspetta ancora d’essere degnamente valutata, ecco perché quindi in modo impeccabile egli può notare: «ma le difficoltà che la fotografia aveva procurato all’estetica tradizionale erano un gioco per bambini in confronto con quello che il cinema avrebbe suscitato».20 Benjamin fa precedere le considerazioni sull’Apparatur cinematografica da una serie di citazioni tratte da discorsi, scritti, interviste di Abel Gance, SéverinMars, Arnoux e Max Reinhardt, registi, attori, uomini di teatro che colgono a livello intuitivo le potenzialità del nuovo medium, ma non riescono a dare a tali intuizioni un ordine argomentativo lineare. Alla luce di ciò Benjamin decide di smontare pezzo per pezzo le capacità espressive del congegno cinematografico, al fine di metterne in mostra non solo il funzionamento, ma anche le potenzialità 20 Ivi, p. 30. 123 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes di asservimento o emancipazione delle masse a cui i prodotti di quel congegno sono esplicitamente rivolte.21 È a partire quindi dall’ottavo paragrafo che egli entra nel dettaglio dell’esame di ciò che in queste pagine giustamente famose viene designato col termine tecnico di Apparatur, intendendo con ciò il congegno di riproduzione della realtà in grado di inaugurare quel Wahrnehmunswandel che regge e scandisce tutto il discorso benjaminiano. È pertanto la rivoluzionaria e sconvolgente tecnica cinematografica del montaggio22 ad occupare immediatamente la scena, esaminata da una duplice prospettiva: — Dinamica: il montaggio pluralizza l’occhio, lo spodesta definitivamente dal suo luogo naturale facendolo felicemente implodere in una caleidoscopica molteplicità di sguardi erratici che si disperdono come un vasto pulviscolo di visioni anarchiche raccordabili però lungo una raggiera che si muove e si svolge a spirale su se stessa. È molto probabile che nel affrontare questo aspetto Benjamin avesse come esempio eclatante di tale stato di cose le opere di Vertov: poi è venuto il cinema e con la dinamite dei decimi di secondo ha fatto saltare questo mondo simile ad un carcere; così noi siamo ormai in grado di intraprendere tranquillamente avventurosi viaggi in mezzo alle sue sparse rovine. Col primo piano si dilata lo spazio, con la ripresa al rallentatore si dilata il movimento.23 21 Va notata qui la estrema lucidità di Benjamin nell'affrontare il cinema, rispetto alla sorprendente e forse non sufficientemente ponderata chiusura che ad esso opporranno Adorno e Horkheimer in Dialettica dell'Illuminismo, ed. it. a cura di R. Solmi, Einaudi, Torino 1971, passim. 22 Per ovvi motivi non possiamo qui dilungarci sulla tecnica del montaggio, per questo rimandiamo alla precisa caratterizzazione che ne dà Adorno, cfr. Th. W. Adorno, Teoria estetica, pp. 260-263. 23 ORT, p. 41. 124 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes — Scompositiva: la percezione non registra più il presenza del mondo secondo un regime stabile e gerarchizzato di inquadrature; essa lo attraversa, lo trapassa, ne solca l’addormentata pesantezza scompaginandola in un continuo gioco di riassestamenti ottici e dissesti cognitivi che traducono la realtà in una intelaiatura discontinua e vibratile di immagini ove accostamento e slittamento appaiono quali cardini intorno a cui lasciar avvitare la ratio propria della Apparatur. Se prima il punto di riferimento poteva essere Vertov, in questo caso è Ejzenštejn24 a rappresentare il modello elettivo: [il cinema] porta in luce formazioni strutturali della materia completamente nuove, così il rallentatore non fa apparire soltanto motivi del movimento già noti: in questi motivi noti ne scopre di completamente ignoti «che non fanno affatto l’effetto di un rallentamento di movimenti più rapidi, bensì quello di movimenti propriamente scivolanti, plananti, sovrannaturali». Si capisce così come la natura che parla alla cinepresa sia diversa da quella che parla all’occhio. Diversa specialmente per il fatto che al posto di uno spazio elaborato dalla coscienza dell’uomo interviene uno spazio elaborato inconsciamente.25 Grazie a questa duplice lettura Benjamin può proporre a buon diritto quella celebre analogia del regista-chirurgo visto in opposizione alla figura e all’opera del mago associato invece al pittore. Ecco presentarsi allora un’altra 24 Della rilevanza della scuola sovietica di regia per la stesura di queste note Benjamin renderà atto nella Piccola storia della fotografia, cfr ORT, p. 76. Sebbene non vi si citi mai Benjamin, per un ulteriore approfondimento di questi aspetti cfr. J. Rancière, Aisthesis. Scènes du régime esthétique de l'art, Galilée, Paris 2011, pp. 213-217. 25 Ibid. Verrebbe da chiedersi: inconsciamente da chi? Dall'uomo stesso, dalle pressioni storico-sociali o dalla configurazione precostituita della materia che costringe la percezione umana a seguire le proprie articolazioni minute e riposte? In quest'ultimo caso non è ravvisabile una straordinaria linea di convergenza con i principi della sintesi passiva messi in luce un decennio prima circa da Husserl? 125 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes formidabile equivalenza: mago: pittore = chirurgo: operatore cinematografico: nel momento decisivo il chirurgo rinuncia a porsi di fronte all’ammalato da uomo a uomo; piuttosto penetra nel suo interno operativamente. Il mago e il chirurgo si comportano rispettivamente come il pittore e l’operatore. Nel suo lavoro il pittore osserva una distanza naturale da ciò che gli è dato, l’operatore penetra invece profondamente nel tessuto dei dati. Le immagini che entrambi ottengono sono profondamente diverse. Quella del pittore è totale, quella dell’operatore è multiformemente frammentata, e le sue parti si compongono secondo una legge nuova.26 La vocazione mimetica dell’arte riceve così un colpo durissimo. L’Apparatur, scomponendo il reale tramite il montaggio, smonta i processi di processi di pensiero propri del soggetto, ne oggettiva prima e ne sovverte poi le statiche pratiche percettive, facendo dell’arte una sorta di inaspettata protesi gnoseologica grazie alla quale l’immagine del mondo da essa offerto all’uomo non è più lo spento riflesso del reale ma uno spaccato continuamente contestato e riplasmato del nostro statico e fin troppo facilmente manipolabile schematismo cognitivo. L’Apparatur brilla in seno a questo come un ordigno silenzioso e puntiforme, che disloca lo sguardo facendone un punto di vista situato non più in posizione frontale rispetto al mondo, ma sul margine mobile del campo percettivo del soggetto, il quale non smette più di essere travagliato dell’interno dal sospetto che ogni immagine oscilli tra il precipitato tranquillizzante di una cosmesi ideologica operata sul dato bruto e una la manifestazione pura di una realtà selvaggia che trovi nell’esibizione del proprio caos il momento compiuto della sua intollerabile autenticità. Ecco si esprime ancora Benjamin a questo 26 Ivi, p. 38. Corsivi nostri. 126 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes riguardo nella Piccola storia della fotografia in relazione agli scatti di Blossfeldt: la fotografia dischiude gli aspetti fisiognomici di mondi di immagini che abitano il microscopico, avvertibili ma dissimulati abbastanza per trovare un nascondiglio nei sogni ad occhi aperti, e ora diventati grandi e formulabili come sono, capaci di rivelare come la differenza tra tecnica e magia sia una variabile storica27. Così, con le sue straordinarie fotografie di piante, Blossfeldt ha reperito in certi steli innervati le forme di certe colonne arcaiche, nelle forma di certe felci il bastone pastorale, nella gemma del castagno e dell’acero (ingrandita dieci volte) certi alberi totemici, nel cardo dei lanaioli la crociera gotica.28 Ma soprattutto è solo a questo punto che possiamo comprendere per quale motivo il valore d’esposizione con l’avvento della fotografia e del cinema sopravanza definitivamente il valore cultuale. La distanza veicolata da quest’ultimo per sommo paradosso è recuperata proprio dal primo, nel momento in cui la realtà, la cosa, l’oggetto, la porzione di mondo offerta e presentata dall’immagine cinematografica si sottrae ad ogni manipolazione umana e ad ogni misura antropomorfa, recalcitra furiosamente dinanzi ad ogni tentativo di reificazione/oggettivazione per sfoderare una imponderabile molteplicità di aspetti, tratti, caratteri e sfaccettature che non solo contestano lo stolido stato di stagnazione delle nostra classificazioni teoriche, ma inducono a sovvertire queste richiamando il soggetto ad una continua attività di sorveglianza e rimodulazione critica delle proprie cornici concettuali. Con Barthes lo scenario sembra mutare. In Benjamin una strana miscela esplosiva a base di sociologia dell’arte, psicologia delle masse e estetica fenomenologica dà luogo ad un preciso affondo speculativo culminante in un quadro Mentre nel saggio del ’36 tecnica e magia sono valori opposti, qui stranamente si allineano e partecipano della stessa forza rivelativa. 28 ORT, p. 63. 