Scarica la versione integrale della testimonianza

Transcript

Scarica la versione integrale della testimonianza
Mattia Alberto Ansaldi
Mi chiamo Mattia Alberto Ansaldi. Sono nato a Torino il 12 marzo 1927.
Sono stato fatto prigioniero a sedici anni, il 20 settembre del 1943, dalla polizia politica
fascista. Motivo: il 10 settembre del ‘43 avevano parlato con i miei genitori dei soldati che
erano scappati dalle caserme l'8 settembre a Cuneo, pregandoli di portare loro roba,
vestiti, perché volevano ritirarsi sulle montagne e non andare con i tedeschi. Ragion per
cui avevano bisogno di tutto. Entusiasta, sedicenne - per me era una grande avventura sono partito, ho portato su della roba. Arrivato mi hanno chiesto se, per favore, riuscivo a
trovare altre persone che volessero andare a far resistenza sui monti con loro. Ho
risposto: “Volentieri!”. Ritorno a casa - in quel periodo noi eravamo sfollati nella città di
Alba - ritorno a casa, spargo la voce e diverse persone rispondono. Ho dato l'indirizzo del
posto in cui c'era questa riunione di soldati scappati dalle caserme, dopo di che sono
partito con loro ancora un'altra volta a portare altra roba. Ritornato indietro, il giorno
seguente, che era il giorno 20, al mattino stavo parlando con mia madre che aveva un
negozio di alimentari ad Alba, una persona entra e mi chiede “Tu sei Ansaldi?”. Io vedo
che questa persona tira fuori una pistola di tasca e scappo dalla parte opposta, ma dalla
parte opposta c'era già un'altra persona, un altro giovane che mi aspettava. Quindi erano
molto informati circa l'ubicazione di casa mia.
In seguito, tanto tempo dopo, ho saputo il motivo di questa cosa: fui arrestato in seguito a
una delazione involontaria di una persona che non mi era nemica per niente. Io sono stato
arrestato dalla polizia politica fascista come un grande traditore, perché avevo aiutato i
ribelli. Ma io non ne sapevo assolutamente nulla di queste cose. A sedici anni nel 1943 si
era semplicemente dei ragazzi, io ero studente durante il periodo di vacanza, non si
sapeva assolutamente nulla. Essendo cresciuti sotto il regime fascista quando in casa si
parlava di politica, a noi non interessava assolutamente. Cosa potevo sapere io? Io mi
sono trovato a fare il saluto fascista davanti ai tedeschi e prendere un grande ceffone
perché mi hanno detto che ero un traditore. Io non sapevo cosa avevo tradito, eppure
avevo tradito. Poi in seguito ho capito il perché.
Fui trasportato prima a Savona, alla Casa dello Studente, dopo di che la notte stessa fui
portato a Marassi, nell'ultima sezione in alto. Là, sono stato in isolamento dal 20 di
settembre ai primi di gennaio, il giorno esatto che mi hanno fatto uscire non lo ricordo
assolutamente.
Mi hanno messo con altre due o tre persone lì - non so forse erano di Genova, perché
abbiamo parlato molto poco - e ci hanno spedito in un altro posto. Il mio non è stato un
vero e proprio trasporto. Noi siamo stati trasferiti da Genova con un treno civile, eravamo
cinque persone. Eravamo in uno scompartimento con delle serrande di legno che
bloccavano tutto. Noi siamo partiti in quello scompartimento da soli, noi cinque soli. C’era
una guardia italiana sulla porta. Ci hanno accompagnato fino alla frontiera, alla frontiera
hanno dato il cambio ai tedeschi.
Siamo arrivati, dopo quasi un giorno e mezzo di viaggio, in un campo di concentramento,
dove c’erano solo baracche, non so quale fosse ma penso fosse Dachau. Ci hanno fatto
passare lì due o tre giorni, dopo di che siamo ripartiti, io e i due uomini, le donne non le ho
più viste. Però, ad un certo punto, loro sono spariti e sono rimasto solo. Mi trovavo - ho
saputo dopo - nel bacino della Ruhr, dove non mi hanno dato nessun numero, mi hanno
soltanto tolto i vestiti civili e mi hanno dato un paio di pantaloni neri e una giacca nera. Mi
hanno fatto lavorare vicino a delle grandi industrie, lì nel bacino della Ruhr. Dopo diversi
altri bombardamenti che hanno distrutto le baracche, sono stato mandato in un campo
dove non sono stato immatricolato. Sono tornato direttamente, questo sempre in tarda
primavera del ‘44, verso la frontiera tedesca, danese, a costruire le forze anticarro, unico
italiano fra tremila e più russi e polacchi. Questa è stata una cosa molto interessante
perché durante tutto il periodo della mia prigionia ho incontrato soltanto un italiano, meglio che non l'avessi incontrato! - che poi non era prigioniero, l'ho incontrato a
Mauthausen. Questo, però, è successo più avanti.
