Critica istituzionale e crisi di memoria. I regimi memoriali della
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Critica istituzionale e crisi di memoria. I regimi memoriali della
Ciro Tarantino Università della Calabria Critica istituzionale e crisi di memoria. I regimi memoriali della disabilità segregata nell’Italia repubblicana 1. Premessa Nel tempo a mia disposizione, vorrei provare a sottoporre alla vostra attenzione e alla vostra critica la struttura di base di un programma di ricerca di cui ho avvertito l’esigenza progressivamente e al quale, ora, vorrei dedicarmi per un certo tempo. Mi piacerebbe molto che le linee di analisi potessero correggersi, modificarsi e, al limite, arrestarsi, a partire da un luogo-simbolo come questo. Riprendendo con impudicizia il titolo di una celebre descrizione etnologica di quasi due secoli fa, pur a lungo rimasta inedita, direi che mi propongo di abbozzare un discorso sopra lo stato presente dei costumi memoriali degl’italiani nel campo della “disabilitazione sociale”. Uso il sintagma “disabilitazione sociale” – formula, mi rendo conto, assolutamente insufficiente – per riferirmi sinteticamente a quell’insieme di processi sociali di incapacitazione di soggetti individuali e collettivi, che hanno una matrice storica comune nei dispositivi di governo della follia e delle cosiddette disabilità fisiche, cognitive e sensoriali, in una bipartizione il cui codice culturale di formazione è ancora integralmente da indagare. Vorrei provare a eseguire due movimenti del discorso, con un andamento in presto, mettendo in sequenza una serie di nodi tematici e problematici, più che sviluppare singole argomentazioni, e porre così, nel primo movimento, il tema della crisi della critica delle istituzioni totali e rilevare, nel secondo movimento, le implicazioni di questa crisi per la convivenza democratica. In uno studio a venire si tratterà di analizzare la diversa forma e la diversa incidenza della crisi nel sotto-campo della salute mentale e in quello delle disabilità intese in senso convenzionale. 1. Primo movimento Il primo movimento dunque, cioè l’ipotesi di una crisi latente e progressiva della critica delle istituzioni totalitarie, provocata o accentuata da una crisi di memoria delle istituzioni stesse. Per inciso, uso la dicitura “istituzioni totalitarie”, rispetto alla consolidata espressione “istituzioni totali”, seguendo l’indicazione di Robert Castel ad assumere l’ambiguità dell’aggettivo “totalitario”, per non disperdere, come scrive in una nota al secondo capitolo de L’ordine psichiatrico, 1 «l’anfibologia stessa del concetto, i cui registri strutturali e politici sono indissolubili»1. È questa una scelta linguistica determinata che Castel compie già nel 1968, nella traduzione francese di Asylums di Erving Goffman2, testo cardine della tradizione sociologica. Mi rendo conto che posta qui e ora l’ipotesi è più prossima a un reato topologico e cronologico che a una base d’indagine. Sono, cioè, ancora sufficientemente orientato nello spazio e nel tempo per rendermi conto che parlarne a Trieste – luogo della critica anti-istituzionale e ora suo lieu de mémoire, nell’accezione di Pierre Nora3 –, all’interno dei lavori di un Laboratorio consacrato alla memoria, laboratorio promosso poi dalla Provincia, erede istituzionale di quell’ente entro cui la rivoluzione si fece, per di più nel momento in cui sono in via di definitiva dismissione gli ospedali psichiatrici giudiziari – l’istituzione più estrema del dispositivo psichiatrico-giudiziario4, e che pure alla ghigliottina triestina era scampata –, quando ancora dopotutto la violenza istituzionale riesce a indignare e a fare scandalo, mi rendo conto, dicevo, che ipotizzare una crisi della critica istituzionale può apparire qui una palese violazione di quel tabù dell’oggetto e di quel rituale della circostanza in base ai quali non si ha il diritto di parlare di tutto in qualsiasi occasione; forme di interdetto di cui Foucault ci ha avvertito da tempo5. E so anche che non mancherà un versetto del DSM V – manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali –, nuovo testamento nosografico, versetto utile a ricomporre nello spettro di una precisa sindrome queste infrazioni di tempo e di luogo. Eppure ritengo che ci siano segni premonitori di questa crisi, signatura rerum6. Ma non è certo questa la sede in cui si rende necessario passare in rassegna i rigurgiti della fenomenologia dello spirito manicomiale. Mi limito, allora, a rinviare ai recenti lavori di Paolo Cipriano, La fabbrica della cura mentale e Il manicomio chimico7, e al volume della vostra concittadina Giovanna Del Giudice sulla sua esperienza nel servizio psichiatrico di diagnosi e cura di Cagliari, dal titolo … e tu slegalo subito8, che parte dalla morte di Giuseppe Casu nel giugno 2006, dopo sette giorni di contenzione a letto. In fondo, però, basterebbe richiamare un testo unico e definitivo, dal significativo titolo Legare i vecchi9; volume che riunisce gli atti dell’omonimo convegno veneziano del maggio 1995, in cui la geriatria ha dibattuto in dettaglio sul quando e come contenere la nuova folla delinquente composta di attempati facinorosi in pannoloni verdi10, tarati – pare – da un incedere della pericolosità sociale direttamente proporzionale a quello dell’età individuale. Vorrei, invece, far cenno a un paio di episodi minori, anzi decisamente infinitesimali sul piano storico, ma non irrilevanti – credo – sul piano simbolico. Entrambi capitati di recente ad Aversa, luogo par excellence della tradizione manicomialista meridionale. Il primo riguarda l’ex manicomio civile, il secondo l’Opg, l’ospedale psichiatrico giudiziario, già manicomio criminale. Ebbene, nello scorso mese di marzo, un collettivo di ragazzi occupa alcuni locali dell’ex manicomio, dismesso alla fine del Novecento, locali un tempo adibiti a falegnameria. Nei materiali che rivendicano, accompagnano e divulgano l’iniziativa non ci sono riferimenti a che cosa sia stato quel luogo, non 1 R. Castel, L’Ordre psychiatrique. L’âge d’or de l’aliénisme, Minuit, Paris 1977; trad. it. L’ordine psichiatrico. L’epoca d’oro dell’alienismo, Feltrinelli, Milano 1980, p. 59. 