Gli stregoni del blues | di Samuel Manzoni

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Gli stregoni del blues | di Samuel Manzoni
Gli stregoni del blues | di
Samuel Manzoni
Di blues e magia nera s’è parlato tanto, forse troppo, e il
più delle volte in modo inesatto e sommario. L’espressività
artistico-musicale delle civiltà afro-americane è prima di
tutto rappresentazione, esaltazione e celebrazione del proprio
senso di appartenenza. Si potrebbe dire lo stesso per i gospel
e gli spirituals, dove la sacralità dei testi mantiene vivo
quel legame religioso tipico delle dottrine evangeliche e
battiste, ma la questione si complica nel momento in cui
l’invocazione si mescola a riferimenti e credenze
superstiziose che presentano elementi iniziatici, magici e
paranormali tipici delle pratiche vudù: quel rituale, quel
culto magico e oscuro entrato nell’immaginario collettivo
grazie al libro Hayti or the black Republic (1884) di Sir
Spencer St. John. In realtà di oscuro nel blues c’e’ solo il
senso d’appartenenza a quelle radici culturali lontane e
abilmente esorcizzate grazie alla musica e alla religione.
D’altro canto l’etimologia stessa del termine religione sembra
trarre origine«da quel religio latino che Cicerone faceva
risalire al verbo relegare nel senso di osservare, scegliere,
distinguere, mentre Lattanzio e Servio da religare, ossia
legare. Questa seconda ipotesi esprime il concetto di vincolo
e stretta unione con ciò che è sacro, concetto che si ritrova
anche in una parola di lingua africana, Bambara, ben lontana
da influenze greco-latine, dove la parola religione viene
indicata col nome lasiri, che al contempo traduce anche il
termine legame. L’uomo religioso sarebbe quindi legato con
obblighi e vincoli alla divinità, ma si potrebbe estendere il
concetto, aggiungendo che la religione ha il potere di legare
fra loro più uomini o gruppi, vincolandoli alla Credenza
comune, diventando quasi un’esigenza atta a raffigurare
l’unione di un popolo. Non per niente Machiavelli considera la
religione «cosa del tutto necessaria a voler mantenere una
civiltà». Il vudù risponde in maniera vistosa e completa a
questo principio, anche se la sua forza non si basa su un
testo ispirato da Dio, o comunque ribadito attraverso la
rivelazione, bensì per mezzo di una ritualità tramandata
oralmente».[1]
La parola voudum è originaria del dialetto della tribù Ewe e
significa “Dio Creatore” o “Grande Spirito”. Nella sua
asserzione più diffusa, la parola voodoo deriverebbe dal
vocabolo africano vodu, originario del Dahomey (attuale Benin)
e indica il dio-serpente (Damballah-ouedo). Il popolo degli
Ewe s’insediò nella città di Notsé (Notsie, Nuatja),
nell’attuale Repubblica del Togo, la quale divenne teatro
delle scorrerie degli esploratori portoghesi e dei
commercianti europei a partire dal 1510, cosa che fece
guadagnare a questa terra il triste appellativo di ‘costa
degli schiavi’ (regione degli altipiani e regione marittima).
Deportati, convertiti al cristianesimo e costretti a lavorare
nelle piantagioni caraibiche, essi portarono con sé la sola
fede e l’orgoglio delle proprie radici. L’isola di Haiti
diventò il più grande centro di accoglienza e smistamento
degli schiavi, ed è proprio da qui che si manifestarono i
segni più antichi ed evidenti delle pratiche vudù. La tratta
negriera in direzione verso l’America fu ufficialmente
autorizzata il 12 gennaio 1510 (Ilanèe-Colonisation et
conscience chrètienne Plon, Paris 1957) e nel corso dello
stesso anno i primi contingenti di schiavi neri arrivarono a
Hispaniola, grazioso nome dell’attuale Santo Domingo. Fu
proprio il Dahomey attraverso il porto di Ouidah, tra il
Settecento e l’Ottocento a dare il suo contributo maggiore
grazie alla dinastia degli Agasouvi (i figli della pantera)
che regnavano ad Abomey e che per tre lunghi secoli cacciarono
rendendo schiavi i popoli vicini, avvalendosi dell’armata
delle Amazzoni. Un esercito di terribili donne guerriere che
sapevano combattere con la ferocia di un animale selvaggio,
pronte a sgozzare le vittime con i propri denti, spolpare i
loro crani e cibarsi delle loro carni. I teschi venivano dati
come omaggio ad alti funzionari e ambasciatori o usati come
abbellimento al trono del sovrano. Nel museo di Abomey è
conservato il trono di Ghezo, re di Abomey dal 1818 al 1858
che poggia su quattro teschi. Si calcola che durante questo
periodo, chiusosi definitivamente nel 1900 con la riduzione
del Dahomey a colonia francese in seguito alla resa del re
Behanzin alle truppe del Generale Dodds nel 1894, l’Africa
abbia offerto molto più di 10 milioni di fratelli. A ricordo
di questo deplorevole strage, oggi il Benin sta ricostruendo,
pezzo per pezzo, a fatica, i brandelli del passato, eleggendo
Ouidah città della memoria. Si è iniziato nel ’92, con la
consacrazione dell’antica strada che gli schiavi – incatenati
da collari, manette e cavigliere, e con un morso tra i denti
legato stretto alla nuca per evitare che potessero parlare e
urlare – percorrevano in lunghe file, dal deposito dove
venivano ammassati per giorni e a volte settimane, fino alla
spiaggia dove erano imbarcati. Grandi sculture in cemento
dipinto fiancheggiano la pista rossa in terra battuta, in una
surreale Via Crucis fatta di serpenti che si mordono la coda,
camaleonti, uomini a tre teste, amazzoni, ciascuno con una
simbologia ben precisa, giù fino alla spiaggia dove si erge
maestosa la “Porta del non-ritorno”, un grande arco di rame e
cemento, «affinché l’oblio non li uccida una seconda volta».