27 127 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes storico dell’attualità potente e convulso. Nulla di tutto ciò ne La chambre claire. In essa troviamo in primis le movenze composte e appena accennate di un accorto ripiegamento intimistico dell’autore sul proprio recente dolore — la dipartita della madre amatissima — ma si tratta di una sfera intima particolare, poiché in essa la presenza ingombrante del soggetto è stata evacuata, chirurgicamente privata di ogni greve sostanzialità. L’immagine affiora in modo quasi casuale dalla sua scrittura, carica di una pensosa sonnolenza; reca in sé una risonanza che ha qualcosa dell’onirico, simile al portato discreto e timidissimo di una involontaria flocculazione mnestica dal seno della quale essa fiorisce con le fattezze di una fragilissima ghirlanda di evocazioni, ricordi, citazioni fugaci e episodiche. Come un corpo estraneo incuneatosi sinistramente nella memoria, l’immagine fotografica comunica nello stesso tempo uno strano desiderio ontologico — quello della presenza fisica, concreta, esistente della cosa ritratta — e un disorientato senso di soffusa allucinosi. Essa elude inoltre ogni classificazione, non ammette alcun incasellamento di natura empirica, retorica o estetica, ma piuttosto si dispone trasversalmente lungo questi tre assi facendoli saltare uno dopo l’altro, conducendoli ad una sorta di delicato tracollo in forza del quale ciò che emerge dall’immagine è una deissi del vuoto, l’allestimento improvviso di uno spazio “bastardo” — lacanianamente sospeso tra l’immaginario, il simbolico e il reale — ove la figura rappresentata è una fosforescenza inquieta e inesorabile, ora affine ad un significante linguistico che ammutolisce nella propria opaca fisionomia, ora simile ad una presenza che comunica unicamente se stessa, tautologica manifestazione di una realtà che nell’atto di esporsi come tale finisce con l’esaurirsi senza poter tuttavia esprimere nulla. 128 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes Se la fotografia appare quale chambre claire, prima di essa bisogna supporre necessariamente una camera obscura — che per Barthes è senza dubbio quella della memoria — la quale funziona come uno spazio intensamente germinale, forse aurorale, simile ad una pausa obliqua e innaturale che porta il tempo ad inarcarsi, lasciando che l’identità attuale del soggetto entri in metamorfosi con il proprio passato, subisca delle variazioni in grado di farlo fluttuare appena sotto la sua pelle, traducendolo negli accidenti di una mimica tortuosamente mercuriale e grazie alle quali il corpo stesso si riduce ad un valore-zero, riassumendo la plasticità generativa della matrice paradigmatica di una sintassi anatomica ancora inattuata.29 Ma tutto ciò non dura che un attimo, l’inarcatura del tempo prodotta nell’immagine e con l’immagine è solo una sospensione simulata: la chose raffigurata nella foto — il proprio volto, il proprio corpo, il proprio sguardo, il proprio aspetto — è in realtà condannata a rassomigliarsi per sempre, ad aderire senza resto alla monotonia di una identità momentanea e passeggera, che però lo scatto al magnesio inchioda per sempre proiettandola nella peritura eternità dei ritratti fotografici. Non è un caso quindi che per Barthes nell’immagine venga a sedimentarsi un’esperienza anfibia di se stesso: da una parte il processo irresistibile di una dissociazione ambigua della consapevolezza della propria identità30 e dall’altra la trasformazione ineluttabile di se stesso nel «TuttoImmagine, ovvero nella morte in persona».31 29 Oltre alle battute iniziali de La chambre claire, rimandiamo per quanto concerne queste osservazioni all'ultima parte della Lezione inaugurale di insediamento al Collège de France tenuta nel 1977, R. Barthes, OC V, p. 445-446. 30 Ivi, p. 798. 31 Ivi, p. 799. 129 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes La riflessione di Barthes a questo punto prende uno strano andamento: si allontana dagli assunti iniziali, legati allo sviamento dell’identità perseguita grazie ad una sorta di delirata autoscopia, per reinquadrarsi in un approccio teorico più distanziato, più analitico, più rigoroso. Ed è qui che troviamo il primo contatto con Benjamin: anche Barthes expressis verbis ravvisa nella fotografia una vocazione chirurgica32 nei confronti del reale. Anche Barthes inoltre si dirige chiaramente verso una fenomenologia del particolare, denominandola Mathesis Singularis33, poiché afferente ad una forma di conoscenza che privilegia il dettaglio, elemento doppiamente isolato: in primis rispetto al contesto originario da cui lo strappa lo scatto, in secundis rispetto al campo complessivo dell’immagine da cui lo distacca la specifica tecnica di lettura della foto che Barthes mette a punto in queste pagine e che, come è noto, è scandita dalla oppositiva trazione binaria di Studium e Punctum.34 Dal momento che a questa coppia di concetti sono stati dedicati numerosi saggi35, eviteremo di soffermarci su di essi, tanto più che il nostro interesse qui non si appunta su tale regola strutturale36 ma piuttosto deve focalizzarsi su quella eidetica dell’immagine fotografica a cui Barthes fa esplicito riferimento37 chiamando in causa per due volte la fenomenologia, per lo più nel suo côté francese, rappresentato da Lyotard. Tale eidetica è interessante perché nasce da uno sforzo di pensiero che alquanto paradossale, dal momento che essa è chiamata ad 32 «Comme une opération chirurgicale», ivi, p. 798. Ivi, 795 34 Ivi, pp. 804-809. 35 Ci limitiamo qui a evocarne solo alcuni: Cahiers de la Photographie, Roland Barthes et la photo, Contrejour, Paris 1990. N-B Barbe, Roland Barthes et la théorie esthétique, Bès Ed, Montzeuil 2001. N. Magali, Roland Barthes contemporain, Max Milo, Paris 2015. J-C Milner, Les pas philosophique de Roland Barthes, Verdier, Paris 2003. 36 È Barthes stesso a chiamarla così, cfr. ivi, p. 805. 37 Ivi, p. 804. 33 130 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes appuntarsi unicamente sulle manifestazioni elettive di una contingenza pura, intrattabile, molesta, revulsiva, che non ammette e non sopporta generalizzazioni e che quindi richiama in pieno la necessità di quella Mathesis Singularis appena evocata. Ancora una volta non siamo lontani da Benjamin: se Barthes parla di inarcatura del tempo, di Mathesis Singularis, di apparizione di un dettaglio intrattabile, Benjamin nella sua Piccola storia della fotografia aveva già notato tutto questo scrivendo: se si contempla l’immagine di Dauthendey [vediamo che] la donna sta lì, accanto [al marito] che la sostiene, ma lo sguardo di lei lo oltrepassa, risucchiato da una lontananza colma di sciagure. Se si indugia abbastanza a lungo su una simile fotografia, si capisce come anche qui gli estremi si tocchino: una tecnica esattissima riesce a conferire ai suoi prodotti un valore magico che un dipinto per noi non possiede più. Nonostante l’abilità del fotografo, nonostante il calcolo nell’atteggiamento del suo modello, l’osservatore sente il bisogno irresistibile di cercare nella immagine quella scintilla magari minima di caso, di hic et nunc con cui la realtà ha folgorato il carattere dell’immagine, il bisogno di cercare il luogo invisibile in cui, nell’essere in un certo modo di quell’attimo lontano [quello della morte della donna ritratta] si annida ancora oggi il futuro.38 Per Barthes e Benjamin la folgorazione — termine comune a entrambi39 — sospende il senso del tempo, apre l’immagine verso un futuro anodino, ma soprattutto espone l’oggetto ritratto ad una presenza che ha qualcosa di struggentemente spettrale: dinanzi ad essa noi sappiamo che la vita dei soggetti è come rappresa in una effigie che contiene contratta in sé tutta la loro storia passata e futura rispetto al momento dello scatto, eppure l’immagine è restia ad esplicitare questa storia, aprendo uno spazio ottico in cui il pensiero va alla deriva fuori dai cardini del tempo. 38 39 ORT, p. 62. Corsivi nostri. OC V, p. 828. 131 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes Inoltre va notato che la coppia Punctum-Studium non è fine a se stessa, ma viene inserita per un fine preciso: far emergere i quattro connotati specifici della immagine fotografica colta quale elemento di una Mathesis Singularis. Tali connotati sono40: 1. La rarità/unicità del referente. 2. La numinosità dell’oggetto ritratto, ovvero la sua capacità evocativa, la sua forza magnetica in grado di attrarre l’occhio in un campo di riflessione ad altissimo tasso di irrealizzazione. 3. La prodezza dell’immagine, la quale — come ad esempio negli scatti della goccia di latte di Edgerton — mostra un reale scomposto nei sue dinamiche sfuggenti e segrete. 4. Le contorsioni della tecnica. Qui troviamo altri due punti di contatto con Benjamin. Innanzitutto gli ultimi due caratteri richiamano direttamente le considerazioni svolte dal berlinese sulle potenzialità di smontaggio ontologico di cui la tecnica foto-cinematografica ha dato prova fin dai suoi primordi; ma, oltre a ciò, qui il referente, che nella dimensione linguistica era del tutto appiattito sulle logiche di combinazione e selezione dei due assi della langue, si carica qui di una energia ostinatamente sovversiva. Nell’immagine infatti registriamo la reazione, la resistenza, l’eversione di una porzione di realtà che inizia a secernere intorno a sé un sottile ma tenace campo di tensioni. Le relazioni tra i quattro connotati delineano una fisionomia del dato ritratto che conduce l’armatura 40 Ivi, p. 814. 