2 R. Castel, Présentation, in E. Goffman, Asiles. Études sur la condition sociale des malades mentaux, Minuit, Paris 1968, pp. 9-38. 3 Cfr. P. Nora (sous la direction de), Les Lieux de mémoire, 3 voll., Gallimard, Paris 1984-1992. 4 Cfr. C. Tarantino, La strategia della lumaca. Appunti sulla dismissione degli ospedali psichiatrici giudiziari, in C. Tarantino, A.M. Straniero, La Bella e la Bestia. Il tipo umano nell’antropologia liberale, Mimesis, Milano-Udine 2014, pp. 77-96. 5 Cfr. M. Foucault, L’Ordre du discours, Gallimard, Paris 1971. 6 Cfr. G. Agamben, Signatura rerum. Sul metodo, Bollati Boringhieri, Torino 2008. 7 P. Cipriano, La fabbrica della cura mentale. Diario di uno psichiatra riluttante, elèuthera, Milano 2013 e Id., Il manicomio chimico. Cronache di uno psichiatra riluttante, elèuthera, Milano 2015. 8 G. Del Giudice, ... e tu slegalo se puoi, AlphaBeta, Merano 2015. 9 A. Cester (a cura di), Legare i vecchi, EdUp, Roma 1995. 10 Cfr. N. Valentino (a cura di), Pannoloni verdi. Dispositivi mortificanti e risorse di sopravvivenza nell’istituzione totale per anziani, Sensibili alle foglie, Dogliani 2006. 2 c’è memoria di quegli spazi, se non un cenno fugace e assai generico. Il diario neomediatico che viene redatto giorno per giorno, in quest’epoca di tempo stretto che twitta posta e tagga, documenta essenzialmente un’opera di pulizia degli spazi, come primo segno della necessità di una loro riqualificazione e riappropriazione pubblica, senza speculazioni. Opere e intenti assolutamente meritori, ma posti in maniera tale che il luogo risulta elemento secondario se non indifferente: nella individuazione e selezione di spazi urbani di cui poter prendere possesso, in applicazione di un criterio di necessità/disponibilità, si è scelta una porzione dell’ex manicomio quale simbolo attuale di abbandono e degrado. Simbolo attuale e non storico, simbolo di abbandono e degrado dei luoghi più che dell’umano. Ci si è rivolti, cioè, a quei luoghi come puro spazio, una superficie scarica di storia, una superficie da restituire liscia, priva di incrostazioni di tempo. I social network documentano pienamente questo sforzo di pulizia tramite un’iconografia e una didascalia che restituiscono la fatica del togliere erbacce, stuccare muri, ripianare tetti, sistemare porte. Fatica intensa, collettiva e volontaria, il cui senso però è quello di una massiccia operazione di pulizia. L’opera di questi ragazzi si svolge così sul filo di una memoria in bilico fra la rimozione e il passaggio di testimone. Opzione che non durerà a lungo. Il secondo episodio è composto di un frammento di discorso intercettato in metropolitana; da tempo, Marc Augé ha costretto l’etnologo nel metro11. Una giovane ragazza racconta a un’amica di star lavorando all’allestimento di uno spettacolo teatrale che ha per soggetto le vicende di una celebre internata dell’Opg di Aversa. Per farsi un’idea dei luoghi, ha chiesto e ottenuto di visitare la struttura; le ha fatto da guida una giovane psicologa che presta servizio nell’istituto. La ragazza si interroga sul perché si sia deciso di chiudere una struttura con tanti spazi a disposizione, anche un’area verde ben curata e un piccolo museo, e in cui si sono organizzate e ancora si potrebbero organizzare tante attività con gli internati. C’è anche un grande teatro. Ancora lo slittamento verso uno spazio vergine, immemoriale, uno spazio amnesico, uno spazio incosciente in tutta l’anfibologia del termine. Il ticchettio ripetitivo di episodi simili suona come un sinistro scricchiolio nel rapporto che la modernità ha instaurato fra Critica e Crisi, se non come il momento di una sua inversione. Il mondo moderno, infatti, quello messo in tensione dalla Rivoluzione francese e segnato dall’avvento delle società d’eguaglianza12, è compreso e si è autocompreso nel binomio teorico-concettuale Kritik und Krise, come ricostruito da Reinhart Koselleck13. Critica e crisi sono chiaramente fenomeni che si condizionano reciprocamente, in una spirale di azioni e retroazioni in cui è difficile individuare con nettezza quale sia il primo motore. Eppure, vi è come una “funzione KK (Kritik e Krise)” della modernità per cui si osserva una tendenziale antecedenza della critica sulla crisi, un ruolo della critica nella preparazione della crisi, la critica quale agente provocatore della crisi. È questo, come noto, il movimento individuato proprio da Koselleck in Critica illuministica e crisi della società borghese, laddove rintraccia il portato di crisi della critica14. La critica, come si può notare, precede la crisi anche nella struttura sintattica, la stimola, la innesca, in qualche modo la determina. Per inciso, un assunto simile emerge anche dalle analisi di Foucault su la Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo?15. Anche per lui, “critica” è il noema del moderno. E se lo scritto di Kant rappresenta il momento di emergenza e formalizzazione di questo movimento del pensiero, si può 11 Cfr. M. Augé, Un ethnologue dans le métro, Seuil, Paris 1986. Cfr. P. Rosanvallon, La Société des égaux, Seuil, Paris 2011. 13 Cfr. R. Koselleck, Kritik und Krise. Ein Beitrag zur Pathogenese der burgerlichen Welt, Karl Alber, FreiburgMünchen 1959. Su crisi e critica come «endiadi consustanziale alla Modernità», cfr. la Premessa di M. Cometa a Critica/crisi. Una questione degli studi culturali, a cura di M. Cometa e V. Mignano, Quodlibet, Macerata 2014, pp. 79. 14 Cfr. G. Imbriano, Il problema della crisi nel pensiero di Reinhart Koselleck, tesi di dottorato in Storia della filosofia, Università degli Studi di Macerata, 2014. 15 Cfr. M. Foucault, Qu’est-ce les Lumières ?, in Id., Dits et écrits, Gallimard, Paris 1984, t. IV, n. 339, pp. 562-578; Id., Qu’est-ce les Lumières ?, in Id., Dits et écrits, cit., n. 351, pp. 679-688; Id., «Qu’est-ce que la critique ? (Critique et Aufklärung)», in Bulletin de la Société Française de Philosophie, 2, 1990, pp. 35-63. 