Era un passaggio obbligato, qui gli schiavi venivano fatti
girare per tre volte affinché l’anima una volta staccata dal
corpo potesse fare ritorno in Patria. A Ouidah c’è anche un
museo dedicato alla tratta degli schiavi, raccoglie cose
semplici ma racconta bene il genocidio. Esso è collocato nel
vecchio forte portoghese il San Joao Baptista, datato 1721. In
netto contrasto con questo è l’altro museo dedicato alla
strage presente in città, non inserito nelle liste ufficiali e
non amato dagli indigeni: è di proprietà dei discendenti di
Don Francisco de Souza, il negriero che si insediò nel forte
portoghese nel 1788, e che salì agli onori della cronaca
grazie a Bruce Chatwin, che ne romanzò le gesta ne Il Vicerè
di Ouidah (1980). L’autore ha ricostruito gran parte del primo
periodo dello schiavismo in America, in particolare quello
gestito dai portoghesi, che pare usassero corrispondere dei
cipridi[2] per il pagamento dei propri schiavi – trattasi di
piccole lumache che prolificano sul fondo fangoso dei fiumi
agendo da naturali spazzini e cibandosi dei microrganismi
dannosi per le acque stesse. Questi gasteropodi sono
estremamente aggressivi e carnivori, ghiotti di tessuti molli
e spugnosi tipici dei mammiferi, per cui la loro cattura in
acqua risultava assai problematica. Il Mississippi ne era
pieno e i negrieri risolsero il problema in maniera efficace:
sceglievano uno schiavo, gli legavano mani e piedi e lo
buttavano in acqua. In tal modo i cipridi gli si attaccavano
addosso, e mentre lo mangiavano vivo, potevano facilmente
essere tratti in secca e chiusi in bolle di vetro.
Il Mississippi divenne così il luogo della memoria e la sua
musica la voce della speranza. Molte canzoni blues parlano
esplicitamente di pratiche magiche e di possessioni
demoniache. La locuzione «to have the blue devils», che ha
dato origine al termine blues, è un modo per esprimere una
condizione dell’anima rintracciabile in tutti i bluesman
dell’epoca. Il colore blu nella lingua inglese indica uno
stato di sofferenza, di malinconia e di dolore, ma
l’associazione al termine devil ne amplifica le suggestioni
rendendo viva l’immagine che ne scaturisce. Il rifugiarsi nel
talismano catalizzatore di energia e nella pratica magica, che
è specifica del blues, non è solo retaggio della cultura
africana, ma un tentativo efficace di riversare il dolore
dell’anima nell’oggetto catalizzatore, che potrà conferire al
cantore la forza necessaria per vivere. Essa verrà
dall’oscurità, dagli abissi delle acque del Mississippi e
dagli dèi limacciosi che la abitano per portare la luce.
Infatti, le divinità degli schiavi sono oscure e minacciose
proprio perché sono state anch’esse uomini e comprendono le
difficoltà legate alla vita terrena.