132 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes concettuale messa in opera a culminare in una inedita fenomenologia del Punctum o, per dirlo con maggior precisione, in una flessibilissima teoria del dettaglio colto nella sua indole dissociativa di coefficiente a-refenziale. Ecco come Barthes espone questo passaggio: il dettaglio si impone su tutta la mia lettura: è una mutazione viva del mio interesse. Una folgorazione. Attraverso il segno di qualcosa, la foto non è più qualsiasi. Tale qualcosa ha fatto tilt, ha provocato in me una piccola scossa, un satori, il passaggio di un vuoto [...]. Astuzia del vocabolario: si dice sviluppare una foto, ma ciò che l’azione chimica sviluppa è il non-sviluppabile, una essenza (di ferita), ciò che non può trasformarsi, ma solo ripetersi sotto le forme dell’insistenza (dello sguardo insistente). Ciò avvicina la Fotografia (certe fotografie) allo haiku. Poiché anche i riferimenti di un haiku sono non-sviluppabili: tutto è dato, senza provocare la voglia o anche la possibilità di una espansione retorica. In entrambi i casi di potrebbe, si dovrebbe parlare di una immobilità viva.41 Ancora una volta siamo ad un passo da Benjamin: la fotografia è il campo di applicazione per ciò che il pensatore berlinese aveva già chiamato nel grande trattato degli anni ’20 «elaborazione micrologica»42 e che nello studio del ’37 dedicato a Eduard Fuchs individua come quella pratica di pensiero che da una parte riesce a forgiare una coscienza del presente che faccia deflagrare la continuità della storia43 mentre dall’altra fornisce una alternativa speculativa alle insopprimibili aporie della teoria.44 Ma Barthes forse a questo punto si spinge oltre ed enuclea l’ultimo paradosso della fotografia: l’eidos di queste immagini consiste nell’allestimento di uno spazio di manifestazione in cui ciò che è chiamato a 41 Ivi, pp. 828. Traduzione nostra. W. Benjamin, Il dramma Barocco..., p. 5. 43 ORT, p. 83. 44 Ivi, p. 84. 42 133 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes rappresentarvisi si riassorbe senza resto in un vuoto improvviso e insituabile. Strana fenomenologia allora, quella di Barthes, che indaga e interroga il fenomeno a partire dal momento in cui questo ha già cessato di apparire. Evidentemente aveva ragione Adorno nel dire che «niente ha tanta espressione quanto ciò che si estingue».45 45 Th. W. Adorno, Teoria..., p. 135. 134 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno 5 Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes Roger Caillois Artaud: scrittura/figura* di Roland Barthes Come parlare di Artaud? Tale domanda non è soltanto specifica (essa potrebbe esserlo per qualsiasi autore) ma, se ci è concesso dirlo, semelfattiva (importa poco l’odore scientifico del termine): l’impossibilità di parlare di Artaud è quasi unica; Artaud è ciò che si chiama in filologia un hapax, una forma o un errore che si incontra una sola volta nel corso del testo. Questa singolarità non è quella del genio, né quella dell’eccesso, essa non ha nulla di ineffabile e può essere enunciata in un modo molto razionale: Artaud scrive nella distruzione del discorso; questa pratica suppone una temporalità complessa: il discorso, per dare a leggere la sua distruzione, non può né essere stato distrutto (nel qual caso la pagina sarebbe bianca), né soltanto annunziarsi come distruttibile (si tratterebbe ancora di discorso); è necessario, scandalo logico, che il discorso si ripieghi su se stesso senza sosta con veemenza e si divori come un personaggio sadiano, manducatore dei suoi stessi escrementi. Senza dubbio l’imprecazione di Artaud, gettata in modo sempiterno alla porcheria della scrittura, può essere inarrestabilmente recuperato dal discorso stesso della imprecazione: è il pericolo di ogni violenza: nulla è più fragile della violenza: il codice la spia e il senso finora ha sempre trionfato su di essa (per questo motivo, rispetto alla distruzione del discorso — occidentale, cristiano, ecc. — si può * Il testo, datato da Barthes 21 giugno 1971, doveva servire da prefazione ad un libro di Bernard Lamache-Vadel su Antonin Artaud che ha poi rinunciato a pubblicare. Apparso in Luna Park, n. 7, marzo 1981, cfr. OC V 877-879. 135 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes tatticamente preferire un discorso astuto a un discorso violento, Brecht e Artaud). Dinanzi a questa oscillazione minacciosa (espressione semplice di una alienazione storica della scrittura), sta al lettore liberare il testo dalla istituzione letteraria: il lettore, ovvero quel soggetto fragile, straziato, pluralizzato, che si trova preso nella comunicazione che gli impone Artaud (questa comunicazione definisce il testo d’Artaud tanto quanto la sua struttura retorica). Bernanrd LamarcheVadel è per noi questo lettore: egli ha scritto la sua lettura. Tale espressione non denota un discorso critico o analitico; Lamarche-Vadel propriamente non ha recensito idee, temi, forme, non ha sviluppato il nostro sapere su Artaud, non ha culturalizzato Artaud (e ha avuto bisogno per questo di un certo coraggio o una certa confidenza o una certa innocenza, vista la destinazione universitaria che egli ha accettato di dare al suo testo); la sua materia principale (il suo /soggetto/, come si dice nella retorica scolastica) è stata la sua stessa scrittura: e tuttavia Artaud vi è più presente che in molte altre dissertazioni “su” Artaud. Tale riuscita dipende dal fatto che la scrittura di LamarcheVadel è molte volte (a molteplici livelli) citazionale. Il testo stesso di Artaud (il suo testo storico, filologico, editoriale) è irresistibilmente preso nel volume del testo di Lamarche-Vadel; sono come delle bolle di nutrimento che scoppiano alla luce del secondo testo; Artaud è ricopiato nel suo fulgore, nella sua vocazione citazionale, nella sua energia di scrittura (ciò vuol dire, secondo la terminologia attuale, come produzione e non come prodotto): smembrato, frammentato, egli sciama; si ottiene così, tramite un ritorno paradossale, un sapere di Artaud superiore ad ogni sapere didattico, filologico, storico, che il discorso della scientificità potrebbe racimolare su Artaud; andando fino in fondo, potremmo dire: felice colui che conosce Artaud solo sotto la sua forma infranta, disseminata, eraclitea (la «porcheria della scrittura» non è 136 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes altro che il suo continuum, quel flumen orationis in cui l’antica retorica riconosceva il valore supremo dello stile e che Flaubert, fortunatamente per lui, non è mai riuscito a raggiungere). Lamarche-Vadel cita Artaud in un altro modo: non imitandolo, ma ricalcando ciò che potremmo chiamare i suoi movimenti di corpo; la scrittura (qualora essa si compia al di fuori della semplice scrivenza1) è in effetti il corpo rigenerato da se stesso, per feticismo narcisista o per isteria collettiva: ciò che Lamarche-Vadel chiama senza dubbio la figura. Lamarche-Vadel si colloca nella respirazione del corpo scritturale di Artaud; senza mai parodiarlo, egli ne ritrova, nella sua pratica e non, ancora una volta, nella sua analisi, l’intera natura eretica, vale a dire le sensualità, i chiarori, le sorprese, le fratture e in una maniera più generale, il valore nuovo (sebbene timidamente, qui e là, ricercato): la scrittura-idea, l’idea scritta, la cui funzione attuale è di disperdere il discorso antecendente, filosofico o letterario e di confondere l’opposizione tra l’arte e il pensiero, tra la cosa enunciata e la forma enunciante. A un terzo livello, ciò che Lamarche-Vadel mette in scena non è solo Artaud (nella sua lettera e nella sua figura), è ogni scrittura. La scrittura, in effetti, non è fatta da «tratti» stilistici, ma di rifiuti, disposti in volute e sinuosità, in invenzioni, in concessioni e riprese; la scrittura, in una parola, è uno spazio tattico, determinato in rapporto alla cultura anteriore, uno scivolamento improvviso lungo la china della lingua millenaria, paterna. Qui, Lamarche-Vadel raggiunge ancora una volta esattamente Artaud: il suo testo è una rottura che tuttavia perviene a strapparsi al gesto della castrazione: c’è un sapore profondo del testo che si va a leggere (il sapore, non 1 /Écrivance/, conio di Barthes. Presente anche nel saggio su Sollers posteriore di qualche anno, cfr CO V, p. 611. 137 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes dimentichiamolo, è la figura stessa del combinatorio: il piacere che ne risulta non è idealistico). Insomma, alla questione: come parlare di Artaud? Lamarche-Vadel risponde: non parlarne, neppure scrivere «su» Artaud, ma: scrivere con Artaud. Così si sostituisce alla critica trascendentale (cardare2 il testo di un autore tramite un discorso che lo «comprenda»), una scrittura concomitante, un carosello di testi, che non fa (o non farà) dell’autore (qui Artaud, Lamarche-Vadel) che un gesto innescato dal corpo ma continuato dalla massa. 2 Barthes usa /coiffer/ che propriamente significa /pettinare/, volendo dare il senso di un passaggio continuo e simultaneo dello strumento critico all'interno della folta massa del testo al fine di districarne i vari significati annodati gli uni agli altri. 