Dopo un po' di tempo siamo stati trasportati, finito di fare queste fosse, a Sachsenhausen.
Siamo arrivati lì il 15 settembre del ‘43, dove mi hanno dato il numero 103.686. Durante il
periodo
di
permanenza
nel
campo
di Sachsenhausen sono stato addetto al
Bombenkommando, ovvero una squadra, una piccola équipe di cinque o sei persone. Lì
ho avuto una grande fortuna, ho incontrato moltissimi belgi, diversi belgi con i quali
parlando in francese ci siamo potuti capire. E’ stata la prima volta, perché il mio tedesco
era molto scolastico e lo sapevo molto poco, perciò me la sono cavata sempre
discretamente parlando un paio di lingue.
Il periodo del Bombenkommando posso dire che è stato forse il periodo migliore, per il
semplice motivo che, vivendo praticamente nella città di Berlino, avevo la possibilità di
racimolare qualcosa da mangiare in più, cosa che nel campo non succedeva. Nel
contempo, però, venivamo sempre decimati perché ogni tanto una squadra saltava in aria
e per fortuna mia sono rimasto ancora qui tuttora, perciò mi è andata sempre bene. La mia
mansione in questo commando era quella di disinnescare gli ordigni inesplosi più che
altro, il recupero non era compito nostro. Infatti siamo andati avanti per un bel periodo di
tempo, per diversi mesi.
Il campo di Sachsenhausen era organizzato molto bene, francamente parlando è stato
uno dei migliori Lager. C’erano tantissime baracche ripartite in vari settori. Non so quante
baracche ci fossero, io ero stato assegnato alla baracca numero quindici. Sono stato lì per
un certo periodo, poi sono stato trasferito in un’altra baracca, ma non ne ricordo il numero
perché il numero si ricordava soltanto quando eri all’appello per andare al tuo posto per
dormire.
Il campo di Sachsenhausen era organizzato non solo militarmente, era organizzato con un
criterio particolare, perché il comando delle SS, la famosa Villa Eicke, dove c’era il
comando tattico delle SS, praticamente quelli che sovrintendevano a tutti i campi di
concentramento, era proprio vicino a noi. Quindi noi eravamo il campo scuola per loro,
ragion per cui tutto doveva filare alla perfezione.
Cominciato il ‘45, siamo rimasti un po' nel campo, c'era un po' di maretta perché stavano
arrivando le truppe alleate. Cosa succede? Succede semplicemente che noi veniamo
trasferiti con un trasporto di tremilacinquecento persone e più, da Sachsenhausen a
Mauthausen, in Austria.
Io di questo trasporto mi ricordavo quasi vagamente, era una cosa per me quasi
inconsistente, nebulosa. Ho avuto la fortuna di incontrare durante il mio periodo di
recupero in Germania alcuni amici tedeschi, danesi, ecc. Erano partiti con me da
Sachsenhausen, sullo stesso trasporto, a distanza, poi sempre a distanza perché il loro
numero era di poco inferiore e un altro poco superiore al mio e questo mi ha dato una
grande gioia e ho detto “Ci siamo trovati fratelli, uniti anche se di diverse nazionalità, non
importa!”.
La cosa più interessante è stata quando siamo arrivati a Mauthausen. Ci hanno fatto fare
la scalinata, noi non mangiavamo e non bevevamo da tre giorni. Su quella scalinata non
so quanti ne siano rimasti, tanti. Siamo arrivati, ci hanno passati alla doccia, spogliati,
dopo di che non ci hanno dato nessun vestito perché non c'era niente da mettere
addosso. Ci hanno mandati nel sotterraneo situato nell'ultimo edificio in fondo a destra,
dove per fortuna nostra c'era del sale rosso in sacchi. Questo cloruro di sodio ci ha salvato
la vita, perché succhiando quello siamo riusciti a produrre un po' di liquido per il nostro
corpo. Dopo di che ci hanno vestito, ci hanno dato qualcosa da mettere addosso e siamo
scesi al San Valentin, in miniera. Alla mina ci hanno mandati a lavorare, per un periodo di
tempo abbastanza breve perché siamo stati sì e no venti, venticinque giorni. Mi hanno
immatricolato di nuovo, il mio numero di Mauthausen è 130.230.
