Nicolò Ammaniti - Come Dio Comanda

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Nicolò Ammaniti - Come Dio Comanda
Da [email protected] a Martina V.
Documento revisitato da Martina V. Visita il Sito Web
a questo indirizzo. www.feykissmvheaven.altervista.org
Niccolò Ammaniti.
Come Dio comanda.
In una pianura zuppa di pioggia, in una landa ai margini di tutto,
dove i campi e i fiumi si mischiano con i capannoni, le villette con il
prato davanti e i concessionari di automobili, vivono un padre e un
figlio. Rino e Cristiano Zena. Uniti da un amore viscerale che si nutre
di sopraffazione e violenza. Tirano avanti un'esistenza orgogliosa
insieme a un paio di balordi: Quattro Formaggi, rimasto strano dopo
un incidente con i fili dell'alta tensione, e Danilo Aprea, abbandonato
dalla moglie e segnato dalla perdita della figlia. Un giorno decidono
che è arrivato il momento di dare una svolta alle loro vite. Il piano è
semplice: scassinare un Bancomat.
I protagonisti di questa fiaba apocalittica si ritrovano così in una notte
di tempesta, affollata di fantasmi e rimorsi, in cui i fiumi straripano
e il fango sembra seppellire ogni speranza. Ma dalle tenebre emerge
una ragazzina bionda che sprigiona una forza oscura e finisce per
cambiare per sempre i loro destini...
Eppure è proprio nel buio delle aspirazioni dei personaggi che popolano
il romanzo che Ammaniti riesce a cogliere la luce che li anima e
che ce li rende familiari fino a farceli amare. Nella cieca brutalità della
vita o nella sua tragicomica normalità, sono anche loro creature che
cercano il proprio dio.
Un romanzo potente, una sinfonia in cui la più cupa tragedia e lo humour
più scatenato si fondono dando vita a un grande affresco sociale
e scandendo il ritmo di una storia che ci tiene senza fiato fino all'ultima
pagina.
Niccolò Ammaniti è nato e vive a Roma. Ha pubblicato i romanzi
Branchie, Ti prendo e ti porto via e Io non ho paura, e la raccolta di racconti
Fango. I suoi libri sono tradotti in quarantaquattro paesi.
Niccolò Ammaniti.
COME DIO COMANDA.
Romanzo.
MONDADORI.
Dello stesso autore
Nella collezione Scrittori italiani e stranieri:
Ti prendo e ti porto via.
Nella collezione Oscar:
Fango.
Ti prendo e ti porto via.
www.librimondadori.it.
ISBN 88 04 50279 7.
© 2006 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano.
Prima edizione settembre 2006.
Scansione e correzione di Angelo Masciulli.
E-mail: [email protected]
Come Dio Comanda
A Lorenza,
sempre.
PROLOGO.
1.
«Svegliati! Svegliati, cazzo!»
Cristiano Zena aprì la bocca e si aggrappò al materasso
come se sotto ai piedi gli si fosse spalancata una
voragine.
Una mano gli strinse la gola. «Svegliati! Lo sai che
devi dormire con un occhio solo. È nel sonno che
t'inculano.»
«Non è colpa mia. La sveglia...» farfugliò il ragazzino,
e si liberò dalla morsa. Sollevò la testa dal cuscino.
Ma è notte, pensò.
Fuori dalla finestra era tutto nero tranne il cono
giallo del lampione in cui affondavano fiocchi di neve
grossi come batuffoli di cotone.
«Nevica» disse a suo padre, in piedi al centro della
stanza.
Una striscia di luce s'infilava dal corridoio e disegnava
la nuca rasata di Rino Zena, il naso a becco, i
baffi e il pizzo, il collo e la spalla muscolosa. Al posto
degli occhi aveva due buchi neri. Era a petto nudo.
Sotto, i pantaloni militari e gli anfibi sporchi di
vernice.
Come fa a non avere freddo? si domandò Cristiano allungando
le dita verso la lampada accanto al letto.
«Non accenderla. Mi dà fastidio.»
Cristiano si accoccolò nel groviglio caldo di coperte
e lenzuola. Il cuore gli batteva ancora forte. «Perché
mi hai svegliato?»
Poi si accorse che suo padre stringeva in mano la
pistola. Quando era ubriaco spesso la tirava fuori e
girava per casa puntandola sul televisore, sui mobili,
sulle luci.
«Come fai a dormire?» Rino si voltò verso il figlio.
Aveva la voce impastata come se avesse ingoiato
un pugno di gesso.
Cristiano si strinse nelle spalle. «Dormo...»
«Bravo.» Suo padre tirò fuori dalla tasca dei pantaloni
una lattina di birra, l'aprì e la finì in un sorso e si
pulì la barba con un braccio, poi l'accartocciò e la
buttò a terra. «Non lo senti, il bastardo?»
Non si sentiva niente. Nemmeno le macchine che
di giorno e di notte sfrecciavano davanti a casa e che
se chiudevi gli occhi avevi l'impressione ti entrassero
nella stanza.
È la neve. La neve copre i rumori.
Suo padre si avvicinò alla finestra e poggiò la testa
sul vetro umido di condensa. Ora la luce in corridoio
gli dipingeva i deltoidi e il cobra tatuato sulla spalla.
«Dormi troppo pesante. In guerra a te ti bevono per
primo.»
Cristiano si concentrò e sentì lontano l'abbaiare
rauco del cane di Castardin.
Ci si era talmente abituato che oramai le sue orecchie
non lo percepivano più. Stesso discorso per il
ronzio del neon in corridoio e lo sciacquone rotto del
cesso.
«Il cane?»
«Ce l'hai fatta... Incominciavo a preoccuparmi.»
Suo padre si girò di nuovo verso di lui. «Non ha
smesso un minuto. Neppure sotto la neve.»
Cristiano si ricordò cosa stava sognando quando
suo padre lo aveva svegliato.
Giù in soggiorno, vicino alla televisione, in un grande
acquario fosforescente c'era una medusa verde e
gelatinosa che parlava una lingua stranissima, tutta e,
z, r. E la cosa bella era che lui la capiva perfettamente.
Ma che ore sono? si chiese sbadigliando.
Il quadrante luminoso della radiosveglia poggiata
a terra segnava le tre e ventitré.
Suo padre si accese una sigaretta e sbuffò: «Ha rotto
il cazzo».
«È mezzo scemo, quel cane. Con tutte le bastonate
che ha preso...»
Ora che il cuore aveva smesso di marciargli in petto,
Cristiano sentì il sonno premergli sulle palpebre.
Aveva la bocca secca e il sapore dell'aglio del pollo
della rosticceria. Forse, bevendo, quello schifo se ne
sarebbe andato, ma faceva troppo freddo per scendere
giù in cucina.
Gli sarebbe piaciuto riprendere il sogno della medusa
lì dove lo aveva lasciato. Si stropicciò gli occhi.
Perché non te ne vai a letto? La domanda gli scappava,
ma la trattenne. Da come suo padre si aggirava
per la stanza non sembrava molto intenzionato ad
abbattersi.
Tre stelle.
Cristiano aveva una scala di cinque stelle per stabilire
l'incazzatura di suo padre.
Anzi, fra le tre e le quattro stelle. Già in zona "stai
molto attento", dove l'unica strategia era quella di
dargli sempre ragione e stargli il più possibile lontano
dai coglioni.
Suo padre si voltò e diede un calcio violento a una
sedia di plastica bianca che rotolò per la stanza e finì
contro il mucchio di scatoloni in cui Cristiano teneva
i suoi panni. Si era sbagliato. Quelle erano cinque
stelle. Allarme rosso. Qui l'unica strategia era ammutolirsi
e confondersi con l'ambiente.
Era da una settimana che a suo padre rodeva il culo.
Qualche giorno prima se l'era presa con la porta
del bagno che non si apriva. La serratura era rotta. Per
un paio di minuti aveva provato ad armeggiare con
un cacciavite. Se ne stava lì, in ginocchio, a bestemmiare,
a insultare Fratini, il ferramenta che gliel'aveva
venduta, i fabbricanti cinesi che l'avevano costruita
con la latta, i politici che permettevano d'importare
quella merda, ed era come se fossero tutti lì, proprio
davanti a lui, e niente, quella porta non ne voleva sapere
di aprirsi.
Un pugno. Uno più forte. Un altro. La porta sussultava
sui cardini, ma non si apriva. Rino era andato
in camera, aveva preso la pistola e aveva sparato contro
la serratura. Ma quella non si era aperta. Aveva
solo prodotto un botto assordante che aveva rintronato
Cristiano per mezzora.
Una cosa buona c'era stata: Cristiano aveva imparato
che è una stronzata quella che si vede nei film,
dove se spari alle serrature le porte si aprono.
Alla fine suo padre l'aveva presa a calci. L'aveva
sfondata urlando e strappando pezzi di legno con le
mani. Quando era entrato nel bagno aveva dato un
pugno allo specchio e le schegge erano finite dovunque
e lui si era aperto una mano ed era rimasto un
sacco di tempo a sgocciolare sangue seduto sul bordo
della vasca, fumandosi una sigaretta.
«E a me cosa me ne frega se quel cane è scemo?» riprese
Rino dopo averci pensato un po' su. «Mi ha rotto
i coglioni. Io domani devo lavorare...»
Si avvicinò al figlio e si sedette sul bordo del letto.
«La sai una cosa che mi dà veramente fastidio? La
mattina, quando faccio la doccia, uscire fuori tutto
bagnato e mettere i piedi a terra, sulle mattonelle gelo
late, rischiando pure di rompermi l'osso del collo.»
Gli sorrise, caricò la pistola e gliela porse reggendola
per la canna: «Stavo pensando che ci vorrebbe proprio
un bel tappetino di cane».
2.
Alle tre e trentacinque di notte Cristiano Zena uscì di
casa indossando stivali di gomma verdi, i pantaloni
a scacchi del pigiama e la giaccavento di suo padre.
In una mano stringeva la pistola, nell'altra la torcia
elettrica.
Cristiano era un ragazzino esile, alto per i suoi tredici
anni, con i polsi e le caviglie sottili, le mani lunghe
e scheletriche e il quarantaquattro di piede. In testa
gli cresceva un cespo ingarbugliato di capelli
biondicci che non riuscivano a nascondere le orecchie
a sventola e che proseguivano sulle guance con due
basette poco curate. Gli occhi grandi e azzurri divisi
da un nasino piccolo e all'insù, e una bocca troppo
larga per quel viso smilzo.
La neve scendeva giù fitta. L'aria era ferma. E la
temperatura era di qualche grado sotto lo zero.
Cristiano si cacciò in testa un cappello di lana nera,
sbuffò una nuvoletta di condensa e puntò la luce sul
cortile.
Uno strato di neve copriva la ghiaia, il vecchio dondolo
arrugginito, i cassonetti della spazzatura, un mucchio
di mattoni, il furgone. La statale, che passava proprio
davanti alla casa, era una lunga e immacolata
striscia bianca. Nemmeno un segno di pneumatici a rovinarla.
Il cane continuava ad abbaiare lontano.
Chiuse la porta di casa e s'infilò meglio il pigiama
negli stivali di gomma.
"Vai, forza. È una stronzata. Che ci vuole? Gli spari in
il
testa, mi raccomando in testa se no si mette a guaire e ti
tocca sparargli un'altra volta, e te ne torni a casa. Tra dieci
minuti sei di nuovo a letto. Dai, guerriero. " Il discorsetto
che suo padre gli aveva fatto quando l'aveva tirato
fuori dal letto gli risuonò in testa.
Alzò lo sguardo. La sagoma scura di suo padre era
dietro la finestra e gli faceva segno di muoversi. S'infilò
la pistola nelle mutande. Il freddo dell'acciaio gli
raggrinzì lo scroto.
Fece un cenno al padre e si avviò con il suo passo
incerto verso il retro della casa mentre il cuore lentamente
cominciava a salire di ritmo.
3.
Rino Zena guardava dalla finestra suo figlio uscire di
casa sotto la neve.
Aveva finito la birra e la grappa. E questo è un bel
guaio di per sé, ma se in più hai un fischio acuto come
un punteruolo che ti trafora i timpani diventa un
vero problema.
Quel sibilo era cominciato quando Rino aveva sparato
alla porta del bagno e anche se era passata una
settimana non diminuiva.
Forse mi sono rotto un timpano. Dovrei andare da un
medico, si disse accendendosi una sigaretta.
Ma Rino Zena si era giurato che sarebbe entrato in
un ambulatorio solo a zampe in avanti.
Lui non ci finiva nella trappola.
Quei bastardi incominciano col dirti che ti devi fare una
serie di analisi così entri nel tunnel e grazie e arrivederci.
Se non ti stronca la malattia, ci pensano i debiti che devi
fare per curarti.
Rino Zena aveva passato la sera accasciato su una
sedia a sdraio davanti alla televisione, ubriaco fradicio.
Con due fessure al posto degli occhi, la mandibola
appesa e una lattina in mano aveva tentato di seguire
un programma assurdo, che ogni tanto gli si
sfocava davanti.
Da quello che era riuscito a capire c'erano due mariti
che accettavano di scambiarsi le mogli per una
settimana e lo sapeva solo Iddio perché.
Non avevano più rispetto di niente in quel cesso di
televisione. Tanto per fare una cosa originale una famiglia
era di morti di fame di Cosenza e l'altra di romani
con i soldi che gli uscivano dal culo.
Il padre povero faceva il carrozziere. Il padre ricco,
uno di quei froci a cui bisogna spiegarglielo, lavorava
con qualcosa che aveva a che fare con la pubblicità. E
chiaramente la moglie del carrozziere era un cesso inguardabile
e l'altra una biondona con due gambe
lunghe come trampoli che passava la giornata a insegnare
come respirare in una palestra.
Alla fine però la storia aveva preso Rino e seguendola
si era finito una bottiglia di grappa.
A casa del pubblicitario il cesso di Cosenza era
odiata da tutti perché aveva la mania di girare impugnando
il Vetril e non ti potevi sedere che quella cominciava
a dire che i cuscini si rovinavano. Dopo un
giorno la comandavano come una cameriera negra e
lei era tutta contenta.
Rino era più interessato alla situazione di Cosenza.
Il carrozziere trattava la strappona come fosse lady
Diana. Rino aveva sperato che il carrozziere, in una
botta di ignoranza, acchiappasse la strappona che faceva
tanto la raffinata, ma si vedeva che era in pesante
astinenza da cazzo, e se la facesse.
«Vieni qua, troia! Ti faccio capire io come si fa a casa
Zena!» aveva cominciato a ragliare Rino lanciando un
barattolo di birra contro lo schermo della televisione.
Lo sapeva benissimo che era tutta una commedia,
che quella roba era vera come le borse che vendono i
negri davanti ai centri commerciali.
Poi si era addormentato. Si era risvegliato poco dopo
con la sensazione di avere un rospo morto in bocca
e con una morsa che gli stava spappolando le tempie.
Si era aggirato per casa alla ricerca di qualcosa di
alcolico per alleviare il dolore.
Alla fine, in fondo a un pensile della cucina, aveva
trovato una bottiglia impolverata di Pera Williams.
Chissà da quanto tempo era là. L'acquavite era finita,
ma la pera sembrava ancora bella zuppa di alcol.
Aveva spaccato la bottiglia sul lavello e piegato sul
tavolo si era succhiato la pera. Allora si era accorto
del cane. Non la piantava più di abbaiare. Ci aveva
messo un po' a capire che era il bastardo del mobilificio
di Castardin. Che se ne stava buono buono nella
sua cuccia tutto il giorno e la notte attaccava ad abbaiare
e non smetteva più fino all'alba.
Probabilmente il vecchio Castardin neanche lo sapeva,
all'orario di chiusura se ne usciva e con la sua
BMW grossa come un carro da morto se ne andava al
circolo a buttare soldi a poker. In paese si diceva che
era un gran giocatore, di quelli di una volta, che perdono
con classe.
Che voleva dire che rosicava in silenzio.
E così lui perdeva con classe i soldi che rubava con
quei mobili di cartone e il suo maledetto cane abbaiava
tutta la notte.
E se anche qualcuno gliel'avesse fatto notare, lui,
con la sua classe d'altri tempi, avrebbe detto che lì intorno
c'erano solo capannoni. A chi mai poteva dare
fastidio un cane che faceva solo il suo dovere? Rino
metteva mani e piedi sul fuoco che all'uomo d'altri
tempi non lo aveva neppure sfiorato il pensiero che a
meno di mezzo chilometro c'era una casa dove dormiva
un bambino.
Un bambino che doveva andare a scuola.
Perfetto, si era detto Rino Zena tirando fuori la pistola
dal cassetto, domani avrai la possibilità di far vedere
al mondo la tua infinita classe quando troverai il tuo cane
stecchito.
4.
Cristiano decise di arrivare al mobilificio attraverso i
campi. Anche se la statale era coperta di neve, qualcuno
poteva sempre passare.
La luce del lampione non arrivava dietro casa e l'oscurità
era totale. Con la torcia illuminò il muso contorto
di una Renault 5, una impastatrice di cemento, i
resti sbrindellati di una piscinetta gonfiabile, una sedia
di plastica, lo scheletro di un melo morto e una
recinzione alta un paio di metri.
Cristiano era uscito di casa di corsa, senza pisciare.
Avrebbe potuto farla là, ma poi decise che era meglio
di no, che faceva troppo freddo e che voleva finirla
subito con quella storia.
Avvicinò la sedia alla rete, ci montò sopra, si mise
tra i denti la torcia, si aggrappò con le dita alle maglie
e si tirò su. Passò una gamba dall'altra parte, ma il
fondo dei pantaloni gli rimase impigliato in uno
spunzone. Provò a liberarsi senza riuscirci e alla fine
lanciò la pila a terra e si gettò giù sentendo uno strap
e un dolore alla gamba.
Si ritrovò disteso sul dorso tra le erbacce zuppe e
con la neve che gli si scioglieva sulla faccia. Si rialzò
e infilò la mano nello strappo che gli aveva aperto
mezzo pigiama. Un lungo graffio, non abbastanza
profondo da sanguinare, gli segnava l'interno della
coscia. La pistola era ancora nelle mutande.
Raccolse la torcia e cominciò ad avanzare a fatica
seguendo le recinzioni dei capannoni industriali, risucchiato
dal fango e ostacolato dai rovi.
Si trovava sul bordo di un campo arato che di giorno
si stendeva fino all'orizzonte. In fondo - quando
non c'era la nebbia, ma la nebbia d'inverno c'era
sempre - s'intravedevano le chiome grigie del bosco
che cingeva gli argini del fiume.
Se non ci fossero stati quel cane che abbaiava e il suo
respiro affannato il silenzio sarebbe stato assoluto.
Lontano, oltre il fiume, brillavano le luci sospese
delle fabbriche e lo sfavillio giallastro della centrale
elettrica.
Le dita, strette nella morsa del freddo, cominciavano
a intorpidirsi e il gelo gli risaliva su per i piedi e
gli azzannava i polpacci.
Che idiota.
Nella fretta di uscire, incazzato con suo padre, non
si era nemmeno messo le calze. I fiocchi di neve gli
cadevano sul collo e la giacca cominciava a bagnarsi
sulle spalle.
I contorni neri dei capannoni industriali si susseguivano
uno dopo l'altro. Superò una rivendita di
prodotti sanitari. Cessi. Mattonelle. Lavandini. Impilati
in ordine tutto intorno alla costruzione. Poi un
concessionario di trattori e macchine agricole e il retro
di una discoteca chiusa per fallimento.
Basta, me la faccio addosso.
Spense la luce, mise la pistola nella tasca della
giacca, si abbassò i pantaloni e tirò fuori l'uccello.
Per il freddo e la paura gli si era rattrappito. Sembrava
un salammo. Lo scroscio di urina fuse la neve e
una nuvola di vapore acre si levò da terra.
Mentre se lo scrollava si rese conto che il cane abbaiava
più forte.
Il prossimo capannone era il mobilificio dei fratelli
Castardin.
Sembrava che il bastardo andasse a pile, non riprendeva
nemmeno fiato. Ogni tanto però smetteva di abbaiare
e ululava, neanche fosse un coyote del cazzo.
Accese la torcia e riprese a camminare più veloce.
Ci stava mettendo troppo. Sicuro che il pelato già fremeva.
Se lo vedeva aggirarsi per casa come un leone
in gabbia.
5.
Cristiano Zena si sbagliava. Suo padre in quel momento
era in bagno. Fermo davanti al cesso, una mano
contro il muro, guardava il proprio riflesso nell'acqua
nera in fondo alla tazza.
Gli si stava gonfiando la faccia. Dov'erano finiti gli
zigomi? Le guance infossate? Assomigliava a un cinese.
Aveva trentasei anni e sembrava che ne avesse
cinquanta. Nell'ultimo periodo aveva preso parecchi
chili. Non aveva avuto il coraggio di salire su una bilancia,
ma sapeva che era così. E anche lo stomaco gli
si era gonfiato. Continuava a tirare su i pesi e a fare
flessioni e a sfondarsi di addominali sulla panca, ma
quel promontorio sotto i pettorali non voleva saperne
di sgonfiarsi.
Era indeciso se pisciare o vomitare.
Nello stomaco aveva una dozzina di birre, mezzo
litro di grappa e una pera Williams.
Detestava vomitare. Ma se si fosse liberato, dopo
sarebbe stato sicuramente meglio.
Intanto il cane continuava ad abbaiare.
Che diavolo sta facendo Cristiano? E se non gli spara?
Una parte del cervello gli diceva di sì, che aveva
coglioni a sufficienza per sparare a un cane. Un'altra
parte però non ne era così convinta, Cristiano era troppo
bambino, faceva le cose solo per paura di papà. E
quando uno fa le cose per paura e non per rabbia non
ha i coglioni per tirare il grilletto.
Uno spruzzo giallo e acido gli uscì dalla bocca senza
preavviso. Rino centrò la tazza solo in parte, il resto
finì sulle piastrelle.
Si sedette sul bidet, sfiancato, nel fetore del vomito.
Mentre stava lì seduto e il gabinetto aveva preso a
girare come una lavatrice, si ricordò che quando lui
era piccolo del mobilificio di Castardin e di tutti gli
altri capannoni non c'era nemmeno l'ombra. A quel
tempo la statale era una stradaccia stretta, ai lati filari
di pioppi ed erbacce, poco più grande di una strada
di campagna. Intorno c'erano solo campi coltivati.
Non lontano da dove adesso sorgeva la loro casa
c'era la trattoria Arcobaleno, una bettola dove si mangiava
polenta e capretto e pesce del fiume.
E proprio dove ora si trovava il mobilificio di Castardin
c'era un vecchio casolare di quelli squadrati
come caserme, con il tetto di tegole, una grande rimessa
e l'aia piena di oche e galline. Ci viveva Roberto
Colombo con la sua famiglia.
Su un grosso albero che si affacciava sulla strada
Roberto aveva attaccato un cartello.
AUTORIMESSA
RIPARAZIONE CAMION, TRATTORI
E AUTOVETTURE NAZIONALI ED ESTERE
Dallo stesso albero pendeva un'altalena e Rino ci
andava a giocare con la figlia di Colombo.
Per arrivarci dalla casa dei suoi, vicino al fiume, a
piedi ci voleva mezzora. Ma mezzora a piedi a quel
tempo era niente.
Come si chiamava? Alberta? Antonia?
Qualcuno gli aveva detto che si era sposata e viveva
a Milano.
Un giorno, mentre lei stava lì a volteggiare sull'altalena
e lui cercava di vederle le mutande, era arrivato
il padre.
Seduto sul bidet Rino si lasciò sfuggire un sorriso.
In tutta la sua vita non aveva mai visto Roberto
Colombo senza la tuta blu da lavoro, un fazzoletto
rosso legato al collo e degli orrendi mocassini di pelle
intrecciata. Era largo e basso e aveva occhiali così
spessi che degli occhi restavano due puntini.
«Ragazzino, quanti anni hai?»
«Undici.»
«E a undici anni giochi ancora come un moccioso?
Tuo padre è morto e l'unica cosa che ti riesce di fare è
guardare le mutande a mia figlia?»
Cieco com'era, come avesse fatto a vederlo era un
mistero bello e buono.
Colombo lo aveva osservato come si valuta un cavallo
alla fiera. «Sei magro come un cane randagio,
ma sei fatto bene. Un po' di lavoro ti può aiutare a far
uscire i muscoli.»
Insomma, lo aveva preso all'officina con lui. Il lavoro
era semplice, doveva far brillare le macchine come
il giorno in cui erano uscite dalla fabbrica. Fuori e
dentro.
«Scordati di diventarci ricco, ma avrai quel che basta
per comprarti un paio di scarpe decenti e dare un
sollievo alla tua povera madre che fa una fatica d'inferno
ad arrivare a fine mese.»
E così dopo scuola Rino aveva cominciato ad andare
tutti i pomeriggi all'officina e armato di pompa e
spugna si era fatto i primi soldi della sua vita.
Antonia verso le cinque gli portava un panino e
una polpetta con le uvette.
Rino cercò di mettersi in piedi senza riuscirci. Voleva
aprire la finestra per cambiare l'aria.
Una spirale di immagini lo avvolse come una coperta
calda. Lui e Antonia insieme. Il matrimonio. I
figli. L'officina. Lui che ci lavorava con Cristiano.
Che bel periodo, quello! Tutto era così semplice.
Era facile trovare un posto. Non c'erano tutte le leggi
del cazzo sul lavoro e le prese per il culo dei sindacati.
Se avevi il manico e la voglia lavoravi, se no fuori,
aria. Fine delle alternative.
Rispetto per chi se lo meritava.
Poi un giorno Rino era arrivato e Colombo stava
piantando baracca e burattini. Un certo Castardin era
spuntato dal nulla e aveva comprato il casolare e la
terra intorno. Anche la trattoria Arcobaleno.
«Hanno aperto nuove officine a Varrano. Sembrano
delle fabbriche. Qui non ci viene più nessuno...
L'offerta è buona.»
Fine della storia.
«L'offerta è buona» biascicò Rino rimettendosi in
piedi. «Povero coglione incosciente.»
6.
Il capannone era a una ventina di metri. Avvolto
dal bagliore delle luci alogene, emergeva nella notte
come una base lunare. La rete di recinzione era
alta e in cima erano attaccate delle spire di filo spinato.
«Cazzo. Il filo spinato.»
L'avevano messo qualche tempo prima, quando
una notte erano entrati i ladri.
Un rumore meccanico si unì agli abbai. Un camion.
Cristiano spense la lampadina, si acquattò e attese
che passasse. Aveva i lampeggianti gialli e stava spalando
la neve.
Forse domani non si va a scuola. Grande!
Quando il camion si fu allontanato abbastanza, Cristiano
fece gli ultimi metri e si fermò alle spalle del capannone.
Il cane ora si sgolava, se possibile, ancora di più.
Ma da lì non riusciva a vederlo.
Cristiano non si ricordava se di notte lo liberavano
dalla catena, eppure qualche volta era passato davanti
al mobilificio anche tardi.
Cominciò a saltare per risvegliare i piedi insensibili
come pezzi di legno. «Ti odio! Perché mi fai questo?»
E si morse una mano per non mettersi a urlare
dalla rabbia. Un grumo di odio gli si era piantato
dentro la gola come una scheggia affilata.
Basta! Fa un freddo fottuto... Io me ne torno a casa. Fece
tre passi tirando calci alla neve, ma subito ci ripensò.
Non poteva tornare a casa.
Cominciò a percorrere il perimetro della rete cercando
il punto migliore dove arrampicarsi.
Il cane, intanto, abbaiava con lo stesso tono monocorde.
C'era un palo a cui era attaccata la rete e dove il filo
spinato era un po' più basso.
Si attaccò al palo e infilando la punta degli stivali
nelle maglie arrivò in cima senza difficoltà. Ora doveva
riuscire a non rimanere appeso al filo spinato.
Con calma fece passare prima una gamba e poi l'altra,
e trattenendo il respiro si gettò di sotto. Atterrò
nella falegnameria.
Tirò fuori la pistola. Tolse la sicura e la caricò.
Sapeva usarla bene, la pistola.
Suo padre gli aveva insegnato a sparare allo sfascio
delle macchine. All'inizio non riusciva a prendere la
mira, il braccio gli tremava come se avesse il Parkinson.
Ma a furia di sparare a vetri, specchietti retrovisori,
pantegane e gabbiani aveva capito che era solo
una questione di posizione e di respiro.
«Come sul cesso alla turca» gli aveva detto Rino.
Gambe larghe, sedere un po' in fuori, le braccia
distese ma non troppo rigide. La pistola parallela
agli occhi. E il respiro era importantissimo. Bisognava
appoggiare la punta della lingua contro i
denti di sotto e buttare fuori l'aria attraverso il naso
e sgonfiando la pancia contare fino a quattro e poi
sparare.
Si guardò in giro. Niente. Il bastardo si sgolava dall'altro
lato del capannone.
Se si fosse avvicinato lentamente aveva buone possibilità
di arrivargli abbastanza vicino da mirarlo, la
neve avrebbe coperto il rumore dei passi e quell'idiota
era troppo preso ad abbaiare per accorgersi che
stava per finire nel paradiso dei cani.
Se invece il cane gli veniva addosso avrebbe dovuto
avere il sangue freddo di fermarsi, mettersi in
posizione e mirare mentre quello gli correva incontro.
Avanzò accucciato, trattenendo la voglia di correre,
fino a un blocco di tavole impilate una sull'altra. Formavano
un lungo parallelepipedo alto più di quattro
metri che arrivava in fondo al cortile, a pochi metri
dalla statale. Cristiano ci salì su, infilando i piedi tra le
assi e afferrandosi ai bordi ghiacciati con le mani.
Quando fu sopra si accorse che tra una pila e l'altra
c'era un salto di un metro. Come tra i vagoni di un
treno.
Da dove si trovava riusciva a vedere uno spicchio
del parcheggio deserto e l'area bambini con la giostra
con i nani e le altalene imbiancate e i lampioni
con le palle di vetro che spandevano una sfera lattiginosa.
Del cane nessuna traccia.
A quattro zampe, bagnandosi ginocchia e mani, arrivò
in fondo alla prima pila. Prese coraggio e saltò.
Le assi si sollevarono e ricaddero facendo un rumore
d'inferno. Da quella posizione si vedeva anche l'altro
lato del parcheggio, dove erano posteggiati tre furgoni
con scritto sulle fiancate:
MOBILIFICIO FRATELLI CASTARDIN
IL MEGLIO A MENO
Il cane però non si vedeva. Eppure doveva essere
vicinissimo. Gli venne il dubbio che fosse una registrazione.
Poi vide, a una trentina di metri, una roba scura a
terra. Vicino al lungo cancello di ingresso. Mezza coperta
di neve... Da lì sembrava un cappotto.
Cristiano si avvicinò strisciando sopra le assi.
La cosa a terra si muoveva. Poco. Ma si muoveva.
E capì.
Il figlio di puttana si era aggrovigliato come un salame
nella lunga catena che gli doveva permettere di
muoversi lungo il perimetro del capannone. Ogni
tanto sollevava la testa.
Ecco perché abbaia come un matto.
Grosso e coglione.
Beccarlo da lì era una stronzata. E se pure non lo
ammazzava al primo colpo, non avrebbe potuto muoversi
e lui lo avrebbe spedito al Creatore con il secondo.
Abbaia perché non riesce a muoversi. Potrei liberarlo e
smetterebbe di abbaiare.
No, doveva ammazzarlo perché la verità era che a
suo padre non fregava un cazzo che il cane abbaiasse.
Lui odiava Castardin e quindi quel cane doveva
morire.
Punto e basta.
7.
Era esattamente così.
Rino Zena odiava il vecchio Castardin con la stessa
devota intensità con cui un monaco cistercense ama il
suo Signore.
«È nel mio carattere. Se mi fai una stronzata, con
me hai chiuso per sempre e ti terrò sempre sotto tiro.
Avrò un carattere di merda, ma è quello con cui sono
venuto al mondo. È facilissimo avere rapporti con
me, basta che non mi fai incazzare e tutto fila liscio.»
Così diceva Rino a chi gli faceva notare, con estrema
delicatezza, che era una punta suscettibile.
Qualche anno prima di questa storia Rino Zena era
stato preso al mobilificio come trasportatore di mobili.
Lavorava in nero e contava più sulle mance che
sullo stipendio da negri che gli dava Castardin.
Tutto era filato più o meno bene, con Rino che si lamentava
con chiunque di essere trattato come uno
schiavo, fino al giorno in cui il vecchio Castardin in
persona lo aveva chiamato e gli aveva detto che doveva
portare una cameretta per ragazzi a casa dell'assessore
Arosio.
«Mi raccomando, Zena. Non ho nessun altro, sono
tutti fuori per le consegne. Ad Arosio ci tengo. Copriti
quei tatuaggi, che gli spaventi i bambini. E parla il
meno possibile.»
Rino lo aveva guardato in cagnesco e poi si era caricato
tutti i pezzi della cameretta nel furgone.
Anche l'assessore Arosio stava parecchio sulle palle
a Rino. Era quel testa di cazzo che aveva chiuso al traffico
il corso di Varrano. E quindi pure se dovevi consegnare
lo space shuttle i vigili non ti facevano passare.
Arrivato alla palazzina aveva scoperto che l'appartamento
dell'assessore era al terzo piano e la
portiera non voleva si usasse l'ascensore per portare
su grossi carichi: «Vorrei fartelo usare, ma se lo usi
te poi lo devo far usare a tutti e va a finire che me lo
distruggete».
Schiumando Rino si era caricato sulla groppa la cameretta.
Sulla porta dell'appartamento aveva trovato
ad aspettarlo la signora Arosio in camicia da notte di
raso viola.
Era una pezzo di femmina, sui quaranta, con una
permanente color leone, due enormi tette parzialmente
nascoste dalla camicia da notte, i fianchi stretti e un
culo che sembrava una portaerei. Aveva una faccia
tonda come un Super Tele, un nasino piccolo, troppo
perfetto per essere quello che le aveva dato sua madre,
gli occhi pitturati con l'ombretto celeste e le labbra
gonfie e luccicanti da cui facevano capolino gli incisivi
leggermente separati.
Rino l'aveva vista passeggiare per il corso, in estate
e in inverno, con delle scollature esagerate sulle
fettone abbrustolite dalle lampade uva, ma non sapeva
che quel puttanone fosse la moglie di Arosio.
Mentre lui si dava da fare con viti e bulloni, la donna
si era seduta in modo che tutto il ben di Dio che
aveva davanti fosse in bella mostra e continuava a dire
che i muscoli fatti sul lavoro sono molto più belli
di quelli pompati in palestra. E poi che cos'erano tutti
quei tatuaggi? Cosa significavano? Anche lei ne voleva
uno, uno scoiattolo...
A Rino gli era venuto duro e faticava a seguire le
istruzioni sotto quello sguardo affamato.
Dopo la scrivaniola, la lavagnetta e l'armadio aveva
montato il letto a castello.
«Lo ha stretto bene? Non vorrei che si aprisse... Sa,
mio figlio Aldo è leggermente obeso. Mi faccia un favore,
ci salga sopra. Lo provi.»
Rino era salito e aveva iniziato a saltarci. «Mi sembra
che vada bene.»
La donna aveva scosso la testa. «Lei però è troppo
leggero. Per essere sicura al cento per cento ci monto
anch'io. Così siamo in una botte di ferro.»
Mezzora dopo il letto aveva ceduto di schianto e la
signora Arosio precipitando si era rotta un polso e
aveva fatto causa al mobilificio.
Rino aveva giurato a Castardin di non essersela
scopata.
E in effetti, tecnicamente, aveva ragione. Non c'era
ancora stata penetrazione quando il letto si era sfondato.
Lei stava carponi, con la faccia affondata nel cuscino,
la sottana sollevata, e Rino l'afferrava per i capelli
come gli indiani tengono i loro destrieri e le
stampava delle gran manate rosse sulle chiappe proprio
come sui cavalli apache.
In quel momento il letto aveva ceduto.
Rino Zena aveva perso il posto.
E aveva giurato di fargliela pagare, al vecchio Castardin.
8.
Cristiano Zena si stese e mirò alla testa. Prese un bel
respiro e sparò. L'animale fece un sussulto leggero,
un breve guaito e rimase immobile.
Sollevò il pugno. «Al primo colpo!»
Con un salto scese dalla pila di assi e, dopo aver
guardato che non passassero macchine, si avvicinò
lentamente tenendo la pistola puntata sulla bestia.
La bocca aperta. La bava. La lingua che pendeva
da una parte come una lumaca bluastra. Gli occhi rivoltati
e sul collo un buco rosso tra i peli neri e la neve
che volteggiava pigra in aria e seppelliva il morto.
Un bastardo del cazzo in meno nel mondo.
9.
Cristiano tornò a casa e corse da suo padre per raccontargli
come lo aveva fatto secco al primo colpo,
ma Rino era allungato sul letto e dormiva.
PRIMA.
Tu sei troppo giusto, Signore,
perché io possa discutere con te;
ma vorrei solo rivolgerti una parola sulla giustizia.
Perché le cose degli empi prosperano?
Perché tutti i traditori sono tranquilli?
Tu li hai piantati e loro hanno messo radici,
crescono e producono frutto.
Tu sei vicino alla loro bocca
ma lontano dai loro cuori.
Geremia, 12 1 2.
Parte prima.
Venerdì.
10.
Un ammasso stellare galattico è un gruppo di astri tenuti
insieme da forze gravitazionali. Il numero di
stelle può arrivare a migliaia. La loro bassa attrazione
favorisce una disposizione caotica attorno al centro
del sistema.
Questa formazione disordinata somigliava a quella
delle migliaia di cittadine, villaggi, paesini e frazioni
che costellavano l'immensa pianura in cui abitavano
Cristiano Zena e suo padre.
La neve che era caduta per tutta la notte sulla piana
aveva imbiancato campi, case, fabbriche. non
aveva attaccato solo sulle grosse condutture incandescenti
delle centrali elettriche, sulle luminarie delle
pubblicità e sul Forgese, il grande fiume che serpeggiando
univa le montagne, a nord, con il mare, a sud.
Ma alle prime luci del giorno la nevicata si trasformò
in una pioggia sottile e insistente che sciolse
in meno di un'ora il manto bianco che per un attimo
aveva reso la pianura attraente come una algida modella
albina avvolta in una pelliccia di volpe artica.
Varrano, San Rocco, Rocca Seconda, Murelle, Giardino
Fiorito, Marzio, Bogognano, Semerese e tutti gli
altri centri abitati riemersero con i loro colori smorti,
con i loro piccoli e grandi abusi, con le villette a due
piani circondate dal pratino all'inglese bruciato dal
gelo, con i loro capannoni prefabbricati, gli istituti di
credito, i cavalcavia, i concessionari e i loro parchi
macchine e con tutto il loro fango.
11.
Alle sei e un quarto del mattino Corrado Rumitz, detto
Quattro Formaggi per un'insana passione per la
pizza ai quattro formaggi con cui si era nutrito per
gran parte dei suoi trentotto anni, faceva colazione seduto
su una logora poltrona a fiori.
Indossava il suo completo da casa: mutande lerce,
vestaglia di flanella scozzese che gli arrivava alle caviglie
e un paio di sdruciti stivali Camperos, vestigia
dell'altro millennio.
Con lo sguardo fisso verso l'angusto cortiletto davanti
alla cucina prendeva con regolarità da una busta
una Campagnola, la intingeva in una scodella di
latte e se la cacciava in bocca intera.
Quando si era svegliato, dalla finestra della stanza
aveva visto, nella pallida luce dell'alba, una distesa
di morbide colline e valli bianche, come se fosse stato
in una baita in montagna. Evitando di guardare i muri
del palazzo di fronte si poteva anche pensare di essere
in Alaska.
Era rimasto accoccolato a letto, sotto le coperte, a
fissare i fiocchi di neve che scendevano leggeri come
piume.
Era tantissimo tempo che non nevicava così.
Quasi tutti gli inverni, prima o poi, arrivava giù
una spruzzatina, ma Quattro Formaggi non aveva
neanche il tempo di fare una passeggiata in campagna
che si era sciolta.
E invece quella notte dovevano esser scesi almeno
venti centimetri.
Quando Quattro Formaggi era piccolo e stava nell'istituto
delle suore nevicava ogni inverno. Le macchine
si fermavano, alcuni si mettevano pure gli sci
da fondo e i bambini si divertivano a fare i pupazzi
con i rami al posto delle braccia, a scivolare dalla rampa
dei garage sopra le camere d'aria. Che battaglie incredibili
di palle con suor Anna e suor Margherita e le
slitte trainate dai cavalli con i campanelli...
Almeno, così gli sembrava.
Ultimamente si accorgeva di ricordare spesso cose
che non esistevano. Oppure scambiava cose che aveva
visto alla televisione con i suoi ricordi.
Certo, qualcosa al mondo doveva essere cambiato
se non nevicava più come allora.
Alla tele avevano spiegato che il mondo si stava
scaldando come una polpetta al forno e che era tutta
colpa dell'uomo e dei suoi gas.
Quattro Formaggi, steso nel letto, si era detto che
se si sbrigava poteva andare da Rino e Cristiano e
quando Cristiano sarebbe andato a scuola lo avrebbe
assaltato a colpi di palle di neve.
Ma come se il Tempo lo avesse ascoltato e gli avesse
voluto fare un dispetto, i fiocchi di neve si erano fatti
sempre più pesanti e liquidi fino a trasformarsi in
pioggia e le colline avevano cominciato prima a butterarsi
e poi a ridursi in chiazze di pappa ghiacciata, e
da sotto era apparso l'ammasso di roba vecchia stipata
nel piccolo cortile. Letti, mobili, pneumatici, bidoni
arrugginiti, lo scheletro di un'Ape 125 arancione, un
divano di cui era rimasta solo la carcassa.
Quattro Formaggi si finì il tazzone di latte in un
unico sorso, il puntuto pomo d'Adamo che andava
su e giù. Sbadigliò e si alzò in tutto il suo metro e ottantasette.
Era così magro e alto che assomigliava a un giocatore
di basket uscito da Auschwitz. Braccia e gambe
sproporzionate, mani e piedi immensi. Sul palmo
destro aveva un'escrescenza callosa e sul polpaccio
sinistro una cicatrice dura e marroncina. Sopra il collo
ossuto poggiava una testa piccola e tonda come
quella di un gibbone cinerino. Una barba stenta macchiava
le guance scavate e il mento. I capelli, al contrario
della barba, erano neri e lucidi e gli calavano
sulla fronte bassa come la frangetta di un indio.
Mise la tazza nel lavello, scosso da tremori e spasmi
come se al suo corpo fossero collegati centinaia
di elettrostimolatori.
Continuò a fissare il cortile piegando la testa da un
lato e storcendo la bocca e poi si diede un paio di pugni
su una coscia e uno schiaffo in fronte.
I bambini, al parco, quando lo vedevano camminare
rimanevano a fissarlo inebetiti e poi improvvisamente
sgambettavano dalle babysitter e le strattonavano indicandoglielo:
«Ma perché quel signore cammina così
strano?».
E di solito si sentivano rispondere (se la babysitter
era beneducata) che è una cosa brutta puntare il dito
sulla gente e che quel povero disgraziato era una persona
sfortunata affetta da qualche malattia mentale.
Ma poi gli stessi bambini, parlando a scuola con i
più grandi, imparavano che quel signore strano, che
stava sempre ai giardinetti e si fregava i giocattoli se
non lo controllavi, si chiamava l'Uomo Elettrico come
un nemico dell'Uomo Ragno o di Superman.
Sarebbe stato un soprannome più azzeccato, per
Quattro Formaggi. Quando aveva trent'anni Corrado
Rumitz aveva avuto una brutta avventura che per
poco non gli era costata la vita.
La storia era cominciata con un fucile a piombini
che aveva scambiato con una lunga canna da pesca.
Un vero affare, il fucile aveva le guarnizioni consumate
e quando sparava sembrava che scorreggiasse.
Alle nutrie del fiume faceva le carezze. Invece la canna
era pressoché nuova ed era lunghissima e quindi
con il lancio giusto poteva arrivare fino al centro del
fiume.
Tutto soddisfatto, Quattro Formaggi con la sua
canna in una mano e il secchio nell'altra se n'era andato
a pescare sul fiume. Gli avevano detto che in un
punto speciale, proprio sotto la chiusa, arrivavano i
pesci portati dalla corrente.
Quattro Formaggi, dopo essersi dato un'occhiata
intorno, aveva scavalcato la recinzione e si era piazzato
proprio sopra la chiusa che quel giorno era abbassata.
Non era mai stato troppo sveglio, quando era in
orfanotrofio aveva avuto una forma particolarmente
acuta di meningite e quindi, come diceva lui, "pensava
piano".
Ma quel giorno, anche se piano, l'aveva pensata
giusta. Aveva fatto qualche lancio e aveva sentito che
i pesci toccavano l'esca. Dovevano essere centinaia,
ammassati sotto le paratie. Ma erano parecchio furbi.
Si pappavano il verme e gli lasciavano solo un amo
da innescare.
Forse doveva provare più lontano.
Aveva fatto un lancio deciso disegnando nell'aria
una parabola perfetta, con la punta aveva superato le
fronde degli alberi ma non i cavi elettrici che gli passavano
proprio sopra la testa.
Se la canna fosse stata di plastica non gli sarebbe
successo niente, ma, sfortunaccia sua, era in carbonio,
che nella scala della conducibilità elettrica è secondo
solo all'argento.
La corrente gli era entrata nella mano e lo aveva attraversato
uscendogli dalla gamba sinistra.
Lo avevano trovato gli operai della chiusa, steso a
terra, mezzo carbonizzato.
Per parecchi anni non aveva più parlato e si muoveva
a scatti come un ramarro. Poi lentamente si era
ripreso, ma gli erano rimasti spasmi al collo e alla bocca
e una gamba matta a cui ogni tanto doveva mollare
un pugno per risvegliarla.
Quattro Formaggi prese dal frigo un po' di carne
macinata e la diede a Uno e Due, le tartarughe acquatiche
che vivevano in cinque centimetri d'acqua in
un'enorme bacinella da bucato sul tavolo accanto alla
finestra.
Qualcuno le aveva buttate nella fontana di piazza
Bologna e lui se le era portate a casa. Quando le aveva
prese erano grandi quanto una moneta da due euro,
ora, dopo cinque anni, erano poco più piccole di
una forma di pane casereccio.
Guardò l'orologio a forma di violino appeso alla
parete. Non si ricordava bene a che ora, ma aveva un
appuntamento con Danilo al bar Boomerang e poi insieme
sarebbero andati a svegliare Rino.
Giusto il tempo di risistemare la chiesetta in legno
accanto al lago.
Entrò nel soggiorno.
Una stanza di una ventina di metri quadrati tutta
ricoperta di montagne di cartapesta colorata, di fiumi
di stagnola, di laghi fatti di piatti e bacinelle, di boschi
di muschio, di città con case di cartone, deserti di
sabbia e strade di stoffa.
E sopra c'erano soldatini, animali di plastica, dinosauri,
pastori, macchinine, carri armati, robot e bambole.
Il suo presepe. Era da anni che ci lavorava.
Migliaia di pupazzetti raccolti nei cassoni della
spazzatura, trovati nella discarica o dimenticati dai
bambini ai giardini comunali.
Sopra la montagna più alta di tutte c'era una stalla
con il Bambin Gesù, Maria, Giuseppe e il bue e l'asinello.
Quelli glieli aveva regalati suor Margherita per
Natale, quando aveva dieci anni. Quattro Formaggi,
muovendosi con una insospettabile grazia, attraversò
il presepe senza far cadere niente e sistemò meglio
il ponte su cui avanzava una fila di Puffi blu capitanata
da un Pokémon.
Finito il lavoro s'inginocchiò e pregò per l'anima di
suor Margherita. Poi andò nel microscopico gabinetto,
si lavò alla meno peggio e indossò la tenuta invernale:
una calzamaglia, un paio di pantaloni di cotone,
una camicia di flanella a quadrati bianchi e blu, felpa
marrone, un vecchio piumino Ciesse, una sciarpa della
Juve, una cerata gialla, i guanti di lana, un cappello
con la visiera e i grossi scarponi da lavoro.
Pronto.
12.
La sveglia attaccò a suonare alle sette meno un quarto
e strappò Cristiano Zena da un sonno senza sogni.
Ci vollero dieci minuti buoni perché un braccio si
estroflettesse come la chela di un paguro da sotto le
coperte e zittisse la suoneria.
Gli sembrava di aver appena chiuso gli occhi. Ma
la cosa più terribile era abbandonare il letto caldo.
Come ogni mattina prese in considerazione l'idea
di non andare a scuola. Oggi poi la prospettiva lo allettava
particolarmente visto che suo padre gli aveva
detto che quel giorno andava a lavorare. Non capitava
spesso, nell'ultimo periodo.
Ma non si poteva. Aveva il compito in classe di storia.
E se anche questa volta marinava...
Forza, alzati.
Un angolo della stanza cominciava a schiarirsi della
luce slavata che arrivava dal cielo basso e grigio.
Cristiano si stiracchiò e si controllò il graffio sulla
coscia. Era rosso, ma già stava facendo la crosta.
Afferrò da terra i pantaloni, la maglia di pile e i calzini
e se li infilò sotto le coperte. Sbadigliando si tirò
su, s'infilò le scarpe da ginnastica e si trascinò come
uno zombie fino alla porta.
La stanza di Cristiano era grande, con i muri non
ancora intonacati. In un angolo c'erano due cavalletti
con una tavola di legno su cui erano impilati i
quaderni e i libri di scuola. Sopra il letto, un poster
di Valentino Rossi che faceva la pubblicità alla birra.
Accanto alla porta spuntavano i tubi di rame
tronchi di un termosifone che non era mai stato
montato.
A bocca spalancata attraversò il corridoio coperto
di linoleum grigio, superò i resti della porta del gabinetto
ancora attaccati ai cardini ed entrò.
Il bagno era un buco di un metro per due con le
mattonelle a fiori blu intorno alla piastra della doccia.
Sopra il lavandino era appesa una lunga scheggia
dello specchio. Dal soffitto pendeva una lampadina
nuda.
Passò sui resti del vomito di suo padre e guardò
fuori dalla finestrella.
Pioveva e la pioggia si era mangiata tutta la neve.
Erano rimaste poche inutili macchie bianche che si
scioglievano sulla ghiaia di fronte a casa.
La scuola è aperta.
Mancava la tavoletta della tazza e poggiò le chiappe
sulla porcellana gelata stringendo i denti. Un brivido
gli risalì su per la schiena. E in uno stato di dormiveglia
cagò.
Poi si lavò i denti. Cristiano non aveva una bella
dentatura. Il dentista gli voleva mettere l'apparecchio,
ma per fortuna non avevano una lira e suo padre
aveva detto che i suoi denti andavano bene così.
Non fece la doccia, ma si spruzzò il deodorante.
Immerse le dita nel gel e se le passò tra i capelli per
renderli se possibile più arruffati, ma facendo attenzione
a non far spuntare le orecchie.
Tornò nella stanza, infilò i libri nello zaino e stava
per scendere giù quando vide un debole bagliore filtrare
da sotto la porta della camera di suo padre.
Abbassò la maniglia.
Suo padre se ne stava imbustato dentro un sacco a
pelo mimetico su un materasso matrimoniale buttato
per terra.
Cristiano si avvicinò.
Solo l'ovale del cranio rasato spuntava dal sacco.
Sul pavimento lattine di birra vuote, calze e gli anfibi.
Sul comodino altre lattine e la pistola. C'era puzzo di
sudore rancido e di panni sporchi che si confondeva
con l'odore di una vecchia moquette blu spelacchiata.
Una lampada con sopra un panno rosso tingeva di
scarlatto l'enorme bandiera con una svastica nera appesa
al muro senza intonaco. Le serrande abbassate,
le tende a rombi bianchi e marroni fermate con le
mollette.
Suo padre là ci stava solo per dormire. Di solito
crollava sulla poltrona davanti alla televisione e solo
il freddo e d'estate le zanzare gli davano la forza necessaria
per trascinarsi fino in camera.
Quando Cristiano lo vedeva aprire le finestre e dare
una sistemata alla meno peggio sapeva che il pelato
si era organizzato da scopare con qualcuna e non
voleva intossicarla con i calzini marci e le cicche.
Cristiano diede un calcio al materasso. «Papà! Papà,
svegliati! È tardi.»
Niente.
Alzò la voce: «Papà, devi andare a lavorare!».
Doveva essersi scolato una cisterna di birra.
Chi se ne frega! si disse e fece per andarsene quando
sentì un gemito che non si capiva se venisse dall'oltretomba
o dal fagotto. «No, oggi... oggi... vado... devo...
Danilo... Quattro...»
«Vabè. Ci vediamo dopo. Scappo che perdo l'autobus.»
Cristiano si avviò verso la porta.
«Aspetta un attimo...»
«È tardi, pa'...» s'innervosì Cristiano.
«Dammi le sigarette.»
Il ragazzo cominciò a sbuffare cercando per la
stanza il pacchetto.
«Sono nei pantaloni.» La faccia di suo padre spuntò
dal sacco a pelo sbadigliando. Il segno della zip su
una guancia. «Madonna, che schifo il pollo di ieri sera...
Stasera cucino io... Faccio le lasagne, cosa dici?»
Cristiano lanciò il pacchetto al padre, che lo prese
al volo. «Dai, che ho fretta... Perdo l'autobus, te l'ho
detto.»
«Aspetta un attimo! Ma cosa ti ha preso oggi?» Rino
si accese una sigaretta. Per un istante il suo viso
fu avvolto da una nuvola bianca. «Stanotte ho sognato
che ci mangiavamo le lasagne. Non mi ricordo
dove, ma erano buone. Sai che faccio? Oggi le preparo.»
Ma perché spara queste stronzate? si chiese Cristiano.
Sapeva a malapena cucinare due uova all'occhio di
bue e rompeva sempre il rosso.
«Le faccio con un casino di besciamella. E le salsicce.
Se fai la spesa ti faccio delle lasagne che ti dovrai
inchinare e ammettere che sono il tuo Dio.»
«Sì, come l'altra volta che hai fatto la pasta con le
vongole e la sabbia.»
«Guarda che la sabbia ci sta benissimo.»
Cristiano, come sempre, si perse a osservarlo.
Trovava che se suo padre fosse nato in America sarebbe
diventato di sicuro un attore. Non un attore
mezzo frocio come quello che faceva 007. No, uno tipo
Bruce Willis o Mel Gibson. Uno che andava in
Vietnam.
Aveva la faccia da duro.
Gli piacevano la forma del cranio e le orecchie piccole
e tonde, non come quelle che aveva lui. La mascella
squadrata e i puntini neri della barba, il naso
piccolo, gli occhi color ghiaccio e le rughette che gli
venivano intorno quando rideva.
E poi gli piaceva che non fosse troppo alto ma proporzionato,
come un pugile. Con un sacco di muscoli
ben definiti. E poi gli piaceva il filo spinato tatuato
intorno al bicipite. Meno, la pancia gonfia e quella testa
di leone sulla spalla che sembrava una scimmia. E
anche la croce celtica che aveva sul pettorale destro
non era male.
Perché non sono uguale a lui?
Non sembravano nemmeno padre e figlio, se non
fosse stato per il colore degli occhi.
«Oh... Mi stai sentendo?»
Cristiano guardò l'orologio. Era tardissimo. Il primo
autobus era già passato. «Dai! Me ne devo andare!»
«D'accordo, ma prima devi dare un bacio all'unico
essere che hai mai amato.»
Cristiano rise e fece no con il capo. «No, fai schifo,
puzzi come una fogna.»
«Senti chi parla, l'ultima volta che ti sei fatto la
doccia eri alle elementari.» Rino buttò la cenere in
una lattina sorridendo. «Vieni subito qua e bacia il
tuo Dio. Ricordati che tu senza di me non saresti esistito,
se non ci fossi stato io tua madre avrebbe abortito,
quindi bacia questo maschio latino.»
Cristiano sbuffò. «Che palle!», e di corsa poggiò
appena le labbra sulla guancia ruvida di suo padre.
Stava per allontanarsi quando Rino lo afferrò per un
polso e con l'altra mano si pulì disgustato la guancia.
«Che schifo! Ho un figlio frocio!»
«Vaffanculo!» Cristiano ridendo cominciò a prenderlo
a zainate.
«Sì... Ancora... Ancora... Mi piace...» ansimava come
un idiota Rino.
«Che stronzo che sei...» E giù colpi sulla zucca pelata.
Rino cominciò a massaggiarsi la nuca e poi si fece
improvvisamente minaccioso: «Che cazzo fai? In testa
no! Sei deficiente! Mi hai fatto male! Lo sai che ho
malditesta».
Cristiano, preoccupato, balbettò uno «Scusa... Non
volevo...».
Rino con uno scatto improvviso afferrò la pistola
dal comodino e tirò a sé Cristiano, che finì lungo disteso
sul letto, e gli puntò la canna in fronte.
«Vedi che ogni volta ti frego? Devi sempre tenere
alta la guardia. A quest'ora saresti morto» gli sussurrò
in un orecchio come se qualcuno potesse sentirlo.
Cristiano provò a sollevarsi, ma suo padre, con il
braccio, lo teneva giù. «Lasciami! Lasciami! Sei uno
stronzo...» protestava.
«Ti lascio solo se mi dai un bacio» fece Rino porgendogli
la guancia.
Cristiano infastidito gli diede ancora un bacio e Rino
urlò disgustato: «Ma allora è proprio vero che ho
un figlio ricchione?», e cominciò a fargli il solletico.
Cristiano nitriva e cercava di liberarsi e farfugliava:
«Ti prego... Ti prego... Ti prego... Basta...».
Alla fine riuscì a sfuggirgli. Si allontanò dal letto
rinfilandosi la maglietta nei pantaloni, prese lo zaino
e mentre scendeva le scale Rino gli urlò dietro: «Oh,
sei stato bravo questa notte».
13.
Danilo Aprea, quarantacinque anni, era seduto a un
tavolino del bar Boomerang e si finiva il terzo grappino
di quella mattina.
Anche lui era alto, ma a differenza di Quattro Formaggi
era grande e grosso e aveva la pancia gonfia
come quella di una vacca affogata. Non si poteva dire
che fosse grasso, era bello sodo e aveva la pelle bianca
come marmo. Ogni cosa in lui era squadrata: le dita,
le caviglie, i piedi, il collo. Aveva un cranio cubico,
un muro al posto della fronte e due occhi nocciola incassati
ai lati di un naso largo. Una sottile striscia di
barba gli incorniciava le guance perfettamente rasate.
Portava dei Ray-Ban da vista con la montatura dorata
e si tingeva i capelli, tagliati a spazzola, con una tonalità
rosso mogano.
Anche lui come Quattro Formaggi aveva una tenuta
invernale, ma al contrario di quella dell'amico la
sua era sempre perfettamente pulita e stirata. Camicia
di flanella a quadri. Gilè da cacciatore con mille
taschini. Pantaloni di jeans con le pince. Scarpe da
ginnastica. E, attaccata alla cintura, una custodia con
un coltellino svizzero e il cellulare.
Risparmiava su tutto, ma non sul proprio aspetto.
Si spuntava la barba e si tingeva una volta ogni quindici
giorni dal barbiere.
Stava aspettando Quattro Formaggi che, tanto per
cambiare, era in ritardo. Non che gliene importasse
granché. Nel bar faceva un bel caldo e la posizione
era strategica. Il tavolino, di fronte alla vetrata, affacciava
sulla strada. Danilo teneva fra le mani "La Gazzetta
dello Sport" e ogni tanto lanciava un'occhiata
fuori.
Proprio di fronte c'era il Credito Italiano dell'Agricoltura.
Vedeva la gente che entrava e usciva dai metal
detector e la guardia privata piantata davanti all'ingresso
a parlare al cellulare.
Quella guardia gli stava parecchio sulle palle. Con
quel giubbotto antiproiettile, il berretto con lo stemma,
la pistola lucida, gli occhiali da sole, il mascellone
e la gomma americana, chi cazzo si credeva di essere?
Tom Cruise?
In realtà quello che veramente interessava Danilo
Aprea non era la guardia, ma ciò che c'era dietro: il
Bancomat.
Quello era il suo obbiettivo. Era il più usato in paese,
visto che quella era la banca con più correntisti di
tutta Varrano, e di conseguenza doveva essere zeppo
di soldi.
C'erano due telecamere piazzate sopra lo sportello.
Una a destra e una a sinistra, in modo da coprire tutta
la zona intorno. E sicuramente nella banca doveva
esserci collegata una batteria di videoregistratori. Ma
quello non era un problema.
A dirla tutta non c'era alcun bisogno che Danilo
stesse lì a osservare il movimento davanti alla banca.
Il piano era studiato in ogni minimo dettaglio. Ma
guardare quel Bancomat lo faceva sentire meglio.
La storia del colpo al Credito dell'Agricoltura era
nata circa sei mesi prima.
Danilo era dal barbiere e sfogliando la cronaca aveva
letto che in un paese vicino a Cagliari una banda
di malviventi con un fuoristrada aveva sfondato il
muro di una banca e si era portata via il Bancomat.
Mentre si faceva tingere i capelli la notizia continuava
a ronzargli in testa: quella poteva essere la
svolta della sua vita.
Era un piano semplice.
«E la semplicità è la base di ogni cosa fatta come si
deve» gli diceva sempre suo padre.
Poi era facile da realizzare. La notte a Varrano era
un tale mortorio che se facevi le cose veloci, chi ti vedeva?
E chi avrebbe mai potuto pensare che Danilo
Aprea, una persona così rispettabile, potesse derubare
una banca?
Con il bottino avrebbe realizzato il sogno di Teresa.
Aprire una boutique di lingerie. Danilo era sicuro
che, se le avesse regalato un negozio, sua moglie sarebbe
tornata a casa e a quel punto lui avrebbe trovato
la forza di andare dagli Alcolisti Anonimi e togliersi
il vizio.
14.
Dopo che Cristiano era uscito, Rino Zena era crollato
di nuovo a dormire e quando si era svegliato il fischio
nelle orecchie, come d'incanto, era passato insieme
al cerchio intorno alla testa. In compenso aveva
una gran fame.
Se ne stava sul letto e s'immaginava un piatto di
salsicce bruciacchiate e un bel po' di pane.
Aveva l'uccello duro e i coglioni gonfi come uova
sode.
Da quanto non scopo?
Erano passate almeno due settimane. Ma quando
aveva malditesta la fica era l'ultimo degli argomenti
che lo interessavano.
Questa sera faccio una spedizione punitiva, si disse tirandosi
su dal materasso e andando al cesso nudo e
con il coso dritto come il bompresso di un veliero.
Rino Zena nella vita aveva qualsiasi tipo di difficoltà,
tranne trovare da scopare e gente con cui litigare.
Poi, ultimamente, aveva individuato un paio di locali
dove si riunivano skinhead, punk e tutti gli sballati
della zona. Una manica di figli di papà che facevano
i duri girando su Harley-Davidson da 30.000 euro.
Rino li disprezzava, ma le loro donne gli venivano addosso
peggio delle mosche su uno stronzo di cane.
Tutte seguivano lo stesso iter: la maggior parte erano
delle anoressiche rapate che si tatuavano svastiche
e croci celtiche sulle chiappe e che per un po'
facevano le bambine cattive scopando a destra e a
manca. Si sfondavano di merda tagliata e poi venivano
spedite in qualche clinica americana a ripigliarsi,
si facevano cancellare i tatuaggi con il laser, si sposavano
con un proprietario di azienda e giravano in
minigonna e giacchetta a bordo di una Mercedes.
Ma Rino approfittava della fase di transizione e
della loro disinvolta voglia di cazzo e di esperienze
forti. Le marchiava e poi le cacciava a calci la mattina
dopo con la fica infuocata e qualche livido in più. E la
maggior parte di quelle zoccole tornavano alla carica
non contente.
Vacche!
Si buttò sotto la doccia gelata, si rasò il cranio e poi
s'infilò una canottiera striminzita, i pantaloni e gli
anfibi.
Scese in una stanza di una trentina di metri quadri
che dava sulla porta d'ingresso e su un corridoio da
cui si accedeva alla cucina, a un bagnetto e a un ripostiglio.
Sul pavimento era posato del linoleum rossiccio
che si sollevava contro le pareti di mattoni rossi e cemento.
Da una parte c'erano un tavolo su cui era stesa
una tovaglia di plastica a quadri bianchi e verdi e due
panche. Dall'altra la zona tv. Due cassette di plastica
blu con sopra un vecchio televisore a colori Saba. Per
cambiare canale senza alzarsi gli Zena usavano una
mazza di scopa che veniva sbattuta contro i grossi
pulsanti dei canali. Di fronte alla tv un divano letto
con la fodera lercia e tre sedie a sdraio bianche con i
fili di plastica. C'era anche una panca di ferro arancione
con un bilanciere caricato di piastre. Per finire, in
un angolo, accanto a uno scatolone pieno di giornali e
a una catasta di legna, una stufa di ghisa. Un ventilatore
sopra un'asta veniva usato d'inverno per irraggiare
il calore della stufa e d'estate per smuovere l'aria
afosa.
Tra poco sarebbero arrivati Danilo e Quattro Formaggi.
Posso farmi un po' di bicipiti, si disse Rino. Ma ci rinunciò.
Aveva lo stomaco che brontolava e ancora il
cazzo in tiro.
Accese la tv e cominciò a farsi una sega guardando
una troia bionda con al collo un ciondolo grosso come
un medaglione di tacchino che assisteva un ciccione
mentre preparava filetti di triglia selvatica in
guazzetto di lamponi, castagne e salvia.
Con l'uccello in mano, Rino fece un gesto di disgusto.
Quella merda che stavano cucinando glielo aveva
fatto ammosciare.
15.
Danilo Aprea guardò il vecchio Casio digitale che
aveva al polso.
Le otto e un quarto, e Quattro Formaggi non si vedeva.
Tirò fuori il borsellino in cui teneva le monete. Gli
restavano tre euro e... Avvicinò gli spiccioli agli occhi.
Venti... Quaranta centesimi.
Erano passati quattro anni da quando avevano cambiato
la moneta e non ci capiva ancora niente. Ma cosa
avevano le lire che non andava?
Si alzò e ordinò un'altra grappa.
Questa è l'ultima, però...
In quel momento entrò nel bar una mamma con
una bambinetta infagottata in un piumino bianco che
le stringeva la mano.
"Quanti anni ha?" si trattenne dal domandare alla
donna.
"Tre anni" gli avrebbe risposto. Ci poteva scommettere
che aveva tre anni, quattro al massimo.
Come...
(Smettila) lo rimproverò la voce di Teresa.
Sarebbe bello se oggi pomeriggio Teresa mi facesse una
sorpresa.
Teresa Carucci, una donna sciapa come una minestrina
di dado vegetale (così gli aveva detto una volta
Rino) e che Danilo Aprea aveva chiesto in sposa una
sera del 1996, lo aveva lasciato da quattro anni e si
era messa con un rivenditore di pneumatici da cui
era andata a lavorare come segretaria.
Nonostante ciò Teresa continuava a vedere Danilo.
Di nascosto dal gommista gli portava teglie di lasagne
al forno, spezzatino, coniglio alla cacciatora da
mettere nel congelatore. Arrivava sempre trafelata,
gli spazzava casa, gli stirava le camicie e lui cominciava
a implorarla di restare e di riprovarci. Lei lo liquidava
dicendo che non si può campare con un alcolizzato.
E, nei primi tempi, qualche volta si era
intenerita, e allora si era alzata la gonna e lo aveva
fatto scopare.
Danilo osservò la bambina che si mangiava soddisfatta
una brioche più grande di lei. La bocca sporca
di zucchero a velo.
Prese dal bancone il bicchiere e tornò a sedere al
suo tavolino.
Buttò giù la grappa in un sorso. L'alcol gli riscaldò
l'esofago e la testa si fece più leggera.
Meglio. Molto meglio.
Fino a cinque anni prima Danilo Aprea poteva bere
al massimo un dito di moscato. «Io e l'alcol non
andiamo d'accordo» diceva a chi gli offriva da bere.
Questo fino al 9 luglio del 2001, quando l'alcol e
Danilo Aprea decisero che era giunto il momento di
fare la pace e diventare amici.
Il 9 luglio del 2001 Danilo Aprea era un'altra persona
con un'altra vita. A quel tempo lavorava come
guardiano notturno di una ditta di trasporti, aveva
una moglie che amava e Laura, una figlia di tre anni.
Il 9 luglio del 2001 Laura Aprea era morta con un
tappo di shampoo infilato nella trachea.
Un anno dopo Teresa lo aveva lasciato.
16.
Cristiano arrivò alla fermata di corsa, ma l'autobus era
appena passato. Così come la prima ora di lezione.
Se solo avesse avuto un anno in più... Con una moto
da cross in dieci minuti al massimo era a scuola. E
poi ci sarebbe andato nei campi e sulle strade sterrate.
Appena finita la scuola, il prossimo anno, avrebbe
cominciato a lavorare e in sei mesi avrebbe avuto i
soldi.
Il prossimo autobus passava dopo mezzora.
E ora che faccio? si chiese dando un calcio a una
montagnetta di neve che si scioglieva sull'asfalto come
Citrosodina.
Se trovava qualcuno che gli dava un passaggio forse
poteva ancora farcela a intrufolarsi in classe senza
farsi notare.
Ma chi si ferma?
In quel punto della statale correvano tutti come
matti.
S'incamminò con il suo passo dondolante, il cappuccio
calcato sulla testa, le cuffie nelle orecchie e le
mani nelle tasche della giacca. L'aria era satura d'acqua
e le gocce erano così piccole che quasi non ti rendevi
conto che stava piovendo.
Mentre i Metallica gli urlavano nei timpani, si
guardò intorno e si accese una sigaretta.
Non che fumare gli piacesse troppo, però quando
gli girava la testa era una bella sensazione. Ma se suo
padre lo beccava con una sigaretta in bocca lo ammazzava.
«Ne basta uno che si uccide con la nicotina» gli diceva
sempre.
Di fronte gli si parava una striscia di asfalto dritta
come un righello, che si stemperava in un impasto
color piombo. A destra i campi di terra zuppa e a sinistra
la fila dei capannoni industriali. Quando passò
davanti al mobilificio Castardin con i suoi festoni rossi
che annunciavano sconti eccezionali si fermò. Il
cancello era chiuso e il cane era lì, steso a terra, avvolto
nella catena. La testa incorniciata da una pozza
scura. Le fauci spalancate. Gli occhi rivoltati. Le gengive
coperte di bava. Rigido come un surgelato. Una
zampa davanti dritta e dura come un bastone.
Cristiano prese una boccata di fumo osservando il
cadavere.
Non gli faceva pena.
Era schiattato come un coglione. E per cosa, poi?
Per difendere dei figli di puttana che lo tenevano
giorno e notte alla catena e lo prendevano a bastonate
per renderlo ancora più incazzato di quanto già
non fosse per conto suo.
Gettò a terra il mozzicone e riprese a camminare
mentre accanto gli scorrevano macchine e camion
sollevando schizzi di acqua sporca.
E gli tornò in mente la piccola Peppina, una bastardella
lunga lunga e con le zampe alte come barattoli.