138 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno 5 Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes Roger Caillois Bernard Faucon1 di Roland Barthes Bernard Faucon ha fotografato dei ragazzi (reali e/o simulati). Tuttavia il motivo (la questione) della sua impresa non è né l’amore per i fanciulli né l’arte fotografica. O almeno, per il turbamento che ci comunicano queste immagini, per il vero enigma che esse lasciano in sospeso o immobilizzano sotto i nostri occhi che non possono distaccarsene senza per questo intravederne il segreto, noi dubitiamo (infine) che nella Fotografia, grande Sconosciuta del mondo moderno, vi sia da un lato il soggetto e dall’altro una maniera; in breve noi dubitiamo che la Fotografia non sia null’altro che (idea tuttavia usuale) che la congiunzione di un argomento e di un’arte. Tale dubbio è violento, in proporzione allo stupore che suscitano in noi queste fotografie. E queste parole sono già insufficienti, perché ci lasciano prigionieri di una tendenza propria a noi Occidentali: ricondurre ogni mutazione della nostra identità al “patetico”. Una parola orientale (giapponese) converrebbe di più: il satori: scossa, affondo, colpo improvviso che attraversa bruscamente la disciplina Zen e l’illumina del suo vuoto. Non si può dire ciò che è il satori, per le fotografie di Bernard Faucon ma per le fotografie di Bernard Faucon si può indovinare da quale ragione possa venire: la regione della eterologia o della frizione di linguaggi differenti, connubio di specie naturali eterogenee: dei manichini, oggetti già colti secondo il loro statuto stesso, sono una seconda volta sorpresi in mezzo a una folla di oggetti reali, familiari, logori, graffiati (bugie, 1 In Zoom 1978. Cfr. OC V, pp. 471-474. 139 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes bottiglie, fette di melone, letti disfatti, bilancieri in movimento, ecc.) in un contesto il cui romanticismo esalta il naturale (vastità delle colline, dei giardini, del mare), impegnati in scene quotidiane di giochi; o ancora, in un modo più insidioso, l’eterologia deriva dal fatto che l’espressione euforica dei volti di cera è in qualche modo perpetuata indipendentemente dalle azioni a cui i manichini si dedicano: che cosa di più perturbante di un’aria che persiste e smentisce la legge dell’espressione, ovvero della corrispondenza dell’interno e dell’esterno, dalla causa e dell’effetto? I corpi artificiali, statue, manichini, automi, androidi hanno sempre turbato gli uomini: è, letteralmente, un mito. Il lavoro di Bernard Faucon è evidentemente una variazione di questo mito. Ecco come io avverto la dialettica di questa variazione: i manichini di Bernard Faucon sembrano dapprima imporre due immagini, in funzione della loro origine: l’immagine dell’infanzia [...] e l’immagine della vetrina (di negozio) da dove questi manichini sono tratti. Ora queste immagini sono messe in fallo2, rinnegate: l’infanzia, età mitica della freschezza, della spontaneità, della purezza è qui compromessa con l’artificio dei corpi fissati (là dove i loro gesti fossero “vivi”, i loro occhi restano fissi); e la vetrina, scatola di vetro, è interamente aperta sulla natura, la casa, la camera; tramite l’ambientazione naturale, tramite l’equilibrismo delle pose, Bernard Faucon «devitrinizza» i suoi manichini. Allora si produce un rovesciamento enigmatico: il corpo vero, che appare in certe scene (come vittima), si distingue appena dai manichini a cui esso è 2 Barthes usa qui /déjouer/, termine di difficilissima resa in italiano: la locuzione francese più chiara per una buona intelligenza del lemma è déjouer un complot, nel senso di smascherare, far fallire, sventare un complotto. Forzando un po’ la mano in italiano potremmo proporre: queste immagini sono sventate nel loro proposito di ingannarci. 140 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes mescolato, fa dubitare di una natura carnale: ciò che separa il vero dal fittizio è di una tenuità estrema, perturbante: il vero non va cercato dalla parte della «realtà», ma dal lato dell’arte, concepita non come valore espressivo, umanistico, ma come fondamento — o compimento — dell’artificio. Il corpo vero ha un «ruolo» impossibile ed è in ciò che esso dimostra la verità. Baudelaire aveva forse presentito questa dialettica allorché parlava della «verità enfatica del gesto nelle grandi circostanze della vita». Bernard Faucon sistema la scena che sta per fotografare. Produce esattamente un tableau vivant. Ora, questa scena immobile egli la consegna all’arte stessa dell’Immobile, alla Fotografia (non si farà mai progredire la teoria della Fotografia — oggi bloccata — finché ci si ostinerà a fingere che tale arte ha la missione di rendere “vivo”, “animato” ciò che non lo è). Così viene a istituirsi un circuito il cui senso è irreperibile. Bernard Faucon non fotografa un tableau vivant: produce fotografia sdoppiata in tableau vivant: egli accumula due immobilità. Invece di dividere l’Immagine (come si fa ordinariamente) in contenuto e forma, referente e significato, egli lascia che due forme vengano ad ammassarsi, due significanti; facendo ciò egli smentisce l’Immagine stessa che, etimologicamente, per la sua radice indo-europea (yem/im) rimanda a un «frutto doppio»; egli produce una unità appena sopportabile, contro-natura, ovvero soprannaturale. Nella sua derisione stessa, il tableau vivant fotografato richiama con forza un certo pensiero dell’Immortale: questi infra-corpi, il cui arresto è rinforzato da tutto l’artificio di vita che li circonda, sono colti dall’artista come se avessero la vocazione di essere resuscitati. 141 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno 5 Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes Roger Caillois Barthes e l’immagine* di Philippe C. Dubois Dal 1952, Roland Barthes comincia a snocciolare, prima in Critique e poi nelle Lettres Nouvelles, le sue petites mythologies du mois, in cui dissecca, analizza ed espone quanto c’è di ideologico e fallace nell’attualità dell’epoca. Che si dedichi a una pubblicità o a un evento sportivo, nulla sfugge alla sua lucidità critica; e Roland Barthes diventa ben presto uno degli osservatori più lucidi dell’epoca. Bisognerà tuttavia attendere il 1957 per vedere questi testi infine riuniti in un volume, Mythologies, nella cui seconda parte farà il punto teorico su Le mythe, aujourd’hui…; un momento importante nell’evoluzione di Barthes poiché segna il passaggio dalla mitologia alla semiologia, al cui sviluppo contribuirà in larga parte. Le scienze umane in effetti conoscono da questo momento uno slancio considerevole, in particolare per quanto riguarda l’informazione, la sua teoria, il suo sistema di segni e certamente il linguaggio. In un tale contesto non stupisce che Barthes, molto sensibile al suo ambiente, noti la presenza invadente di un altro sistema, quello delle immagini, del cinema, che vede «reconnu comme le modèle des mass media». Già alcune mitologie, come L’acteur d’Harcourt o Les Romains au cinéma, o ancora “Le Visage de Garbo” si rivolgevano al mondo dei film e del cinema. Ma il rapporto di Barthes con il cinema in generale è complesso, riconosce volentieri che il cinema lo annoia, soffre ad andarvi e ancor più a parlarne; ciò deriva probabilmente da quella che chiama «la loi du goût cinématographique» che, per snobismo, obbliga un intellettuale ad andare a * In The French Review, vol. 72, n. 4, 1999, pp. 676-686. 142 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes vedere un film piuttosto che un altro, ma anche perché si rende presto conto che il cinema, e soprattutto l’immagine filmica, gli resiste, resiste all’approccio semiologico. Dal 1960, in testi come Le probléme de la signification au cinéma, così come Les unités traumatiques au cinéma, che pubblica nella Revue international de Filmologie è ben cosciente che l’immagine filmica si divide in un numero di elementi di cui alcuni costituiscono dei «véritables messages» che gli è pertanto difficile analizzare; difficoltà proveniente dal carattere diacronico dell’immagine filmica, il cui perpetuo movimento fa e disfa costantemente questa immagine. Una sfida di tale portata non basterà tuttavia a scoraggiare Barthes, bensì il contrario. Continua le sue ricerche, persevera, si ostina. Nel 1963 pubblica il suo primo articolo nei Cahiers du cinéma, intitolato semplicemente Sur le cinéma, nel quale avanza l’idea del «sense suspendu». Da sottolineare che questo concetto, che riprenderà per qualificare i film della Nouvelle vague, sedurrà l’Unione degli studiosi comunisti, secondo quanto ci dice L.J. Calvet nella sua biografia di Roland Barthes. Questo dettaglio è abbastanza rivelatore dello statuto che il personaggio di Roland Barthes sta acquistando e dell’immagine che impone al discorso intellettuale francese. Nella stessa epoca, in effetti, tra 1964 e 1965, vedono la luce due opere molto barthesiane nella tradizione delle Mitologie: il film La femme mariée di Godard così come il romanzo di Perec, Les Choses. Ma Barthes non giunge sempre «à integrer le cinéma dans la sphère du langage» e cerca ora per questo di frammentare la continuità filmica. Continua le sue riflessioni in un articolo di Image et son del 1964, Sémiologie et cinéma, ma si scontra ancora con questioni che resteranno senza risposta fino al 1970, data in cui pubblica di nuovo nei Cahiers du cinéma quello che R. Bensmaïa definisce «un très beau texte», il famoso articolo su alcuni fotogrammi di S. M. Ejzenštejn, 143 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes intitolato Le troisième sense. Questa