12 3 assumere quale terminus ad quem di tale dinamica un avvenimento minimo o, meglio, un quasi avvenimento, un non-accadimento: un progetto di rivista di cui si discute nell’autunno-inverno 1930-1931. A promuoverlo sono, tra gli altri, Brecht, Lukács, Kracauer e Benjamin. Progettano una rivista che sarebbe dovuta uscire per i tipi dell’editore berlinese Ernst Rowohlt e che mai vedrà la luce, il cui titolo definitivo sarebbe dovuto essere «Krise und Kritick». I due termini – si noterà – si trovano invertiti: da Kritik und Krise si è passati a Krise und Kritick. Qui, la crisi si antepone anche sintatticamente alla critica, pure se, come si evince dalle discussioni preparatorie, il rapporto è ambivalente, dubbio e comunque non irreversibile. Proprio la rivista, pensano anzi i redattori, dovrebbe servire a riaffermare il ruolo prevalente della critica, restituirle capacità di direzione e di indirizzo. Come si legge in un appunto programmatico, contenuto nel Walter Benjamin Archiv di Berlino: «L’ambito della rivista è la crisi odierna in tutti i campi dell’ideologia, e compito della rivista è rilevare questa crisi o provocarla, proprio con i mezzi della critica»16. Questo aborto di rivista, discusso a due anni dall’avvento della dittatura nazista, si può allora simbolicamente assumere come il piccolo ceppo che segna un’inversione di tendenza: il momento dell’esaurirsi della carica critica e della crisi della fase espansiva e inclusiva della modernità borghese. In un campo non del tutto altro, analogamente, anche il processo di decomposizione delle istituzioni totalitarie, in primis del manicomio, avviatosi negli anni Sessanta del Novecento, ha visto una prevalenza della critica sulla crisi, una sua antecedenza, sebbene in un rapporto estremamente complesso. Il carcere, ad esempio, è un’istituzione in crisi permanente fin dalla sua fondazione, e il suo stato cronico di crisi è funzionale al controllo e alla gestione della critica. Lo stesso si potrebbe affermare a proposito del ruolo svolto da alcuni scandali manicomiali. Ancora più incisivamente, si pensi a quanto esposto da Franco Basaglia nel 1967 in una relazione dal titolo Crisi istituzionale o crisi psichiatrica?, titolo di particolare interesse per il nostro discorso. Ebbene, scrive Basaglia: «Si potrebbe partire dall’ipotesi che la psichiatria sia stata messa in crisi dalle istituzioni da essa stessa create [...]»17. Ciò detto, per quanto in modo eccessivamente sintetico, si può comunque affermare che, in ambito manicomiale, è l’apertura degli spazi di critica ad aver innescato la chiusura dei luoghi di segregazione. La critica ha indotto la crisi. Anche in questo campo però, ormai da un certo tempo, sono in via di ridefinizione gli equilibri fra critica e crisi, e non è più così semplice riconoscere la prevalenza di un elemento sull’altro, il loro ordine di successione. I due processi sembrano entrati in una fase di rapida indistinzione già sul finire del Novecento, quando in Italia i manicomi chiudono definitivamente: già allora diventa difficile determinare il peso da attribuire al valore di spinta della critica sociale e quello da darsi alla crisi economica, che non rendeva più giustificabili e sostenibili i costi dell’istituzione nella sua forma compatta e ottocentesca. Basti, ad esempio, ricordare che le norme sulla definitiva dismissione vengono inserite in quelle che all’epoca ancora si chiamavano “leggi finanziarie”, leggi dunque regolative del bilancio dello Stato. Negli anni, nel campo del governo della sragione, si fa sempre più netta l’impressione dell’ingresso in una di quelle fasi che Gramsci ha definito di «restaurazione progressiva»18, una di quelle fasi in cui si dà una certa reversibilità dei fenomeni sociali. «È noto che Restaurazione è soltanto una espressione metaforica [...]»19, come l’uomo di Turi ha chiarito, «poiché – come ha scritto – è certo che nel movimento storico non si torna mai indietro e non esistono restaurazioni “in toto”»20. Non si tratta dunque di una «restaurazione effettuale»21 dell’antico regime ma di «una nuova sistemazione 16 Cit. in E. Wizisla, «“Krise und Kritick” (1930/31). Il progetto di rivista», in L’ospite ingrato, ns 3 Walter Benjamin. Testi e commenti, a cura di G. Bonola, 2013, p. 127. 17 F. Basaglia, Crisi istituzionale o crisi psichiatrica?, in Id., L’utopia della realtà, a cura di F. Ongaro Basaglia, Einaudi, Torino 2005, p. 114. 18 A. Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica a cura di V. Gerratana, 4 voll., Einaudi, Torino 1975, p. 1325. 19 Ivi, p. 1863. 20 Ivi, p. 1619. 21 Ivi, p. 1863. 4 delle forze»22 che sposta gli equilibri su di una «composizione precedente»23, dopo aver inglobato e accolto «una qualche parte delle esigenze dal basso»24. In sostanza, alla lunga rivoluzione culturale degli anni Sessanta e Settanta si contrappone ora una sorta di rivoluzione passiva, che si condensa e scarica sul restauro della Bastiglia. Anche il campo manicomiale, infatti, è strutturato su di una covarianza fra critica e crisi, per cui il tasso di critica all’istituzione ne determina il grado di crisi. Il che comporta, a contrario, che la regressione tendenziale della critica all’istituzione innesca l’inversione potenziale della crisi dell’istituzione. Ora, ritengo che un fattore determinante, se non la stessa condizione di possibilità della crisi della critica, sia da rintracciare in una caduta tendenziale del saggio di memoria, e che le ragioni di questa crisi di memoria si situino nella convergenza di due fenomeni: da un lato, la fine dell’esperienza diretta dell’istituzione e, dall’altro, lo stato di conservazione dell’esperienza culturale della contestazione. In pratica, la distanza – temporale e culturale – dall’esperienza logora e consuma il ricordo, in un processo che può essere frenato solo dalla sospensione sociale del tempo, dal suo arresto artificiale, dall’instaurazione cioè di un tempo altro e diverso da quello lineare, storico e