Al di sotto del Dio Creatore vi sono gli spiriti, o Loa,
divinità d’origine africana spesso assimilate a figure sacre
del cristianesimo. Esse si occupano della famiglia, della
salute, del lavoro, dell’amore, ecc., e a queste forze occulte
i credenti fanno delle offerte per assicurarsi che le proprie
richieste vengano esaudite. Ogni Loa ha la propria simbologia,
sia essa un colore, un numero o un giorno della settimana, e
si manifesta attraverso elementi presenti in natura. Gli
antenati sono venerati e consultati per guida o protezione, si
crede che dopo la morte l’anima di un individuo rinasca in un
altro corpo, di solito appartenente alla stessa tribù o
famiglia. I Loa sono dunque le divinità e gli spiriti del
vudù, e va notato che la stessa parola che designa questa
religione deriva dal congolese spirito. Gli uomini chiedono ai
propri Loa protezione entrando in un magico rapporto tra
trascendente e immanente con la divinità stessa che si
manifesta attraverso l’intervento terreno nella trance
mistica. Questi spiriti sono molto attenti e particolarmente
sensibili alla devozione del fedele e possono elargire grandi
favori, come, se adirati, causare disgrazie; dunque è
necessario fare offerte, sacrifici, danze e musiche rituali
appropriati alla personalità del Loa. Il primo Loa invocato
durante le cerimonie è Legba,[3] poiché questi traduce le
preghiere umane nella lingua delle divinità. Il suo ruolo di
portavoce del desiderio umano lo vede spesso associato al
faustiano Mefistofele, il diavolo che concede una conoscenza o
un’abilità a patto che gli venga offerta l’anima. Legba è una
figura emblematica, poiché nella tradizione africana è
rappresentato come ”sole portatrice di vita”, mentre in
America assume sembianze maligne e strettamente legate alla
stregoneria. Erroneamente confuso con Lucifero, divenne
l’elemento scatenante della feroce repressione nei confronti
dei culti africani e della musica che li rappresentava, primo
tra tutti il blues. L’artista blues che più di altri è entrato
nell’immaginario collettivo poiché associato alla figura di
Papa Legba è quel Robert Johnson che, dopo un inusuale
incontro con tale Ike Zinneman, divenne un affermato artista e
incise pochi brani destinati a cambiare il corso della musica
blues. Accostato al sinistro romanticismo di poeti maledetti
come Shelley, Keats e Rimbaud, Robert Johnson morì
giovanissimo il 16 agosto del 1938. Così Edoardo Fassio:
«aveva ventisette anni, ma era già vedovo da otto, quando la
sedicenne sposa Virginia spirò di parto. Nessuno vide una sua
fotografia fino a mezzo secolo dopo, e le vaghe memorie dei
contemporanei lo davano come un personaggio volatile, avvolto
nel mistero, timido e geloso della propria arte. Si voltava
contro il muro quando era alla chitarra, per evitare che gli
altri copiassero la progresisone di accordi che, correva voce,
aveva appreso da Lucifero in persona».[4]
Moltissime leggende sono nate attorno alla sua figura, la più
famosa narra che recatosi ad un crocicchio egli avesse evocato
il diavolo e venduto la propria anima in cambio del successo.
Dall’hoochie coochie man[5] di Willie Dixon, al crocicchio di
Robert Johnson sino all’uso di polveri magiche in Muddy
Waters, il blues elargisce a piene mani i significati profondi
della propria cultura. Per non parlare del termine mojo, che
troviamo praticamente in tutte le canzoni blues; si tratta di
un sacchetto di polveri magiche costituite da varie erbe
afrodisiache ma soprattutto dal famoso ”John the Conqueror”,
un tubero di bosco che concede potenza a chi lo possiede. E
che dire dell’altrettanto famoso ”black cat bone”? Un osso di
gatto nero offerto in sacrificio al dio dei crocicchi che,
messo sotto la lingua, conferirebbe il dono dell’invisibilità.
Furono proprio l’esplicitazione delle pratiche magiche
mischiate ai riferimenti satanici e sessuali a rendere il
blues inviso ai bianchi quanto ai neri, e ad essere maledetto
dalle chiese, e che fece affogare i primi bluesman nel fango
delle paludi da cui provenivano. Tra misticismo e rituali
magici, il blues, la cui traduzione letterale significa
malinconico, è spesso considerato la musica del diavolo.
Consigli ascolto:
Blues Masters. The Very Best of J.G.W. Johnny ‘guitar’ Watson
(Rhino, 1999)
Lil Green 1940-41 (Jazz Classics, 2003)
The PM/Simmons Collection Little Mac Simmons (Electro-Fi,
1999)
Steppin on the Blues Lonnie Johnson (Sony, 1990)
The Essential Peetie Wheatstraw (Classic Blues, 2003)
Complete Recordings Robert Johnson (Sony, 1990)
Delta Blues Son House (Biograph, 1991)
Consigli video:
Mississippi Blues di Bertrand Tavernier (1983)
Feel Like Going Home di Martin Scorsese (2003)
The Soul of a Man di Win Wenders (2003)
The Road to Memphis di Richard Pearce e Robert Kenner (2003)
Warning by the Devil’s Fire di Charles Burnett (2003)
Godfathers and Sons di Marc Levin (2003)
Red, White and Blues di Mike Figgis (2003)
Piano Blues di Clint Eastwood (2003)
[1] Rosamaria Nasetti, Magia vaudou: magia nera africana e
haitiana, I rituali, gli zombie, Roma, Edizioni Mediterranee,
1988, p.10.
[2] In zoologia, genere di crostacei ostracodi (lat. scient.
Cypris), rappresentato da varie specie comuni nelle acque
dolci, alcune delle quali sembrano riprodursi esclusivamente
per partogenesi.
[3] Il suo simbolo è la croce di Legba in cui la trave
verticale rappresenta il tramite fra mondo superiore celeste e
mondo terreno come pure il cammino delle divinità verso la
terra. Il punto iniziale del tragitto è situato
immaginariamente in Africa. La trave orizzontale simboleggia
invece la vita terrena. Il punto di intersezione della croce
rappresenta l’incontro tra la sfera divina e quella umana.
[4] Edoardo Fassio, Blues, Bari, Editori Laterza, 2006, p.137.
[5] L’hoochie coochie è una danza provocatoria e sessuale
divenuta popolare durante l’EXPO di Chicago del 1893.