riflessione sulla scrittura di Barthes e il trattamento particolare che somministra ai fotogrammi di Ejzenštejn si propone dunque di rivelare la natura esatta dell’immagine intorno alla quale si costruisce il discorso di Barthes, nello stesso momento in cui si definisce nello specchio del testo il riflesso del critico, del montatore, e di colui che presenta le immagini. La data della pubblicazione del suo articolo su Ejzenštejn è importante, poiché segna la riedizione delle Mythologie in cui Barthes rivela, come nota S. Heath nel suo eccellente Vertige du déplacement, che «ce va-et-vient entre les deux systèmes constitue le fondement du discours mythique […]. L’oscillation dissimule la facture du sense mythique, la présence constante de la signification du premier système sur lequel se greffe le second en fait une nature». Barthes aggiungerà a questi due sistemi, a questi due livelli, un terzo, quello che S. Heath chiama «une troisième voie de revol», cioè la possibilità di «mythifier le mythe». Un sistema di riflessione simile ma più maturo e più complesso emerge nel suo testo breve ma denso sui fotogrammi di Ejzenštejn. Il nome di S. M. Ejzenštejn è già menzionato nel 1963 all’epoca del suo rapporto con i Cahiers du cinéma; Roland Barthes non lascia nulla al caso e la scelta del cineasta sovietico, come stiamo per vedere, non sfugge a questa regola. Nella sua opera Film form, Ejzenštejn inizia il capitolo intitolato The Filmic Fourth Dimension, da una rilettura di un proprio testo scritto un anno prima, in cui menziona l’importanza dell’estetica giapponese nel metodo di montaggio: «The Japanese regard each theatrical element, not as an incommensurable unit among the various categories of effect (on the various sense organs), but as a single unit of theater». Di colpo, queste due attitudini — la rilettura del suo stesso testo (un nuovo montaggio, in un 144 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes certo senso) così come il gusto per l’estetica giapponese — corrispondono bene al procedimento barthesiano. Da notare che il 1970, che vede la pubblicazione delle Notes sur quelques photogrammes d’Ejzenštein è una data doppiamente importante poiché vede allo stesso tempo la pubblicazione dell’Empire des signes, dopo il terzo viaggio di Barthes in Giappone. Ejzenštejn definisce quattro dimensioni del filmico. Allo spazio tridimensionale (visuale, uditivo, “sensoriale”) aggiunge una quarta dimensione, quella del tempo. Barthes andrà nel senso di Ejzenštejn quando quest’ultimo parla di sensualità e frammentazione: «The whole intricate, rhythmic and sensual nuance scheme of the combined pieces is conducted almost exclusively according to a line of work on the “psycho-physiological” vibrations of each piece». Ma al contrario di Ejzenštejn Barthes disprezza la nozione del tempo mentre decide di non interessarsi che ai fotogrammi, solo mezzo per lui di scoprire — mettere a nudo — il filmico. Passiamo dunque da quattro dimensioni a tre con Barthes che distingue così tre livelli. Il primo è il livello informativo, il più semplice, che corrisponde a quello della comunicazione. Segue il livello simbolico, che rinvia alla signification, che è intenzionale; il senso è allora evidente, siamo in presenza del senso ovvio: l’art de S. M. Ejzenštein n’est pas polysémique: il choisit le sens, l’impose, l’assomme [...]; le sens eisensteinien foudroie l’ambiguïté. Comment? par l’ajoute d’une valeur esthétique, l’emphase. […] Voyez l’image IV: très classiquement, la douleur vient des têtes penchées, des mines de souffrance, de la main qui sur la bouche contient le sanglot; mais tout cela une fois dit, très suffisamment, un trait décoratif le redit encore: la superposition des deux mains, disposée esthétiquement dans une ascension délicate, maternelle, florale, vers le visage qui se penche; dans le détail général (les deux femmes), un autre détail s’inscrit en abîme; venu d’un ordre pictural comme une citation des gestes d’icônes 145 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes et de pietà, il ne distrait pas le sens mais l’accentue. (Oeuvres Complètes, II-869). Vedremo oltre l’importanza di questo aspetto nel testo di Barthes stesso. Infine, alla signification segue la signifiance o Terzo senso. Il terzo senso per Barthes è qualcosa che «excède le sens», un senso che risulta di troppo; quello che lui chiama «le sens obtus». Il termine /senso/ contenuto in questa espressione resta comunque ambiguo perché polisemico. Pertanto, ben lontano dal risolvere l’ambiguità, Barthes, come sua abitudine, la coltiva. Il termine farà quindi riferimento alla signification (o, all’occorrenza, alla signifiance) assunta dall’immagine. L’immagine visuale fa certamente appello al senso della vista, al quale si coniuga un secondo senso, quello dell’udito, in un momento della storia del cinema in cui il sonoro è in pieno sviluppo. Il termine “senso” conferma dunque ugualmente l’idea di sensazione, che non tarderà ad andare alla deriva, conoscendo il gusto di Barthes per gli scivolamenti di senso verso sensibilità e sensualità. Un terzo livello di comprensione di questo “terzo senso” si trova nell’idea di direzione; quella che Barthes prenderà sarà al di fuori dei sentieri battuti. Signifiance, sensazione o direzione. Cosa scegliere? Quale senso dare a questo “terzo senso”? Bisogna scegliere? Bisogna applicare successivamente un senso particolare o abbracciare in uno slancio uniforme la polisemia del termine? Barthes lascia a noi la scelta e noi andiamo a vedere quali sono le implicazioni di questo gioco semantico. Quando Barthes vede il livello simbolico (il secondo senso) come un senso evidente, ovvio, il terzo senso al contrario è per lui «un sens obtus, de forme arrondie», è espressione dello «émoussement d’un sens trop clair». Nel suo articolo spiega questo argomento: Un angle obtus est plus grand que un angle droit […]; le troisième sens, lui aussi, me paraît plus grand que la 146 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes perpendiculaire pure, droite, coupante, légale, du récit: il me paraît ouvrir le champ du sens totalement, c’est-à-dire infiniment. (Œuvres Complètes, II-869). In modo interessante Barthes precisa ancora: parce qu’il [le troisième sens] ouvre à l’infini du langage, il peut paraître borné au regard de la raison analytique; il est de la race des jeux de mots, des bouffonneries, des dépenses inutiles; indifférent aux catégories morales ou esthétiques (le trivial, le futile, le postiche et le pastiche), il est du côté du carnaval (Œuvres Complètes, II-869). Conosciamo bene oggi grazie, tra gli altri, a Bachtin, i concetti associati al tropo del carnevale e del carnevalesco; ovvero l’inversione dei valori, l’aspetto sovversivo che accompagna un tale spostamento e infine la presenza di un pensiero che si trova decentrato e quindi eccentrico. Lo spostamento, lo scivolamento («le sens obtus fait glisser ma lecture») sono altrettante tattiche di sovvertimento che Barthes impiega con destrezza al fine di mettere in atto — o di fare posto — a questo pensiero del fuori che gli è caro. Un esempio tipico di rovesciamento che Barthes predilige è lo smontaggio dell’illusione della continuità che il pubblico ha generalmente di fronte a un film, illusione che Barthes, il mitologo, disfa quando avanza l’idea secondo cui la comprensione di un film avviene immagine per immagine; scrive in sostanza che il filmico non può essere raggiunto en mouvement (882) ma attraverso il fotogramma. Il sovvertimento viene anche dall’opposizione a un certo monologismo che provoca un tale spostamento. Nell’immagine V estratta dalla Corazzata Potëmkin di Ejzenštejn, Barthes mette in evidenza le dialogisme ténu entre la noble douleur du sens obvie et le langage un peu bas du déguisement assez pitoyable. Il mascheramento appartiene di certo al campo semantico del carnevale: Le sens obtus a donc quelque peu à faire avec le déguisement. 