cronologico, come ricordato da Benjamin25. Ma la conservazione di un calendario sociale dipende dalla volontà e dalla capacità di mantenere attuale l’esperienza culturale che lo ha imposto. Prima di procedere devo però fare una rapida precisazione sull’uso della nozione di “esperienza”. Per esperienza non intendo l’esserci, l’essere preso in un evento, e la correlativa conoscenza tramite mera presenza, ma un preciso contenuto di conoscenza: il fare conoscenza della logica di un evento, l’estrarre la logica di una pratica. Cosa per cui l’essere in presenza non è, al limite, né condizione necessaria né sufficiente. Non basta, infatti, essere attraversati dai rapporti di potere per riconoscere la meccanica delle forze, come non basta vedere per capire. Questa accezione di esperienza non ammette, dunque, nessun cedimento alle mitologie dell’osservatore o alle retoriche dell’empatia. Come ha scritto Bourdieu, «per rompere con le idee acquisite e con il discorso ordinario non basta “andare a vedere” come stanno le cose, come talvolta si vuol credere»26. Si aggiunga a quanto detto che la memoria delle istituzioni totalitarie è di costituzione estremamente cagionevole. L’esperienza delle istituzioni totalitarie, infatti, oltre che ai processi di ordinario deperimento, è esposta a molteplici fattori di accelerazione dell’invecchiamento e di degradazione, alcuni di ordine congiunturale, altri di ordine più strutturale. In primo luogo, le istituzioni di confino e sequestro sono estremamente sensibili ai periodi di crisi economica, che metodicamente inducono in tentazioni escludenti e stimolano reflussi segreganti, come attesta per esempio, e per l’ennesima volta, il diffuso antiziganismo di questi anni27. In secondo luogo, il pensiero manicomialista, sotto le più diverse spoglie, è di particolare pervicacia e resistenza, così da rendere altamente instabile l’egemonia del pensiero critico. Sono innumerevoli, ad esempio, i disegni di controriforma della legge 180 presentati metodicamente in ogni legislatura. Ne ho tentato una prima rassegna nel 2001, in una relazione dal titolo La messa non è finita, incentrata sulla continua messa in discussione della legge 18028; relazione tenuta nell’ambito di una giornata di studi dal titolo “Addio terraferma”, in cui si discuteva appunto del ripetuto tentativo di abbandonare l’approdo saldo, e dopotutto recente, della chiusura dei manicomi, per trasformare così l’«utopia 22 Ibidem. Ivi, p. 1767. 24 Ivi, p. 1325. 25 Cfr. W. Benjamin, Über den Begriff der Geschichte, in Id., Gesammelte Schriften, hrsg. von Rolf Tiedemann und Hermann Schweppenhäuser, Bd. I. 1, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1991, pp. 691-704. Per una ricostruzione della vicenda editoriale, si veda W. Benjamin, Sul concetto di storia, a cura di G. Bonola e M. Ranchetti, Einaudi, Torino 1997. Cfr., anche, F. Jesi, Il tempo della festa, a cura di A. Cavalletti, nottetempo, Roma 2013. 26 P. Bourdieu (sous la direction de), La Misère du monde, Seuil, Paris 1993; trad. it. (a cura di), La miseria del mondo, ed. it. a cura di A. Petrillo e C. Tarantino, Mimesis, Milano-Udine 2015, p. 187. 27 Cfr. L. Piasere, L’antiziganismo, Quodlibet, Macerata 2015. 28 Cfr. C. Tarantino, La messa non è finita, in C. Pizzo, C. Tarantino (a cura di), Addio terraferma. Note su riforma e controriforma psichiatriche, Sellino, Avellino 2002, pp. 66-81. 23 5 della realtà» di Basaglia in un miraggio29. Tra l’altro due episodi sono assolutamente indicativi del profondo radicamento del sistema di pensiero manicomiale che si manifesta anche nei momenti di sua massima crisi. Il primo episodio è recente. Il 17 maggio 2012, a tre mesi esatti dall’approvazione della legge che il 17 febbraio aveva disposto il definitivo superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari, la Commissione Affari sociali della Camera dei Deputati adotta il testo base di una riforma della legge 180, connotato da un inequivocabile sentore di restaurazione manicomiale. Segno che la coerenza non rientra tra le virtù politico-teologali30. Il secondo episodio risale al 1978. Il 13 maggio si svolgono i funerali di Aldo Moro. Ma il 13 maggio è anche il giorno della promulgazione della legge 180. Pochi giorni prima, il 5 maggio, il Ministro degli Interni aveva emanato la duplice disposizione nota col nome “Victor e Mike”, con la quale si indicavano due modalità operative da seguire nel caso di rinvenimento del prigioniero: Victor se vivo, Mike se morto. Il punto 2 del piano Victor disponeva il «ricovero immediato del Sequestrato presso il Policlinico “Gemelli”, o la clinica più vicina». Il provvedimento si giustificava in considerazione di quanto scritto da Franco Ferracuti in una relazione consegnata il 23 aprile. Ferracuti, psichiatra e criminologo, faceva parte di un comitato tecnico-scientifico, con funzioni consultive, costituito dal ministro Cossiga all’indomani del rapimento. In base all’analisi della corrispondenza del prigioniero, Ferracuti ravvisava in Moro l’insorgenza della sindrome di Stoccolma e, comunque, riteneva necessario il ricovero immediato perché, come si legge nella relazione, «alla liberazione consegue un breve periodo ipomaniacale di eccitamento, nel quale le relazioni sono emotive ed incontrollate». Sia come effetto desiderato che come effetto indesiderato, un ricovero su queste basi avrebbe comunque instillato l’idea di una certa inattendibilità di eventuali dichiarazioni dell’ostaggio. Così, mentre si decretava la fine dell’era manicomiale, il principio psichiatrico di squalificazione raggiungeva il suo apice istituzionale31. Riprendendo ora l’elenco dei fattori di degradazione delle memorie, tra questi è da annoverare la sostanziale impermeabilità delle Università ai princìpi più innovativi e radicali della critica istituzionale. Si deve, soprattutto, aggiungere il particolare statuto di infamia32, di inaffidabilità dei testimoni manicomiali, che ne compromette la voce. La loro parola non sarebbe in grado di restituire la realtà senza alterazioni. La