Dopo una ventina di giorni che facevamo la spola fra San Valentin e Mauthausen, ci
hanno bloccato e ci hanno mandati alla stazione ferroviaria e poi spedito ad Amstetten. Ho
sempre creduto fosse Ebensee, poi finalmente sono riuscito ad appurare che era
Amstetten. E lì in questa cittadina siamo andati a riparare la stazione ferroviaria che
veniva bombardata di notte. Noi di giorno la riparavamo, abbiamo continuato fino alla fine
del conflitto.
Il campo di Amstetten era grandissimo, era una vecchia struttura austriaca dove c’era un
grande maneggio. Noi dormivamo tutti per terra sul terreno nudo in una sala lunga
trecentocinquanta, quattrocento metri. Non so quanto fosse in larghezza, noi dormivamo
tutti lì. Poi c’erano due baracche dove ci davano la sbobba e il pane, tutto lì.
La liberazione è avvenuta il 6 maggio 1945 alle 14 del pomeriggio ad Amstetten. Un carro
armato statunitense abbatte la porta, il portale d’ingresso del campo e si ritira. Non viene
dentro. Le SS erano sparite tutte, era rimasto soltanto qualche vecchio soldato che poi gli
ultimi giorni erano spariti, il vitto non c’era più. Eravamo a terra, degli zombi diciamo.
Abbiamo cercato di uscire di andare da qualche parte, io ho avuto la fortuna di uscire e
andare verso dove non so. Mi sono trovato vicino a una fattoria, un casolare, sono entrato,
ho visto una donna che, commossa, mi ha dato una ciotola con della verdura. Ho
mangiato con avidità perché ovviamente avevo fame, poi sono uscito. Nell’uscire, nel buio
della grande camera dov’ero, ho visto delle divise. Erano di soldati tedeschi che anche
loro tornavano a casa, più o meno facevano come noi.
Dopo questo ho proseguito per la mia strada e mi sono trovato nella piccola cittadina di
Bad Ischl. A Bad Ischl ho incontrato il comando inglese, delle truppe inglesi. Sono stato
portato in infermeria, dove mi hanno disinfettato, solo che non mi davano da mangiare, io
avevo una fame tremenda. Quindi, mi sono alzato, ho preso qualcosa me la sono messa
addosso e sono andato fuori. Ho avuto la fortuna di trovare un altro italiano, un militare
italiano che mi ha aiutato ad andare verso il Municipio dove ci davano degli indumenti da
metterci addosso. Poi siamo riusciti ad avere anche qualche cosa da mangiare, dopodiché
abbiamo peregrinato per un po’ di tempo, fino a che non siamo riusciti a trovare un mezzo
che ci ha portati fino a Innsbruck. Lì, ci siamo fermati perché tutte le macchine di
Innsbruck sono state sequestrate perché c’era la colonna del Vaticano che partiva da
Innsbruck per portarci giù in Italia, però partiva diversi giorni dopo e quindi abbiamo dovuto
arrangiarci anche per i viveri. In qualche modo siamo riusciti a sopravvivere, dopodiché
siamo rientrati in Italia.
Io sono arrivato fino ad Alessandria. Noi allora abitavamo, almeno speravo che si abitasse
ancora ad Alba perché durante tutto il periodo della prigionia io non ho potuto né scrivere
né ricevere. Quindi, ero all’oscuro di tutto, non sapevo se i miei genitori fossero ancora vivi
o meno. Comunque ho avuto la fortuna di arrivare fino ad Alessandria, poi a piedi fino ad
Alba perché non c’erano né mezzi di comunicazione né niente. L’unica strada era Cava di
S. Francesco e siamo arrivati fino a casa. Era il 20 maggio del ’45. Certo quella sera…
Devo descriverla? In quegli anni la vita era ancora molto patriarcale, la televisione non
esisteva, la radio era ancora… Io arrivo alla sera, era tardi, erano più o meno le otto di
sera, c’era ancora un po’ di luce. Allora le persone, dato come dicevo non c’era né
televisione né altro, si radunavano in crocchio. Noi, essendo proprietari di un negozio di
alimentari, ci mettevamo lì, sotto un porticato a chiacchierare con varie persone. Quel
giorno, quando arrivai il mio papà era seduto con il sigaro toscano in mano e il fiammifero
dall’altra. Si volta e mi guarda, non crede ai suoi occhi, strofina il sigaro contro il muro e si
mette il fiammifero in bocca. “Papà guarda che il sigaro è quello!”. Butta via tutto, mi
abbraccia e poi stop! Soprassediamo al resto.