147 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes Gli elementi del mascheramento che Barthes nota sono la cuffia, le sopracciglia, la polvere, senza dimenticare il posticcio sotto forma di barbetta di Ivan, per esempio. Dal posticcio al pastiche certo non c’è che un passo che Barthes supera allegramente: Voyez la barbiche d’Ivan, promue, à mon avis, au sens obtus dans l’image VII: elle se signe comme postiche, mais n’en renonce pas pour autant à la «bonne foi» de son référent (la figure historique du tsar): un acteur qui se déguise deux fois [...], sans qu’un déguisement détruise l’autre; un feuilleté de sens qui laisse toujours subsister le sens précédent [...]; dire le contraire sans renoncer à la chose contredite: Brecht aurait aimé cette dialectique (à deux termes). (Œuvres Complètes, II-873). Al di là della dialettica, di questa oscillazione che Barthes mette in evidenza, si trova forse nascosto il terzo senso del testo di Barthes stesso di cui sarebbe allora possibile fare una lettura en abîme. Le postiche eisensteinien est à la fois postiche de lui-même, c’est-à-dire pastiche, et fétiche dérisoire puisqu’il laisse voir sa coupure et sa suture: ce que l’on voit dans l’image VII, c’est le rattachement et donc le détachement préalable de la barbiche perpendiculaire au menton (Œuvres Complètes, II873). Se il posticcio si situa al primo livello della comunicazione, il pastiche appartiene al senso ovvio e il feticcio diviene allora questo émoussement d’un sens trop clair, questo senso ottuso de forme arrondie. La parte del corpo così trasformata in feticcio, oggettivata (qui la barbetta) prende movenze falliche di cui troviamo un’eco nell’erezione dei tre ceri sullo sfondo dell’immagine VII scelta da Barthes. Potremmo così leggere un terzo senso nelle parole di Barthes (che decide di mettere tra parentesi) quando scrive a proposito dell’immagine III: «(c’est la main qui d’abord pend naturellement le long du pantalon et qui ensuite se ferme, se durcit, pense à la fois son combat 148 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes futur, sa patience et sa prudence) (Œuvres Complètes, II869)». Lascia vedere nel suo testo «sa coupure et sa suture, le rattachement et le détachement préalable» di più livelli di comprensione che, come “un feuilleté de sens” aprono il testo su una possibile lettura en abîme di se stesso? Come a volerci lasciar intravedere tutta la carica emozionale e erotica del suo testo, Barthes continua: «il y a dans le sens obtus un érotisme qui inclut le contraire du beau et le dehors même de la contrariété, c’est à dire la limite, l’inversion, le malaise et peut-être le sadisme» (Œuvres complètes, II-873) Notiamo che si ritrovano qui le nozioni di fuori e margine di cui si è già detto sopra sul tema del carnevalesco. In più, cita qui il sadismo, un concetto che come vedremo ha un ruolo privilegiato nell’argomento di Barthes. Va ancora più lontano quando aggiunge: Tout le monde, je crois peut convenir que l’ethnographie prolétarienne de S.M.E., fragmentée tout au long des funérailles de Vakoulintchouk, a constamment quelque chose d’amoureux (ce mot étant pris ici sans spécifications d’âge ou de sexe): maternel, cordial et viril, «sympathique» sans aucun recours aux stéréotypes, le peuple eisensteinien est essentiellement aimable: on savoure, on aime les deux ronds de casquette de l’image X, on entre en complicité, en intelligence avec eux. (Œuvres Complètes, II-873) Dal senso ottuso sembra sprigionarsi un’emozione ben precisa, un sentimento amoroso al di sopra di ogni «spécification d’âge ou de sexe». Barthes propone qui una categoria che non sarebbe maschile né femminile, un terzo livello, un terzo senso, un terzo sesso o una terza sessualità, una zona in cui, in ogni caso, si collocherebbe «l’androgyne du Satyricon dont parle G. Bataille dans un texte de Documents», ci dice Barthes. Attraverso questa nuova categoria del tutto particolare, Barthes si ricongiunge al problema dell’origine del senso, che cerca di determinare non senza qualche difficoltà: «Des sens 149 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes obtus, il y en a, non point partout mais quelques part». Le cose si complicano; parlando dell’immagine, riconosce la sua incapacità nel descriverla: «je ne décris pas, je n’y parviens pas, je désigne seulement un lieu» (878). Dunque qui si tratta del problema del luogo, problema topico la cui più grande difficoltà è l’impossibilità di descriverlo, di designarlo: même incertitude lorsqu’il s’agit de décrire le sens obtus (de donner quelque idée de là où il va, là où il va, là où il s’en va); le sens obtus est un signifiant sans signifié; d’où la difficulté à le nommer: ma lecture reste suspendue entre l’image et sa description, entre la définition et l’approximation. (Œuvres Complètes, II-878). Il senso dunque oscilla come fa la lettura e presto l’autore stesso. Per nominare “l’innominabile”, per riflettere il terzo senso, il testo deve superare questa oscillazione, superare lo stesso linguaggio articolato: si l’on ne peut décrire le sens obtus c’est que, contrairemente au sens obvie, il ne copie rien: comment décrire ce qui ne représente rien? La conséquence est que si, devant ces images, nous restons vous et moi au niveau du langage articulé – c’est à dire de mon propre texte -, le sens obtus ne parviendra pas à exister, à entrer dans le métalangage du critique. Cela veut dire que le sens obtus est en dehors du langage (articulé) mais cependant à l’intérieur de l’interlocution. (Œuvres Complètes, II-878). Oscillazione ancora non superata questa volta, il senso ottuso trascende il testo stesso, è «en dehors du langage articulé», al di qua del limite, nel margine, la marginalità, il terzo senso. Il luogo in cui può esistere il senso ottuso, questa zona dei possibili, si trova nella dimensione del terzo senso esso stesso. Il solo senso che interessa Barthes in questo testo è il terzo senso; il solo mezzo per il suo testo di avere un senso è di avere un terzo senso, un senso ottuso, nascosto, come «l’émoussement d’un sens trop 150 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes clair» che permetterebbe lo scivolamento del suo testo verso un’altra possibile lettura. Il terzo senso del testo è la sola lettura che rende il suo testo pienamente intellegibile, che apre infinitamente il campo del senso, dei sensi, della sensibilità, delle sensazioni, dell’erotismo. Poiché questo luogo che ossessiona Barthes è anche e soprattutto il luogo del piacere: le signifiant (le troisième sens) ne se remplit pas; il est dans un état permanent de «déplétion» [...]; on pourrait dire aussi, à l’opposé – et ce serait tout aussi juste –, que ce même signifiant ne se vide pas (n’arrive pas à se vider); il se maintient en état d’éréthisme perpétuel; en lui le désir n’aboutit pas à ce spasme du signifié, qui, d’ordinaire, fait retomber voluptueusement le sujet dans la paix des nominations. (Œuvres Complètes, II-880). Qui, dualità dal principio nell’impossibilità per il terzo senso di svuotarsi o riempirsi, questa dualità segna l’impotenza di questo a significare, a compiere quello che Barthes sembra descrivere come un piacere, a cui il desiderio inerente al significato non può arrivare. Il desiderio giunge dunque a esprimersi attraverso il significante, ma non il godimento; tuttavia sembra essere altrimenti per Barthes. Per assicurarsene, fermiamoci un momento sull’utilizzo (voluto) che fa Barthes del cognome e soprattutto dei nomi di Ejzenštejn. Mentre la critica in generale si accontenta di riferirsi al cineasta sovietico citando tutt’al più il suo primo nome, Sergei, Barthes insiste nel citare i suoi due nomi, Sergei Michalovitch, di cui utilizzerà solo le iniziali S.M. Si conosce fin troppo bene la passione di Barthes per la lingua e i suoi giochi per non vedervi più di una coincidenza. A tal proposito, sarebbe utile citare qui un breve articolo di Barthes, Erté ou à la lettre, datato al 1971, sul grafico, disegnatore di moda e decoratore di teatro russo Romain de Tirtoff, le cui iniziali R.T. ispireranno a quest’ultimo il suo nome d’arte: 151 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes Le sens n’est jamais simple (sauf en mathématiques) et les lettres qui forment un mot, quoique chacune d’elle soit rationellement insignifiante [...], cherchent en nous, sans cesse, leur liberté, qui est de signifier autre chose. Ce ne peut être par hasard si, au seuil de sa carriére, Erté a pris les initiales de ses deux noms et en a fait un troisième, qui est devenu son nom d’artiste: comme Saussure, il n’a fait qu’écouter ce double, tressé sans qu’il le sache dans l’énoncé courant, mondain, de son identité. (Œuvres Complètes, II1232). Non è nemmeno un caso se anche Barthes gioca nel suo testo con le iniziali S.M.E., le risistema, le rimonta a suo modo perché dicano un’altra cosa. Ma cosa? Nel suo testo, sarebbe questione di SadoMasochismE? Questa ipotesi sembra sostenuta dalla menzione del sadismo e dall’inversione fatta in un suo testo citato sopra. Essa è sostenuta ugualmente dalla ricorrenza sorprendente dello stesso processo di associazioni tematiche in un supplemento del Plaisir du texte che Barthes scrive nel 1973 in cui allude a un certo S.M., apparentemente uno dei suoi contemporanei e vicini, ma di cui si diverte stavolta a invertire le iniziali: Souris: M.S. me rapporte ceci: des expériences ont isolé dans la souris son centre du plausi; on lui pose là une électrode reliée à une pédale, et la souris pédale, pédale jusqu’à l’épuisement, jusqu’à mourir de plasir (Cyrano de Bergerac en aurait fait une fiction: n’imaginait – il pas des fables dont le ressort était de prendre à la lettre une métaphore usuelle: mourir de chagrin par exemple). Et dans le cerveau de la souris, à quelques microns du centre de plaisir, il y aurait le centre de punition. Je n’ai rien à dire de cette histoire, et cependant elle ne cesse de m’enchanter (Œuvres complètes, II 1590). Tutto è qui: il piacere, la punizione, la tecnica che consiste nel «prendre à la lettre une métaphore usuelle» o qualche iniziale fino al commento stesso su questa storia. Benché pretenda di non aver niente da dire di questa storia, prova 152 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes prima il bisogno di condividerla per confessare poi che essa non cessa di incantarlo. Ciò che Barthes ci offre qui è una dimensione nuova su cui il suo testo si apre. Il terzo senso non si applica più solo all’oper«a di S.M.E., ma scaturisce ora dal testo di Barthes stesso e gli offre uno spazio produttivo in cui Barthes stesso fa sciamare i suoi semi, si ama e ama S.M.1 Con un piacere e una evidente voluttà dei sensi, Barthes semina i suoi sensi, li