L'aveva presa sua madre al canile prima di andarsene
via. Quante volte Cristiano si era detto che uno
può anche abbandonare suo figlio, il marito, ma non
il proprio cane. Bisogna essere delle merde integrali
per fare una cosa del genere.
Rino non voleva Peppina in casa perché diceva che
era una bestia scema e appena gli giravano minacciava
di ammazzarla. In realtà, secondo Cristiano, non
la voleva perché gli ricordava la mamma e infatti alla
fine non la dava mai via.
A Cristiano invece piaceva Peppina. Faceva sempre
un mucchio di feste e se la prendevi in braccio ti
mordicchiava i lobi delle orecchie. Viveva per le palle
da tennis. Si svegliava pensando alla palla e se ne andava
a dormire pensando alla palla.
Gliela tiravi e lei te la riportava e quando non ce la
facevi più ti si metteva accanto con la palla tra le sue
zampette nane e ti dava dei colpetti con il muso fino
a quando non gliela tiravi di nuovo.
Un giorno, doveva essere estate perché faceva molto
caldo, Cristiano era tornato da scuola e lo scuolabus
(che alle elementari arrivava fino a casa sua) ce lo
aveva lasciato proprio di fronte, dall'altra parte della
statale.
Aveva fatto una sorpresa a Peppina, se n'era andato
fino al circolo sportivo e dietro le recinzioni dei
campi da tennis, in un canale di scolo infestato di erbacce
e ortica, aveva fatto incetta di palle. Stava per
attraversare la strada quando dal retro della casa era
spuntata Peppina correndo come una pazza. Faceva
ridere quando correva perché assomigliava a un treno
peloso. Chissà come diavolo aveva fatto a sentirlo
arrivare? Il cancelletto di legno di solito era chiuso,
ma quel giorno era solo accostato.
Cristiano aveva capito che quella scema voleva attraversare
la strada per raggiungerlo.
Aveva guardato a destra e a sinistra e c'erano solo
camion. In una frazione di secondo aveva intuito che
se le avesse urlato di rimanere ferma la cagnetta lo
avrebbe scambiato per un richiamo e si sarebbe gettata
sulla strada.
Non sapeva che fare. Voleva attraversare e fermarla,
ma c'era troppo traffico.
Peppina aveva infilato il muso tra il cancelletto e lo
stipite e stava cercando di aprirlo.
Doveva fermarla. Ma come?
Ecco, doveva lanciarle una palla. Lontano. Verso il
retro della casa. Ma non troppo in alto, se no la cagna
non l'avrebbe vista e sarebbe stato tutto inutile.
Aveva preso dalla tasca dei pantaloni una palla da
tennis, gliel'aveva mostrata, aveva preso la mira e l'aveva
lanciata, e mentre la lasciava andare aveva avuto
la certezza di aver sbagliato il lancio. Per un attimo
aveva stretto l'aria come a tirarla indietro, ma la palla
era volata dritta e tesa e troppo bassa e aveva colpito
il muso di un tir che arrivava nell'altro senso. La sfera
gialla era schizzata in alto ed era ricaduta al centro
della strada cominciando a rimbalzare impazzita.
Peppina, che era riuscita a sgusciare fuori, aveva visto
davanti a sé la palla ed era corsa a prenderla. Aveva
evitato per miracolo un primo camion, ma il secondo
no, le era passato sopra con le ruote sue e
quelle del rimorchio.
Il tutto era durato pochi secondi e di Peppina era
rimasto solo un mucchio di carne e pelo spalmato
sull'asfalto.
Cristiano, paralizzato dall'altra parte della strada,
avrebbe voluto fare qualcosa, raccattarla da terra, ma
davanti gli scorreva un fiume di lamiera.
Per il resto della giornata era rimasto affacciato alla
finestra a piangere e a guardare il cadavere di Peppina
trasformarsi in un tappetino. Lui e suo padre avevano
dovuto aspettare fino a sera, quando il traffico
era rallentato, per tirarne via i resti dalla strada. Non
era rimasto quasi più niente, solo una stola di pelo
marroncino che suo padre aveva buttato nel cassonetto
dell'immondizia dicendo a Cristiano che doveva
piantarla di frignare perché un cane che vive per
una palla non merita di esistere.
Quindi, si disse Cristiano, la bestia di Castardin
era il secondo cane che ammazzava in vita sua.
17.
Dopo aver chiuso le tre serrature del suo appartamento,
Quattro Formaggi salì le scalette che portavano sul
corso Vittorio. Faceva freddo e l'alito gli si condensava
nell'aria in sbuffi bianchi. Una coperta grigia e compatta
di nuvole nascondeva il cielo, e piovigginava.
Quattro Formaggi salutò con la mano Franco, un
commesso del Mondadori Mediastore che occupava
tutta la palazzina.
L'edificio era in posizione centrale tra i negozi di
abbigliamento e scarpe, a un passo da piazza Bologna
e dalla chiesa di San Biagio.
Il proprietario precedente, il vecchio notaio
Bocchiola, era morto e aveva lasciato l'edificio in eredità
ai figli, escludendo un seminterrato dietro gli ascensori
che aveva lasciato a Corrado Rumitz, in arte
Quattro Formaggi, custode fidato e tuttofare del notaio
per oltre dieci anni.
Gli eredi, inferociti, avevano tentato in ogni modo
di buttare fuori il barbone: offrendogli soldi, altre sistemazioni,
mettendo in mezzo avvocati, psichiatri,
ma non c'era stato niente da fare. Quattro Formaggi
non mollava.
Alla fine erano riusciti a vendere sottocosto il resto
della palazzina alla Mondadori, che aveva diviso i tre
piani nella canonica trinità: musica, libri e video. E
anche i dirigenti dell'azienda avevano, più volte, tentato
di comprarsi lo scantinato per farne un deposito.
Ma era andata male pure a loro.
Quattro Formaggi si infilò il casco integrale color pisello,
slegò la catena al suo vecchio Boxer verde e con
un colpo al pedale mise in moto al primo tentativo.
Il motore esplose e il tubo di scappamento sputò
una fumata bianca che si allungò come un serpente
per la strada e si disperse sotto la tenda a strisce rosse
e nere della caffetteria Rouge et Noir.
La signora Citran e il colonnello Ettore Manzini,
seduti a un tavolino, cominciarono a tossire avvelenati
dal fumo fetido della miscela al tre per cento.
L'anziana donna sputò un pezzo di fagottino al cioccolato
bianco che fu subito spazzolato via da Ottavio,
il bassotto a pelo ruvido del colonnello.
«Giuliana, ti prego, non respirare! Non respirare!
Hai appena avuto la broncopolmonite!» faceva il colonnello
premendosi il tovagliolo sulla bocca.
«Oddio, mi è entrato tutto in gola! Aiuto!» ragliava
la signora Citran cacciando fuori la lingua.
I due ci misero un po' a riprendersi e in quel tempo
Quattro Formaggi si allontanò in sella al motorino
nonostante il divieto assoluto di transito per le vie
del centro, giorno e notte, a qualsiasi mezzo munito
di ruote, pattini, cuscini d'aria e cingoli.
La vecchia e il colonnello per un po' non parlarono,
troppo indignati per riuscire a esprimersi.
Dopo un sorso di cappuccino finalmente la signora
Citran riuscì ad articolare: «È uno scandalo. Hai visto
cos'ha fatto?».
Il colonnello scosse la testa. «Lascia perdere, Giuliana.
Ho saputo che quel disgraziato si porta l'immondizia
in casa.»
«Che schifo, Ettore! Sto mangiando...»
Manzini addentò un krapfen e poi disse: «Scusami
cara, ma queste cose mi fanno perdere la ragione.
Dicono tanto che il centro di Varrano va rivalutato.
Gente così va aiutata, rinchiusa in qualche istituto...».
Giuliana Citran si pulì la bocca dalle briciole e domandò:
«Ma tu lo sai chi è quello?».
Il colonnello prese a dondolare la testa: «Eh, certo».
In paese girava la voce che Corrado Rumitz fosse il
figlio illegittimo della buonanima di Bocchiola, che lo
aveva abbandonato ancora in fasce all'orfanotrofio e
poi, dopo vent'anni, si era fatto venire i rimorsi e lo
aveva preso a lavorare da lui e gli aveva lasciato quella
casa che valeva una fortuna.
18.
Mentre Cristiano Zena camminava sulla statale oramai
rassegnato a farsela a piedi, la pernacchia acuta
di una marmitta cominciò a crescere alle sue spalle.
Cristiano girò la testa e il cuore gli fece un salto nel
petto.
Uno Scarabeo 50 beige con un grosso smile giallo
appiccicato davanti avanzava verso di lui.
Era il motorino di Fabiana Ponticelli.
E ora?
Si guardò in giro, nel panico, cercando un posto in
cui nascondersi. Ma dove? Intorno aveva il deserto.
Gli scocciava da morire che Fabiana Ponticelli lo
vedesse camminare sul bordo della statale sotto la
pioggia, come l'ultimo degli sfigati, a tre chilometri
da scuola.
Allora, d'impulso, si voltò verso i campi, sperando
di non essere riconosciuto. Con la coda dell'occhio la
vide sfilare via. Dietro Fabiana Ponticelli era seduta
Esmeralda Guerra. Tutte e due con la giaccavento fosforescente.
Una rosa e una color pistacchio. Tutte e
due con la minigonna. Tutte e due con le calze nere
con i ricami ai lati e gli stivali texani. Tutte e due con il
casco con una coda di peluche appesa dietro.
Avevano la stessa età di Cristiano (anzi, Fabiana
aveva un anno in più, era stata bocciata e per questo
poteva guidare il motorino), andavano alla stessa
scuola, ma stavano in sezioni diverse. Le ragazze nella
H, lui nella B.
Cristiano le conosceva appena.
Non mi hanno visto.
Si sbagliava. Fatti una cinquantina di metri il motorino
rallentò e si accostò al lato della strada.
Tranquillo, si saranno fermate perché gli è squillato il
cellulare.
Le lunghe gambe delle due ragazze spuntavano ai
lati del motorino come le zampe nere di una tarantola.
Fumo bianco usciva dallo scappamento.
Gli passò accanto ignorandole, in apnea, ma alla fine,
mentre le superava, non poté fare a meno di guardarle.
Fabiana tirò su la visiera del casco. «Ehi, tu! Fermati!
Dove vai sotto la pioggia?»
Cristiano fece uno sforzo incredibile per trovare
nei polmoni l'aria sufficiente ad articolare una risposta.
«A scuola...»
Le poche volte che gli era capitato di parlare con
quelle due avveniva un fenomeno che lo lasciava
sempre infelice e frustrato.
S'intimidiva al punto di non riuscire a biascicare
una frase sensata e la sua temperatura corporea cresceva
e le orecchie gli diventavano bollenti.
Se solo fosse stato un po' meno imbranato avrebbe
potuto anche farle ridere, diventare loro amico, piacergli
insomma. Ma questo era impossibile perché
c'era un problema.
Erano troppo belle.
Lo stendevano. Quando si trovava di fronte a quelle
due il cervello gli andava in tilt. Diventava completamente
cretino e poteva rispondere appena, fare
dei sì e dei no con la testa.
Avevano un modo di fare che ti sentivi un verme.
Erano consapevoli di piacere a tutta la scuola e si divertivano
a farti impazzire. Incominciavano a giocare
con te, e poi quando si stancavano, e si stancavano
assai presto, non esistevi più e valevi meno di uno
sputo. Ed erano strane. Se ne stavano per conto loro.
Si sfioravano. Si baciavano. A scuola si diceva che
erano mezze lesbiche. Era come se non fossero di
questo mondo e ci fossero scese solo un attimo per
farti capire che non le avresti mai potute avere.
La strategia che Cristiano Zena aveva adottato con
il genere femminile era non cagarlo. Farci il duro,
quello con i cazzi suoi, il tipo misterioso insomma.
Ma aveva la sensazione che la tattica non funzionasse
moltissimo.
«Hai perso l'autobus?» gli chiese Fabiana.
Cristiano si accese una sigaretta e fece sì con la
testa.
«Ah! Fumi pure?!»
Lui alzò le spalle.
«A scuola ci arrivi che è finita...» Fabiana lo squadrò
e poi gli fece un sorrisino. «A te non frega niente
di niente, vero? Sei uno che odia il mondo?»
«Esatto.»
«Vuoi un passaggio?»
A quel punto Esmeralda, che si agitava come se
avesse l'orticaria, sollevò la visiera e sbuffò: «Che
palle che sei, Fabiana! In tre ci fermano. Lascialo perdere,
dai. Che ti frega? Siamo in ritardo».
Cristiano intanto coglieva solo sprazzi della discussione.
Si stava domandando chi delle due gli piacesse di
più. Esmeralda aveva la pelle scura, con gli occhi neri
come gocce di petrolio. Con i capelli lisci e corvini e le
labbra sottili color prugna. Fabiana tutto il contrario.
Biondissima, con gli occhi verdi come l'acqua stagna,
labbra grandi ed esangui. Ma per il resto si assomigliavano
moltissimo. Erano magre, alte, con il nasino
all'insù, il collo lungo, i capelli lisci fino a metà schiena
e poche tette. Si vestivano uguali. E tutte e due
avevano un anello d'argento con un teschio bellissimo,
e gli stessi piercing sul sopracciglio, sulla lingua e
sull'ombelico. Minardi diceva di sapere per certo che
ce l'avevano anche sulla fica e che quando stavano da
sole si attaccavano una catenella agli anelli e giravano
così per casa.
«Dai, Esme, chi vuoi che ci ferma con questo tempo?»
disse Fabiana all'amica. «Mettiamolo in mezzo.
Ci stringiamo.»
«Vado a piedi» gli uscì senza che se ne rendesse
conto.
A questo punto fu la volta di Esmeralda. Lo osservò
e poi disse con un'occhiata maliziosa: «Ma come?
Non ti piace stare tra noi due?».
A scuola giravano storie sul fatto che la Guerra e la
Ponticelli si scopavano insieme quelli del liceo. Soprattutto
uno, un certo Marco Mattotti, detto Tekken,
un Cristo con la coda di cavallo che era campione regionale
di boxe thailandese. Quando Tekken veniva
davanti a scuola con la sua moto, loro gli si strusciavano
addosso come gatte in calore e lo baciavano sulla
bocca.
Ma quella scena aveva qualcosa di finto, uno spettacolino
messo su apposta per far intossicare d'invidia
i compagni di classe e far rosicare e sparlare le
compagne.
Non si potevano nemmeno calcolare le seghe che
Cristiano si era sparato pensando di scoparle insieme.
E l'immagine era sempre la stessa. Mentre se ne
trombava una, l'altra lo baciava. E poi si davano il
cambio.
Cercò di spazzare via quell'immagine dalla testa.
Cosa doveva fare?
«Vabè. Vengo» disse con un sospiro annoiato.
Esmeralda trionfante cominciò ad applaudire. «Vinto!
Vinto la scommessa! Visto? Dopo mi molli i compiti.»
«Sai che scommessa. Che ci voleva?» Fabiana si abbassò
la visiera.
«Cosa?» non poté fare a meno di chiedere Cristiano.
Esmeralda trionfante: «Io ho detto che sei finto.
Che non sei un duro e che saresti venuto in motorino
con noi. Era una scommessa».
«Brava. Hai vinto» fece Cristiano, abbassò la testa
e s'incamminò pugnalato al petto.
19.
Dopo aver recuperato Danilo al bar Boomerang, Quattro
Formaggi si diresse verso casa di Rino Zena.
Il vecchio Boxer scompariva sotto i due. I chiapponi
di Danilo sporgevano per metà dal sellino.
Danilo odiava andare in motorino con Quattro
Formaggi, che guidava come un pazzo e passava con
il rosso e in più non si lavava.
«Oggi montiamo il rostro al trattore e poi così dovremmo
aver finito, giusto?» urlò Danilo in un orecchio
a Quattro Formaggi.
«Giusto.»
Il giorno che Danilo aveva letto l'articolo sul furto
del Bancomat era corso, tutto eccitato, a casa di Rino.
Lo aveva trovato insieme a Quattro Formaggi,
mentre bevevano grappa e arrostivano le caldarroste
poggiandole sopra le resistenze di una stufa elettrica.
Dopo avergli letto l'articolo, Danilo aveva spiegato:
«Ma vi rendete conto che genialata? Niente pistole.
Niente casseforti da aprire. Niente piani complicati.
Pulito. Da signori. Ti porti via il Bancomat, lo
nascondi da qualche parte e poi con calma lo apri e
tombola! Un mucchio di soldi puliti e pronti per essere
usati».
Né Rino né Quattro Formaggi erano rimasti particolarmente
colpiti, lo osservavano con gli occhi da
trota lessa e facevano sì con la testa.
Nei giorni successivi Danilo aveva continuato a
menargliela con il colpo e con gli effetti benefici che
avrebbe avuto sul loro tenore di vita. E alla fine anche
gli altri due, non avendo un accidenti da fare tutto
il giorno, avevano cominciato a dargli retta e a organizzare
una cosa che assomigliava a un piano.
Intanto dovevano rimediare un veicolo robusto
per sfondare il muro della banca. Il Ducato di Rino,
l'unico mezzo a loro disposizione, si sarebbe accartocciato
come una lattina di birra.
Danilo aveva suggerito, dopo un'attenta ricerca su
"Quattroruote", di comprare un Pajero Sport 3.0. Un
bestione con sotto al cofano centosettanta cavalli.
«E sta mandria scatenata quanto costerebbe?» gli
aveva domandato Rino.
«Be', nuovo, senza optional - e a noi non ce ne frega
niente degli optional - circa trentaseimila euro.»
Dalle risate Rino per poco non si era strozzato. «Sì.
E secondo te io sfondo settanta milioni contro un
muro? E poi, tanto per sapere, chi ce li dà i soldi per
comprarlo, tu?»
Danilo aveva detto che il padrino di suo cugino faceva
il rivenditore e che gli avrebbe fatto uno sconto
fantastico su un Pajero del '98 in perfetto stato. Bastava
mettere l'ipoteca sulla casa di Rino. «Sai, sulla mia
non si può, è intestata a Teresa.»
Rino era scattato in piedi e lo aveva appiccicato a
una parete ringhiando: «Ma ti sei bevuto il cervello?
Io faccio i debiti con la banca per te e per il tuo negozio
di mutande, eh?».
Danilo, paonazzo, aveva gorgogliato: «Allora
rubiamolo».
Ecco, di questo si poteva discutere.
C'era il Grand Cherokee di Giorgino Longo, il figlio
del proprietario del Bottegone dello Sport, che
aspettava solo di essere rubato. Un fuoristrada grosso
come un camioncino e con delle ruote alte un metro
con cui il giovanotto si faceva bello davanti al bar.
A Rino la cosa sembrava fattibile, ma il problema,
quando toccava avventurarsi nei territori della criminalità,
era sempre lo stesso.
Cristiano.
Rino doveva filare dritto come un fuso. Già era sotto
il controllo dell'assistente sociale, se poi la polizia
lo beccava a fare una qualsiasi stronzata per prima
cosa il giudice gli toglieva la custodia del figlio. «Io al
massimo posso fare il palo.»
«E io non guido» aveva aggiunto Danilo.
I due avevano guardato Quattro Formaggi senza
riuscire a nascondere un sorrisetto sadico.
Come sempre toccava a lui fare tutto. Che strano,
era lo scemo del paese, l'imbecille, ma solo lui sapeva
tagliare i cavetti dell'accensione e rubarsi una macchina
senza problemi.
«Non voglio... Non mi va...» era riuscito a balbettare.
Aveva un mucchio di cose da chiarire con quei
due. Un rapporto di amicizia vale solo se c'è parità.
Lui si sarebbe gettato nel fuoco per loro, ma loro non
erano disposti a fare altrettanto. E si approfittavano
perché era buono e non sapeva dire di no. Ma tutti
questi bei concetti che Quattro Formaggi aveva ben
chiari e distinti nella mente, quando arrivava il momento
di esprimerli gli s'intrecciavano in bocca come
un nido di serpenti. E quindi aveva concluso paonazzo,
storcendo la bocca e prendendosi a pugni la gamba:
«Non voglio».
Ma per convincere Quattro Formaggi a fare le cose
più assurde bastava un piccolo stratagemma. Tenergli
il muso e trattarlo con freddezza.
Nemmeno tre giorni dopo, pur di ritornare nelle
grazie dei suoi amici, Quattro Formaggi aveva accettato
di rubare il fuoristrada.
Una notte senza luna, durante una partita di Champions
League, Danilo e Rino lo avevano mollato poco
lontano dalla villa del proprietario del Bottegone dello
Sport e gli avevano dato appuntamento in un terreno
abbandonato vicino al fiume.
E, incredibile, dopo nemmeno un'ora due potenti
fari gialli avevano illuminato il campo coperto di erbacce
e Quattro Formaggi era sceso dal fuoristrada
saltando come un pazzo, ballando e sputacchiando:
«Allora?! Allora? Sono bravo! È vero che sono bravo?
Ditelo!». Erano saliti tutti e tre sul Grand Cherokee a
festeggiare con un bottiglione di grappa.
Che sballo! Le poltrone di pelle nera che sembravano
quelle del dentista. Il bracciolo al centro dove
potevi poggiare il gomito mentre guidavi e infilare i
bicchieri. Il cruscotto in radica. Un sacco di spie e indicatori.
Lo sfioravano, intimiditi, come fosse un'astronave
aliena.
Smanettando avevano acceso lo stereo e Sting aveva
attaccato a cantare Englishman in New York. Con
quell'impianto, aveva fatto notare Rino, anche quella
mezza sega di Sting non era tanto uno schifo. E continuando
a spingere bottoni, uno schermo si era illuminato
mostrando un puntino che pulsava vicino a
una striscia rossa e una blu.
«E questo che minchia è?» aveva detto Rino.
«Lo vedi che sei proprio un ignorante? È il navigatore!
Quel puntino siamo noi e quello blu è il fiume e
quella là è la statale. Il computer ti dice pure la strada,
parla, "vai avanti, a destra, a sinistra, hai sbagliato"»
gli aveva spiegato Danilo con un tono da esperto.
Rino aveva scosso la testa. «Ma come cazzo ci siamo
ridotti il cervello se per andare da una parte all'altra
abbiamo bisogno di queste merdate elettroniche?»
Poi però aveva cominciato a sostenere che
prima di usare il Grand Cherokee per il colpo ci dovevano
assolutamente fare un giro per l'Italia. «Pensate
che figata... Portiamo Cristiano a Gardaland!»
«Ma non è un po' grande per Gardaland?» aveva
ribattuto Danilo.
«Cazzo, gliel'ho promesso quando aveva cinque
anni... C'è la nave dei pirati. E ci divertiamo.»
«Eh certo che ci divertiamo.» Quattro Formaggi
concordava.
«Basta cambiare la targa, con quella...» stava spiegando
Rino quando lo stereo, improvvisamente, si
era ammutolito e una voce con un accento brianzolo
lo aveva interrotto: «Buonasera! Può dirmi qual è il
piatto preferito di suo padre?».
I tre, a bocca aperta, si erano guardati.
«Mi dica il piatto preferito di suo padre, per favore.»
La voce usciva dagli altoparlanti.
Rino stupito aveva guardato gli altri: «Ma chi cazzo
sta parlando?».
E Danilo: «Tranquillo. Deve essere il computer di
bordo».
«Il computer? E perché vuole sapere il piatto preferito
di mio padre? Mio padre è morto.»
«E che cazzo ne so!»
La voce: «È la domanda segreta. La risposta mi serve
per sapere se lei è il proprietario della vettura o se il
proprietario gliel'ha prestata. A noi non ha comunicato
niente... Mi può dire il piatto preferito di suo padre?».
«Di quale padre?» Danilo appiccicò la bocca all'altoparlante.
«Del mio? A mio padre piaceva il coniglio
in umido.»
Rino era perplesso. «Ma un computer può capire
quello che diciamo?»
Danilo aveva sollevato le spalle: «La nuova tecnologia...».
Rino si schiarì la gola: «Che, mi sente?».
«Forte e chiaro. Il piatto preferito di suo padre, per
piacere?» aveva continuato imperterrita la voce.
Danilo aveva storto la testa e poi, continuando a
discutere con la plancia dei comandi: «Scusi, ma lei
chi è? È il computer di bordo?».
«Io sono un addetto della Sicurcar, l'antifurto satellitare
della vettura. Se non mi dà la risposta sarò costretto
a trasmettere la vostra posizione alla centrale
di polizia più vicina.»
I tre rimasero senza parole, poi Quattro Formaggi:
«Ma lei è umano?».
«È l'ultima volta che glielo chiedo. Il piatto preferito
di suo padre?»
Si erano guardati e poi avevano tutti e tre alzato le
spalle.
«Prova tu» aveva detto sottovoce Rino a Quattro
Formaggi.
«Ma io non ho padre. Sarà il tuo.»
Rino aveva sparato: «Risotto con i funghi».
«Come? Scandisca bene le parole.»
«Risotto con i funghi.»
«Risposta errata. Mi dispiace.»
«Aspetti... Aspetti... Il padre... è il proprietario del
Bottegone dello Sport?» aveva buttato là Rino.
La voce non aveva più risposto.
Quattro Formaggi si era catapultato giù dal fuoristrada.
«Ha detto che chiama la polizia. Scappiamo!»
E così i tre correndo nelle tenebre avevano abbandonato
il Grand Cherokee, erano montati sul Ducato
e si erano dati alla fuga.
Dopo un chilometro che avevano imboccato la statale,
una volante della polizia li aveva incrociati.
Qualche giorno dopo avevano trovato un vecchio
trattore arrugginito e avevano deciso di rimetterlo in
moto. Quello sicuramente non parlava.
20.
Quattro Formaggi e Danilo erano quasi arrivati da
Rino quando incrociarono uno Scarabeo beige con
sopra due ragazze.
Danilo non ci fece caso, ma Quattro Formaggi sentì
nel cuore un dolore fortissimo, come una spina, che
per un istante gli tolse il respiro.
Ramona.
La biondina che guidava era identica a Ramona, la
protagonista di Le grandi labbra di Ramona, una videocassetta
sporca che Quattro Formaggi aveva trovato
in un cassonetto dell'immondizia.
Ramona viveva in America e faceva l'autostop. Veniva
presa su da un sacco di uomini che se la scopavano
in macchina o nel deserto o negli autogrill e lei era
sempre gentile e lo faceva anche con tre o quattro alla
volta senza problema. Poi incontrava un motociclista
negro che se la scopava e la picchiava, ma Ramona
veniva salvata dallo sceriffo che la portava in prigione
e anche lì se la scopavano tutti i carcerati. Quando
usciva incontrava Bob, il boscaiolo, che aveva una famiglia
che abitava nel bosco, e là veniva accolta benissimo,
le davano da mangiare il tacchino e poi insieme
alla moglie e al figlio se la scopavano in cucina e poi
su una barchetta in mezzo al lago e vivevano tutti felici
e contenti. Almeno secondo Quattro Formaggi vivevano
felici e contenti, perché dopo l'orgia sulla barca
a remi il film finiva.
Quattro Formaggi aveva visto quel film talmente
tante volte che sapeva tutte le battute a memoria. E
c'era una parte che era la sua preferita. Quando Ramona
andava nel bosco con Bob il boscaiolo e sorrideva
e glielo prendeva in mano e cominciava a toccarglielo...
Quella biondina sullo scooter era così uguale a Ramona
che forse era proprio lei. Anche se Ramona era
americana e aveva molte più tette.
La vedeva girare per il paese con l'amica. E spesso
si ritrovava a seguirla. Lui era molto bravo a spiarla
senza farsi scoprire. La guardava e gli venivano i pensieri
sporchi.
Ma perché il suo cervello lo tormentava così?
A lui piaceva Liliana. La contabile dell'Euroedil.
Era una donna e non una ragazzina. Sola come lui.
Ed era gentile. Gli sorrideva, gli chiedeva come andavano
le cose. Doveva solo trovare il coraggio di invitarla
a cena fuori e poteva farcela...
Ma una voce cavernosa che gli abitava dentro gli
sussurrava che Liliana non era come Ramona.
(L'hai vista con quel ragazzo con la moto?)
Era sera, Quattro Formaggi era al giardino pubblico
e aveva trovato un pupazzo di King Kong senza
un braccio per il presepe quando aveva visto arrivare
la biondina con un ragazzo su una moto. Nascosto
dietro un albero li aveva visti sbaciucchiarsi e
poi lui lo aveva tirato fuori e lei glielo aveva preso in
mano.
Su e giù. Su e giù.
Quella scena gli si era piantata come la scheggia
di una granata nel cervello. Di notte si svegliava e
la rivedeva. La manina che stringeva quel coso duro.
E Quattro Formaggi, steso nel letto, non poteva
fare a meno di chiudere gli occhi, abbassarsi le mutande
e...
(Su e giù. Su e giù. Su e giù...)
... lui era Bob il boscaiolo e la biondina e Ramona
glielo stringevano.
21.
La scuola media statale Mahatma Gandhi era poggiata
in cima a una collinetta artificiale alta una trentina
di metri che dominava la pianura. Aveva la forma di
un parallelepipedo in cui si aprivano grandi vetrate,
che nei rari giorni di sole si riempivano di luce. Un bel
prato all'inglese ne ricopriva i pendii e una stradina
saliva in cima e portava a un parcheggio per gli handicappati
e le auto degli insegnanti. Dietro la scuola
c'era un impianto sportivo, con tanto di piscina olimpionica
e palestra.
L'istituto, costruito nei primi anni Ottanta fuori da
Murelle, era stato pensato come centro di raccolta per
tutti gli studenti delle decine di paesini intorno. Ospitava
una popolazione di settecentocinquanta ragazzi
divisi in otto sezioni.
Cristiano Zena era seduto in fondo all'aula. Dal
suo banco fissava il campo di pallavolo frustato dalla
pioggia e il prato costellato di foglie marce e dietro,
nella foschia, i bastioni di cemento del centro commerciale
I Quattro Camini.
Era riuscito a entrare a metà della prima ora. La
prima scusa che gli era passata per il cervello era che
a casa per il freddo si era rotto un tubo dell'acqua e
siccome suo padre era al lavoro aveva dovuto aspettare
l'idraulico. La professoressa d'Italiano aveva fatto
finta di crederci.
Da un po' di tempo Cristiano aveva notato che i
professori non gli rompevano più di tanto i coglioni.
E lui sapeva il perché.
Qualche mese prima a tutti quelli delle terze avevano
fatto compilare un questionario in cui si chiedeva
quale liceo o istituto avevano intenzione di frequentare
dopo l'esame. Cristiano aveva tracciato
una x grossa come una casa sull'ipotesi di sospendere
gli studi. E nelle tre righe di motivazione aveva
scritto:
Perché non mi va più di studiare che tanto non serve a
niente e voglio lavorare con mio padre.
Da quel giorno, come per magia, era improvvisamente
diventato invisibile come Sue, la donna dei
Fantastici Quattro. Ora i bastardi lo interrogavano raramente
e se non andava a scuola, amen. La x che lui
aveva segnato su quel foglio, loro gliela avevano segnata
in fronte.
Il resto della prima e tutta la seconda ora li passò
con il mento poggiato sul banco a ripensare a quelle
due troie della Ponticelli e della Guerra. Si era fatto
fregare un'altra volta. Le odiava.
Doveva fargliela pagare. Tipo fidanzandosi con
Laura Re, una della terza D che loro detestavano perché
era bella anche più di loro.
«Che fai? Non lo fai, il tema?» un sussurro lo fece
ripiombare in classe.
Era il suo compagno di banco. Colizzi. Un poveraccio
che gli aveva messo accanto la professoressa di
Matematica, perché Cristiano faceva casino con
Minardi.
Colizzi sembrava un vecchio. Si muoveva come un
vecchio. Teneva tutto preciso sul banco. E scriveva
con la penna stilografica senza sbavare mai. La cosa
che gli piaceva di più nella vita erano le cartucce di
turchino chiaro che usava per la sua Mont Blanc. A
una nullità come quella non valeva neanche la pena
di menarlo, perché appena lo sfioravi si buttava a terra
e faceva come certi scarafaggi che quando li tocchi
fanno finta di essere morti.
«Cazzo vuoi, Colizzi?»
Il resto della classe era piegato sul foglio a fare il
compito in classe di storia. La professoressa leggeva
"Gente" seduta in cattedra. Non volava una
mosca.
«Guarda che manca...» Colizzi guardò il suo gigantesco
orologio con la calcolatrice «... solo un'ora e sei
minuti. Non hai scritto niente.»
«Scusa, ma a te che cazzo te ne frega?»
Colizzi si ritirò sulla sedia come un granchio nella
fessura di uno scoglio. «No... Niente... Era solo...»
«Ecco. Non perdere tempo. Scrivi, che è tardi. Anzi,
visto che sei un genio il tuo lo avrai già finito: se lo
scrivi anche per me ti regalo un videogioco.»
Gli occhi del granchio furono attraversati da un
lampo di vita e poi Colizzi si spalmò sul tavolo e bisbigliò
arricciando il naso: «Tu non ce li hai, i videogiochi».
«Ma posso andare al centro commerciale e fregarli.
Basta che mi dici quale vuoi.»
Colizzi ci pensò un istante stropicciandosi nervoso
la bocca con una mano. «Ma poi me lo dai? Non fai il
bastardo come al solito?»
Cristiano si mise una mano sul cuore: «Fidati».
«Va bene. Ma poi tu devi ricopiarti il tema. Perché
ci becca.»
«Chiaro.»
Colizzi si lanciò a capofitto sul foglio. Cristiano
guardò per la prima volta il titolo scritto sulla lavagna.
L'AVVENTO DEL NAZISMO NELLA GERMANIA DEGLI
ANNI TRENTA. SPIEGANE LE CAUSE E GLI EFFETTI.
Sorrise. «Lascia perdere, Colizzi. Me lo faccio da
solo. Non ti preoccupare. Questo lo so.»
Lui era un esperto di nazismo. Suo padre gliene
parlava tutti i giorni.
Prese la penna, fece un respiro e cominciò a scrivere.
22.
Rino Zena aveva cominciato a lavorare per la Euroedil
di Bogognano a metà degli anni Ottanta. Alla morte
del notaio Bocchiola era stato preso Quattro Formaggi,
e nel 2002 era arrivato anche Danilo Aprea,
che aveva perso il lavoro nella ditta di trasporti.
La Euroedil era un'impresa di costruzioni che aveva
prosperato durante gli anni Novanta grazie a
grossi appalti statali, poi dal 2003 le cose erano andate
sempre peggio e oramai ci lavoravano solo pochi
dipendenti. Solamente quando otteneva concessioni
più grandi il proprietario chiamava Rino e
compagni a lavorare come manovali. Questo accadeva
due, tre volte l'anno. E li impegnava per qualche
settimana.
Per il resto i tre si arrangiavano con quello che trovavano.
Facevano piccoli trasporti. Svuotavano cantine
e pozzi neri. Consegnavano piante per un vivaio.
Imbiancavano muri. Aggiustavano tetti. Roba così,
rimediata all'ultimo momento.
Erano sempre senza un soldo, e arrivavano a fatica
a fine mese. Ma se Danilo e Quattro Formaggi dovevano
pensare solo a se stessi, Rino doveva anche occuparsi
di mantenere Cristiano.
Secondo una recente indagine Varrano e i paesi intorno
erano una delle zone d'Italia con il più alto reddito
pro capite. Grazie a una generazione di piccoli e
medi imprenditori che aveva saputo sfruttare al meglio
le risorse e il capitale umano della regione, la disoccupazione
era praticamente inesistente.
Probabilmente i nostri eroi erano gli unici cittadini
di Varrano con un reddito che non toccava i seicento
euro mensili.
Ma quella mattina Rino era contento. Finalmente
c'era un po' di lavoro ben pagato. La Euroedil aveva
vinto un grosso appalto per la costruzione di una
nuova concessionaria bmw e cercava manovali.
Il Ducato superò il largo cancello della Euroedil ed
entrò in un piazzale di terra, che quel giorno era un
lago di fango, delimitato da un'alta recinzione. Da un
lato dello spiazzo erano parcheggiati i camion, gli
scavatori e le ruspe, dall'altro le macchine degli operai,
delle segretarie e la Porsche Cayenne di Max
Marchetta, il figlio del proprietario, che nell'ultimo
anno aveva preso il posto del padre alla guida dell'impresa.
Al centro dello spiazzo c'era una costruzione prefabbricata
dove stavano gli uffici e una sala riunioni.
Accanto una baracca di lamiera dove gli operai si
cambiavano.
Rino parcheggiò di fianco a una grossa ruspa gialla
e i tre scesero dal furgone. Aveva smesso di piovere,
ma in compenso si era levato un vento freddo e tagliente.
«Tra poco dobbiamo uscire con lo scavatore. Lo
puoi spostare?» fece a Rino un uomo di colore con un
casco da lavoro in testa.
«Spostalo tu!» Rino gli lanciò le chiavi e quello,
preso alla sprovvista, non riuscì ad afferrarle al volo
e fu costretto a tirarle fuori dal fango.
«È fantastico. Ora questi si mettono pure a comandare.»
Rino sorrise a Danilo incamminandosi verso
gli uffici. «Io vado da Marchetta. Voi che cosa fate?»
Quattro Formaggi e Danilo si fermarono. «Ti aspettiamo
qui...»
Rino si pulì gli anfibi sul tappetino, aprì la porta a
vetri degli uffici ed entrò in una piccola stanza quadrata.
A terra del finto parquet. Su una parete accanto
a una porta chiusa era appesa una bacheca, in un
angolo due logore poltrone con un tavolino pieno
di riviste di edilizia, di fronte una scrivania coperta
da un numero impressionante di piccoli Pinocchi di
legno.
Dietro un monitor stava seduta Rita Pirro. La segretaria
era lì da sempre, almeno nei ricordi di Rino.
Quando era giovane non era brutta, ma la vecchiaia
le aveva portato via quel poco di bellezza.
Aveva un'età indefinibile. Cinquanta come sessantanni.
Stare in quel buco senza finestre a soffrire
il freddo d'inverno e d'estate il caldo l'aveva seccata
come un'aringa affumicata. Era magra e alta, con uno
strato compatto di fondotinta in faccia e un paio di
occhiali con la montatura rossa da cui pendeva un filo
di perline. Dietro le spalle, appiccicate al muro, le
foto sbiadite di tre bambini che giocavano su una
spiaggia piena di ombrelloni. I figli, che a quest'ora
dovevano essersi sposati.
Secondo Rino per un periodo Rita Pirro era stata
l'amante del vecchio Angelo Marchetta. «Un pompino
ogni tanto. Roba così. Rapida. Nell'ufficio, durante
l'orario dei pasti per non perder tempo.»
«Ciao, Zena» disse la donna sollevando lo sguardo
dal monitor e osservandolo per poi riprendere a battere
rapida sulla tastiera.
Per un istante l'immagine della Pirro che lo ciucciava
a quel vecchio panzone di Angelo Marchetta attraversò
la mente di Rino e gli venne da sorridere.
«Ciao, bellezza. Come va?»
La segretaria non girò nemmeno la testa. «Non ci
lamentiamo.»
Che donna strana, lo aveva sempre trattato come
se valesse meno di uno stronzo di cane. Come se lei
fosse la duchessa di York finita in quel cesso per un
errore della sorte. Ma si era mai data un'occhiata?
Non si era chiesta che cazzo le rimaneva nella vita se
non una collezione di Pinocchi, dei figli che non se la
filavano, un marito morto in fabbrica e quel buco
senza finestre?
Rino si avvicinò alla scrivania. «C'è Marchetta?»
«Hai un appuntamento?» chiese la segretaria continuando
a tenere lo sguardo sullo schermo.
«Un appuntamento? Da quando in qua ci vuole un
appuntamento per parlare con Marchetta?»
«Nuove direttive.» Rita Pirro fece un movimento
con la testa indicando la porta di Marchetta. «Se vuoi
te ne fisso uno.»
Rino posò le mani sulla scrivania e scherzò: «Siamo
dal dentista? Mi fa pure la pulizia dei denti?».
La segretaria stirò la bocca in una sorta di sorriso.
«Divertente. Venerdì prossimo ti va bene?»
Rino rimase interdetto. «Venerdì? È tra una settimana.»
«Esatto.»
«Tra una settimana avranno già organizzato la
squadra per la concessionaria bmw.»
«È già chiusa.»
«Come, è già chiusa? Avete vinto il bando l'altroieri.»
Lei sollevò finalmente lo sguardo e fissò Rino. «Tu
credi che qui ci si diverte? La squadra è stata fatta il
giorno stesso. I lavori cominciano lunedì.»
«E perché non mi avete chiamato? Non avete chiamato
nemmeno Danilo e Quattro Formaggi.»
«Lo sai che di queste cose non me ne occupo io.»
«Dov'è la lista della squadra?»
La segretaria riprese a scrivere. «Al solito posto.
Nella bacheca.»
Rino si avvicinò alla vetrina e lesse un foglio su cui
c'erano venti nomi. Tutti africani e dell'Est e solo un
paio di capomastri italiani.
Poggiò una mano contro il muro e chiuse gli occhi.
«Non potevi chiamarmi? Dirmelo? Ci conosciamo da
vent'anni...»
«E tu, hai mai fatto qualcosa per me?» E diede una
sistemata ai suoi Pinocchietti.
Sentì la rabbia propagarsi per tutto il corpo come
una tossina.
Stai calmo...
Ecco, sì, doveva rimanere calmo. Tranquillo. Sereno.
Ma come si fa a stare sereni quando ti mettono,
con la regolarità di una pendola, un cetriolo su per il
culo?
Per stare calmo doveva cacciare fuori un po' di merda.
Doveva spaccare qualcosa. Dare fuoco a quella baracca
del cazzo. Prendere uno di quei Pinocchietti e...
Intanto le vene bluastre degli avambracci gli si erano
gonfiate sotto la pelle come bucatini e i polpastrelli
avevano preso a formicolargli come se avesse l'orticaria.
Strinse i pugni conficcandosi le unghie nei
palmi e cominciò a inspirare ed espirare per buttare
fuori un po' di rabbia.
Ma sapeva che non sarebbe bastato.
Quando riaprì gli occhi si accorse che sotto la lista
c'era la firma di Massimiliano Marchetta.
Sorrise.
23.
Max Marchetta era seduto alla scrivania e parlava al
telefono, discutendo con il call center Vodafone.
Aveva un po' di difficoltà a esprimere il proprio disappunto
per via delle strisce sbiancanti di AZ Whitestrips che aveva applicato sui denti e che bisognava
tenere almeno venti minuti. «Io proprio non capizco...
Ho inserito il codize, ma mi è arrivasa un'altra sciuoneria. Orrenza...»
Era un ragazzotto sulla trentina, scuro, con due
piccoli occhi turchesi. Sotto il naso che aveva la forma
di una fragola si era fatto crescere un paio di baffetti
alla D'Artagnan, e una mosca sotto le labbra carnose.
I capelli neri erano tirati indietro con il gel e
riflettevano i neon del soffitto. Aveva le mani fresche
di manicure.
Ci teneva al suo stile, Max Marchetta.
"Un imprenditore deve essere sempre elegante,
perché eleganza è sinonimo di sicurezza e affidabilità."
Non si ricordava se questa frase l'aveva detta qualcuno
d'importante o era lo slogan di una pubblicità.
Non importava. Erano comunque parole sante.
Di solito indossava completi di flanella gessata con
tanto di gilè, fatti su misura. Quel giorno però, per
cambiare, aveva un doppiopetto blu e una camicia a
righe bianche e azzurre con un collettone a tre bottoni
chiuso da una cravatta scura dal nodo grosso come
un pugno.
La voce dell'operatore, con un forte accento sardo,
gli domandò che suoneria voleva scaricare.
«Toxic. Di Britney Zpeare. Quella che fa...», e malamente
farfugliò il ritornello.
L'operatore lo interruppe. «No, intendo: quale codice?»
Max Marchetta tirò su la rivista e controllò: «Quazzro
tre quazzro uno sei».
Ci fu un attimo di silenzio e poi: «Il 43416 corrisponde
all'Era del cinghiale bianco di Battiato Franco».
«Ma che schifo è? Mi zpieghi perché su questa rivista
c'è zcritto che Toxic è il quazzro tre quazzro uno
sei! Me lo zpieghi!»
«Non lo so... Forse quelli della rivista hanno fatto
un errore...»
«Ah, hanno fatto un errore e ora chi mi rida i miei
tre euro? La Vodafone?» Mentre parlava sparava
schizzetti di bava.
Il centralinista fu preso in contropiede. «Non credo
sia colpa della Vodafone se il giornale ha sbagliato a
stampare il codice.»
«È zacile gettare le colpe sempre sugli altri! In Italia
è lo zport nazionale, vero? A voi cosa vi importa
ze i vostri clienti perdono i loro zoldi? Lei poi ha un
tono molto arrogante.» Max prese la penna e la poggiò
sull'agenda. «Come zi...»
Avrebbe voluto appuntarsi il nome dell'operatore
e farlo cagare sotto ma si ritrovò in aria, superò in volo
la scrivania e si schiantò contro un muro coperto di
fotografie incorniciate. Un secondo dopo gli cadde in
testa il quadro del diploma di laurea in Economia e
Commercio.
Max pensò che fosse esploso il serbatoio del metano
e l'onda d'urto l'avesse sbalzato dalla poltrona,
ma poi vide due anfibi sporchi di vernice e nel medesimo
istante fu sollevato per il bavero della giacca
da due braccia ignoranti e piene di orrendi tatuaggi
che lo appiccicarono al muro come un poster.
Sputò fuori tutta l'aria che aveva in corpo e con il
diaframma contratto cercò di inspirare senza riuscirci,
emettendo un verso che assomigliava al gorgo di
un lavandino otturato.
«Sei a corto d'aria. Una sensazione orribile, vero? È
più o meno la sensazione che si prova quando arriva
la fine del mese e non sai dove sbattere la testa per
pagare le bollette.»
Max non riusciva a sentire la voce. Nelle orecchie
gli rombava un reattore e vedeva solo delle strisce luminose
incrociarsi davanti alle pupille. Come quando
era ragazzino e c'erano i fuochi d'artificio a Ferragosto.
Aveva la bocca spalancata e dai denti di sopra
gli pendeva la strisciolina sbiancante.
Se non respiro muoio. Questo era l'unico pensiero
che il suo cervello riusciva a elaborare.
«Calmo. Più ti agiti e meno respiri. Rilassati. Non
avere paura, non muori» gli consigliava ora la voce.
Finalmente la contrazione del diaframma si allentò,
la gabbia toracica di Max si schiuse e una corrente
d'aria gli scese per la trachea e dentro i polmoni.
Cominciò a ragliare come un asino in calore e lentamente
riprese a respirare. E mentre la faccia paonazza
tornava al suo colore naturale si accorse che a
circa venti centimetri dal suo naso c'era il volto sorridente
di uno skinhead.
Poi lo riconobbe. Il suo sfintere anale si contrasse al
diametro di uno zito.
Era Zena.
Rino Zena.
24.
Rino Zena osservava il viso stravolto dalla paura di
quella checca di Max Marchetta. I baffetti gli si erano
ammosciati e assomigliavano a due code di pantegana,
il ciuffo lucido e oleoso gli cadeva sulla fronte come
una tettoia.
Rino non riusciva a capire che cosa fosse quel pezzo
di cellophane che gli pendeva dai denti.
Continuava a tenerlo attaccato al muro con il braccio
sinistro.
«Ti prego... Ti prego... Non ti ho fatto niente...» piagnucolava
Marchetta disperato muovendo le braccia
come un ballerino di disco-music.
«Sono io che farò qualcosa a te.» Rino sollevò il
braccio destro e chiuse il pugno. Mirò al naso, assaporando
il piacere di sentire la cartilagine del setto frantumarsi
sotto le nocche. Ma il pugno rimase in aria.
Proprio accanto a quella faccia deformata dal terrore
era appesa una foto. Era stata scattata in aperta
campagna, in un giorno di vento. Le canne con i loro
pennacchi erano tutte piegate da una parte. Il cielo era
striato da nubi filamentose. Al centro c'era il vecchio
Marchetta, che allora non era vecchio. Basso, con una
faccia rotonda. Intabarrato in un cappotto pesante che
gli arrivava ai piedi, con una mano si teneva la coppola
premuta sulla testa e con l'altra stringeva il bastone
da passeggio. Attorno a lui c'erano cinque operai con
le tute da lavoro blu. In un angolo, un po' in disparte,
c'era Rino, seduto sulla ruota di un trattore. Era magrolino,
scavato in volto. Ai suoi piedi c'era Ritz, il
Fox Terrier di Marchetta. Dalla terra spuntava una
grossa conduttura che proseguiva nel campo. Tutti
guardavano nell'obbiettivo molto seri. Anche il cane.
Continuando a tener fermo Max Marchetta Rino
afferrò la fotografia e la tolse dal gancio.
In un angolo c'era scritto "1988". Erano passati
quasi vent'anni.
Quanto tempo.
Poi Rino guardò di nuovo il giovane imprenditore
che stava immobile, con le palpebre strizzate e le braccia
davanti al volto e sussurrava: «Pietà. Pietà. Pietà».
Ecco il nuovo proprietario della Euroedil. Uno che
passava le giornate a farsi la ceretta al petto e a guardarsi
allo specchio in palestra e che appena qualcuno
alzava le mani cominciava a chiedere pietà.
Lo afferrò per la collottola e lo sbatté sulla poltrona.
25.
Max Marchetta riaprì gli occhi lentamente, con l'espressione
di un astice che è stato fatto penzolare sul
pentolone di acqua bollente e poi, per un volere imperscrutabile
del fato, rimesso nell'acquario.
Sulla sedia, dall'altra parte della scrivania, sedeva
Rino. Si era acceso una sigaretta e lo trapassava con lo
sguardo come se di fronte a sé avesse uno spettro. In
mano stringeva la foto. Una sensazione brutta, bruttissima
stava nascendo dentro Max Marchetta. Quel
giorno se lo sarebbe ricordato a lungo, sempre che
avesse avuto ancora la possibilità di ricordare.
Zena era impazzito ed era pericoloso. Quante volte
aveva letto nella cronaca di operai che davano fuori
di matto e ammazzavano i loro principali? Qualche
mese prima vicino a Cuneo gli operai avevano dato
fuoco a un giovane imprenditore del settore tessile
nel parcheggio della sua fabbrica.
Lanciò un'occhiatina alla sigaretta in bocca a Zena.
Non voglio morire bruciato.
«Guarda questa fotografia.» Lo psicopatico gli tirò
la cornice in plexiglas. Max la afferrò. La guardò e
poi rimase immobile.
26.
Rino Zena si appoggiò allo schienale della sedia e
fissò un angolo del soffitto. «Diciotto anni fa. Un'eternità,
cazzo. Io sono quello magro sulla destra. Seduto
sul trattore. Avevo ancora un mucchio di capelli.
Sai quanto ci abbiamo messo a costruire quell'acquedotto?
Tre settimane. Era il mio primo lavoro
vero. Di quelli dove arrivi la mattina alle cinque e te
ne torni a casa al tramonto. Il ventotto la busta paga.
La consegnava tuo padre a ogni operaio e ogni volta
faceva la stessa identica battuta: "Questo mese vi pago,
il prossimo non lo so". Ripensandoci non è una
battuta che faceva molto ridere. Ma potevi mettere
una mano sul fuoco che quella frase la tirava fuori.
Come potevi mettere una mano sul fuoco che i soldi
il ventotto ti arrivavano anche se quel giorno era
scoppiata la Terza guerra mondiale. Vedi quell'operaio,
quello più basso? Si chiamava Enrico Sartoretti,
è morto una decina d'anni fa. Un cancro ai polmoni.
Due mesi e pace all'anima sua. È stato lui a portarmi
da tuo padre. A quel tempo qui c'era solo la baracca
dove adesso ci sono gli spogliatoi. E tuo padre lavorava
in una specie di gabbiotto di vetro. Ma tu te lo
dovresti ricordare. Qualche volta ti ho visto. Arrivavi
con uno spider rosso. Io e te abbiamo più o meno
la stessa età. Per fartela breve, tuo padre mi ha preso
in prova proprio il giorno in cui si cominciava a costruire
la condotta che prendeva l'acqua dal fiume e
la portava alla centrale elettrica. Venti giorni per finirla.
Ed eravamo in sei. In vita mia non ricordo di
essermi fatto mai il culo come in quelle tre settimane.
L'ultimo giorno abbiamo lavorato fino alle quattro
di mattina. Be', cazzo, ce l'abbiamo fatta.»
Ma che cazzo mi sta prendendo? si chiese Rino. Perché
stava raccontando quelle cose a quel pezzo di
merda? Eppure sentiva che gli faceva bene. Afferrò
un vecchio mattone con sopra una targa d'ottone che
serviva come fermacarte e cominciò a rigirarselo tra
le mani.
«Tuo padre ci teneva, ai suoi operai. Non voglio dire
che era un padre per noi o stronzate del genere. Se
non facevi bene il tuo lavoro eri fuori. Poche chiacchiere.
Ma se non ti lamentavi e lavoravi duro ti rispettava.
Se c'era lavoro, ci potevi scommettere che ti
chiamava.
Un Natale è arrivato con i panettoni e lo spumante
e ne ha dato uno a ogni operaio e a me niente. Ci sono
rimasto male. Poi ho pensato che avevo fatto
qualche cazzata e che ce l'aveva con me. Quel lavoro
era importante, se mi faceva fuori ero nella merda.
Mi ha chiamato nel suo ufficio e mi ha detto: "Hai
visto? Niente panettone per te". Io gli ho chiesto se
avevo fatto qualcosa di sbagliato e lui mi ha guardato
e mi ha detto che avevo fatto la cazzata di mettere
al mondo un figlio senza avere i mezzi sufficienti per
fargli vivere una vita come si deve. Io gli ho risposto
che non erano affari suoi. Mi stava facendo girare i
coglioni. Chi si credeva di essere per giudicare la
mia vita?
Ma lui si è messo a ridere. "Pensi di tirarlo su in
una baracca che se ne cade a pezzi? La prima cosa è
la casa, poi viene tutto il resto." E mi ha detto di
guardare fuori dalla finestra. Be', fuori c'era solo un
camion carico di mattoni. Non capivo. "Li vedi quei
mattoni?" mi ha chiesto. "Sono per te. Sono avanzati
dall'ultimo cantiere. Se te li fai bastare forse ci scappano
pure due piani." E con quelli, durante i fine settimana,
ho costruito la mia casa.» Rino continuava a
rigirarsi il mattone tra le mani. «Proprio come questo
qui. Non credo che tuo padre ti abbia mai raccontato
questa storia, non è il tipo. E quando ha cominciato a
chiamarmi sempre meno ho capito che la Euroedil se
la passava male. Ora ci sono più imprese di costruzioni
che cagate di cane. L'ultima volta che l'ho visto
sarà stato sei mesi fa, nel giardinetto vicino a corso
Vittorio. Era su una panchina. La testa gli dondolava
e le mani gli tremavano. C'era un filippino che lo
trattava come un bambino. Non mi ha riconosciuto.
Gli ho dovuto ripetere il mio nome tre volte. Ma alla
fine ha capito. Ha sorriso. E sai che mi ha detto? Mi
ha detto di non preoccuparmi, che ora c'eri tu. E che
la Euroedil è in buone mani. Hai capito? In buone
mani.»
Rino sbatté il mattone sul tavolo spezzandolo in
due e Max Marchetta si fece ancora più piccolo nella
enorme poltrona di pelle nera.
«Sei un tipo fortunato, tu. Se io non avessi visto
quella fotografia a quest'ora saresti in un'ambulanza,
credimi. E invece ti è andata bene, come ti andrà
sempre bene perché il mondo è fatto per la gente come
te.» Rino sorrise. «Il mondo è fatto su misura per i
mediocri. Tu sei bravo. Prendi gli schiavi negri e i bastardi
dell'Est e non li paghi una lira. E quelli ci stanno.
La fame è una brutta bestia. E gli operai che si sono
rotti la schiena per questa ditta? In culo. Non si
spreca nemmeno una telefonata. La verità è che non
hai rispetto né per quei figli di cane che vengono a
rubarci il pane di bocca né per noi e neanche per te
stesso. Guardati, sei un pagliaccio... Un pagliaccio
travestito da padrone. Io non ti spezzo le ossa solo
per rispetto a tuo padre. Alla fine, vedi, è solo una
questione di rispetto.»
Rino si alzò dalla sedia, aprì la porta e uscì dall'ufficio.
27.
Max Marchetta ci mise circa due minuti per riprendersi
dallo spavento. Aveva più o meno lo stesso
comportamento di una sardina. Dopo un attacco, se
riesce a sopravvivere, la sardina riprende a pinneggiare
con lo stesso slancio di prima.
Max si tirò su, con le dita si diede una stirata al
completo e si aggiustò i capelli. Le mani gli tremavano
ancora e sentiva le ascelle fredde come se sotto ci
fossero due cubetti di ghiaccio.
Fece un bel respiro e si chiese se poteva fargli male
allo stomaco la striscia sbiancante che aveva ingoiato
quando era finito contro il muro. Forse doveva chiamare
il dentista? O il gastroenterologo?
Ma come cazzo aveva fatto suo padre a lavorare
con tipi del genere? Quel nazista psicopatico, insieme
a tutti quegli altri nullafacenti, aveva fatto quasi colare
a picco la Euroedil.
I negri invece avevano rispetto. E ringraziò l'arteriosclerosi
di suo padre che lo aveva aiutato a prendersi
il posto che gli spettava e riportare la nave in
acque più sicure dove tappare le falle e cacciare i parassiti
che la infestavano.
Almeno, Zena non si sarebbe fatto vedere mai più.
Qualcosa gli suggeriva di non smuovere avvocati e
sporgere denunce, ma di lasciar perdere e girargli alla
larga.
Invece c'era qualcun altro che doveva pagare. Quella
rincoglionita della segretaria non l'aveva avvertito
dell'arrivo di Zena e non si era neanche preoccupata
di chiamare le forze dell'ordine.
Sollevò il telefono e spinse un tasto e disse con una
voce tremolante: «Signora Pirro, può venire qui, per
favore?». Riattaccò e si sistemò il nodo della cravatta.
Da qualche settimana cercava una giusta causa per
mandare a cagare quella babbiona. Bene, gliela aveva
offerta lei stessa su un piatto d'argento.
28.
I nazisti sono nati in Germania all'inizio del 1900. E
devono tutto a Adolf Hitler l'ideatore.
Adolf Hitler era un pittore senza soldi ma, aveva
un grande sogno di gloria far diventare la Germania
la nazione più forte del mondo e poi conquistare tutta
l'Europa. Per fare questo doveva cacciare, via dalla
Germania tutti gli ebrei che sporcavano la razza
ariana. Gli ebrei erano arrivati e ora detenevano le
fabriche e facevano gli strozzini costringendo i tedeschi
a lavorare nelle fabbriche d'acciaio. La razza
ariana era la più forte del mondo solo che: avevano
bisogno di un capo e Hitler sapeva che bisognava arrivare
al potere e prenderselo con la forza e poi chiudere
tutti gli ebrei nei campi di concentramento perché,
inquinavano la razza superiore. Lui inventò il
segno della svastica, che è il segno del sole che sorge
e disse ai tedeschi che se credevano in lui avrebbero
tolto di mezzo i politici e poi avrebbe creato un esercito
imbattibile. E fece tutto perché insieme a Napoleone,
è stato il più grande uomo della storia. Anche
se Hitler alla fine risulta superiore a Napoleone;
anche oggi ci vorrebbe un nuovo Hitler che cacci
dall'Italia tutti i negri e gli ex tracomunitari che rubano
il lavoro e che aiuti i veri italiani a lavorare. I negri
e gli ex tracomunitari stanno costruendo in Italia una
mafia: peggio di quella degli ebrei durante la seconda
guerra mondiale. Il problema è che in Italia nessuno
crede più nella patria.
La comunità europea è sbagliata ogni nazione è diversa
e non bisogna permettere che gli slavi possano
rubare il lavoro e le donne agli italiani. Perche gli italiani,
sono sempre stati i più forti basti pensare un pò
agli antichi romani e ha Giulio Cesare che aveva conquistato
il mondo e portato la civiltà tra i barbari che
tra l'altro erano pure i tedeschi.
La gente odia il nazismo adesso perché vogliono fare
finta che è giusto essere aperti alle culture diverse.
Sono bravi a dirlo, ma in realtà non ci credono nemmeno
loro. Gli arabi sono peggio degli ebrei: basta
pensare a quello che fanno alle donne le trattano come
schiave e le fanno girare sotto la veste nera. E bisogna
che si scannano tra di loro dove stanno. A noi ci vogliono
distruggere. Ci odiano. Perché la nostra cultura
è superiore. Noi dobbiamo rispondere. Attaccarli con
il nostro esercito e sterminarli, come gli ebrei.
Cristiano si fermò un attimo. Era come se avesse
aperto un rubinetto e le parole erano sgorgate fuori.
Non aveva parlato molto di come i nazisti avevano
preso il potere perché non si ricordava le date. Il tema
era anche un po' breve, ma mancava un quarto d'ora
alla consegna e doveva ricopiarlo in bella.
29.
Mentre Rino era a colloquio con Max Marchetta,
Quattro Formaggi si era liberato di Danilo ed era andato
all'ufficio del personale.
Da fuori, attraverso la finestra, aveva dato un'occhiata
all'interno. Seduta alla sua scrivania c'era Liliana
Lotti.
Per un po' Quattro Formaggi rimase fuori a guardarla
sapendo di non essere visto. Era un po' grassa,
ma era bella. Non a prima vista. Ci dovevi stare attento
e scoprivi che la bellezza era nascosta sotto la
ciccia. La teneva coperta come le cavallette tengono
coperte le loro ali colorate.
E poi lui e Liliana avevano molte cose in comune.
Non erano sposati. Vivevano da soli. E amavano la
pizza (lei però mangiava sempre la Napoli). Lei aveva
un piccolo cane. Lui due tartarughe.
Spesso la vedeva a San Biagio, alla messa delle sei.
Quando si scambiavano il segno di pace lei gli sorrideva.
E una volta, qualche giorno prima di Natale,
l'aveva incontrata sul corso con un sacco di buste in
mano...
«Corrado!» lo aveva chiamato.
Nessuno lo chiamava più Corrado e quindi Quattro
Formaggi ci aveva messo un po' a capire che si rivolgeva
proprio a lui.
«Come stai?»
Lui si era aggiustato gli occhiali e si era dato un
pugno su una gamba. «Bene.»
«Ho preso i soliti regali per i parenti...» Liliana aveva
aperto i sacchetti pieni di pacchi colorati. «E tu li
fai, i regali?»
Quattro Formaggi aveva alzato le spalle.
«Guarda che cosa ho comprato... Ma questo è per
me.» Dalla busta aveva tirato fuori la statuina di un
pescivendolo accanto a un banco pieno di polipi, cozze
e pesci argentati. «Quest'anno ho tirato fuori il
presepe dalla cantina. E ho pensato che ci voleva anche
un nuovo personaggio.»
Quattro Formaggi era rimasto a girarselo tra le mani
sbalordito.
«Ti piace?»
«Sì. Tantissimo.» Avrebbe voluto dirle che anche
lui aveva il presepe, ma se poi lei avesse voluto vederlo?
Non poteva farla entrare in casa.
«Senti, perché non te lo prendi? È il mio regalo di
Natale. Lo so, così senza nemmeno incartarlo...»
Quattro Formaggi aveva sentito la faccia incendiarsi
dall'imbarazzo. «Non posso...»
«Ti prego, prendilo. Mi farebbe tanto piacere.»
E alla fine se l'era preso. Lo aveva messo vicino a
un lago. Lo considerava, insieme ai Barbapapà, il
pezzo più pregiato di tutto il presepe.
Se adesso, per esempio, lui fosse entrato in ufficio e
l'avesse salutata, era certo che Liliana sarebbe stata
contenta. Il problema era che lui non ce la faceva proprio
a parlarle. Le parole gli finivano appena le arrivava
vicino.
Quattro Formaggi si diede un pugno sulla gamba e
uno schiaffo sul collo, si fece coraggio e afferrò la maniglia
della porta, ma poi la vide rispondere al telefono
e armeggiare con un grosso plico pieno di fogli.
Un'altra volta.
30.
Danilo Aprea, poggiato contro il furgone, vide Rino
uscire dal prefabbricato a testa bassa. Da come camminava
capì che era incazzato. Aveva scoperto che
erano stati fatti fuori.
Danilo lo sapeva già da un paio di giorni che il figlio
di Marchetta non li voleva, ma s'era guardato bene
dal dirlo a Rino.
Glielo aveva detto Duccio, uno che aveva fatto parte
della vecchia squadra e che come loro era stato
bruciato.
Ma quel lavoro per l'Euroedil era una grande fregatura.
Sarebbe andato avanti per un mese, se non di
più. E Rino, che non credeva sul serio al colpo, con i
soldi in mano si sarebbe tirato fuori, e se si tirava fuori
Rino, Quattro Formaggi lo seguiva.
Era assurdo rompersi la schiena quando c'era un
piano praticamente perfetto per diventare ricchi.
Ora però Rino era troppo incazzato, non conveniva
parlargli del colpo. Come una pentola a pressione:
andava fatto sfiatare prima di aprirlo.
Nella sacca Danilo aveva un bottiglione da due litri
e mezzo di grappa. Il miglior estintore del mondo
contro rodimenti di culo e affini.
«Andiamo. Forza. Salite.» Rino montò sul Ducato e
accese il motore.
Danilo e Quattro Formaggi ubbidirono in silenzio.
Il furgone partì sollevando schizzi di fango e senza
fermarsi allo stop si lanciò sulla strada.
«Che è successo?» chiese timido Quattro Formaggi.
Rino fissava la strada e gli vibrava la mascella. «Con
quel posto di merda abbiamo chiuso.» E poi continuò:
«Io lo dovevo uccidere, e invece... Perché non l'ho ammazzato?
Che cazzo mi prende in questo periodo?».
«... per Cristiano» gli suggerì Quattro Formaggi.
Rino deglutì e strizzò il volante come se volesse
spezzarlo e poi gli occhi gli si fecero lucidi come se li
avesse avvicinati a una fiamma.
«Bravo. L'ho fatto per Cristiano.»
Danilo capì che era arrivato il momento di cacciare
fuori l'estintore. Aprì la vecchia sacca e tirò fuori la
bottiglia trasparente. «Sorpresa! Sorpresina!» Svitò il
tappo e agitò la grappa davanti al naso di Rino.
«Se non ci foste voi due...» Rino fu sopraffatto da
qualcosa di troppo grande che gli impedì di terminare
la frase. Spalancò la bocca e cominciò a ingoiare aria.
«Passa qua.» Prese un bel sorso. «Cazzo, che merda!
Sembra acqua ragia. Dove l'hai presa, da Bricofer?»
E poi i tre se la passarono in silenzio. Nessuno si
stava chiedendo dove fossero diretti. Intorno, oltre le
schiere di alberi spogli, scorrevano i campi di terra
nera dove file di piloni dell'alta tensione si univano
come tante piccole torri Eiffel.
A un certo punto Rino scoppiò a ridere.
«Perché ridi?» gli domandò Quattro Formaggi.
«Quel coglione di Marchetta. Aveva sui denti quella
roba che serve a sbiancarli. Che fanno la pubblicità
alla televisione. Se n'è ingoiata una...»
I tre cominciarono a sganasciarsi e a dare gran pacche
sul cruscotto del furgone.
L'alcol, finalmente, stava facendo effetto.
Rino si asciugò le lacrime. «Ma non dovevamo finire
di montare il tuo trattore?»
Danilo saltò sul sedile. «Eh certo! Manca solo il rostro.»
Rino accese l'autoradio, fece inversione a U e si diresse
verso il paese. «Ma prima passiamo a prendere
Cristiano. Gli facciamo una sorpresa!»
31.
Noi possiamo tornare a essere una grande nazione
pura come gli antichi romani dove ce lavoro per tutti
e senza i comunisti che hanno distrutto l'idea della
famiglia, non credono in Dio e hanno accettato l'aborto
che è un assasinio di innocenti e vogliono dare il
voto agli ex tracomunitari.
FINE.
Cristiano rilesse il tema velocemente.
Era buono. Parecchio buono.
Prese un foglio bianco e stava per ricopiarlo, quando
ebbe un dubbio. Si fermò. Lo rilesse con attenzione.
No, non poteva consegnarlo, quella bastarda comunista
della professoressa lo avrebbe passato all'assistente
sociale.
Indeciso, lo rilesse ancora una volta mordicchiando
il tappo della penna.
Perché mettersi nei casini per un tema del cazzo? Peccato,
però, era proprio bello.
Piegò con cura il foglio e se lo ficcò nella tasca dei
pantaloni.
«Che fai?» gli domandò Colizzi che aveva già consegnato
da mezzora e stava facendo le parole crociate
a schema libero.
«Niente. Non consegno.»
«Hai visto che te lo dovevo fare io?» disse Colizzi.
Cristiano non si diede neanche la pena di rispondergli.
Poggiò il mento sul banco e guardò fuori dalla
vetrata. Rimase a bocca aperta.
In fondo al prato, dove la collina cominciava a digradare,
c'erano suo padre, Danilo e Quattro Formaggi.
Se ne stavano lì seduti su una panchina, sereni, a
gambe distese, e si passavano un bottiglione di grappa.
Cristiano stava per salutarli, ma si trattenne e guardò
l'orologio sopra la cattedra. Mancavano sette minuti
alla campanella.
Se avesse avuto il telefonino... Era l'unico in classe
a non possederlo. Afferrò le dita di Colizzi e strinse
appena. «Dammi il cellulare» gli sussurrò.
«Non posso. Ti prego, mia madre me lo controlla
tutte le sere. Mi ammazza se telefono.»
Gli strizzò un po' di più le dita. «Ti conviene darmelo.»
Colizzi storse la bocca e guaì appena: «Fai veloce,
però. E se puoi chiama un numero Tim. Ho l'offerta
Orizont».
Cristiano prese il telefonino e chiamò suo padre.
Lo vide tastarsi le tasche della giacca e tirare fuori
l'apparecchio.
«Pronto?»
«Papà. Che ci fai qui?»
«Tra quanto finisci?» Rino guardò verso la scuola,
vide Cristiano dietro la finestra e lo indicò agli altri
due che cominciarono a salutarlo.
«Tra cinque minuti.»
«Ti aspettiamo.»
Cristiano scoppiò a ridere.
I cretini, là fuori, si erano messi a ballare facendo il
trenino intorno alla panchina.
32.
Il Ducato avanzava dondolando lungo la stradina costellata
di pozzanghere e pietre bianche che seguiva
la riva del Forgese. Le canne e i cespugli di more strisciavano
contro le fiancate del furgone.
Il cielo era grigio, ma non pioveva più.
Cristiano Zena era stretto tra suo padre che, con i
piedi poggiati contro il parabrezza, fumava contemplando
imbambolato la strada e Danilo che apriva e
chiudeva meccanicamente il cellulare. Quattro Formaggi
guidava.