parola degli internati rimane contrassegnata da un fragile statuto di verità, è una parola ancora squalificata, elemento che la differenzia sostanzialmente dalle voci degli altri internamenti. Il reduce manicomiale non è mai testimone a pieno titolo. E, infatti, in questo campo, la voce dei testimoni è anche quantitativamente ridotta. La parola della critica è in larga parte parola e pensiero di classi dirigenti: a parlare sono stati direttori, medici, giornalisti, infermieri, operatori, ma, per tutto un complesso di cose, raramente internati. La presa di parola è avvenuta essenzialmente per mediazione e interposizione. La voce degli internati appare a volte in frammenti, anche molto significativi; penso, per esempio, ai resoconti delle assemblee di Colorno33 o a molti luoghi de L’istituzione negata, che Basaglia indica come «il libro parlato» in una lettera a Giulio Bollati del novembre 1967, quando il volume è ancora in gestazione34. Ma una storia del manicomio scritta integralmente dal basso o una storia orale del manicomio ancora non ci sono, e ormai probabilmente non ci saranno. È un tema rimosso e delicato. Si aggiunga, ancora, un altro fattore: l’incerto statuto vittimario degli internati, marcati dal pregiudizio di pericolosità. Ne risulta 29 Cfr. F. Basaglia, L’utopia della realtà, cit. Cfr. Camera dei Deputati, XVI legislatura, Disegno di legge n. 1423. 31 Cfr. C. Tarantino, La messa non è finita, cit., pp. 72-75. 32 Cfr. F. Migliorino, Fama e infamia. Problemi della società medievale nel pensiero giuridico nei secoli XII e XIII, Giannotta, Catania 1984, Id., Il corpo come testo. Storie del diritto, Bollati Boringhieri, Torino 2008 e G. Todeschini, Visibilmente crudeli. Malviventi, persone sospette e gente qualunque dal Medioevo all’età moderna, il Mulino, Bologna 2007. 33 Cfr. aut aut, 342 Basaglia a Colorno, a cura di G. Gallio, 2009. 34 Cit. in J. Foot, La “Repubblica dei matti”. Franco Basaglia e la psichiatria radicale in Italia, 1961-1978, Feltrinelli, Milano 2014, p. 329, nota 14. 30 6 una figura ibrida, mai totalmente carnefice, mai vittima integrale. Così, mentre gli internati degli altri campi sociali sono stati progressivamente riconosciuti per vittimizzazione – la vittima è ormai pervasiva figura dell’innocenza35 –, l’immagine dell’internato manicomiale non è mai perfettamente sovrapponibile a quella di vittima, è sempre una vittima minore. Tratto che condivide con tutte le figure che non hanno pienamente superato la soglia sociale di vittimizzazione, come le donne vittime di violenza, la galassia zingara, i migranti. Sono tutte figure a “ma” residuo, tutte figure di un discorso che si controbilancia col peso degli “anche se”, dell’in fondo voluto, del dopotutto cercato. Quest’ultimo aspetto è correlato, infine, all’ambiguo statuto del trauma manicomiale. In questo campo, infatti, si assiste a una serie di incertezze, se non di inversioni rispetto all’ordine sociale del trauma. Prima di tutto, il trauma difficilmente si attribuisce all’internato, proprio per la sua contorta corrispondenza alla figura di vittima. Ma, come detto, il riconoscimento dello status di vittima è ormai propedeutico a quello di traumatizzato. Il trauma diventa allora repentinamente ed esclusivamente collettivo, e si sposta dall’interno all’esterno delle mura: traumatizzata sarebbe la società che scopre lo scandalo dei manicomi, non l’internato. Si tratta di un’interpretazione molto rassicurante che permette di non indagare – esattamente come nella Shoah – l’enigma del consenso di massa alla violenza, le connivenze, gli assensi, le indifferenze. Tra l’altro, in questa versione comoda del trauma, c’è uno scarto laterale che sposta l’oggetto del trauma dalla condizione manicomiale alle condizioni manicomiali, come è facile evincere dalla discussione degli ultimi anni in merito alla dismissione degli Ospedali psichiatrici giudiziari da cui risulta con nettezza che ciò che traumatizza/scandalizza non è la condizione manicomiale, ma le loro condizioni, il loro precario stato igienico-sanitario, il dissenso del decoro36. Non è un caso, invece, che Morire di classe, che nel 1969 fotografa la realtà dell’istituzione, porti come sottotitolo La condizione manicomiale, che è in primo luogo la sua condizione di possibilità37. Si rimuove, infine, che il vero trauma collettivo non è stata e non è la scoperta dei manicomi, ma l’idea della loro soppressione. Idea che traumatizza ovunque si ripresenti. A titolo di esempio, riporto quanto scritto da Gilberto Corbellini – maître à penser in storia della medicina e in bioetica – ed Elisabetta Sirgiovanni in un recente articolo sulla dismissione degli Opg, apparso sul domenicale de Il Sole 24 Ore. Ecco l’incipit: «È sbagliato mescolare i violenti criminali con gli altri malati mentali. Un errore simile fu fatto ai tempi della legge 180». L’articolo richiama poi alcune delle ragioni che hanno portato a sancire la chiusura degli Opg e le soluzioni adottate. Gli autori spiegano che: I pazienti più pericolosi verranno trasferiti nelle Rems, gli altri nei reparti psichiatrici degli ospedali territoriali. A oggi, solo dieci Regioni su venti si dicono pronte a gestire questo cambiamento, il ministero della Salute minaccia il commissariamento per le altre e cresce lo sconcerto tra gli operatori della salute mentale che si sentono impreparati a fronteggiare la situazione. A metterci il carico, le assurde pretese delle associazioni in difesa della chiusura che chiedono l’abolizione anche delle Rems, e la riabilitazione completa degli internati. Gli autori riconducono l’origine di queste “assurde pretese” agli anni Sessanta, quando – scrivono – «in Italia si affermava un movimento culturale, ispirato al pensiero di Franco Basaglia, avverso ai manicomi in quanto frutto anche se non soprattutto di una concezione medica della malattia mentale. Queste idee contenevano gravi errori, dovuti a pregiudizi anti-illuministi e anti-scientifici». Di fronte e a freno delle assurde pretese di libertà, gli autori chiariscono che: 35 Cfr. Ph. Mesnard, La Victime écran. La représentation humanitaire en question, Textuel, Paris, 2002, Id., Attualità della vittima. La rappresentazione umanitaria della sofferenza, ombre corte, Verona 2004, D. Fassin, R. Rechtman, L’Empire du traumatisme. Enquête sur la condition de victime, Flammarion, Paris 2007 e D. Giglioli, Critica della vittima. Un esperimento con l’etica, nottetempo, Roma 2014. 