dissemina in tutti i sensi. È grazie a questa disseminazione che Barthes insemina il suo testo con la semenza che gli permetterà di produrre il terzo senso e nella stessa occasione di riprodurre se stesso. Reste à dire un mot de la responsabilité syntagmatique de ce troisième sens: [...] Il est évident que le sens obtus est le contre-récit même; disséminé, réversible, accroché à sa propre durée, il ne peut fonder (si on le suit) qu’un tout autre découpage que celui des plans, séquences et syntagmes (techniques ou narratifs): un découpage inouï, contre-logique et cependant vrai (Œuvres Complètes II, 880-881) Barthes discute qui dell’effetto che può avere il terzo senso sull’insieme del film, ma fa anche allusione en abîme al trattamento che somministra alle immagini di Ejzenštejn. Infatti le passa in rivista, ne seleziona qualcuna, la estrae dall’insieme al quale appartengono, poi le riposiziona in un ordine che conviene meglio alla sua analisi. Nei suoi esatti termini, effettua del film di Ejzenštejn «un tout autre découpage que celui des plans, séquences et syntagmes», smonta e rimonta a suo piacimento le sequenze e le immagini; in una parola, ne fa un proprio montaggio. È da notare che le riflessioni di Barthes sul montaggio si iscrivono nel quadro più ampio delle discussioni dei 1 Dubois gioca spericolatamente con tutte le omofonie possibili del francese contenuto nel giro di pochi lemmi: trascriviamo in corsivo i fuochi fonetici su cui l'autore fa avvitare la lingua: «Barthes essaime – propriamente /sciama/, ma in italiano il verbo non ammette la forma transitiva – ses sèmes, s’aime et aime S.M.». 153 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes problemi teorici del cinema a cui si congiunge Christian Metz per esempio, nei due tomi dei suoi eccellenti Essais sur la signification au cinéma. Lo smontaggio e rimontaggio delle immagini di Ejzenštejn è una operazione estremamente produttiva poiché: «il [le photogramme] est donc à la fois parodique et disséminateur; […] il est la trace d’une distribution supérieure des traits donc le film vécu, coulé, animé ne serait en somme qu’un texte parmi d’autres» (Œuvres Complétes, II-882). Attraverso la frammentazione dei film di Ejzenštejn in immagini fisse, in fotogrammi, Barthes giunge infine a dominare la vertigine delle immagini in movimento e a rompere così la resistenza alla sua analisi che offriva fin qui il filmico: le filmque est donc exactement là, dans ce lieu où le langage articulé n’est plus qu’approximatif et où commence un autre langage […]. Le troisième sens, que l’on peut situer théoriquemet mais non décrire, apparaît alors comme le passage du langage à la signifiance, et l’acte fondateur du filmique même. (Œuvres Complètes, II-882) Nella nuova dimensione che rappresenta il terzo senso, Barthes può infine passare dal film al testo, dalla disseminazione all’inseminazione, e dal senso alla semenza; termini che condividono la stessa etimologia, come ci ricorda Le petit Larousse la cui copertina ci offre un’immagine (una in più) che Barthes ha dovuto apprezzare molto. Infatti come i grani del soffione o dente di leone — questa pianta «à petits fruits secs surmontés d’une aigrette qui facilite leur dissemination par le vent», precisa il dizionario — i cui frammenti formano un tutto, che una volta disgiunti si disseminano per seminare, così sono i fotogrammi/frammenti di Ejzenštejn, che riorganizzati dal vento dell’analisi barthesiana giungono a produrre un senso nuovo. Produzione che ha tutto il comportamento della riproduzione nella misura in cui il 154 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes senso, la semenza — ma anche il senso, l’essenza — sono frutto di un desiderio sensuale; e quale desiderio, poiché sembra non essere possibile che in questo luogo, questa zona, questo spazio che gli offre il gioco (“gap”, “Play”, in inglese) tra le immagini di Ejzenštejn, in questa distanza che esiste tra la forma del segno filmico e il suo/i suoi contenuto/i. Questo desiderio, «sans spécification d’âge ou de sexe, indifférent aux catégories morales ou esthétiques», questo desiderio sovversivo respinto al di fuori, marginale, rassomiglia molto al desiderio omosessuale che sottintende costantemente il testo di Barthes e che si trova sublimato nella sua scrittura. Il testo di Barthes sul terzo senso può allora essere considerato come un perfetto esempio della sublimazione attraverso la scrittura della sua identità omosessuale. Quanto all’omosessualità di S. M. Ejzenštejn, sarebbe riduttivo vederla come la ragione della scelta di Barthes per questo cineasta in particolare. A tal proposito, è interessante notare che Dominique Fernandez, discutendo dell’omosessualità di Ejzenštejn, darà all’introduzione e alla conclusione della sua opera un titolo la cui ispirazione non può che rallegrarci: Le troisieme Ejzenštein. Scegliamo, a questo punto della nostra analisi, di citare incidentalmente questo dettaglio biografico riguardante i nostri due autori, seguendo l’esempio di Barthes stesso quando spiega nel 1973, in un ultimo paragrafo di seguito al suo testo, quasi come post-scriptum del suo articolo Diderot, Brecht, Ejzenštein, le ragioni che riuniscono i tre autori intorno ai quali si articola tutta la sua tesi: Brecht, semble-t-il, ne connaîssait guère Diderot (à peine, peut-être, le Paradoxe). C’est pourtant lui-même qui autorise, d’une façon toute contingente, la conjonction tripartite qui vient d’être proposée. Vers 1937, Brecht eut l’idée de fonder une Société Diderot, lieu de rassemblement d’experiences et d’études théatrales, sans doute parce qu’il 155 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes voyait en Diderot, outre la figure d’un grand philosophe matérialiste, celle d’un homme de théâtre dont la théorie visait à dispenser également le plaisir de l’enseignement. Brecht établit le programme de cette Société: il en fit un tract qu’il projeta d’adresser à qui? A Piscator, à Jean Renoir, à Ejzenštein (Œuvres Complètes, II-1596). Una volta riordinati i dettagli biografici, è estremamente produttivo analizzare l’estetica che accompagna l’identità omosessuale dei due uomini e di ricavare da questa estetica uno spazio fertile in cui può evolvere, amare, desiderare, gioire, produrre e riprodursi l’amante che Barthes diviene. Infine, abbiamo visto che la comparazione tra l’estetica di Ejzenštejn e quella di Barthes rivela come quest’ultimo giunge a far subire al proprio testo il trattamento da lui stesso inflitto ai film del cineasta russo. Per convincersene, concluderemo menzionando la copertina de L’Obvie et l’Obtus, che sarà pubblicato due anni dopo la morte di Barthes, su cui si trova una prière d’insérer firmata R.B. che non è altro che un montaggio di un estratto di un testo Le troisieme sens in cui certe parole, talvolta anche frasi intere, sono cancellate per essere sostituite da semplici barre verticali: il me faut distinguer trois niveaux de sens. Un niveau informatif, ce niveau est celui de la communication. Un niveau symbolique, et ce second niveau, dans son ensemble, est celui de la signification. Est-ce tout? Non. Je lis, je reçois, évident, erratique et têtu, un troisième sens. (cité par L.J. Calvet). Ciò che Barthes fa qui riscrivendo il suo testo, facendone un montaggio, è di produrre un testo nuovo, un senso nuovo. In questo modo, anche dopo la sua morte, Barthes continua a produrre e a riprodursi. Giunge così a sfuggire a «sa mort future dans les termes même où il a nommé et compris le monde» (Système de la Mode — un altro S.M.). E finalmente, dalle profondità di questo spazio testuale, di 156 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes questa zona del desiderio, di questo luogo del piacere, continua dunque a risuonare — e a ragionare — la voce di Roland Barthes che resta, ancora oggi, uno dei commentatori più lucidi delle immagini del nostro mondo moderno. 157 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno 5 Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes Roger Caillois Dalla parola alla scrittura* di Roland Barthes Noi parliamo, veniamo registrati, segretarie diligenti ascoltano i nostri discorsi, li ripuliscono, li trascrivono, vi mettono la punteggiatura, ne estraggono un primo script1 che ci sottopongono perché noi lo ripuliamo di nuovo prima di destinarlo alla pubblicazione, al libro, all’eternità. Non è questo il maquillage riservato a un cadavere? La nostra parola, noi la imbalsamiamo, come una mummia, per farla eterna. Perché è necessario durare un po’ più della propria voce, è necessario, per la commedia della scrittura, iscriversi da qualche parte. Tale iscrizione in che modo la paghiamo? Che cosa ci rimettiamo? Cosa guadagniamo? La trappola della scrizione2 Ecco da principio a grandi linee ciò che cade nella trappola della scrizione (preferiamo questo termine, per quanto sia pedante, a quello di scrittura: la scrittura non è per forza il modo di esistenza di ciò che è scritto). In primo luogo noi perdiamo, è evidente, qualcosa in innocenza; non che la parola sia in se stessa fresca, naturale, spontanea, veridica, espressiva di una sorta di interiorità pura; al contrario la nostra parola (soprattutto in pubblico), è immediatamente teatrale, essa prende in prestito i suoi giri (nel senso stilistico e ludico del termine) da tutto un insieme di codici culturali e oratori; la parola è sempre tattica; ma passando allo scritto è l’innocenza stessa di * Su La Quinzaine littéraire, 1 marzo 1974. Cfr OC IV, 537-341. Lemma presente nel testo francese. 