Quando si lessavano troppo, guidava sempre Quattro
Formaggi. Oggi avevano cominciato a bere prima
del solito, normalmente in quello stato ci arrivavano a
metà pomeriggio.
Cristiano sospettava che ci fosse stato un problema
al cantiere. Il giorno prima Rino gli aveva detto che
dovevano cominciare un lavoro e invece...
Ma se non ne parlavano loro era meglio non chiedere.
Osservò Quattro Formaggi. L'alcol non gli faceva
effetto. Secondo Rino era dovuto alla scossa. Fatto sta
che in vita sua Cristiano non lo aveva mai visto
ubriaco.
Adorava Quattro Formaggi.
Con lui non c'era bisogno di parlare per capirsi. E
non era vero che era scemo. Se chiacchierava poco
era perché l'elettricità gli aveva incasinato il modo di
parlare. Ma era attento, ascoltava tutto e con la testa
faceva degli strani movimenti come se dirigesse la
conversazione.
Cristiano passava intere giornate insieme a lui.
Guardavano la televisione o facevano i giri sul Boxer.
Quattro Formaggi ci sapeva fare con i motori e rimetteva
in moto anche i blocchi di ferro arrugginito. E
quando avevi bisogno di qualcosa o di essere accompagnato
pure all'altro capo del mondo, Quattro Formaggi
non ti diceva mai di no.
Certo, era strano con tutti quei tic e le sue manie
come quella di non lasciar entrare in casa nessuno.
Cristiano avrebbe voluto uccidere tutti quelli che lo
prendevano in giro. I ragazzini che gli facevano le
imitazioni alle spalle. C'era persino chi diceva che in
casa teneva il cadavere di sua madre e faceva finta
che era viva, così poteva ritirare la pensione. Ma era
una stronzata.
Quattro Formaggi era orfano.
Come me.
«Cos'hai fatto di bello oggi a scuola?» chiese Danilo
interrompendo i pensieri di Cristiano.
«Oggi c'era il tema di storia. Volete che ve lo leggo?»
«Leggilo» disse Quattro Formaggi.
«Sì, leggicelo» ripeté Danilo.
«Va bene.» Cristiano tirò fuori il foglio dalla tasca e
cominciò a leggere. Con tutte quelle buche gli veniva
da vomitare. Fece uno sforzo per finire. «... possiamo
tornare a essere una grande nazione, pura, come gli
antichi romani, dove c'è lavoro per tutti e senza i comunisti
che hanno distrutto l'idea della famiglia, non
credono in Dio e hanno accettato l'aborto, che è un
assassinio di innocenti, e vogliono dare il voto agli
extracomunitari. Fine.» Sollevò la testa. «Allora, vi è
piaciuto?»
Quattro Formaggi suonò il clacson, entusiasta.
Danilo era estasiato. «Eccezionale! Incredibile! Soprattutto
la parte in cui dici che ci vorrebbe un nuovo
Hitler che faccia dei campi di concentramento per gli
slavi e gli arabi. Quei bastardi ci rubano il lavoro.
Dieci e lode!»
Cristiano si voltò verso suo padre. «E a te è piaciuto?»
Rino fece un tiro dalla sigaretta e non rispose.
E adesso che gli è preso?
Mezzora prima ballava come uno scemo e ora era
incazzato.
Danilo diede una pacca su una coscia a Cristiano.
«Certo che gli è piaciuto. È un gran bel tema. Non può
non piacere. È impossibile.»
33.
Rino Zena poggiò i piedi a terra e osservò Cristiano,
poi spense il mozzicone di Diana Rossa nel portacenere
stracolmo di cicche. L'emicrania era salita come
una marea acida e gli aveva travolto il cervello. Era
quella merda che gli aveva fatto bere Danilo.
Con gli occhi fulminò il figlio. «Ma sei idiota?»
Cristiano non capendo guardò Danilo. «Perché?»
«Gli hai dato quella roba?»
Cristiano scosse la testa. «No. Non gliel'ho consegnato.
Mica sono scemo.»
«Balle. Gliel'hai consegnato. Ti conosco troppo bene.
Sei talmente presuntuoso che pensavi di aver
scritto il capolavoro. Non ci arrivi, con quel cervellino,
a capire che razza di stronzata hai combinato. Lo
sai che rimpiangerai questo giorno per sempre?»
A Cristiano si ruppe la voce: «Te l'ho detto! Ma sei
sordo? L'ho scritto e me lo sono messo in tasca! Fine!
Eccolo qua».
Respira. Calmati. Forse ha detto la verità. «E lo hai fatto
leggere a qualcuno?» gli domandò soffocando la
voglia di prenderlo per i capelli e sbattergli quella testa
di merda contro il cruscotto.
Cristiano lo guardò con odio. «No, a nessuno.»
«Lo avrai letto ai tuoi compagni. È normale.»
«Te lo giuro su Dio, porca puttana!»
Rino gli puntò il dito contro. «Non spergiurare,
Cristiano. Non spergiurare. Che t'ammazzo.»
34.
Quando faceva così, lo odiava.
Non gli credeva. E non gli avrebbe mai creduto.
Nemmeno se gli fosse apparsa davanti la professoressa
di Italiano e gli avesse detto che quel tema non
lo aveva consegnato. Nemmeno se fossero scesi dal
cielo Dio, la Madonna e tutti i santi. Avrebbe pensato
che si erano messi d'accordo. Tutti contro di lui.
Ma che razza di padre ho?
Chiunque avesse un po' di fegato gli aveva fatto
capire che Rino era un coglione, e Cristiano come una
furia cieca ci si era scagliato contro. Ne aveva prese
un sacco, in vita sua, per difendere una testa di cazzo.
Ma avevano ragione loro. Mille volte avevano ragione.
Cristiano sentì una fitta di dolore proprio sotto
lo sterno. «Non l'ho fatto leggere a nessuno.»
Rino scosse la testa e tirò fuori il suo sorrisetto del
cazzo. «Dai, ammettilo. Lo hai fatto così, non ti sei reso
conto, per fare lo stronzo con i tuoi amichetti... "Io
sono un nazista, io sono qua, io sono là." Cosa c'è di
male? Dimmelo, su. E che sarà mai?»
Cristiano non ce la faceva più e" prese a gridare:
«No, non l'ho fatto! Vaffanculo! Non riuscirai a farmi
dire cose che non ho fatto. E poi io non ho amici. E lo
sai perché? Perché tutti pensano che sei un pazzo. Solo
un povero pazzo...».
Gli veniva da piangere, ma piuttosto che piangere
si sarebbe strappato gli occhi dalle orbite.
35.
Rino Zena non sentiva più niente. Un vortice di terrore
lo aveva risucchiato nella tenebra. Già s'immaginava
l'assistente sociale accompagnato da due carabinieri
che gli sventolava davanti il tema di Cristiano.
E se lo sarebbero portato via. Per sempre.
E questo non poteva succedere, perché lui senza
Cristiano non era più niente.
Rino ingoiò un groppo e si mise le mani davanti
agli occhi. «Ma come cazzo ti vengono certe idee in
testa?» Parlava a bassa voce, respirando con il naso.
«Quante volte ti ho detto che bisogna tenersi tutto
dentro... Che non bisogna mostrare a nessuno quello
che pensi, che te lo mettono nel culo. Io e te siamo attaccati
a un filo, lo capisci o no? E tutti lo vogliono
spezzare. Ma nessuno ci riuscirà. Io sarò sempre con
te e tu sarai sempre con me. E io aiuterò te e tu aiuterai
me. Con il cervelletto che ti ritrovi non capisci che
non bisogna mai mostrare la gola? Pensa alle tartarughe,
pensa alle loro corazze. Pensa che devi essere così
forte che nessuno ti può fare male.» Diede un pugno
sul cruscotto con tale violenza che il cassettino si
aprì sputando cartacce.
«Perché fai così, papà? Perché non mi credi?» disse
Cristiano con la voce rotta.
«Non fare quella voce del cazzo! Mi pare che nessuno
ti abbia fatto del male. Cosa sei, una bambina?
Ti metti a frignare?»
Danilo fece segno a Cristiano di non prendersela e
di stare zitto e cercò di mediare: «Dai, Rino, ti ha detto
la verità. Tuo figlio non dice bugie. Lo conosci».
Rino per poco non se lo mangiò. «Tu stai zitto! Non
ti devi intromettere. Io mi intrometto nei cazzi tra te e
quella troia di tua moglie? Sto parlando con mio figlio.
Quindi fai silenzio.»
Danilo abbassò lo sguardo.
Cristiano si asciugò gli occhi con le mani. Nessuno
osava più parlare. Stavano tutti in silenzio e si sentiva
solo il sottofondo del fiume e le fronde che strisciavano
sulle fiancate del furgone.
36.
Si fermarono nel piazzale di un vecchio impianto che
negli anni Settanta tirava rena dal fiume. Mucchi altissimi
di sabbia formavano un semicerchio attorno
ai macchinari mangiati dalla ruggine.
Cristiano schizzò fuori e si allontanò di corsa verso
la torre di estrazione.
Si fermò di fronte a una baracca fatiscente con le finestre
sfondate e coperta di scritte e disegni.
Voleva tornare a casa a piedi. Era lontano, ma non
importava. Anche se faceva freddo, non avrebbe dovuto
piovere per un po'. Il tempo stava cambiando. A
sud la volta grigia si era stracciata e dagli squarci appariva
il blu cristallino del cielo. Sulla testa gli sfrecciò
una coppia di cormorani. In lontananza si sentiva
il tumulto del fiume gonfio di pioggia.
S'infilò in testa il cappuccio.
Davanti alla baracca c'erano i resti carbonizzati di
un rogo. Lo scheletro metallico di una poltrona. Pneumatici
contorti dal fuoco. Delle ciabatte. Una cucina
a gas.
Cristiano tirò fuori dalla tasca il tema e un accendino.
Avvicinò la fiammella al foglio quando sentì alle
sue spalle: «Cristiano! Cristiano!».
Suo padre lo stava raggiungendo. Indossava una
giacca scozzese di lana con il peluche all'interno. La
teneva aperta e sotto aveva solo la canottiera.
Come fa a non avere mai freddo?
Cominciò a bruciare un angolo del foglio.
«Aspetta!» Rino glielo prese di mano e ci soffiò sopra
spegnendo il fuoco.
Cristiano gli si avventò contro cercando di strapparglielo.
«Dammelo. È mio.»
Suo padre fece due passi indietro. «Sei scemo? Perché
lo vuoi bruciare?»
«Così non ci saranno più prove. E sarai contento.
Potrebbero sempre venire di notte i ladri e rubarcelo,
no? Oppure la polizia... O gli extraterrestri.»
«No, non bruciarlo.»
«Che ti frega? Tanto non ti è nemmeno piaciuto.»
Cristiano cominciò a correre verso il fiume.
«Fermati!»
«Lasciami in pace! Voglio stare da solo.»
«Aspetta!» Suo padre lo raggiunse e lo afferrò per
un braccio.
Cristiano cercò di liberarsi urlando: «Lasciami!
Vattene! Vaffanculo!».
Rino lo strinse forte a sé e gli spinse la faccia contro
il proprio petto. «Ascoltami un attimo. Poi se vuoi te
ne vai.»
«Cosa vuoi?»
Rino lo lasciò e cominciò ad accarezzarsi il cranio
rasato. «È solo che... Ecco...» Faceva fatica a trovare le
parole. Alla fine si accese una sigaretta. «... Devi capire
che se mi arrabbio c'è una ragione... Se lo consegnavi,
quella stronza della tua professoressa lo dava
subito a quel bastardo dell'assistente sociale e domani
ce lo trovavamo a casa con il tuo compito.»
«Non sono coglione e infatti non l'ho consegnato.
Te l'ho detto, ma tu non mi credi. E inutile.»
«No, è che... che volevo essere sicuro.» Rino diede
un calcetto a un sasso e poi sospirando osservò il cielo.
«Ho paura, Cristiano... Ho paura che ci possano
dividere. Vogliono solo quello. Se ci dividono io...»
Poi non disse più niente. Si accucciò e continuò a fumare
tenendo la sigaretta tra pollice e indice.
Tutta la rabbia che Cristiano aveva dentro si sciolse
come la neve che era caduta quella notte. Ed
ebbe una voglia terribile di abbracciare suo padre,
ma disse solo con un groppo in gola: «Io non ti tradirò
mai. Tu mi devi credere, papà, quando ti dico
le cose».
Rino guardò suo figlio e poi strizzò gli occhi con la
cicca tra le labbra e fece serio: «Ti crederò se mi batti».
«Come?» Cristiano non capiva.
«Ti crederò se arrivi prima di me là sopra», e indicò
la collinetta di sabbia di fronte a loro.
«E che cazzo c'entra?»
«Come, che cazzo c'entra? Ti rendi conto dell'incredibile
opportunità che hai? Se mi batti dovrò crederti
per il resto della vita.»
Cristiano cercava di non ridere. «Che stronzata...
Sei il solito...»
«Qual è il problema? Sei giovane. Atletico. Io sono
un vecchietto. Perché non dovresti vincere? Pensa, se
mi batti mi potrai dire che hai sentito Quattro Formaggi
ripetere Trentatré trentini e io dovr... Bastardo!»
Cristiano, di colpo, era scattato verso la collina di
sabbia.
«Cazzo, questa volta ti batto» ringhiò Cristiano
lanciandosi sul fianco scosceso della montagnola.
Fece i primi tre passi e dovette infilare le mani nella
sabbia per non scivolare giù. Franava tutto. Suo
padre era sotto, staccato di un paio di metri.
Ce la doveva fare. Perdeva sempre con suo padre.
A tiro al bersaglio. A braccio di ferro. A tutto. Anche a
ping-pong, dove Cristiano sapeva di essere una spada
e suo padre una pippa. Arrivava fino a diciotto,
diciannove a sei, roba così, e gli mancavano solo due
punti per mandarlo a casa umiliato, e quello stronzo
cominciava a dirgli che era cotto, che aveva paura di
vincere, lo rimbambiva di parole e lui non faceva più
un punto e Rino vinceva.
Questa volta no, però. Ti fotto.
Si immaginò di essere un enorme ragno scalatore.
Il segreto era puntare bene i piedi e le mani. La sabbia
era fredda e bagnata. Più saliva e più la pendenza
cresceva e tutto gli franava sotto le scarpe.
Si voltò a controllare dov'era suo padre. Si stava
avvicinando. Aveva la faccia contorta dalla fatica, ma
non mollava.
Il problema era che ogni tre passi Cristiano scivolava
indietro di due. La cima non era lontana, ma sembrava
irraggiungibile.
«Dai, Cristiano! Dai, cazzo... Ce la puoi fare! Battilo!»
lo incitavano Danilo e Quattro Formaggi da sotto.
Diede tutto, urlando per la fatica, ed era quasi lì,
mancava un metro e mezzo alla cima, era fatta, lo
aveva fottuto, quando una morsa gli strinse la caviglia.
Fu tirato giù insieme a una frana di sabbia.
«Non vale!» urlò mentre suo padre gli passava sopra
come una ruspa. Cristiano provò ad acchiapparlo
per il fondo dei pantaloni, ma la mano gli scivolò e rischiò
di prendersi una pedata in faccia.
E suo padre affondò le mani sulla cima della collina,
si mise in ginocchio e sollevò le braccia verso il
cielo come se avesse scalato il K2 urlando: «Vittoria!
Vittoria!».
Cristiano rimase lì boccheggiando, spalmato contro
la sabbia a mezzo metro dalla sommità, mentre
intorno a lui tutto si sfaldava.
«Dai... Sali... Ce l'avevi quasi fatta. Dai, in fondo,
sei arrivato secondo... non sei arrivato ultimo» ansimò
suo padre piegato dalla fatica.
«Non vale! Ti sei attaccato a me.»
«E invece... partire prima del via? È... sportivo?»
Aveva la faccia paonazza. «Cazzo, come sto... Le sigarette...
Dai, dammi quella mano.»
Cristiano l'afferrò e si fece tirare su. Dalla fatica gli
veniva da vomitare.
«Vabè, hai perso... Ma... ti sei comportato bene... Ti
credo.»
«Ba...stardo. Ti ho fatto vincere... perché sei vecchio...
Ecco perché...»
«Sì... Hai fatto bene. Bisogna rispettare i vecchi.» E
Rino gli mise un braccio sulle spalle.
Ora padre e figlio erano seduti in pizzo a quel cucuzzolo
e guardavano la pianura opaca e il fiume che
in quel punto si allargava in una grande ansa sabbiosa.
La sponda opposta era lontana, immersa nella foschia,
e solo le cime spoglie dei pioppi ne emergevano
come alberi di navi fantasma. Più giù l'acqua aveva
superato gli argini allagando i campi. Da là sopra si
vedevano il profilo della centrale elettrica e la sfilza
dei piloni dell'elettricità e il cavalcavia dell'autostrada.
Rino ruppe il silenzio: «Hai scritto un bel tema. Mi
è piaciuto. Hai detto bene. Fuori gli extracomunitari
e lavoro per gli italiani. Giusto».
Cristiano prese un mucchietto di sabbia e cominciò
a farci una palla. «Certo, però, uno non ha nemmeno
la libertà di scrivere quello che pensa.»
Rino si chiuse la giacca. «Non parlare di libertà. Tutti
sono bravi a parlare di libertà. Libertà di qua, libertà
di là. Ci si riempiono la bocca. Ma che diavolo te ne fai
della libertà? Se non hai una lira, un lavoro, hai tutta
la libertà del mondo ma non sai cosa fartene. Parti. E
dove vai? E come ci vai? I barboni sono i più liberi del
mondo e muoiono congelati sulle panchine dei parchi.
La libertà è una parola che serve solo a fottere la gente.
Sai quanti stronzi sono morti per la libertà e nemmeno
sapevano che cos'era? Sai chi sono gli unici ad
averla? La gente che ha i soldi. Quelli sì...» Rimase in
silenzio a rimuginare e poi poggiò la mano sul braccio
del figlio. «Vuoi vedere qual è la mia libertà?»
Cristiano fece sì con la testa.
Rino tirò fuori da dietro la schiena una pistola.
«Questa signorina qui di cognome fa libertà e di nome
fa 44 Magnum.»
Cristiano rimase a bocca aperta. «È bellissima.»
«È un gioiello. Smith & Wesson. Canna corta. Interamente
cromata.» Rino la teneva in mano tutto soddisfatto.
Tirava fuori il tamburo, lo faceva girare e poi
con un colpo di polso lo faceva tornare a posto.
«Fammela toccare.»
Rino gliela porse per il calcio.
«È pesantissima. Questa è quella di coso...?» Cristiano
cominciò a impugnarla con due mani e a mirare
lontano. «Come si chiama? Quello del Cielo di
piombo.»
«L'ispettore Callaghan. Solo che quella è a canna
lunga. Com'è? Non è stupenda?»
«È incredibile. Che gli facevo, se sparavo con questa,
al cane di Castardin?»
«Lo spargevi fin sulla strada. Questa ragazza qui è
un'orfanella come te. Solo che le mancano sia il papà
che la mamma. Il numero di serie è stato cancellato.»
Cristiano, con un occhio chiuso, stendeva un braccio
e teneva la pistola storta di lato. «E quanto l'hai
pagata?»
«Poco...»
«Ma perché l'hai comprata? Hai già la Beretta...»
«Che palle! Mi fai gli interrogatori invece di chiedermi
di provarla?»
Cristiano fissò suo padre incredulo. «Posso?»
«Sì. Ma devi fare attenzione al rinculo. Non è come
l'altra. Questa ti dà la botta. Abbassa la sicura. Tienila
con tutte e due le mani. Morbido. Non t'indurire che
ti fai male. E tienila distante dalla faccia.»
Cristiano obbedì. «A cosa sparo?»
Rino cercò con lo sguardo un bersaglio. Quando lo
trovò sorrise. «Spara alla zuppiera dei maccheroni. A
quei due gli facciamo venire un infarto secco» gli sussurrò
in un orecchio.
Cristiano rise.
Giù in fondo al piazzale Danilo e Quattro Formaggi
armeggiavano sul vecchio trattore. A circa cinque
metri, vicino a un divano sfondato, c'erano un contenitore
di plastica pieno di rigatoni al ragù, una cassetta
di birra e il bottiglione di grappa semivuoto. Il
picnic di Danilo.
«Mira bene, però. Non beccarli. E nemmeno la bottiglia,
che se partono le schegge...» si raccomandò
sottovoce Rino.
Cristiano chiuse un occhio e strizzò l'altro. Spostò
il mirino fino a inquadrare la zuppiera. Era difficile
tenere la pistola puntata, pesava un casino.
«Se non spari ora non ti reggono più le bra...»
Cristiano tirò il grilletto. Ci fu uno scoppio assordante
e la zuppiera si disintegrò come se fosse stata
colpita da un Cruise e rigatoni, schizzi di ragù e
pezzi di plastica si sparsero per un raggio di dieci
metri.
Danilo e Quattro Formaggi zomparono in aria per
lo spavento.
Cristiano e Rino per le risate rotolarono giù dalla
collina di sabbia mentre i due, cosparsi dalla testa ai
piedi di rigatoni e ragù, bestemmiavano Cristo e tutti
i santi.
37.
Fu dura farsi perdonare.
Soprattutto Danilo si era incazzato. Gli avevano
macchiato i pantaloni e l'olio non se ne va nemmeno
in lavatrice.
Cristiano s'inginocchiò e cominciò a pregarlo afferrandogli
i piedi. «Daniluccio. Daniluccio, non ti arrabbiare.
È solo uno scherzetto. E tu sei così buono e
bello...»
«Vaffanculo! Ci potevate ammazzare! E poi la pasta
era con il ragù! Quello con le carote, il sedano e i
cipollotti. Teresa lo fa solo una volta al mese.»
Quattro Formaggi, intanto, si aggirava in silenzio
per il piazzale raccogliendo i rigatoni e mettendoli in
una busta di plastica.
Alla fine Rino dovette promettere che appena beccava
qualche lira li avrebbe invitati fuori alla pizzeria
Il Vascello d'Oro e avrebbe pagato per tutti.
Si sedettero sul divano ognuno con una birra. Si
passavano la busta di plastica da dove pescavano i
maccheroni.
«Come va con il trattore?» chiese Cristiano soffiando
su un maccherone per cercare di eliminare la
sabbia.
«Abbastanza bene» rispose Danilo dopo essersi attaccato
alla bottiglia di birra. «Quattro Formaggi dice
che bisogna rimediare i dischi della frizione e poi il
motore dovrebbe funzionare come un orologio.»
«Ma ce la farà a sfondare il muro?»
«Scherzi?! L'ho studiato attentamente. Il muro della
banca è fatto con dei mattoncini che cadono se
scorreggi.»
Dopo mangiato i tre rimasero in coma sul divano.
Cristiano s'era stufato. Faceva freddo e il giorno dopo
sarebbe venuto Beppe Trecca, l'assistente sociale,
per il solito controllo e la casa era ridotta una merda.
«Papà, andiamo? Domani è sabato. Viene Trecca.
Bisogna mettere in ordine.»
«Altri cinque minuti. Perché non vai a giocare?»
Dal tono con cui aveva risposto, Cristiano capì che
non avrebbe smosso il culo da quel divano prima del
tramonto.
«Che palle!» disse sottovoce e cominciò a tirare
sassi contro un barile annerito dal fuoco.
38.
Quattro Formaggi se ne stava sdraiato sul divano
sfondato e fissava le nuvole che rotolavano in cielo.
«Co...cono...scete Liliana?» disse mentre la bocca
gli si storceva e il braccio iniziava a fremere.
Danilo, stordito dalla birra, aveva gli occhi a mezz'asta.
Sollevò la testa, ma gli ricadde sullo schienale del
divano. «E chi è?» biascicò, poco interessato.
Lavora... «... all'Euroedil.»
«E chi è?»
Alla contabilità. Ha... «... i capelli neri. Lunghi. E...»
... bella.
Rino, che era steso da una parte con i piedi poggiati
su una bombola vuota, annuì. «Lavora alla contabilità.
La conosco.»
«Ah! Ho capito! La balena che si mette sempre tre
chili di stucco in faccia?» domandò Danilo.
Quattro Formaggi fece segno di sì con la testa.
«La vecchia Lilianona» disse Rino tra sé, e si attaccò
alla bottiglia vuota cercando le ultime gocce di
grappa.
Quattro Formaggi, oramai in preda a qualsiasi tic,
riuscì solo a dire: «Ecco... Ecco...».
«Parla! Che cosa?» lo pungolò Danilo.
«Vorrei... Vorrei invitarla a cena...» e mandò giù
qualcosa che gli ostruiva la gola.
Danilo sghignazzò. «Ma quella non esce con te
nemmeno se...» Ci pensò un po' su. «Guarda, non mi
viene nemmeno in testa qualcosa per cui quella uscirebbe
con uno come te.»
«Fallo parlare...» sospirò Rino.
Quattro Formaggi prese coraggio. «Mi ci vorrei...
spo...sare.»
Danilo fece un rutto e scosse il capo. «Che stronzata!»
«Non è una stronzata. Voglio sposarla.»
«Ti piace?» domandò Rino.
«Sì. Molto. E...» Quattro Formaggi si zittì.
Danilo, spaparanzato come un gorilla albino, era
scosso dai singulti. «Ma l'hai vista bene? Ha un culo
grosso come la Sardegna. E la cosa peggiore è che si
sente una gran figa. Lascia perdere. Non è roba per te.»
Ma Quattro Formaggi non si scoraggiò. «Non è vero.
Io posso piacerle.»
Danilo diede una gomitata a Rino. «E allora vai da
lei e dille che la vuoi sposare... Ma chiamami prima,
voglio godermi la scena.»
Quattro Formaggi prese un sasso e lo lanciò lontano.
«Io ho un piano.»
Danilo si grattò la pancia. «Per cosa?»
«Per parlarci.»
«Sentiamo...»
Quattro Formaggi si diede tre pugni sul petto. «A
lei piace Rino.»
Rino alzò lo sguardo, sorpreso. «Io?»
«Sì. Ti guarda sempre.»
«Boh! Non l'ho mai notato.»
Danilo non capiva. «Scusa, se le piace Rino tu sei
nella merda.»
Quattro Formaggi strizzò gli occhi, nervoso: «Fammi
parlare».
E si rivolse a Rino: «La inviti al ristorante. E arrivi
con Danilo. Poi non le parli, parli solo con Danilo di
calcio. Le donne odiano il calcio...».
«E tu che ne sai? Ora sei pure un esperto di donne?»
lo interruppe per l'ennesima volta Danilo.
Ma Quattro Formaggi fece finta di niente. «Poi arrivo
io... Voi ve ne andate e io resto con lei.» Fece una
pausa. «Che ne pensi, Rino?»
«E chi paga il ristorante?» domandò Danilo.
«Io. Ho messo da parte i soldi.»
«E a noi che ce ne viene?»
Quattro Formaggi si guardò intorno smarrito. A
quella domanda non era preparato. Si diede un pugno
forte sulla gamba. «La pizza.»
Rino si alzò e si stiracchiò. «Basta parlare, andiamo
a casa che non mi sento bene. Cristiano, fino alla statale
guidi tu!»
39.
Cristiano non aveva voglia di guidare, ma suo padre
insisteva: «Devi prendere la mano. Hai ancora problemi
con la frizione. Non fare storie, ho la testa che
mi scoppia».
Era da qualche mese che Cristiano aveva cominciato
a guidare. E credeva di cavarsela non male. Aveva
problemi a partire, quando lasciava la frizione non
riusciva a controllare il gas e il furgone si spegneva o
schizzava in avanti singhiozzando, ma una volta partito
era fatta.
Però con suo padre che gli urlava nelle orecchie diventava
un incubo. «Stai attento! Cambia! Non lo
senti il motore?!»
Ma quel giorno Rino aveva malditesta. Ce l'aveva
sempre più spesso, nell'ultimo periodo. Diceva che
gli sembrava di avere uno sciame di api nel cranio. E
sentiva il sangue che gli pulsava nelle orecchie. A
volte durava pure una giornata e lui doveva starsene
sdraiato al buio, in silenzio, e ogni piccolo rumore lo
faceva imbestialire. In quei casi Cristiano si doveva
chiudere in camera.
Quando Danilo gli aveva consigliato di farsi vedere
da un medico, Rino aveva espresso con eloquenza il
suo pensiero in proposito: «Se esiste una cosa di cui i
medici non sanno una vera minchia secca è il cervello.
Sparano teorie a cazzo. Ti imbottiscono di medicine
che costano l'ira di Dio e che ti rincoglioniscono, che
non hai nemmeno la forza per tirare fuori l'uccello e
pisciare».
Cristiano guidava mentre gli altri tre, ancora stonati
dall'alcol, russavano buttati uno sull'altro. Il sole
era tramontato lasciando delle strisce rosa sull'orizzonte,
mentre i gabbiani si gettavano nel fiume.
Sulla statale, Quattro Formaggi prese il volante.
40..
Arrivarono a casa che era già buio.
Rino, senza parlare, si mise a lavare la catasta di
stoviglie che si era accumulata nel lavello da due settimane
e Cristiano cominciò a mettere in ordine il
soggiorno.
Tutti e due odiavano il giorno in cui arrivava l'assistente
sociale.
Lo avevano soprannominato "il giorno della bella
figura". Ma forse odiavano ancora di più "il giorno
prima del giorno della bella figura", perché bisognava
mettere a posto tutto il piano di sotto. Il piano di
sopra no, visto che, come diceva Rino, bisogna pulire
solo dove passa il vescovo.
Questo avveniva un sabato ogni due settimane.
Per il resto del tempo la casa veniva abbandonata a
se stessa.
Usavano tutti i piatti e le forchette finché non finivano.
I panni invece li lavavano nella lavatrice di Danilo
una volta al mese e poi li stendevano nel garage.
Il soggiorno non era difficile da pulire essendo quasi
vuoto.
Cristiano tolse di mezzo lattine di birra, scatole
della pizza, vaschette argentate della rosticceria. Ce
n'erano dovunque. Anche sotto i mobili e il divano.
Solo con le lattine riempì un sacco dell'immondizia.
Poi passò a terra lo straccio alla meno peggio.
In cucina, mentre suo padre sciacquava i piatti, tolse
dal frigo i resti di un provolone verde di muffa,
della verdura marcia, una marmellata di pesca ricoperta
di ciuffi bianchi. Poi con lo straccio bagnato
lavò il piano unto del tavolo.
Anche se Natale era passato da un pezzo, in corridoio
c'era ancora l'albero tutto rinsecchito. Cristiano
lo aveva decorato con le lattine di birra e sulla punta
aveva infilato una bottiglietta di Campari Soda.
Era tempo di buttarlo.
«Io ho finito!» disse a suo padre passandosi una
mano sulla fronte.
«Che c'è da mangiare?»
«La pasta e...» osservò quello che era rimasto nel
frigo «il formaggino.»
Lo spalmavi sul piatto e ci buttavi sopra la pasta
poco scolata.
Una certezza.
Mise l'acqua a bollire.
Dopo mangiato Cristiano si buttò sul divano a
guardare la televisione. Si stava bene, lì. La stufa
mandava un bel teporino. Gli piaceva addormentarsi
così, avvolto nella coperta scozzese.
Suo padre si allungò sulla sedia a sdraio con una
birra in una mano e la mazza di legno per cambiare
canale nell'altra.
Quella sera, a Cristiano sarebbe piaciuto vedere
Chi la fa l'aspetti, il programma in cui facevano gli
scherzi (che anche se non erano veri facevano ridere
lo stesso), ma sentiva gli occhi pesanti e senza rendersene
conto si addormentò sul divano.
41.
Rino Zena odiava la televisione. Varietà, talk show,
programmi politici, documentari, telegiornali, anche
lo sport e le previsioni che non ci pigliavano mai.
Prima era diverso, però.
La televisione quando lui era piccolo era un'altra
cosa. Due canali. Precisi. Statali. C'erano cose belle,
fatte con passione. Che passavi la settimana aspettandole.
Pinocchio, per esempio. Un capolavoro. E
vogliamo parlare degli attori? Manfredi, un grande.
Alberto Sordi, un genio. Totò, il miglior comico del
mondo.
Ora invece era tutto cambiato.
Rino odiava i presentatori tinti e le vallette nude e
stava male quando vedeva la gente pronta a parlare
dei cazzi suoi di fronte a mezza Italia. Disprezzava
quei poveri stronzi che andavano in televisione e cominciavano
a frignare e a dire che soffrivano perché
erano stati mollati dalle loro mogli.
E odiava la gentilezza ipocrita dei presentatori.
Odiava i giochi al telefono. I balletti raffazzonati.
Odiava le battute rancide dei comici. E detestava gli
imitatori e gli imitati. Odiava i politici. Odiava gli
sceneggiati con i poliziotti buoni, i carabinieri simpatici,
i preti buffi e le squadre anticrimine. Odiava i ragazzini
brufolosi che sarebbero stati disposti ad ammazzare
pur di essere ammessi in quel paradiso da
quattro soldi. Odiava quelle centinaia di zombie
semifamosi che vagavano come bastardi elemosinando
una sedia. Odiava gli esperti che si arricchivano sulle
tragedie.
Sanno tutto. Sanno cos'è il tradimento, la povertà, le
stragi del sabato sera, la mente degli assassini.
Odiava quando s'indignavano per finta. Quando si
leccavano il culo tra loro come i cani ai giardinetti.
Odiava i litigi che resistevano il tempo di una scorreggia.
Odiava le collette per i bambini africani quando
in Italia c'era gente che faceva la fame. Ma la cosa
che detestava di più erano le donne. Puttane con le
tette rotonde come pompelmi, le labbra gonfie, le facce
rifatte con lo stampino.
Parlano tanto di uguaglianza, ma quale uguaglianza e
uguaglianza? Quando l'immagine che danno è quella di
un branco di decerebrate rizzacazzi. Si facevano scopare
da qualche stronzo con un po' di potere per uscire di
casa ed essere riconosciute. Donne capaci di passare
sul corpo delle loro madri per un po' di successo.
Li odiava tutti, quelli là dentro, al punto che alle
volte si doveva trattenere dal prendere la mazza e
sfondare quel cazzo di televisore.
Vi metterei in fila, uno dietro l'altro, e vi sparerei. Che
avete fatto di male? Professate il falso. State rincoglionendo
milioni di ragazzini. Mostrando mondi che non esistono.
Spingete la gente a rovinarsi per comprarsi una macchina.
Mandate in malora l'Italia.
Eppure Rino Zena non riusciva a non guardare la
televisione. Ci s'incollava davanti tutta la notte. E di
giorno, quando stava a casa, era sempre là su quella
sedia a sdraio a insultarli.
Rino cambiò canale, poi si girò e s'accorse che Cristiano
dormiva.
Le tempie continuavano a pulsargli, ma non aveva
voglia di andare a letto. Per un istante considerò l'ipotesi
di andare da Danilo, ma poi ci ripensò. La sera
Danilo era una punizione, attaccava la lagna sulla
moglie e andava avanti così fino a quando non cadeva
stroncato dalla grappa.
No, ho voglia di scopare.
S'infilò la giacca e uscì di casa senza sapere dove
andare.
Il furgone era in riserva. Quei due pensavano che
andasse ad acqua. Mai una volta che cacciassero un
soldo. Trovò un ventiquattrore sulla statale e ci mise
dentro gli ultimi dieci euro. Ora non aveva nemmeno
i soldi per farsi una birretta.
Rimise l'erogatore al suo posto e stava per risalire
sul furgone quando una Mercedes argentata con gli
abbaglianti sparati inchiodò a due metri da lui. Un
braccio femminile spuntò dal finestrino dalla parte
del guidatore. In mano stringeva una banconota da
cinquanta euro e una moneta da due.
Rino si avvicinò.
Al volante c'era una donna, magra, con dei lunghi
capelli biondi, un paio di lenti da vista ovali tenute
da una leggera montatura blu. Un microfono le scendeva
dall'orecchio lungo la guancia e le finiva a lato
delle labbra sottili dipinte di rosso scuro.
«Cinquanta euro» fece a Rino, e poi continuò a parlare
nel microfono. «Non credo... Non credo proprio...
Sei fuori strada, hai perso di vista il centro della
questione, caro Carlo...»
Rino prese i soldi, risalì sul furgone e partì.
42.
Danilo Aprea era steso a letto al buio. Le braccia lungo
il corpo. Il viso puntato sul soffitto. Indossava un
pigiama verde a pallini azzurri che odorava di ammorbidente.
E anche le lenzuola erano fresche e ben
stirate. Allungò la mano dalla parte dove un tempo
dormiva Teresa. Era fredda e piatta. Rimpianse di
aver cambiato il materasso. Quello nuovo, a molle,
era rigido e indeformabile. Quello vecchio invece, di
lana, aveva preso le loro forme. Nella parte di Teresa
c'era una lunga conca a esse perché lei dormiva su un
fianco. La schiena rivolta verso di lui e la faccia verso
il muro.
Le cifre rosse della radiosveglia segnavano le
23,17.
Il sonno se n'era andato. Eppure davanti alla televisione
gli si chiudevano gli occhi... C'era un documentario
sulle migrazioni delle balene. I documentari
sulla natura erano sempre stati la passione di
Teresa. E fra tutti preferiva proprio quelli sulle balene
e i delfini. Amava i cetacei perché, diceva, avevano
fatto tanta fatica per abbandonare il mare e poi,
una volta arrivati sulla terra, avevano deciso di ritornarci.
Milioni di anni buttati per trasformarsi in
un animale a quattro zampe e milioni di anni per
tornare pesci. Danilo non capiva perché fosse così
bella quella storia. Teresa gli aveva spiegato: «Perché
quando si sbaglia, si deve saper fare marcia indietro».
E Danilo non aveva capito se parlava di loro
due.
Avrebbe potuto chiamarla e dirle che in tv c'era
quel documentario sulle balene.
Sentì la voce di sua moglie che lo ringraziava.
Non c'è di che... Ti va di vederci domani?
(Certo.)
Che ne dici se ci vediamo al Rouge et Noir? Ho un sacco
di novità da raccontarti.
(Alle quattro?)
Alle quattro.
Accese la luce sul comodino, s'infilò gli occhiali e
osservò il telefono...
No. Gliel'ho promesso.
... e poi prese Il codice Da Vinci di cui, in due anni,
aveva letto sì e no venti pagine.
Si sistemò e si lesse una pagina senza leggerla. Sollevò
la testa dal libro e fissò il muro.
Ma questa volta la chiamava per una cosa importante.
Poteva vedersi l'ultimo quarto d'ora del documentario.
C'erano pure le orche marine. Afferrò la
cornetta e compose il numero trattenendo il respiro.
Il telefono suonava e nessuno rispondeva.
Ancora tre squilli e abbasso.
Uno... due... e tre...
«Pronto! Chi è?» La voce assonnata di Teresa.
Rimase in silenzio.
«Pronto, chi è? Sei tu, Danilo?»
Represse l'impulso di rispondere e cominciò a passarsi
una mano sulle guance e sulla bocca.
«Danilo, lo so che sei tu. Non devi chiamare, lo
vuoi capire? Ho spento il cellulare, ma non posso
staccare il fisso. Lo sai che la madre di Piero non sta
bene. Ogni volta che chiami gli fai prendere un colpo.
Ci hai svegliato. Ti prego, smettila. Te lo chiedo per
favore.» Rimase un attimo in silenzio come se non
avesse più forza. Danilo la sentiva respirare pesante.
Ma poi continuò piatta: «Ti ho detto che ti chiamo io.
Se continui così non ti chiamo più. Te lo giuro».
Aveva riattaccato.
Danilo posò la cornetta, chiuse il libro, si tolse gli
occhiali, li poggiò sul comodino e spense la luce.
43.
Ramona era appena uscita di prigione. Indossava
una magliettina senza maniche, un paio di calzoncini
in jeans strettissimi e degli stivali da cowboy. Faceva
l'autostop e Bob il boscaiolo con la camicia a quadri
alla guida di un camioncino si fermava.
«Dove stai andando?» chiedeva a Ramona.
Quattro Formaggi, seduto in mutande davanti al
piccolo televisore, disse insieme alla biondina: «Dove
mi porta la fortuna. Tu cosa hai da offrirmi?».
Bob sorrise e la fece salire.
Quattro Formaggi allungò la mano e spinse il tasto
dello scorrimento veloce del videoregistratore.
Le immagini sullo schermo cominciarono a filare.
Il furgone arrivò alla casetta nel bosco. Saluti velocissimi.
Pranzo con il tacchino. E poi tutti nudi sul
tavolo a scopare. Buio. Mattina. Ramona si svegliava
nuda e usciva in cortile. Bob il boscaiolo spaccava
la legna. Ramona gli slacciava i pantaloni e glielo
prendeva in mano. Qui Quattro Formaggi spinse
PAUSE.
Quella era la sua scena preferita. L'aveva vista almeno
mille volte e la qualità delle immagini era pessima,
i colori virati tutti in rosso. Andò in cucina e
accese la luce.
C'era ancora il tanfo del cavolfiore bollito che si
era mangiato due giorni prima e i cui resti galleggiavano
violacei in una pentola poggiata sulla cucina a
gas. Sul tavolo c'erano la carcassa rinsecchita di un
pollo e una bottiglia vuota di Fanta.
Tirò fuori dal congelatore una decina di forme portaghiaccio.
Le mise sotto al rubinetto e fece cadere i
cubetti dentro un secchio che riempì con cinque dita
d'acqua. Poggiò il secchio sul tavolo, sollevò la manica
destra della vestaglia e c'infilò la mano.
Mille spilli gli penetrarono nella carne. Ma dopo
un po' l'acqua cominciò a sembrargli bollente.
Per esperienza sapeva che ci volevano almeno dieci
minuti.
Strinse i denti e aspettò.
Quando gli sembrò che il tempo fosse passato, tirò
fuori dal secchio la mano rossa e ghiacciata e l'asciugò
con uno strofinaccio.
Le diede un pizzico.
Niente.
Prese dal tavolo una forchetta e la spinse nel palmo.
Niente.
Tenendo il braccio destro in alto tornò davanti alla
televisione e spinse play.
Si sedette, si abbassò le mutande e con la mano irrigidita
dal gelo si afferrò l'uccello.
Sentì sulla pelle le dita fredde che glielo stringevano
forte.
Era proprio così quando te lo prendevano in mano.
Proprio così.
La mano gelata di Ramona cominciò ad andare su
e giù freneticamente.
Quattro Formaggi divaricò le gambe e aprì la bocca.
La testa gli cadde indietro e un piacere incandescente
gli esplose proprio alla base della nuca.
44.
Il centro sociale Peace Warrior era una fabbrica di
pellame che aveva chiuso i battenti agli inizi degli
anni Settanta, era stata occupata e spesso ci tenevano
concerti.
Sei capannoni affiancati uno all'altro ricoperti di
graffiti e circondati da un piazzale di ghiaia. Da dei
barili uscivano lingue di fuoco e un fumo nero. Si era
formato un nebbione in cui i fari delle automobili si
stemperavano in aloni dorati. Una musica assordante
proveniva da dentro.
Rino parcheggiò accanto a una fila di grossi chopper.
Scese dal furgone con una bottiglia di Johnny Walker
Etichetta Rossa, regalo della donna della Mercedes.
Si avviò con due fessure al posto degli occhi verso
l'ingresso.
Un sacco di ragazzotti, mascherati da punk, da
motociclisti americani, da metallari, si ammassavano
davanti al centro sociale.
Rino si fece largo tra la folla a spintoni. Qualcuno
provava a protestare, ma quando lo vedevano anche
i più grossi e cattivi si ammutolivano e lo lasciavano
passare. Nonostante l'alcol che gli appannava i sensi
Rino percepiva, come un animale selvaggio, la paura
che avevano di lui, e gli piaceva da matti. Era un po'
come avere sulla testa un cartello con scritto: aspetto
SOLO CHE QUALCUNO MI ROMPA IL CAZZO.
Ma quella sera non voleva fare a botte. E aveva fatto
male a bere tutto quel whisky con il malditesta che
si ritrovava.
Arrivò davanti al servizio d'ordine. Tre stronzi con
i capelli arrotolati in grossi tortiglioni lerci e fetenti
tenevano in mano delle scatole di scarpe piene di
banconote.
Uno, con le guance scavate e un paio di occhiali
da sole, gli chiese un'offerta a piacere per i musicisti.
Probabilmente, nella ressa, non si era reso conto
di chi aveva di fronte, e quando alzò lo sguardo e si
vide davanti quell'animale pelato, pieno di muscoli
e senza occhi, partorì un sorrisetto stitico e balbettò:
«No... Tu... Lo so... Vai... Vai...». E lo fece passare.
Dentro c'erano almeno trenta gradi e non si respirava.
Colpa di quel migliaio di corpi stipati nel locale
che fluttuavano come una marea. C'era una puzza
schifosa. Una miscela disgustosa di erba, sigarette,
sudore e intonaco umido.
In fondo alla sala un muro di casse acustiche sparava
musica sul pubblico. Il gruppo, dei puntini lontani
illuminati da spot rossi, suonava una merda tutta
chitarre distorte e batteria. Un povero disgraziato
si sgolava e saltava come se avesse un porcospino infilato
su per il culo. Sopra al palco pendeva una enorme
bandiera della pace.
Rino si immerse nella calca e arrivò al lato dello
stanzone, vicino al muro. Lì la pressione diminuiva e
c'era un po' di spazio per respirare. La luce dei
proiettori, appesi al soffitto, non arrivava fin lì e nella
penombra s'intravedevano sagome sedute a terra,
mozziconi rossi, teste che si baciavano, gruppetti che
parlavano.
Superando gambe e lattine di birra, Rino si portò a
una trentina di metri dal palco. La musica lì era così
forte che non riusciva neanche a sentirsi i pensieri.
Ora vedeva la band. Con quei capelli lunghi, le
zeppe sotto i piedi, le facce coperte di cerone erano la
brutta copia di un gruppo metallaro americano. E
non c'è niente di peggio che essere la brutta copia di
una brutta cosa.
Vide sotto il palco una ragazza alta e magra, con i
capelli corti biondi che ballava.
Sembra Irina.
Si appoggiò a un pilastro, si attaccò alla bottiglia e
chiuse gli occhi. Il mento gli rimbalzò sul petto. Tutto
ondeggiava. Si aggrappò al pilastro per non cadere.
Irina era alta e magrissima. Seni piccoli e gambe
strepitose. Le gambe e il collo erano le cose migliori
che possedeva. E, a parte il cervello, anche il resto
non era da buttare...
Quanto l'aveva amata! Si ricordava che se non la
vedeva per più di mezza giornata cominciava a fargli
male lo stomaco.
Ma perché era andato tutto a puttane?
"Voglio abortire... Sono troppo giovane, Rino. Io voglio
vivere. "
"Provaci e t'ammazzo."
E la sua mano che diventava un pugno.
Rino riaprì gli occhi.
Mi sia prendendo male. Basta! Me ne vado.
Tanto, nello stato in cui si trovava, rimorchiare era
impossibile. E gli era calata addosso una tristezza che
se non si muoveva avrebbe cominciato a frignare come
uno stronzo.
Con lo sguardo spento di un leone in gabbia si fece
un'altra sorsata di alcol e rimase a osservare la folla
che ondeggiava a braccia alzate esaltata da quella porcheria.
Ho sete.
Di fronte, dall'altra parte dello stanzone, c'era un
lungo tavolo dove vendevano birra e acqua minerale.
Aveva ancora soldi in tasca. Solo che attraversare
quel tappeto umano gli sembrava un'impresa impossibile.
Tra quelli che si accalcavano davanti al tavolo del
bar c'era la ragazza bionda. Ora riusciva a vederla
meglio.
È lei...
Rino riconobbe quel corpo magro da modella, quel
collo... E gli sembrò di ricordarsi anche di quel vestito
bianco che le cadeva come un tubo lungo il corpo e
le lasciava la schiena nuda.
Il cuore gli esplose in petto come se avesse visto
uno spettro. Gli uscì un rutto alcolico e annaspando
si poggiò stordito contro il pilastro, come se avesse ricevuto
un cazzotto in faccia. Le gambe non lo sostenevano.
Irina!
Non è possibile. Che ci fa qui?! È impazzita. Glielo avevo
detto che se fosse tornata l'avrei ammazzata.
Eppure era lei. Stessa altezza. Stessi capelli. Stesso
modo di muoversi.
Non poteva crederci. Neanche una volta in quei
dodici anni aveva preso in considerazione la possibilità
di rivederla.
Una mattina si era svegliato mezzo ubriaco. Cristiano
piangeva nella culla. Irina non c'era. Non c'era
più la sua roba. Se n'era andata.
E ora che ci fa qui? Si vuole prendere Cristiano. Se no
perché è venuta?
Un groppo gli chiuse la trachea. Si avviò a testa
bassa tra la folla puntando la chioma bionda dall'altra
parte della sala e facendosi largo a gomitate. La donna
ora era più vicina. Vedeva i lunghi capelli e le spalle
ossute. Era lei. Non era invecchiata di una virgola.
Ora doveva afferrarle un polso e sussurrarle in un
orecchio: "Sorpresina! Ti ho beccata". E trascinarla
fuori. Era a pochi metri.
Il cuore aveva preso a battergli con un ritmo forsennato.
Allungò una mano e in quel momento Irina
girò la testa e...
Cazzo!
... era un'altra.
Rino sentì una cosa strana che assomigliava alla
delusione. Come se...
Come se, niente.
Non era lei.
45.
Cristiano si risvegliò davanti alla tele. Un tipo tagliava
con un coltello una lattina di CocaCola.
Cristiano si alzò e passò davanti alla finestra. Il
furgone non c'era.
È uscito.
Pisciò nel lavello della cucina. Poi aprì il rubinetto
del lavandino e bevve.
Tornò nel soggiorno, si rimise davanti alla televisione
e cominciò a scanalare usando la mazza di scopa.
Su un canale regionale trovò Antonella, una rossa
slavata con il tatuaggio di un'aquila sulla spalla, che
si spogliava e parlava al telefono facendo un mucchio
di smorfie. Per decidere di sfilarsi il reggipetto ci
impiegò almeno dieci minuti. Di quel passo si sarebbe
levata le mutande all'alba. E poi con tutti quei numeri
e scritte non si vedeva un accidente.
Forse poteva farsi una sega.
Immaginò che la rossa entrasse in soggiorno. Indossava
una magliettina blu stretta che le arrivava
sopra l'ombelico e sotto era nuda. Ai piedi aveva
delle scarpe nere con la punta e tacchi alti. E tra le
gambe una strisciolina biondiccia. Si sedeva su una
sedia a gambe larghe e un raggio di sole, che filtrava
dalla finestra, le illuminava la fica spalancata come
un frutto di mare... E lei gli parlava tranquilla dei
compiti.
Nelle orecchie aveva la voce asmatica della tv che
gli ripeteva: «Dai chiamami... Chiamami... Che fai?
Che aspetti? Chiamami... Non essere timido. Chiamami».
Sotto la voce c'era Eros Ramazzotti che cantava
"sono ancora impantanato con te", poi entrò
una canzone tristissima di uno famoso, uno vecchio,
di cui non conosceva il nome e che diceva "quando
sei qui con me questa stanza non ha più pareti, ma
alberi, alberi infiniti, quando sei qui vicino a me...".
Alla radio Cristiano aveva sentito una francese che
cantava quella canzone con una voce così dolce e serena
che ti faceva venire voglia di piangere. E la cantava
normale, proprio come se stesse a casa sua e la
cantasse a suo figlio per addormentarlo. Forse era
stato proprio così. Il marito l'aveva registrata di nascosto
e poi le aveva detto che doveva farne un disco
e così era diventata famosa.
Non sapeva perché, ma quella canzone gli faceva
pensare a sua mamma. Se la vedeva seduta sul suo
letto con la chitarra in mano che gli cantava una canzone.
Aveva i capelli lisci e biondi e assomigliava a
una che su Rai Due faceva Una famiglia speciale.
Era andato da Disco Boom per comprarsi il cd, ma
quando si era trovato di fronte al commesso si era
vergognato di chiedergli se la conosceva. Non sapeva
il nome della cantante e nemmeno il titolo della canzone.
Ed era troppo una figura di merda cantargli
"quando sei qui con me"...
La voglia di farsi una sega gli era passata. Spense
la tv e se ne andò su a dormire.
46.
Rino Zena si svegliò nel buio sbracciandosi.
Stava precipitando da un aereo. Sotto c'era una distesa
nera di asfalto. Boccheggiando capì che era solo
un sogno e che era finito.
Era buio. In bocca aveva il sapore rancido del
whisky, la lingua gonfia come se gliel'avesse punta
una vespa e un malditesta mostruoso. Dal tanfo di sigarette
e di moquette umida si accorse di essere in camera
sua, steso sul materasso.
Allungò una mano cercando l'interruttore e toccò
un corpo steso accanto a lui. Sulle prime pensò fosse
Cristiano. Fino a qualche anno prima gli permetteva
di dormire con lui se faceva i brutti sogni.
Accese il lume e quando finalmente riuscì ad aprire
gli occhi vide la bionda del concerto. Quella che
aveva scambiato per Irina. Dormiva a braccia divaricate.
La bocca spalancata. Era nuda, a parte un reggipetto
abbassato da cui spuntavano due piccole tette
con i capezzoli scuri, grandi come una moneta da
cinquanta centesimi.
Guardandola meglio si accorse che non assomigliava
a Irina. Aveva la stessa pelle color del latte, le
gambe lunghe e i fianchi stretti e un bel collo. Ma la
faccia era diversa. Questa aveva il naso più lungo e
sottile e il mento sporgente. E doveva avere al massimo
venticinque anni.
Ma come è finita qua?
Rino cercò di tornare indietro, al concerto. Si ricordava
di aver attraversato la platea sicuro che fosse
Irina e di essersi accorto che non era lei.
Poi niente più.
Il buio.
Doveva essersela portata a casa.
Si toccò l'uccello. Era indolenzito.
Se l'era scopata.
Un'immagine confusa gli impressionò la mente.
Lui sopra e lei sotto. La teneva per i capelli.
Rino stava per alzarsi e andare a pisciare quando si
accorse che accanto al materasso, dalla parte della
bionda, c'era una siringa con tanto di ago e tutto l'armamentario
del perfetto tossico.
Rino osservò le braccia della ragazza. Aveva minuscoli
fori coagulati e intorno la pelle violacea.
Una drogata di merda. E si è fatta qui, mentre io dormivo,
con Cristiano di là.
Rino l'afferrò per il collo e la tirò su dal materasso
e poi le infilò una mano tra le chiappe come se volesse
penetrarla con le dita, ma invece la lanciò come
un sacco di patate e quella spalancò la bocca e
non ebbe nemmeno il tempo di svegliarsi, di urlare,
di fare niente, che rimbalzò contro l'anta dell'armadio
a muro e si ritrovò a terra, in un angolo della
stanza.
«Gesù!» urlò rinvenendo terrorizzata. Si strinse un
braccio intorno al collo e allungò l'altro in avanti cercando
di ripararsi, poi si mise in ginocchio e prese a
vagare a quattro zampe per la stanza.
«Vai via, merda! Ti sei drogata in casa mia!» Rino le
diede un calcio in culo che le sollevò le gambe. La
tossica si piegò in avanti e strusciò il grugno contro la
moquette e si ritrovò con il naso a due centimetri dalla
pistola poggiata a terra.
Rino in piedi, nudo e rabbioso come un demone, si
lanciò per levargliela, ma la tossica, svelta, afferrò
l'arma e la strinse con tutte e due le mani e si tirò indietro
verso un angolo. «Non ti avvicinare, bastardo
figlio di puttana! Ti ammazzo. Giuro che ti ammazzo.»
Ansimava con gli occhi sgranati. Poi sembrò focalizzare
dove si trovava: la bandiera con la svastica
sul muro, quello psicopatico tutto tatuato che la voleva
uccidere. «Nazista del cazzo, sei morto!» E gli
sparò.
«Stronza! È scarica.» Rino scosse la testa. Spalancò
il braccio destro e allargò le dita della mano e fece un
passo verso di lei, ma poggiò il piede sulla siringa e
l'ago gli si conficcò nella pianta. Soffocò un urlo e cominciò
a saltellare con il piede in mano.
La ragazza approfittò della situazione e puntò dritta
verso la porta della stanza.
Rino afferrò un portacenere di vetro colmo di cicche
e glielo tirò come fosse un frisbee. La colpì sulla
spalla. Lei si piegò guaendo, lasciò cadere la pistola e
riuscì a scappare fuori.
47.
Cristiano Zena fu risvegliato dalle grida forsennate
di una donna.
Papà si sta scopando una delle sue tro... Non riuscì a
finire il pensiero che qualcuno gli si precipitò nella
stanza urlando.
Anche Cristiano urlò. Accese la luce.
Era una donna nuda e terrorizzata che sbatteva
contro le pareti come una rondine entrata per sbaglio
dalla finestra.
Rino entrò nella stanza nudo. In mano stringeva i
vestiti e la borsa della donna e nell'altra degli stivali
neri a punta. Aveva due fessure al posto degli occhi e
dalla rabbia gli fremeva la mascella.
Ora l'ammazza, pensò Cristiano e si mise le mani
nei capelli.
Ma invece Rino le tirò in faccia i vestiti. «Stronza,
sparisci.»
La donna li raccolse e voleva scappare, ma aveva
strizza di passargli accanto.
Alla fine, con i panni stretti tra le braccia, si decise.
Corse verso la porta e si beccò un calcio in culo da Rino.
Incespicò e finì stesa in corridoio. Cristiano la
sentì scapicollarsi giù per le scale e sbattere la porta.
Suo padre si avvicinò alla finestra. «Ecco fatto.
Non tornerà più.»
Cristiano si rannicchiò sotto le coperte. «Cos'è successo?»
Rino si avvicinò al letto. «Niente. Solo una troia.
Mettiti a dormire. Buonanotte.» E se ne andò in camera
sua.
Parte seconda.
Sabato.
48.
Il sabato non c'era scuola e ci si poteva svegliare tardi.
Erano le undici e mezzo quando Cristiano Zena
tirò fuori la testa da sotto le coperte.
Verso l'una sarebbe arrivato Trecca. C'era appena il
tempo per lavarsi e fare colazione.
Aveva una fame da lupo. Si sarebbe divorato un
pollo con tutte le ossa. Al pensiero la pancia cominciò
a fargli un sacco di rumori.
Ma doveva accontentarsi di pane e marmellata.
Si stropicciò gli occhi e sbadigliando guardò dalla
finestra e gli venne da ridere a immaginare quella poveretta
che era uscita di casa tutta nuda con una pedata
stampata sulla chiappa.
Quel pomeriggio gli sarebbe piaciuto andare a vedere
le moto al concessionario. Poteva chiedere a
Quattro Formaggi di accompagnarlo.
Si vestì e scese di sotto. La televisione era su mtv.
Rino era in cucina ed era già pronto per l'incontro
con l'assistente sociale. Ogni volta che lo vedeva acchittato
come se dovesse andare a un matrimonio a
Cristiano veniva da ridere. Sembrava un manichino.
Camicia azzurra. Cravatta. Pantaloni blu. Scarpe basse
con i lacci.
«Guarda qua!» Suo padre gli indicò il ripiano di
formica.
C'era un foglio di carta oleata con sopra una decina
di fette di mortadella e su un piatto un bel tocco di
stracchino fresco e un filone di pane. Nell'aria c'era
odore di caffè. E dallo sportello del forno usciva un
bel calduccio.
Il panino con la mortadella e lo stracchino era secondo
Cristiano il miglior panino del mondo (seguito
da quello con la mozzarella e il prosciutto crudo) e
non c'era niente di più gustoso che mangiarselo la
mattina insieme al caffellatte.
Che cosa era successo? Non era Natale e nemmeno
il suo compleanno.
«Mi sono svegliato presto e ho fatto un po' di spesa.
Mangia.»
Cristiano non se lo fece ripetere due volte. Si sfamarono
in silenzio gustando ogni boccone. Rino tenendo
il panino lontano per paura di macchiarsi la camicia.
49.
Beppe Trecca guidava la sua Puma per le strade di
Varrano e ascoltava un cd con i suoni dei delfini
mixati con note di un pianoforte. Lo aveva comprato
in offerta all'autogrill perché sulla copertina diceva
che era musica studiata per fare yoga o rilassarsi dopo
un'intensa giornata di lavoro, ma i versi striduli di
quei pesci non lo rilassavano per niente, soprattutto
dopo una notte insonne.
Spense l'autoradio, si fermò al semaforo e aspettando
il verde aprì la ventiquattrore. Dentro c'era
una bottiglia di Ballantine's. Si guardò intorno e ci
si attaccò, ne bevve un sorso e la richiuse nella valigetta.
Ripartì e impostando la voce recitò: «Certi uomini
vedono le cose come sono e dicono: "Perché?". Io sogno
cose mai esistite e dico: "Perché no?"».
Quella frase di George Bernard Shaw che aveva
trovato nel Grande libro degli aforismi era perfetta per
dare inizio alla tavola rotonda su "I giovani come
motore di cambiamento della società" che aveva organizzato
quel pomeriggio per i volontari della parrocchia.
Non sapeva esattamente cosa c'entrasse con il tema
del seminario, ma gli suonava bene.
Beppe Trecca aveva trentacinque anni ed era nato
ad Ariccia, una cittadina sui castelli romani, e si era
trasferito a Varrano dopo aver vinto un concorso per
assistente sociale.
Era alto un metro e settanta. Negli ultimi giorni era
dimagrito, ed essendo già magro di costituzione con
quei due chili in meno si era fatto secco e appuntito
come un cavalluccio marino. Sulla testa gli cresceva
una palla di ricci biondastri che si ribellavano anche
ai gel più tenaci.
Indossava un completo blu, una camicia bianca e
una cravatta a righe. Aveva anche un paio di bretelle
gialle per reggere i pantaloni troppo larghi.
Si vestiva così da quando aveva letto un libro intitolato
Gesù come manager.
Era un saggio di un certo Bob Briner, un geniale
uomo d'affari statunitense che aveva studiato a lungo
i Vangeli per cercare di capire come Cristo, oltre a
essere il figlio di Nostro Signore, sia stato un eccezionale
manager. La costruzione di un progetto importante,
la scelta dei collaboratori (i dodici apostoli), il
rifiuto di ogni forma di corruzione e le buone relazioni
con il popolo di Palestina erano state tutte armi
vincenti per renderlo il più grande imprenditore di
tutti i tempi.
Da lì a Trecca era venuta l'idea che il suo lavoro
non dovesse essere affrontato con un approccio assistenziale
ma manageriale, e di conseguenza si vestiva
come un manager.
Si tolse gli occhiali da sole e si osservò le occhiaie
nello specchietto. Sembrava un procione.
Sapeva che le donne si mettevano una roba, una
crema per nasconderle, forse era il caso di comprarla.
Ida non doveva vederlo in quelle condizioni. Anche
se era certo che quel pomeriggio alla tavola rotonda
non sarebbe venuta, dopo quello che era successo
tra loro.
Ida Montanari era la moglie di Mario Lo Vino, il
direttore della asl di Varrano e forse il migliore amico
di Beppe Trecca.
Forse, perché dopo quello che aveva fatto a quel disgraziato
Beppe non era certo di potersi definire ancora
tale.
Si era innamorato di sua moglie. Ma innamorato
non era la parola giusta, era completamente uscito di
testa per quella donna.
Non era da lui. Lui era uno che credeva a valori come
lealtà, correttezza, amicizia.
Eppure non era colpa sua se nel triste mondo del
volontariato Ida, ventisette anni, spiccava come un
uccello del paradiso in un pollaio infestato dall'aviaria.
Tutto era nato da un'innocente amicizia. Si erano
conosciuti grazie a Mario. Quando era arrivato da
Ariccia depresso e demotivato, Beppe era stato accolto
a casa Lo Vino come un amico. Aveva scoperto il
piacere di stare in famiglia, di giocare a carte la sera
bevendo un bicchiere di vino. Era diventato quasi
uno zio per Michele e Daria, i loro figli. L'estate prima
era persino andato in vacanza in montagna con
loro. E lì aveva scoperto l'anima di Ida. Una donna
che lo faceva stare bene e gli mostrava la vita nei suoi
lati migliori. E soprattutto lo faceva sentire leggero.
C'erano giornate in cui non smettevano mai di ridere.
Ed era stata lei a chiedergli di aiutarla a coordinare
il gruppo dei volontari della parrocchia.
Tutto, insomma, andava per il meglio. Fino a quando,
circa tre giorni prima, Dio e Satana in persona si
erano messi d'accordo per complottare contro di lui.
Quella sera, senza una ragione precisa, la riunione
con i disagiati era saltata e Beppe si era ritrovato solo
con Ida nella sala video-internet. Pure padre Marcello,
che non si scrostava dalla parrocchia da quindici
anni, era fuori per una pizzata con il gruppo alcolisti.
E qui era intervenuto il Maligno, che si era impossessato
della sua lingua e delle sue mandibole e
aveva parlato al posto suo. «Ida, ho un video molto
interessante sulle opere di volontariato in Etiopia.
Te lo vorrei far vedere. Vale veramente la pena. I ragazzi,
laggiù, mi sembra stiano facendo un ottimo
lavoro.»
Beppe Trecca, fermo al semaforo, prese a darsi pugni
sulla fronte. «Davanti» pugno «al» pugno «video»
pugno «dei bambini africani. Vergognati!»
Dovette smettere perché accanto a lui due ragazzi
su uno scooterone lo osservavano sconcertati.
Sorrise imbarazzato, abbassò il finestrino e disse:
«Ragazzi... Non è niente... Pensieri... Solo pensieri...».
Ida aveva dato un'occhiata all'orologio e aveva
sorriso. «Mario e i bambini sono a cena da nonna
Eva. Perché no?»
«Maledetta nonnina!» E Beppe s'infilò sulla statale
sgommando.
Beppe aveva inserito la cassetta nel videoregistratore
che di solito non funzionava mai, ma quella sera,
chissà perché, funzionava perfettamente ed era partita
la visione.
Da una parte loro due, uno accanto all'altro, nel
buio, seduti su un divano di finta pelle. Dall'altra i
bambini con gli stomaci dilatati dalla fame e dalla
dissenteria.
Lei era seduta composta con le gambe accavallate e
le braccia incrociate, ma a un tratto si era tirata indietro
e aveva poggiato, senza darci peso, la mano a
qualche centimetro dalla coscia di lui. E lui, continuando
a fissare la televisione, lentamente, impercettibilmente,
ma ostinato come le radici di un fico selvatico,
aveva divaricato un po' le gambe fino a sentire le
nocche della mano che strusciavano contro il tessuto
dei pantaloni.
Si era girato e con la determinazione di un kamikaze
islamico l'aveva baciata.
Dimenticandosi di Mario Lo Vino, degli innocenti
Michele e Daria, dimenticandosi di tutte le serate in
cui era stato sfamato, accolto, ospitato come un amico,
di più, un fratello.
E lei? E lei che aveva fatto? Si era fatta baciare. Almeno
sulle prime. Beppe sentiva ancora impresse
sulle labbra le labbra di lei. Il sapore della gomma allo
xilitolo. Quell'effimero eppure innegabile contatto
con la lingua morbida e liquida.
Ma poi Ida si era scostata, lo aveva respinto e gli
aveva detto paonazza: «Ma sei impazzito?! Che stai
facendo?!». E se n'era andata via scappando stizzita
come una donnina di un romanzo d'appendice.
Il giorno dopo non si era fatta vedere in parrocchia,
e neppure quello successivo.
E in questo tempo Beppe aveva patito disperatamente,
come non gli era mai capitato in tutta la vita.
Ed erano dolori fisici. Soprattutto all'intestino. Gli
era anche tornata la colite spastica.
Aveva scoperto di essersi nascosto la passione per
Ida come se fosse una malattia venerea.
Aveva pensato di sfogarsi con sua cugina Luisa. Di
chiederle aiuto. Ma si vergognava troppo. E quindi,
solo, confuso, senza nemmeno il conforto di una voce
amica aveva sopportato in silenzio sperando che
quella malattia passasse da sola, che il suo organismo
si immunizzasse a quel virus diabolico.
Non c'era riuscito. Aveva smesso di dormire e aveva
cominciato a bere per cercare di dimenticare. Impossibile.
Si era maledetto per essersi comportato così,
ma aveva anche continuato a dirsi che il contatto
di lingua c'era stato. Era così. Indiscutibile. Vero come
era vero che lui era nato ad Ariccia. Se lei veramente
non avesse voluto non gli avrebbe permesso
di infilarle la lingua in bocca. Giusto?
Alle cinque e quarantatre di quella mattina le aveva
mandato un sms. Il testo a cui aveva pensato tutta
una notte era:
PERDONAMI. ©
E basta. Semplice. Preciso. Lei, chiaramente, non
aveva risposto.
L'assistente sociale si fermò davanti a casa di Rino
Zena, prese la ventiquattrore, scese dalla Puma.
Adesso basta però, i problemi personali non devono entrare
nel lavoro, si disse saltellando tra le pozzanghere
per non sporcarsi le scarpe, e si stava per attaccare al
campanello quando gli vibrò due volte il telefonino.
Il corpo di Trecca fu attraversato da una scossa, come
se gli avessero poggiato le piastre di un elettrostimolatore
sul cuore.
S'irrigidì e tirò fuori il cellulare dalla tasca in apnea.
Accanto al disegno della bustina c'era scritto ida.
Chiuse gli occhi, spinse il tasto e li riaprì.
DI COSA? È STATO BELLISSIMO.
TI VA DI VEDERCI DOMANI?
ORGANIZZA TU. ©
Che zoccola! Allora le era piaciuto!
Strinse i denti, si piegò sulle ginocchia e sollevando
i pugni disse: «E vai!!!».
E suonò il campanello.
50.
«Avete visto che tempaccio, ragazzi? Allora, che si dice?»
Beppe Trecca si sedette accanto a Rino e si poggiò
la valigetta sulle gambe e si sfregò le mani tutto
contento.
«Tutto bene. Sto vincendo» rispose Cristiano lanciando
i dadi e osservandolo.
Era strano. Era eccitato, eppure dall'ultima volta
che era venuto sembrava smagrito, come se avesse
avuto una malattia, e poi aveva gli occhi infossati nel
cranio e cerchiati come se non avesse dormito.
«Ottimo! Ottimo! Vi piace proprio il Monopoli, allora?»
Da quando Beppe li aveva rimproverati perché
non giocavano abbastanza insieme (il gioco favorisce
la costruzione di un rapporto padre-figlio più stretto
e confidenziale) tutte le volte che veniva a trovarli facevano
questa commedia.
Anche Rino tirò i dadi e fece un sorrisino beffardo.
«Sì, un sacco. È bello maneggiare tutti questi soldi.»
Cristiano ogni volta rimaneva scioccato da come
suo padre riuscisse a rimanere calmo durante le
visite di Trecca. Era irriconoscibile. Lo odiava, lo avrebbe
volentieri investito con la macchina, eppure
s'incollava sulle labbra un sorrisetto falso e rispondeva
con la gentilezza di un lord. Che sforzo sovrumano
doveva fare per non esplodere e non afferrarlo
per la cravatta e rompergli il grugno a capocciate...