36 Cfr. C. Tarantino, A.M. Straniero, La Bella e la Bestia, cit., p. 84. 37 F. Basaglia, F. Basaglia Ongaro (a cura di), Morire di classe. La condizione manicomiale fotografata da Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin, Einaudi, Torino 1969. 7 Aiutare la costruzione di strutture che puntino alle migliori condizioni per il trattamento dei malati psichiatrici criminali non dovrebbe sfociare automaticamente nell’idea che queste persone non siano malate, o peggio che non siano pericolose socialmente. Si va dai killer seriali a sangue freddo, agli stupratori, agli stalker, agli affetti da psicosi deliranti e allucinatorie violenti: tutti con alto grado di recidivismo. In molti casi, per sfortuna, la medicina non è ancora in grado di guarirli e riabilitarli ed è compito delle istituzioni e dei governi garantire la sicurezza per tutti gli altri38. Comunque la si pensi, non ci sono dubbi sulla natura del trauma post-manicomiale: è un trauma da soppressione non da repulsione. L’insieme dei fattori di degradazione appena richiamati accelera, dunque, la fine dell’esperienza. Ci si trova così, oggi, in un momento di censura generazionale delle memorie, con un certo anticipo sui tempi ordinari del floating gap39, lo spazio vuoto del ricordo fra i tempi storici. Incontro l’esaurimento di questa memoria comune diffusamente nelle aule universitarie, dove siedono le prime generazioni nate in epoca post-manicomiale. Gli studenti che le frequentano, se si frenerà il progressivo rachitismo del Welfare, andranno a lavorare nelle istituzioni, di vecchia e nuova fattura, avendo terminato un percorso di studi senza mai aver sentito pronunciare la parola “istituzione”. Saranno educatori, operatori dei servizi sociali e del diritto, alcuni insegnanti, altri giornalisti: in archivio non hanno immagini di manicomio, al più hanno memorizzato il numero di una vecchia legge e conoscono il nome del medico dei matti. Hanno visto una camicia di forza nel nuovo video di Lady Gaga, chiaramente in anteprima assoluta. Ed ecco allora che si pone proprio qui e ora – come ipotizzato in apertura – un problema collettivo di memoria, di passaggio di memoria. Si pone la questione del se, cosa e come trasmettere di questi strani luoghi che per un certo tempo hanno custodito l’illegittima stranezza. Personalmente il problema mi si è presentato in maniera ineludibile poco tempo fa, quando mio figlio quattordicenne mi ha chiesto d’improvviso “che cosa è il manicomio?”, precipitandomi con forza nell’esperienza di quelle prime righe con cui Marc Bloch introduce l’Apologia della storia: «“Papà, spiegami allora a che serve la storia”. Così un giovane ragazzo, che mi tocca da vicino, interrogava, pochi anni fa, il padre [...]»40. 2. Secondo movimento Con un secondo movimento, vorrei avanzare la tesi che la discussione sul passaggio di memoria delle istituzioni totalitarie non è una questione confinata a segmenti marginali di popolazione, ma è di interesse generale per la vita in comune, e in particolare per le forme democratiche di convivenza. L’assunto di partenza è che ritengo l’istituzione totale un “fatto sociale totale”, cioè uno di quei fenomeni che Marcel Mauss ci ha insegnato a riconoscere come rivelatori del senso globale dei rapporti di un gruppo sociale e delle relazioni con altri gruppi, un fatto che è espressione e sintesi delle configurazioni di comunità, un analogon delle forme generali di relazione41. In questa chiave, le istituzioni totali sono una sineddoche delle forme di vita in comune che un gruppo concepisce e si concede. Le istituzioni totali sono un regolatore antropologico della relazione spaziale col non-Noi, accogliendo qui l’indicazione di Giacomo Todeschini a non ridurre a una benevola contrapposizione fra Noi e gli Altri il lessico gerarchizzante e inferiorizzante che connota il soggetto collettivo carismatico “Noi” nell’Occidente europeo42. Dunque, le istituzioni totali sono 38 G. Corbellini, E. Sirigiovanni, «Chi cura i “pazzi morali”?», in Il Sole 24 Ore, 29 marzo 2015. Cfr. J. Vansina, Oral Tradition as History, University of Wisconsin Press, Madison 1985. 40 M. Bloch, Apologie pour l’histoire ou Métier d’historien, Armand Colin, Paris 1949, p. IX (édition critique préparée par É. Bloch, Armand Colin, Paris 1993). 41 Cfr. M. Mauss, «Essai sur le don. Forme et raison de l’échange dans les sociétés archaïques», in L’Année sociologique, ns t. 1, 1923-1924, pp. 30-186. 42 Cfr. G. Todeschini, «“Noi ne siamo testimoni, noi che fummo con lui, noi felici pochi”. La costruzione europea del pensiero razzista come dinamica linguistica di allontanamento dal noi», in Psicoterapia e Scienze Umane, 2 Identità del male, a cura di A. Burgio e A. Zamperini, 2013, pp. 293-300. 