2 Nel testo di Barthes /scription/. 1 158 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes questa tattica, percepibile a chi sa ascoltare, esattamente come altri sanno leggere, che noi rendiamo felpata; l’innocenza è sempre esposta; riscrivendo ciò che abbiamo detto noi ci proteggiamo, ci sorvegliamo, ci censuriamo, biffiamo le nostre stupidaggini, le nostre sufficienze (o insufficienze), le nostre fluttuazioni, le nostre ignoranze, le nostre compiacenze, il nostro essere in panne (perché, parlando, noi non avremmo il diritto, a proposito di questo o di quell’argomento avanzato dal nostro interlocutore, di rimanere a secco?), in breve tutta la varietà del nostro immaginario, il gioco personale del nostro io; la parola è pericolosa perché è immediata e non può riprendersi (a meno che non ricorra al supplemento di una ripresa esplicita); la scrizione invece ha del tempo dinanzi a essa; ha quel tempo che è necessario per poter girare sette volte attorno alla lingua in bocca (mai consiglio proverbiale è stato più illusorio); scrivendo ciò che abbiamo detto perdiamo (o conserviamo) tutto ciò che separa l’isteria dalla paranoia. Altra perdita: il rigore delle nostre transizioni. Spesso noi «filiamo» il nostro discorso a basso prezzo. Tale «filato», questo flumen orationis che disgustava Flaubert, è la consistenza della nostra parola, la legge che essa stessa si impone; quando noi parliamo, quando noi «esponiamo» il nostro pensiero man mano che il linguaggio gli si presenta, noi crediamo bene di esprimere ad alta voce le inflessioni della nostra ricerca; siccome noi lottiamo a cielo aperto con la lingua, siamo sicuri che il nostro discorso «si rapprenda», «assuma consistenza» e che ogni stadio del nostro discorso prenda la sua legittimità dallo stadio anteriore; in una parola, noi vogliamo una nascita diretta e noi svolgiamo i segni di questa filiazione regolare; da qui la nostra parola pubblica, i tanti /ma/ e i tanti /quindi/, tante riprese e denegazioni esplicite. Non è che queste piccole parole abbiano un grande valore logico; sono, se vogliamo, degli espletivi del pensiero. La scrittura 159 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes spesso ne fa economia; essa osa l’asindeto, questa figura tagliente che sarebbe insopportabile per la voce quanto una castrazione. Ciò comporta un’ultima perdita, inflitta alla parola dalla sua trascrizione: quella di tutti quei cascami del linguaggio — del tipo /per intenderci/ — che i linguisti riferirebbero senza dubbio a una delle grandi funzioni del linguaggio, alla funzione fatica o di interpellanza; quando noi parliamo noi desideriamo che il nostro interlocutore ci ascolti; noi risvegliamo allora la sua attenzione tramite delle interpellanze vuote di senso (tipo /allora, allora, mi segue?/); molto modeste, queste formule, queste espressioni, hanno qualcosa di discretamente drammatico: sono dei richiami, delle modulazioni — direi quasi, pensando agli uccelli, dei canti — attraverso cui un corpo cerca un altro corpo. È questo canto — goffo, piatto, ridicolo allorché è scritto — che si spegne nella nostra scrittura. Capiamo mediante queste osservazioni che ciò che si perde durante la trascrizione è molto semplicemente il corpo — almeno questo corpo esteriore (contingente) che, nella situazione del dialogo, lancia verso un altro corpo, altrettanto fragile (o agitato, inquieto), dei messaggi intellettualmente vuoti, la cui sola funzione è in qualche modo di abbordare l’altro (addirittura nel senso prostitutivo del termine) e di mantenerlo nel suo stato di compagno. Trascritta, la parola cambia destinatario e quindi soggetto, poiché non vi è soggetto senza Altro. Il corpo, sebbene sempre presente (non vi è linguaggio senza corpo) cessa di coincidere con la persona o, per meglio dire, con la personalità. L’immaginario del parlante muta spazio: non si tratta più di domande, di richiami, di un gioco di contatti; si tratta di istallare, di rappresentare una discontinuità articolata, ovvero, nei fatti, una argomentazione. Questo nuovo progetto (esasperiamo qui 160 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes volontariamente le opposizioni) è leggibile molto bene nei semplici incidenti che la trascrizione aggiunge (poiché essa non ne ha fisicamente i mezzi) alla parola (dopo averle tolto tutte le scorie che abbiamo detto): da subito dei veri perni logici: non si tratta più di quei minuti legami (/ma/, /quindi/) di cui la parola si serve per colmare i suoi silenzi; si tratta di rapporti sintattici pieni di veri semantemi logici (tipo /benché/, /in modo che/); altrimenti detto, ciò che la trascrizione permette e sfrutta è una cosa che ripugna al linguaggio parlato ed è ciò che si chiama in grammatica subordinazione: la frase diventa gerarchica, si sviluppa in essa, come in una messa in scena classica, la differenza dei ruoli e dei piani; socializzandosi (poiché passa a un pubblico più vasto e meno noto) il messaggio ritrova una struttura d’ordine; delle «idee», entità appena afferrabili nell’interlocuzione, in cui esse sono senza sosta sopravanzate dal corpo, sono messe qui in prima linea, lì invece in fondo e come in contrasto; questo nuovo ordine — anche se l’emergenza è sottile — si serve di due artifici tipografici, che vanno ad aggiungersi ai «guadagni» della scrittura: la parentesi, che non esiste nella parola e che permette di segnalare con chiarezza la natura secondaria o digressiva dell’idea e la punteggiatura che, lo sappiamo, divide il senso (e non la forma, il suono). Si manifesta così nello scritto un nuovo immaginario che è quello del «pensiero». Ovunque vi sia concorrenza tra la parola e lo scritto, lo scritto vuol dire in un certo modo: io penso meglio, in maniera più salda; io penso meno per voi, io penso più per la «verità». Senza dubbio l’Altro è sempre qui, sotto la figura anonima del lettore; anche il «pensiero» messo in scena attraverso le condizioni dello script (per quanto discrete, apparentemente insignificanti esse possano essere) resta tributaria dell’immagine di me che io voglio dare al pubblico; più che di una filiera inflessibile di dati e di argomenti, si tratta di uno spazio tattico di proposizioni, ovvero, in fin dei 161 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes conti, di posizioni. Nel dibattito di idee, molto sviluppato oggi grazie ai mezzi di comunicazione di massa, ogni soggetto è condotto a situarsi, a distinguersi, a porsi intellettualmente, cioè politicamente. Troviamo qui senza dubbio la funzione attuale del «dialogo» pubblico; contrariamente a ciò che accade nelle altre assemblee (giudiziaria o scientifica, per esempio), persuadere o strappare una convinzione non sono più le vere poste in gioco di questi nuovi protocolli si scambio: si tratta piuttosto di presentare al pubblico, e poi al lettore, una sorta di teatro degli impieghi intellettuali, una messa in scena delle idee (tale riferimento allo spettacolo non intacca in nulla la sincerità o la oggettività dei discorsi scambiati, il loro interesse didattico o analitico). Questa è, mi sembra, la funzione sociale di questi Dialoghi3: tutti insieme formano una comunicazione di secondo grado; una «rappresentazione», lo scivolamento spettacolare di due immaginari: quello del corpo e quello del pensiero. La scrittura non è lo scritto Resta possibile, è chiaro, una terza pratica di linguaggio, assente secondo statuto da questi Dialoghi: la scrittura propriamente detta, quella che produce testi. La scrittura non è la parola e questa separazione ha ricevuto negli ultimi anni una consacrazione teorica: ma essa non è neppure lo scritto, la trascrizione; scrivere non è trascrivere. Nella scrittura, ciò che è troppo presente nella parola (in un modo isterico) e troppo assente dalla trascrizione (in un modo castrante), ovvero il corpo, ritorna ma secondo una via indiretta, misurata, e per dirlo 3 Questo testo doveva servire come prefazione a una prima serie di Dialogues prodotti da Roger Pillaudin per France Culture e pubblicati dalle Presses Universitaires di Grenoble. 162 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica ■ Anno V Numero 13 Semiotropie. Eredità di Barthes chiaramente giusta, musicale, per il godimento e non per l’immaginario (l’immagine). È in fondo questo viaggio del corpo (del soggetto) attraverso il linguaggio che le nostre tre pratiche (parola, scritto, scrittura) modulano, ciascuno a suo modo: viaggio difficile, tortuoso, variato, a cui lo sviluppo della radio-diffusione, ovvero di una parola nello stesso tempo originale e trascrivibile, effimera e memorabile, dà oggi un interesse notevole. Sono persuaso che i Dialoghi qui trascritti non valgono solo per la massa di informazioni, di analisi, di idee e di contestazioni che vi si dispiegano coprendo il campo molto vasto della attualità intellettuale e scientifica; essi hanno anche il valore di una esperienza differenziale dei linguaggi: la parola, lo scritto e la scrittura impegnano ogni volta un soggetto separato e il lettore, l’ascoltatore devono seguire questo soggetto diviso, differente a seconda che esso parli, trascriva o enunci. 163