Dopo un po' però Cristiano si preoccupava perché lo
vedeva cianotico, che ingoiava aria e stringeva il
bordo del tavolo come se volesse spezzarlo, allora
doveva inventarsi il modo di mandare via l'assistente
sociale.
Beppe aprì la valigetta e tirò fuori dei fogli stampati.
«Rino, qui c'è un questionario che vorrei che tu
riempissi.»
«Che cos'è?» fece sospettoso Rino.
«Il dramma con l'alcol è che chi ha problemi con
questa piaga sociale lo nega. Viene naturale all'alcolista
mentire e fare di tutto per nasconderlo, anche a
se stesso. E lo sai perché, Rino? È a causa del marchio
d'infamia con il quale vengono etichettati i problemi
relativi all'abuso di sostanze alcoliche. È questo
che contribuisce alla negazione. È inutile che ti
ripeta i gravi danni che l'alcol arreca al tuo organismo.
E quali conseguenze negative può avere questa
abitudine sui rapporti familiari, lavorativi e sociali.»
Cristiano era nervoso. Quello lì cercava solo un'occasione
per metterlo in istituto. E dividerlo da suo
padre. Due giorni prima lo aveva incrociato per il
corso e Trecca lo aveva salutato appena, come se nascondesse
qualche cosa. E adesso aveva tirato fuori
quel questionario. Sembrava tramare qualcosa.
L'assistente sociale sorrise. «Rino, ascoltami, sto
seriamente valutando la possibilità che tu partecipi
a un seminario tenuto da me sui danni dell'alcolismo
nella società, quindi compila con grande sincerità
questo questionario. So che bevi pesante, non
devi nascondermelo. Anzi, oggi dobbiamo fare una
cosa. Un gesto simbolico davanti a tuo figlio.» Aprì
la ventiquattrore e tirò fuori una bottiglia di
Ballantine's mezza vuota. «Cristiano, porta due bicchieri,
per favore.»
Cristiano corse in cucina e tornò con i bicchieri.
«Grazie.» Beppe versò in un bicchiere due dita e lo
diede a Rino, poi riempì l'altro per una buona metà e
lo tenne per sé. «Questo è l'ultimo bicchiere di superalcolico
che bevi fino al nostro prossimo incontro. Va
bene? È una promessa. Capito?»
«D'accordo» rispose Rino come un soldatino.
L'assistente sociale sollevò il bicchiere al cielo e lo
buttò giù tutto in un sorso. Rino lo imitò.
«Aaahhh...» Trecca storse la bocca e se la pulì con il
dorso della mano. Poi si aggiustò la cravatta. «Ragazzi,
posso andare un istante in bagno?»
«Certo» fecero sollevati Cristiano e Rino.
L'assistente sociale si chiuse nel gabinetto.
«Ma cos'ha? L'hai visto? Si è fatto fuori un bicchiere
di whisky...» sussurrò Rino.
Cristiano sollevò le spalle. «Ma che ne so...»
51.
Beppe Trecca si chiuse a chiave nel gabinetto e si lavò
la faccia.
Aveva parlato con gli Zena senza nemmeno capire
quello che stava dicendo. Non riusciva che a pensare
alle labbra scure come amarene mature di Ida, a quella
v tra i seni che lasciava sempre apparire dai vestitini
e a quegli occhioni da cerbiatta che la facevano
assomigliare a Meg Ryan. E soprattutto a dove cavolo
si potevano incontrare.
Si guardò allo specchio e scosse la testa.
Sono troppo pallido, forse mi devo fare una lampada.
A casa sua non si poteva. Troppo rischioso. In un
hotel, nemmeno. Troppo squallido. Ci voleva un luogo
speciale, romantico...
Fu colto da un'illuminazione.
Certo! Il camper del marito di mia cugina.
Tirò fuori il cellulare e scrisse rapido:
perfetto!
ci si vede domani intorno alle 22
al campeggio bahamas.
Stava per inviare l'sms quando ci ripensò e trepidando
aggiunse:
ti amo. smile.
52.
Quel pomeriggio Cristiano Zena prese l'autobus e
andò a farsi un giretto.
Non aveva programmi e in tasca aveva tre euro in
tutto, ma non esisteva rimanere il sabato a casa.
Dopo mangiato aveva provato a telefonare a Quattro
Formaggi per chiedergli se aveva voglia di andare
a vedere le moto, ma il cellulare era spento come al
solito.
Probabilmente era in chiesa.
Quando le porte dell'autobus si spalancarono sbuffando
e Cristiano scese sul marciapiede erano appena
le quattro, ma la notte già calava sulla pianura. Tra
cielo e terra rimaneva solo una strisciolina color salmone.
Da est arrivava un vento tagliente e i cipressi
piantati lungo la mezzeria della statale erano tutti piegati
da una parte. Anche i lunghi striscioni pubblicitari
appesi sotto il ponte pedonale sbattevano come vele
lasche.
Di fronte a Cristiano si stendeva un chilometro e
mezzo di magazzini, rivendite all'ingrosso e al dettaglio,
outlet, autolavaggi fai da te, stock-house, luminarie
colorate, insegne che pulsavano offerte e ribassi.
C'era pure una moschea.
A sinistra, dietro la palazzina della Cattedrale
della Scarpa, tra nuvole di fumo prodotte dai venditori
ambulanti di salsicce e porchetta, si levavano
le imponenti mura del centro commerciale I Quattro
Camini. Un po' più in là il cubo di vetro di
Mediastore, e dall'altra parte della strada il grande
concessionario Opel-General Motors con le file di
macchine nuove e il grande spazio dell'automercato
con i festoni delle superofferte. E ancora il parcheggio
della sala Multiplex accanto alla casetta del
McDonald's.
Al centro della rotonda, su cui s'immettevano altre
due strade lunghe e dritte, il vecchio scultore Callisto
Arabuia aveva eretto la sua ultima opera, una enorme
scultura di bronzo a forma di pandoro che girava
e spruzzava pisciatine d'acqua in una vasca.
Cristiano s'incamminò verso il centro commerciale.
Le quattro torri, agli angoli della costruzione, si
vedevano, nei giorni buoni, da chilometri di distanza.
Si diceva che superassero di mezzo metro il campanile
del duomo di piazza San Marco a Venezia. Per
un euro si poteva prendere un ascensore che ti portava
in cima alla torre numero due. E da lassù si vedeva
il Forgese che serpeggiava verso il mare e tutte le
minuscole frazioni e i paesini che macchiavano la
pianura come scarlattina.
Il centro commerciale era un immenso parallelepipedo,
più grande di un hangar aereo, azzurro e senza
finestre, costruito a metà degli anni Novanta.
Quel giorno, in onore del mese degli sconti, in cima
alle torri avevano attaccato dei palloni aerostatici
a spicchi gialli e blu su cui era scritto: i grandi affari
si fanno ai quattro camini. Tutto intorno al fabbricato
si stendeva una spianata di asfalto cosparsa
di migliaia di macchine.
Ci venivano da lontano, ai Quattro Camini. Era il
più grande centro commerciale nel raggio di un centinaio
di chilometri. Centomila metri quadrati, divisi
in tre piani e due mezzanini. Con un parcheggio
sotterraneo che ospitava fino a tremila vetture. Il
pianterreno era tutto destinato all'ipermarket Coral
Reef dove si facevano i grandi affari e potevi portarti
a casa una cassetta di birra a meno di dieci euro.
Tutto il resto era occupato dai negozi. Potevi trovare
tutto ciò che desideravi: lo sportello bancario del
Monte dei Paschi, punti vendita Vodafone e Tim, un
ufficio postale, la nursery, i magazzini di vestiti e
scarpe, tre parrucchieri, quattro pizzerie, una vineria,
un ristorante cinese, un pub irlandese, una sala
giochi, un negozio di animali, una palestra, un centro
di analisi mediche e un solarium. Mancava solo
una libreria.
Al centro del primo piano c'era un grande spiazzo
ovale con una fontana a forma di barca e una scalinata
di marmo che portava al secondo piano. Nelle intenzioni
dell'architetto riproduceva in maniera surreale
piazza di Spagna a Roma.
Cristiano attraversò il parcheggio, ingobbito per
difendersi dal vento gelato. C'era un gran casino essendo
il primo giorno di un lungo mese di offerte
speciali.
Una fila infinita di macchine era ferma di fronte alle
sbarre automatiche del parcheggio e un fiume
umano s'imbottigliava agli ingressi. Famiglie uscivano
con i carrelli strapieni di roba, le mamme con i
bambini infagottati come astronauti nei passeggini,
bande di adolescenti sui motorini che scorrazzavano
tra le auto, gente che si litigava i posti, pullman che
vomitavano comitive di vecchi. In un angolo del parcheggio
avevano montato anche un piccolo parco divertimenti
ambulante con tanto di autoscontri e tiro
al bersaglio.
La musica arrivava forte e distorta dagli altoparlanti
alle porte d'ingresso.
Cristiano guardò dietro la fila dei cassonetti dove
di solito Fabiana Ponticelli ed Esmeralda Guerra durante
l'estate stavano con il loro gruppo e d'inverno
parcheggiavano i motorini.
Lo Scarabeo con lo smile era lì, legato alla moto di
Tekken.
Il cuore cominciò a correre.
Osservò la motocicletta. Gli dispiaceva ammetterlo,
ma quel figlio di puttana aveva proprio un gran bel
mezzo. Gli aveva cambiato le ruote e ci aveva messo
quelle da pista, per fare le pieghe nel traffico. Notò
anche che la marmitta non era quella regolamentare.
Chissà quanti soldi doveva aver speso per modificarla.
Ma quello non era un problema. Il padre di Tekken
era un pezzo grosso della Biolumex, la fabbrica di
lampadine che stava vicino a San Rocco, e quindi sin
da piccolino ogni stronzata gliela esaudivano.
Cristiano non poté fare a meno di sentire l'invidia
bruciargli le viscere. Ma poi si disse che i figli di papà
nascono con la pappa pronta e quando arrivano i
cazzi frignano come femmine.
Se per esempio arriva un terremoto e gli porta via tutto,
Tekken non saprà fare niente, sarà disperato per essere povero
e s'impiccherà al primo albero che trova. Io invece non
perdo niente.
Sarebbe bello se ci fosse un terremoto.
E poi si incoraggiò dicendosi che i grandi hanno
sempre dovuto farsi largo nella merda da soli. Vedi
Eminem o Hitler o Christian Vieri.
S'infilò nella fiumana che entrava nel centro commerciale.
Dentro faceva molto caldo. Ai lati c'erano sfilze di
ragazze in minigonna e giacchetta che ti riempivano
di fogli promozionali di tariffe telefoniche e sconti
per le palestre e i solarium. Intorno a un tipo che tagliava
carote e zucchine con un affare di plastica c'era
un capannello di persone.
Come sempre Cristiano si fermò davanti a
Cellulandia, il negozio di telefonini.
Quanto ne desiderava uno.
Probabilmente lui era l'unico in tutta la scuola a
non averlo.
«E non sei fiero di essere diverso dagli altri?» Così
gli aveva risposto suo padre quando glielo aveva fatto
notare.
«No. Non sono fiero. Lo voglio anch'io.»
Passò davanti a un negozio di elettronica che esponeva
vantaggiosissime offerte su monitor e pc. Ma ci
rimase poco. Era spinto da spalle, pance, era assordato
da labbra truccate che gli urlavano nei timpani, avvolto
da nubi di profumo e dopobarba, abbagliato da
capelli tinti.
Che diavolo era venuto a fare in quel casino?
Raggiunse il Pub dell'Orso Elettrico e ci guardò
dentro per vedere se per caso c'era Danilo.
A malapena rischiarati da luci soffuse, i tavolini
erano circondati da figure scure. Anche il bancone
era gremito da gente seduta sugli sgabelli. Tre monitor
al plasma trasmettevano gli incontri di wrestling.
La musica era assordante. E ogni volta che qualcuno
dava una mancia, i camerieri colpivano una campana.
Di Danilo non c'era traccia.
Cristiano uscì e con i tre euro che aveva in tasca si
comprò una fetta di pizza al salame e funghi. Decise
che si sarebbe fatto un giro veloce senza fermarsi a
guardare le vetrine.
Mentre la massa che si spostava compatta attraverso
la galleria B lo trascinava, per poco non sbatté contro
Fabiana Ponticelli.
La scartò per un pelo. Sentì Esmeralda che diceva:
«Di qua! Di qua!».
Due folletti colorati che schizzavano tra la folla
cacciando urletti di gioia. Saltavano. Si prendevano e
davano spinte a chi gli si parava davanti. Si beccavano
un sacco d'insulti, ma nemmeno li sentivano. Come
possedute da un demone cretino.
Le inseguì cercando di non farsi scorgere e stando
attento a non perderle mai di vista. Fabiana, all'improvviso,
indicò un negozio di vestiti e sghignazzando
lei ed Esmeralda ci si buttarono dentro mano nella
mano. Cristiano si avvicinò alla vetrina.
Tiravano fuori dai ripiani gonne, golf e magliette,
gli davano appena un'occhiata e poi ricacciavano i
vestiti appallottolati tra le pile ordinate. Ma ogni tanto
si fermavano, osservavano i muri e il soffitto.
Cristiano non capiva, poi ebbe un'illuminazione.
Le telecamere.
Quando non erano coperte dal raggio delle telecamere
una provocava un gran casino attirando l'attenzione
e l'altra infilava veloce la roba nella borsa.
Vide che Fabiana entrava con la borsa in un camerino
mentre Esmeralda faceva il palo di fronte alla
tenda fingendo di provarsi un cappello, e quando arrivò
una commessa inferocita per il disordine che
avevano combinato sfoderò un sorriso falsissimo e
iniziò a chiederle mille cose portandola verso uno
scaffale lontano.
Cristiano poteva mettere una mano sul fuoco che
Fabiana, chiusa nello spogliatoio, con un tronchese
stava dandosi da fare a staccare gli antifurto dai
vestiti.
Quando riapparve, fece un segno a Esmeralda e
tranquille, con la borsa gonfia, uscirono dal negozio e
si dissolsero in mezzo alla folla.
Erano brave. Cazzo, se erano brave.
Lui invece era una frana a rubare. Sbagliava tutto.
Ci metteva duemila anni a decidersi e le commesse
non lo beccavano solo perché erano rimbambite. Ma
finiva sempre per prendere cose inutili. Un paio di
Adidas che gli andavano strette. Un'altra volta un
joypad della PlayStation che non serviva a un accidente
non avendo la consolle.
L'esperienza peggiore era stata quando aveva deciso
di rubarsi Fragola, il furetto del negozio di animali.
Se n'era innamorato al primo sguardo, di quella
creatura pelosa. Aveva una faccia da topolino ma le
orecchie grandi da orsacchiotto e due gocce d'inchiostro
al posto degli occhi. Una pelliccia color caffellatte
e una coda a pennello. Dormicchiava in una grande
gabbia, spaparanzato su una specie di amaca. Su
un cartellino era scritto: addomesticato. E Cristiano,
senza farsi vedere dalla proprietaria, aveva aperto
la gabbia e aveva infilato una mano. Fragola si era
lasciato carezzare la pancia e con le manine gli aveva
acchiappato il pollice e glielo aveva leccato con la lingua
rasposa.
Per giorni era andato al negozio a chiedere informazioni
su quanto costava (una cifra impossibile!),
cosa mangiava, dove cagava, se era buono, se puzzava,
e alla fine la proprietaria esasperata gli aveva detto:
«O te lo compri o sparisci».
Cristiano, offeso, aveva puntato la porta, ma prima
di uscire aveva visto che la strega stava vendendo
una confezione di croccantini a un cliente. Aveva
aperto la gabbia, afferrato Fragola per il collo e senza
starci troppo a pensare se l'era infilato nei pantaloni
ed era scappato via.
Il furetto, dopo qualche secondo, aveva cominciato
ad agitarsi, a torcersi e a graffiare come se lo volessero
uccidere.
Cristiano intanto cercava di camminare disinvolto
lungo il mezzanino ma l'animale gli scorticava le cosce.
A un certo punto non ce l'aveva fatta proprio
più e aveva cominciato a urlare e a zompare come
un invasato tra la folla. Si era cacciato una mano nei
pantaloni mentre alle spalle aveva sentito una voce
urlare: «Al ladro! Al ladro! Mi ha rubato il furetto!
Fermatelo!».
La proprietaria gli correva dietro tra le facce sbigottite.
Cristiano aveva preso a trottare. Poi la testolina
del furetto era spuntata dal fondo di una gamba
dei pantaloni, Cristiano aveva cominciato a scalciare
e l'animaletto era schizzato fuori e dopo un
volo di un paio di metri era scappato in direzione
del negozio della Tim mentre lui si precipitava verso
l'uscita.
Dopo quella terribile esperienza si era giurato che
non avrebbe mai più rubato niente nei negozi.
Ma intanto quelle due dov'erano finite?
Proseguì per la galleria cercandole nei negozi di
vestiti e di scarpe.
Piazza di Spagna era affollata di gente che si riposava
ai tavolini del bar La Luna nel Pozzo. C'era un
pagliaccio con il cilindro e il bastone che per tre euro
si faceva fotografare insieme ai bambini. E una bionda
in bikini stesa su un lettino che aveva appiccicati
dei cerotti e dei fili colorati che le facevano vibrare le
chiappe.
Eccole là.
Stavano sedute sulle scale tutte prese a provarsi i
vestiti appena rubati.
Cristiano avrebbe voluto prendere e andarsene e invece,
in apnea, continuò a passargli davanti, sbirciandole
senza che loro si accorgessero minimamente di
lui. Faceva finta di avere un appuntamento con qualcuno,
ogni tanto dava un'occhiata all'orologio in alto.
Fra trenta secondi me ne vado.
Passati i trenta decise di aspettarne altri venti. E fece
bene, perché allo scoccare del diciottesimo secondo
gli sembrò che Esmeralda lo stesse chiamando.
La musica del pagliaccio era talmente alta che non
riusciva a capire se Esmeralda ce l'avesse con lui.
Poi le due gli fecero segno di avvicinarsi.
Cristiano si prese tutto il tempo per fare quei quattro
gradini. Esmeralda allungò una mano e lo fece sedere.
«Come va?»
A Cristiano la saliva era sparita dalla bocca e fece
fatica a dire: «Bene».
Esmeralda s'infilò una magliettina viola sopra la
camicia. «Come mi sta?»
«Bene.»
«Solo bene?», e poi all'amica: «Lo vedi? Mi sta male»,
se la tolse e la buttò a terra.
Fabiana lo osservò un istante con i suoi occhi chiari.
«Che fai qua?»
«Niente...»
«Aspetti qualcuno?»
«No...» Poi si ricordò della commedia che aveva fatto.
Sollevò le spalle. «Sì... Ma sono arrivato in ritardo.»
Esmeralda tirò fuori dalla borsa una felpa con sopra
la S di Superman. «La fidanzata?»
Cristiano disse un «No!» troppo precipitoso.
«Guarda che non c'è niente di male ad avere una
fidanzata. Hai paura delle ragazze?»
«Perché dovrei?» Con quelle due si sentiva sempre
sotto processo quando parlava. Aggiunse, per essere
più chiaro: «Non ho nessuna fidanzata e basta».
«E Angela Baroni?»
«Angela Baroni?»
«Fa una testa così a tutti dicendo che è cotta di te...»
«Ma tu non la guardi nemmeno, poverina. Sei un
duro» lo sfottè Fabiana.
Angela Baroni era una della terza C. Una piccoletta
con dei lunghi capelli neri. Non si era mai accorto di
piacerle.
«Non mi piace» sussurrò imbarazzato.
«E chi ti piace?»
Cristiano cominciò a infilarsi le unghie nel braccio.
«Nessuna.»
Esmeralda gli poggiò la testa sulla spalla. S'irrigidì
tutto come se gli avessero infilato un bastone su
per il culo. Sentì un odore buono di shampoo che gli
fece girare la testa, lei gli miagolò in un orecchio:
«Non è possibile. Sei il più bono della scuola e a te
non piace nessuna...» e gli diede un bacio impalpabile
sul collo.
E, sebbene fosse certo che lei lo stava prendendo
per il culo, fu una sensazione vertiginosa, sconnessa,
che lo accecò per un istante lunghissimo e lo
lasciò senza fiato e con la pelle d'oca su tutta la
schiena.
«Che stronza! Tu lo baci e io no?» E Fabiana gli
stampò un bacio sulla bocca. Cristiano ebbe una seconda
scossa, forse anche più violenta della prima,
come se gli avessero dato una coltellata in petto. Un
verso indefinibile gli sfuggì dalla gola.
Era stato troppo breve il contatto con quella carne
morbida. Bellissimo e doloroso. S'impedì di toccarsi
la bocca con le dita, per scoprire se un po' di quell'umidiccio
ci fosse rimasto appiccicato sopra.
«E noi?»
«Non ti piacciamo?»
Esmeralda gli cacciò in testa un colbacco di peluche
verde fosforescente. Poi cominciò a ridere. «Ti sta benissimo.»
Fabiana tirò fuori il rossetto e glielo passò sulle
labbra.
Cristiano in quel momento era così confuso e scombussolato
che da quelle due si sarebbe anche fatto fare
uno shampoo.
Esmeralda prese dalla borsa uno specchietto. «Guardati!»
Cristiano si osservò appena e cominciò a pulirsi la
bocca.
«Andiamo in sala giochi?» disse Esmeralda all'amica,
e si avviò verso la galleria.
Fabiana incrociò le braccia e fece il broncio. «Uffa!
Lo sai che sei noioso? Perché non ridi mai? Mi sa che
hai preso da tuo padre.»
Cristiano s'innervosì. Non amava parlare con la
gente di suo padre. «Perché?»
«Be', sembra così cattivo, tutto rapato con quei tatuaggi...
Anzi, mi dici una cosa? Dove se li è fatti?»
«Cosa?»
«I tatuaggi.»
«Non lo so... Dai ta tua tori.» Cristiano non lo sapeva
veramente, la gran parte Rino se li era fatti quando
lui era troppo piccolo per ricordarselo e quelli più
recenti da qualche parte vicino a Murelle.
«Chiaro. Ma dove?»
«Boh. Ma perché lo vuoi sapere?»
«Vorrei farmene uno.»
«Dove?»
Lei sorrise e fece segno di no con il capo. «Non te
lo dico.»
«Dai, dove?»
«In un posto segreto.»
«Dai, dimmelo.»
«E tu dimmi dove se li è fatti tatuare tuo padre.»
Lui si mise la mano sul cuore. «Non lo so. Te lo
giuro.»
«Guarda che glielo posso domandare io, a tuo padre.
Credi che abbia paura? Sai quanto ci metto?»
Cristiano alzò le spalle. «E domandaglielo.»
Fabiana si alzò in piedi e lo prese per una mano e
lo tirò su. «Dai, vieni.»
La sala giochi era piena di ragazzi. Ce n'era qualcuno
anche della scuola, ma la maggior parte erano
più grandi.
Era uno stanzone enorme, c'era una pista da bowling
con cinque corsie, un gioco in cui dovevi far canestro
e un tabellone segnava i centri, delle gru che raccoglievano
peluche e centinaia di videogiochi. La
musica era assordante. Ed era pieno di filippini, di cinesi,
di bambini che saltavano su una pedana cercando
di ballare a ritmo seguendo le indicazioni del videogioco.
In fondo c'era una seconda sala più buia e
meno affollata, dove si giocava a biliardo e dove c'erano
sfilze di macchinette del poker. Una decina di
tavoli verdi con le luci basse sopra e intorno figure
nere armate di stecche.
Cristiano lì non era entrato mai. Primo perché c'era
un cartello che diceva che ci potevano andare solo i
maggiorenni, secondo perché non conosceva nessuno
e terzo perché non sapeva giocare a biliardo.
Fabiana corse nella sala fregandosene del divieto e
Cristiano la seguì, ma rimase sulla porta quando vide
che c'era Tekken.
Tekken stava giocando un doppio ed Esmeralda lo
infastidiva. Dava i colpi alla stecca quando lui tirava,
gli faceva il solletico e gli si strusciava contro. Lui faceva
finta d'incazzarsi, ma si vedeva lontano un chilometro
che era contento.
Stava insieme ad altri due. Memmo, uno con un
pizzetto tutto ricamato e la coda di cavallo, e Nespola,
che era convinto di assomigliare a Robbie Williams
ma non era vero.
A quel punto Esmeralda salì sul tavolo da biliardo
e Tekken le tirò una palla tra le cosce, tra gli sghignazzi
di tutti quanti.
Cristiano chiuse gli occhi e si appoggiò contro la
parete. Gli mancava il respiro e continuava a sentire
sul collo e sulla bocca la pressione delle labbra di
Esmeralda e Fabiana.
«Che puttane...» sussurrò poggiando la testa sul
muro.
Suo padre aveva ragione, a quelle così piacevano i
figli di papà. Come Tekken. Le loro moto. I loro soldi.
A lui che non aveva una lira lo prendevano solo
per il culo.
Sentiva una roba acida che gli bruciava lo stomaco
come se si fosse bevuto una boccia di varechina. Gli
veniva da vomitare.
Una rabbia folle gli offuscava i pensieri. Gli prudevano
le mani. Aveva voglia di entrare là dentro,
prendere una stecca e spaccarla in testa a quel bastardo.
Ma si girò e corse via respirando a bocca
aperta. Odiava quel posto. Quella gente. Quelle vetrine
piene di roba inutile che lui non poteva comprare.
Entrò in un negozio di casalinghi e prese un lungo
coltello da un ceppo di legno, se lo nascose sotto la
giacca e uscì nel parcheggio sgomitando per farsi largo.
Corse dietro i cassonetti e con il coltello stracciò la
sella e bucò le ruote della moto di Tekken. Stava per
graffiargli il serbatoio quando sentì una voce alle
sue spalle che gli gridava: «Ehi! Che cazzo stai facendo?».
Per lo spavento il cuore gli finì tra le tonsille.
Si girò. Su una grossa Ducati c'era uno con un casco
nero e la giacca di pelle. «Figlio di puttana, ti
spacco la faccia!» gli urlò il motociclista mentre poggiava
la moto sul cavalletto.
Cristiano gettò il coltello e cominciò a correre tra le
macchine mentre quello gli urlava dietro: «Coniglio!
È inutile che scappi. Lo so chi sei! Stai alle medie!
Tanto ti becchiamo. Ti becchiamo e...».
Arrivò sulla statale e continuò a correre.
Proprio non poteva crederci, di aver fatto una cazzata
così grande. In pochi secondi si era cacciato nella
merda fino ai capelli.
Tra tutte le stronzate da fare, aveva scelto la peggiore.
Sfregiare la moto di Tekken ed essere beccato!
Avanzava a testa bassa cercando di non finire nelle
pozzanghere. Gli faceva male la milza e se la premeva
con una mano. La statale, il guardrail, i fari delle
macchine si sfocavano e riapparivano a ogni passo.
Sotto l'ansimo roco del suo respiro continuava a
sentire le minacce del motociclista nero: «Dove scappi?
Lo so chi sei! Ti conosco! La pagherai!».
Aveva la sensazione di essere in un brutto sogno,
che bastava fermarsi, chiudere gli occhi e riaprirli e
ritrovarsi di nuovo nell'angolo buio della sala giochi
che odorava di sudore e deodorante.
Doveva essere impazzito di colpo. Aveva rubato il
coltello e si era accanito sulla moto come se fosse stato
ipnotizzato. Come se nel suo cervello ci fosse stato
una specie di blackout. Quando era entrato nel negozio
di casalinghi non aveva neanche dato un'occhiata
intorno per controllare se lo vedevano.
Non sapeva nemmeno come faceva ancora a correre,
con tutta quella paura in corpo. Tra poco la vendetta
di Tekken sarebbe calata con la sua forza sterminatrice
e impietosa su di lui.
Quello era capace di ucciderlo.
Una volta Cristiano lo aveva visto davanti al bar
prendersi a botte con un camionista.
La cosa che ricordava era la sua serenità mentre affrontava
uno che pesava una ventina di chili più di lui
e aveva due mani grosse come due braciole di maiale.
Tekken saltellava ancheggiando come un merdoso
ballerino di merengue. E si divertiva. Quasi stesse allenandosi
in palestra.
Mentre lo scimmione mulinava le braccia e lanciava
insulti, Tekken gli aveva piazzato un calcio preciso
su un ginocchio e il gigante si era disfatto a terra.
Poi gli aveva preso un orecchio e gli aveva sollevato
la testa e aveva fatto no con il dito: «Tu qui non sei
nessuno. E non devi fare il gradasso».
E tutto questo solo perché il bestione aveva detto a
Tekken, senza anteporre "per favore", di spostare la
moto per permettergli di parcheggiare il camion.
Pensa cosa fa a me che gliel'ho distrutta...
Aveva i polmoni in fiamme e fu costretto a rallentare.
Attraversò un viadotto che passava sopra un canale
d'irrigazione e si fermò ansimando sotto la tettoia
della fermata dell'autobus, proprio alla metà del
ponte. Sul cartello degli orari e sulle pareti c'era un
intrico di scritte colorate. La panchina era sporca di
ketchup e dei resti di patatine e supplì. E puzzava di
piscio. Il neon scarico crepitava sul soffitto.
Rimase in piedi scrutando la strada per avvistare
l'autobus.
A quest'ora il motociclista doveva aver già raccontato
tutto a Tekken. "Chi cazzo era?"
"Uno biondino. Delle medie. "
Fabiana ed Esmeralda avrebbero capito al volo che
era stato lui. "Lo conosciamo. Si chiama Cristiano Zena.
Viene a scuola nostra."
Quelle due troie non lo avrebbero mai coperto.
Intanto l'autobus non si vedeva. E di sicuro Tekken
e la sua banda erano già a caccia. Cristiano si nascose
nello spazio angusto tra la tettoia e il guardrail. Sentiva
il gorgoglio dell'acqua che scorreva nel canale a
una decina di metri sotto il cavalcavia.
Era indeciso se continuare a piedi, quando apparvero
lontani gli occhi gialli dell'autobus.
È fatta.
Uscì dalla pensilina, si sporse sulla strada e stava
per sollevare il braccio quando tre motociclette superarono
a destra l'autobus e lo accecarono con gli abbaglianti.
Arretrò di un passo e il pullman gli sfilò
davanti senza nemmeno rallentare. Vide la gente seduta
dietro i finestrini e subito dopo le luci rosse.
Non si era fermato. Ma le motociclette sì.
Provò a scappare, ma una Ducati nera gli si inchiodò
accanto e Tekken, seduto di dietro, con un salto
gli fu addosso.
Cristiano finì nel fango e sbatté violentemente una
spalla. Provò a divincolarsi, a scalciare, ma Tekken lo
aveva afferrato alla base del bicipite, bloccandolo con
il braccio di traverso sul torace. Con l'altra mano lo
acchiappò per i capelli e lo tirò su e lo colpì in pieno
volto con il dorso della mano mandandolo a sbattere
contro il guardrail.
Le ghiandole surrenali di Cristiano stavano producendo
milioni di molecole di adrenalina che gli
impedivano, almeno per il momento, di provare dolore.
Si rimise in piedi di scatto cercando di scappare
verso la strada, ma riuscì a fare appena qualche passo
e ricadde a terra.
Tekken con un calcio gli aveva falciato le gambe.
Ora Cristiano annaspava nel fango ghiacciato e
provava ancora a tirarsi su, ma le gambe non ubbidivano.
Giurò a se stesso che dalla bocca non gli sarebbe
uscito un lamento.
Tekken gli poggiò un tacco della scarpa sulla mano
e spinse e Cristiano cacciò un urlo stridulo con quel
poco d'aria che gli era rimasta nei polmoni.
«Perché l'hai fatto, eh?! Perché?» continuava a ripetergli
Tekken. «Dimmelo!» Aveva la voce rotta e incredula,
come se stesse per mettersi a piangere.
Cristiano non poteva rispondere perché non aveva
risposte da dare, se non quella che per cinque minuti
era uscito fuori di zucca.
Tekken spinse di più e Cristiano sentì un'esplosione
di dolore avvolgergli l'avambraccio e le dita.
«Perché?! Parla!»
Da una parte Cristiano voleva implorare pietà,
pregarlo di smettere, dire che non era stato lui, che si
sbagliavano, che lui non c'entrava niente, dall'altra
aveva dentro una massa dura come pietra che glielo
impediva. Si sarebbe fatto uccidere ma non avrebbe
mai implorato pietà.
Tekken si tirò indietro e Cristiano cominciò a strisciare
verso la pensilina. Intorno tutto si era confuso
in un arcobaleno di colori, di fumi di scarico, di ruote
e gambe. Le orecchie gli ronzavano e non riusciva a
capire che cosa si dicevano gli altri a cavallo delle loro
moto.
Gli sembrò di sentire delle voci femminili.
Esmeralda e Fabiana.
C'erano anche loro. Ragione in più per non mollare.
Cristiano si trascinò sotto la panca della fermata
dell'autobus.
Forse riesco ad arrivare un po' in là e non mi troveranno.
Ma fu una vana speranza. Tekken lo afferrò per
una caviglia e lo trascinò indietro. «Allora, cosa ti devo
fare?» Gli mollò una pedata. «Avete capito? Questo
stronzetto mi ha distrutto la moto.» Era disperato
come se avessero sparato a sua mamma. «E ora cosa
gli devo fare?»
Cristiano si rannicchiò con le ginocchia contro il
petto. Non riusciva a smettere di tremare. Doveva
reagire, alzarsi, combattere.
«Buttiamolo di sotto» suggerì una voce.
Un attimo di silenzio, poi Tekken decretò: «Giusto».
Nonostante il dolore che lo trascinava in abissi
oscuri, Cristiano trovò l'idea di morire così, gettato
da un ponte, quasi bella, una liberazione.
«Prendilo per i piedi.»
Gli afferrarono le caviglie. Una mano d'acciaio lo
tirava per un braccio. Non oppose resistenza.
Lo avrebbe notato il giorno dopo una vecchia che
aspettava l'autobus, schiantato come uno scarafaggio
sul cemento degli argini del canale. Gli dispiaceva
per suo padre.
Morirà di dolore.
Ma quando sentì sotto di sé un baratro buio che lo
risucchiava e il rumore dell'acqua e il vento gelato, si
rese conto che l'avevano sollevato e qualcosa dentro
di lui scattò all'improvviso. Spalancò gli occhi e cominciò
a dimenarsi come un ossesso e a urlare: «Bastardi!
Bastardi! Figli di puttana! La pagherete! Vi uccido.
Vi uccido a tutti!».
Ma non riuscì a liberarsi. Dovevano essere almeno
in tre a tenerlo.
Il sangue gli finì in testa. Sotto di lui c'era un rivo
nero che risplendeva d'argento ogni volta che passava
una macchina.
«Allora stronzetto, vuoi morire?»
«Fanculo!»
«Ah, sei un duro?»
Lo spinsero più fuori.
«fanculo, bastardi!»
Si beccò uno schiaffo che gli fece spruzzare dal naso
uno schizzo di sangue.
La voce di Tekken: «Ascoltami bene. Se lunedì non
mi dai mille euro uno sull'altro, ti giuro sulla testa di
mia madre che ti ammazzo! E non credere di scappare,
perché tanto ti becco». E poi agli altri: «E ora lasciatelo».
Lo misero a terra.
L'impressione fu che il mondo intero fosse un vortice
di luci e facce senza volti.
Lì, buttato contro il guardrail, Cristiano li vide partire,
fare inversione e allontanarsi verso il paese.
Passarono cinque minuti prima che provasse a
muovere un muscolo, e in quel momento scoprì di
essersi pisciato addosso.
53.
Quando Cristiano Zena arrivò a casa vide che le finestre
erano illuminate.
Non gliene andava bene una.
Se suo padre lo vedeva così, con i pantaloni zuppi
di piscio e sporchi di terra, la giacca macchiata di
sangue e strappata...
Vabè, lasciamo perdere.
Cristiano attraversò zoppicando il cortile, superò il
furgone e passò intorno alla casa. Sul retro c'era una
rampa di cemento che portava a un garage seminterrato,
chiuso da una saracinesca di alluminio. Sollevò
un vaso, sotto c'era una chiave. La infilò nella serratura
e soffocando un gemito di dolore alzò la saracinesca
quel tanto che bastava per infilarcisi sotto.
Nel garage faceva freddo. Accese la luce e apparve
un locale che odorava di umido e della vernice nei
barattoli poggiati sui lunghi scaffali. Le pareti dipinte
di verde pisello e il neon giallo lo facevano assomigliare
a una camera mortuaria. In mezzo c'era un
vecchio tavolo da ping-pong che era ricoperto di cataste
di giornali, copertoni e roba inutile accumulata
lì negli anni come in una discarica. Contro un muro
un vecchio pianoforte verticale tutto impolverato e
consumato dai tarli. Sulla sua origine e sul perché
fosse lì Rino aveva sempre cercato di sorvolare. Quel
coso non c'entrava niente con la loro vita. E suo padre
era la persona più stonata che Cristiano conoscesse.
Alla milionesima volta che glielo chiedeva, era
riuscito a tirarglielo fuori.
«Era di tua madre.»
«E che ci faceva?»
«Lo suonava. Voleva fare la cantante.»
«Ma era brava?»
Suo padre aveva faticato ad ammetterlo. «Una bella
voce. Ma alla fine quello che le piaceva non era cantare,
ma vestirsi come una troia e andare nei pianobar a
farsi rimorchiare. Ho provato a venderlo, ma non ho
mai trovato nessuno che se lo volesse prendere.»
E così per qualche tempo Cristiano era sceso nel
garage e aveva provato a suonarlo. Ma era più negato
di suo papà.
Dentro le scatole ammonticchiate contro una parete
Cristiano trovò dei vecchi vestiti. Si tolse la giaccavento
e s'infilò un golf tarmato e un paio di jeans. Si
lavò la faccia nel lavello e si rimise a posto i capelli.
Avrebbe voluto uno specchio per vedere com'era ridotto,
ma non c'era.
Chiuse il garage e andò alla porta di casa.
Il problema era il labbro gonfio. Aveva anche la
schiena scorticata, le mani sbucciate, la gamba dolorante,
ma quelle avrebbe potuto nasconderle.
Il secondo problema, che non era un problema ma
una tragedia, erano i mille euro. Be', di quello era
meglio occuparsi dopo, con calma, perché non aveva
nessunissima idea su come risolverlo.
Ora doveva solo sperare che suo padre dormisse o
che fosse già cotto dall'alcol, entrare in casa e passare
silenzioso come una pantera, salire le scale e sgattaiolare
in camera sua.
Fece un bel respiro. Si diede di nuovo una controllata
ai vestiti, aprì la porta di casa e la chiuse cercando
di non fare rumore.
In soggiorno era accesa solo la lampada vicino alla
televisione. Il resto della stanza era in penombra.
Suo padre stava, come al solito, sulla sdraio. Dalla
posizione in cui si trovava, Cristiano vedeva il cranio
rasato. Sul divano c'era anche Quattro Formaggi, di
spalle. Dormivano? Aspettò un po' per sentire se parlavano.
Niente.
Bene.
Si avviò verso le scale in punta di piedi. Mise, trattenendo
il fiato, un piede sul primo gradino e l'altro
sul secondo, ma non si accorse che c'erano un martello
e una pinza, che caddero facendo rumore.
Cristiano strinse i denti e sollevò la testa e nello
stesso istante sentì la voce impastata di suo padre:
«Chi è?! Cristiano, sei tu?».
Trattenne una bestemmia e rispose tentando un tono
rilassato: «Sì, sono io».
«Ciao!» Quattro Formaggi sollevò un braccio.
«Ciao.»
Suo padre voltò la testa lentamente, una maschera
dipinta di azzurro dallo schermo della televisione.
«Ma eri in casa?»
Cristiano, rigido come una statua, strinse la ringhiera.
«Sì.»
«Non ho visto la luce in camera tua.»
«Stavo dormendo» buttò lì.
«Ah!»
Passata. Era abbastanza ubriaco da non interessarsi
a quello che lui faceva. Fece un altro gradino.
«Dovrebbe essere rimasta della mortadella. Me la
porti con un po' di pane?» continuò Rino.
«Non te la puoi andare a prendere da solo?»
«No.»
«E dai. Cosa ti costa?»
«Te la vado a prendere io» si offrì Quattro Formaggi.
«No, tu stai là. Se un padre chiede a un figlio della
mortadella, il figlio va e gli porta la mortadella. Funziona
così. Se no uno i figli che ce li ha a fare?» Aveva
alzato il tono della voce. E quindi o era di cattivo
umore o aveva malditesta.
Cristiano scese sbuffando e andò a prendergli la
mortadella. Ne era rimasta una fetta solitaria nel frigo
deserto.
Prese anche il pane. Si avvicinò rimanendo nascosto
nell'ombra.
Ma nel momento in cui gliela allungava la sfortuna
si accanì ancora una volta su di lui. In televisione un
tipo azzeccò la risposta da ventimila euro e duemila
lampadine da milioni di volt si accesero contemporaneamente
inondando il salotto di luce.
Cristiano abbassò le palpebre e quando le sollevò
l'espressione di suo padre era cambiata.
«Cosa ti sei fatto al labbro?»
«Niente. Che mi sono fatto?» Se lo coprì con le mani.
«E sulle mani?»
«Sono caduto.»
«Come?»
Dal vuoto della mente di Cristiano uscì la prima,
sciocca, bugia. «Sulle scale. Non è niente» minimizzò.
Suo padre lo guardò sospettoso. «Sulle scale? E
ti sei rovinato così? Te le sei fatte dalla prima all'ultima?»
«Sì... Sono inciampato nei lacci...»
«Ma come cazzo hai fatto? Sembra che ti abbiano
dato un pugno...»
«No... Sono solo caduto...»
«Mi stai raccontando una stronzata.»
Era impossibile mentire a suo padre. Aveva un'abilità
speciale nel beccare le bugie. Diceva che le balle
puzzavano e lui ne sentiva subito il tanfo a cento metri
di distanza. E ti scopriva sempre. Come facesse
Cristiano non lo sapeva, ma sospettava che fosse per
quel fremito della mascella che lui non riusciva a
controllare mentre gli mentiva.
Strano, con tutto il resto del mondo era un vero artista
della balla. Ne sparava di stratosferiche con una
tale sicurezza che nessuno dubitava di lui. Ma con
suo padre era tutta un'altra storia, non ce la faceva
proprio, sentiva i suoi occhi neri che scavavano alla
ricerca della verità.
E in quel momento, poi, Cristiano non aveva proprio
lo spirito necessario a sostenere un interrogatorio.
Le gambe gli tremavano ancora e aveva lo stomaco
in subbuglio. Una vocina sensata gli suggeriva che
per uscire dal casino dei mille euro l'unico che poteva
aiutarlo era suo padre.
E, sbagliando, abbassò la testa e con un filo di voce
glielo disse: «Non è vero. Non sono caduto. Ho fatto
a botte...».
Rino rimase in silenzio per un'infinità di tempo,
respirando con il naso, poi spense la televisione. Ingoiò
la saliva. «E da quello che posso intuire, le hai
prese.»
Cristiano fece sì con la testa.
Non doveva parlare perché sentiva che tutto l'impegno
che aveva messo per non piangere fino a quel
momento si era esaurito. Gli sembrava che la sua trachea
fosse avvolta da spire di filo spinato.
Sollevò la felpa e mostrò la schiena scorticata.
Suo padre la osservò senza nessuna espressione e
poi cominciò a passarsi le mani sulla faccia come
qualcuno a cui hanno appena comunicato che tutta la
sua famiglia è morta in un incidente stradale.
Cristiano rimpianse di aver detto la verità.
Rino Zena sollevò la testa e guardò il soffitto e
chiese gentilmente: «Quattro Formaggi, per favore,
puoi andartene?». Sbuffò. «Devo stare solo con mio
figlio.»
Ora mi picchia... pensò Cristiano,
Quattro Formaggi muto come un pesce si alzò,
s'infilò il vecchio cappotto, fece una smorfia incomprensibile
a Cristiano e se ne andò.
Quando la porta fu chiusa Rino si alzò e accese tutte
le luci del soggiorno, poi si avvicinò a Cristiano ed
esaminò le sue ferite e la sua bocca come fosse un cavallo,
«Ti fa male la schiena?»
«Un po'...»
«Riesci a piegarti?»
Cristiano piegò la schiena. «Sì.»
«Non è niente di grave. E la gamba?»
«Anche.»
«Le mani?»
«Non è niente.»
Rino prese a girare in tondo per la stanza senza dire
nulla, e finalmente si sedette su una sedia. Si accese
una sigaretta e lo fissò. «E tu?»
«Cosa?»
«Gli hai fatto male?» Gli bastò guardare suo figlio
negli occhi per capire. «Non gli hai fatto un cazzo!»
Scosse la testa disperato. «Tu... tu non sai fare a botte.»
Fu una rivelazione. «Non sei capace di fare a botte.»
Lo disse con un tono tra lo scandalizzato e il colpevole.
Come se non gli avesse insegnato a parlare, a
camminare. Come se avesse avuto un figlio con un'allergia
mortale ai farinacei e lo avesse obbligato ad abboffarsi
di pane.
«Ma...» Cristiano provò a interromperlo per spiegare
chi cazzo era Tekken. Ma suo padre era partito.
«È colpa mia. È colpa mia.» Ora girava afferrandosi
la testa con le mani come un penitente a Lourdes.
«Non sa difendersi. È colpa mia. Ma che imbecille...»
Chissà quanto sarebbe andato avanti così se Cristiano
non avesse urlato. «Papà! Papà!»
Rino si fermò. «Che c'è?»
«Quello è maggiorenne... ed è un campione di
boxe thailandese. Ha vinto i regionali.»
Suo padre lo guardò senza capire. «Chi?»
«Tekken!»
«Chi minchia è Tekken?»
«Quello che mi ha menato.»
Rino lo afferrò per il bavero. Aveva la faccia tutta
contratta, le narici gonfie e la bocca serrata. Sollevò
un pugno. Cristiano istintivamente si riparò la testa
con le braccia. Rino lo tenne così, indeciso, poi gli
diede una spinta che lo fece finire sul divano.
«Sei un coglione completo. Ancora credi alla stronzata
che chi sa fare le arti marziali sa fare a botte. Ma
tu che minchia hai imparato della vita? Come cazzo
ragioni... Ah, ecco! Ho capito! Tu credi a quello che si
vede in televisione: è così che impari a vivere. Dillo!
È così, no? Vedi i cartoni animati dove la gente fa
kung fu e le altre stronzate e credi che bisogna essere
Bruce Lee o qualche altro coglione cinese che invece
di menare fa le acrobazie e gli urletti. Non hai veramente
capito un cazzo. Sai cosa ci vuole per menare?
Lo sai o no?»
Cristiano scosse la testa.
«È tanto semplice. La cattiveria! La cattiveria,
Cristiano! Basta essere figli di mignotta e non guardare
in faccia a nessuno. Può pure essere Gesù Cristo
nel tempio che si fa rodere il culo, ma se sai farci
lo butti giù come un birillo. Gli vai dietro, gli dici
"scusa?", quello si volta e tu gli dai una sprangata
in faccia e quello va giù dritto e se ti va quando è a
terra gli dai un calcio in bocca ed è finita. Amen. Se
invece è uno che ti caga il cazzo, che incomincia a
darti le spinte, ad aprire la bocca e darle fiato, a cercare
di farti paura facendo i balletti tu sai cosa devi
fare? Niente. Te ne stai fermo. Poi» puntò un piede
in avanti «metti il piede così. E quando si avvicina
gli colpisci il naso con una capocciata. Come se fosse
un pallone, caricando con il collo e le spalle. E lo
devi colpire con questa parte qui, se no ti fai male.»
Si toccò la parte alta della fronte. «Se gliela dai precisa
non ti fai niente. Al massimo un po' di rosso il
giorno dopo. Quello cade a terra e poi la solita storia,
calcio in bocca ed è finita. Sfido chiunque a rialzarsi,
pure quello stronzo di come cazzo si chiama...
Ma devi essere deciso e cattivo, capito? Ora vieni
qua.»
Cristiano lo guardò. «Perché?»
«Vieni qua e basta.»
Cristiano, titubante, obbedì.
«Dammi una capocciata. Fammi vedere.»
«Come?»
«Ho detto dammi una capocciata.»
Cristiano era incredulo. «Io? Io ti devo dare una capocciata?»
Suo padre gli afferrò un polso. «E chi? Dammi sta
cazzo di capocciata.»
Cristiano cercò di divincolarsi. «No... Ti prego...
Non voglio... Non mi va.»
Rino gli strinse più forte il braccio. «Adesso, però,
tu mi devi ascoltare attentamente. Nessuno ti
deve picchiare. Mai più. Nessuno al mondo deve
permettersi di farlo. Tu non sei un finocchio che si
fa menare dal primo stronzo che gli si mette davanti.
Io vorrei, non sai quanto vorrei aiutarti, ma non
posso. Sei tu che devi sbrigarti i tuoi casini. E per
fare questo esiste solo un modo: devi diventare cattivo.»
Gli prese un braccio. «Tu sei troppo buono.
Sei molliccio. Non sei abbastanza incazzato. Sei fatto
di roba morbida. Dove stanno i coglioni?» Lo
scosse come fosse una bambola. «Quindi dammi
questa capocciata. Non pensare che sono tuo padre,
non pensare a niente, pensa solo che mi devi fare
male e che devo rimpiangere per il resto della vita
l'idea del cazzo di voler fare a botte con te. Lo capisci
che dopo che ne hai massacrati un paio si sparge
la voce che sei un figlio di puttana e nessuno ti
romperà più il cazzo? Lo faccio per te. Se non riesci
a darmela a me non sarai mai buono a dargliela agli
altri.» Gli fece segno con le dita e disse: «Quindi
mena!».
Non c'era niente da fare. Cristiano lo sapeva. Doveva
dargli quella capocciata.
Puntò il piede e tirò indietro la testa, chiuse gli occhi
e fece scattare in avanti la fronte. Colpì suo padre
sul setto nasale e sentì un rumore sgradevole,
come quando si rompono gli ossicini del pollo. Avvertì
solamente un leggero formicolio in mezzo alla
fronte.
Rino fece un passo indietro come un pugile che ha
preso una sveglia, si mise le mani sul naso, inghiottì
un urlo e divenne tutto paonazzo. Quando se le tolse
aveva due rivoli di sangue che gli uscivano dalle
narici.
Cristiano lo abbracciò. «Scusami, papà, mi dispiace...»
Rino lo strinse a sé, gli carezzò i capelli e con una
voce gutturale disse: «Bravo! Credo che mi hai rotto
il naso».
54.
Mentre Rino Zena si infilava due pezzi di cotone nelle
narici, seduto sul cesso Cristiano lo osservava e rifletteva
che il problema, alla fine, era rimasto tale e quale.
D'accordo, aveva imparato a dare le capocciate,
ma se dopo avergli distrutto la moto a Tekken gli dava
pure una capocciata, quelli della sua banda lo
avrebbero preso e si sarebbero divertiti a trascinarlo
sulla statale.
Ma la cosa che lo stupiva di più era che suo padre
non gli aveva neanche chiesto la ragione per cui aveva
fatto a botte. Non gli era nemmeno passato per la testa.
A lui frega solo che suo figlio non si faccia menare da
nessuno.
Quelle botte, a essere giusti, se le meritava. Anche
Cristiano avrebbe reagito così se qualcuno gli avesse
distrutto la moto.
Si mise una mano sulla fronte.
E se gli dico dei mille euro?
Avrebbe dovuto spiegargli tutto. Non sapeva proprio
che fare.
«Sei pronto?» gli disse suo padre con la voce di Paperino
asciugandosi la faccia.
«Per cosa?»
Rino si cambiò la maglietta. «Come per cosa? Andiamo
a beccare il campioncino di boxe e gli facciamo
capire che gran cazzata ha fatto a picchiarti.»
A Cristiano venne da vomitare. Non era possibile.
«Stai scherzando, vero?»
«Per niente. Queste cose non bisogna lasciarle passare
così. Bisogna rispondere subito a chi ti colpisce.
E, come dice la Bibbia, sette volte più forte.»
«Adesso, dobbiamo farlo?»
«Non mi dire che vuoi passare per uno che becca e
sta zitto... Queste questioni vanno risolte subito.»
Cristiano con voce avvilita obbiettò: «Ma starà con
gli altri...».
Rino cominciò a saltellare come un pugile che debba
andare sul ring. «Meglio. Così vedranno tutti che
non bisogna scherzare con Cristiano Zena.»
«E se gli altri lo difendono?»
«Tu non ti preoccupare... Ci sono io.» Negli occhi
di suo padre brillava un'eccitazione febbrile.
«E se poi quello mi denuncia...? Finisco nei casini...»
Suo padre si avviò in salotto senza rispondergli.
Cristiano lo seguì implorandolo. «Papà, per favore.
Conosci Trecca... Questa è la volta buona che mi
manda in istituto.»
Rino andò vicino alla stufa dove era ammonticchiata
la legna da ardere. Scelse un ciocco lungo una
settantina di centimetri e lo agitò soddisfatto nell'aria
come fosse una mazza da baseball.
«Bene! Ora gli farai assaggiare questo pezzo di faggio
sulle gengive.»
«Io non vengo, papà.» Cristiano scosse la testa affranto
e poi si gettò sul divano. «Lo dici sempre che
non dobbiamo fare stronzate. Io resto a casa... Non
me ne importa niente. Vai tu se vuoi... Hai detto che i
casini me li devo risolvere da solo... Me li risolvo io.
Per favore, ti prego, lascia quel bastone. È una figura
di merda...»
«Stammi a sentire. Pensi che tuo padre è un coglione?
Tuo padre non sembra, ma pensa.» Si toccò con
un dito la tempia. «Questo cervello funziona ancora
benino, quindi tu devi solo fare quello che ti dico.
Devi stare sereno. Tranquillo. Lascia fare a me.» Gli
strinse le braccia. «Lui ha diciotto anni e tu tredici.
Lui è maggiorenne e tu minorenne. Chi finisce nei casini
è lui. È lui che ha cominciato... Per come la vedo
io, tu ti stai solo facendo rispettare. E se dopo ha
qualche problema, qualsiasi...» tirò fuori dal cassetto
della credenza la pistola «gli facciamo fare la conoscenza
con questa signorina qua. Basterà mettergliela
sotto il naso.»
«Ma...»
«Niente ma!»
Rino prese dal tavolo la bottiglia di grappa, se ne
scolò un quarto e poi fece una specie di ruggito. «Bevi,
forza. Questa ti dà coraggio.»
Cristiano si attaccò anche lui. Sentì l'alcol bruciargli
le viscere e capì che erano cazzi amari per Tekken.
55.
Per tre volte Cristiano, andando verso Varrano, sentì
l'impulso di spiattellare tutto, e per tre volte si limitò
a immaginarsi di confessare.
Papà, ti devo dire una cosa... Guarda che io gli ho distrutto
la moto... Per questo mi ha picchiato. Gli ho fatto
un danno da mille euro senza che lui mi avesse fatto
niente.
Verissimo. Tekken non gli aveva fatto proprio niente.
Mai. Davanti a scuola aveva rotto i coglioni a un
sacco di gente, ma mai a lui. Nemmeno una parola.
Probabilmente prima di quella sera Tekken non sapeva
nemmeno che lui esisteva.
Quando lo avrebbero beccato, Tekken avrebbe detto
che Cristiano gli aveva distrutto la moto e suo padre
lo avrebbe scoperto...
Che storia di merda.
Ma quando arrivarono al centro commerciale era
chiuso. I cancelli sprangati. Le luminarie spente. Le
torri nere. La distesa d'asfalto battuta dalla pioggia
che aveva ripreso a rimbalzare sotto i fasci di luce dei
lampioni. Tekken si era anche portato via la moto.
Cristiano tirò un sospiro di sollievo: «Non c'è. Torniamocene
a casa».
E per tutta risposta: «Tranquillo. Lo becco io».
Cominciarono a girare per il paese. Il bar. Il corso.
Le vie centrali. Erano solo le nove e un quarto, ma in
giro non c'era anima viva.
Suo padre guidava a scatti, tirava le marce, faceva
mille infrazioni. «Ma dove cazzo è finito?»
«Sarà tornato a casa. Lasciamo perdere. È tardi.»
Le strade si erano svuotate e la pioggia tamburellava
sul tetto del furgone.
Si fermarono sul bordo della statale. Rino si accese
l'ennesima sigaretta. «Che facciamo?» chiese.
«Non lo so.»
Suo padre rimase in silenzio toccandosi il naso
gonfio.
«Dai, torniamo a casa» gli consigliò Cristiano.
E così si avviarono, ma Rino, per sicurezza, volle
fare di nuovo il giro del paese. Superò la chiesa e s'infilò
nelle vie residenziali con le schiere di villette illuminate
e con i giardinetti curati e le station wagon e i
fuoristrada parcheggiati di fronte e poi, finalmente,
imboccò di nuovo la statale deserta. Ogni cento metri
i lampioni disegnavano dei cerchi gialli sull'asfalto e
i tergicristalli lavoravano al massimo per tenere
asciutto il vetro.
Cristiano stava per dirgli di passare in rosticceria
quando vide, sull'altro lato della statale, una figura nera
che spingeva una moto sotto la pioggia.
Tekken.
La giaccavento zuppa. Le gomme bucate. Che fatica
doveva fare. Era tutto solo, lungo la statale... Nemmeno
il rischio di figure di merda, né tantomeno della
polizia.
Si sarebbe talmente cagato addosso che non gli
avrebbe chiesto più i soldi. Però bisognava agire in
fretta, scendere dal furgone e stenderlo con il bastone
senza dargli il tempo di dire niente.
Cristiano contò fino a tre e poi urlò saltando sul sedile:
«L'ho visto! Papà, l'ho visto!».
«Dove?! Dove?!» Rino si scosse dal letargo.
«Dall'altra parte della strada. L'abbiamo superato.
È a piedi. Gira! Gira!»
«E vai così! Figlio di una troia, alla fine ti abbiamo
beccato!» urlò Rino e senza guardare fece inversione
in uno stridore di pneumatici. «È solo?»
«Sì. Sta spingendo una moto.»
«Una moto?»
«Sì.»
Rino registrò l'informazione senza fare commenti.
Cristiano sentiva l'eccitazione che gli montava dentro
e il respiro che si accorciava. Afferrò il ciocco di legno.
Era bello pesante. Non aveva più saliva in bocca.
«Come facciamo, papà?»
«Intanto spegniamo le luci così non si accorge che
gli stiamo dietro. Quando arriviamo a cinquanta
metri tu scendi, ti avvicini senza farti sentire e poi lo
chiami per nome e quando si gira gli dai giusto il
tempo di riconoscerti e lo colpisci. Una volta sola.
Se lo becchi bene è sufficiente. Io poi passo a prenderti.»
«E dove lo colpisco?»
Rino ci pensò un attimo, poi si toccò la mascella.
«Qui.»
Una macchina li superò e illuminò il catarifrangente
posteriore della moto.
«Eccolo. Vai.» Rino fermò il Ducato.
Cristiano scese stringendo forte il bastone. Adesso
quel figlio di puttana avrebbe imparato cosa vuol dire
prendersela con Cristiano Zena.
Ti rompo la testa, bastardo.
Si guardò alle spalle. Macchine non ne passavano.
Cominciò a correre con il bastone in mano. La macchia
nera di Tekken che spingeva la moto diventava
più grande a ogni passo. Il rumore delle gomme flosce
sull'asfalto. A circa dieci metri rallentò di botto e
cominciò a camminare in punta di piedi fino ad arrivargli
vicino, a meno di un metro.
Preciso, si raccomandò a se stesso.
Sollevò il bastone e urlò: «Tekken! Vaffanculo!».
Tekken girò la testa e non ebbe nemmeno il tempo
di capire cosa stava succedendo che Cristiano gli
sferrò una mazzata dritta sulla tempia che lo avrebbe
ammazzato o mandato in coma, se lui, all'ultimo
istante, per un istinto o per l'abitudine al combattimento,
non avesse spostato la testa di quel poco sufficiente
al bastone per lisciargli lo zigomo e abbattersi
tra collo e clavicola.
Senza emettere un lamento Tekken lasciò andare la
moto, che finì a terra frantumando lo specchietto, rimase
un attimo in equilibrio sulle gambe vacillanti e
come al rallentatore si poggiò una mano dove era stato
colpito e poi scioccato e muto crollò indietro e finì
a zampe all'aria addosso alla moto.
«Stronzo bastardo! Lasciami in pace, capito? Tu
non mi conosci, mi devi lasciar stare.» Cristiano sollevò
di nuovo il bastone. «Se non mi lasci in pace ti
uccido.» Aveva una voglia terribile di colpirlo, di
sfondare la testa a quel bastardo. «Ti credi chissà chi
e non sei nessuno.» Deglutì. «Proprio nessuno.»
E poi vide negli occhi terrorizzati di Tekken la certezza
di morire e si accorse che tutta la rabbia che
aveva in corpo così come aveva acceso ogni fibra del
suo essere si era spenta, era bastato guardarlo negli
occhi e...
Stavo per ucciderlo.
... non c'era più, proprio come se avessero tolto un
tappo e la furia come gas che evapora fosse uscita da
lui. Ora sentiva solo la nausea e una terribile stanchezza.
«Perché? Io non ti ho fatto niente... Non ti ho...»
balbettò Tekken con le mani alzate.
In quel momento il furgone si fermò alle spalle di
Cristiano e la portiera si aprì.
«Sali! Sali, forza!» Rino gli fece segno di salire.
Cristiano abbassò il braccio, lasciò cadere a terra il
bastone e poi salì sul Ducato.
Parte terza.
Domenica.
56.
Arrivavano le Frecce Tricolori.
Alle due di pomeriggio la trecentotredicesima pattuglia
acrobatica dell'Aeronautica Militare avrebbe
volteggiato e dipinto di bianco rosso e verde i cieli sopra
Murelle.
Alle otto di mattina Danilo Aprea chiamò Rino Zena
tutto eccitato. «Uno spettacolo! I piloti più bravi
del mondo. Il nostro orgoglio. E non lo dico solo io
che li ho già visti dieci anni fa... Sono riconosciuti in
tutto il mondo. Ed è pure gratis.»
Rino chiese a Cristiano se voleva andarci e Cristiano
disse di sì.
Fatta.
Si andava a vedere le Frecce.
Fu convocato anche Quattro Formaggi e visto che
l'esibizione sarebbe avvenuta sopra un grande campo
si decise che avrebbero fatto un picnic a base di
salsicce alla brace, bruschette e vino.
57.
Come una coperta grigia una coltre di nuvole si era
stesa sul campo dove sarebbero passate le Frecce Tricolori.
L'appezzamento di qualche ettaro era stato recintato
con lunghe strisce di plastica a righe e i pochi alberi
spogli spuntavano dal fango come tristi antenne
nere.
Quando i nostri arrivarono il parcheggio era già
occupato da centinaia di macchine e pullmini. Non
erano gli unici ad aver pensato di farsi una grigliata.
Dovunque si sollevavano le spirali di fumo della carbonella
dei barbecue. C'erano anche file di camioncini
con le insegne luminose che vendevano bibite e
panini nel rumore dei generatori elettrici.
La gente sedeva su sedie a sdraio e sgabelli di plastica,
i piedi immersi nel pantano e il naso all'insù.
Quattro Formaggi parcheggiò accanto a un grosso
pick-up blu.
La famigliola, tutta seduta nel vano di carico, si
stava sfondando di pizza, arancini di riso e crocchette
di pollo.
Rino Zena scese dal furgone e si rese conto che non
si sentiva bene per niente. Il malditesta era sempre lì,
vivo e pulsante, alle volte come un polipo si nascondeva
negli anfratti del suo cervello, ma quando beveva
o fumava troppo usciva arrabbiato e allungava i
suoi tentacoli elettrici nelle tempie, nelle orbite e nella
nuca, fin dentro lo stomaco.
Devo smettere di bere. Questa è la verità.
Forse doveva entrare negli Alcolisti Anonimi o seguire
i consigli di Trecca, ma qualcosa andava fatto.
Anche se per i servizi sociali questa alla fine sarebbe
stata la dimostrazione che lui non era in grado di
mantenere Cristiano.
Prima di ricoverarti ti devi sposare. E se trovi una che
guadagna è meglio.
C'era stata una con cui a un certo punto Rino aveva
pensato di sposarsi. Mariangela Santarelli, proprietaria
di un negozio di parrucchiere a Marezzi,
una frazione di Varrano. Mariangela aveva tre figlie
(cinque, sei e sette anni) ed era una giovane vedova.
Suo marito, proprietario di uno smercio edile, se l'era
portato via la leucemia dopo otto anni di matrimonio.
In realtà Rino stava con Mariangela perché lei gli
teneva Cristiano quando lui usciva la notte. «Se ci
dormono in tre, non c'è nessuna ragione che non ci
dormano in quattro» diceva la parrucchiera appoggiata
allo stipite della porta, di fronte a un letto matrimoniale
ricoperto di bambini.
Rino, che detestava dormire con le donne che si
scopava, si andava a riprendere Cristiano la mattina
presto e lo portava all'asilo.
Poi un giorno Rino e Mariangela avevano rotto,
perché lui non era una persona seria e non la voleva
sposare.
«Trovala, un'altra stronza che si prende cura di tuo
figlio e si fa pure riempire di corna!» l'aveva sfidato
la parrucchiera.
E aveva vinto la scommessa.
Forse potrei provare a farmi vivo...
Anche se dubitava che Mariangela fosse ancora sola.
Era una bella donna con una rendita sicura.
Cristiano, con la busta del discount in mano, si avvicinò.
«Papà, come lo facciamo il fuoco per le salsicce?»
Rino si massaggiò gli occhi indolenziti. «Non lo so.
Cerca della legna o chiedi a qualcuno se ti dà un po'
di carbonella. Io mi devo sdraiare un attimo. Se arrivano
gli aerei chiamami.» Aprì gli sportelli posteriori
del Ducato e si stese sul pianale.
Forse doveva solo dormire un po'.
«Come ti senti?»
Rino schiuse appena un occhio e vide Quattro Formaggi
che lo guardava piegando la testa.
«Insomma.»
«Ti volevo chiedere una cosa.»
«Dimmi.»
Quattro Formaggi si sdraiò accanto a Rino e cominciò
a grattarsi la guancia, poi tutti e due fissarono
in silenzio il soffitto del Ducato.
«Mi aiuti con Liliana?»
Rino sbadigliò. «Ma fammi capire, ti piace sul serio
quella là?»
«Penso di sì... Secondo te?»
«Io che ne so, Quattro. Lo devi sapere tu.»
Rino, dopo la discussione sul fiume, si era informato
e aveva scoperto che Liliana era fidanzata da
più di due anni con uno, ma non aveva ancora trovato
la forza di dirlo al suo amico.
«No, le cose mie le sai tu. Tu mi salvi. Tu mi hai
aiutato in istituto. Ti ricordi...»
«Ti prego, non ricominciare con sta storia che ti salvo...
Ho la testa che mi scoppia.»
Con insistenza Quattro Formaggi tornava a ricordargli
il periodo dell'istituto, quando si erano conosciuti.
A quel tempo si chiamava ancora Corrado Rumitz
e veniva preso per il culo da tutti, torturato,
umiliato, comandato a bacchetta sotto gli occhi indifferenti
dei preti.
E lui l'aveva aiutato. Probabilmente perché proteggendolo
avrebbe dimostrato a tutti che dovevano
lasciar perdere Rino Zena e tutto quello che
gli apparteneva, compreso lo scemo. Questa era la
verità.
Rino aveva quattordici anni ed era su un muretto
del collegio che si fumava una sigaretta mentre tre teste
di cazzo avevano infilato un povero idiota in un
bidone e lo facevano rotolare per il cortile prendendolo
a calci. Rino aveva gettato la cicca e ne aveva
sbattuto uno a terra.
«Provate a rompergli ancora il cazzo e ve la vedrete
con me. Immaginate che su quello là c'è scritto
"proprietà di Rino Zena", capito?»
Da quel giorno allo scemo lo avevano lasciato in
pace.
Così era nata la loro amicizia, se quella si poteva
chiamare amicizia. Eppure erano passati vent'anni
ed erano ancora lì, uno accanto all'altro. Quindi...
«Allora Rino, mi aiuti?»
«Senti... Quella Liliana non è roba per... noi. L'hai
vista? Quella vuole stare con gente che porta i soldi a
casa. Noi cosa le possiamo offrire? Un cazzo. Lasciala
perdere. E poi come faresti, non vuoi che in casa tua
ci entri nemmeno io, dove la porti?»
Quattro Formaggi gli afferrò un polso. «Ma è fidanzata?»
«Non lo so...»
«Dimmelo.»
«D'accordo. È fidanzata! Sei contento, ora? Quindi
piantala con questa storia. Fine. Basta. Non ne voglio
più sentir parlare.»
Silenzio. Poi, piano, Quattro Formaggi disse: «D'accordo».
58.
Quattro Formaggi disse: «D'accordo». E rimase in silenzio
a fissare il tetto del furgone accanto a Rino.
In realtà lo avevano detto anche a lui che Liliana
era fidanzata, ma sperava che Dio avesse deciso di
aiutarlo e che la facesse litigare con il fidanzato.
E poi Rino aveva ragione, a una come quella lui
non poteva offrire niente di buono. Ma quando il presepe
sarebbe finito, qualcosa d'importante l'avrebbe
avuto anche lui. E la sua casa sarebbe diventata un
museo.
Strano, però, adesso che sapeva di non avere nessuna
possibilità con Liliana si sentiva più leggero.
Rino gli passò il bottiglione di vino: «Allora, lo facciamo
sto colpo o no?».
Quattro Formaggi si attaccò e poi disse: «Decidi tu».
«Il trattore è pronto?»
«Sì.»
«Mah, io ci proverei. Se vediamo che al primo colpo
non riusciamo a buttare giù il Bancomat però molliamo.
La polizia arriverà in pochissimo tempo.»
«Va bene. Ma quando?»
«Stasera. Glielo dici tu a Danilo?»
«No, diglielo tu.»
«Glielo diciamo dopo. Gli facciamo una sorpresa.»
E poi rimasero in silenzio continuando a passarsi il
vino.
59.
Danilo Aprea, spaparanzato nella carriola con una
bottiglia in una mano e nell'altra una salsiccia cruda,
inconsapevole che a pochi metri Rino aveva deciso
che il suo piano si sarebbe realizzato, osservava incantato
la trecentotredicesima pattuglia acrobatica
che lasciava strisce tricolori sulla sua testa tra gli applausi
di centinaia di persone.
Era ubriaco e gli si era incollato sul viso un sorriso
ebete e l'unico pensiero che riusciva a produrre era:
Cazzo, se sono bravi. Sono proprio bravi.
Poi, come un cammello stonato, abbassò lo sguardo
e vide accanto a sé Cristiano che in silenzio guardava
gli aerei e riuscì a produrne un altro:
Se Laura fosse viva adesso sicuramente sarebbe seduta
qui tra me e Cristiano.
LA NOTTE.
Il buio stava scendendo così in fretta
che Alice pensò che stesse per arrivare
un temporale. «Che nuvola grossa e
nera!» esclamò. «E com'è veloce! Sembra
proprio che abbia le ali.»
Lewis Carroll, Attraverso lo specchio.