39 8 un indicatore delle forme possibili di relazione sociale che una società ritiene pensabili ed esperibili. Il manicomio è una forma possibile di regolazione della relazione sociale; è una delle possibilità di relazione. Il manicomio è una topologia della relazione sociale. L’Italia però, dopo tentativi diversi, ha deciso di negare questa possibilità di relazione, e ha reso concreta e operativa questa negazione. L’istituzione negata43 – opera-manifesto del gruppo basagliano – è, allora, in essenza, la negazione di una possibilità di relazione col non-Noi. Sul piano logico-comparativo, un esempio può essere offerto dalle vicende della pena di morte: a un certo punto è stata rimossa dall’ordinamento, si è deciso di non contemplarla più fra le sanzioni possibili. Si è negata la sua possibilità. Questa impossibilità di rinchiudere il non-Noi ha chiaramente immediate e dirette implicazioni nelle pratiche, è una impossibilità pienamente operativa. Anzi, nel campo delle politiche sociali, si può affermare che la negazione della logica manicomiale sia il primo mobile dei modelli operativi. I modelli operativi che governano le pratiche nei diversi settori dell’intervento sociale sono, infatti, alquanto labili e mutevoli ma, da un certo tempo e almeno negli intenti, tutti accomunati dal rifiuto originario dell’internamento. Le cosiddette “buone pratiche” hanno un punto d’innesto comune nell’inversione dell’ordine manicomiale: sono buone pratiche laddove sovvertono il sistema e i punti di presa del dispositivo manicomiale. Come ha detto Franca Ongaro Basaglia: La buona pratica non parte da un gesto generoso del medico verso la persona sofferente, gesto che può essere tradito mille volte al giorno da un dolore più o meno nascosto, da un’aggressività con o senza giustificazione, da una violenza che ferisce. La buona pratica è il risultato di una volontà collettiva di partire comunque dal rispetto e dalla libertà della persona che certamente proviene da una storia in cui questo rispetto e libertà sono venuti meno o non sono mai esistiti. La buona pratica cresce e si sviluppa attorno a questo nucleo centrale, da cui si dipana ogni altro intervento44. Se ciò è vero, la fine dell’esperienza manicomiale e il vuoto di memoria che oggi lascia segnano il tempo in cui la comunità è chiamata a confermare o meno la scelta di negazione istituzionale. È un tempo di decisione, dunque un tempo politico, se la decisione è la categoria del politico. Si deve decidere se rinnovare o meno la convenzione di negazione, poiché trasmettere o non trasmettere la storia e la memoria del manicomio equivale a mantenere chiusa o a riaprire la possibilità stessa del manicomio. È in discussione la sottoscrizione di quello che, parafrasando Greimas, possiamo definire un contratto di possibilitazione45. La comunità è responsabile della permanenza o dell’impermanenza dell’istituzione, dato che – come detto – solo la critica permanente all’istituzione mantiene la crisi permanente dell’istituzione. Quell’insieme eteroclito che è la collettività si trova, allora, dinanzi a una scelta politica e identitaria, in cui l’identità è intesa non nelle sue finzioni essenzialistiche e naturalizzanti ma nel suo processo reale e concreto di costruzione, di scelta, di decisione, di opzione, di possibilità46. È uno di quei momenti in cui una comunità decide cosa e come vuole essere, quale forma di umanità assumere47. Per gli studi sociali si tratta di una classica questione di memoria collettiva, ricordando che per Halbwachs – padre della sociologia della memoria, morto di sfinimento a Buchenwald – la memoria collettiva è la memoria di un gruppo sociale, è sempre una memoria di parte48. Nel caso in esame, il gruppo che si riconosce nella scelta della negazione istituzionale deve decidere se e come fare memoria. Ma questo, ripeto, significa porsi in una dimensione immediatamente politica, perché la costruzione della memoria di un gruppo è questione eminentemente politica, questione di decisione. La meccanica del processo memoriale diventa particolarmente evidente in alcune cerimonie della liturgia del politico quali i funerali di Stato. In questo caso il Governo in carica amministra anche la 43 F. Basaglia (a cura di), L’istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico, Einaudi, Torino 1968. F. Ongaro Basaglia, testo inedito raccolto da Giovanna Del Giudice nel settembre 2003 a Ischia. 45 Cfr. A.J. Greimas, Le contrat de véridiction, in Id., Du sens II. Essais sémiotiques, Seuil, Paris 1983, pp. 103-113. 46 Cfr. F. Remotti, Contro l’identità, Laterza, Roma-Bari 1996 e Id., L’ossessione identitaria, Laterza, Roma-Bari 2010. 47 Cfr. F. Remotti (a cura di), Forme di umanità, Bruno Mondadori, Milano 2002. 48 Cfr. M. Halbwachs, La Mémoire collective, édition critique établie par G. Namer, Paris, Albin Michel 1997. 44 9 memoria pubblica, individuando a chi concedere i funerali di Stato, scegliendo cioè chi annoverare fra i padri della patria. Risulta così evidente l’inconsueto riconoscimento di paternità che regola gli ordinamenti sociali della memoria, per cui sono i figli a iscrivere i padri all’anagrafe di comunità49. Il processo memoriale opera dunque per selezione sul processo storico: sceglie cosa trattenere e perpetuare di ciò che è stato. Ma ogni gruppo ha la sua memoria e queste entrano spesso in conflitto, sono contese, si scontrano in vere e proprie guerre di memoria50. L’obiettivo di questi conflitti è l’acquisizione di una posizione dominante, se non l’imposizione di un monopolio. Le memorie collettive tentano la colonizzazione dell’immaginario51, cercano di determinare gli orizzonti dell’immaginario52, provano cioè a trasformare la memoria di gruppo in memoria comune, memoria diffusa, generalizzata e in un certo modo involontaria, memoria alla quale non ci si può sottrarre. Sono conflitti per la direzione di memoria, per la strutturazione di una memoria egemone, che si svolgono tramite la continua e pervasiva trasformazione del documento in monumento, con tutti i rischi di distorsione e apologia che ciò comporta. Se questo è il sostrato polemico delle dinamiche di memoria, diversi sono i modi tramite i quali i gruppi plasmano il ricordo, “fanno memoria”. Il principale criterio di partizione è dato dal rapporto che le memorie di gruppo intrattengono con la storia o, se il termine non fosse troppo impegnativo, si potrebbe dire con la verità. Le memorie collettive, infatti, possono essere costruite con quantità variabili di storia: il processo ricostruttivo funziona sia che si adoperi molta e buona materia prima, molta attinenza al processo storico reale, sia che si opti per la modica quantità. In effetti, il processo in sé non ha neanche un reale bisogno di realtà, dato che fermenta anche in totale assenza di realtà, come dimostrato da Eric Hobsbawm e Terence Ranger in The Invention of Tradition53 o da Maurice Halbwachs in La Topographie