Durante il periodo di prigionia ho subito alcuni interrogatori ma data la mia giovane età,
l’unica cosa che mi veniva chiesta tutte le volte che entravo in un campo, in qualsiasi
posto arrivassi era: “Sei ebreo?”. Essendo molto giovane la prima cosa che domandavano
era questa. Ovviamente io ho sempre risposto di no, poi comunque c’era una cosa molto
lampante che dimostrava che non ero ebreo: gli ebrei avevano il prepuzio del pene
scoperto, invece io no, quindi lo sapevano che non ero ebreo ma la prima cosa che mi
chiedevano per la mia giovane età era quella.
A Mauthausen ho visto delle donne però soltanto dietro una finestra, mentre a Dachau sì,
ho detto Dachau ma non ne sono certo di questo. Era un campo che non conoscevo,
ragion per cui non posso dire con precisione che campo fosse, penso fosse Dachau
perché ci hanno detto che eravamo vicino a Monaco quindi l’unico campo era quello. Io ho
visto solo quelle due donne che erano con noi, che erano partite da Genova con noi. A
Neuengamme non ne ho viste in assoluto, alla frontiera danese non ho visto donne
assolutamente. Alla frontiera danese devo dire un piccolo particolare, i danesi sono stati
molto, molto gentili con noi. Noi lavoravamo e passavamo incolonnati partendo da dove si
dormiva per andare nei campi di lavoro. Tante volte delle donne vedevano passare questa
gente smunta, malandata e ci davano delle piccole cose. Tante volte si trovava sul lato
della strada un pezzo di carta con dentro un pezzetto di pane, pane e margarina per noi
era come se fosse uno dei più grandi dolci, una torta o qualcosa di simile. Poi una volta un
convoglio di rifornimenti è stato bombardato, loro ci hanno aiutato, anche se avevano
razziato già tutto i tedeschi, ci hanno aiutato con un po’ di patate e barbabietole.
Di religiosi cattolici non ne ho mai incontrati, testimoni di Geova sì. Erano due anche se
l’ho saputo solo dopo che erano testimoni di Geova ed erano gli ultimi rimasti nel campo di
Sachsenhausen dove sono passati circa quattrocento e più testimoni di Geova. Sono gli
unici religiosi con i quali ho parlato, di religiosi della religione cattolica non ne ho incontrati
assolutamente, come pure di altre religioni. Ragazzi più giovani di me non ne ho mai
incontrati. Di ebrei ce n’erano, ne ho incontrati un po’ da tutte le parti. Però loro erano una
razza a parte, nel senso che loro facevano clan, erano sempre tutti uniti.
Nel Revier ci sono stato una volta per una piccola ferita superficiale, sono stato solo
disinfettato, ricoverato mai.
Del periodo trascorso nei campi, purtroppo mi porto dietro una terribile pleurite perché
quando sono arrivato a Sachsenhausen ci hanno lasciato fuori nel cortile nella piazza
dell’appello per quasi quarantasette o quarantotto ore nudi completamente, perché non
c’era posto nelle baracche o per qualche altro motivo.
Dei compagni che sono partiti con me da Genova ricordo un solo nome: Gino, è l’unico
che ricordo, però il cognome non lo ricordo. Io di italiani non ne ho incontrati mai. Ho avuto
un rapporto solo con dei belgi che sono stati con me al Bombenkommando di Berlino.
L’unico italiano che ho incontrato era un civile che ho trovato nella galleria di S. Valentino
che lavorava. Il motivo è semplicissimo. Nel campo l’unica parola che campeggiava
sempre era la parola “fame”. Una mattina avevo trovato il mio vicino di castello - perché si
dormiva in due, erano i castelli da tre piani ed eravamo in sei, cioè due per piano defunto, aveva un maglione addosso, glielo ho tolto e ovviamente me lo sono messo. Nel
contempo ho preso anche la sua razione di pane che davano al mattino, non avendolo
ancora dichiarato morto, perché la fame era la prima cosa. Nella galleria di S. Valentin, un
italiano mi vede questo maglione addosso e mi dice: “Se mi dai quel maglione, io te lo
vendo e ti do tre filoni di pane!”. Puoi capire! Ho accettato al volo, mi ha detto “però mi devi
dare il maglione adesso perché io devo portarlo fuori e poi ti porto il pane”. Devo ancora
vederlo adesso.