60.
La danza del terrore cominciò alle ventidue e trentasei,
quando un fronte temporalesco, incagliato da
giorni tra le cime delle montagne, fu liberato da una
corrente siberiana che lo spinse verso meridione.
La mezza luna che pendeva al centro di un cielo
terso e ricamato di stelle in meno di dieci minuti fu
imbavagliata da una coltre di nuvole scure e basse.
Il buio calò di colpo sulla pianura.
Alle ventidue e quarantotto fragori di tuoni, saette
e sbuffi di vento aprirono i balli di una lunga notte di
tempesta.
Poi cominciò a piovere e non smise più.
Sarebbero bastati un paio di gradi in meno e avrebbe
nevicato e forse il resto di questa storia sarebbe
andato diversamente.
Le strade si svuotarono. Le imposte si serrarono.
I termostati si regolarono. I camini si accesero. Le
parabole, sui tetti, presero a scricchiolare e il derby
Milan-Inter cominciò a scomporsi in quadratoni e
la gente imbestialita si attaccò ai telefoni.
61.
Mentre il temporale infuriava sulla villetta della famiglia
Guerra, Fabiana Ponticelli era stesa sul letto di
Esmeralda in mutande e reggipetto e si osservava i
piedi poggiati sul muro.
Forse era colpa dell'erba, ma da quella posizione
erano identici a due filetti di pia tessa.
Così bianchi, sottili e lunghi. E vogliamo parlare delle
dita? Scheletriche, così distanziate una dall'altra...
Tali e quali a quelli di suo padre.
Da quando era piccola aveva sempre sperato di essere
la figlia segreta di un riccone americano che un
bel giorno l'avrebbe portata a vivere a Beverly Hills,
ma quei piedi valevano più di mille prove del dna.
L'estate precedente i Ponticelli erano andati al villaggio
Valtour di Capo Rizzuto e un ragazzo di Firenze,
assai carino e parecchio stronzo, sulla spiaggia,
le aveva fatto notare che aveva i piedi uguali a suo
padre.
La consolazione di Fabiana era che quella era l'unica
somiglianza fisica col padre e poteva essere nascosta
nelle scarpe.
Forse ci posso mettere lo smalto.
Esmeralda, in bagno, ne aveva una collezione di
tutti i colori.
Ma solo all'idea di tirarsi su, alzarsi, mettersi a cercare
quello giusto le passò la voglia.
Intanto, alla radio, Bob Dylan attaccò a cantare
Knockiri on Heaven's Door.
«Mi piace questa canzone...» sbadigliò Fabiana.
«È un capolavoro» disse Esmeralda Guerra, seduta
a gambe incrociate sulla scrivania. Anche lei era in
reggipetto e mutande. Con la brace della canna faceva
dei buchi sulla testa di una vecchia bambola, producendo
un fumo nero e tossico che si mescolava a
quello delle sigarette e dell'incenso che bruciava sul
comodino tra cataste di riviste di moda.
«Chi la canta?» Fabiana girò lentamente la testa e
vide che sul televisore muto c'era un film di una rapina
che aveva già visto, con quell'attore famoso...
Al...? Al...? Al qualcosa.
«Uno famoso. Degli anni Ottanta... Mia madre ha il
disco.»
«Ma che significano le parole?»
«Èven significa paradiso. Dor, porta. La porta del
paradiso.»
«E nocchini»
L'amica lanciò la bambola nel cestino e ci pensò un
po' troppo.
Non lo sa, si disse Fabiana.
Esmeralda raccontava di essere mezza inglese perché
da piccola era stata in California, ma quando le
chiedevi il significato di una parola un po' più complicata
di window non c'era verso che la sapesse.
Sentiamo che stronzata spara... «Allora? Che vuol
dire?»
«Vuol dire conoscendo... conoscendo la porta del
paradiso.»
«E dopo?»
Esmeralda ascoltò a occhi chiusi la canzone e poi
fece, seria: «Dice che conoscendo la porta del paradiso
è facile trovarla. E quando la trovi ci puoi portare
anche tua madre anche se è molto buio... Una roba
così, insomma».
Fabiana prese un cuscino e se lo mise sotto la testa.
«Certo, però, che canzone idiota.»
Se lei avesse aperto una porta e ci avesse trovato il
paradiso compreso di nuvolette e angeli svolazzanti
probabilmente non ci sarebbe andata. E di sicuro non
con sua madre.
Forse devo mettere la testa sotto al rubinetto. Si sentiva
gli occhi gonfi come chicchi d'uva e il cranio pesante
come se fosse pieno di ghiaia. Tutta colpa di quel limoncello
giallo e dell'erba di un certo Manish Esposito,
un amico della madre di Esmeralda che viveva
in una comunità di arancioni vicino a Santa Maria di
Leuca.
Esmeralda sbadigliò un: «Ci facciamo un bagno?».
«Cosa?»
«Un bagno. Ho un bagnoschiuma buonissimo al
mughetto.»
Non era una cattiva idea. Ma che ore erano? Fabiana
guardò il grosso orologio a forma di bottiglia di
CocaCola appeso sopra la testata del letto.
Le dieci e tre quarti.
Erano chiuse in quella stanza da almeno otto ore.
Ci stiamo seppellendo vive.
All'inizio le era sembrato un progetto interessante.
La Gran Chiusa.
Così l'avevano chiamata.
Rimanere barricate in camera a vedere dvd, farsi
canne, bere e mangiare tutta la domenica.
Meglio sole che con quella banda di morti che vegetavano
dentro un centro commerciale e si risvegliavano
solo per menare le mani. L'avevano deciso dopo
che quel deficiente di Tekken per poco non aveva
gettato Zena giù dal ponte.
Chissà che diavolo gli era passato per la testa a
quello lì di sfregiare la moto di Tekken... Ma cosa voleva
fare? Se non fossero intervenute lei ed Esmeralda
quelli lo avrebbero buttato di sotto.
Certo che aveva coraggio, Zena. Ma aveva anche
un caratteraccio. Si offendeva subito. Non gli potevi
dire niente.
Da un po' ci pensava troppo, a Cristiano Zena.
«Allora?»
Fabiana si girò verso l'amica. «Cosa?»
«Ce lo facciamo questo bagno?»
«Non posso, devo tornare a casa.»
Aveva giurato al Merda, alias suo padre, che alle
dieci e mezzo in punto sarebbe stata a casa.
La mattina dopo, alle otto e mezzo, saltando la prima
ora di scuola aveva un appuntamento dal dentista
per la solita visita di controllo.
Fabiana calcolò che anche se si muoveva in quel
momento sarebbe stata comunque in ritardo. Ci metteva
venti minuti buoni fino a casa. A quel punto tanto
valeva prendersela comoda.
Fortuna che aveva spento il cellulare.
Il Merda doveva essere appena tornato da...
Dove era andato?
... e non vedendola a casa sicuramente le aveva intasato
la segreteria telefonica.
62.
Rino aveva spento la televisione, fissava l'acquazzone
che picchiava contro le finestre del soggiorno e
cercava di capire che cosa lo avesse spinto a vedere
quel film. Lo conosceva a memoria, lo aveva visto almeno
un paio di volte, eppure non era riuscito a scollarsi
dallo schermo.
Quel pomeriggio di un giorno da cani. Con Al Pacino.
Il suo attore preferito insieme a Robert De Niro. Se
un giorno avesse incontrato quei due per strada si sarebbe
inchinato e avrebbe detto: "Siete due grandi e
avrete sempre il rispetto di Rino Zena".
Riuscivano a raccontare la vita di merda della gente
comune come nessun altro.
Ma quella sera non avrebbe dovuto vedere quel
film. Al Pacino entrava in una banca per fare una rapina
e la cosa si trasformava in una strage.
Aveva capito che il colpo al Bancomat era una cazzata.
Una cazzata gravissima che avrebbe pagato per
il resto dei suoi giorni.
E anche se la ragione gli suggeriva che quel diluvio
era una botta di culo (in giro non ci sarebbe stata
un'anima), lo stomaco gli diceva che quel film trasmesso
da Rete 4 esattamente due ore prima del colpo
era un segno mandato dal Signore per dirgli di lasciar
perdere.
Ora continuava a pensare al piano e la mente gli
s'impantanava in immagini di sangue e morte. Erano
proprio i colpi così, all'apparenza sicuri e modesti,
che si trasformavano d'improvviso in massacri.
Ma che, sei matto...?
Quante ne aveva lette sui giornali di rapine agli
autogrill, di furti d'auto che erano finiti in stragi. Ci
scommetteva il culo che arrivavano là con il trattore
belli belli e da ogni pizzo sbucavano poliziotti.
Ma come ho fatto a lasciarmi mettere in mezzo da Danilo?
Le certezze di Danilo valgono meno di una scorreggia.
Se le cose andavano storte c'era la galera. E pure
pesante. Minimo minimo un paio d'anni.
E se lo sbattevano dentro Cristiano finiva in un
istituto o in affido fino alla maggiore età.
E poi quanti cazzo di euro ci potevano essere mai
in un Bancomat? Senza contare che andavano anche
divisi per tre...
Spiccioli.
Doveva solo farsi coraggio e chiamare Danilo e
dirgli che mollava.
Non la prenderà bene.
Quando, tornando a casa dalle Frecce Tricolori, gli
avevano detto che era deciso per quella sera, per poco
dalla gioia non si era messo a piangere.
Ma che me ne frega!
Era un piano troppo idiota e lui era stato a sentire
Danilo solo perché non aveva niente da fare dalla
mattina alla sera. E se Danilo ci teneva veramente poteva
sempre farlo con Quattro Formaggi. Anzi no,
neanche con Quattro Formaggi.
Si trovasse qualcun altro.
Fortuna che era ancora in tempo per tirarsi fuori.
E se invece quel presentimento non fosse stato
nient'altro che paura? E se non avessi più i coglioni?
Si girò a guardare Cristiano che dormiva rannicchiato
sul divano.
Può essere. E allora?
Fece per prendere il telefono e chiamare Danilo,
ma poi ci ripensò. Era meglio aspettare che arrivasse
lì con Quattro Formaggi e parlargli a quattr'occhi.
63.
Nello stesso momento in cui Rino Zena era assalito
dai dubbi, Danilo Aprea, seduto davanti alla televisione,
sorrideva.
Che film idiota che aveva visto. Una storia in cui
due balordi si facevano incastrare durante una rapina.
Lui invece aveva organizzato un piano perfetto.
Non c'era gente nei dintorni, non c'erano armi, ostaggi
e stronzate varie.
Prese il giornale e con gli occhiali da vista sulla
punta del naso sfogliò le pagine degli annunci immobiliari
riflettendo che, se si dispone di un buon capitale
e di un po' d'intuito, ci sono un milione di modi
per diventare ricchi.
E siccome lui era certo di avere un istinto naturale
per gli affari (aveva previsto che i Quattro Camini sarebbero
stati un grande successo), tra poco avrebbe
posseduto anche i liquidi per provarlo al resto del
mondo.
Aveva cerchiato tra le offerte dei locali in vendita
già almeno cinque occasioni. Tutte all'interno di centri
commerciali o in palazzine appena finite nella zona
della tangenziale. Spazi strategici che in pochi anni
avrebbero avuto uno sviluppo commerciale incalcolabile.
Dopo la bastonata dell'euro che aveva messo in ginocchio
il Paese ci sarebbe certamente stata la ripresa
economica.
La teoria dei flussi e riflussi.
Questo almeno diceva Berlusconi. E come si poteva
non credere in un uomo del nord che si era fatto
tutto da solo e che era diventato il più ricco d'Italia
nonostante i giudici comunisti avessero fatto di tutto
per mettergli i bastoni tra le ruote?
E quando ci sarebbe stata la ripresa, Danilo sarebbe
stato lì pronto ad aspettarla con la sua bella boutique
di intimo.
Ora il problema era che non riusciva a farsi un'idea
di quanti metri quadri ci volessero per mettere su un
negozio di lingerie come Cristo comanda.
Quaranta potranno bastare? Alla fine l'importante è
avere una stanzetta posteriore che serva da magazzino e dove
ci puoi mettere una poltrona per riposarti e un piccolo
frigorifero se improvvisamente ti viene una botta di fame...
E poi, cosa fondamentale, bisognava arredarlo con
gusto, ma di quello Danilo non si preoccupava. C'era
Teresa. Chissà se a sua moglie poteva piacere un negozio
in un centro commerciale...
Figurati.
Ci metteva la mano sul fuoco che lo voleva in pieno
centro, proprio sul corso, per far morire d'invidia
tutto il paese. E in fondo aveva ragione.
Tiè'. In culo a tutti. Guardate la boutique degli Aprea.
Danilo prese un respiro, chiuse il giornale e si avvicinò
alla finestra.
Il vento aveva strappato dallo stendino della casa
di fronte tutti i panni appesi, che erano finiti tra i rami
spogli di un melo. Anche il lampione ondeggiava
a destra e a sinistra e il vicolo si era trasformato in un
torrente che si gettava nel canale accanto alla palazzina.
Attraverso i doppi vetri si sentiva il rombo della
corrente imbrigliata dalle sponde del canale.
Meglio. In giro non ci sarà nessuno.
Il display del videoregistratore segnava le ventidue
e quarantacinque.
Tra un quarto d'ora sarebbe arrivato Quattro Formaggi.
Si era perso dietro gli annunci. Doveva prepararsi
e si doveva coprire bene, se no con quel diluvio rischiava
una polmonite.
Il momento in cui avrebbe rimesso sulla pista di
decollo la sua esistenza parcheggiata da troppo tempo
in un hangar polveroso era finalmente arrivato.
Rino glielo aveva detto tornando da Murelle e lui
per poco dalla commozione non si era messo a piangere.
Poi quando era tornato a casa aveva passato parecchie
ore angosciato sulla tazza del cesso, ma ora
che era arrivato il grande momento si sentiva sereno
come un samurai prima della battaglia. Dentro qualcosa
gli diceva che tutto sarebbe filato liscio, senza
intoppi.
Si avvicinò al televisore e stava per spegnerlo quando
vide un grande dipinto che, appeso su un pannello
verde, occupava tutto lo schermo.
Stavano trasmettendo la solita asta su Canale 35.
Al centro del quadro c'era un pagliaccio, con tanto
di cilindro, cravatta a rombi, naso a palla rosso ciliegia.
Il clown era attaccato come un free-climber al picco
di una montagna e allungava un braccio tentando di
cogliere una stella alpina che cresceva solitaria tra le
rocce grigie.
Il pittore era riuscito a fermare il movimento, come
quando si mette in pausa una videocassetta.
Era facile immaginare la conclusione: il pagliaccio
prende il fiore e se lo porta al naso per sentirne il profumo.
Ma il quadro non finiva lì. Dietro la figura in primo
piano si spalancava un tramonto mozzafiato. A Danilo
ricordava quei tramonti estivi, quando era bambino
e il cielo era un'altra cosa, pareva che il Padreterno
stesso lo avesse dipinto. Le tonalità cromatiche si
fondevano e sfumavano una nell'altra come nella
bandiera della pace. Dal nero al blu al viola fino all'arancione
della valle lontana, su cui galleggiava la
palla del sole avvolta dalle nuvole bianche come una
sposa dal suo velo. Nella parte superiore, dove oramai
la notte si era impossessata della volta del cielo,
brillavano stelline lontane. Ma in basso, la pianura
con i suoi paesi e strade e foreste era ancora bagnata
dagli ultimi raggi di luce.
Danilo non ci capiva un accidente di arte, né aveva
mai desiderato possedere un dipinto. I quadri, alla fine,
sono solo ricettacoli di polvere e acari. Ma quello
lì era veramente un capolavoro.
Altro che Gioconde e Picasso dei miei coglioni.
La cosa che lo emozionava di più era l'espressione
del pagliaccio.
Triste e... non sapeva nemmeno Danilo come definirla.
Ostinata?
No, non esattamente.
Fiera.
Ecco. Quel clown fiero aveva sfidato la montagna e
i suoi pericoli per arrivare fin là sopra. E non era un
alpinista, ma solo un povero pagliaccio. Che fatica incredibile
doveva aver fatto con quelle lunghe scarpe
rotte. E che freddo...
Perché aveva fatto tutto quello sforzo? Chiaro, per
cogliere un fiorellino raro che avrebbe offerto insieme
alla sua anima alla donna amata.
Lui e quel pagliaccio avevano un sacco di cose in
comune. Anche lui era stato trattato come un pezzente,
quasi un assassino, un alcolizzato deriso da tutti,
ma quella notte avrebbe sfidato la montagna, avrebbe
rischiato la vita solo per cogliere un fiore, la boutique
da regalare a Teresa, l'unica donna che avesse amato
in vita sua.
Sì, lui e quel pagliaccio erano tristi e fieri. Due eroi
incompresi.
L'inquadratura si allargò e apparve al lato del dipinto
un signore brizzolato vestito in doppiopetto
blu e con una camicia rosa con il colletto bianco.
Danilo rapido prese il telecomando e alzò il volume.
«Questa tela appartiene alla splendida serie di pagliacci
in montagna del maestro Moreno Capobianco»
diceva il televenditore con una forte erre moscia.
«Ma di tutta la serie, lasciatemi dire, questo è sicuramente
il più efficace e compiuto, un'opera d'arte assoluta,
in cui l'artista ha dato il massimo e meglio ha
espresso come si può dire... ecco, lo scontro titanico e
senza tempo tra uomo e natura. Il significato anche
per i profani è chiaro: il pagliaccio rappresenta la farsa
che supera i confini del mondo come lo vediamo
noi per arrivare lì dove nessuno è mai arrivato. Verso
Dio e l'amore, con un atteggiamento quasi misticoreligioso.»
Danilo era incredulo. L'esperto stava dicendo, in
modo più giusto, le stesse cose che aveva pensato lui.
Alzò ancora il volume.
«Ma, signori miei, senza parlare dei massimi sistemi,
guardiamo le cose concrete: lo splendido paesaggio,
la luce, il fraseggio raffinato, la pennellata decisa...
La pennellata di Capobianco è qualcosa di così
delicato che... Immaginate solo un momentino di
avere un quadro così nel vostro salotto, all'ingresso,
lasciatemi dire, dove vi pare, questa è un'occasione
irrip...»
Danilo guardò la parete spoglia accanto alla porta.
Un rettangolo di un metro per due sembrava pulsare
sul resto del muro.
Lì, deve stare.
Con sopra una piccola luce alogena sarebbe stato
la fine del mondo.
«Immaginate di regalarvi questo capolavoro... Immaginate
di averlo, di possederlo, di poterne fare
quello che volete e solo per settemilacinquecento euro!
Un investimento, signori miei, capace di rivalutarsi
nel giro di cinque anni sette, otto volte, altro che
bot e CCT... Se ve lo lasciate sfuggire, quasi quasi...»
Danilo tornò a fissare lo schermo, poi, come in
trance, afferrò il telefono e compose il numero in sovraimpressione.
64.
Anche Quattro Formaggi aveva visto distrattamente
Quel -pomeriggio di un giorno da cani, ma non aveva in
nessun modo associato il film al colpo. Poi, annoiato,
aveva acceso il videoregistratore e aveva fatto partire
Le grandi labbra di Ramona.
Era andato avanti veloce, fino al punto in cui lei
scopava con lo sceriffo baffone.
«Lo sai che solo le troie fanno l'autostop in questa
contea?» recitò con la voce del rappresentante delle
forze dell'ordine. E poi, in falsetto, imitando il tono
femminile di Ramona: «Non lo sapevo, sceriffo. So solo
che sono disposta a tutto pur di non finire dentro».
Mentre interpretava il dialogo si accucciò a terra e
si mise a costruire con il Lego una nuova stazione ferroviaria.
La finestra, spinta dal vento, si spalancò di colpo e
una folata di pioggia gli bagnò la faccia e buttò giù
una grossa lampada da tavolo che come un'astronave
in panne precipitò su un ponte di cartone pieno di
macchinette, distruggendolo, e poi s'incuneò su una
montagna di cartapesta su cui pascolavano branchi
di rinoceronti e di Puffi azzurri e li sparpagliò tra le
mandrie di pecorelle e Tiny Toons che avanzavano
nella gola di un canyon.
Quattro Formaggi corse a chiudere la finestra.
Quando osservò meglio si accorse che il vento aveva
fatto altri disastri. Le processioni di soldatini blu,
di serpenti, di robot galattici erano a terra e alcuni di
loro galleggiavano in un lago fatto con una scatola di
metallo dei biscotti danesi.
Cominciò a infilarsi le dita tra i capelli e a fare strane
smorfie con la bocca.
Bisognava rimettere subito in ordine. Non poteva
fare niente sapendo che il presepe era in quello stato.
«Ma devo andare da Danilo. Come faccio?» disse a
se stesso strizzandosi una guancia.
Un attimo. Ci metto un attimo.
E se Danilo mi chiama?
Spense il cellulare e cominciò a rimettere in ordine.
65.
«Fabi, ascolta, ho avuto un'idea geniale!» Esmeralda,
improvvisamente, come se avessero schiacciato play
sul suo telecomando, si ridestò e saltò giù dal tavolo.
«Cosa?»
«Facciamo uno scherzo alla Carraccio.»
«Che scherzo?»
Esmeralda e Fabiana erano sicure che Nuccia
Carraccio, la loro professoressa di Matematica, le odiasse
perché le rodeva che loro due erano belle e lei era un
mostro. E oltre a non dargli mai la sufficienza erano
certe che facesse le messe nere insieme a Pozzolini,
l'insegnante di Educazione fisica, contro di loro.
«Il ciccione! Hai presente il ciccione?»
«Quale ciccione?»
«Quello della seconda C.»
«Rinaldi?»
«Esatto.»
Matteo Rinaldi era un ragazzino sfortunato, affetto
da un grave squilibrio ipofisario, pesava centodieci
chili a dodici anni. In quinta elementare era stato un
po' famoso perché aveva fatto il testimonial per una
campagna contro l'obesità infantile promossa dalla
Provincia.
Fabiana si stiracchiò e sbadigliò un: «Be'?».
«Ravanelli mi ha raccontato che ha fatto lo scout
con Rinaldi e che una volta Rinaldi ha cagato in un
campo. E lui per curiosità è andato a vedere lo stronzo...»
Esmeralda scosse la testa. «Non sai... Ha detto
che era grosso come...» Non le veniva. «Una confezione
di polenta precotta. Hai presente?»
«No. Non l'ho mai vista. Di solito mia madre la fa.
Ma com'è? È buona?»
«Insomma. Si taglia e si riscalda al forno. Meglio
quella fatta in casa. Comunque...» Esmeralda indicò
la grandezza con le mani e poi aggiunse: «E dice che
era bello compatto, tipo siluro».
«E allora?»
«Dobbiamo convincere Rinaldi a cagare sulla cattedra.
Il mercoledì prima di mate c'è ginnastica. In quell'ora
lo portiamo in classe e lo facciamo salire in cattedra
a cagare.»
Fabiana sghignazzò: «Che stronzata».
Esmeralda la fissò delusa. «Perché?»
«Come lo convinci Rinaldi a fare una cosa simile?»
In effetti a questo Esmeralda non aveva pensato.
La loro arma, la seduzione, che piegava praticamente
tutti i maschi della scuola ai loro voleri, su quel ciccione
asessuato non aveva effetto.
«E se gli offrissimo dei soldi? Del cibo?» buttò là
Esmeralda.
«No, è ricco da fare schifo. Forse però se gli fai un
pompino...»
Esmeralda con una faccia schifata: «Che vomito...
Nemmeno se mi uccidono».
Fabiana si toccò le reni con una smorfia di dolore.
«Quanto ti faresti pagare per fargli un pompino?»
«Non c'è cifra!»
«Mille euro?»
«Ma sei scema? Troppo poco.»
«Tremila?»
Sorrise. «Tremila, ci si può pensare...»
Era il loro gioco preferito. Passavano ore a immaginare
di fare seghe, pompini, di farsi sodomizzare dagli
esseri più orrendi che conoscevano per denaro.
«E se devi scegliere tra Rinaldi e...» Fabiana non
riusciva a pensare a niente di più disgustoso, ma poi
ebbe un'illuminazione: «... il tabaccaio del centro
commerciale?».
«Quello con il parrucchino attaccato con il Vinavil?»
«Esatto!»
«Non lo so... A nessuno.»
«Se non lo fai, uccidono tuo fratello.»
«Bastarda! Non vale!»
«Vale! Vale!»
Esmeralda ci rifletté un po'. «Alla fine, pensandoci
bene, al tabaccaio. Almeno potrei rimediare una stecca
di sigarette.»
«Con l'ingoio, però.»
«Eh certo, a quel punto gli faccio il lavoro completo...
Ma ti immagini se ci riuscissimo? T'immagini
quando la Carraccio entra in classe e si trova uno
stronzo fumante piazzato sulla cattedra? Un monumento
alla sua persona...»
«Quella chiama i carabinieri...»
«E i carabinieri devono requisirlo.»
«Perché?»
«È una prova...»
«Ma non lo possono toccare, se no ci lasciano le impronte.»
Esmeralda scoppiò a ridere. «E lo portano alla cosa...
Alla... Oddio, come si chiama?»
«Chi?»
«Quelli che studiano le prove... Dai... Quelli...»
Niente. Non le veniva proprio. Aveva la sensazione
di avere la testa piena di gommapiuma.
«Non lo so... A chi lo portano?»
«Dai, quelli dei telefilm...»
«La Scientifica?»
«Brava. Fanno la prova del dna e così incastrano
Rinaldi.»
66.
Lo aveva fatto. Aveva telefonato e si era comprato il
Pagliaccio scalatore, il capolavoro di Moreno Capobianco.
Facilissimo.
Danilo Aprea camminava tutto soddisfatto per il
salone, osservando la parete su cui avrebbe appeso il
quadro.
Che meraviglia. Entravi e ti accoglieva un pagliaccio
scalatore. Avrebbe dato alla casa un tocco di eleganza
e raffinatezza uniche. Un dipinto di quel livello
era in grado di dare luminosità pure a una catacomba.
In mano Danilo teneva un bicchierino di grappa.
Si era giurato di non bere neanche un goccio, prima
del colpo, ma non si poteva non brindare a un acquisto
del genere. Forse era stato un po' frettoloso a
prenderlo, ma con la certezza dei soldi del Bancomat
aveva fatto bene.
«Strabene.» Sollevò il bicchiere verso la parete
bianca.
La signorina del call center era stata gentilissima.
Gli aveva fatto i complimenti e aveva aggiunto che i
quadri di Capobianco andavano via come il pane.
Se non chiamavo subito lo perdevo sicuramente.
Danilo aveva preso un appuntamento senza impegno
per il giorno dopo. Un loro esperto gli avrebbe
portato la tela direttamente a casa.
«Alla nuova vita!» E ingollò in un sorso il bicchiere.
La signorina gli aveva assicurato che avrebbe potuto
guardarlo per tutto il tempo che voleva e poi
decidere con calma. Danilo non glielo aveva detto,
ma lui aveva deciso di comprarlo nel momento stesso
in cui la figura del pagliaccio era apparsa sul televisore.
Quel quadro gli aveva parlato attraverso lo schermo.
Il battesimo della nuova vita di Danilo Aprea.
Prima il quadro e immediatamente dopo la boutique
per Teresa.
E tutto sarebbe ricominciato.
67.
Gli abbaglianti della Puma di Beppe Trecca illuminavano
una immensa insegna a forma di banana su cui
era scritto campeggio Bahamas.
Eccoci.
L'assistente sociale, tutto emozionato, uscì curvo
dalla coupé metallizzata riparandosi con un ombrellino
striminzito che il vento gli rivoltò come un
imbuto. Si avvicinò al cancello chiuso con una catena
e tirò fuori dalla tasca dell'impermeabile il mazzo
di chiavi del camper di Ernesto, il marito di sua
cugina.
Ci saranno anche quelle del cancello.
Ma non ne aveva la certezza visto che le aveva...
(rubate.)
... prese in prestito dalla vaschetta all'ingresso dell'appartamento
di sua cugina Luisa, senza dire nulla.
Vabbè, e che problema c'è? Domani mattina gliele rimetto
a posto e nessuno si accorgerà di niente.
L'idea di chiedere a Ernesto se gli prestava il camper
per la notte non lo aveva neanche sfiorato, e questo
per due ragioni:
1.) Il marito di Luisa era curioso come una scimmia
e avrebbe scoperto tutto e nessuno al mondo doveva
sapere di lui e Ida Lo Vino. Se fosse venuto fuori qualcosa,
lui era un uomo finito.
2.) Il camper Ernesto non lo prestava a nessuno. Per
comprare quella casa viaggiante si era indebitato fino
al collo.
Beppe riuscì a trovare la chiave che apriva il lucchetto,
spinse il cancello ed entrò nel campeggio con
la macchina, senza richiuderlo.
Il piazzale coperto di ghiaia che affacciava sul
Forgese era allagato. Il fiume, nero come inchiostro,
che scorreva di solito a una trentina di metri da lì,
ora si era ingoiato il moletto e lambiva la baracca
delle canoe. Le palme con le foglie mangiate dall'inverno
erano sballottate da refoli di vento e pioggia.
Anche dietro i vetri si sentiva il frastuono del fiume
in piena.
Una nottata più schifosa di quella per un incontro
romantico era difficile immaginarla.
I camper e le roulotte erano parcheggiati uno accanto
all'altro.
Ora, quale diavolo è quello di Ernesto?
Beppe si ricordava che si chiamava qualcosa come
Rimmel. Alla fine proprio in fondo alla fila vide un
bestione bianco con scritto sopra Rimor SuperDuca
688TC.
Eccolo lì.
In quel coso si sarebbe compiuto l'atroce tradimento.
Sì, perché, Beppe ne era cosciente, quella che si
apprestava a compiere era una vera e propria infamata,
un attentato in piena regola all'integrità di una
famiglia. Il povero Mario non se la meritava proprio
questa mascalzonata dal suo migliore amico.
(Lascia stare. Tornatene indietro. Mario ti ha accolto in
casa sua come un fratello. Ama sua moglie da morire e si
fida di te.)
Parcheggiò cercando di non ascoltare la voce della
sua coscienza.
(Sicuramente anche Ida ti sarebbe riconoscente.)
Beppe sospirò spegnendo il motore.
Sono una merda. Lo so. Vorrei, ma non posso... Forse
dopo averla avuta mi tirerò indietro. Ma così non posso vivere,
devo averla almeno una volta.
Scese dalla macchina e girò intorno al camper tirandosi
dietro un trolley blu tra le pozzanghere.
Dopo un paio di tentativi la porta si aprì, e con un
miscuglio di eccitazione e senso di colpa l'assistente
sociale salì la scaletta ed entrò, mentre un lampo colorava
di blu la dînette e il divanetto.
68.
Cristiano Zena fu svegliato da un tuono così potente
che per un attimo pensò che sulla statale fosse esplosa
un'autocisterna.
Tastò i cuscini, lo schienale e si rese conto di essere
sul divano. Si era addormentato mentre vedevano il
film con Al Pacino.
Era tutto buio. La pioggia picchiava sui vetri e il
cancelletto, in cortile, sbatacchiava spinto dal vento.
«Tranquillo, Cri. Se n'è solo andata la luce.»
Cristiano riuscì appena a distinguere i lineamenti
del viso di suo padre, tinti di rosso dalla brace della sigaretta.
«C'è un temporale della madonna. Vai a letto.»
«Ma che ore sono?»
«Non lo so. Le undici e mezzo, circa.»
Cristiano sbadigliò. «Come fate a prendere il trattore?
La strada del fiume sarà un mare di fango.»
«Sicuro» rispose Rino con voce tranquilla.
Cristiano stava per chiedergli se poteva andare anche
lui, ma ci ripensò. Sapeva quale sarebbe stata la
risposta. «Ma non è tardi?» domandò alla fine.
«Boh.»
«Che c'è? Non lo vuoi più fare?»
Suo padre sbuffò dal naso. Silenzio. Poi: «No».
«Perché?»
«Ci ho ripensato.»
«Perché?»
«Troppo pericoloso.»
Cristiano non sapeva se esserne contento. Con i soldi
avrebbero potuto comprare un sacco di cose, avere
una macchina nuova, vivere meglio, viaggiare. D'altra
parte però il colpo lo aveva sempre un po' preoccupato.
Alla fine, meglio così. Ripensandoci aveva
sempre avuto la sensazione che suo padre, in realtà,
non avesse mai voluto farlo.
Cristiano si mise a sedere e incrociò le gambe. «E
ora che gli dici a Danilo?»
«Ho malditesta. Vai a letto.» Rino cominciava a innervosirsi.
Come se suo figlio gli stesse stuzzicando
una ferita aperta. Cristiano sapeva che era meglio lasciar
perdere, ma gli dava fastidio da morire che suo
padre non mantenesse mai le promesse. Come quando
aveva detto che gli regalava la PlayStation per
Natale.
«Ma glielo hai promesso.»
«E chi se ne sbatte.»
«Danilo ti odierà.»
«Nessun problema. Se vuole lo fa con qualcun altro.
Non con me.»
«Sì, ma tu sei il loro capo. Da soli non ce la possono
fare, lo sai benissimo. Non li puoi mollare così.» Mentre
parlava, Cristiano si chiese perché cavolo continuava
a insistere se era contento che suo padre avesse
deciso di mollare.
Rino cominciò a urlare: «Ascoltami bene, scemetto.
Ficcati in testa che io non sono il capo proprio di nessuno,
soprattutto di quei due, e poi io ho un figlio, al
contrario di loro. Io non me la rischio per qualche
spiccio. Fine della discussione».
La luce tornò. La televisione si riaccese. In cucina il
frigorifero cominciò a ronzare.
Cristiano strizzò le palpebre. «E quando glielo dici?»
Rino aprì una lattina di birra e ci si attaccò. Poi, pulendosi
la bocca con un braccio, rispose: «Adesso.
Quando vengono qui. Tu vai a letto. Non mi va di discutere
con te davanti. Muoviti».
Cristiano stava per ribattere che non era giusto,
che lui c'era sempre stato alle loro riunioni e ci doveva
essere anche ora, ma si morse la lingua.
«Che palle...» Si alzò e si avviò verso le scale senza
dire nemmeno buonanotte.
Tanto da sopra si sentiva tutto.
69.
Nel camper c'era un puzzo orrendo.
E non era solo l'umidità, era qualcosa di molto
peggio, di disgustoso... Qualcosa che aveva a che fare
con escrementi umani e cessetti chimici.
Beppe Trecca cominciò a tastare alla cieca le pareti
alla ricerca di un quadro elettrico.
L'estate prima era salito su quell'affare quando
erano andati al convento di San Giovanni Rotondo,
ma aveva avuto il mal d'auto per tutto il viaggio.
Finalmente, dietro un mobiletto, trovò degli interruttori
e cominciò a spingerli a caso.
I neon sul soffitto e i faretti sul tinello si accesero
spandendo una luce gelida.
Di fronte aveva uno spazio angusto occupato da
mobili rivestiti di formica beige, la zona giorno con il
tavolinetto e il divano e sopra la cabina di guida la
verandina con un letto matrimoniale.
Con una mano sulla bocca aprì la porta del cessetto.
Fu come ricevere un cazzotto in faccia. L'assistente
sociale, paonazzo, stordito dal tanfo, si dovette appoggiare
contro una parete per non finire giù sulla
moquette azzurrina.
Il fetore, compatto come un muro, era umano e
chimico contemporaneamente. Per un attimo pensò
che il marito di sua cugina avesse sciolto nell'acido
una carogna, ma poi vide nella tazza un liquame violaceo
in cui galleggiava del materiale a prima vista
organico di origine incerta.
Si attaccò a un grosso pulsante rosso sperando che
qualche pompa prosciugasse quella gora pestilenziale,
ma non fu così. L'unica cosa che riuscì a fare fu
aprire l'oblò, avviare un ventilatorino stanco e richiudere
la porta.
L'impatto con la puzza era stato così forte che solo
adesso si rese conto che in quel camper c'erano minimo
cinque gradi sottozero e la pioggia lo martellava
come un'incudine.
Come funzionava l'impianto di riscaldamento? Ma
soprattutto: i camper hanno l'impianto di riscaldamento?
Dovrebbero.
Poggiò il trolley sul tavolo e aprì la zip. Cominciò a
disporre sul cucinino una serie di contenitori di alluminio
che contenevano pollo al bambù, springroll, ravioli
al vapore, maiale in agrodolce e riso alla cantónese.
Tutto preso al ristorante La Pagoda Incantata al
ventesimo chilometro della statale. Poi tirò fuori una
bottiglia di Falanghina che aveva pagato dodici euro
e una di vodka al melone per dare a Ida la botta finale
in caso...
(Cosa?)
Niente.
Dispose una tovaglia rossa sul tavolinetto, dei piatti
di plastica, le bacchette e poi accese delle candele al
cedro e una decina di bastoncini d'incenso che cominciarono
a esalare spire di fumo bianco.
Così nascondo la puzza...
Il telefonino nella tasca della giacca fece un paio
di bip.
Messaggio.
Prese l'apparecchio e lesse:
MARIO È TORNATO ALL'IMPROVVISO.
ASPETTO CHE VADA A DORMIRE E ARRIVO.
70.
Erano le undici e mezzo e Fabiana Ponticelli non poteva
credere di essere ancora stesa sul letto di Esmeralda.
Era in ritardo di un'ora, ma all'idea di uscire e farsi
venti minuti in motorino sotto la tempesta le veniva
da piangere.
In più non riusciva a non pensare che il mattino
dopo, prima della scuola, doveva andare dal dentista
che le avrebbe beccato il piercing sulla lingua.
£ se me ne fotto e rimango qui a dormire? Così perderei
anche il dentista. Cosa può succedere?
Innanzitutto il Merda le avrebbe confiscato il motorino.
La cosa a cui lei teneva di più e che le permetteva
di fuggire da Giardino Fiorito, il comprensorio
in cui viveva la sua famiglia.
Sì, perché lui non toglieva, confiscava. E ci godeva
da morire.
«Ti confisco il telefonino!» «Ti confisco gli anfibi.»
Ti confisco la gioia di vivere.
Ma quanto lo detestava? Le sarebbe piaciuto quantificarlo,
avere uno strumento come quello della pressione,
l'odiometro, che le indicasse l'odio che provava
per suo padre. L'avrebbe fuso. Lo odiava quanto tutti
i granelli di sabbia delle spiagge del mondo. No, di
più. Quanto le molecole d'acqua del mare. No, ancora
di più. Le stelle dell'universo. Ecco.
Alla fine il motorino me lo leva per una settimana, dieci
giorni al massimo.
Sapeva di essere così angosciata per colpa di quell'erba
che si erano fumate. Da qualche tempo le canne
non la facevano più ridere come all'inizio, ma la
rendevano paranoica.
Per tenere sotto controllo quell'effetto Fabiana si
era scolata mezza bottiglia di limoncello.
L'alcol e l'erba erano due mostri che combattevano
per averla vinta sulla sua mente. Quello di marijuana
era geometrico. Tutto punte, lame, spigoli. Quello di
limoncello, invece, era amorfo, bavoso e cieco. E se li
prendevi nelle giuste proporzioni, i due mostri invece
di combattersi si fondevano in un ibrido perfetto
che ti faceva stare in grazia di Dio.
Ma ora il mostro aveva perso la sferica perfezione e
aveva tirato fuori lame e punte (colpa dell'ultima maledetta
canna) e continuava a piantargliele nel cervello.
Fece un respiro e buttò fuori l'aria.
In questi casi mai pensare ai genitori, alla scuola, a
una stronza visita dal dentista.
Ma se non vado dal dentista il Merda s'insospettisce.
Come minimo pensa che sono rimasta incinta.
Perché a Esmeralda non venivano mai le paranoie?
Si sfondava di canne e non aveva nessun effetto collaterale.
Doveva essere un fatto genetico.
Bevi. Bevi che tifa bene.
Fabiana si attaccò al fondo di limoncello caldo e
cercò di pensare ad altro senza riuscirci. «Che ansia...»
le scappò fuori.
Esmeralda, intenta a strapparsi i peli delle sopracciglia
con una pinzetta, sollevò la testa. «Cosa?»
«Devo andare a casa.»
«Rimani a dormire qui. Dove vai? Hai visto cosa
c'è fuori?» Esmeralda si accese una sigaretta.
«Non posso. Mi ammazzano se non torno a casa.»
Esmeralda prese a bruciarsi le doppie punte con la
brace. «La verità è che tu non hai metodo, ai tuoi non
li mandi a cagare abbastanza. È solo una questione di
regolarità. Devi essere inflessibile con te stessa, anche
se non ti va lo devi fare tutti i giorni. Hai visto me? Io
mando a cagare mia madre tutti i santi giorni e abbiamo
risolto ogni conflitto.»
Fabiana non rispose. In quella stanza mancava l'aria.
Tra incensi, canne e sigarette c'era una nebbia che
quasi non riusciva più a vedere Esmeralda.
«Esme, apri la finestra che soffoco.»
L'amica, concentrata nella sua opera di coiffeuse,
non le diede retta.
"Signora, sua figlia ha una pallina d'argento sulla lingua.
" Ecco cosa avrebbe detto a sua madre il dentista.
Era stata brava, era riuscita a nascondere il piercing
fino a quel momento. Non era stato un problema.
Bastava tenere la bocca chiusa, evitare sbadigli e
soprattutto non ridere mai. Ma a casa sua, tanto, c'era
poco da ridere.
Il vero problema era stato abituarsi ad avere un
chiodo piantato in mezzo alla lingua. E, a dirla tutta,
Fabiana non c'era ancora riuscita. Continuava a rigirarselo
in bocca, a passarselo sui denti e arrivava a
sera con la lingua gonfia e la bocca indolenzita.
Quando sua madre lo avrebbe scoperto si sarebbe
messa a fare una sceneggiata pietosa davanti al dentista,
ai pazienti, a chiunque. Sua madre adorava fare
figure di merda in pubblico. Ma più di questo non
poteva succedere. Quella donna aveva la spina dorsale
di un invertebrato.
Hai accettato quello sul sopracciglio, quello sull'ombelico,
ora, mammina cara, devi accettarne un altro. E che
sarà mai?
La tragedia era se lo diceva al Merda. E siccome
mammina non aveva una sua personalità definita,
una vita individuale, ed era solo un organo esterno di
suo marito, Fabiana ci poteva scommettere che glielo
andava a dire.
Però, riflettendoci, c'era anche la possibilità che
per una volta in vita sua l'organo esterno trattenesse
lo stimolo a confessare ogni cosa. E questo solo ed
esclusivamente per sporche ragioni utilitaristiche.
Suo padre le avrebbe rotto i coglioni per i prossimi
dodici anni accusandola di non saper tirare su i figli.
E poi chi lo diceva che il dentista avrebbe spiattellato
tutto?
«Scommetto che sei entrata in para per il piercing!»
disse Esmeralda.
Ma come faceva quella là a capire sempre a cosa
stava pensando? Le leggeva nel pensiero?
Fabiana guardò l'amica che stava rollando un'altra
canna.
Cercò di apparire tranquilla. «No, stavo pensando
a tutt'altro.» Ma era come se in fronte avesse scritto a
caratteri cubitali: beccata!
«E a cosa pensavi?»
«A niente.»
«Pensavi a quando il dentista andrà da tua madre...
"Signora, sua figlia si è fatta il piercing sulla lingua"...»
Ma quanto ci godi che i miei mi rompono i coglioni?
«Guarda che i medici sono costretti per professione a
non rivelare niente.»
Esmeralda sollevò il naso dalla cartina e fece un'espressione
esterrefatta. «Ma sei fuori? Il dentista?»
«È così. Fanno un giuramento... Lo so...»
«Sì, il giuramento di Senofonte. Come no... Stai a
sentire me... Non ci andare. Rimani qua. Io, se fossi in
te, non me li inculerei di striscio al Merda e a tua madre...
Ti comandano a bacchetta, ti considerano una
cretina. Fatti valere, per una volta in vita tua.»
Fabiana si tirò su dal letto.
Esmeralda le aveva dato la forza di tornare a casa.
Cominciò nervosamente a cercare i vestiti in mezzo
al casino sparso sul pavimento.
«Sai che faccio? Me lo tolgo per andare dal dentista.»
E avrebbe voluto aggiungere che quel coso non
le piaceva, anzi che le faceva proprio schifo e che, alla
fine, era solo un incubo soprattutto da quando qualcuno
le aveva detto che il piercing alla lingua fa venire
i tic e per il resto della vita sembri un cammello
che rumina.
«Fai una stronzata grossa come una casa, io ti avverto...
Cosa ti ha detto James? Che se lo levi si cicatrizza
subito.» Esmeralda chiuse la canna con un colpo
preciso di lingua.
Fabiana s'infilò la maglietta. «Solo il tempo della
visita...»
Esmeralda accese la canna e buttò fuori una nuvola
bianca. «Basta e avanza. Le mucose si richiudono
subito! E scordati che poi te lo rimetto io.»
Fabiana non replicò, finì di vestirsi e si diede un'occhiata
su un lungo specchio incorniciato da foto di
Christina Aguilera e Johnny Depp. Aveva gli occhi
iniettati di sangue e le labbra secche come Reagan, la
ragazzina dell'Esorcista. Si passò le mani tra i capelli e
si rimise il rossetto. «Vabè, io vado.»
Esmeralda porse la canna a Fabiana. «Almeno facciamoci
il cannino della buonanotte.»
«No, sono troppo cotta. Non mi reggo in piedi.
Vado.»
«E dai, Fabi, lo sai che porta sfiga farsi le canne da
soli» fece Esmeralda con la vocina da bambina triste.
«Devo andare...»
Le afferrò la mano. «Sei arrabbiata, vero, perché ti
ho detto del dentista?»
«No, è che devo andare.»
Esmeralda abbassò gli occhi neri e poi li rialzò.
«Scusami, Fabi...»
«Di che?»
«Lo sai... Non succederà niente, vedrai. Al massimo
tua madre ti fa una scenata dal dentista... Tranquilla.»
Fabiana si accorse che la rabbia si era volatilizzata.
Bastava che Esmeralda la guardasse in quel modo e
lei si scioglieva come una cretina. «Vabè, però poi
scappo.»
«Ti amo!» Esmeralda scattò in piedi e le stampò un
bacio sulla bocca e l'abbracciò forte e poi disse: «Però
questa ce la facciamo seria. Passami la bottiglia di
Uliveto e una penna».
71.
Quell'imbecille di Quattro Formaggi era in ritardo di
più di mezzora.
Danilo Aprea si aggirava per il salotto in galosce,
giaccavento blu, sciarpa e cappello di loden e ripeteva
come un disco rotto: «Non è possibile, non è possibile!
Dove diavolo è finito?».
Aveva già provato a chiamarlo sei volte sul telefonino
e ogni volta il maledetto utente del cazzo non
era raggiungibile.
«Ma che razza di deficiente...» borbottò Danilo
crollando a peso morto sul divano. «Non è possibile
lavorare con certa gente. Accendi il telefono,
stronzo!»
Si versò il quarto (era il quarto o il quinto?) bicchierino
di grappa e se lo scolò con una smorfia.
Forse doveva chiamare Rino e dirgli che Quattro
Formaggi era in ritardo sulla tabella di marcia, perso
chissà dove.
Ma Rino s'incazza subito.
E quella sera non c'era spazio per le incazzature.
Dovevano essere una squadra unita, compatta e
motivata.
Ma come si fa a formare una squadra compatta e
motivata insieme a un pazzo isterico e allo scemo del
villaggio?
Stava per versarsi un altro goccio, ma ci ripensò.
Poi mi ubriaco...
Chiuse gli occhi cercando di calmarsi.
«Ora arriva. Ora arriva. Ora...» prese a ripetere come
un mantra. «Se non arriva entro un quarto d'ora
giuro che lo ammazzo.» Si zittì e sentì la furia della
tempesta avvolgere la palazzina e giù il canale ribollire
gonfio d'acqua.
72.
Ecco fatto, finito.
Tutti gli abitanti del presepe erano di nuovo in piedi
e il ponte era stato rimesso in sesto. Questo lo faceva
stare assai più tranquillo. Ma quel ponte era da
tempo che gli dava preoccupazioni e prima o poi ne
avrebbe dovuto costruire uno più grande e resistente,
almeno a tre corsie.
Quattro Formaggi s'infilò i pantaloni impermeabili
e ricontrollò per l'ennesima volta se gli fosse sfuggito
qualcosa.
La mattina dopo, prima di tutto, avrebbe rimesso a
posto la collina e già che c'era poteva farla diventare
una montagna, alta, di roccia. Poteva andare al fiume
e caricarsi qualche masso dal greto ed era fatta.
Un sacco di animali vivono sulle rocce.
Gli... Non gli veniva il nome. I cosi. Quelli con le lunghe
corna che saltano.
«Gli stambecchi» fece infilandosi gli stivali di gomma.
Si mise in testa il passamontagna e sopra il casco
integrale verde.
Afferrò la cerata gialla, ma non la indossò.
Danilo gli aveva detto di non usarla perché si vedeva
a chilometri di distanza.
Ma chi vuoi che ci sia in giro con questo tempo?
Se la mise.
Non aveva nessuna voglia di uscire. Se ne sarebbe
rimasto volentieri a casa a lavorare sul presepe.
Proprio quella sera dovevano fare il colpo? Con
tutta quella pioggia?
Spense la televisione mentre Ramona usciva dalla
casa tutta nuda e incontrava Bob il boscaiolo e gli diceva:
«Tira fuori il tronchetto della felicità che ci divertiamo».
«Basta, vai» si ordinò. S'infilò i guanti e uscì di casa.
73.
Cristiano Zena era nel suo letto, sepolto sotto tre strati
di coperte, e ascoltava la tempesta. Appena chiudeva
gli occhi gli sembrava di essere nella cuccetta di
un transatlantico al centro di un uragano. La pioggia
batteva contro i vetri della finestra e gli infissi scricchiolavano
spinti dal vento. Dal davanzale colava
dentro la stanza un filo d'acqua e in un angolo del
soffitto si era allargata una macchia scura e ogni uno,
due, tre, quattro, cinque secondi cadeva una goccia
facendo un bel plic.
Avrebbe dovuto alzarsi e mettere un secchio e arrotolare
uno straccio e poggiarlo sul davanzale per
fermare la pioggia, ma aveva così sonno...
74.
Fabiana Ponticelli uscì dalla stanza di Esmeralda reggendosi
in piedi a fatica. Rimase nel corridoio in penombra
a cercare la forza per affrontare la tormenta.
L'ultima canna le aveva dato la botta finale.
Mi viene da vomitare.
Alla sua sinistra, su una lunga credenza, scorse le
sagome di quattro vasi cinesi e per un secondo la
sfiorò l'idea di vomitarci dentro.
Barcollando e poggiando le mani sulle pareti ricoperte
di vecchi tappeti arabi e di scaffali pieni di libri
avanzò verso l'uscita. La porta d'ingresso, in fondo al
corridoio, era rischiarata da una macchia di luce rossastra
che proveniva dal salotto.
Ti prego, Dio, fa' che non ci sia la madre di Esmeralda...
Se mi vede in questo stato...
Nell'ultimo anno Serena Guerra le aveva beccate
in condizioni anche più disastrose di quella, abbracciate
alla tazza del cesso o in coma sul letto.
Quella volta che ci eravamo sparate l'acido e...
Però adesso, con la paranoia che aveva addosso,
Fabiana non credeva di poterle dire nemmeno "buonanotte".
Vai dritta, rapida, non ti fermare, non guardare in salotto,
apri la porta ed esci.
Si chiuse meglio la giacca impermeabile, sollevò il
cappuccio, prese un respiro e puntò l'uscita disinvolta
come un corazziere alla parata delle forze armate,
ma quando fu davanti alla porta del salotto ci buttò
una rapida occhiata.
Serena Guerra era stesa a terra su una stuoia di
cocco e sfogliava un grande libro di fotografie.
La stanza era illuminata dal debole bagliore del
fuoco che moriva nel camino e da una decina di candele
poggiate su una cassapanca di legno rosso. Su
un vecchio divano, tutto avvolto nelle coperte e con
un buffo cappello di lana in testa, dormiva a bocca
aperta il piccolo Mattia.
Anche nelle condizioni psicofisiche precarie in cui
si trovava, Fabiana non poté fare a meno di stupirsi
per la milionesima volta di quanto mamma e figlia si
somigliassero.
La prima volta che le aveva viste insieme, Esmeralda
e Serena, era rimasta senza parole. Stessi capelli lisci
e bruni, stesso ovale. Stessi occhi, stessa forma
della bocca, stesso tutto. Solo che Serena era la versione
extrasmall di Esmeralda. Le dividevano dieci
centimetri buoni. Sulle braccia e sulle spalle la madre
era più muscolosetta, e aveva la carnagione più chiara
e il naso un po' irregolare e gli occhi più dolci e liquidi.
Una certa spigolosità dei tratti della figlia era
come limata nel volto della madre.
Serena doveva avere una quarantina d'anni, ma
sembrava molto più giovane. Poteva passare tranquillamente
per una trentenne.
Fabiana trovava che si vestisse benissimo. Quella
sera indossava un paio di Levi's a vita bassa, gli stivali
texani, un golf di lana grezza con sopra dei disegni
geometrici e si era raccolta i capelli in tante treccine.
Qualche giorno prima, in condizioni non tanto diverse
da quelle, Fabiana aveva incrociato la madre di
Esmeralda e avevano chiacchierato. Serena ti faceva
stare a tuo agio, ti trattava come un'adulta e ti ascoltava.
Solo che quella sera l'aveva guardata un po' più
a lungo e poi le aveva chiesto: «Non è che voi due vi
fate troppe canne?».
Fabiana, come un cane che l'ha fatta sul tappeto, si
era acquattata contro la parete e con un sorriso che
per poco non si era slogata la mandibola aveva detto
falsissima: «Cosa? Non ho capito, scusa».
«Non è che vi fate troppe canne?»
Aveva aperto la bocca e aveva sperato che le uscisse
qualcosa di sensato, ma non era successo niente e
allora l'aveva richiusa e aveva fatto no con la testa.
«Lo so... Sono affari vostri e sono sicura che... ecco,
sono sicura che siate abbastanza intelligenti per sapervi
regolare. Ma con le canne è facile farsi prendere
la mano... E poi diventa difficile concentrarsi a scuola...
Scusami se ti rompo... Non lo faccio di solito.»
Le costa da morire dirmelo, aveva pensato Fabiana.
«Sono un po' preoccupata, se vuoi sapere la verità.
Con Esmeralda in questo periodo è impossibile parlare...
È sempre arrabbiata, come se le avessi fatto
qualcosa di terribile. Mi risponde in un modo così aggressivo
che mi mette paura... Io dico solo che se vi
fate troppe canne poi vi isolate e il mondo inizia a
sembrarvi piccolo e soffocante... Forse dovreste cercare
di uscire di più, di non stare sempre sole, rinchiuse
in quella...»
Fabiana, a bocca aperta, l'aveva fissata con l'espressione
sbalordita di un bambino davanti a un camaleonte
che cambia colore.
Il mondo piccolo e soffocante.
Ecco, la madre di Esmeralda aveva centrato quello
che lei da un po' sentiva dentro e la faceva stare così
male.
Un mondo piccolo e soffocante. Da cui te ne devi andare
appena finisci la scuola. Te ne devi andare in America, a
Roma, a Milano, dove vuoi tu, ma te ne devi andare via da
questo paese piccolo e soffocante.
Perché quell'essere sensibile, bellissimo, in piedi davanti
a lei era la madre di Esmeralda e non la sua? Perché
era così sfortunata da essere la figlia di una donna
che aveva l'apertura mentale di una suora di clausura
e che passava l'esistenza a ripetere la cantilena che
papà stava passando un momento difficile al lavoro e
che dovevano impegnarsi a rendergli la vita più facile?
E io? Io non esisto? No, per mia madre io non esisto. O
meglio, esisto perché faccio parte della famiglia Ponticelli e
quindi devo essere Brava, Buona e Bella.
Ma non è meravigliosa una madre che ti dice che se ti
sfondi di canne non sono affari suoi?
Quando sua mamma aveva scoperto in una tasca
dei pantaloni un minuscolo pezzetto di fumo prima
aveva simulato uno svenimento, poi l'aveva portata
a parlare da Beppe Trecca, l'assistente sociale, e poi
aveva cercato di spedirla in collegio in Svizzera. E se
non fosse stato per la tirchieria del Merda a quell'ora
sarebbe stata confinata a Lugano in un collegio paramilitare.
E la cosa più assurda di tutte, che la faceva stare
troppo male, era che Esmeralda non si rendeva conto
di quanto fosse fortunata ad avere una madre così. Le
rispondeva male per principio. Alzava gli occhi al
cielo. Sbuffava.
Per un secondo, nascosta nell'ombra, Fabiana fu
indecisa se chiedere a Serena di accompagnarla a casa.
Ma era meglio la pioggia che farsi vedere in quello
stato.
Con la leggerezza furtiva di Eva Kant, Fabiana
Ponticelli girò la chiave nella serratura e se ne uscì
nella tempesta.
75.
Danilo Aprea stringeva la cornetta con due mani come
fosse una mazza ferrata. «Rino, ma come cazzo
faccio a stare calmo? Dimmelo tu! Quell'idiota è
scomparso! Siamo in un ritardo incr...»
«Arriverà. Stai calmo! E poi in ritardo rispetto a cosa,
scusami? Se arriviamo prima o dopo che diavolo
ti cambia?» rispose Rino sbadigliando.
Dentro le pareti dello stomaco di Danilo Aprea
zampillava acido cloridrico puro. Fece uno sforzo
sovrumano per non mettersi a urlare così forte da
farsi saltare una coronaria. Doveva stare calmo. Molto
calmo. Ingoiò la bile che gli urticava l'esofago e
pigolò: «Come rispetto a cosa? Ti prego, Rino, non
fare così...».
«Non fare così cosa? Ma hai visto che tempo c'è
fuori? Come ci andiamo, a prendere il trattore? A
nuoto? Intanto aspettiamo che diminuisce e poi si
vedrà.»
Danilo inspirava ed espirava gonfiando e sgonfiando
le guance come Dizzy Gillespie.
«Ma cosa stai facendo? Hai l'asma?» gli domandò
Rino.
«Niente. Niente. Hai ragione tu. Come sempre hai
ragione tu. Aspettiamo.»
Odio puro.
Era quel tono pacato di Rino, da padreterno sotutto
io che rimaneva calmo pure quando i marziani invadevano
la Terra, che lo faceva diventare folle di
rabbia. Quanto avrebbe goduto a piantargli un pugnale
nel cuore. Cento, mille volte urlando: "Sai tutto
tu, eh? Hai proprio ragione, sai tutto tu!".
«Bravo. Devi rilassarti. Vi aspetto qui, che dobbiamo
parlare.» E Rino riattaccò senza nemmeno salutare.
«Parlare? Parlare di cosa?» urlò Danilo, afferrò il
telecomando e lo scagliò contro il muro mandandolo
in pezzi e poi cominciò a saltarci sopra.
76.
Il cielo pesto si abbatteva come un martello su Quattro
Formaggi e il suo Boxer. Le raffiche di vento e
pioggia lo sbattevano a destra e a sinistra ed era
un'impresa tenere dritto il motorino.
Lo scroscio dei torrenti che scorrevano sulla strada
e il gorgoglio dei tombini che vomitavano fiotti di acqua
marrone si fondevano nel casco in un rombo terrorizzante.
Non si vedeva un accidenti e Quattro Formaggi
avanzava verso casa di Danilo a memoria.
La tormenta aveva strappato una fila di alberi dal
marciapiede e li aveva gettati in mezzo alla strada.
Un grosso pino era piombato su un'automobile sfondandole
il parabrezza.
Ma cos'era, la tempesta del secolo?
Il giorno dopo tutti i telegiornali avrebbero parlato
di piene, alluvioni, crolli, danni all'agricoltura, rimborsi.
E mentre il diluvio si accaniva sulla pianura,
una banda aveva portato via il Bancomat del Credito
Italiano dell'Agricoltura.
Oltre che ricchi saremo pure su tutti i giornali...
Nei giorni passati Quattro Formaggi aveva provato
a immaginare che cosa fare di tutti quei soldi. L'unica
cosa che era riuscito a pensare era di comprare
altra creta per costruire un grande castello e un trenino
elettrico con tanto di scambi, passaggi a livello e
stazioni per mettere in comunicazione il sud e il nord
del presepe. I viaggi ora erano assai complicati con
tutte quelle montagne, laghi e fiumi, e avere a disposizione
la ferrovia avrebbe aiutato un sacco gli abitanti
del presepe.
E se ci mettessi la...
Come si chiamava quella scatola appesa al filo che
serve a quelli che sciano per salire in montagna? Non
lo sapeva, ma non importava. Nel negozio di giocattoli
del centro commerciale ne aveva vista una da togliere
il respiro. Con le due cabine di latta verde e il
tetto nero e dentro anche gli sciatori e un motore elettrico
che la faceva funzionare davvero.
Potrebbe portare la gente direttamente alla grotta di Gesù
Bambino senza che siano costretti a farsi a piedi tutta...
Era lì che già s'immaginava la sua funivia che andava
su e giù quando, oltre la visiera del casco rigata
dalla pioggia, apparve in lontananza un bagliore rosso
al centro della strada.
Sembrava il faro di un motorino.
77.
Nel camper Beppe Trecca, seduto sul divanetto, si era
mangiato i ravioli al vapore che con il freddo avevano
preso la consistenza di Big Babol masticate. Per riscaldarsi
aveva bevuto un po' di vodka al melone e si
era avvolto in tutte le coperte che aveva trovato.
Diciamoci la verità, Ida non verrà mai.
Mario era tornato a casa. Avrebbe dovuto aspettare
che si addormentasse e poi sarebbe dovuta uscire di
nascosto. Una follia.
Ma se Ida rischiava in quel modo doveva essere innamorata
pazza di lui. E questo lo faceva sentire molto
bene.
Certo, forse era il caso di rimandare a un'altra volta.
L'assistente sociale tirò fuori dalla tasca interna
della giacca una scatola di compresse di Xanax e l'avvicinò
alla candela come fosse un amuleto magico.
Se n'era già sparate due. Una terza lo avrebbe reso
insensibile come un lichene?
Su internet aveva letto che in generale gli ansiolitici
hanno come effetto più frequente sull'attività sessuale
l'inibizione del riflesso orgasmico, che può manifestarsi
come ritardo al raggiungimento del piacere. Le
conseguenze sono variabili: un buon vantaggio sulla
qualità del rapporto per l'uomo e per la sua partner,
qualora sia preesistente una rapidità dell'eiaculazione.
E in effetti una dannata e preesistente rapidità
dell'eiaculazione affliggeva Beppe dai tempi lontani
dell'adolescenza. Se l'era portata dietro durante
il triste quadriennio di Sociologia all'università di
Roma.
Ora, essendo un buon manager di se stesso, decise
di valutare i diversi effetti che avrebbe prodotto l'assunzione
di un'ulteriore compressa.
Gliene vennero in mente solo due, uno più sgradevole
dell'altro:
1.) Nonostante la presenza massiccia di
benzodiazepine nel suo organismo sarebbe venuto ugualmente
con la rapidità di un centometrista.
2.) Non gli si sarebbe alzato proprio.
Era molto indeciso su quale delle due opzioni preferire.
Si massaggiò il mento come il Pensatore di Rodin.
Sì, forse è meglio che non mi si alza. È sempre una figura
di merda, ma più lieve. E potrei anche trovare una scusa
per tirarmi indietro. Se invece vengo subito mi considererà
un poveraccio.
Poi gli balenò in testa un'ulteriore possibilità: E se
invece scappo? E non mi faccio trovare?
Affranto e combattuto prese un altro sorso di
vodka.
78.
Fabiana Ponticelli in sella al motorino si stava assiderando.
Quel casco a scodella che aveva in testa non
serviva a un bel niente. La pioggia le finiva negli occhi
e nel collo e le gelava la punta del naso. Le orecchie
erano diventate insensibili. Per cercare di vederci
qualcosa aveva provato a mettersi gli occhiali da
sole, ma era peggio. I pantaloni erano zuppi e ora cominciava
a sentire i piedi che le galleggiavano nelle
scarpe da ginnastica.
Da quando era uscita da casa di Esmeralda non
aveva incrociato una macchina, un essere umano.
Tutto chiuso. Tutto spento. Tutto abbandonato. Gli
alberi schiantati in mezzo alla strada. Le macchine
sfondate. Fabiana si sentiva come l'unica sopravvissuta
a una catastrofe che avesse sterminato l'umanità.
Però se continua così il fiume straripa e copre la strada...
e di conseguenza salta pure l'appuntamento dal dentista.
Grande!
Quella considerazione fu sufficiente a farle tornare
un po' di calore negli arti e risalire l'umore.
E se poi mi prendo pure la febbre... si disse cercando di
chiudersi meglio la giacca. Il massimo.
Così non andava nemmeno a scuola per qualche
giorno.
A casa. Tranquilla, mtv. Charin che ti cucina... Ed
Esme fuori dalle palle per un po'. Tanto lei odiava andare
a casa di Fabiana. Diceva che c'era troppo ordine e
«il troppo ordine mi sa di follia». Secondo lei la famiglia
Ponticelli era la classica famiglia perfetta in cui il
padre torna a casa dal lavoro e fa fuori moglie e figli
e si pianta una pallottola in testa.
Si permette di dirmi tutto quello che le passa per la
mente.
Forse per un po' doveva starle lontana. Cominciava
a non sopportarla più. Era un piccolo dittatore.
Per essere sua amica aveva cambiato la sua vita. Perché
se sei con Esmeralda Guerra o fai come vuole lei
o non esisti. Per essere sua amica non vedeva più Anna
e Alessandra.
Saranno pure sfigate, ma con loro ci stavo bene.
E poi l'aveva letteralmente gettata fra le braccia di
Tekken.
Esmeralda ci era andata a letto un paio di volte e
insisteva perché anche lei lo facesse. Ripeteva che era
stata una scopata magnifica, che aveva avuto tre orgasmi,
uno dietro l'altro, come se fosse stata con mille
uomini. Ma se era tutto quel paradiso, perché, all'improvviso,
non lo aveva fatto più?
Semplice, Tekken era romantico quanto un maiale
nel letame. Si era fatto Esmeralda e grazie e arrivederci.
E lei c'era rimasta di merda. Per questo voleva
che anche Fabiana ci andasse a letto. Così almeno
erano in due a essere sverginate e mandate a fare in
culo.
L'unica volta che Fabiana era uscita sola con
Tekken erano andati al cinema, e lui le aveva messo le
mani dovunque. E mentre la riportava a casa si erano
fermati al giardino pubblico e lui aveva tirato
fuori l'uccello duro, tutto orgoglioso, e praticamente
l'aveva costretta a fargli una sega a venti metri dal
chiosco del giornalaio. Se non avesse minacciato di
urlare, quello se la sarebbe fatta lì nel giardinetto,
davanti a tutti.
La pernacchia assordante di una marmitta bucata
la fece sobbalzare. Fabiana girò la testa e vide sulla
corsia di sorpasso un uomo, coperto da una cerata
gialla e con un casco integrale, in sella a un vecchio
Boxer verde.
Allora non sono sola al mondo. Quel motorino l'ho già
visto...
Ci mise un attimo a collegarlo al mezzo barbone che
quando camminava sembrava che facesse la breakdance e che aveva visto spesso con il padre di Cristiano
Zena.
Ma dove stava andando con quel tempaccio?
79.
Impossibile!
Non poteva essere vero.
La biondina identica a Ramona!
Quello era il suo motorino. L'adesivo giallo. Il casco.
Cosa ci faceva in giro sotto quel diluvio?
Eppure era lei, in carne e ossa, tutta bagnata.
Quattro Formaggi la rivide al giardino pubblico,
quella notte d'estate, quando in piedi teneva in mano...
E su e giù. E...
La visione di quella ragazzina che teneva tra le mani
il coso del motociclista lo accecò e gli strappò un
gemito gutturale. Un brivido di piacere gli risalì lungo
la colonna saltando da una vertebra all'altra e
Quattro Formaggi si sentì improvvisamente le braccia
e le gambe molli come i tentacoli di una medusa e
dovette stringere forte il manubrio per rimanere in
sella.
Ramona esce di casa e dice sorridendo al boscaiolo: "Tira
fuori il tronchetto della felicità che ci divertiamo".
E su e giù. E...
Quattro Formaggi sentì ribollire il sangue che gli
circolava nelle orecchie, nelle viscere, tra le gambe.
Prese a darsi dei pugni sulla coscia. Poi infilò la
mano sotto la giaccavento e si conficcò le unghie in
un fianco.
«Troia. Troia bastarda» grugnì chiuso dentro al casco.
«Perché? Perché ti piace fare queste cose? Perché
non mi lasci in pace?»
Le faceva contro di lui. Per farlo stare male.
(Forza! Fermala.) La voce di Bob il boscaiolo si fece
sentire potente e decisa. (Forza, che cazzo aspetti?)
Non posso.
(Non ti capiterà più un'occasione del genere. Ti rendi
conto che fortuna hai avuto? Sarà felice di farlo anche a te.)
Non è vero.
(È vero.)
Non posso. Non ce la faccio.
(Sei solo un povero scemo, idiota, ere...)
Quattro Formaggi chiuse gli occhi cercando di non
ascoltarlo. Respirava a bocca aperta e aveva la visiera
del casco tutta appannata.
(Avrà le mani fredde e bagnate. E sorriderà.)
No. Non posso.... E se non vuole?
(Certo che vuole. Facciamo così. Se fa la tangenziale allora
vuol dire che non vuole. Se invece prende la strada che
passa nel bosco allora non potrai più dire niente...)
Giusto. La strada nel bosco era deserta, se non voleva
essere fermata non l'avrebbe presa mai, quindi
se per caso la faceva voleva dire...
(Bravo! Hai capito finalmente.)
... che lei lo voleva e quindi l'avrebbe fermata.
Non sapeva come, ma l'avrebbe fermata.
80.
Il barbone ora avanzava alla sua stessa velocità, procedendo
dietro di lei ma contromano. A un certo
punto Fabiana Ponticelli lo aveva visto darsi dei pugni
su una gamba.
Meglio accelerare.
Con quel motorino scassato il matto aveva poche
chance di starle dietro.
Fabiana girò la manopola del gas e lentamente se
lo mise alle spalle.
Doveva stare attenta, a quella velocità se avesse incontrato
una buca non avrebbe avuto il tempo di frenare.
Guardò nello specchietto retrovisore.
Il Boxer era ancora dietro. Ma più lontano.
Tirò un sospiro e si accorse che non aveva praticamente
più respirato da quando il tipo le si era materializzato
di fianco.
81.
Il sonno alla fine l'aveva avuta vinta sulla famiglia
Zena.
Cristiano era crollato dopo una disperata battaglia
per rimanere sveglio fino all'arrivo di Danilo e Quattro
Formaggi, e al piano di sotto Rino russava davanti
alla tv accesa.
82.
Anche Beppe Trecca, con tre Xanax e una mezza bottiglia
di vodka al melone in corpo, russava con la
fronte poggiata tra le vaschette del cinese.
83.