légendaire des Évangiles en Terre sainte54. Sono i gruppi che determinano il tasso di affidabilità storica della propria memoria, in base a una funzione di utilità. A che serve, allora, la memoria del manicomio? A che serve la storia dell’istituzione e della sua critica? La domanda continua a essere quella portentosa e ingenua del giovinetto caro a Bloch. Da parte mia, abbozzo queste prove di risposta. Se per storia intendiamo, come suggerisce Carlo Ginzburg, testimonianze lette contropelo55, memorie di cui si chiede prova e ragione, la storia serve a conoscere che “questo è stato”, e questa comprensione svolge due funzioni. Sapere che “questo è stato” serve, in primo luogo, a ricordare il possibile di cui è carica la storia, significa ricordare che nella storia “tutto è possibile”, senza doverlo sperimentare ogni volta con rinnovato stupore. Che “tutto è possibile” è la chiave dei campi, colta da David Rousset56 e ripresa da Hannah Arendt57. Ma anche quando Primo Levi, in Shemà, ci comanda di meditare che “questo è stato”, in fondo ci impone di non dimenticare che questo è stato possibile58. La conoscenza storica, in sostanza, non consente il lusso dell’illusione che ci siano dei limiti invalicabili ai rituali di degradazione dell’umano, una soglia insuperabile di infattibilità. Questa meccanica è condensata in 49 Cfr. C. Tarantino, Mediocrazia I. Disegno preparatorio per un’inchiesta sui funerali di Stato, in C. Tarantino, A.M. Straniero, La Bella e la Bestia, cit., pp. 27-58. 50 Cfr. C. Giordano, Memorie in conflitto. Il passato nel presente, in L. Migliorati, L. Mori (a cura di), L’enigma della memoria collettiva. Politica, istituzioni, conflitti, QuiEdit, Verona 2011, pp. 169-192, e C. Severi, Il percorso e la voce. Un’antropologia della memoria, Einaudi, Torino 2002. 51 Cfr. S. Gruzinski, La Colonisation de l’imaginaire. Societes indigenes et occidentalisation dans le Mexique espagnol XVIe-XVIIIe siècle, Gallimard, Paris 1988. 52 Cfr. V. Crapanzano, Imaginative Horizons: An Essay in Literary-Philosophical Anthropology, University of Chicago Press, Chicago-London 2004. 53 E. Hobsbawm, T.O. Ranger (eds.), The Invention of Tradition, Cambridge University Press, Cambridge 1983. 54 M. Halbwachs, La Topographie légendaire des Évangiles en Terre Sainte. Ètude de mémoire collective, édition préparée par M. Jaisson, Puf, Paris 2008. 55 Cfr. C. Ginzburg, Rapporti di forza. Storia, retorica, prova, Feltrinelli, Milano 2000, p. 47. 56 Cfr. D. Rousset, L’univers concentrationnaire, Éditions du Pavois, Paris 1946. 57 Cfr. H. Arendt, The Origins of Totalitarianism, Harcourt, New York, Brace and Co., Harcourt 19663 (ed. or. 1951). 58 P. Levi, Se questo è un uomo (1947; 1958), in Id., Opere, I, a cura di M. Belpoliti, Torino, Einaudi 1997, p. 3. 10 un frammento in cui Benjamin riflette sulla fine dell’esperienza, dunque sul grado zero della storia. Vuole estrarre il carattere positivo, la carica innovativa, il carattere distruttivo e creativo a un tempo della fine dell’esperienza, ma per designare la distruzione dell’esperienza deve impiegare il termine “barbarie”. Contrappone così una barbarie positiva a una negativa, ma è consapevole del carattere barbarico della fine di un’esperienza. Scrive così: Barbarie? Proprio così. Diciamo questo per introdurre un nuovo positivo concetto di barbarie. A cosa mai è indotto il barbaro dalla povertà di esperienza? È indotto a ricominciare da capo; a iniziare dal nuovo; a farcela con il poco: a costruire a partire dal poco e inoltre a non guardare né a destra né a sinistra59. Ecco, la storia serve a non ricominciare daccapo, a non iniziare di nuovo. Ma la conoscenza del processo storico permette anche una seconda operazione: consente di individuare se e quanto “già stato” il nuovo contiene e trascina con sé, permette cioè di indagare il processo storico per analogie e comparazioni, come Gramsci tematizza nei quaderni e fra le mura del carcere60. Analogia e comparazione servono cioè a riconoscere le essenze al di là delle forme, a riconoscere dunque – nel nostro caso – la logica dell’istituzione a prescindere dai suoi nomi e oltre le sue fattezze. Permette l’identificazione dell’Ur-manicomio. In questo quadro concettuale, la lettura del passato è solo uno dei molti modi di previsione del futuro che le società hanno elaborato, un modo per ristabilire una certa coerenza culturale, un modo per controllare e gestire quelle che Ernesto De Martino ha definito «crisi di presenza», momenti di instabilità dell’esserci nel mondo61. La presenza, infatti – scrive De Martino –, «è volontà di storia che ininterrottamente si dispiega, custodita dalla memoria e stimolata dalla ininterrotta esigenza di ritornare sempre a decidere il divenire via via che esso diviene»62. Nella sua essenza logico-sociale, la questione della memoria e dei suoi passaggi si configura in sostanza come una forma di controllo sociale, controllo sociale dell’a-venire. Un certo modo di governo dei futuri possibili che si esercita rendendo cronica quella che Primo Levi ha definito «ustione del ricordo»63. 59 W. Benjamin, Erfahrung und Armut, in Id., Gesammelte Schriften, hrsg. von Rolf Tiedemann und Hermann Schweppenhäuser, Bd. II. 1, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1991, p. 215; trad. it. Esperienza e povertà, in Id., Aura e choc. Saggi sulla teoria dei media, a cura di A. Pinotti e A. Somaini, Einaudi, Torino 2012, p. 365. 60 Cfr. A. Burgio, Critica della modernità e comparatistica storica nei “Quaderni del carcere”, in G. Lunghini (a cura di), Attualità del pensiero di Antonio Gramsci, Accademia Nazionale dei Lincei, Roma, in corso di pubblicazione. 61 Cfr. E. De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, a cura di C. Gallini, Einaudi, Torino 2002. 62 E. De Martino, Storia e metastoria. I fondamenti di una teoria del sacro, a cura di M. Massenzio, Argo, Lecce 1955, pp. 103-104. 63 P. Levi, Perché rivedere queste immagini (1985), in Id., Opere, II, a cura di M. Belpoliti, Einaudi, Torino 1997, pp. 1269. 11