«Io potevo trovare chi volevo per fare questo colpo,
caro il mio Rino Zena. Cosa ti credi? Cosa pensi, che
ci sei solo tu? E cosa hai detto? "Dobbiamo parlare"!
Ma di che cazzo dobbiamo parlare? Qualcuno ti ha
nominato capo? Io sono il capo, fino a prova contraria.
Sai quanti meglio di te trovavo se volevo?» Danilo
Aprea parlava ad alta voce e gesticolava sollevando
le spalle. «Chi ha pensato il piano? E chi è
che ha fatto tutto? Chi ha passato un mese davanti
alla banca a studiare ogni movimento? Chi ha trovato
il trattore? Io! Io! E io. Ho fatto tutto io! Io vi
farò diventare ricchi. Io...» Si rivolgeva al divano,
come se Rino e Quattro Formaggi fossero seduti lì
sopra. «Vogliamo dircela tutta, ma proprio tutta?
Senza peli sulla lingua? Io dovevo avere il cinquanta
per cento e voi il venticinque. Questo era giusto.
Ma visto che sono un signore, un gran signore...»
Guardò la bottiglia di grappa sul tavolo. Aveva bisogno
di un altro goccio. La sollevò.
Vuota.
Dopo la telefonata con Rino si era detto che un
goccio l'avrebbe aiutato a far sbollire la rabbia e se
l'era scolata tutta senza nemmeno accorgersene.
Sto bene. Tranquillo. Non c'è problema. Scrollò la testa
come un cocker dopo il bagno. Adesso mi passa.
Fece tre passi incerti. In effetti era un po' stonato,
ma appena fosse arrivato Quattro Formaggi sarebbe
uscito e fuori, con la pioggia e il freddo, si sarebbe ripreso
in un secondo.
84.
Ha girato la testa. Non vedi che ti sta chiamando? Scemo
che non sei altro) gli spiegò Bob.
E allora perché ha accelerato?
Quattro Formaggi decelerò ancora, rimanendo però
a una distanza sufficiente a non perdere di vista il motorino.
(Spegni il faro. Penserà che hai cambiato strada.)
L'avrebbe potuta riprendere subito, il motore del
Boxer era modificato, aveva la marmitta a espansione
e quando lui si metteva in posizione aerodinamica,
in discesa, poteva arrivare anche a ottanta all'ora.
Tra poco la biondina sarebbe arrivata al bivio.
Stava a lei. Se prendeva la strada del bosco l'avrebbe
fermata.
Ti prego, prendi la tangenziale. Ti prego.
(Idiota.)
85.
Fabiana Ponticelli guardò nello specchietto retrovisore.
Il faro del Boxer non c'era più. Il barbone aveva
cambiato strada.
Classica paranoia da canna.
Cavoli, però, che strizza.
Intanto davanti a lei la via, frustata dalla pioggia,
si allargava e a cento metri si biforcava.
A sinistra c'era la stradina che passava per il bosco
di San Rocco e arrivava direttamente a casa, a destra
s'imboccava la tangenziale che girava tutto intorno
alla collina e che era larga e illuminata, ma non finiva
mai.
Sentì la voce di suo padre che, come la mamma di
Cappuccetto Rosso, recitava:
(Fabiana, mi raccomando, di notte non prendere la strada
del bosco.)
Sì, forse è meglio che faccio la tangenziale. Tanto oramai
sono bagnata fino alle mutande.
Ma all'ultimo ci ripensò - con questo tempo il lupo
cattivo se ne sta in tana - e sterzò di scatto imboccando
la stradina che s'immergeva nel bosco.
86.
Quando Quattro Formaggi aveva visto che Ramona
si dirigeva decisa verso la tangenziale il cuore gli si
era colmato di delusione e felicità.
Hai visto che non mi vuole? Quindi lasciami in pace.
Ma poi, all'ultimo momento, come se il Padreterno
stesso avesse comandato alla ragazza di prendere la
strada del bosco, lei aveva sterzato.
(Non hai più scuse.)
E adesso come l'avrebbe fermata? Mica poteva andare
là e dirle: "Scusa, ti puoi fermare per favore?"...
Mi vergogno.
(Se non la fermi sei un poveraccio. Te ne pentirai per il
resto della vita. Lei non aspetta altro.)
Era vero, ma doveva ragionare. Doveva sforzarsi
di trovare un modo per fermarla e chiederglielo.
Se non ti muovi non la beccherai mai.)
Quattro Formaggi cominciò ad accelerare.
87.
Gli alberi si piegavano sulla stradina allungando i rami
come se volessero afferrare Fabiana Ponticelli.
La pioggia, sotto il tetto di fronde, era meno martellante
e c'era odore di terra bagnata e di vegetazione
marcia.
Il faro dello Scarabeo disegnava sull'asfalto cosparso
di foglie e fango un debole cono di luce.
La ragazza guidava seguendo, concentrata, la linea
bianca dipinta al centro della strada. Il gioco era
rimanere con le ruote sulla striscia perché intorno
c'erano abissi senza fondo e se usciva fuori dal bianco
sarebbe precipitata per il resto della sua esistenza.
Ma a un tratto la strada curvò bruscamente seguendo
il profilo della collina e Fabiana non riuscì a
tenere il pneumatico sulla linea bianca.
Saresti morta. Vabè, la prima volta non vale, precipiti
solo dopo tre volte che sbagli.
Era così presa dal gioco che non si accorse che alle
sue spalle, a una cinquantina di metri, un Boxer la seguiva.
88.
Ora sapeva cosa fare.
Quattro Formaggi si era spremuto tanto, e alla fine
Bob il boscaiolo lo aveva aiutato. Una grande idea,
come per magia, gli si era materializzata nella mente.
Accese il faro e diede gas. Il motore cominciò a lamentarsi
e lentamente il Boxer prese velocità.
Il puntino rosso del fanalino dello Scarabeo a ogni
curva si faceva più vicino. Dopo circa duecento metri,
se si ricordava bene la strada, sarebbe cominciata
la discesa e a quel punto l'avrebbe superato.
89.
Fabiana Ponticelli, sopra la mezzeria, impegnata a
non finire in un abisso senza fondo, per poco non
cadde dalla sella quando dalle tenebre emerse, curvo
come un avvoltoio su un trespolo, il pazzo sul Boxer.
Teneva la testa alla stessa altezza del manubrio e i gomiti
distesi come ali.
La ragazza strinse le manopole e s'irrigidì tutta.
Non ebbe il tempo nemmeno di decidere se accelerare
o rallentare che quello la superò buttandosi giù
per la discesa a una velocità folle. Lo vide prendere la
curva tutto piegato senza frenare.
Fabiana chiuse gli occhi certa di sentire rumore di
lamiere, ma quando li riaprì c'era solo una cortina di
fumo bianco e la pernacchia della marmitta oramai
lontana.
È veramente fuori di testa, il tipo.
Ma che diavolo stava facendo? Si voleva uccidere?
E poi chi si credeva di essere? Valentino Rossi?
Non riusciva a capire se ce l'aveva con lei o se semplicemente
era un povero pazzo che si divertiva a fare
le corse durante le tempeste.
90.
Per poco, dopo averla superata, Quattro Formaggi
non si era stampato contro il guardrail. Era stato bravo,
quando oramai era praticamente a terra aveva allungato
una gamba e con un colpo di piede era riuscito
a ritirarsi su, ma ora, dopo aver fatto altre tre
curve rischiando l'osso del collo, decise di rallentare,
un'altra curva così, sull'asfalto viscido, e sarebbe finita
male.
Tirò le leve dei freni dolcemente, non fidandosi dei
tamburi, soprattutto adesso che erano pieni d'acqua.
L'ammortizzatore anteriore cominciò a saltellare peggio
di un martello pneumatico e la gomma di dietro a
scodinzolare come un pesce preso all'amo.
Si fermò dopo cinquanta metri in un punto dove la
strada nel bosco si allargava in una piazzola di sosta
su cui era costruita una cabina di cemento dell'Enel.
Quattro Formaggi smontò veloce dal Boxer e lo
adagiò sull'asfalto, attento a non spegnerlo, proprio al
centro della strada. Si tolse i guanti e si buttò a terra.
Pancia contro la strada e braccia e gambe allargate.
91.
Fabiana Ponticelli superò l'ultima curva e imboccò il
lungo discesone che andava giù dritto per la collina
fino alla pianura. Era quasi arrivata. Doveva superare
la pompa di benzina e poi svoltare lungo una strada
che tagliava i campi per circa un chilometro e
sarebbe stata a casa. Con la mente era già nel letto
sotto il piumone, si era già fatta una doccia bollente
e il resto dello strudel che stava in forno. La pioggia
e il vento freddo le avevano sciacquato via lo stordimento,
quindi se per caso avesse incontrato i suoi
ancora svegli non sarebbe scoppiata a ridere come
una cretina.
Potrei dirgli che ho fatto tardi perché mi si è fermato il
motorino e non c'era nessuno. Il cellulare scarico. Li pote...
Non finì il pensiero perché vide davanti a sé un bagliore
rosso al centro della strada. Procedendo si accorse
che c'era anche una pozza di luce bianca sull'asfalto.
Decelerò e sentì il gorgoglio metallico della
marmitta del motorino del pazzo e capì immediatamente
che lo scemo si era cappottato sul discesone.
92.
Fermo.
Immobile.
Sei uno scorfano che aspetta il pesciolino.)
Eccola. La vedo.
(Fermo! Non ti muovere.
Lasciala.
Lasciala avvicinare.
Se ti muovi è finita.
Morto.)
Certo, capo. Mortissimo. Più morto di me nemmeno i
morti.
93.
Cazzo se si era cappottato.
Era a terra, lungo, accanto al motorino, e non si
muoveva. Fabiana Ponticelli gli passò vicino e non si
fermò.
Dev'essere morto. A quella velocità, con quel motorino
antico...
Non sapeva cosa fare. Anzi sapeva benissimo cosa
doveva fare, ma non le andava per niente. Era fradicia,
mezza assiderata ed era quasi a casa.
(La qualità di una persona si riconosce se aiuta la gente
in difficoltà.)
Così avrebbe detto papà.
Esmeralda al posto mio...
Solo che lei non era Esmeralda, anche se negli ultimi
sei mesi aveva provato a esserlo. Lei gli altri li aiutava,
pure i barboni che si credevano Valentino Rossi.
Sbuffò, girò il motorino e tornò indietro.
94.
Danilo Aprea telefonava a Quattro Formaggi a intervalli
di trenta secondi e appena rispondeva l'odiosa
voce registrata che diceva "L'utente non è..." chiudeva
bestemmiando.
Oramai era certo che quello, scemo com'era, si fosse
dimenticato del colpo.
«Può essere. Può essere benissimo. È capace di tutto»
disse Danilo attaccandosi a una bottiglia di Cynar
che aveva scovato in fondo a un pensile della cucina.
Quella amara consapevolezza gli derivava da anni
d'amicizia con Quattro Formaggi, ma soprattutto
dalla famosa "questione Belladonna" per cui non
aveva voluto vederlo per tre mesi.
Circa un anno prima Danilo aveva rimediato un lavoretto
alla villa dell'avvocato Ettore Belladonna, ma
per farlo come si deve aveva bisogno di un aiuto. Tra
Rino e Quattro Formaggi aveva scelto Quattro Formaggi,
perché Rino voleva il cinquanta per cento. Cosa,
a modesto parere di Danilo, assurda visto che il lavoro
lo aveva trovato lui. A Quattro Formaggi aveva
offerto il trentacinque per cento del compenso e lui,
senza discutere, aveva accettato. Il lavoretto consisteva
nel riparare una crepa nel pozzo nero della villa.
La cisterna era stata svuotata qualche giorno prima
da una ditta specializzata, ma quando Danilo si era
calato dentro, per poco, dal tanfo, non era svenuto.
Per riuscire a lavorare si era versato un po' di colonia
sul fazzoletto e poi se lo era legato in faccia.
Quando aveva finito di rattoppare la crepa con il
cemento a presa rapida, secondo gli accordi, aveva
dato due strattoni alla corda per chiamare Quattro
Formaggi, ma la cima era caduta nel pozzo. Danilo
aveva preso a chiamarlo sgolandosi. Niente. Se n'era
andato. Da là sotto vedeva solo l'occhio circolare del
tombino e il cielo azzurro su cui scorrevano le nuvole
come tante pecorelle del cazzo.
Danilo non si poteva sedere a meno di immergere
le chiappe nel liquame, e là dentro era più caldo che
nel culo del diavolo e l'aria puzzava di formaggio
avariato.
A un tratto era apparso il volto di un bambino.
Dieci, undici anni. Un cespo di capelli biondi e un bel
sorriso innocente. Doveva essere René, il figlio dell'avvocato
Belladonna. René aveva salutato con la
mano e poi, nonostante Danilo lo implorasse di non
farlo, aveva chiuso il tombino seppellendolo vivo.
Quattro Formaggi, due ore dopo, lo aveva riaperto
e aveva tirato fuori un essere isterico ricoperto di
escrementi che assomigliava lontanamente al suo collega
Danilo Aprea.
Lo scemo si era scusato dicendo: «Sono andato un
attimo», un attimo, aveva detto proprio così, «a comprare
un trancio di pizza perché stavo morendo di fame.
Ti ho preso un pezzo con le patate e il rosmarino,
quella che ti piace».
Danilo gli aveva strappato la pizza di mano e ci era
saltato sopra con gli scarponcini sporchi di merda.
«Ecco con che razza di gente mi tocca lavorare!» fece
e si attaccò al Cynar strizzando la bocca come un
bambino a cui hanno fatto bere l'olio di fegato di
merluzzo.
95.
Attraverso la visiera del casco Quattro Formaggi vedeva
le lunghe gambe del pesciolino che si avvicinavano.
Vieni qui, pesciolino.
Faceva un passo e si fermava. Ma era un pesciolino
beneducato e non avrebbe mai lasciato un uomo ferito,
forse morto, sulla strada.
«Signore...? Signore? Si è fatto male?»
(Morto.)
«Signore, mi sente?»
Altri tre passi. Era a meno di tre metri.
Se faccio uno scatto...
(Aspetta!)
Non era mai stato così vicino a quella ragazza. Il
sangue gli pulsava nelle tempie. I muscoli carichi di
un'energia elettrica che avrebbe potuto piegare una
sbarra di ferro. E, come per magia, gli scatti e i tic erano
scomparsi.
Il pesciolino si accucciò e lo osservò indeciso.
«Signore, vuole che chiamo un'ambulanza?»
Nascosto dietro al casco un sorriso sognante si disegnò
sulle labbra di Quattro Formaggi scoprendo i
grossi denti gialli.
96.
«Riesce a sentirmi? Se non riesce a parlare, muova
qualcosa... un braccio...» chiese Fabiana Ponticelli.
Cacchio, è morto davvero...
Il motorino per terra, in mezzo alla strada, con la
ruota che girava ancora, illuminava il fumo bianco
della marmitta e la sagoma dell'uomo immobile.
Un pensiero rapido le attraversò la mente: come
aveva fatto a cadere proprio in quel punto, dove la
strada era dritta? Doveva essere scivolato in una pozzanghera,
o aveva bucato e battuto la testa.
Ma ha il casco...
Fece un altro passo incerto e si fermò. Non tornava.
Non sapeva dire esattamente cosa, ma qualcosa le
urlava di non avvicinarsi di più. Di non toccarlo. Come
se lì non ci fosse un poveraccio che aveva avuto
un incidente, ma uno scorpione.
Io chiamo un'ambulanza.
97.
(Fermala! Sta telefonando.)
98.
Fabiana Ponticelli non ebbe nemmeno il tempo di
premere il tasto dell'accensione del suo cellulare che
sentì la terra sparirle sotto i piedi e si ritrovò a cadere
a bocca aperta e finì giù colpendo l'asfalto con il
mento, un'anca e un ginocchio.
Non capì neanche che cosa le fosse successo e pensò
di essere scivolata da sola e fece per rimettersi in
piedi, ma si accorse che qualcosa le impediva di alzarsi.
Quando vide una mano scura intorno alla sua caviglia,
il cuore, come un idrante, le esplose nel petto e
le uscì un gridolino strozzato.
È una trappola! Non si è fatto niente!
Fabiana provò a liberarsi, ma la paura le aveva
strappato via il fiato per respirare. Boccheggiando
cercò di sollevarsi sulle braccia, di allontanarsi in
qualche modo, ma l'unica cosa che ottenne fu di spellarsi
i palmi delle mani e i gomiti sull'asfalto. Allora
cominciò a scalciare con la gamba libera. Colpì l'uomo
sulle spalle e sul casco senza ottenere nulla, quello
se ne stava steso a terra avvinghiato alla sua caviglia:
incassava i calci come un sacco di patate e non
mollava, il bastardo, non mollava.
Colpiscilo sulla mano.
E così fece.
Una, due, tre volte, e alla fine sentì la morsa che si
allentava. Un altro colpo proprio su quelle grosse dita
e fu libera.
Scattò in piedi, ma l'uomo le arrivò addosso con
tutto il proprio peso, afferrandole le cosce come un
giocatore di rugby e facendola crollare di nuovo.
Fabiana, a quel punto, cominciò ad agitarsi come
se avesse una crisi epilettica, a strillare, a tirare pugni
scomposti, ma la gran parte dei colpi finivano a vuoto
o sul casco senza fargli niente. «Lasciami! Bastardo,
lasciami!»
«No, non urlare! Non urlare, ti prego! Non voglio
farti niente!» Le sembrava di sentire la voce soffocata
dell'uomo nel casco.
«Lasciami, pezzo di merda!» Fabiana si guardò intorno.
Se solo avesse avuto un bastone, una pietra,
qualcosa, ma era circondata da asfalto e nient'altro,
allora si piegò e con tutte le forze che aveva allungò il
braccio verso il Boxer sdraiato in mezzo alla strada.
Trascinandosi a forza sui gomiti riuscì ad attaccarsi
allo specchietto retrovisore e cominciò a tirare per liberarsi
dalla stretta dell'uomo, ma lo specchietto con
tutta l'asta si spezzò.
Fabiana si girò e urlando glielo piantò nella spalla.
L'uomo guaendo le mollò una gomitata che la
colpì in pieno sul naso. La cartilagine del setto nasale
le si schiantò con un rumore secco e lei sul momento
non sentì niente, satura com'era d'adrenalina, ma il
collo le si piegò indietro con un brutto stock e poi un
liquido denso cominciò a colarle dalle narici mischiandosi
con le lacrime e la pioggia.
Spalancò la bocca e prese a sputare fiotti di sangue
e a tentare di ingoiare aria.
99.
(Cos'hai fatto?)
Giuro che non volevo farle male...
Quattro Formaggi in ginocchio si strappò dalla
spalla lo specchietto retrovisore e lo buttò a terra.
Il dolore gli aveva annebbiato la vista, quando ci
vide di nuovo si accorse che Ramona rantolava a bocca
aperta e che sputava sangue con una maschera di
terrore dipinta in faccia.
Stava per sfilarsi il casco ma poi...
(Non ti deve vedere.)
... ci ripensò. Tirò fuori dalla tasca la torcia e l'accese.
Gliela puntò addosso.
Sta male. Non respira.
«Aspetta... Aspetta che ti aiuto...»
Ramona era piegata su se stessa, ma quando provò
a toccarla si rialzò e cominciò a ciondolare, piegata in
due, cercando di respirare. Dalla bocca le usciva un
suono orribile.
Quattro Formaggi si infilò le mani nel casco e prese
a mordersi le dita.
100.
Era finita nelle tenebre e stava morendo.
Se i suoi polmoni non si decidevano a funzionare
sarebbe morta soffocata, di questo era sicura.
Fabiana Ponticelli riusciva ancora a pensare e sapeva
che doveva calmarsi, perché più si agitava e
più ossigeno consumava. Si fermò, a bocca aperta,
aspettando che un miracolo le rimettesse in moto i
polmoni. E il miracolo, che non era un miracolo ma
solo il suo diaframma paralizzato che si rilassava,
avvenne, e la gabbia toracica riprese a espandersi e a
contrarsi per conto suo, senza che se ne dovesse più
occupare.
Un sottile filo d'aria gelata fu risucchiato all'interno
della trachea e da lì attraverso i bronchi nei polmoni
compressi, come quando si apre una confezione
di caffè sottovuoto.
Cominciò a sputare e a ingoiare aria e a tossire tremando,
senza curarsi della luce che l'accecava e dell'uomo
che ci stava dietro.
I suoni, intorno a lei, si erano amalgamati e le sembrava
di avere nella testa il reattore di un aereo che
pulsava, ma nonostante questo frastuono sentiva
l'uomo che ripeteva come un disco rotto: «Scusami, ti
prego! Non ti volevo fare male! Scusami, fammi vedere».
Si sta avvicinando.
Fabiana si rialzò e provò a scappare, ma appena
mosse la testa fu sopraffatta dal dolore, era come se
le avessero infilato una lama tra la clavicola e il collo.
A occhi chiusi zoppicò verso il centro della strada,
sollevando un braccio e sperando che qualcuno passasse.
Ora! Ora doveva arrivare il suo salvatore. Ora era
perfetto. Doveva scendere da una macchina e sparare
nello stomaco a quel figlio di puttana, così poi lei sarebbe
potuta svenire in pace.
101.
Quattro Formaggi osservava Ramona che muoveva
qualche passo, tutta storta e con quel braccio sollevato
come se volesse chiamare un taxi, e poi la vide inciampare
sullo Scarabeo e cadere giù a braccia e gambe
larghe come Willy il Coyote.
Poverina, doveva essersi fatta male.
Ma lui non riusciva più a raccapezzarsi. Da una
parte gli faceva tanta pena, gli dispiaceva, ma dall'altra
provava piacere nel vederla soffrire. Era una bella
sensazione. Si sentiva un leone e avrebbe potuto battersi
con chiunque. L'uccello gli si stava indurendo e
gli premeva contro la pancia.
Con la mano sulla spalla ferita si avvicinò alla ragazza
che era ancora a terra e muoveva le gambe e la
testa come un pallido drago d'acqua.
102.
Fabiana Ponticelli non aveva visto il suo motorino e
ci aveva sbattuto contro ed era caduta.
Il braccio doveva esserle uscito dalla spalla. Quel
braccio lussato in settimana bianca ad Andalo, che
un milione di volte suo padre le aveva detto che bisognava
operare, «se no cosa pago a fare l'assicurazione
contro gli infortuni? È una operazione semplicissima,
in due giorni sei di nuovo a posto. Se non la fai ti
può uscire di nuovo in situazioni spiacevoli».
Situ...azio... spiacevo...li, ripeteva il suo cervello
mentre lei provava a rimettersi in piedi.
Era un dolore che superava di gran lunga quello al
naso. Una corrente elettrica le scorreva nei muscoli
del braccio e della spalla arrotolandoglieli come una
corda.
Perché non svengo?
(Perché te lo devi rimettere dentro.)
Impedendosi di vomitare si afferrò con la mano sinistra
il braccio destro, proprio sotto l'ascella, e tirò.
Non successe niente.
Ancora.
Tirò di nuovo il braccio, ma più forte e verso il basso,
e come per magia la corrente elettrica si spense e,
incredibile, per la prima volta da quando aveva deciso
di fermarsi ad aiutare il figlio di puttana una sensazione
di benessere le invase il corpo.
Brava. Brava. Adesso stai bene. Puoi farcela. Aspetta
che si avvicini.
Attraverso le palpebre chiuse percepiva la luce che
la illuminava.
Aspetta.
103.
Quattro Formaggi si avvicinò e l'afferrò per una
gamba e la trascinò verso il bordo della strada. Sembrava
svenuta, ma ogni tanto schiudeva le palpebre
per capire cosa stava succedendo.
La tirò a fatica fino al guardrail e prese fiato quando
lei, con uno scatto improvviso, fece partire un calcio
che lo colpì tra le gambe.
Quattro Formaggi spiccò un salto indietro come se
un essere invisibile lo avesse spinto via e cominciò a
stringersi il ventre, poi uno spruzzo giallo di bile gli
uscì dal casco e mentre vomitava si accorse che la
stronza si era rialzata e stava scappando.
104.
L'uomo con il casco la raggiunse e la colpì in faccia
con il rovescio della mano, facendole fare una mezza
piroetta sgraziata, e Fabiana Ponticelli volò indietro,
rigida come un manichino, e sbatté con l'anca sinistra
contro il guardrail, atterrò su uno zigomo e poi con il
resto del corpo sopra un tappeto di sacchetti di plastica,
carta e foglie bagnate, mentre le caviglie le sbattevano
contro la base di cemento della barriera metallica.
Sapeva che doveva rialzarsi subito, immediatamente,
e che doveva mettersi a correre e scappare
perché era chiaro che l'uomo con il casco stava per
farle qualcosa, qualcosa di molto brutto, eppure il
suo corpo si rifiutava di ubbidirle. Di sua volontà si
era arrotolato su se stesso. Le mani le avevano stretto
le ginocchia e la testa le si era adagiata contro una
spalla.
(Almeno apri gli occhi, guarda dov'è.) La voce di suo
padre.
Non posso.
(Lascialo fare! Meglio stuprata che stuprata e ammazzata
di botte) le suggerì Esmeralda, che come al solito
non usava mezzi termini.
Ha ragione Esme, papà. Mi violenterà e mi lascerà qui.
Eppure dentro di lei c'era una parte più resistente e
caparbia che le diceva di non mollare. Perché non era
giusto.
Cominciò a piangere, in silenzio, scossa dai singhiozzi,
maledicendosi per essersi fermata. Se avesse
saputo che razza di bastardo era, gli sarebbe passata
sopra con il motorino.
Un rumore metallico la riportò alla realtà.
Che sta facendo?
Ma aveva gli occhi pesti e anche se li apriva era
sommersa dal buio e non vedeva niente, ma ci sentiva
ancora e quello che sentì le diede un po' di speranza.
Il tipo stava armeggiando con il suo motorino.
Vuole solo prendermi lo Scarabeo.
L'aveva picchiata per rubarle uno stupido motorino.
Bastava che glielo chiedesse.
Prendilo. È tutto tuo. Basta che non mi fai male.
Doveva solo aspettare. Buona buona. E tutto sarebbe
passato.
105.
Quattro Formaggi prese lo Scarabeo e lo spinse verso
la cabina dell'elettricità.
Quando aveva visto Ramona girare su se stessa e
sbattere contro il guardrail e cadere a terra di testa si
era preso uno spavento terribile.
L'aveva ammazzata con uno schiaffo? Possibile?
L'aveva osservata attentamente e aveva visto che
respirava ancora, accoccolata sotto la pioggia. Indifesa
e bagnata come un girino quando lo tiri fuori dall'acqua.
(Ora è tua. Puoi farci quello che vuoi. Però devi portarla
nel bosco così se passa qualcuno...)
Nascose lo Scarabeo e il Boxer dietro la cabina dell'Enel,
poi andò a controllare se qualcuno, passando
in macchina, li poteva vedere.
106.
Che strano, nonostante il sangue che le otturava le
narici a Fabiana Ponticelli sembrava di sentire odore
di funghi.
Non di funghi cotti. Ma di quelli freschi che tiri
fuori dalla terra umida con due dita, attenta a non
spezzarli.
Questo è il posto dei funghi.
Si ricordò che proprio da lì, da quello spiazzo,
quando era piccola si partiva per la passeggiata dei
finferli. Lasciavano la vecchia Saab con il tettuccio
rattoppato accanto alla casetta dell'Enel e s'inoltravano
nel bosco alla ricerca dei finferli, i piccoli funghi
gialli che nel risotto...
Si rivedeva bambina, con suo fratello Vincenzo sul
passeggino, sua mamma con i capelli lunghi tenuti
insieme in una coda di cavallo come in quella fotografia
appesa nell'ingresso, con suo padre che aveva
ancora i baffi e lei con il piumino rosso e il cappello
di lana... Tutti insieme uscivano dalla macchina con i
cestini per i funghi e papà l'afferrava sotto le ascelle e
opplà le faceva saltare il guardrail e lei diceva: «Io lo
so fare da sola» e si arrampicava su quella lunga fascia
di ferro e le sembrò di vederli tutti e quattro che
le passavano accanto quasi senza guardarla, come si
fa con la carcassa di un cane investito e poi entravano
nel bosco e suo padre li fermava: «Chi ne prende di
più è il vincitore».
Nel risotto i finferli sono meglio dei porcini.
Qualche giorno fa mamma ha fatto il risotto. Ma era con
i porcini. No, era...
Un rumore.
Allora non se ne andato.
Fabiana schiuse un occhio tumefatto. Una luce.
L'uomo con il casco era in mezzo alla strada con la
torcia in mano e correva da una parte all'altra.
(Fabi, devi scappare.)
Doveva solo trovare la forza di mettersi in piedi,
ma ora non credeva proprio di potercela fare. Era come
se il dolore le circolasse da una parte all'altra del
corpo, attraverso le ossa, i muscoli e le viscere, e ogni
tanto si fermava e affondava gli artigli.
// bosco è grande e buio e ti puoi nascondere.
Se fosse stata bene, se quel figlio di puttana fosse
stato leale e non le avesse preparato una trappola,
non avrebbe mai potuto prenderla.
Ho vinto per tre anni la maratona.
Fabiana, la scheggia. Così mi chiamavano... La scheggia.
(Se ora ti alzi ed entri nel bosco diventi invisibile.)
(ALZATI!)
(ALZATI!)
Strinse i denti e i pugni e lentamente si mise in ginocchio,
il braccio destro tutto indolenzito. Nell'osso
della caviglia le sembrava di avere dei cocci di vetro.
(ALZATI!)
A occhi chiusi si rimise in piedi senza nemmeno
guardare dov'era il bastardo e si avviò verso il bosco,
verso le tenebre che l'avrebbero nascosta e protetta. Il
dolore intanto le si era spostato in faccia, non la lasciava
nemmeno per un passo e...
Basta stringere i denti.
... ogni volta che inspirava l'aria fredda era come
ricevere un altro schiaffo...
Sarò un mostro. Ma poi passa. Torni normale. Ho visto
alla tele una dopo un'operazione...
Non vedeva niente, ma non c'era pericolo perché
Dio l'avrebbe aiutata a trovare la strada e a non inciampare
e a non cadere e a trovare un buco dove
sparire.
Era salva, era nel bosco. I rami le frustavano la
giacca e le spine cercavano di fermarla, ma oramai
era lontana, sola, nel buio, camminava sopra un sacco
di sassi, di rocce, di tronchi e non cadeva e questo
era Dio.
107.
Danilo Aprea dormiva seduto davanti alla televisione
accesa. Assomigliava alla statua del faraone
Chefren. In una mano la bottiglia di Cynar vuota e nell'altra
il cellulare.
108.
A circa otto chilometri dalla casa di Danilo, Rino Zena
si risvegliò nel vecchio sacco a pelo mimetico. Una
bomba atomica gli era esplosa nel cranio. Schiuse le
palpebre, la tv sembrava la tavolozza di un pittore e
una manica di teste di cazzo blateravano di pensioni
e diritti dei lavoratori.
Era tardissimo. Quei due non sarebbero più venuti.
Rino si tirò il sacco a pelo sopra il naso e pensò che
il vecchio Quattro Formaggi era un grande. Aveva
staccato il cellulare e chi si è visto si è visto.
«Grazie, Quattro.» Sbadigliò, si mise su un fianco e
chiuse gli occhi.
109.
Perfetto. Così i motorini non si vedono.
Quattro Formaggi si girò contento verso Ramona e...
Dov'è?
... non c'era più.
Doveva essere solo un'impressione, era troppo
buio. Cominciò a camminare sempre più veloce, a
correre fino al punto dove era caduta.
«Dove sei?» mugolò disperato.
Correva avanti e indietro per lo spiazzo e poi continuava
a tornare incredulo accanto al guardrail, dove
Ramona stava fino a un trenta secondi prima.
Guardò a lungo la massa nera del bosco che incombeva
sulla strada. No, non poteva essere entrata in
quell'intrico di rovi.
(Vai a vedere. Che aspetti? Dove altro può essere andata?)
Scavalcò il guardrail e si inoltrò nel bosco facendosi
luce con la torcia.
Fatti nemmeno dieci metri la vide. Si poggiò contro
un tronco e tirò un sospiro di sollievo.
Era lì, che avanzava a braccia tese e a occhi chiusi
tra gli alberi come se giocasse a mosca cieca.
Quattro Formaggi le si avvicinò attento a non far
rumore, la torcia puntata a terra. Allungò una mano,
stava per toccarle una spalla, ma poi si fermò a guardarla.
Era coraggiosa. Qualsiasi altra scemetta non sarebbe
mai entrata da sola nel bosco. Sarebbe rimasta per
terra a piangere. Era una che non mollava.
"Dai, buttiamolo nel fiume!"
Quattro Formaggi aveva dodici anni, e si trascinava
lungo il greto del fiume su un letto di pietre appuntite.
Gli stavano addosso. Gli avevano spento
una sigaretta sul collo e l'avevano preso a calci e a
sassate. Poi in due lo avevano afferrato per le gambe
e lo tiravano verso l'acqua, ma lui non mollava e si
aggrappava ai sassi, ai rami sbiancati dal fiume, alle
canne. In silenzio, stringendo i denti, non si arrendeva.
Anche lui teneva gli occhi chiusi e non mollava,
ma a occhi chiusi era stato preso e buttato in acqua e
trascinato via dalla corrente.
Siamo uguali.
Quattro Formaggi la spinse a terra.
110.
Fabiana Ponticelli finì dritta su un ramo che si piegò
sotto il peso del suo corpo e poi con un colpo secco si
spezzò lacerandole la giacca, il golf e scorticandole
un fianco. Una fitta di dolore le attorcigliò i tentacoli
tra le costole.
Allora non sono invisibile. E Dio non c'è o, se c'è, sta
solo a guardare.
Sentiva un peso sullo stomaco. Ci mise qualche secondo
a capire che il bastardo si era seduto su di lei.
Le afferrò un polso e lei non oppose nessuna resistenza.
Una cosa calda e molliccia sul palmo della mano.
Non riusciva a capire cosa fosse.
(E cosa vuoi che sia?) La voce di Esmeralda. (Fagliela.
Che aspetti?)
Piangendo Fabiana cominciò a muovere la mano
su e giù.
111.
(Hai visto? Te la sta facendo subito, stupido che non sei
altro.)
Quattro Formaggi guardava ansimando la piccola
mano di Ramona, sull'anulare aveva un anello con
un teschio d'argento che si muoveva su e giù, lentamente.
Da togliergli il respiro.
Chiuse gli occhi e si poggiò di lato con il busto contro
un tronco aspettando che gli venisse duro.
Non riusciva a capire. Era la cosa più bella del mondo,
ma perché allora era così moscio? Strizzò le chiappe
e strinse i denti cercando di risvegliarlo, ma senza
ottenere risultati.
No, era impossibile, adesso che finalmente Ramona
gli stava facendo...
«Piano. Più piano, per favore...» Quattro Formaggi
sollevò in aria un pugno tremante e si colpì il petto.
Sapeva che poteva venire in un attimo. Ma era come
se quel coso non fosse suo. Un'appendice morta.
Era il contrario di quello che si era aspettato. La mano
calda e il suo corpo freddo e insensibile. Perché da
solo sì e così no?
(È colpa sua. È colpa di questa troia.)
L'afferrò per i capelli e le mormorò disperato: «Più
lento. Più lento. Ti prego...».
112.
Non gli sarebbe mai venuto duro.
A Fabiana Ponticelli sembrava che fossero passate
ore, ma rimaneva floscio come una lumaca morta. Le
sembrava che le si stesse sciogliendo in mano, come
un tocco di burro.
«Più lento. Più lento. Ti prego...»
Avrebbe voluto, ma più lento di così...
«No, stringilo. Forte. Fortissimo. Tiralo.»
Non capiva, prima lento poi... Ma ubbidì.
A un certo punto si fermò frustrata e impaurita e
colpevole e si accorse che il bastardo piangeva.
«Calmati, tranquillo, se no non ci riesci...» le uscì
senza che nemmeno se ne accorgesse. «Vedrai, aspetta...»
Ma l'uomo con uno scatto rabbioso le tirò via la
mano e cominciò freneticamente a slacciarle la cinta, i
pantaloni. Le abbassò le mutande...
Il cuore di Fabiana prese a correre. Spalancò la bocca
e infilò le dita nella terra fredda.
(Ok, ci siamo. Tranquilla. Non è niente. Rimani immobile.)
Era la voce di sua madre. Come quella volta che
le avevano messo i punti in fronte dopo la caduta
dalla bicicletta e all'ospedale...
(Devi solo lasciarlo fare e poi sarà tutto finito.)
Lo sentì che le annaspava tra le gambe, e poi l'afferrava
per i capelli urlando.
Via. Pensa a qualcosa. A qualcosa di bello, di lontano.
Via. Pensa a Milano. A quando sarai a Milano all'università.
Alla casetta che hai affittato. È piccola.
Una stanza per me. Un'altra per Esme. Sì, anche Esme.
I poster. I libri sul tavolo. Il computer. Ci sarà il solito
disordine. Bisogna tenere in ordine una casa piccola. Nel
frigo, chiaramente, non ci sarà nulla. Tra me ed Esme, figurati.
Ma dalla porta si va su un ballatoio pieno di sole
e fio...
113.
Il telefonino, a terra, s'illuminò e prese a vibrare e
partì la versione polifonica di Va' pensiero di Giuseppe
Verdi.
Rino Zena aprì gli occhi lentamente e ci mise qualche
secondo a capire che il cellulare stava squillando
sul pavimento.
Sbadigliò e con un gesto stanco afferrò l'apparecchio,
sicuro che fosse ancora quello scassacazzi di
Danilo, invece sullo schermo c'era la scritta: 4 form.
Rispose sbadigliando: «Sei rimasto a casa?».
Ma come risposta gli arrivò solo un pianto a dirotto.
«Quattro Formaggi?»
Lo sentì tirare su con il naso e riprendere a frignare.
Non poteva essere in casa perché si sentiva il rumore
della pioggia.
«Cosa succede?»
Dall'altra parte Quattro Formaggi continuava a
piangere disperato.
«Parla! Che c'è?!»
Dopo un po' lo sentì biascicare, tra i singhiozzi,
delle parole confuse. «Oddio... Oddio... Vieni qui...
Subito.»
Rino si mise in piedi. «Dove?! Dimmi dove!»
Quattro Formaggi singhiozzava e non parlava.
«Smettila di piangere! Ascoltami. Dimmi dove sei.»
Rino cominciò a perdere la pazienza. «Fai uno sforzo
e, porca puttana, dimmi dove cazzo sei.»
114.
Danilo Aprea si svegliò con un tale sobbalzo che lanciò
il telefonino per terra e cominciò a gridare.
Stava sognando di stringere in mano una racchetta
da tennis che improvvisamente si era trasformata in
un serpente a sonagli.
Il cellulare!
Si alzò di scatto per rispondere, ma dovette tornare
a sedersi. La stanza ondeggiava. La sbornia non era
passata.
Allungò il braccio e prese da terra il telefonino,
strizzò gli occhi cercando inutilmente di focalizzare il
display, certo che fosse quel deficiente di Quattro
Formaggi.
«Pronto?! Che fine hai fatto?!»
«Sono Rino.»
«Rino...?» In bocca aveva un sapore di topo morto.
«Quattro Formaggi ha avuto un incidente. Gli è
successo qualcosa. Piangeva come un disperato. Sto
andando da lui.»
Danilo si massaggiò le tempie e fece no con la testa.
Rino gli stava rifilando una cazzata. «Cosa gli è
successo?»
«Non lo so.»
«Perché piangeva? Non capisco. Non riesco a capire.»
Potevate inventarvene un'altra.
«Ma mi senti quando parlo?»
Danilo si massaggiò la pancia. «E quindi? Cosa mi
stai dicendo? Che il colpo si rimanda?»
«Bravo.»
«A quando?»
Adesso mi dirà che non lo sa.
«Hai capito che Quattro Formaggi ha avuto un incidente?»
Un'esplosione di dolore nelle viscere gli tolse la
forza di rispondere a quell'insulto alla sua intelligenza.
Aveva la sensazione che un tappo gli fosse saltato
nello stomaco. Esattamente come quando agiti il prosecco.
Solo che invece che vino era rabbia spumeggiante
al sapore di Cynar.
Aveva voglia di sfondare tutto. Di prendere a calci
la televisione, di buttare giù i muri con un piccone,
far esplodere il palazzo, mettersi a capo di una squadriglia
di bombardieri e radere al suolo Varrano e
tutta la pianura del cazzo, di lanciare la bomba H sull'Italia.
Non riuscì a tenersi: «Ho capito! Ho capito, che ti
credi?! Non sono scemo! E vuoi sapere una cosa? Gli
sta bene! Gli sta proprio bene, se lo merita. Gli avevo
detto di venire qui. Lo avevo anche invitato a cena.
Gli avevo detto di venire qui a farsi uno spaghetto al
pomodoro e che poi ci muovevamo insieme. Figurati.
Se veniva qui non gli succedeva nessun incidente.
Ma voi mai che mi date retta! Io sono solo un coglione
e voi due gli intelligentoni». Una vocina saggia
gli suggerì di piantarla, ma lui non le diede retta. Era
così bello sfogarsi. Cominciò a dondolare la testa come
un piccione. «Comunque lo sapevo. Lo sapevo
benissimo.»
«Cosa?»
«Ho capito, non sono un cretino, cosa credi? Voi
non lo volete fare. Ditelo. È tanto semplice. Pure questa
storia dell'incidente... "Non lo vogliamo fare, ci
caghiamo sotto", basta dirlo. Non c'è problema. Tranquilli.
È umano. L'avevo capito da un sacco di tempo.
Vi cagate sotto non solo del colpo, ma anche di possedere
dei soldi, di cambiare la vostra esistenza di merda,
di non rimanere per sempre dei falliti.» Mentre
Danilo cacciava fuori la sua rabbia e la sua amarezza
la lucina del pericolo cominciò a lampeggiargli nel
cervello, ma anche a quella non diede retta. Per una
volta in vita sua aveva sciolto i freni al cavallo che
scalpitava dentro di lui e non gliene poteva sbattere
di meno se quel bastardo bugiardo di Rino Zena s'incazzava.
Anzi, visto che ci si trovava, rincarò la dose:
«In fondo a voi due va bene così. Siete dei morti di fame
felici di rigirarvi nella vostra infelicità come maiali...
Certo, mi dispiace per quel povero innocente di
Cristiano... Io...».
«Ti sei ubriacato, pezzo di merda che non sei altro!»
lo interruppe Rino.
Danilo s'irrigidì, allungò il collo e gonfiò il petto e,
tutto risentito come se l'avessero accusato di pisciare
nel lavandino, rispose con un tono offeso: «Sei impazzito?
Ma che stai dicendo?».
«Se noi siamo dei maiali che si rigirano nella merda,
tu chi sei? L'alcolizzato figlio di puttana che dovrebbe
farci da capo?»
«Ma...» Danilo provò a replicare, a rimetterlo al posto
suo, ma dov'era finita la rabbia? La voglia di sfondare
tutto? Si erano bruciate insieme alle parole e al
coraggio.
Il pomo d'Adamo gli si mosse nella gola.
«La verità, mio caro Danilo, è che sei solo un ubriacone
paranoico ed egoista che se ne fotte di tutto e
tutti. Se Quattro Formaggi ha un incidente a te non te
ne frega niente. Anzi, pensi che è una bugia. Mi fai
schifo. Stai lì solo a pensare alla tua cazzo di boutique,
alle tue fantasie da grande uomo. Sei solo un povero
stronzo che si piange addosso perché è stato abbandonato
da una donna che non ce la faceva più a ingoiare
la merda di uno stronzo che gli ha...»
Ammazzato la figlia, dillo dai, pensò Danilo.
«... rovinato la vita. Tua moglie ha fatto bene a lasciarti.
Benissimo. E ti do un consiglio. Prova un'altra
volta, una volta sola, a dirmi come devo educare mio
figlio che... Lasciami stare, Danilo. Lasciami perdere.
Stammi lontano che te la rischi.»
115.
«... Lasciami stare, Danilo. Lasciami perdere. Stammi
lontano che te la rischi.» Rino Zena chiuse la conversazione
scuotendo la testa, si accese una sigaretta e
uscì di casa. «Ma che pezzo di merda...»
Le mani gli prudevano. Se non avesse dovuto correre
da Quattro Formaggi sarebbe andato volentieri a
fare una visitina al caro vecchio Danilo Aprea per
chiarire definitivamente la storia.
Ma qual è la strada più rapida per arrivare al bosco di
San Rocco?
Alla fine Quattro Formaggi era riuscito, tra i singhiozzi,
a balbettare che stava nel bosco di San Rocco.
Vicino a una cabina dell'Enel.
Ma cosa c'è andato a fare lassù?
Rino stava salendo sul furgone quando improvvisamente
ebbe un mancamento, si sentì senza forze,
gli sembrò di svenire, la sigaretta gli cadde dalla bocca,
le gambe gli si piegarono e finì a terra.
Che cazzo mi succede?
Fece per rimettersi in piedi ma aveva le vertigini.
Rimase lì a lungo, fermo sotto il diluvio, a riprendersi.
Gli tremavano le mani e il cuore gli sbatteva in
petto.
Quando si sentì un po' meglio montò sul Ducato e
uscì dal cancello di casa. Il dolore alla testa era così
forte che non riusciva nemmeno a decidere se prendere
la statale e poi la strada che correva vicino al fiume
o passare per la stradina del bosco accanto alla
tangenziale.
116.
Danilo Aprea era paralizzato, con il telefonino incollato
all'orecchio.
Rino Zena l'aveva minacciato. E una minaccia di
quel nazista fuori di testa non era una cosa da prendere
alla leggera. Quello lì ti ammazzava senza stare
a pensarci troppo.
E soprattutto non dimenticava.
Una volta a un povero cristo che gli aveva tagliato
la strada quel criminale gli aveva sfondato tre costole.
Non subito però, dopo sei mesi. Per tutto quel tempo
aveva incubato il rodimento di culo e quando un giorno
se l'era visto davanti in birreria lo aveva prima atterrato
colpendolo con un boccale di birra e poi gli
aveva dato un calcio sfondandogli tre costole.
Improvvisamente sentì le viscere pulsargli e lo
sfintere anale contrarsi e rilassarsi, mollò il telefono e
corse in bagno. Scaricò un fiotto di diarrea e rimase
sulla tazza con i gomiti sulle ginocchia e le mani che
gli reggevano la fronte bollente.
La sua situazione era troppo incasinata per aggiungerci
pure le minacce di morte di Rino Zena.
«Be', se mi vuoi uccidere uccidimi. Che ti devo dire...»
mormorò. «Io ho solo cercato di farvi diventare
ricchi...»
Un altro incubo gli si affacciò alla mente. L'indomani
a mezzogiorno circa sarebbero venuti quelli
della televendita a portargli il dipinto del pagliaccio
scalatore.
«E io cosa gli dico? "Scusatemi, non ho soldi. Il
quadro non lo voglio più. Mi sono sbagliato"» recitò
in sella al bidet.
Non poteva perdersi così quel capolavoro.
«Comunque io non ho paura di te, caro il mio Rino
Zena. Io me ne fotto...» Sollevò un labbro mostrando
i denti come un lupo rabbioso e si fece i gargarismi
con il collutorio. «Non mi devi cagare il cazzo, capito?!
Stai molto attento a cagare il cazzo a Danilo
Aprea!»
Tornò in salotto in mutande e giaccavento. Un sorriso
perfido gli si era formato sotto i baffi. Prese a ridere
sguaiatamente. «Chi è l'ubriacone? Io sono l'ubriacone?
E allora tu, caro Rino Zena, cosa sei? Un
povero nazista alcolizzato? Un fallito? Un relitto
umano? Cosa? Decidi tu. Come ti vuoi far chiamare?
Ti prego, dimmelo tu.» Poi cominciò a fare sì con la
testa e continuò: «Con me hai chiuso. Non ho paura
di te. Avvicinati che ti...» non gli veniva «... stronco.
Ti pentirai amaramente della stronzata che hai fatto.
Allora? Non hai capito con chi hai a che fare!». Si lasciò
cadere sul divano e concluse sollevando l'indice
verso il soffitto: «A Danilo Aprea non bisogna cagare
il cazzo! Mi devo fare una bella maglietta con questa
scritta».
117.
Beppe Trecca era certo che Ida non sarebbe più venuta.
Meglio così.
Aveva passato una serata infernale chiuso in quel
coso fetente, almeno imparava a fare il cascamorto
con la moglie del suo amico.
Basta, doveva tornarsene a casa, mettersi a letto e
farsi passare questa smania assurda per Ida Lo Vino.
Quella era solo una tentazione che gli stava bruciando
l'anima e che lo avrebbe dannato per sempre.
Ho proprio esagerato.
Doveva scriverle un bel sms e spiegarle che quella
storia non poteva più andare avanti per il bene di
tutti.
Ma cosa le scrivo?
"Scusami di averti importunato"? "Lasciamo perdere"?
No. Troppo da codardo. L'avrebbe vista il giorno
dopo e l'avrebbe fatta ragionare. Ricordandole che
aveva dei figli e un marito che l'amava ed era giusto
dirsi addio.
Ecco, quella era una prova di carattere che lo avrebbe
fatto sentire di nuovo a posto con la coscienza e
con Dio.
Ma fuori un clacson suonò.
Beppe si lanciò verso la finestrella e vide due fari
gialli nella pioggia.
È lei! È arrivata. Adesso le parlo.
Datti una controllata però...
E stava per entrare in bagno a darsi un'occhiata allo
specchio quando si ricordò cosa c'era là dentro.
Si mise a posto la cravatta guardandosi nel vetro
rigato dalla pioggia e si passò le dita fra i capelli, poi
cominciò a saltellare e a piegare la testa a sinistra e a
destra, a sciogliere le braccia, come farebbe un pugile
appena salito sul ring.
Devo trovare il modo giusto per non ferirla. Ma non
credeva nemmeno di farcela a parlare, tale era l'emozione.
Aveva lo stomaco contratto e non aveva più
saliva.
Avrò un alito che stende un rinoceronte.
Con le mani tremanti prese la scatoletta di mentine
che teneva in tasca, se le buttò giù tutte e cominciò a
triturarle con i denti ripensando a una frase pronunciata
una volta da Loris Reggiani, il grande campione
di motociclismo: «Ho passato gran parte della vita in
sella a una moto da corsa, consapevole che avrei avuto
i migliori risultati se fossi stato in grado di gestire
al meglio le mie emozioni e il mio potenziale».
Quindi forza. Tranquillo. Ce la -puoi fare.
Aprì la porta del camper inspirando ed espirando.
Ida Lo Vino si precipitò dentro tutta bagnata. «Ma
che succede? È il diluvio universale?» fece levandosi
l'impermeabile zuppo.
Beppe avrebbe voluto risponderle, dire una cosa
qualsiasi, ma le corde vocali gli si erano paralizzate
vedendosela lì davanti.
Miseria, se è bella.
Anche avvolta nel nebbione dell'incenso era una
dea. Si era messa una gonna che le arrivava alle ginocchia,
le scarpe nere con i tacchi a spillo e uno spolverino
color pesca.
Ed è venuta per te.
«Che freddo, si gela» disse lei massaggiandosi le
braccia.
L'unica cosa che Beppe riuscì a fare fu prendere la
bottiglia di vodka al melone e passargliela.
Lei lo osservò perplessa. «Non mi dai neanche un
bicchiere?»
«Scusa... Hai...» ragione. Prese un calice dal tavolo e
glielo passò.
Lei si versò due dita d'alcol guardandosi intorno.
«Piccolo. Ma ben organizzato.» Storse il naso. «Hai
messo l'incenso. C'è uno strano odore...»
Sembrava di essere dentro a un tamburo di latta,
tanto era il fracasso che faceva la pioggia sul tetto.
Lui urlò: «Sì, infatti».
Avrebbe voluto chiederle come era riuscita a venire
senza insospettire Mario, ma non lo fece.
Ida bevve la vodka in un sorso. «Ah, un po' di calore.
Ci voleva.»
Sembrava più emozionata e imbarazzata di lui.
«Me la sto facendo sotto. C'è un bagno, qui?»
Lui le indicò la porta e avrebbe voluto avvertirla
di non aprire, che dentro c'era l'inferno e che forse
era il caso... Ma l'arresto delle sue capacità vocali
persisteva.
«Ci metto un istante.» Ida aprì la porta e si chiuse
dentro.
L'assistente sociale affranto si mise una mano sulla
fronte.
118.
Il fiume era straripato e aveva coperto i campi e tra
poco anche quella sottile strisciolina d'asfalto su cui
correva il furgone di Rino Zena sarebbe stata sommersa
dalla piena. Gli abbaglianti del Ducato scivolavano
sui campi ricoperti d'acqua.
Le spazzole consumate del tergicristalli faticavano
a tenere il parabrezza libero e all'interno il vetro era
appannato.
Rino ci passava la mano e continuava a chiedersi
che cosa diavolo era andato a fare Quattro Formaggi
nel bosco. E poi perché piangeva in quel modo? C'era
da preoccuparsi sul serio? O era un'altra mattata di
quel cervello marcio?
Cercare di entrare nei meccanismi contorti della
mente di Quattro Formaggi era un'impresa a cui Rino
aveva rinunciato da parecchio tempo. La scossa
alla diga non lo aveva aiutato, ma anche prima non
è che stesse proprio alla grande. Non aveva tutti
quei tic e non zoppicava, ma già era matto come un
cavallo.
Se lo ricordava in collegio, faceva cose assurde come
giocare per ore a tennis senza pallina e racchetta
con un avversario immaginario chiamato Aurelio.
Passò davanti alla pompa dell'Agip deserta. Da lì
la strada saliva sulla collina ricoperta dal bosco.
I fari facevano brillare la pioggia che scendeva fitta,
ma non riuscivano a fendere la vegetazione ai lati
della strada.
Al telefono Quattro Formaggi aveva piagnucolato
che era in uno spiazzo dove c'era una cabina dell'Enel.
Poco prima che la salita cominciasse a curvare Rino
vide sulla sinistra una lunga piazzola di sosta. In
fondo, davanti al guardrail, c'era un parallelepipedo
di cemento coperto di graffiti colorati.
Eccola.
Rino accostò, spense il motore, aprì la cassetta degli
attrezzi, prese la torcia con gli elastici e se la infilò
in testa.
Non c'era nessuno. Forse la cabina non era quella.
Stava per tornare al furgone quando qualcosa brillò
dietro il casotto. Si avvicinò e vide il Boxer e uno Scarabeo
poggiati uno sull'altro.
Di chi è l'altro motorino?
E poi capì.
Qualche bastardo che non aveva di meglio da fare
che rompere il cazzo al prossimo doveva aver trovato
per strada Quattro Formaggi.
Già era successo che lo avessero accerchiato, preso
a spinte, che si fossero divertiti a farlo ballare e cantare.
Se la prendevano con lui perché non reagiva.
«Pezzi di merda. Se gli avete fatto qualcosa, vi ammazzo.»
Rino tirò fuori dai pantaloni la pistola. Tornò
al furgone, prese i proiettili e la caricò sentendo la rabbia
che gli riscaldava il sangue.
Puntò la luce verso il bosco.
119.
Danilo Aprea si era steso sul letto in mutande e giaccavento
e guardava il soffitto boccheggiando.
Mi sento di merda.
Aveva le ascelle ghiacciate. I piedi bollenti. Le viscere
annodate. E nel petto un dolore preoccupante.
La classica fitta che ti prende prima di un infarto.
L'artiglio appuntito di un falco che affonda tra i ventricoli.
«Ora mi prende un coccolone. Così la faccio finita.
E sarete tutti felici», e fece un rutto alla grappa.
Voleva spegnere la televisione che urlava in salotto,
la voce di Bruno Vespa e degli altri stronzi che blateravano
di deficit, tasse e inflazione gli facevano salire
una nausea terribile, ma aveva paura di addormentarsi
e schiattare nel sonno.
Che cazzata aveva fatto ad attaccarsi al Cynar.
/ liquori possono scadere?
E poi appena chiudeva gli occhi gli sembrava di
precipitare in un buco senza fondo che lo avrebbe
portato dritto fino al centro infuocato della Terra.
Doveva riflettere. Anche se in quelle condizioni e
con Bruno Vespa di là che martellava era veramente
difficile.
La prima cosa da considerare era che il piano del
Bancomat, così come era stato concepito, era andato a
farsi fottere. La seconda che aveva chiuso per sempre
con Rino e Quattro Formaggi.
«Ma, come dice il proverbio, meglio solo che male
accompagnato» biascicò tenendosi una mano sul
petto.
Doveva rimettere in piedi il colpo. Senza di loro.
Era la cosa migliore che la sua mente avesse prodotto
da quando era venuto al mondo. Non andava abbandonato.
La grandezza di quel piano era che lo si poteva
fare sempre. Tutte le notti. Bastava avere i compagni
giusti e non dei vigliacchi.
Avrebbe trovato dei veri professionisti con cui ripartire
da capo. In quel momento non sapeva chi fossero,
né dove trovarli, ma il giorno dopo, a mente lucida,
certamente gli sarebbe venuta qualche idea.
«Gli albanesi. Gente con le palle» fece ansimando.
«Caro Rino, non mi hai proprio capito. Che peccato.
Che gran peccato. Non ti è chiaro con chi hai a che fare.
Per fermare Danilo Aprea bisogna sparargli con il
bazooka.»
Le pennellate celesti della televisione, attraverso la
porta, tingevano il soffitto sopra il letto. Era strano,
ma tra le chiazze azzurrine gli sembrava emergesse
una macchia scura che aveva una forma umana.
«Sei tu, caro?» domandò rivolto al soffitto.
(Certo che sono io.)
Il pagliaccio scalatore l'osservava spalmato come
l'Uomo Ragno sul soffitto della stanza.
«Ho fatto bene a mandare a 'fanculo Rino, vero? A
me non mi devono cagare il cazzo, non lo vogliono
mica capire. L'unica cosa che mi dispiace è che domani
quelli vengono con il quadro e io non ho i soldi. Mi
dispiace da morire.» Cercò a terra con la mano la bottiglia
di Cynar senza trovarla. «Non ti preoccupare,
però... Fidati... Io la mia vita non la butto al cesso» si
rivolgeva al clown sopra la sua testa. «Io non ti lascio.
Io non faccio come certa gente di mia conoscenza.
Te lo giuro, te lo giuro sulla testa di...»
Laura.
«... Teresa, la cosa più importante della mia vita,
che starai qui, in questa casa. Domani. Mi vendo tutto,
piuttosto.»
Improvvisamente un grumo di dolore gli esplose
come una bolla sotto lo sterno. Si toccò gli occhi, le
guance. Piangeva e non se n'era accorto.
«Sto male» singhiozzò. «Che cosa devo fare? Dimmelo
tu. Ti prego, dimmelo tu.»
(Chiamala. Lei è l'unica che ti capisce.) Il pagliaccio gli
sorrise sul soffitto.
«Non è vero... Mi ha lasciato... Non è stata colpa
mia se Laura è morta. Io lo so che lei pensa questo...»
(Dille che da domani smetterai di bere.)
Danilo sapeva che lì sul soffitto non c'era nessun
pagliaccio. Che quell'ombra era dovuta alla televisione
in salotto. Eppure era proprio come se gli stesse
parlando.
«Non diciamoci balle, non ce la farò mai.» Un'altra
bolla di dolore si ruppe sotto il pomo d'Adamo.
(Ce la farai. Se lei tornerà da te e ti aiuterà ce la farai
certamente... Dille della boutique. Vedrai come torna)
Danilo sollevò un po' la testa e strizzò gli occhi:
«Adesso? La chiamo adesso?».
(Sì, adesso.)
«E se si arrabbia?»
(E perché dovrebbe arrabbiarsi?)
«È troppo tardi. Le ho giurato che non la chiamavo
la notte.»
(Non è mai troppo tardi per dire la verità. Per dire che si
ama. Dille cosa stai facendo per lei. Che sfiderai la grande
montagna solo per lei. Le donne questo vogliono sentirsi
dire. Dille della boutique. Vedrai, vedrai...)
Danilo sollevò la testa dal cuscino e tutto prese a
girare. Respiró, cercò a tentoni l'interruttore e accese
l'abat-jour. La luce gli pugnalò le retine. Si mise una
mano sugli occhi e con l'altra afferrò il telefono sul
comodino. «La chiamo sul cellulare, però.» Compose
il numero di Teresa.
L'utente non era disponibile.
«Non risponde, visto?»
(Chiamala a casa.)
Quella sì che era una stronzata in piena regola. Soprattutto
a quell'ora, quando c'era anche quel figlio
di troia del gommista. Eppure doveva farlo, doveva
sentire la voce di Teresa, l'unica cosa che gli avrebbe
fatto bene in quel momento.
(Fallo. Se risponde lui riattacchi, no?)
In effetti...
E poi questa volta era diverso. Era per dirle che
avrebbe rimesso tutto a posto. Sul serio. Era in fondo
al tunnel e se non cambiava ci lasciava le penne.
E lei avrebbe capito. Teresa avrebbe capito quanto
soffriva e sarebbe tornata a casa e lui, la mattina dopo,
si sarebbe svegliato e se la sarebbe trovata accanto,
tutta accucciatella con la mascherina contro la
luce.
(Che aspetti?)
L'indice gli scivolò sulla tastiera e con una velocità
sorprendente per la sua condizione mentale compose
il numero.
120.
Lo scambiò prima per un cane, poi per un cinghiale e
infine per un gorilla.
Rino Zena fece tre passi indietro e istintivamente
gli puntò contro la pistola, ma appena la torcia lo illuminò
capì che era un essere umano.
Stava a quattro zampe in mezzo al bosco, accanto
al casco. Tutto bagnato. I capelli neri appiccicati al
cranio... Su una spalla un buco da cui usciva sangue.
Le mani affondate nel fango.
«Quattro Formaggi?! Cos'è successo?»
Sulle prime sembrò che nemmeno sentisse, ma poi
lentamente sollevò la testa verso la luce.
Rino si mise istintivamente la mano sulla bocca.
Aveva gli occhi spalancati, due buchi scavati nelle
orbite, e la mascella gli pendeva come a un povero
idiota.
«Che ti hanno fatto?»
Il volto, segnato dalle ombre, era ridotto a un teschio.
Sembrava che qualcosa, dentro la mente di
Quattro Formaggi, fosse andato in cortocircuito come
a certi malati di mente dopo un intervento di lobotomia.
Non pareva nemmeno lui.
«Dove sono? Dove cazzo sono?» Rino prese a puntare
la pistola intorno, sicuro che fossero lì, nascosti
da qualche parte, nel buio. «Uscite fuori, figli di puttana.
Prendetevela con me!» Poi si piegò, sempre con
la pistola puntata in avanti, e afferrò Quattro Formaggi
per un braccio e provò a tirarlo su, ma sembrava
piantato nella terra. «Forza! Alzati. Dobbiamo andare
via di qua.» Alla fine, facendo una fatica terribile, lo
mise in piedi. «Ci sono io. Non ti preoccupare.» Lo
stava per trascinare quando si accorse che aveva l'uccello
fuori dai pantaloni.
«Ma che caz...?»
«Non volevo. Non volevo. Non l'ho fatto apposta»
balbettò Quattro Formaggi e cominciò a piangere.
«Scusami.»
Rino provò la sensazione che qualcuno gli avesse
aperto la pancia con una coltellata e nello stesso tempo
gli avesse spinto un calzino giù per la trachea.
Mollò Quattro Formaggi che si afflosciò a terra, fece
due passi indietro e capì di essersi sbagliato. Terribilmente
sbagliato.
Lo Scarabeo è di quella ragazzina... La compagna di
scuola di Cristiano... L'adesivo con la faccia.
Fu sopraffatto dalla consapevolezza agghiacciante
che Quattro Formaggi alla fine era esploso. E aveva
fatto qualcosa di molto brutto.
Perché Rino sapeva che la favola che si diceva in
giro che Quattro Formaggi non avrebbe mai fatto
male a una mosca era una stronzata grossa quanto
quella che avrebbero abbassato le tasse.
Ogni giorno c'era qualcuno che in un modo o nell'altro
si pigliava la briga di prenderlo per il culo, che
lo imitava, che gli dava meno zuppa alla mensa, che lo
faceva sentire un idiota, e lui non se la prendeva, sorrideva,
e tutti a dire che Quattro Formaggi era superiore.
Superiore un cazzo!
Quel sorriso a mezza bocca che gli usciva dopo che
qualcuno gli aveva fatto il verso e lo aveva chiamato
spastico non era il segno che Quattro Formaggi era un
santo, ma che l'insulto aveva fatto centro, aveva bucato
una parte sensibile e il dolore andava a ingrossare
una parte del suo cervello dove pulsava qualcosa di
infetto, di storto. E un giorno o l'altro, presto o tardi,
quella roba cattiva si sarebbe risvegliata.
Un milione di volte Rino lo aveva pensato e un milione
di volte si era detto che sperava di sbagliarsi.
Dovette farsi forza per riuscire a parlargli. Era come
se avesse preso un cazzotto in pieno stomaco.
«Che hai fatto? Che cazzo hai fatto?» Si girò sul sentiero
coperto di foglie e fece pochi passi e la luce gialla
della torcia che aveva sulla fronte scivolò sul cadavere
di Fabiana allungato in mezzo al sentiero. La
testa fracassata da una pietra.
«Una ragazzina... Hai ammazzato una ragazzina.»
121.
Il telefono continuava a squillare.
Metto giù...
(No. Aspetta almeno altri...)
«Pronto?»
Danilo Aprea fece uno sbuffo e respirò di nuovo.
Aveva la bocca asciutta e la lingua intorpidita. «Teresa,
sono io.»
Un infinito istante di silenzio.
«Danilo, che cosa vuoi?» Nel tono della voce non
c'era rabbia, ma qualcosa di peggiore, che fece immediatamente
maledire a Danilo di aver chiamato. C'erano
avvilimento e rassegnazione. Come un contadino
che ha accettato la sciagurata sorte che di tanto in
tanto una volpe gli entri nel pollaio e divori le galline.
«Ascolta. Ti devo parlare...»
«Sei ubriaco.»
Cercò di sembrare offeso, quasi oltraggiato, da
quella bassa insinuazione: «Perché dici così?».
«Basta sentirti.»
«Ti sbagli. Non ho bevuto un goccio. Non è giusto
che ogni volta pensi...»
«Mi avevi giurato che non mi avresti chiamato...
Sai che ore sono?»
«È tardi, lo so, ma è importante, non sono matto, se
no non ti avrei mai chiamato. È molto importante.
Asco...»
Teresa lo interruppe: «No, Danilo, ascoltami tu. Io
non posso staccare il telefono, la madre di Piero è
grave all'ospedale e tu lo sai».
Cazzo, me n'ero dimenticato.
«Lo sai benissimo, Danilo. Ogni volta che il telefono
suona ci prende un colpo. Piero è di là. E avrà già
capito che sei tu. Tu mi devi lasciare in pace. Che cosa
devo fare per...»
Riuscì a interromperla: «Scusami, Teresa. Scusami.
Hai ragione. Perdonami. Ma ho una sorpresa incredibile
per il nostro futuro. Una cosa che devi assolutamente
sentire...».
Ora fu lei a interromperlo: «Ma di quale futuro
stai parlando? Sei tu che mi devi ascoltare. Ed è meglio
che mi ascolti molto bene. Quindi sturati le
orecchie». La donna prese un respiro: «Sono incinta,
Danilo. Aspetto un figlio da Piero. Da tre mesi. Te ne
devi fare una ragione. Io non voglio tornare con te,
io non ti amo. Io amo Piero. Laura è morta, Danilo.
Dobbiamo farcene una ragione. Io voglio essere felice
e Piero mi rende felice. Voglio ricostruirmi una famiglia.
E tu continui a tormentarmi, a chiamarmi la
notte! Sarò costretta ad andare alla polizia. E se non
basta partirò, sparirò. Se mi ami, come ripeti sempre,
mi devi lasciare in pace. Quindi ti imploro, ti
scongiuro di lasciarci in pace. Se non lo vuoi fare per
me, fallo per te. Dimenticami. Ricomincia a vivere.
Addio».
Click.
122.
È morta.
Erano passati almeno cinque minuti da quando
Ida si era chiusa nel gabinetto.
Poteva anche essere svenuta per la puzza.
Beppe Trecca, preoccupato, avvicinò l'orecchio alla
porta. Non si sentiva niente, colpa del fracasso
della pioggia e dell'ululare del vento che scuoteva il
camper.
Si era preparato un discorso chiaro, semplice, per
farle capire che quella storia era sbagliata.
Si schiarì la voce. «Ida...? Ida, ci sei?»
La porta si aprì e Ida Lo Vino uscì pallida come un
fantasma.
Lui deglutì. «C'era un po' di puzza?»
Lei fece segno di sì e aggiunse: «Beppe, ti amo. Ti
amo da morire». E gli infilò la lingua in bocca.
123.
«Ma che cazzo hai fatto? Brutto figlio di puttana psicopatico
assassino che non sei altro!» Rino urlava e
strattonava Quattro Formaggi per un braccio. «Hai
ucciso una ragazzina! Hai dato fuori di testa, pezzo
di deficiente...» Gli diede uno schiaffo così forte che
sentì le ossa della mano incrinarsi.
Quattro Formaggi volò a terra e cominciò a singhiozzare
disperato.
«Non piangere, stronzo. Non piangere che ti ammazzo.»
Rino sollevò il capo come un coyote che ulula
verso la luna, digrignò i denti massaggiandosi la
mano indolenzita e gli mollò un calcio sul costato.
Quattro Formaggi rotolò nel fango cominciando a
tossire.
«Le hai sfondato la testa con una pietra.» E giù un
altro calcio. «Hai capito, bastardo?» E un altro ancora.
«Non... vo...levo. Ti gi...uro che... non volevo. Mi
disp...iace» frignava Quattro Formaggi scuotendo
la testa disperato. «Non lo... so... nemmeno io...
perché.»
«Ah, non lo sai? Nemmeno io lo so. Schifoso stupratore
pezzo di merda...» Lo afferrò per i capelli e
gli cacciò la canna della pistola contro un occhio.
«Ora ti ammazzo.»
«Sì, ammazzami! Ammazzami. Me lo merito...»
prese a mugugnare Quattro Formaggi.
Una furia rossa, impetuosa, aveva acceso il cervello
e gonfiato i muscoli e teso i tendini dell'indice di
Rino Zena che stringeva il grilletto della pistola, e Rino
sapeva che doveva calmarsi subito, immediatamente,
se no andava a finire che faceva saltare quella
testa di cazzo che aveva davanti.
Con la suola dell'anfibio colpì in bocca Quattro
Formaggi che sputò un fiotto di sangue e poi si rannicchiò
con le braccia sulla testa.
Rino, sbuffando, si cacciò la pistola sotto la cintola
e prese con tutte e due le mani un enorme ramo e lo
spezzò contro il tronco.
Non bastava. Aveva ancora troppa rabbia dentro.
Afferrò con entrambe le mani una roccia che doveva
pesare almeno cinquanta chili per scagliarla chissà
dove, la tirò su dal fango urlando, ma si ammutolì
subito.
Il pietrone gli scivolò dalle mani.
Il mondo intorno a lui si scompose in centinaia di
frammenti colorati come un vetro che esplode, e una
morsa pesante come una massa di piombo incandescente
gli stritolò il cranio. Due punteruoli gli affondarono
nelle tempie e tutte le estremità del corpo iniziarono
a formicolargli.
Rimase fermo, con le gambe piegate e il busto in
avanti come un lottatore di sumo, strabuzzando gli
occhi, e si rese conto che fino a quel momento non
aveva avuto la più pallida idea di cosa fosse un malditesta.
Perse l'equilibrio e cadde rigido a terra.
124.
Erano passati dieci minuti da quando Teresa gli aveva
dato la notizia di essere incinta, ma Danilo Aprea
era ancora lì, seduto sul bordo del letto.
Sapeva che doveva come minimo mettersi a piangere,
come massimo gettarsi dalla finestra e farla finita
per sempre.
Se solo avessi il coraggio di suicidarmi. Pensa come stai
di merda, dopo, cara Teresa... Che goduria! Tutto il resto
della vita vivresti nei rimorsi.
Il problema era che abitava al secondo piano. E con
la sfiga che si ritrovava ci restava paraplegico.
Doveva fare qualcosa, comunque. Forse bastava
partire. Scappare lontano. Andare a vivere in India.
Ma a lui l'India faceva schifo. Era zozza. E piena di
mosche.
Però se continuava a pensare a cose del genere per
tutta la notte fino al mattino, all'alba, alla luce, quella
notte, la notte più schifosa di una vita schifosa, sarebbe
passata. Perché Danilo sapeva che se avesse smesso
di tenere il cervello occupato avrebbe potuto fare
qualche stronzata di cui poi si sarebbe pentito amaramente.
Guardò il soffitto. Il clown era ancora là. Appeso in
un angolo dove il bagliore della televisione non arrivava.
(Poverina, chissà, nelle sue fantasie, che si crede... Porse
che questa bella novità ti sconvolga al punto che ti impicchi
al lampadario? Tu pensi che lei vivrebbe nei rimorsi? E
invece sarebbe felice. Ti avrebbe tolto di mezzo. Questo spera.
Be', si sbaglia. A te per farti fuori ti devono sparare con
il bazooka.)
A Danilo sarebbe piaciuto sorridere, ma le labbra
gli si erano incollate. Allora cominciò a scuotere il
capo.
Che ingenua, Teresa. Non aveva capito un bel niente.
Lui lo sapeva benissimo che prima o poi sarebbe
successo.
Si è dimenticata di Laura. Pensa di poterla rimpiazzare
con un altro figlio.
«Brava.» Cominciò ad applaudire. «Brava, quanto
sei brava!»
(Ma questo non cambia di un centimetro i tuoi piani.
Perché a Teresa, in verità, di quel rivenditore di pneumatici
tutto tirato non importa proprio nulla. Diciamolo, le è stato
utile perché ha i soldi e l'ha messa incinta. Punto. Ma appena
arriverai con la boutique e con i soldi veri, tornerà da te.)
«Ma chi la vuole quella?» mormorò tirando su con
il naso.
(Fai il colpo da solo. Non hai bisogno di nessuno. Fallo
subito. Ora.)
Danilo guardò il pagliaccio. «Hai ragione. Certo,
lo posso fare da solo, come ho fatto a non pensarci
prima?»
Fuori, il temporale continuava a imperversare sul
paese deserto. Non aveva nemmeno bisogno del trattore.
Bastava usare una macchina.
E lui la macchina ce l'aveva ancora. Era nel garage,
ferma dal giorno del funerale di Laura. Aveva avuto
diverse occasioni di venderla, eppure non lo aveva
mai fatto. Come mai? Non perché pensava che un
giorno avrebbe deciso di guidare di nuovo e nemmeno
perché lì dentro era andato in paradiso l'angelo
della sua vita. No. Non per quello. Ma perché gli sarebbe
servita per fare il colpo da solo.
«Tutto torna.»
E quindi anche il fatto che Rino e Quattro Formaggi
lo avessero mollato entrava in un progetto più
grande organizzato da Dio apposta per lui.
(Tutti i soldi saranno tuoi. Non li dovrai dividere con
nessuno.)
Sarebbe diventato veramente ricco, alla faccia di
tutti. E Teresa sarebbe tornata da lui con la coda tra le
gambe.
«Mi dispiace, Teresa. Ti sei dimenticata di Laura.
Hai detto che ami il gommista. Che hai voluto un figlio
da lui. E quindi stai con lui» disse puntando il dito
come se lei fosse lì e provando il primo barlume di
piacere da diverse ore a quella parte.
Sapeva cosa doveva fare.
Si alzò e barcollando andò in bagno a infilarsi due
dita in gola.
125.
Quando Rino Zena gli aveva puntato in faccia la pistola,
Quattro Formaggi aveva avuto la certezza di
amare la vita.
Aveva ripetuto «Ammazzami, ammazzami» per
fargli capire che si sentiva in colpa, ma non lo voleva
davvero: dentro, mai come in quel momento, aveva
desiderato vivere.
Vivere. Vivere dopo aver ucciso. Vivere comunque.
Vivere con il peso della colpa. Vivere in una prigione
per il resto della sua vita. Vivere picchiato e disprezzato
fino alla fine dei suoi giorni.
Non importava come, ma vivere.
E anche quando aveva sentito il freddo dell'acciaio
della pistola contro il naso aveva avuto la certezza
che Rino non gli avrebbe sparato e che, come al solito,
avrebbe rimesso tutto a posto.
Doveva solo lasciargli sbollire la rabbia.
Si era chiuso a riccio ed era giusto, se li meritava,
certo che se li meritava i calci, anche se era colpa di
Ramona se era morta. Se lei non avesse preso la strada
del bosco tutto questo non sarebbe successo.
Da terra, con la testa nascosta tra le braccia, aveva
visto la sagoma nera di Rino agitarsi e prendere un
ramo e spaccarlo contro un tronco. E poi, come un gigante
con un occhio di luce al centro della fronte, sollevare
un sasso enorme e mentre lo sollevava paralizzarsi
improvvisamente. Per un secondo Quattro Formaggi
aveva pensato che gli fosse venuto il colpo della
strega, ma poi Rino era caduto a terra tutto rigido.
Ed era rimasto lì, fermo. Senza dire una parola,
senza fare uno strillo.
Stava così da almeno cinque minuti.
Gli si avvicinò, pronto a darsela a gambe se si fosse
rialzato.
Rino aveva gli occhi aperti e una strana espressione
sul volto che non riusciva a definire. Come se stesse
aspettando una risposta.
«Rino, mi senti?» gli domandò scuotendolo.
Aveva i denti serrati e una schiuma bianca gli colava
dall'angolo della bocca.
Quattro Formaggi non ci capiva niente di medicina,
ma doveva essergli successa una cosa molto grave.
Quella cosa che ti succede nel cervello per cui sei
praticamente morto.
Il coma.
«Rino! Che, sei in coma?»
Niente.
Gli mollò uno schiaffo, ma Rino non fece niente, rimase
lì con un'espressione interrogativa dipinta sulla
faccia.
Gliene diede un altro, più forte.
Nulla.
Gli sfilò la pistola dai pantaloni, la soppesò e gliela
appiccicò sulla fronte imitando il suo vocione:
«Schifoso stupratore di merda, ora ti ammazzo». E
poi cominciò a infilargli la canna in una narice, in
bocca, a spandergli la bava sul mento.
Quando si stancò rimase un po' così, con il vuoto
nella mente, massaggiandosi le costole indolenzite e
continuando a darsi dei colpi con il calcio della pistola
sulla coscia.
126.
Lucciole danzavano davanti agli occhi di Rino Zena.
Vedeva anche le gocce di pioggia pesanti come mercurio
che gli cadevano sulla faccia.
Il resto era formicolio.
Le gambe. Le braccia. Lo stomaco. La bocca.
Come un sacco di pelle ripieno di formiche.
Non ricordava dove fosse, ma se si concentrava
riusciva anche a sentire: l'ansare del proprio respiro,
la tempesta tra gli alberi.
Una specie di nube viola lo stava coprendo, nascondendo
le lucciole.
Giusto, era nel bosco. E dove la nube era più chiara
doveva essere Quattro Formaggi.
"Aiutami" disse. Ma la bocca non si mosse, la lingua
nemmeno e la parola non uscì dalle sue labbra,
eppure gli risuonò nelle orecchie come un urlo disperato
di terrore.
Avvertì qualcosa sulla guancia. Uno schiaffo, forse.
O una carezza. Ma era distante. Come se la sua testa
fosse foderata di lana. Lana ruvida. La lana verde
scuro delle coperte del collegio.
Si stupì di riuscire ancora a pensare.
Pensieri piccoli. Uno dietro l'altro. Pensieri viola immersi
in un nero senza fine.
«Rino! Che, sei in coma?»
Il cuore prese a battergli più forte. Le parole di
Quattro Formaggi come frecce appuntite bucavano il
viola che si richiudeva dopo il loro passaggio e arrivavano
fino a lui.
"Non lo so" gli rispose, cosciente di non aver parlato.
«Schifoso stupratore di merda, ora ti ammazzo.»
Altre frecce forarono la cappa. Ma questa volta Rino
non capì cosa volessero dire.
Se almeno fosse riuscito a muovere un dito...
Un dito pieno di formiche.
Si sforzò, cercando di spostare la mano. Forse lo
aveva mosso, ma in quello stato non poteva saperlo.
«Sei morto?» gli chiese Quattro Formaggi.
Il dito. Muovi quel dito di merda.
Doveva far capire a Quattro Formaggi che lo doveva
portare subito all'ospedale.
Muovi il dito. Forza.
Ordinò a tutte le formiche di convergere da ogni
parte del corpo nel dito e alzarglielo.
Ma quelle non ubbidivano, e di colpo la nebbia
s'infittì e il suo corpo cominciò a sobbalzare e a tremare
trascinato nel viola che virava al nero.
Un fuoco ardente gli esplose al centro del petto,
succhiandogli via l'aria dai polmoni.
Rino implorò Dio di aiutarlo, di tirarlo fuori da
quel buco nero, e così com'erano arrivati gli spasmi
cessarono e si ritrovò solo, in una quiete senza
luce.
127.
Quattro Formaggi vedeva Rino dibattersi e combattere
contro una forza invisibile che l'aveva preso e cercava
di portarselo via. Rino sbatteva le gambe e le
braccia, strabuzzava gli occhi, la schiena gli si tendeva
come un arco, storceva la bocca, sbatacchiava la testa
e la luce che aveva sulla fronte, impazzita, squarciava
con mille lame dorate il bosco.
Impaurito e impressionato Quattro Formaggi provò
ad aiutarlo, a buttarglisi addosso per bloccargli le
braccia, ma si beccò una manata in faccia e un calcio,
allora si allontanò con la coda tra le gambe.
Tirandosi i capelli pregò che finisse presto. Era una
cosa troppo spaventosa da vedere.
La forza invisibile ora spingeva di più e gli stava
piegando la schiena come se volesse spezzarla, ma
un istante dopo l'abbandonò e Rino rimase lì, sciolto
nel fango. Anche la torcia si era spenta.
Se n'e andata perché si è presa l'anima di Rino.
Il suo migliore amico era morto. L'unica persona
che gli aveva voluto bene.
Era venuto lì ad aiutarlo e Dio...
(che doveva prendere te, brutto schifoso stupratore assassino)
... gli aveva tolto la vita mentre sollevava un masso.
Si accoccolò accanto a Rino.
£ ora? Che devo fare?
Normalmente a queste domande rispondeva Rino.
Lui sapeva sempre cosa fare.
Quattro Formaggi si mise seduto e gli diede una
pacca su una spalla: «Amen». E si fece il segno della
croce.
E morto per me. Dio voleva qualcuno per la morte di
Ramona e Rino si è sacrificato.
(Lo troveranno e penseranno che è stato lui a ucciderla.
A te non succederà niente.)
Quattro Formaggi sorrise sollevato. Poi si alzò, si
rinfilò l'uccello nelle mutande, recuperò la torcia e il
casco, mise la pistola nei pantaloni e tornò da Ramona.
Le sfilò l'anello con il teschio dal dito e zoppicando
si avviò verso la strada.
128.
Le porte d'alluminio dell'ascensore si ritrassero e Danilo
Aprea, tutto infagottato, fece il suo ingresso nell'androne
del palazzo.
Si appoggiò contro lo stipite dell'ascensore con gli
occhi ridotti a due spiragli.
L'atrio era una lunga stanza tappezzata da doghe
di legno scuro. Per terra marmo lucido. A sinistra la
guardiola con un televisorino e una pila di bollette. A
destra le scale. Oltre la portafinestra le gocce di pioggia
saltellavano sullo zerbino zuppo e frustavano le
piante di geranio nei vasi.
Danilo aveva vomitato tre litri di alcol e aveva buttato
giù una caffettiera intera, ora si sentiva un po'
meglio anche se non poteva dire che la sbronza fosse
passata. Ma almeno non aveva più la nausea.
Si diresse barcollando verso una porta mimetizzata
nel rivestimento di legno, l'aprì e senza nemmeno
accendere le luci scese una breve rampa di scale,
trovò la maniglia e spalancò la porta del garage condominiale.
Inspirò.
Lo stesso odore di umidità e benzina.
Era esattamente dal 12 luglio del 2001 che non entrava
là dentro.
Si fece coraggio e spinse l'interruttore.
I tubi al neon sfarfallarono e rischiararono un lungo
garage interrato dove erano parcheggiate due file
di macchine.
Danilo lo attraversò sentendo il rumore dei propri
passi rimbalzare contro le pareti di cemento.
L'Alfa Romeo era coperta da un telo grigio.
Poggiò una mano sul cofano. Al contatto un brivido
gli risalì lungo gli avambracci facendogli accapponare
la pelle.
Non ci pensare.
Fece un respiro e sollevò il telo.
Per un attimo s'immaginò sua figlia seduta sul seggiolino
verde che rideva. Scacciò la visione dalla
mente.
Era colpa di quel seggiolino se Laura Aprea era
morta.
«Quella maledetta fibbia non si è aperta. Si è incastrata»
aveva ripetuto a tutti fino allo sfinimento. A
Teresa, ai poliziotti, al mondo intero.
Il 9 luglio 2001 Danilo aveva chiesto il permesso al
lavoro e aveva portato sua figlia a una visita di controllo.
Di solito di queste cose si occupava Teresa, ma
quel giorno doveva sbrigare degli affari con la madre
dal notaio.
«Tutto a posto» aveva detto il medico dando una
pacca affettuosa sul sedere di Laura che sghignazzava
e si agitava tutta nuda sul lettino. «Questo pasticcino
sta benissimo.»
«Questo non è un pasticcino. Questa è una
pippotella, vero?» Danilo si era rivolto alla figlia con un
sorriso che andava da un orecchio all'altro. E mentre
il medico si lavava le mani aveva affondato la faccia
nella pancia della piccoletta facendo un sacco di pernacchie.
Laura aveva cominciato a ridere. «Ma dove
sono le mozzaaaaarelliiiiine? Eccole qui!» E le aveva
dato un morsetto affettuoso sulle gambotte cicciottelle
che lo facevano diventare matto.
Dopo la visita medica si erano fermati al discount.
Era un'impresa riuscire a fare la spesa con Laura
seduta nel carrello che cominciava a cantare: «Viva la
pappa con il po-po-po-po-pomodoro...».
Poi erano rientrati in macchina. Danilo aveva poggiato
i sacchetti sul sedile posteriore e imbracato la
bambina nel seggiolino e le aveva detto: «Adesso andiamo
dalla mamma».
Erano partiti.
Danilo Aprea a quel tempo lavorava in una ditta di
trasporti come guardiano notturno e sapeva che prima
o poi ci sarebbe stata una riduzione del personale.
E c'erano buone possibilità che facessero fuori anche
lui.
Guidava sulla statale insolitamente sgombra per
quell'ora e continuava a pensare a un altro impiego
da trovare subito, anche momentaneo, tipo all'Euroedil,
una ditta di costruzioni dove avevano spesso bisogno
di manovali.
E a un tratto si era reso conto che in macchina c'era
odore di mele verdi. Non quello delle mele vere, ma
l'odore sintetico delle mele verdi dello shampoo antiforfora.
«L'ho scambiato per l'odore dell'Arbre Magique»
aveva spiegato dopo a sua moglie.
«Come hai fatto? Il deodorante è al pino silvestre e
lo shampoo alla mela verde. Non sono la stessa cosa!»
aveva urlato disperata sua moglie con gli occhi
gonfi.
«Hai ragione. Ma non l'ho capito subito. Non lo so
perché...»
Danilo si era girato e aveva visto che la magliettina
rossa e i pantaloncini blu di Laura erano tutti impiastricciati
di un liquido verde.
«Laura, cos'hai combinato?» Danilo aveva visto la
busta della spesa rovesciata e il barattolo dello shampoo
senza tappo sul sedile sporco di sapone.
Poi, se lo ricordava come fosse oggi, aveva sentito
un risucchio, un rantolo soffocato, e aveva guardato
sua figlia.
La bambina aveva la bocca spalancata e gli occhi
azzurri, fuori dalle orbite, erano rossi. Si agitava disperata,
ma le cinture di sicurezza del seggiolino facevano
il loro dovere e la tenevano appiccicata al sedile
come un condannato a morte alla sedia elettrica.
Non respira. Il tappo! Ha ingoiato il tappo!
Danilo aveva stretto il volante e senza guardare
aveva sterzato e si era lanciato, in uno stridio di
pneumatici, verso il bordo della strada, sfiorando il
muso di un camion che aveva cominciato a strombazzare
impazzito.
L'Alfa Romeo si era fermata sulla corsia di emergenza
della statale in una nuvola di fumo bianco. Danilo
si era catapultato fuori ed era inciampato, si era
tirato su e con il cuore che gli menava cazzotti contro
il petto si era attaccato con tutte e due le mani alla
maniglia della portiera posteriore.
«Eccomi! Eccomi! Arriva papà...» aveva ansimato
infilandosi in macchina e si era attaccato alla fibbia di
sicurezza del seggiolino per liberare sua figlia che
sbatteva le manine e le gambe colpendolo sul volto e
sul petto.
E la cosa incredibile era che quella maledetta fibbia
non si apriva, aveva due pulsanti enormi, colorati di
arancione, che bastava semplicemente spingere insieme,
cosa che aveva fatto cento volte, aprendola sempre
perfettamente, una fibbia tedesca studiata dai migliori
ingegneri al mondo, perché si sa che i tedeschi
sono i migliori ingegneri al mondo, che aveva passato
i test di sicurezza più improbabili, che era stata
certificata da una commissione internazionale e che
aveva ricevuto la registrazione C , eppure quella maledetta
fibbia non si apriva.
Non si apriva in nessun modo.
Danilo si era detto che doveva stare calmo, che non
doveva farsi prendere dal panico, che adesso si sarebbe
aperta, ma lo sguardo disperato di Laura e i singulti
strozzati gli facevano perdere la testa, avrebbe voluto
strappare quelle cinghie a morsi, ma doveva stare
calmo. Allora aveva chiuso gli occhi per non vedere la
sua bambina che se ne andava e aveva continuato a
spingere, ad armeggiare, a tirare mentre sua figlia
soffocava, ma niente. Aveva tentato di sfilarla dal seggiolino
senza riuscirci e poi si era attaccato a quel maledetto
coso urlando, ma c'erano le cinture della macchina
che avvolgevano lo scheletro di plastica.
Devo prenderla per i piedi. Devo prenderla per i piedi e
agitarla...
Ma come, se non riusciva a fare nulla?
Allora, inspirando l'odore delle mele verdi, aveva
infilato le sue grosse dita nella bocca di sua figlia che
ora si dibatteva meno, improvvisamente più debole e
stanca, e aveva cercato il tappo incastrato nelle profondità
della trachea. Con i polpastrelli aveva sentito
la sua piccola lingua, l'epiglottide, le tonsille, ma non
il tappo.
Ora Laura non si muoveva più. La testolina le
ciondolava sul petto e le braccia le pendevano ai lati
del seggiolino.
Sì, sapeva cosa doveva fare. Come aveva fatto a
non pensarci prima? Doveva bucarle la gola, così l'aria...
Ma con cosa?
Aveva urlato e implorato «Aiuto, aiutatemi, una
bambina, mia figlia, sta morendo...» e si era infilato
tra le due poltrone davanti, lui, un bestione di cento e
passa chili incastrato tra le due poltrone, con la leva
del cambio poggiata sullo sterno e le braccia allungate
verso il cassetto del cruscotto. Il medio della mano destra
era riuscito a raggiungere il pulsante e lo sportello
si era aperto e aveva vomitato fogli, libretti, mappe
e una penna Bic che era rotolata sotto la poltrona.
Aveva tastato, ansimando, il tappetino e finalmente
aveva afferrato la penna e impugnandola come un
punteruolo si era girato, aveva alzato il braccio destro
pronto a...
È morta.
La Bic gli era caduta dalle mani.
Laura Aprea, senza vita, era adagiata sul seggiolino,
con gli occhi azzurri sbarrati e le braccine allargate,
la bocca spalancata...
Un anno dopo l'incidente, quando la sua esistenza
se n'era andata allegramente a puttane, su un giornale
Danilo aveva trovato questo breve trafiletto:
In occasione dei test sui seggiolini del 2002 è stato
constatato che le fibbie della ditta Rausberg prodotte
dal 2000 al 2001 e usate da alcuni produttori di seggiolini
non chiudono sempre correttamente, nonostante
il click ben accentuato. Se le due linguette metalliche
vengono inserite obliquamente, la cintura
potrebbe non essere più ben fissata da un lato o dall'altro
e la fibbia potrebbe non aprirsi, a discapito della
sicurezza del bambino. Ai seguenti seggiolini è stata
montata una fibbia difettosa: Boulgom, Chicco,
Fair/Wavo, Kiddy e Storchenmühle. Quindi si consiglia
di controllare la data di fabbricazione del seggiolino
in vostro possesso e nel caso fosse stato prodotto
nel 2000 2001 rispedirlo ai fabbricanti che si sono impegnati
a sostituirlo prontamente.
129.
Il furgone di Rino era parcheggiato al centro della
piazzola di sosta.
Quattro Formaggi superò il guardrail e lo osservò
per un po' grattandosi la barba e tenendosi una mano
sulla spalla ferita.
Doveva fare in modo che chi passava lo notasse.
Poteva chiamare la polizia e dire che aveva scoperto
un omicidio e così sarebbe diventato famoso. Sarebbe
finito in televisione.
No, non si può.
Era amico di Rino e avrebbero subito pensato che
in mezzo c'era anche lui.
Cominciò a darsi delle manate in fronte ripetendosi
a denti stretti: «Pensa! Pensa! Pensa, cervello marcio».
Se accendeva i fari tutti avrebbero visto il Ducato.
Ma la batteria sarebbe morta in meno di un'ora.
Aprì lo sportello e accese la radio al massimo e lasciò
la portiera aperta, così la lampadina interna rimaneva
illuminata.
Mentre andava a riprendersi il Boxer la radio attaccò
con So Lonely dei Police.
Prese a dondolare la testa e poi, girando su se stesso,
allargò le braccia alla pioggia sentendo una gioia
euforica che gli gonfiava il petto.
Vivo! Vivo! Sono vivo!
Aveva ucciso ed era vivo. E nessuno lo avrebbe
mai scoperto.
Tirò fuori il Boxer, ci montò sopra e si mise il casco.
Non riusciva a muovere il braccio sinistro e dovette
faticare per mettere in moto. Dopo un paio di pernacchie
il motore cominciò a girare e a produrre un fumo
bianco.
«Bravo, piccolo.» Accarezzò il faro e cantando «So
lonely, so lonely...» si avviò verso casa spinto dal vento
e dalla pioggia.
130.
Mentre Beppe Trecca e Ida Lo Vino erano chiusi nel
camper la tempesta infuriava sul camping Bahamas.
Sopra il cancello la grande insegna a forma di banana
sbatteva come uno spinnaker. Uno dei quattro
tiranti d'acciaio saltò con uno stock che si perse nella
bufera.
131.
Danilo Aprea appallottolò il telo e lo poggiò a terra.
Si avvicinò alla portiera e gli venne naturale mettere
le mani in tasca.
Dove sono le chiavi?
Quando si ricordò dov'erano dovette poggiarsi
contro il finestrino per non cadere a terra.
«No, non è possibile. Non è possibile» cominciò a
ripetere scuotendo la testa. Poi si mise le mani sulla
faccia. «Che stronzata... Che stronzata...»
Le aveva gettate nel canale il giorno in cui era stata
sotterrata Laura, giurando che non avrebbe mai più
guidato quella macchina in vita sua.
E ora?
Non poteva mollare per colpa di un merdoso mazzo
di chiavi. Non sarebbe stato un problema così
idiota a fermarlo.
«Per fermare Danilo Aprea gli devono sparare con
il bazooka» esclamò constatando quanto fosse ferma
e risoluta la propria voce. «E poi basta salire e prendere
la copia delle chiavi.»
Tornò su e cominciò ad aprire tutti i cassetti, a cercare
in ogni armadio, a rovistare in ogni scatola, in
ogni maledetto angolo.
Erano scomparse. Volatilizzate. Disintegrate.
Lui era un uomo ordinato. Non perdeva mai niente.
"Ogni cosa ha il suo posto e ogni posto ha la sua
cosa" era il suo motto.
E quindi quelle chiavi ci dovevano essere, nascoste
da qualche parte. Solo che non sapeva più dove cercarle.
Era stanco, accaldato e aveva un malditesta atroce.
Si trascinò attraverso l'appartamento in cui sembravano
esser passati i lanzichenecchi e si accasciò sfinito,
a gambe larghe, sulla poltrona.
A meno che...
Schizzò in piedi come se il cuscino avesse preso
fuoco.
E se quella puttana di Teresa, dietro consiglio del
gommista, gliele avesse fregate?
Ma perché?
Il gommista aveva una Lexus, che diavolo se ne faceva
della sua vecchia Alfa?
Così. Per farmi un dispetto. O forse è stata Teresa che
aveva paura che guidassi di nuovo.
Ma poteva benissimo avergliele fregate anche Rino
quando veniva a farsi il bucato. O quel diavolo di
Cristiano. E perché escludere quello scemo di Quattro
Formaggi?
La sua macchina faceva gola a tutti. Figuriamoci
quando avrebbe avuto in salotto il quadro del pagliaccio
scalatore, un oggetto di quel valore tutti
avrebbero cercato di rubarglielo...
La prima cosa che devo fare domani è montare una porta
blindata con un mucchio di serrature.
Ma intanto era senza chiavi.
Sono molto stanco. Forse è meglio rinunciare per questa
sera...
Ma si conosceva troppo bene, se mollava ora l'indomani
non avrebbe mai avuto il coraggio di fare il
colpo da solo. E in più sarebbe stato costretto a dividere
il bottino con qualcun altro.
No. Non esiste.
Solo che si sentiva svuotato e gli occhi gli si chiudevano.
Doveva riprendere coraggio. E per farlo conosceva
un solo modo. Andò in cucina trascinando i piedi e
sbadigliando. Aveva tirato fuori tutto dai pensili, e
tra le altre cose c'era anche una bottiglia di Caffè
Sport Borghetti.
Ci si attaccò e si sentì subito meglio.
(Invece di stare qui come un cretino, vai a vedere se in
garage qualcuno ha lasciato le chiavi in macchina.)
Questa idea geniale non poteva che essere del pagliaccio
spalmato sul soffitto della stanza da letto.
«Giusto! Sei un genio!»
Se esisteva un piano del destino che voleva che
quella notte il corso della sua esistenza cambiasse,
avrebbe trovato certamente un'automobile aperta.
132.
Per cominciare non soffriva.
E questa era una cosa buona.
E poi credeva di non essere morto.
E questa era un'altra cosa buona.
C'era stato un immenso istante, quando la nube
fluorescente era stata improvvisamente risucchiata
dal nero, in cui Rino Zena era stato sicuro che alla sua
storia era stata scritta la parola fine.
Ora però il viola era tornato.
Nessuno gli assicurava che non fosse morto. Ma
Rino aveva sempre creduto nel paradiso e nell'inferno,
e quel posto non era né l'uno né l'altro. Di questo
era certo. Era cosciente di essere ancora dentro il proprio
corpo.
Poteva pensare. E pensare è vivere.
E anche se non soffriva tanto, avvertiva un fuoco
lontano, un dolore distante e le formiche che gli correvano
nelle vene, ma gli sembrava anche di sentire
da mille chilometri i Police che cantavano e la pioggia
che cadeva sulle foglie, che gocciolava argentata
sui rami, che colava sulla corteccia degli alberi e che
impregnava la terra.
Era cieco. Insensibile. Paralizzato. Eppure, stranamente,
ci sentiva.
Quando si era risvegliato il buio era meno buio e
virava lentamente in un viola fosforescente e a un
tratto milioni di formiche erano lì. Coprivano la pianura
fino all'orizzonte. Grandi, come quelle che si
trovano nei campi di grano in agosto. Con il testone
lucido e le antenne.
Rino non riusciva a capire se erano fuori o dentro
di lui. E se quel deserto su cui si muovevano era lui.
Avvertiva che c'era un'altra realtà appena dietro la
nube viola che lo avvolgeva. Quella da cui era precipitato.
Il bosco. La pioggia.
Rivide se stesso nel bosco con il pietrone in mano,
Quattro Formaggi, la ragazza morta.
Era lì che doveva tornare.
Pensava di essere ancora là, ed era certo che Quattro
Formaggi fosse andato a chiamare aiuto.
133.
Danilo Aprea, con la bottiglia di Caffè Sport Borghetti
stretta in mano, aveva controllato le automobili del
garage. Una per una.
Tutte chiuse.
In quel condominio di merda tutti vivevano nel
terrore che gli rubassero la macchina. E sicuro, al cento
per cento, che avevano anche antifurti e controcazzi
inseriti.
Aveva pensato di sfondare un finestrino e collegare
i cavi dell'accensione come si vede nei film.
Ma non erano per lui, queste cose. Ci faceva giorno,
cercando di smontare il cruscotto.
Se ci fosse Quattro Formaggi...
Danilo digrignò i denti come un cane idrofobo e
urlò livido di rabbia: «Vaffanculo! Vaffanculo a tutti
voi! Non mi fermerete. Avete capito? Non mi fermerete!
Ci state provando in tutti i modi, ma non ci riuscirete.
No! No! E no! Io il colpo lo devo fare». E diede
un calcio contro lo sportello di una Mini Cooper
facendosi un male incredibile.
Cominciò a saltellare bestemmiando e quando il
dolore diminuì sollevò la bottiglia di Caffè Sport Borghetti,
se ne fece fuori un terzo e si diresse ondeggiando
verso l'uscita del garage.
134.
Nella tasca dei pantaloni c'era il suo cellulare.
Quando Rino Zena pensava al telefonino lo vedeva
apparire enorme come se fosse proiettato sulla
volta viola.
Non era la foto di un cellulare, ma un disegno fatto
con un grosso pennarello nero. I numeri scritti con
una grafia infantile e al posto dello schermo un cerchio
con il sorriso e gli occhi. Avrebbe potuto contemplarlo
per sempre.
Ma ora doveva prendere il suo telefonino dalla tasca
dei pantaloni...
Bisognava parlare alle formiche e spiegar loro cosa
fare.
135.
Danilo Aprea se ne stava in piedi sul parapetto del
canale, con le mani poggiate sui fianchi, e fissava inebetito
le gocce di pioggia.
Alla luce fioca del lampione sul piccolo ponte pedonale
le gocce sembravano fili d'argento che si scioglievano
sulla superficie marroncina del fiume imbrigliato
dal terrapieno.
Le rive e gran parte dei pilastri sotto il ponte erano
stati ingoiati dalla piena. Se la pioggia continuava a
venire giù così, prima di mattina l'acqua avrebbe superato
gli argini.
Danilo era bagnato fino alle mutande. Le guance e
il mento gelati e le lenti degli occhiali rigate dalla
pioggia.
Erano bastati cinquanta metri, la distanza da casa a
lì, sotto quell'acquazzone, per ridurlo a un cencio bagnato.
Una scatola di polistirolo, di quelle che si usano
per il pesce, sfrecciò beccheggiando tra i flutti come
un gommone sulle rapide del Colorado e scomparve
sotto il ponte.
Danilo, provando a non far caso a un rivo gelato
che gli colava lungo la schiena, chiuse gli occhi e
cercò di ricordare dove, cinque anni prima, aveva
lanciato le chiavi.
Più o meno qui.
Il 12 luglio di cinque anni fa... Faceva un caldo infernale
e le zanzare non mi davano tregua.
Dopo il funerale di Laura aveva fatto tornare Teresa
con la madre e lui aveva preso l'Alfa e si era fermato a
un bar dove si era scolato il primo bicchiere di grappa
della sua vita e per maggior sicurezza se n'era comprata
una bottiglia intera, poi era passato da un negozio di
autoricambi e aveva acquistato un telo per auto ed era
tornato a casa. Aveva parcheggiato la macchina in garage,
l'aveva coperta con il telo ed era andato al canale.
Quel giorno il corso d'acqua aveva tutt'altro aspetto.
Non pioveva da un sacco di tempo e si era ridotto
a un rigagnolo puzzolente, infestato di insetti, che
scorreva lento tra carcasse di motorini, scheletri di
elettrodomestici e calle in fiore.
Danilo aveva guardato l'acqua verdastra. Poi aveva
preso dalla tasca le chiavi della macchina e le aveva
scagliate con tutta la sua forza nel canale. Il mazzo
aveva superato il rigagnolo, la riva sabbiosa coperta
di canne, aveva sbattuto contro il terrapieno ed era
caduto sul bagnasciuga, sparendo tra dei grossi cubi
di cemento affondati nel fango secco.
Questo se lo ricordava bene, perché per un attimo
aveva pensato che sarebbe dovuto scendere e gettare
le chiavi nell'acqua se no i vecchi, che ogni tanto si
mettevano a pescare da sopra il ponte, potevano vederle
e poi andargli a fregare la macchina. Ma non lo
aveva fatto.
Chiunque avrebbe detto che era matematicamente
impossibile che fossero ancora là, la corrente se le era
portate via e a quest'ora si trovavano nelle profondità
del mare. Ma questo in caso di circostanze ordinarie.
Quelle in cui si trovava Danilo, invece, non erano circostanze
ordinarie, quella era la sua vita e se il destino
aveva deciso che doveva trovarle le avrebbe trovate.
Corse lungo il canale, attraversò il ponticello in
mattoni e ritornò indietro nel punto dove ricordava
fossero cadute le chiavi.
Guardò giù. Non era molto alto. Due, tre metri. Appendendosi
con le mani il salto non era impossibile.
Il problema si sarebbe presentato dopo, quando ne
sarebbe dovuto uscire.
Una ventina di metri più giù spuntava dall'acqua
il tronco di un albero.
Da lì posso arrivare fino alla strada.
Danilo si tolse gli occhiali e se li infilò nella tasca
della giacca.
Salì sul muretto, tirò fuori la catenina con la medaglietta
di Padre Pio, la baciò e si appese al cornicione.
Adesso doveva solo buttarsi.
Basta trovare il coraggio.
Ma anche se non avesse trovato il coraggio, oramai
non ce l'avrebbe mai fatta a tirarsi su con la sola forza
delle braccia, quindi...
Fece un bel respiro e si lasciò andare.
Finì nell'acqua fino alla cintola. Era così gelata che
non ebbe nemmeno la forza di urlare. Un miliardo di
aghi gli penetrarono le carni e fu subito afferrato dalla
corrente impetuosa. Si dovette avvinghiare con
tutte e due le mani alle frasche che crescevano negli
interstizi dei mattoni del terrapieno per non essere
trascinato via.
Non riusciva nemmeno a poggiare i piedi sul fondo,
tale era la forza del flusso. E le fronde, nonostante
fossero robuste, non avrebbero retto a lungo il suo
peso.
Cominciò a cercare le chiavi sul fondo del torrente.
Mollò la presa con una mano e il fiume lo spinse sotto.
Bevve un sacco di acqua che sapeva di terra.
Cacciò fuori la testa e cominciò a sputare e poi
boccheggiando prese a rovistare di nuovo sul fondo.
Sentì con i polpastrelli gli spigoli dei cubi di cemento
ricoperti di alghe e gli steli viscidi delle piante acquatiche.
Muoveva con fatica le dita intorpidite dal
freddo.
Non ci sono. Come possono essere ancora qui? Solo un
deficiente come me poteva pensare che dopo cinque anni...
Il ramo a cui era appeso, senza preavviso, si strappò
dal muro. Danilo sentì che la corrente lo afferrava, cominciò
a mulinare gambe e braccia come un cane che
affoga cercando di resistere, ma era impossibile, allora,
disperato, provò ad ancorarsi ai cubi di cemento,
che però erano viscidi. Con le nocche batté contro un
tondino di ferro che spuntava dal fango. Riuscì ad afferrarlo
e rimase appeso, fra i mulinelli e il frastuono
dell'acqua che lo assordava, come un grosso tonno
preso all'amo.
Sapeva che non avrebbe retto a lungo, il freddo era
insopportabile e la corrente lo tirava, ma se mollava
sarebbe stato trascinato via e sarebbe finito dritto contro
le grate della chiusa un chilometro più in basso.
Ma che cosa sto facendo?
Improvvisamente, come un sonnambulo che si risveglia
sul ciglio di un cornicione al quinto piano di
un palazzo, si terrorizzò rendendosi conto del casino
in cui si era cacciato. Solo una follia suicida poteva
averlo portato dal calduccio sicuro di casa tra i gorghi
di un canale in piena.
Esplose in una mitragliata di bestemmie irripetibili
che lo avrebbero fatto dannare per sempre, se non
fosse stato certo di essere già da un pezzo condannato
al fuoco eterno.
Era allo stremo delle forze, cercava di tenere duro,
di avvinghiarsi allo spunzone di ferro, ma oramai
aveva solo il naso, come la pinna di uno squalo, che
affiorava dall'acqua. Stava per mollare quando si accorse
che intorno al tondino c'era qualcosa, come un
anello metallico.
Lo toccò.
No! Non era possibile!
Per l'emozione mancò poco che lasciasse la presa.
Le chiavi!
Ho trovato le chiavi!
Le mie chiavi.
Tutte e tre. Quella della macchina, quella della porta
dell'atrio e quella della saracinesca del garage.
Che botta di culo!
No, era blasfemo chiamare così quel ritrovamento.
Quello era un miracolo. Un miracolo in piena regola.
Quando le aveva lanciate, le chiavi avevano sbattuto
contro il terrapieno e cadendo l'anello che le teneva
insieme si era infilato nel tondino.
Un po' come quel gioco del luna park in cui se tiri
il cerchio intorno a una bottiglia vinci il peluche. Ma
lui non aveva mirato. Non lo aveva neanche visto il
tondino.
Questo significava che Dio, il fato, il caso, chiunque
fosse, aveva voluto così. Quante possibilità c'erano
che una cosa del genere potesse succedere? Una
su dieci miliardi.
Quelle chiavi erano rimaste lì, per tutti quegli anni,
immerse nell'acqua e nel fango, aspettando che lui
tornasse a riprendersele.
Mezzo affogato e assiderato, Danilo Aprea provò
una sensazione di calore al centro del torace che lo riscaldò
e gli spazzò via qualsiasi dubbio e paura su
quello che stava facendo, proprio come un forno rovente
incenerisce in un istante un pezzo di carta.
Su, in cielo, c'era qualcuno che lo aiutava.
Sfilò le chiavi dallo spunzone. Le strinse forte,
conficcandosele nel palmo della mano. E poi, sicuro di trovare
il modo per uscire da quel fiume, prese un respiro,
chiuse la bocca, si tappò il naso e si lasciò andare.
136.
I tre tiranti arrugginiti che reggevano la grande banana
si tendevano come le sartie di un vascello in una
bufera boreale.
A circa trenta metri dal cartellone, nel Rimor
SuperDuca 688TC, Beppe Trecca e Ida Lo Vino erano impegnati
in un amplesso furioso.
L'assistente sociale era steso nella mansardina sopra
la cabina di guida e a cavalcioni su di lui, in un risicato
smorzacandela, Ida si agitava e ansimava massaggiandosi
le piccole tette che fuoriuscivano bianche
dal reggiseno di pizzo nero.
Assordato dal frastuono della pioggia, dei tuoni e
delle capocciate di Ida contro il soffitto imbottito del
camper, Beppe inspirava ed espirava, con la moglie
del suo migliore amico affondata sul suo coso, e combatteva
una battaglia con il proprio sistema nervoso
simpatico che aveva deciso di fargli avere un orgasmo
entro pochi secondi. Lo sentiva scendere, infame, attraverso
il midollo spinale e azzannargli le cosce e
convergere rabbioso verso il bacino contraendogli la
muscolatura.
Doveva far rallentare Ida, sospendere un attimo, gli
bastava un attimo, perché così non avrebbe retto ancora
molto...
L'afferrò per la vita cercando di sollevarla e di sfilarglielo,
ma lei interpretò male il gesto e gli si avvinghiò
e continuando a pompare gli sussurrò nell'orecchio
sinistro: «Sì... Sì... Non sai quanto ho immaginato
questo momento. Sfondami!».
D'accordo, così non funzionava. Doveva riuscirci
da solo, ad arginare l'orgasmo, distrarsi, pensare a
qualcosa di disgustoso, di abietto, che lo avrebbe calmato.
Bastava un attimo e sarebbe passato.
S'immaginò di ingropparsi padre Marcello. Quell'essere
orrendo, butterato dal vaiolo e devastato dalla
psoriasi, che viveva in parrocchia. Immaginò di
penetrare le chiappe flaccide e pelose del prete marchigiano.
Questo, in effetti, lo aiutò un po'. Ma appena vide,
nella penombra del faretto da lettura, il volto di Ida
sfigurato dal piacere e si accorse che, come in trance,
lei s'infilava l'indice tra le labbra umide e se lo passava
sulla lingua non resse, provò a pensare a qualcosa
di più deprimente, gli venne in mente la noche triste
di Cortes e l'orrendo massacro del popolo azteco, ma
non bastò, venne lo stesso in silenzio.
Non riuscì nemmeno a capire se fosse più il piacere
o la delusione. Soffocò il vagito e sperò che gli rimanesse
duro il tempo sufficiente per far venire anche
lei.
Strinse i denti, impassibile come un fante prussiano.
«Beppe... Beppe... Oddio, sto per venire... Vengo!
Vengo!» miagolò Ida affondandogli le unghie nelle
spalle.
Nello stesso momento, fuori, un refolo di vento
diede il colpo finale al cartellone, i cavi si spezzarono
e la banana si staccò dai bulloni e prese il volo,
volteggiando come un boomerang sul piazzale del
campeggio, superò il chiosco delle bibite, superò alcune
roulotte e s'incuneò nella fiancata destra del
camper.
Beppe urlò, si avvinghiò a Ida e pensò che fosse
esplosa una bomba. Mario Lo Vino li aveva scoperti e
aveva messo un ordigno esplosivo sotto il camper.
Ma poi si accorse che una parete era divelta, aperta
come una scatoletta di tonno da una mezza banana
gialla con tanto di gambo marrone che faceva capolino
tra la dînette e l'angolo cucina.
Il cartellone doveva aver colpito un punto nevralgico
della struttura del camper perché il tetto si
staccò dalla fiancata con un lamento cupo e il vento,
ululando attraverso la falla, lo scoperchiò portandoselo
via.
I due poveri amanti, bagnati e nudi, si abbracciarono
terrorizzati su ciò che restava della verandina.
137.
Quattro Formaggi durante il ritorno a casa non aveva
incontrato un cane. Non se n'era stupito, quella era
una notte speciale.
La sua notte.
Quasi cinque chilometri di strade allagate, alberi
abbattuti e cartelloni strappati dalla bufera. In piazza
Bologna il grande display luminoso con la temperatura
e l'ora, poggiato sulla palazzina delle Assicurazioni
Generali, era caduto e penzolava attaccato a un
cavo elettrico; non c'era in giro nemmeno una macchina
della polizia, un camion dei pompieri.
Quattro Formaggi si fermò davanti al Mediastore e
legò il motorino con la catena al solito palo e zoppicò
verso le scalette che scendevano a casa. Aprì la porta
e se la chiuse alle spalle, ci si poggiò contro, spalancando
la bocca, e nonostante il dolore alla spalla, dove
Ramona gli aveva piantato lo specchietto, cominciò
a piangere di gioia scuotendo la testa.
Si osservò le mani.
Quelle mani avevano ucciso.
Quattro Formaggi deglutì e un brivido impudico
gli afferrò le cosce e gli strizzò il pube. Le gambe, illanguidite,
non gli ressero, e si dovette attaccare al
paletto della serratura per non finire a terra.
Si liberò delle scarpe e si spogliò buttando tutto a
terra come se i panni gli bruciassero addosso.
Chiuse gli occhi e vide la mano della ragazza che
gli stringeva il cazzo, sull'anulare l'anello d'argento
con il teschio. Lo cercò dentro la tasca dei pantaloni e
quando lo trovò lo strinse forte tra le mani e poi lo
ingoiò.
138.
Rino Zena, il Grande Generale delle Formiche, aveva
disposto il suo esercito di insetti in un milione di battaglioni.
Le formiche erano brave e ubbidienti e avrebbero
fatto tutto quello che lui avesse comandato.
Ascoltatemi!
Le formiche, sotto il cielo viola, si misero sull'attenti
e miliardi di occhi neri lo guardarono.
Voglio che andiate tutte nel mio braccio destro.
Il suo braccio, almeno da come lo vedeva lui, era
un lungo tunnel nero che si allargava in una specie di
piazza da cui partivano cinque piccoli tunnel ciechi.
Le formiche ci si ammassarono dentro, una sull'altra,
e lo riempirono tutto, fino in fondo, fino alla punta
delle dita.
E adesso se vi muovete tutte insieme, in modo giusto, il
mio braccio si sposterà e la mia mano prenderà il cellulare.
Brave formichine, siete molto brave.
139.
Danilo Aprea era tornato nel garage e non riusciva a
smettere di battere i denti e tremare. Il gelo gli si era
infiltrato nel midollo delle ossa.
«Che freddo! Sto morendo!» ripeteva cercando di
aprire lo sportello della sua Alfa Romeo.
Finalmente la chiave mezza arrugginita entrò nella
serratura.
Danilo trattenne il respiro, chiuse gli occhi, girò e, come
per un incantesimo, il fermo della sicura si sollevò.
«Sì! Sì! Sì!» cominciò a fare piroette e a sollevare le
braccia come un danzatore di flamenco, poi s'infilò
nella macchina e si strappò di dosso i vestiti zuppi, le
calze e le scarpe e rimase nudo.
Aveva bisogno immediatamente di qualcosa con
cui coprirsi, rischiava l'assideramento.
Guardò se sul sedile posteriore ci fosse qualcosa di
caldo da mettersi addosso...
Quel plaid scozzese che usava Teresa per i picnic.
... ma non lo vide. In compenso trovò la bottiglia di
grappa che si era comprato tornando dal funerale.
Ne era rimasta più di metà.
«E vai!» Se la tracannò con tanta foga che quasi si
strozzò. L'alcol gli attraversò l'esofago e gli riscaldò
le viscere.
Meglio. Molto meglio.
Ma non bastava. Doveva mettersi qualcosa addosso,
però non voleva salire in casa.
Alla fine sfilò le fodere di peluche a scacchi bianchi
e neri dalle poltrone anteriori e se le infilò, una sull'altra.
Nel buco per il poggiatesta mise la testa e tra i
lacci laterali fece spuntare le braccia.
«Perfetto.»
Ma non bastava ancora. Doveva accendere la macchina
e alzare al massimo il riscaldamento.
Inforcò gli occhiali, infilò la chiave nel blocchetto
d'accensione e girò.
Nemmeno un singhiozzo, un sussulto del motorino
di avviamento.
La batteria era a terra.
Dopo tutto questo tempo cosa ti aspettavi?
Mise le mani sul volante e s'imbambolò fissando
l'Arbre Magique al pino silvestre.
Era parecchio strano che la macchina non fosse
partita.
Qualcosa non quadrava. Come mai Dio gli aveva
fatto ritrovare le chiavi e non gli aveva ricaricato la
batteria?
Prese un'altra sorsata di grappa e frizionandosi le
braccia cominciò a ragionare sulla natura dei due miracoli.
In effetti, riflettendoci, erano fenomeni assai differenti.
Che l'anello delle chiavi si fosse infilato nel tondino
di ferro era altamente improbabile, più improbabile
che vincere il primo premio alla lotteria. Ma una probabilità
esisteva. Lontana quanto vi pare, ma esisteva.
Se la batteria si fosse ricaricata da sola quello era
un miracolo esagerato, tipo la Madonnina di Civitavecchia
che piange sangue o Gesù Cristo che moltiplica
i pani e i pesci.
Un vero prodigio che, se la Chiesa lo veniva a scoprire,
trasformava quel garage in un luogo di culto.
Danilo era certo che il Signore lo stava aiutando, ma
non al punto di compiere un vero e proprio miracolo
contro le leggi della fisica. Il ritrovamento delle chiavi
era sicuramente un miracolo, ma - come dire - di seconda
classe, la ricarica della batteria era di prima
classe e valeva quasi quanto l'apparizione della Madonna.
«È giusto così! Mi è bastato quello che hai fatto,
mio Signore. Tranquillo, alla batteria ci penso io» disse
Danilo, e nello stesso momento la saracinesca del
garage si sollevò. La luce abbagliante di due fari al
tungsteno illuminò a giorno il locale.
Danilo cercò di scomparire sotto il cruscotto.
E ora chi cazzo è?
Un grosso fuoristrada argentato con i vetri fumé e i
cerchioni dorati gli sfilò davanti e parcheggiò proprio
nel posto accanto al suo.
È quel minchione impaccato di soldi di Niccolò
Donazzan. I genitori gli hanno comprato una macchina da
cinquantamila euro. Starà tornando dalla discoteca strafatto.
Che razza di genitori aveva?
Danilo guardò l'orologio. Era pieno d'acqua e le
lancette erano ferme. Doveva muoversi, tra un po' i
primi pendolari sarebbero usciti dalle case.
Niccolò Donazzan scese dal fuoristrada indossando
una bandana nera sulla testa, una giacca di pelle
bianca con le frange e attaccati alla cinta dei brandelli
di jeans.
Nello stesso istante l'altra portiera si spalancò e ne
saltò fuori una tappa con i capelli color paglia raccolti
in due trecce alla Pippi Calzelunghe. Degli occhiali
enormi e scurissimi le fasciavano il volto. Addosso
aveva un cappotto viola con il cappuccio di pelliccia
e dei pantaloni sformati con il cavallo che le arrivava
alle ginocchia.
Vide il suo giovane coinquilino afferrare senza
2%
troppi complimenti la ragazza per le braccia e sbatterla
contro il cofano dell'Alfa.
«Ma che caz...?» Danilo si mise una mano sulla
bocca.
Donazzan si gettò pure lui sul cofano e cominciò a
baciarla con una tale foga che sembrava volesse
strapparle la lingua di bocca.
Danilo, nascosto sotto il cruscotto, imprecava.
E ora?
I due maiali avevano tutte le intenzioni di voler
scopare sul suo cofano. Il giovane Donazzan si stava
accanendo sulla zip dei pantaloni della ragazza. Lei
sbatteva la testa sul vetro, si agitava e mugolava senza
che il ragazzetto le avesse fatto un accidente. O era
epilettica oppure era talmente strafatta da credere di
essere in un film porno.
Donazzan cercava di calmarla: «Pannocchietta, se
ti agiti così non riesco a slacciarti i pantaloni...».
Danilo si tirò su e urlò: «Basta, voi due! Lo dico a
tuo padre!».
Quando sentì quella voce esplodere nel silenzio il
ragazzino saltò in aria come un tappo di champagne
e cadde giù dal cofano. Pannocchietta lanciò un grido
querulo e si lanciò anche lei giù dall'automobile.
Si strinsero uno all'altra, impauriti e colpevoli, cercando
di capire chi avesse parlato.
«Hai capito? Lo dico a tuo padre. E lo faccio presente
anche alla riunione di condominio.»
Finalmente i due videro che dal finestrino dell'Alfa
Romeo spuntava la testa di un omone vestito come
Fred Flintstone degli Antenati.
Niccolò Donazzan ci mise un po' a realizzare che
era Aprea, quello del secondo piano. Era talmente
terrorizzato dalla minaccia del coinvolgimento di suo
padre da non chiedersi nemmeno che diavolo ci facesse
Aprea alle tre di notte chiuso in macchina e vestito
in quel modo.
«Mi scusi... Non sapevamo che era là. Se no...» balbettò.
«Se no cosa facevi, ragazzino?»
«Se no non lo avrei fatto. Lo giuro! Mi scusi tantissimo.»
«D'accordo.» Danilo assunse un'espressione soddisfatta.
«Dammi il tuo giubbotto. Domani te lo rendo.»
«Il mio giubbotto? Ma è un Avirex originale... Me
lo ha reg...» Il ragazzo doveva tenerci, al suo orrendo
giubbotto da motociclista.
«Parlo arabo, forse? Il tuo giubbotto! Senza tante
chiacchiere. Vuoi che vada a trovare tuo padre?»
«Ma...»
«Ma, niente. E dammi anche i pantaloni e gli stivali.»
Donazzan esitava.
«Daglieli, forza. Non lo vedi come sta? È fuori di
testa, uno così è capace di fare un massacro» intervenne
la ragazza, piuttosto calma. Si era ripresa bene
dallo spavento e si era accesa una sigaretta.
«Ha ragione lei. Non vedi come sto? Dai retta alla
tua fidanzata che è meglio.»
Lei lo corresse sbuffando una nuvola di fumo:
«Non sono la sua fidanzata».
Il ragazzo intanto si era sfilato gli stivali e i pantaloni.
«Dammeli. Veloce.» Danilo allungò un braccio fuori
dal finestrino e se li prese. «E adesso dovete spingere
la macchina. Ho la batteria a terra.»
Niccolò Donazzan fece a Pannocchietta: «Dai, aiutami.
Ha la batteria a terra».
La ragazza si avvicinò svogliata al portabagagli:
«Che palle!».
I due cominciarono a spingere l'automobile verso
l'uscita del garage.
Danilo aspettò che fossero abbastanza veloci,
mollò la frizione e ingranò la seconda. Il motore fece
tre singhiozzi e s'accese in una nuvola di fumo
bianco.
Anche quei due, si disse Danilo uscendo dal garage,
erano angeli inviati dal Signore.
140.
Le formiche gli muovevano il braccio, ma nello sforzo
ne morivano a migliaia e venivano portate fuori
dalla caverna e rimpiazzate da altre che provenivano
da regioni lontane del suo corpo.
Rino Zena non riusciva a capire perché s'immolavano
per aiutarlo.
Quelle che erano dentro la sua mano si muovevano
insieme, con coordinazione, in modo da permettere
alle sue dita di piegarsi e afferrare il cellulare nella
tasca dei pantaloni.
Brave... Brave, piccolette.
Ora chiamate Cristiano. Vi prego...
Rino cercò d'immaginarsi il suo pollice che spingeva
il tasto verde due volte.
141.
A casa Zena il telefono non squillava spesso.
E dopo una certa ora mai.
Un paio di volte Danilo Aprea, in preda a uno dei
suoi attacchi di nostalgia per Teresa, aveva chiamato
dopo le undici di sera in cerca di una voce amica: Rino
lo aveva ascoltato e poi gli aveva spiegato che se
provava un'altra volta a telefonare a quell'ora gli faceva
ingoiare i denti.
Ma quella notte, dopo mesi di silenzio, il telefono
attaccò a suonare.
Lo squillo della suoneria ci mise tre minuti buoni a
svegliare Cristiano che dormiva al piano di sopra.
Stava facendo un brutto sogno. Era tutto accaldato
e aveva bagnato le lenzuola di sudore, come se avesse
la febbre. Tirò su la testa e si accorse che l'uragano
non accennava a placarsi. La serranda rotta sbatteva
contro la finestra. E il cancelletto, fuori, si lagnava
scosso dal vento.
Stava morendo di sete.
Il prosciutto.
Allungò il braccio, prese da terra la bottiglia, e
mentre beveva si accorse che di sotto il telefono
squillava.
Perché papà non risponde?
Sventolò le coperte per mandare via un po' di calore
da dentro al letto e poi, visto che il telefono continuava
a suonare, sbadigliando mollò un paio di pugni
contro la sottile parete che divideva la sua camera
da quella di suo padre e con una voce impastata urlò:
«Papà! Papà! Il telefono! Lo senti?!».
Niente.
Tanto per cambiare era ubriaco e quando era ubriaco
una mandria di gnu selvaggi gli poteva passare in
camera e lui non se ne sarebbe accorto.
Cristiano infilò la testa sotto al cuscino e dopo
nemmeno un minuto il telefono si ammutolì.
142.
Dopo che la banana aveva trasformato il camper in
una spider, la bufera aveva sollevato i cuscini, i piatti,
il cibo cinese e tutto il resto e li aveva sbattuti nel
piazzale.
Beppe Trecca e Ida Lo Vino, nudi e tremanti, erano
abbracciati come se fossero una cosa sola su
quello che restava della verandina. Sulle loro teste il
cielo si contorceva ruggendo e le nuvole, grandi come
montagne, s'accendevano in migliaia di bagliori
elettrici.
Dalla rimessa un gommone si sollevò da terra e roteando
finì in mezzo al fiume in piena.
«Beppe, che cosa sta succedendo?» urlò Ida cercando
di superare il fragore della tempesta.
«Non lo so. Dobbiamo andarcene. Scendiamo da
qua» le rispose lui, e in qualche modo, mano nella mano,
riuscirono a passare attraverso i resti del camper e
a recuperare i vestiti sparsi per il piazzale.
Si ripararono nella Puma.
Per fortuna Beppe aveva nella macchina la borsa
della palestra. Lui si mise la tuta e lei una maglietta e
l'accappatoio.
Avrebbe voluto dirle che l'amava come non aveva
mai amato nessuno e che si sentiva rinascere e che
avrebbe affrontato qualsiasi cosa pur di non perderla,
ma invece la strinse forte e rimasero a guardare
la tempesta che finiva di spazzare via il campeggio.
Poi lei gli accarezzò il collo. «Beppe, ci ho messo
un po' a capirlo ma adesso ne sono certa, io ti amo. E
non mi sento in colpa per quello che abbiamo fatto
stanotte.»
A Beppe uscì spontaneo: «Ma ora che facciamo?
Tuo marito?».
Lei scosse la testa. «Non lo so... Sono così confusa.
So solo che ti amo. Ti amo da morire.»
«Anche io, Ida.»
143.
«Il fiume va. Guardo più in là. Un'automobile corre e
lascia dietro sé del fumo grigio e me. E questo verde
mondo indifferente perché...» cantava Danilo Aprea
alla guida della sua Alfa Romeo attraversando la tormenta.
Che sensazione fantastica, guidare di nuovo.
E che piacere stringere tra le mani il volante, e il
getto caldo del riscaldamento sui piedi. La spia del
serbatoio era a metà. Nell'autoradio girava la cassetta
dei grandi successi di Bruno Lauzi.
Ma perché diavolo ho smesso di guidare?
Non sentiva più freddo, la mente gli si era come rischiarata
e la tristezza se n'era andata all'improvviso,
sostituita da un'euforia alcolica.
Danilo alzò ancora il volume della radio: «... da
troppo tempo ormai apre le braccia a nessuno come
me che ho bisogno di qualche cosa di più».
L'aquila era da sempre la sua canzone preferita.
Si ritrovò a pensare al viaggio che aveva fatto nell'autunno
del 1995 con Teresa. Quanto avevano ascoltato
quel disco. E ci cantavano sopra.
A quel tempo aveva una A112 con il tetto bianco.
Lui e Teresa si erano appena fidanzati. E avevano
deciso di andare tre giorni a Riccione. Com'era giovane
Teresa allora. Quanti anni poteva avere?
Diciotto, diciannove.
Era magra. Adesso era un po' ingrassata, ma aveva
ancora una bella figura.
Che viaggio! Tre giorni a fare l'amore chiusi in
una pensioncina. E mica erano sposati. Si sposarono
subito dopo. Al matrimonio i genitori di Teresa non
si erano presentati. Perché non volevano che la figlia
si sposasse così giovane e in più con un disoccupato.
«Ma Teresa se ne è fregata. Mi voleva sposare» fece
Danilo con un sorriso orgoglioso.
Era rimasta tranquilla anche il giorno che aveva
messo al mondo Laura. All'ostetrico aveva detto: «Fate
entrare mio marito. Voglio tenergli la mano».
«Mio marito» disse ad alta voce Danilo. E lo ripeté:
«Mio marito».
144.
Come aveva fatto a non pensarci?
Le formiche non potevano parlare al posto suo.
Era stato sbagliato farne morire tante per quella telefonata
inutile.
Rino Zena, imprigionato dentro il suo stesso corpo,
non sapeva nemmeno se le formiche gli avevano
veramente mosso il braccio, spinto il tasto giusto. E
adesso, poi, non sentiva più niente. La pioggia era
scomparsa. Di botto. E quel cielo viola, verso l'orizzonte,
si stava coprendo di nuvole bluastre.
C'è troppo silenzio. Forse mi hanno seppellito vivo.
"Ogni creatura della Terra quando muore è sola", glielo
diceva sempre sua madre.
Ma si sbagliava: quando muori ci sono le formiche
a farti compagnia.
Erano disposte in file precise, lo osservavano in silenzio.
Muovevano solo le antenne. Si sentiva addosso
miliardi di piccoli occhi.
Vi prego, formichine, provate di nuovo. Un'altra telefonata
e basta. Vi prego.
145.
Mentre Cristiano Zena, con la testa sotto il cuscino, si
cullava muovendo il sedere e cercando di addormentarsi,
dal fondo del subconscio gli tornarono a galla
degli spezzoni di sogno e un groppo di tristezza gli
serrò la gola.
Non ricordava perché, ma nel sogno era disperato
(forse per qualcosa che non sapeva fare) e aveva deciso
di farla finita.
Era nei bagni della palestra della scuola, che però
erano un po' diversi. Innanzitutto erano mille volte
più grandi e poi avevano un sacco di docce e tutte
spruzzavano acqua calda e vapore. Al centro del locale
una vasca da bagno, di quelle antiche, con le
zampe, e Cristiano era lì dentro con l'acqua che gli
arrivava alle spalle.
Doveva suicidarsi e doveva fare anche veloce, se
qualcuno entrava e lo beccava tutto nudo era una figura
di merda. I suoi compagni di classe tra poco sarebbero
arrivati. Li sentiva, nella palestra, che giocavano
a basket. Le voci che si chiamavano. La palla
che rimbalzava contro il tabellone.
In mano lui stringeva un rasoio di quelli vecchi a
serramanico, con la lama quadrata e arrugginita. Con
calma, senza paura, si era aperto le vene dei polsi, ma
sangue non ne era uscito.
Succede sempre così quando ti tagli, passa un istante
e poi il sangue comincia a sgorgare, ma questa volta
era passato almeno un minuto.
Allora Cristiano si era ispezionato la ferita e dai
bordi erano uscite delle formiche ciascuna con un
pezzettino di foglia verde in bocca.
E poi si era svegliato.
Sperò che non fosse uno di quegli incubi a puntate
che appena ti addormenti ricominciano.
Il telefono riattaccò a squillare.
Allora non hanno sbagliato numero...
«Che rottura di palle!» Si alzò dal letto sbuffando e
in mutande e canottiera uscì nel corridoio buio. Faceva
un freddo cane e il calore che aveva addosso si disperse
subito.
Aprì la porta della camera di suo padre e a tastoni
trovò l'interruttore.
«Papà, non sen...»
Il letto era vuoto.
È giù.
Se non sentiva il telefono, a mezzo metro dall'orecchio,
doveva essersi proprio marcito.
146.
Danilo Aprea avrebbe potuto guidare per sempre.
Che bello lasciarsi alle spalle quel temporale e quella
terra grigia popolata da serpi e scorpioni e puntare
verso sud.
Giù fino in Calabria. Fino in Sicilia. E da lì più giù.
In Africa. Sempre più giù. I deserti. Le savane. Il Nilo.
I coccodrilli. I negri. Gli elefanti. Il Sud Africa. Fino
a... Come si chiamava? Capo Horn? Lì si sarebbe
fermato. Sul pizzo dell'Africa, a guardare in silenzio
l'oceano.
«... qualcosa di più che non puoi darmi tu, un'auto
che va basta già a farmi chiedere se io vivo» cantava
Bruno Lauzi. Con una mano Danilo prese a battere il
tempo sul cruscotto.
In Sud Africa avrebbe ricominciato. In questi paesi
sottosviluppati basta avere un po' d'iniziativa e in cinque
minuti metti su una bella attività. E avrebbe trovato una
donna giovane, molto più giovane di lui e ci avrebbe
fatto un figlio.
Poi avrebbe chiamato Teresa. «Ciao, sono Danilo,
sono in Sud Africa, ti volevo solo informare che non
sono morto, anzi sto benissimo e ho fatto un figlio
con una ragazza...» recitò pestando sull'acceleratore.
La lancetta del contachilometri raggiunse i centoquaranta.
I lampioni gli schizzavano ai lati in una
lunga scia al sodio.
Imboccò la sopraelevata che portava alla banca.
147.
Mentre il telefono continuava a squillare, Cristiano
Zena scendeva al piano di sotto maledicendo quell'ubriacone
di suo padre.
Il soggiorno era buio e la televisione accesa diffondeva
un bagliore azzurrino su uno spicchio della stanza.
Dentro lo schermo c'era un tipo con la frangetta grigia
e i baffoni che disegnava dei grafici.
La sdraio era vuota. La coperta appallottolata. La
stufa spenta.
Dov'è?
Correndo verso il telefono passò davanti alla finestra
nell'attimo in cui sul cielo livido si stampava un
vaso sanguigno elettrico che illuminò a giorno la statale
e il cortile.
Il furgone non c'è.
Ecco perché non rispondeva.
Quindi, alla fine, aveva rotto il cazzo gratis. "Io il
colpo non lo faccio... Io qui, io lì..." E invece era andato.
Anche questo era strano. Suo padre difficilmente
cambiava idea. Poteva anche essere uscito a cercarsi
un'altra troia.
Il solito buffone! Sarà lui al telefono.
Cristiano superò con un salto maldestro la sdraio e
infilò un piede dentro il cartone della pizza e con l'altro
colpì una bottiglia di birra che rotolò sul pavimento.
Una fetta di prosciutto gli rimase appiccicata
sotto il calcagno. Afferrò la cornetta e sbraitò nel microfono:
«Pronto, papà?!».
Il fracasso di un tuono lo assordò facendo tremare
le finestre.
Cristiano si tappò l'orecchio libero. «Pronto?! Pronto,
papà? Sei tu?!»
Silenzio.
«Pronto?! Pronto?!»
Tekken!
Le viscere gli si annodarono in uno spasmo doloroso
e lo scroto gli si raggrinzì tra le gambe mentre la
paura gli strisciava nelle vene.
Era lui. Tekken. Sicuro. Si voleva vendicare.
Aveva aspettato che suo padre uscisse per fargliela
pagare.
Fece un respiro e ringhiò: «Tekken, sei tu?! Lo so
che sei tu! Parla, merda! Cos'è, non hai il coraggio?
Rispondi!».
La pioggia, di colpo, come se il cielo si fosse squarciato,
cominciò a scrosciare contro i vetri e nello stesso
istante la televisione si spense e Cristiano si ritrovò
al buio.
Tranquillo. È solo andata via la luce.
«Sei tu, Tekken? Dillo! Sei tu!» ripeté senza la stessa
convinzione di prima.
Con un dito si tolse il prosciutto da sotto il piede e
si accucciò infreddolito sul divano e rimase in silenzio
con la cornetta premuta sull'orecchio aspettando
il click di Tekken che riabbassava.
148.
A Rino Zena sembrava di sentire la voce di Cristiano.
Ma era così distante che forse era solo la sua immaginazione.
Se solo fosse riuscito a parlargli. Se le formiche erano
riuscite a muovergli il braccio, forse potevano
muovergli anche la bocca, le mascelle e la lingua e
farlo parlare.
Troppo difficile per degli insetti.
Il problema ora erano quelle grandi nuvole nere all'orizzonte
che stavano ricoprendo il cielo viola e che
riportavano le tenebre su di lui, sul deserto di pietre e
sulle formiche.
Sì, doveva tentare.
149.
Danilo Aprea uscì dalla sopraelevata e imboccò via
Enrico Fermi cantando a squarciagola: «... apre le
braccia a nessuno come me che ho bisogno di qualcosa
di più che non puoi darmi tu...».
La banca era lì. Proprio davanti al muso della macchina.
Danilo baciò la medaglietta di Padre Pio, si schiacciò
contro il sedile e puntò dritto contro il Bancomat.
«... un'auto che va basta già a farmi chiedere se
io...» urlò insieme a Bruno Lauzi.
La ruota destra colpì a centosessanta chilometri
orari il marciapiede e si staccò dal mozzo e la macchina
si ribaltò e cominciò ad avvitarsi su se stessa e si
accartocciò contro un'enorme fioriera di cemento che
era stata messa lì dalla nuova giunta comunale per
impedire alle auto di entrare in quello che chiamavano
centro storico.
Danilo sfondò di testa il parabrezza e volò oltre la
fioriera finendo di faccia contro una rastrelliera per
biciclette.
Rimase lì a braccia aperte, ma poi lentamente, come
se fosse resuscitato, si sollevò e iniziò a barcollare
in mezzo alla piazzetta pedonale.
Al posto del volto aveva una maschera di carne viva
e vetro. Con l'unico occhio che gli funzionava vedeva
un bagliore verdastro.
La banca.
Colpita.
Vedeva la macchinetta che sputava soldi come una
slot machine impazzita. Ma anziché monete erano
banconote verdi grandi come tappeti.
Sono ricco.
Si inginocchiò a raccoglierle e sputò un grumo di
sangue, muco e denti.
Non ci credo. Muoio...
Se avesse potuto ridere lo avrebbe fatto.
Com'è assurda la vita...
Se si fosse ricordato di mettersi la cintura di sicurezza
non avrebbe sfondato il parabrezza con la testa
e forse si sarebbe salvato e invece Laura... Laura
era...
Cadde giù e la morte se lo prese a terra, sotto la
pioggia, mentre rideva e muoveva le dita raccattando
i suoi soldi.
150.
Beppe Trecca guidava con il cuore gonfio di emozione.
Davanti aveva i fanalini rossi della Opel di Ida
che tornava a casa.
Continuava a scuotere la testa incredulo. Prima fare
l'amore con Ida, poi il camper che veniva distrutto
e loro come eroi di un film d'avventura che si salvavano...
Era stato incredibile.
Ora era dura, durissima accettare di non poter passare
il resto della notte insieme, di non vedere le luci
dell'alba abbracciati.
In trentacinque anni di vita mai aveva avuto un
rapporto sessuale così intenso e...
Mistico?! Sì, mistico.
Sorrise felice.
"Beppe... Beppe... Oddio, sto per venire... Vengo! Vengo!"
l'aveva sentita miagolare poco prima che il camper
venisse preso dalla tempesta come la casetta del
Mago di Oz.
«Grande prova» si congratulò con se stesso.
E quell'abbraccio in mezzo alla furia degli elementi
aveva suggellato un'unione che non si sarebbe risolta
così, con una semplice scopata. Prima di separarsi
Ida lo aveva stretto forte e aveva cominciato a
piangere e poi gli aveva detto: «Beppe, tu mi vuoi
davvero?».
«Certo.»
«Anche con i bambini?»
«Certo.»
«E allora andiamo fino in fondo. Parliamo con Mario
e diciamogli tutto.»
Per la prima volta in vita sua Beppe Trecca non
aveva esitato. «Certo. Ci parlo io.»
Il telefonino cominciò a squillare.
Ida.
Rispose immediatamente.
«Beppe, amore, io giro qui. Dormi per tutti e due,
perché io non potrò dormire. Ti penserò fino a quando
non ti rivedrò. Ti sento ancora dentro di me.»
L'assistente sociale deglutì. «E io starò male fino a
quando non rimetterò le mie labbra sulle tue.»
«Ti chiamo domani?»
«Certo.»
«Ti amo.»
«Io di più.»
Mentre l'automobile di Ida metteva la freccia a destra
e imboccava la tangenziale per Varrano, Beppe
Trecca recitò con un tono da melodramma: «Mario, ti
devo dire una cosa. Mi sono innamorato di tua moglie.
Anche lei mi ama. Lo so... È dura, ma sono cose
che uno nella vita deve mettere in conto. Mi dispiace
da morire. Ma la forza dell'amore è più grande di tutto.
Due anime gemelle si sono riunite, quindi, ti prego,
lasciaci andare».
Soddisfatto spinse il tasto del cd e cominciò a cantare
con Bryan Ferry: «More than this...».
151.
Gli sembrava di vederlo, quel maledetto Tekken che
sghignazzava con i suoi amici. Cristiano Zena non
capiva che cosa ci trovasse di tanto divertente in
quello scherzo idiota.
Da domani devo stare attento a come mi muovo. Si accucciò
sul divano e si prese gli alluci con una mano.
Tekken non me la farà passare liscia.
Un tuono gli esplose proprio sulla testa e, con uno
strano effetto stereo, lo sentì gracchiare attraverso
l'altoparlante del telefono.
Cristiano spalancò la bocca e se la tappò per non
urlare di paura.
È qui! E qui vicino! Ha chiamato per capire se sono solo.
Mollò il telefono e corse a controllare la porta. Diede
tutte le mandate e mise la catenella di sicurezza.
Le finestre!
Abbassò tutte le serrande, anche quelle della cucina
e del bagno, e tornò al telefono brancolando nel
buio completo.
Afferrò la cornetta abbandonata sui cuscini del divano.
Era ancora in linea. «Tekken, bastardo... Lo so
che sei qui... Non sono cretino. Ti consiglio di stare alla
larga da questa casa...»
Avrà visto che non c'è il furgone?
«... se non vuoi che sveglio mio padre. Hai capito,
coglione?» Chiuse gli occhi e si concentrò ad ascoltare.
Per un po' sentì solo il proprio respiro trattenuto,
ma poi gli parve di avvertire qualcos'altro. Premette
la cornetta contro l'orecchio e smise di respirare.
Cos'è?
Il vento, qualcosa che frusciava e la pioggia sulle
foglie, il rumore che fa la pioggia quando cade su un
albero...
È qui fuori.
Non aveva più saliva in bocca. Le viscere gli si erano
rattrappite come uno straccio secco.
Ma c'era qualcos'altro. Appena udibile. Un rantolo.
Di uno con l'asma. Di un ferito. Di uno che...
... si sta facendo una sega.
Cristiano fece una smorfia schifata ed esplose indignato:
«Chi cazzo sei?! Sei un maniaco?! Rispondi,
bastardo! Bastardo!».
"Mi stai facendo cagare sotto" avrebbe voluto aggiungere.
Riattacca, forza... Che aspetti? Stacca la spina. Controlla
che la porta sia chiusa bene e ficcati a letto.
Poi la voce di un morto che lo chiamò per nome.
152.
«Cri...stia...no...» dissero le formiche.
La lingua di Rino Zena era una massa nera e compatta
di insetti brulicanti. E le sue labbra e anche i
suoi denti, la sua mascella, il suo palato erano ricoperti
di formiche che si muovevano ordinatamente, che si
spostavano come ballerini di un'immensa coreografia,
che morivano per farlo parlare con suo figlio.
153.
«Papà?!» strillò Cristiano Zena, e mentre urlava comprese
che il colpo al Bancomat era andato di merda e
s'immaginò suo padre, crivellato di colpi, che grondava
sangue inseguito dalle volanti e ai bordi di una
strada biascicava il suo nome nel cellulare. «Papà...»
ma non riuscì a continuare. Qualcuno doveva aver
succhiato via tutta l'aria nella stanza e lui stava soffocando.
Con quel poco di fiato che gli rimaneva nei
polmoni sospirò: «Papà?! Papà, cosa è successo? Sei
ferito? Papà! Papà?!».
La televisione si riaccese all'improvviso con il volume
al massimo. E sullo schermo apparve l'uomo
con la frangetta e i baffi da spinone che disegnava
una parabola e strillava come un ossesso: «Le variabili
x, y, z...».
154.
Ma perché non sentiva più niente?
Rino Zena non era sicuro che le formiche fossero
riuscite a pronunciare il nome di Cristiano e nemmeno
che fossero riuscite a telefonare.
Vive, oramai, ne erano rimaste poche.
Chissà se quelle potevano ancora farcela?
155.
Cristiano Zena implorava nel microfono, mentre la
tempesta abbracciava la casa come se volesse soffocarla:
«Papà! Papà! Rispondi, ti prego, ti prego! Dove
sei?».
Aspettò, ma non ebbe risposta.
Aveva voglia di urlare, di spaccare tutto.
Calmo. Stai calmo. Piegò la testa indietro e respirò e
poi disse: «Papà, ascoltami per favore. Dimmi dove
sei. Dimmi solo dove sei e io vengo».
Niente.
Suo padre non rispondeva più e Cristiano sentì che
la pietra che gli otturava la gola si scioglieva e come
lava calda gli colava nel petto e...
Non ti metterai a piangere!
... si mise una mano sulla bocca e ricacciò dentro le
lacrime.
Stronzo, perché non rispondi?
Aspettò tantissimo, a lui sembrarono ore, ma ogni
tanto non poteva fare a meno di ripetere: «Papà,
papà...?».
(Lo sai perché non risponde.)
No, non lo so.
(Lo sai...)
No! Vaffanculo.
(È così.)
No! No!
(È...)
È MORTO. VA BENE. È MORTO.
Ecco perché non rispondeva più.
Se n'era andato. Via. Per sempre.
Ed era quello che sapeva sarebbe successo da sempre,
perché Dio è una merda e prima o poi ti toglie
tutto.
156.
E se questo è l'inferno?
Rino Zena era tra le formiche in quell'enorme caverna
che era la sua bocca.
157.
Ti toglie tutto. Tutto... sospirò Cristiano Zena e le gambe
non lo sostennero più e si accasciò a terra e di fronte allo
schermo del televisore spalancò la bocca e cacciò un
urlo muto e si ripeté che quel momento era un momento
importantissimo, un momento che si sarebbe
ricordato per tutto il resto della vita, il momento esatto
e preciso in cui suo padre era morto e lui lo aveva sentito
morire per telefono e quindi doveva stamparsi tutto
nella memoria, ogni cosa, ogni dettaglio, nulla doveva
scappargli di quell'istante, il peggiore della sua
vita: la pioggia, i fulmini, la pizza al prosciutto sotto il
piede, il baffone in tv e quella casa che avrebbe abbandonato.
E il buio. Si sarebbe certamente ricordato quel
buio che lo circondava da ogni parte.
Tirò su con il naso e disse con un filo di voce: «Ti
prego, papà! Rispondi! Rispondimi... Dove devo venire?
Non puoi farmi questo... Non è giusto». Si sedette
sul divano e poggiò i gomiti sulle ginocchia e si
pulì il moccio con il dorso della mano e cominciò a
stringersi la testa e singhiozzare: «Se non mi dici dove
sei... Io come faccio... Io come faccio... Come posso
fare... Ti prego, Dio... Ti prego... Aiutami. Dio mio,
aiutami tu. Non ti ho mai chiesto niente... Nulla».
158.
«San Rocco... Agip... p...»
159.
Cristiano scattò in piedi e urlò: «Arrivo, papà! Arrivo!
Arrivo subito! Stai tranquillo. Adesso arrivo! Ci
penso io». Per sicurezza rimase in attesa ancora un
istante, poi abbassò la cornetta e cominciò a saltellare
avanti e indietro per il soggiorno senza riuscire a capire
cosa doveva fare.
Allora... Allora... Ragiona, Cristiano. Ragiona. Si teneva
la testa tra le mani. Allora... Alla pompa dell'Agip.
Dove cazzo sta la pompa dell'Agip a San Rocco? Ma quale
pompa? Quella sullo svincolo? O quella proprio prima di
San Rocco? Quella non è Esso? Sì, è Esso.
Si fermò e cominciò a prendersi a schiaffi le guance.
Ricorda. Ricorda. Ricorda. Forza. Forza. Forza.
No, non se lo ricordava proprio, ma non importava,
in qualche modo l'avrebbe trovata.
Salì le scale a tre gradini alla volta. Corse in stanza e
cominciò a vestirsi e a parlare ad alta voce: «Aspetta...
Aspetta... Ma non c'è nessuna pompa Agip a San Rocco...
L'unica è quella dopo la tangenziale. Vicino al bosco.
Quella con l'autolavaggio. Perfetto! Ho capito benissimo».
S'infilò i pantaloni. «Veloce! Veloce! Veloce!
Arrivo subito, papà! Ma dove sono le scarpe?»
Buttò all'aria tutto. Sollevò il letto e le vide. Mentre
seduto a terra se le infilava si bloccò e cominciò a
scuotere la testa.
Ma come cazzo ci vado?
Era lontanissimo.
Si ricordò che mentre andava a letto suo padre gli
aveva detto che stava aspettando Danilo e Quattro
Formaggi.
E quei due come sono venuti qua?
Con il Boxer.
Perfetto!
Si precipitò giù e inciampò nei lacci delle scarpe e
si fece la seconda rampa di gradini volando. Si risollevò
da terra e...
Non mi sono fatto niente, non mi sono fatto niente.
... si infilò la giaccavento e zoppicando uscì di casa.
160.
Ragno.
161.
Dov'era il Boxer?
Cristiano aveva cercato per tutto il cortile ed era
andato fino al palo lungo la statale dove di solito
Quattro Formaggi lo mollava, ma quel maledetto
motorino non c'era.
Quindi Quattro Formaggi non è venuto. Forse è andato
papà a prenderli. Non capisco.
E ora come faceva ad arrivare a San Rocco?
Erano bastati due minuti sotto quel diluvio per
inzupparlo da capo a piedi. Dal cielo venivano giù
secchiate d'acqua, e quando un lampo cadeva Cristiano
vedeva sopra la testa le nuvole che si infiammavano.
Si avviò sulla statale deciso ad andare a piedi, ma
fatti venti metri ci ripensò e tornò indietro.
Dove vado? È troppo lontano.
Non aveva nemmeno idea di quanti chilometri potessero
essere fino alla pompa dell'Agip.
E se facessi l'autostop?
(Lascia stare. Non c'è in giro anima viva.)
L'autobus?
(Niente autobus dopo le undici.)
Si diede uno schiaffo con il palmo sulla fronte.
Doveva chiamare Quattro Formaggi o Danilo. Certo!
Come aveva fatto a non pensarci prima?
Corse fino alla porta di casa, afferrò la maniglia e la
girò, ma non successe nulla. Con la sensazione di stare
per morire cercò in tasca le chiavi.
Non c'erano.
Le aveva dimenticate dentro.
E ho pure abbassato tutte le serrande.
Afferrò un vaso e lo lanciò contro la porta e poi,
non contento, prese a calci i gradini e cominciò a
saltare sotto la pioggia ululando e maledicendo di
non avere quattordici anni e di non possedere un
motorino.
Se avessi avuto un motorino a quest'ora...
(Bastai Rifletta)
Avrebbe voluto, ma non ci riusciva. Appena un
pensiero gli si affacciava nella mente veniva cancellato
da un altro.
Se almeno avesse aggiustato la Renault... La potevo guidare.
(Sì, ma non l'ha aggiustata. Quindi...)
La testa gli scappava via. Riusciva solo a immaginarsi
su un motorino che correva da suo padre.
Con una moto più grande ancora meglio...
Cristiano chiuse gli occhi, buttò la testa indietro e
aprì la bocca.
La bicicletta!
Che idiota, c'era la bicicletta in garage.
Corse dietro casa, sollevò un vaso e prese la chiave.
La infilò nella serratura e rischiando di farsi venire
un'ernia alzò la saracinesca, accese il lungo neon e
la bicicletta, una mountain bike verde e grigia, era lì,
appesa per la ruota a un gancio.
Gliel'aveva regalata suo padre sei mesi prima. L'aveva
vinta con i punti del carburante. Ma Cristiano
odiava le biciclette, a lui piacevano le moto e basta.
Ed era rimasta appesa lì, con ancora la plastica trasparente
sul sellino e sul manubrio.
Cristiano saltò sopra una vecchia radio e la tirò giù.
Era tutta impolverata e aveva le gomme mezze sgonfie.
Per un attimo rimase indeciso se mettersi a cercare
la pompa.
Non ho tempo.
Si caricò in spalla la bici e la portò sulla strada, prese
la rincorsa e ci saltò su e cominciò a pedalare come
mai aveva fatto in vita sua.
162.
Mentre la Puma come un siluro scivolava silenziosa
nella pioggia, Beppe Trecca cantava a squarciagola:
«More than this... There is nothing...». Con la testa seguiva
il ritmo dei tergicristalli.
L'inglese lo masticava poco, ma quello che diceva
il grande Bryan Ferry lo aveva capito.
Più di questo non c'è niente.
Verissimo. In effetti cosa poteva volere di più? Ida
Lo Vino era pazza di lui e lui di lei. E questa era una
verità come il fatto che quella notte sembrava che
fosse arrivata la fine del mondo.
Nel cuore dell'assistente sociale c'erano tanta gioia
e amore che il giorno dopo ci avrebbe pensato lui a rischiarare
il cielo e a far brillare di nuovo il sole.
Mi sento come un dio.
Ripensò al camper. Alla banana.
Ernesto si sarebbe ucciso vedendo com'era ridotto.
Ma figurati se quello, preciso com'è, non avrà un'assicurazione
che copre le calamità naturali. E poi, francamente,
chi se ne frega di cose così materiali.
Aveva voglia di ballare. Per un periodo aveva seguito
un corso di samba organizzato dal Comune e
aveva scoperto il piacere della danza.
Anche a Ida piace ballare.
Però ci voleva qualcosa con un po' più di ritmo. Prese
il contenitore dei cd dalla tasca della portiera e si mise
alla ricerca di un disco più dance. Non aveva un granché,
in verità. Supertramp, Eagles, Pino Daniele,
Venditti, Rod Stewart. Poi trovò nell'ultimo scomparto una
raccolta di Donna Summer e la infilò nell'autoradio.
Ottimo.
Alzò al massimo il volume.
La cantante cominciò a strillare: «Hot stuff. I need
hot stuff». E Beppe dietro.
Hot stuff. La cosa calda. Ho bisogno della cosa calda.
«Allora sei una monella come Ida» sghignazzò
Beppe.
Chi lo avrebbe mai potuto immaginare che Ida fosse
quella belva assetata di sesso? Anche nelle sue fantasie
più esagerate non aveva mai immaginato che la
coordinatrice delle attività di volontariato, quella
donna silenziosa e schiva, quella madre affettuosa
potesse avere tutto quel fuoco dentro.
Un brivido di piacere gli risalì nella cervice e gli infiammò
i nervi spinali.
E io? Io reggevo come la fortezza di Masada. Non un cedimento,
niente. Una roccia.
Dovevano essere stati i tre Xanax e la vodka al melone
a permettergli di non venire subito.
Altra musica. Ci voleva altra musica. Tolse Donna
Summer, prese il contenitore e infilò il cd di Rod
Stewart quando all'improvviso sentì un colpo contro
il muso dell'automobile e per un istante una roba
scura gli scivolò sulla parte destra del parabrezza.
Beppe cacciò un urlo e, senza riflettere, affondò il
piede sul pedale del freno e la macchina cominciò a
volteggiare sull'asfalto bagnato come un surf impazzito
e finì sul ciglio della strada a mezzo metro dal
tronco di un pioppo.
Beppe, atterrito, con le braccia rigide e le mani incollate
al volante cacciò uno sbuffo.
Cazzo!
Tanto così e si sarebbe schiantato contro quell'albero.
Cos'era stato?
Aveva colpito qualcosa.
Un tronco. Un cane. O un gatto. Oppure un gabbiano.
Era pieno di quelle bestiacce che avevano abbandonato
i mari per le discariche all'interno. Gli abbaglianti
dovevano averla accecata.
Spense la radio, si tolse la cintura di sicurezza e
scese dalla macchina con una busta dell'Esselunga in
testa. Girò intorno al muso della Puma e con i pugni
stretti esclamò: «Naa, cazzo!!».
L'avevo appena portata dal carrozziere.
La fiancata destra, sopra la ruota anteriore, era ammaccata
e pure sul cofano c'erano dei bozzi. Il tergicristallo
destro si era piegato.
£ che ho preso? Un orso bruno? L'assicurazione ripagherà
una cosa del genere? si chiese rientrando di corsa
in macchina.
Chiuse lo sportello e ingranò la prima, poi ci ripensò
e mise la retro e cominciò a tornare indietro.
Mi voglio togliere la curiosità...
Fece meno di cinquanta metri e frenò. Nella luce
bianca dei fari della retro si materializzò una cosa
marrone accoccolata al limitare dell'asfalto.
Eccolo!
Un cane! Un maledetto cane.
Fece altri tre metri e si accorse che il cane indossava
un paio di scarpe da ginnastica con la scritta Nike
sulla suola.
163.
Doveva aver fatto almeno dieci chilometri e ancora
non aveva incontrato lo svincolo per San Rocco.
Forse lo hanno tolto. O forse non l'ho visto e l'ho superato.
Cristiano Zena pedalava in mezzo alla statale
deserta. La lucina prodotta dalla dinamo gli schiariva
appena un paio di metri di strada davanti alla
ruota.
Tremava di freddo, ma dentro la giacca stava bollendo.
La pioggia gli pungeva gli occhi, la nuca e le
caviglie erano congelate e oramai non sentiva più
mento e orecchie.
Era stata una gran cazzata non gonfiare le gomme.
Faceva il triplo dello sforzo. Se non trovava lo svincolo
al più presto era sicuro che le gambe gli si sarebbero
fermate.
Ogni tanto, per un istante, il riflesso elettrico di un
fulmine metteva a giorno i campi battuti dal temporale.
Da quando aveva sentito al telefono suo padre doveva
essere passata più di mezzora.
Se avessi una moto... Ero già arrivato.
Nulla da fare, alla fine il cervello gli tornava ossessivamente
alle moto.
Un camion con il rimorchio e la targa tedesca gli
arrivò dietro, immenso e silenzioso come una
megattera, emise un barrito e un bagliore giallastro.
Cristiano si buttò verso il ciglio della strada.
Il tir gli sfilò vicinissimo e lo inzuppò definitivamente.
Mentre si riprendeva dallo spavento vide davanti
a sé un cartello blu con sopra scritto: san rocco 1000
METRI.
Allora lo svincolo c'era ed era vicino!
Nonostante le dita gli si fossero incollate al manubrio
e il naso fosse un ghiacciolo si sollevò dal sellino,
si buttò in avanti, strinse i denti, con i muscoli impregnati
di acido lattico spinse sui pedali duri come ingranaggi
ossidati e urlò: «Vai, Pantani! Vai!». Finalmente
imboccò la svolta a tutta velocità e finì, tutto
piegato, dentro una pozzanghera proprio dietro la
curva. Le ruote persero aderenza e la bici slittò come
su una lastra di ghiaccio.
Quando riaprì gli occhi era steso a terra. Si sollevò
e controllò cosa si era fatto. Si era grattugiato il palmo
di una mano, i jeans si erano strappati su un ginocchio
e la suola di una scarpa era stata mangiata
dall'asfalto, ma per il resto stava bene.
Raddrizzò il manubrio e ripartì.
164.
Ho investito un uomo.
Beppe Trecca, con la testa girata indietro, continuava
a fissare attraverso il lunotto posteriore il fagotto
sulla strada. Il cuore gli batteva forte e le ascelle gli si
erano ghiacciate.
(Vai a vedere.)
Non è stata colpa mia. Io stavo guidando pianissimo.
(Vai a vedere.)
Quel pazzo deve aver attraversato la strada senza guardare.
(E tu stavi infilando il cd nello stereo.)
Un secondo. Ci ho messo un secondo...
(Vai a vedere!)
Se è...
(Vai a vedere!!)
Sarà ferito. Forse non si è fatto tanto male.
(VAI!!!)
Si passò la lingua sui denti nella bocca secca e disse:
«Vado».
165.
La strada che portava a San Rocco era più stretta e
non c'erano i catarifrangenti ai lati della carreggiata.
Cristiano Zena, a testa bassa, pedalava e seguiva la
striscia bianca dipinta sull'asfalto. Il vento si era
sgonfiato e la pioggia cadeva così dritta e sottile che,
nella debole luce del faro della bici, assomigliava ai
capelli argentati di una strega.
Non voleva sollevare lo sguardo. Nascosti nel buio
che lo avvolgeva ci potevano essere castelli abitati da
scheletri, astronavi aliene piantate nel deserto, giganti
incatenati.
Quando finalmente tirò su la testa vide un puntino
luminoso che si allargò in una macchia gialla e
poi si trasformò in un'insegna al cui centro si formò
una chiazza nera e diventò un cane o quello che
diavolo è, con sei zampe e il fuoco che esce dalla
bocca.
L'Agip.
166.
L'uomo era steso sul ciglio della strada, rannicchiato,
come se stesse dormendo nel suo letto.
Beppe Trecca gli girava intorno tenendosi la mano
sinistra premuta sulla bocca. La tuta da ginnastica
era già zuppa e i capelli gli si erano ammosciati sulla
fronte come tanti fusilli biondicci.
E un nero.
Uno dei tanti extracomunitari che lavoravano nelle
fabbriche della zona o più probabilmente uno dei
tantissimi senza permesso di soggiorno.
L'uomo aveva un giaccone beige e sotto una tunica
colorata da cui spuntavano due lunghe gambe nere e
due enormi scarpe da basket. Accanto un grosso zaino
rosso.
Dev'essere senegalese.
Non si riusciva a vederlo in faccia. La testa era piegata
contro il petto. Aveva i capelli corti, screziati di
grigio.
Respira profondamente, si disse l'assistente sociale. E
guarda chi è.
Gli veniva da vomitare. Con il naso inspirò più
volte, poi finalmente si decise a piegarsi sul corpo.
Allungò un braccio e rimase con la mano a cinque
centimetri dalla spalla dell'uomo, poi lo spinse dolcemente
e quello si rovesciò sull'asfalto.
Aveva una faccia tonda. La fronte larga. Gli occhi
chiusi. Ben rasato. Doveva avere una quarantina
d'anni.
Non l'ho mai visto. Almeno non mi pare.
A Beppe capitava spesso di incontrare africani per
il suo lavoro. In fabbrica. Nel centro di ospitalità e
orientamento. O quando andava a trovarli nelle case
dormitorio.
£ ora?
Provò a scuoterlo e poi balbettò: «Mi senti? Mi senti?
Puoi sentirmi?», ma quello non rispose né si mosse.
E ora?
L'unica cosa che la sua mente riusciva a produrre
era quella domanda insulsa.
E ora?
Si sentiva frastornato, così confuso che non avvertiva
nemmeno più la pioggia e il vento.
E se è...?
Non riusciva nemmeno a terminare la frase.
Era troppo terrificante, quella parola, persino per
essere pensata.
Noi Non può essere.
Lo tirò per un braccio.
Se era... la vita di Beppe sarebbe finita.
Il primo pensiero fu per Ida. Se finiva in carcere
tutti i suoi progetti con Ida sarebbero andati distrutti.
E poi avvocati, cause, polizia... Ma io e Ida dobbiamo...
Non riusciva più a respirare. Non sono stato io. È stato
un incidente.
Perché ho preso quel cd?
Due abbaglianti gialli spuntarono dalle tenebre e
lo accecarono.
Eccoci.
Beppe Trecca, chino accanto al corpo, tirò su un
braccio e si riparò gli occhi.
167.
«Papà! Papà! Rino! Rino!» urlava Cristiano Zena con
la canna della bici tra le gambe.
L'enorme tettoia gialla del distributore spandeva
una luce fredda sulle pompe e le pozzanghere di nafta
color arcobaleno.
Suo padre non c'era. E neanche il furgone. Non c'era
nessuno.
Nemmeno una volta durante il tragitto gli era passato
per la mente che, arrivato lì, suo padre potesse
non esserci.
Il panico che se n'era rimasto rintanato nelle anse
del suo intestino, e che si era fatto sentire solo per instillargli
il dubbio che avessero chiuso lo svincolo per
San Rocco, ora gli invase la testa e gli strozzò la gola.
«Avevi... detto all'Agip... E io sono qui. Lo so... ci
ho messo un sacco, ma era lontano. Avevi... detto...
l'Agip. Dove sei?» mugugnò passandosi le mani nei
capelli bagnati.
Fece di nuovo un giro intorno all'autolavaggio, al
gabbiotto.
Vai a vedere più avanti.
Riprese a pedalare, ma dopo nemmeno duecento
metri dalla pompa di benzina la strada lentamente
cominciava a salire e s'inoltrava nel bosco.
La luce del faro si posava sui tronchi neri che si affacciavano
sulla carreggiata.
Questo posto non mi piace. Qui non può essere.
Il furgone poteva benissimo essere parcheggiato
prima della pompa e passando non lo aveva visto.
Stava per girare la bici quando qualcosa lo trattenne.
Una musica bassa, quasi impercettibile. Si mischiava
con la pioggia che frustava la strada e le chiome del bosco
e con il fruscio delle ruote che giravano sull'asfalto.
Si fermò con le viscere contratte e uno spiacevole
formicolio alla base della nuca.
Elisa.
La cantante. La conosceva.
Elisa che cantava: «Ascoltami... Ora so piangere.
So che ho bisogno di te... Siamo luce che... Come un
sole e una stella...».
Gli sembrò di intravedere dall'altra parte della
strada una sagoma squadrata che assunse i contorni
di un furgone. La pioggia tamburellava sulla lamiera.
Un flebile bagliore tingeva il vetro del finestrino coperto
di gocce.
Il Ducato!
La musica veniva dalla radio.
Cristiano non riuscì neanche a gioire, tanta era la
paura.
E se dentro non c'era suo padre ma qualcun altro?
Non fare il cacasotto.
Scese dalla bici e l'adagiò a terra cercando di non fare
rumore. Provò a deglutire, ma non aveva più saliva.
Cazzo, che strizza.
I piedi congelati gli sguazzavano nelle scarpe mentre
si avvicinava. Era a meno di un metro dal furgone.
Allungò una mano e tastò il paraurti. Ammaccato.
Il fanalino della freccia rotto.
Era proprio il loro.
Due passi, afferri la maniglia e... Non ce la posso fare.
Le gambe non lo sostenevano e le braccia così
stanche...
Se apro lo sportello...
Tutto quello che veniva dopo grondava sangue ed
era inzuppato di morte.
Vado a chiamare qualcuno...
Con uno scatto afferrò la maniglia, aprì lo sportello
del posto di guida e fece un balzo indietro pronto a
schivare l'attacco di un assassino.
Nessuno.
Il display rosso dell'autoradio sul cruscotto rischiarava
il posto di guida. La spense. Vide la chiave
nel blocchetto. Sotto al sedile del passeggero c'era la
cassetta degli attrezzi. L'aprì. Prese una lunga torcia
elettrica. L'accese. Poi afferrò il martello, tornò giù e
aprì il portellone posteriore.
Ma anche lì non c'era niente, se si esclude un sacco
di cemento, un paio di assi, una busta con i resti del
picnic e la carriola.
Puntando il fascio della torcia a terra controllò tutta
la piazzola. Un paio di bidoni dell'immondizia, un
cartello con l'insegna pericolo d'incendi, una cabina
dell'elettricità.
No, non c'era nient'altro.
168.
Beppe Trecca era inginocchiato accanto all'extracomunitario
steso a terra in attesa che il suo destino si
compisse.
L'automobile nera e con i cerchi in lega si fermò di
fronte a lui con i fari sparati che illuminavano la strada
e la pioggia.
Beppe non riusciva a vedere chi ci fosse dentro.
La macchina sembrava una Audi o una Mercedes.
Finalmente il finestrino s'illuminò e si abbassò.
Al volante c'era un tipo sulla cinquantina. Indossava
una giacca color cammello e un dolcevita azzurro.
Una barba nera e folta gli arrivava appena sotto gli
zigomi. I capelli tirati indietro con il gel. Aveva in
bocca una sigaretta che spense nel portacenere e poi
si spostò verso il finestrino del passeggero e sollevando
un sopracciglio diede un'occhiata. «È andato?»
Beppe sollevò lo sguardo, l'osservò senza capire e
balbettò: «Come?».
Il tipo indicò il corpo con il mento: «È morto?».
«Non lo so... Credo...»
«L'hai preso?»
«... Sì, credo di sì.»
«È negro?»
Beppe fece sì con la testa.
«E che aspetti?» s'informò il tipo come se stesse
chiedendo quando arrivava il prossimo bus.
«Cosa?»
«Che aspetti ad andartene?»
L'assistente sociale non riuscì a rispondere. Aprì la
bocca e la richiuse come se un fantasma gli avesse
cacciato giù per la gola un cucchiaio di merda.
L'uomo si massaggiò la barba. «È già passato qualcuno?»
Beppe fece no con la testa.
«E allora muoviti, che aspetti?» Guardò l'orologio.
«Vabè, io devo andare. Ti saluto. Auguri.»
Il finestrino si sollevò e l'Audi, o quello che era,
sparì così come era apparsa.
169.
Cristiano Zena si mise al centro della strada sperando
per un attimo che passasse qualcuno.
Ma perché di giorno quella strada del cazzo era
tutto un circolare di macchine, di ciclisti e corridori,
mentre di notte si trasformava in una zona evacuata
come se tra gli alberi ci fossero i mostri?
«Papà! Papà! Dove sei?» urlò alla fine verso il bosco.
«Rispondi!» La sua voce si spense contro il fitto
della vegetazione.
Io in quel bosco non ci entro nemmeno...
Ma, ora che ci pensava, il rumore di sottofondo che
aveva sentito nella telefonata era quello della pioggia
che cadeva tra gli alberi.
E se è là dentro?
Si avvicinò al guardrail. C'era uno spazio tra le lamiere
da cui partiva un viottolo che si insinuava tra
le erbacce e i rovi. Buste di plastica, bottiglie, un preservativo,
un vecchio sedile di macchina tra i massi
coperti di muschio. Puntò la torcia in avanti. Tronchi
neri e un intrico di rami da cui colava l'acqua.
Fece un passo, si fermò e poi prese a saltare cercando
di scrollarsi di dosso la paura.
«Perché mi fai questo? Bastardo! Io ero a letto... Se
per caso è uno scherzo...» disse tra i denti.
Rimase lì, piantato all'inizio del sentiero a spostare
il peso del corpo da un piede all'altro. Poi inspirò
profondamente e sollevando il martello fece un passo
e il fango gli risucchiò la scarpa, ne fece un altro e gli
avvolse le caviglie. Si avviò per il sentiero e gli alberi
sembravano aspettarlo allungando i rami verso di lui
(Vieni! Vieni!) e nel buio avrebbe potuto esserci chiunque
pronto a sbucare da dietro un tronco e a colpirlo a
tradimento.
Aveva fatto solo pochi metri, ma già gli sembrava
di essere a mille chilometri dalla strada. La pioggia
che grondava dalle foglie e che scorreva sui tronchi.
Il muschio zuppo d'acqua. L'aria satura d'acqua, di
terra e legno marcio.
Immaginò che un branco di lupi con gli occhi rossi
come lapilli apparisse nel buio.
Teneva con la destra il martello sollevato, pronto a
colpire chiunque gli si fosse parato davanti, e con la
sinistra muoveva la torcia freneticamente.
Sciabolate di luce guizzavano sui grossi sassi appuntiti,
sui legni e sui rivoli d'acqua che scavavano
fiumiciattoli sul fango e su un paio di anfibi neri.
Cristiano urlò, fece due passi indietro, inciampò
in un ramo e cadde di spalle. Si rialzò e puntò, con
la mano che non la smetteva di tremare, il fascio
della torcia sugli anfibi, anfibi sporchi di vernice,
sulla cerata grigia con la striscia catarifrangente
arancione che usava suo padre quando lavorava,
sulla sua testa pelata immersa nella fanghiglia, sulla
mano e sul cellulare abbandonato in una pozzanghera.
170.
Beppe Trecca era ancora in ginocchio sotto la pioggia,
accanto al cadavere, e continuava a domandarsi: Che
aspetti?
Quello sull'Audi gli aveva fatto capire che lui al
posto suo avrebbe tirato dritto.
Ma quello non era lui. Lui non era un pirata della
strada. Lui gli altri li aiutava e non li abbandonava.
(Devi chiamare la polizia e un'ambulanza. Semplice.)
Perché? Per rovinarmi la vita? Se questo poveraccio fosse
stato ferito, in punto di morte, lo avrei portato all'ospedale
di corsa. Ma così?
S'asciugò la faccia con il palmo della mano, stava
tremando e non riusciva a smettere di battere i denti.
Scosse di nuovo l'africano. Nulla.
È morto. Basta. Dillo. È morto.
E quindi... E quindi non c'era più niente da fare.
Perché non poteva tornare indietro nel tempo? Di
poco, solo mezzora, all'istante prima di prendere il
cd di Rod Stewart?
L'idea agghiacciante che non c'era alcun modo di
rimettere le cose a posto, che non c'era una persona
in grado di esaudire questo semplice desiderio, lo
gettò nel terrore.
(Basta! Prenditi la responsabilità di quello che hai fatto.)
Ma dopo cosa cambia? Nulla. Mica lo farà tornare in vita.
E io finirò nella merda fino al collo.
Così una vita sfortunata si era spenta e un'altra sarebbe
stata rovinata per sempre.
«Non ha nessun senso. Nessuno» piagnucolò con
le mani sulla faccia. «Non è giusto. Io non mi merito
questo. Io non posso, proprio adesso...»
Basta. Muoviti. Sali in macchina e fila via prima che
passi qualcuno. Il tipo te l'ha detto: "Che aspetti?".
Beppe Trecca si alzò e a testa bassa tornò nella Puma.
171.
Cristiano Zena aveva immaginato mille modi diversi
in cui suo padre sarebbe potuto morire (accoltellato
in una rissa o accartocciato tra le lamiere del Ducato
o precipitato dalle impalcature di un palazzo in costruzione).
E si era sempre immaginato che glielo avrebbero
detto a scuola. Il preside che lo chiamava: "È successa
una disgrazia... Mi dispiace tanto...".
"A te non te ne frega niente, figlio di puttana" gli
avrebbe risposto lui, e non avrebbe pianto. Poi avrebbe
dato fuoco alla casa e si sarebbe imbarcato su una
nave mercantile e in quel posto del cazzo non ci sarebbe
mai più tornato.
Mai aveva pensato che sarebbe morto nel fango,
come un animale.
E non così presto.
Ma è giusto.
Tutto tornava. Aveva cominciato portandosi via
sua madre e ora si prendeva pure suo padre.
Non devo piangere, però.
Avrebbe voluto tirarlo fuori dal fango. Avrebbe voluto
abbracciarlo, ma era come paralizzato. Come se
fosse stato morso da un cobra. Spalancò la bocca e
cercò di sputare fuori quella cosa che gli impediva di
respirare.
Continuava a guardarlo perché non ci poteva credere,
non ci poteva proprio credere, che quel morto lì
fosse Rino Zena, suo padre.
Cristiano finalmente fece un passo in avanti. Il cono
di luce della torcia illuminò uno spicchio di fronte
immerso nella melma grigia, il naso, gli occhi
schizzati di terra. La schiuma al lato della bocca.
Strinse la torcia tra i denti e con tutte e due le mani
afferrò il polso di suo padre cercando di tirarlo su.
Il corpo inerme di Rino Zena si piegò lentamente
da un lato e si poggiò di fianco su una grossa roccia
ricoperta di muschio. La testa gli si piegò sul petto e
le braccia gli si spalancarono come le ali di un piccione
morto. La pioggia gli grondava sulla fronte e sulle
sopracciglia incrostate di terra.
Cristiano avvicinò l'orecchio al petto del padre.
Non riusciva a sentire niente. Il sangue che gli pulsava
nei timpani e il rumore della pioggia che cadeva
sugli alberi coprivano tutto.
Rimase lì inginocchiato continuando ad asciugarsi
la faccia con la mano, non sapendo cosa fare, poi, dopo
un attimo di esitazione, tirò su la testa di suo padre
e con l'indice gli sollevò una palpebra schiudendo un
occhio vitreo come quello di un animale impagliato.
Raccolse il telefonino da dentro la pozzanghera.
Provò ad accenderlo. Fottuto. Se lo mise in tasca.
Così, tutto storto, suo padre non poteva stare.
Lo afferrò per le spalle e cercò di metterlo seduto.
Ma non ci voleva rimanere. Cristiano lo metteva dritto,
ma appena lo lasciava quello piano piano si
riaccasciava giù.
Alla fine piantò un bastone a terra e glielo infilò
sotto un'ascella.
Ma che cosa ci è venuto a fare qua? Perché ha abbandonato
il furgone ed è entrato nel bosco?
Doveva essersi sentito male. Aveva avuto il malditesta
tutto il giorno. Doveva aver preso il furgone e
forse voleva andare all'ospedale.
Per questa strada si va all'ospedale?
Non ne aveva idea.
Ma poi stava troppo male e non ce l'aveva fatta ed
era sceso dal furgone ed era andato a morire nel bosco.
Come un lupo.
I lupi quando stanno male lasciano il branco e se
ne vanno per conto loro a morire.
«Perché non mi hai svegliato, bastardo?» gli chiese
e diede un calcio al bastone e suo padre ricadde nel
fango.
Doveva portarlo via. L'unico modo era prenderlo
per i piedi e trascinarlo fino alla strada.
Lo acchiappò per le caviglie e cominciò a tirarlo, ma
lo mollò di colpo, come se si fosse preso una scossa.
Per un istante gli era sembrato che un fremito
avesse attraversato le gambe di suo padre.
Cristiano lasciò cadere la torcia, si buttò a terra e
prese a tastargli freneticamente le cosce, le braccia e il
petto, a scrollargli la testa che ciondolava a destra e a
sinistra.
Me lo sono immaginato?
Gli poggiò le mani sul torace provando a spingere
e a ripetere «Uno, due, tre» come aveva visto fare nelle
puntate di ER.
Non sapeva come si facesse e a cosa servisse esattamente,
ma continuò per un sacco di tempo non ottenendo
nessuna reazione se non quella di sentire i
muscoli delle proprie braccia indurirsi come marmo.
Cristiano non ce la faceva più, era bagnato e mezzo
assiderato. Improvvisamente tutta la stanchezza e
l'angoscia accumulata lo annientarono e crollò sul
petto di suo padre.
Doveva dormire. Bastava poco. Cinque minuti.
E poi l'avrebbe portato fino al furgone.
Si accucciò a terra accanto al cadavere. Il freddo
non passava. Cominciò ad abbracciarsi, a stringere le
braccia al petto per far cessare il tremito, a strofinarsi
le spalle cercando di scaldarsi.
Prese dalla tasca il cellulare, ma non si accendeva.
Forse posso lasciarlo qui.
Meglio in un bosco che in un cimitero di merda, accanto
a una manica di sconosciuti...
Si sarebbe decomposto in concime. Niente preti,
chiese, funerali.
La torcia, a terra, disegnava un ovale luminoso su
un tappeto di foglie morte, di ramoscelli, sul moncone
di un tronco su cui cresceva un gruppo di funghi
con lo stelo allungato e sulla mano di suo padre.
Cristiano si ricordò di una volta che Rino in mezzo
a un ponte aveva accostato la macchina ed era salito
in piedi sul parapetto. Sotto scorreva il fiume,
ingolfandosi tra le rocce che spuntavano tra i gorghi.
Poi si era messo a camminare tenendo le braccia
larghe come fanno gli acrobati al circo.
Cristiano era sceso dalla macchina e aveva cominciato
a seguire suo padre sul marciapiede. Non sapeva
che fare. L'unica cosa che riusciva a fare era camminargli
accanto.
Le macchine passavano sulla strada, ma nessuno si
fermava.
Rino senza guardarlo gli aveva detto: «Se speri che
qualcuno si fermi e mi faccia scendere stai fresco. Solo
nei film succedono queste cose». Aveva guardato
Cristiano. «Non mi dire che hai paura che casco?»
Cristiano aveva fatto segno di sì con la testa. Avrebbe
voluto afferrargli un piede e tirarlo giù, ma se invece
lo faceva cadere di sotto?
«Io non posso cadere.»
«Perché?»
«Perché so il segreto per non cadere.»
«E qual è?»
«E lo vado a dire a un moccioso come te? Devi scoprirlo
da solo. Io l'ho scoperto da solo.»
«Dai, papà, ti prego, dimmelo!» si era lagnato Cristiano.
Gli faceva male la pancia come se avesse mangiato
troppo gelato.
«Dimmi una cosa, invece. Se cado e muoio ci vai
sulla mia tomba a pregare per tuo padre?»
«Sì. Tutti i giorni.»
«E i fiori me li porti?»
«Certo.»
«E chi te li dà i soldi per comprarli?»
Cristiano ci aveva pensato un po' su. «Quattro Formaggi.»
«Stai a posto... Quello è un morto di fame...»
«Allora li prendo dalle altre tombe.»
Rino era scoppiato a ridere ed era saltato giù dal
parapetto. Cristiano aveva sentito che il dolore alla
pancia spariva. Poi suo padre lo aveva preso in braccio
e se l'era caricato su una spalla a mo' di sacco.
«Non ci provare. Io dal cielo ti vedo, da lassù non mi
scappa niente...»
Tornando a casa Cristiano aveva cominciato a
chiedere un milione di cose sulla vita e sulla morte.
Scoprire il segreto per non cadere dal ponte era diventata
improvvisamente la cosa più importante
per lui. E con l'ostinazione di un bambino di otto
anni aveva continuato a martellare il padre fino a
quando una mattina, mentre erano stesi sul divano,
Rino non ce l'aveva fatta più. «Vuoi sapere il segreto?
Te lo dico ma tu non lo devi dire a nessuno. Promesso?»
«Promesso.»
«Semplice: io non ho paura di morire. Solo chi ha
paura muore facendo stronzate come camminare su
un ponte. Se a te di morire non te ne frega niente
puoi stare tranquillo che non cadi. La morte se la
piglia con i paurosi. E poi io non posso morire. Almeno
fino a quando non lo deciderà il Signore. Non
ti preoccupare, il Signore non vuole che ti lascio solo.
Io e te siamo una cosa sola. Io ho te e tu hai me.
Non c'è nessun altro. E quindi Dio non ci dividerà
mai.»
Cristiano, accucciato nel fango, prese la mano di
suo padre e sospirò: «Perché allora te lo sei preso?
Spiegami, perché?».
172.
Beppe Trecca, seduto nella Puma, era ancora fermo al
lato della strada e guardava i tergicristalli che si affaticavano
ad asciugare il vetro.
Non riusciva ad andarsene.
Pensava a sua madre.
"Non ti preoccupare per me, Giuseppe. Vai. Vai..." Così
gli aveva detto Evelina Trecca dal letto di una corsia
del Gemelli di Roma.
Lui le era seduto accanto e non la riconosceva più,
era così rinsecchita... Il cancro se la stava succhiando.
«Mamma, lo sai, se preferisci non vado. Non c'è
problema. E lo stesso» le aveva detto a bassa voce
stringendole la mano scheletrica.
Evelina aveva sospirato a occhi chiusi. «Ma che
stai a fare qui? Con tutto il veleno che mi mettono
nelle vene non riesco a tenere gli occhi aperti. Dormo
tutto il giorno. Non ti preoccupare per me, Giuseppe.
Vai. Vai... Divertiti un po', tu che puoi.»
«Mamma, sei sicura?»
«Vai... Vai...»
E lui era andato. Cinque giorni. Giusto il tempo di
andare a Sharm el-Sheikh da Giulia Savaglia e tornare.
Aveva conosciuto Giulia Savaglia all'università e
adesso lei faceva l'animatrice in un villaggio turistico
e l'aveva tanto invitato a raggiungerla che Beppe
aveva creduto che...
Al terzo giorno di permanenza al Coral Bay lei gli
aveva spiegato come lo considerava.
Cos'aveva detto? "Una persona speciale. Un tesoro
d'amico."
Nello stesso giorno sua madre era morta. Era
morta senza che suo figlio le tenesse la mano. E probabilmente
si era domandata dov'era finito dopo
che avevano passato venticinque anni uno accanto
all'altra senza lasciarsi mai. Se n'era andata sola come
un cane.
Beppe Trecca non se l'era perdonata.
Si era chiuso nell'appartamento di sua madre ad
Ariccia depresso e addolorato, senza voler vedere
più nessuno. I suoi progetti per diventare un sociologo,
fare il concorso di ricercatore, se ne erano andati
al diavolo. Imbottito di antidepressivi aveva vegetato
per un anno e l'unica cosa che era riuscito a fare, oltre
che ingrassare dieci chili, era stato andare in chiesa a
pregare per l'anima di sua madre e prendersi un diploma
di assistente sociale senza aver studiato una
pagina.
E alla ventesima volta che sua cugina Luisa gli
aveva detto che c'era un concorso a Varrano per un
posto come assistente sociale, lui, esasperato, aveva
fatto domanda.
"Non ti preoccupare per me, Giuseppe. Vai. Vai..."
Ti ho lasciata a morire sola come un cane. Perdonami.
Sono scappato. E non era per Giulia Savaglia, era perché
sapevo che te ne saresti andata e non ho avuto la forza di
starti vicino e vederti morire.
Improvvisamente, come un pugile rintronato che
riceve una secchiata d'acqua in faccia, Beppe Trecca
si rese conto della mostruosità di quello che stava
combinando.
Singhiozzando si lanciò fuori dalla macchina, corse
dall'africano che stava lì dove l'aveva lasciato,
l'afferrò per le spalle e gli disse: «Tranquillo. Ora ti
porto in ospedale». Cominciò a trascinarlo verso la
macchina, ma si fermò ansimando e poggiò a terra il
corpo per riprendere fiato. Fece due passi indietro,
poi come una furia lo prese per il bavero del giaccone
e cominciò a scuoterlo. «Ma perché mi devi rovinare
la vita? Perché mi sei passato davanti? Che vuoi
da me? Non è giusto! Non è giusto. Io... Io non ti ho
fatto niente.» Si bloccò come se non avesse più forza
nelle braccia. La faccia del morto a pochi centimetri
dalla sua.
Era sereno. Come se stesse facendo un bel sogno.
No, non ce la posso fare.
Vorrei, ma non posso.
Constatare che non aveva i coglioni per prendere
quell'uomo e portarlo all'ospedale lo fece scoppiare in
un pianto disperato. Spalancò la bocca e scosso dai
singhiozzi si rivolse al Padreterno. «Ti prego, aiutami
tu. Che devo fare? Cosa devo fare? Dimmelo tu! Io
non ce la faccio. Dammi la forza tu. Io non l'ho fatto
apposta. Non me ne sono accorto... Ti prego Dio, aiutami.»
Cominciò a girare attorno al cadavere, poi si
mise le mani sugli occhi e implorò: «Tu che puoi tutto,
fallo. Fai il miracolo. Fallo rivivere. Io non volevo ucciderlo.
È stata una disgrazia. Io ti giuro che se gli salvi
la vita rinuncerò a tutto... Rinuncerò all'unica cosa bella
della mia vita... Se tu lo salvi io ti prometto che...»
Esitò un istante. «... rinuncerò a Ida. Non la rivedrò
mai più. Te lo giuro.»
Si inginocchiò e rimase così, fermo, a testa bassa,
senza più lacrime.
173.
Cristiano Zena riaprì gli occhi.
Doveva essersi addormentato.
Devo portare papà a casa.
Ci mise qualche secondo a realizzare che quella cosa
scura che si muoveva lentamente davanti al suo
naso era l'indice della mano di suo padre.
Aspetta. Non ti muovere.
Doveva essere un'altra allucinazione, come il fremito
che aveva sentito prima prendendogli le gambe.
Cristiano tirò su lentamente la testa.
No, non si stava sbagliando. Si muoveva. Poco, ma
si muoveva.
Non resse, cacciò un urlo stridulo e afferrò la mano
di suo padre.
Il pollice, l'indice, l'anulare... si piegavano come se
cercassero di stringere una pallina invisibile.
Rino Zena prese a storcere la bocca e strizzare gli
occhi e un rivolo di schiuma bianca gli spuntò dall'angolo
delle labbra.
Cristiano lo scuoteva per le spalle. «Papà! Papà!
Papà! Sono io!»
Suo padre prese a tossire e riaprì gli occhi.
Era troppo. Cristiano, nel buio, non ce la fece più,
la torcia gli scivolò dalla mano, lo abbracciò e singhiozzando
prese a dargli pugni sul petto. «Stronzo,
bastardo. Lo sapevo che non potevi morire. Tu non
puoi morire... Tu non mi puoi lasciare... Ti ammazzo
io... Ti ammazzo io, lo giuro...»
Afferrò la pila e gliela puntò in faccia. «Papà, mi
senti? Fammi un segno se mi senti... Stringimi la mano
se non riesci a parlare...»
Improvvisamente il corpo di suo padre fu come
attraversato da una scossa da diecimila watt, e Rino
spalancò di nuovo gli occhi, li roteò in su e cominciò
a tremare, a digrignare i denti e a sbattere le gambe
e le braccia e la testa come fosse posseduto dal demonio.
Il tutto durò meno di venti secondi e poi, improvvisamente,
le convulsioni lo abbandonarono.
Cristiano lo prese a ceffoni per cercare di risvegliarlo,
ma niente...
Non era morto, però. Il torace gli si gonfiava e gli si
sgonfiava.
Doveva correre subito all'ospedale, chiamare un'ambulanza,
i medici...
Corri! Che aspetti?
Cristiano si sollevò e si precipitò verso la strada, ma
fece appena qualche passo che inciampò, la luce gli
volò via e si ritrovò nell'oscurità steso su qualcosa...
Allungò un braccio tastando per capire che cosa
fosse. Era morbido, bagnato ed era coperto di lana e
stoffa e aveva...
I capelli!
Scattò in piedi come se fosse stato acciuffato da
una mano invisibile e arretrando si portò le mani davanti
alla bocca e gridò: «Cristo! Cristo! Cristo!».
Afferrò la torcia da terra e con la mano che gli tremava
la puntò in basso verso...
Fabiana!
A occhi aperti. A bocca aperta. A braccia aperte. A
gambe aperte. La giacca aperta. La camicia aperta. La
testa aperta.
Uno squarcio le partiva dall'attaccatura dei capelli,
le attraversava la fronte coperta di gocce di pioggia e
le divideva in due un sopracciglio. Il piercing le pendeva
da un lembo di carne rosa. I capelli inzuppati di
sangue e fango. Gli occhi fissi. Il reggipetto strappato.
Il seno, lo sterno e lo stomaco coperti di una roba
rossiccia. I pantaloni abbassati alle ginocchia. Le
gambe graffiate. Gli slip viola strappati.
Mentre le viscere gli si rivoltavano nello stomaco,
Cristiano indietreggiò, spalancò la bocca cercando di
ingoiare aria ma gli salì un'ondata di roba calda e
cacciò fuori un getto acido e poi rantolando scappò
via nel bosco, ma dopo poche decine di metri crollò
in ginocchio e abbrancando un tronco provò a rigettare
di nuovo senza riuscirci.
Si pulì la bocca con il dorso della mano e si disse
che non aveva visto niente, che era solo un incubo e
che bastava così, che doveva andare via, via da lì, e
tutto sarebbe tornato a posto.
«Basta così. Adesso te ne vai tranquillo, tranquillo.»
Doveva andare sulla strada, prendere la bicicletta e
tornare a casa e rinfilarsi a letto.
Posso farlo.
E allora perché non riusciva ad alzarsi, perché continuava
a vedere il sopracciglio di Fabiana troncato
in due e quel lembo di carne da cui pendeva l'anello
e quegli occhi azzurri allagati dalla pioggia?
Il segreto era non pensare e ordinarsi cose semplici
e farle una alla volta.
Ora ti alzi.
Prese un respiro e reggendosi al tronco si alzò.
Ora vai sulla strada.
Si tirò in piedi e nonostante le gambe gli sembrassero
di qualcun altro cominciò ad avanzare a braccia
avanti attraverso la vegetazione scura. E finalmente
sbucò sulla strada. Scavalcò il guardrail e cominciò a
correre giù per la discesa dimenticandosi la bicicletta.
A un tratto il bosco fu rischiarato da un fascio di luce.
Fermala.
Si mise al centro della strada, sollevò le braccia, ma
all'ultimo momento, quando i fari della macchina
stavano per illuminarlo, un impulso lo fece spostare
di lato e saltare dietro il guardrail prima che qualcuno
lo potesse vedere.
Steso dentro il ruscello che scorreva al lato della
strada si chiese perché non aveva fermato quella
macchina.
174.
Beppe Trecca risalì nell'automobile tirando su con il
naso.
Il Signore non aveva fatto il miracolo, ma non gli
aveva nemmeno dato il coraggio di portare l'uomo in
ospedale.
L'assistente sociale alzò al massimo il riscaldamento,
spinse la frizione, ingranò la marcia, diede un'occhiata
allo specchietto retrovisore e per poco non
schiattò sul colpo.
L'africano era in piedi e lo guardava attraverso il
lunotto.
175.
Basta. Basta pensare.
Doveva prendere suo padre e portarlo via e non
chiedersi cosa cazzo fosse successo dentro a quel bosco.
Cristiano Zena ritornò al furgone scacciando la visione
di Fabiana morta. S'infilò dentro il vano posteriore
e con uno straccio cominciò a sfregarsi il corpo
per cacciare via il freddo che gli era entrato nelle ossa.
Tirò fuori la carriola ed entrò nel bosco.
176.
«Cos'è successo? Non mi ricordo niente.» L'africano
era seduto accanto a Beppe Trecca che guidava a venti
chilometri all'ora con un'espressione di terrore dipinta
sul viso.
Non ce la faceva nemmeno a guardarlo, tanto era
terrorizzato. Quello lì seduto vicino a lui era tornato,
come Lazzaro, dal regno dei morti.
Beppe era così stravolto che non riusciva neanche
a essere felice.
(Hai chiesto il miracolo e il miracolo è avvenuto.)
Ma com'è possibile? Un miracolo? A me? Ma che senso
ha? Perché Dio ha aiutato uno sfigato come me?
(Il volere di Nostro Signore è imperscrutabile.)
Quante volte aveva detto questa banalità per tirarsi
fuori da situazioni rognose. Ora ne comprendeva
appieno il senso.
L'assistente sociale si fece coraggio e senza voltarsi
riuscì a balbettare: «Ma come ti senti?».
L'uomo si massaggiò il collo. «Mi fa male un po'
la testa e qui, sul fianco. Devo essere caduto. Non lo
so, non mi ricordo niente...» Era confuso. «Stavo per
attraversare la strada di corsa e poi niente. Mi sono
risvegliato a terra e c'era la tua macchina. Grazie,
amico.»
Beppe sgranò gli occhi. «Di cosa?»
«Di esserti fermato ad aiutarmi.»
Non ha nemmeno capito che l'ho investito.
Una sensazione di benessere gli rilassò gli addominali
e l'assistente sociale seppe che Dio gli era vicino
e che forse era stato troppo severo con se stesso.
Osservò l'africano. Non sembrava stesse troppo
male. «Vuoi che ti porto all'ospedale?»
L'africano fece no con la testa e si agitò come se
Beppe gli avesse proposto di fare una visitina a una
sezione della Lega Nord. «No! No! Sto bene. Non è
niente. Per favore, mi potresti lasciare al prossimo incrocio?»
Non ha il permesso di soggiorno.
«Forse dovresti farti vedere da un medico.»
«Non è niente, amico.»
«Posso almeno chiederti come ti chiami?»
Il nero sembrò rimanere un istante in dubbio se
dirglielo o no, ma poi fece: «Antoine. Mi chiamo Antoine».
Indicò la strada. «Ecco, lasciami qui, per favore.
Qui va bene. Sono arrivato.»
Beppe fermò l'automobile e si guardò intorno. C'era
un incrocio con un semaforo lampeggiante e intorno
il deserto.
In fondo alla pianura, oltre i capannoni e i tralicci
dell'elettricità, un leggero chiarore aveva rubato un
pezzo di cielo alla notte.
«Qui? Sicuro?»
«Sì, sì. Va bene, amico. Fermati qui. Grazie mille.»
Antoine aprì la portiera della macchina e stava per
uscire quando si fermò e lo fissò. In quei due enormi
occhi marroni Beppe vide risplendere il mistero della
Trinità. «Posso chiederti una cosa?»
Beppe Trecca deglutì. «Sì, certo.»
L'africano tirò fuori dallo zaino un mazzo di calzini
di spugna bianca e glieli porse. «Amico, li vuoi?
Sono tutto cotone. Cento per cento. Ti faccio un prezzo
buono. Cinque euro. Cinque euro soltanto.»
177.
Cristiano Zena, con il busto appiccicato al volante,
guidava il furgone giù per i tornanti.
Il motore del Ducato, in seconda, ululava.
Cristiano sapeva che doveva cambiare marcia, ma
finché non fossero finite le curve non rischiava.
L'alba era arrivata finalmente e pioveva meno, ora.
I fari proiettavano due ovali sulla strada ricoperta di
terra, pozzanghere e rami che strusciavano sul fondo
del Ducato.
Cristiano lanciò un'occhiata indietro. Stesi sul pianale
uno accanto all'altro c'erano Rino Zena e il cadavere
di Fabiana Ponticelli.
Sul corpo di Fabiana c'erano un sacco di prove. Lui
era un esperto di queste cose, aveva visto tantissimi
telefilm polizieschi e si sa che sotto le unghie della
vittima rimane la pelle del...
Ci fu una specie di click nella mente di Cristiano,
un blackout di un istante.
... e c'erano sicuramente altri milioni di indizi e la
polizia ci avrebbe messo cinque minuti a capire...
(Cosa?)
Niente.
178.
Beppe Trecca con tre pacchi di calzini in mano entrò
nel suo bilocale. Si spogliò in silenzio e fece una doccia
bollente senza pensare a niente. Si infilò il pigiama
e abbassò le serrande. Fuori non pioveva più, e
oramai il giorno aveva preso possesso del mondo. I
passeri sui cipressi cominciavano timidamente a cinguettare,
come a dirsi: "Ma avete visto che nottata? È
passata e si ricomincia a vivere".
Beppe si mise i tappi nelle orecchie e si cacciò sotto
le coperte.
179.
Cristiano Zena lasciò la strada che tagliava il bosco e
si ritrovò alle porte di Varrano.
Era quasi fatta. Doveva attraversare il paese e prendere
la statale. Imboccò un largo viale alberato e decise
che era ora di cambiare marcia. Osservò il pomello
del cambio consumato. Lo afferrò e stava per innestare
la terza quando sentì la voce scura di suo padre che
gli diceva:
(La frizione. La spingi o no quella maledetta frizione?'!)
Abbassò il pedale e mise la terza al primo tentativo.
Quando guardò di nuovo fuori si accorse che in
fondo al viale c'era un bagliore che tingeva di blu e
arancione le cime dei platani.
La polizia!
Ebbe un mezzo mancamento e istintivamente affondò
il piede sui freni. Il furgone inchiodò di botto in
uno stridio di ganasce e poi cominciò ad avanzare a
balzi per una decina di metri e si spense nel bel mezzo
della strada.
Cristiano rimase avvinghiato al volante senza respirare.
Poi chiuse gli occhi e strinse i denti.
E adesso?
Riaprì gli occhi e vide degli uomini in uniforme
giallo fosforescente che stendevano lunghe strisce da
una parte all'altra del viale. Proprio accanto, una volante
della polizia e un camion con i lampeggianti
arancione.
Un poliziotto veniva verso di lui agitando la paletta.
Cristiano provò a deglutire, ma non ci riuscì. Teneva
la testa abbassata perché non voleva che il poliziotto
gli vedesse la faccia da moccioso.
Svelto!
Girò la chiave e il Ducato prese a singhiozzare
spinto in avanti dal motorino di avviamento.
Il poliziotto si era fermato a cinquanta metri e gli
diceva di fare inversione.
Allora...
(Spingi quella dannata frizione!)
Sbuffò, si allungò e con la punta del piede schiacciò
il pedale.
Bene.
(E adesso metti in folle. È quello al centro.)
Dopo vari tentativi decise che aveva trovato il folle.
Girò di nuovo la chiave e questa volta il motore partì.
Ingranò la prima e mollò lentamente la frizione. Il furgone
si mosse e lui girò il volante e tornò indietro.
Sulla statale incrociò lunghi tir con targhe straniere
che avanzavano uno dietro l'altro come una carovana
di elefanti. Il cielo aveva assunto un colore grigio scuro
e a est un sottile chiarore cominciava a ravvivare la
pianura. La sagoma della casa sembrava emergere come
un bunker nero dalla bruma che avvolgeva i campi
e la strada.
Posteggiò il furgone, spense il motore e scese. Aprì
lo sportello.
Suo padre era finito sopra il cadavere di Fabiana e
sotto la bicicletta. Aveva la testa in mezzo agli avanzi
del barbecue e su una guancia gli si era incollata
un'etichetta della birra Peroni.
Cristiano saltò su e controllò che il cuore gli battesse
ancora. Era vivo. Lo afferrò per i piedi e lo tirò
fuori dal furgone stando attento a non fargli sbattere
la testa. Lo fece scivolare di nuovo dentro la carriola.
Poi chiuse gli sportelli e lo spinse verso casa, ma arrivato
davanti alla porta si ricordò di non avere le
chiavi. Le trovò in una tasca dei pantaloni di Rino.
Aprì la porta.
Dopo vari tentativi riuscì a caricarselo in spalla e
lentamente, piegato sotto settantotto chili, si fece le
scale fino al piano di sopra. Distrutto, senza più forze,
adagiò suo padre sul letto.
Ora doveva spogliarlo, ma questo lo sapeva fare.
Quante centinaia di volte gli era già successo di doverlo
mettere a letto ubriaco fradicio?
180.
Se c'era una cosa per cui il dottor Furlan perdeva la
testa erano gli ziti alla genovese.
Metti tre chili di cipolle in un pentolone, ci aggiungi
un po' di sedano, carote, un pezzo di vitella
magra e lasci cuocere a fuoco basso per una giornata
intera.
La cipolla, lentamente, si trasforma in una crema
scura e profumata che metti sugli ziti con una bella
manciata di parmigiano grattato e qualche foglia di
basilico.
La fine del mondo.
La moglie del dottor Furlan la faceva eccezionale,
perché ci metteva dentro anche un pezzo di lardo. E
la tirava tanto che della vitella non rimaneva che un
ricordo.
Il problema era che Andrea Furlan, dopo aver perso
la finale di pallavolo del circolo, era tornato a casa
verso mezzanotte ululando per la fame, aveva aperto
il frigorifero e se n'era fatta fuori una mezza zuppiera
senza nemmeno riscaldarla, e poi non contento aveva
aggiunto tre fette di torta ripiena di scarola, olive e
capperi e due salsicce.
In questo stato si era buttato a letto. Si era svegliato
tre ore dopo, per il turno in ambulanza.
Ora, seduto tra Paolo Ristori, l'autista, e l'infermiera
Sperti, sentiva le cipolle e le salsicce che tentavano
di scalargli l'apparato digerente. Aveva una
nausea terribile e lo stomaco duro come un pallone
da basket.
Il massimo sarebbe stato andare dietro e farsi una
pennichella di cinque minuti sulla lettiga mentre
quei due idioti battibeccavano.
Furlan, con una smorfia di disgusto in faccia, osservò
Ristori.
Masticando una gomma americana continuava ossessivamente
ad abbagliare un camion pieno di maiali
che non si spostava dalla corsia di sorpasso. Si
credeva Schumacher. Con la scusa che doveva fare
presto correva come un matto.
«E insomma s'è cagato addosso...» fece Michela
Sperti, una ragazza bionda imbacuccata nell'uniforme
arancione. Sotto la tuta (Paolo l'aveva vista una
volta in bikini alla piscina comunale e si era spaventato)
era un insieme di masse muscolari così definite e
precise che sembravano tanti pesci posati uno sull'altro.
Per colpa del culturismo si era persa le tette e le
mestruazioni.
Ristori le diede una rapida occhiata. «Mi stai dicendo
che il tuo fidanzato si è cagato addosso durante
le selezioni di Mister Olimpia?»
«Sì. Mentre stava sul palco a fare le pose.»
«No... per favo...» balbettò Andrea e si mise una
mano davanti alla bocca e fece un rutto alla cipolla
che per poco non lo stordì.
«Be', quando ti imbottisci di Guttalax a tre ore dalla
gara...» Michela prese a mordersi le unghie.
«Ma perché l'ha fatto?» chiese Ristori.
«Era tre etti sopra al suo peso. Passava di categoria.
Quel deficiente la mattina aveva bevuto una
mezza Ferrarelle. È andato in sauna, ha sudato come
un dannato, ma niente, non ha perso mezzo grammo.
Allora ha capito che doveva avere l'intestino pieno. E
quindi si è purgato, ma si è sbloccato mentre stava facendo
un doppio bicipite frontale.»
Furlan vide la casa e la indicò: «Rallenta! Rallenta!
Siamo arrivati. Fermati».
«Ok, capo.» Ristori mise la freccia e fece una brusca
sterzata entrando a tutta velocità nel cortile della
casa degli Zena e sgommando sulla ghiaia fino a fermarsi
a mezzo metro da un furgone Ducato.
Michela si tirò su inferocita. «Stronzo! La prossima
volta, ti giuro, ti do un cartone sul naso se sterzi all'improvviso
in questo modo.»
«Sai che paura! Ma chi sei? Shanna, la principessa
degli elfi?»
Furlan afferrò la valigia del pronto soccorso e scese
dall'ambulanza. L'aria fresca lo fece sentire subito
meglio. Si avviò verso l'ingresso dell'abitazione. La
porta era spalancata.
Ristori con la lettiga e la Sperti con la bombola dell'ossigeno
lo seguirono in casa dandosi spintoni come
due adolescenti.
Il dottore si ritrovò in uno stanzone. Un tavolo ricoperto
di lattine di birra. Delle sedie di plastica
bianca.
Che schifo.
Nella penombra riuscì a scorgere una figura seduta
su una sedia a sdraio.
Furlan si avvicinò e vide che era un ragazzino alto
e magro come una cicogna che li guardava senza
espressione. Indossava un lungo accappatoio arancione
e un paio di mutande sformate. Era pallidissimo
e aveva due occhiaie scure intorno agli occhietti
gonfi e iniettati di sangue. Vedendoli entrare non fece
nulla se non spalancare la bocca.
O è fatto o è traumatizzato.
«Sei tu che hai chiamato il 118?» domandò Ristori
al ragazzino.
Quello fece segno di sì con la testa e indicò le scale.
«Ti vedo strano. Stai bene?» gli chiese la Sperti.
«Sì» si limitò a dire il ragazzino, come rallentato.
Furlan si guardò intorno. «Dov'è?»
«Su» fece il ragazzino.
Furlan salì di corsa al piano di sopra e nella prima
stanza trovò, allungato su un materasso, un uomo
pelato e ricoperto di tatuaggi. Era strizzato in un pigiama
di flanella blu a righe bianche.
Mentre apriva la valigetta Furlan diede di sfuggita
un'occhiata alla stanza. Mucchi di panni appallottolati.
Scarpe. Scatoloni. Su una parete era appesa una
grande bandiera con una svastica nera.
S'impedì di farsi girare immediatamente i coglioni.
Non era il primo e non sarebbe stato l'ultimo maledetto
naziskin che gli capitasse di soccorrere facendo
quel lavoro. Quanto odio questi bastardi...
Si piegò e afferrò il polso dell'uomo. «Signore?! Signore?!
Signore, mi sente?!»
Nulla.
Furlan prese lo stetoscopio. Il cuore batteva. Regolare.
Tirò fuori dalla tasca della giacca la matita e con
la punta punzecchiò l'avambraccio di quel tizio.
L'uomo non ebbe alcuna reazione.
Si girò verso il ragazzino che, appoggiato sullo stipite
della porta, lo fissava con uno sguardo da pesce
lesso.
«Chi è? Tuo padre?»
Il ragazzino fece segno di sì.
«Da quanto sta così?»
Il ragazzino alzò le spalle. «Non lo so. Mi sono svegliato
e l'ho trovato così.»
«Cos'ha fatto ieri sera?»
«Niente. È andato a letto.»
«Ha bevuto? È pieno di lattine di birra, qui.»
«No.»
«Si droga?»
«No.»
«Ti prego di dirmi la verità. Si droga?»
«No.»
«E ha preso dei farmaci?»
«No, non credo.»
«Soffre di qualcosa? Malattie?»
«No...» esitò Cristiano, poi aggiunse: «Di malditesta.»
«Prende qualche medicina?»
«No.»
Furlan non riuscì a capire se il ragazzino stava
mentendo.
Non è un tuo problema, si disse come sempre si diceva
in casi come questo.
Il medico si rivolse a Ristori indicando il ragazzino:
«Portalo fuori, per favore».
Si slacciò la giacca. Poi sollevò le palpebre all'uomo
e con la torcia gli osservò le pupille. Una era dilatata
e l'altra contratta.
Nove su dieci una bella emorragia cerebrale.
Il nazista, nella sfiga, era pure fortunato: l'ospedale
del Sacro Cuore di San Rocco da meno di un anno
aveva aperto un nuovo reparto di terapia intensiva e
rischiava pure di salvarsi.
«Ventiliamolo, impacchettiamolo e scarichiamolo»
ordinò alla Sperti, che rapida gli infilò il tubo endotracheale
in gola. Lui intanto gli incannulò la vena
dell'avambraccio.
Lo misero sulla barella.
E se lo portarono via.
181.
In seguito Cristiano Zena ricordò il momento in cui si
portarono via suo padre su una lettiga come quello
che cambiò la sua esistenza.
Più di quando aveva pedalato nella pioggia sicuro
che non ci fosse più il bivio per San Rocco, più di
quando aveva trovato suo padre morto nel fango, più
di quando aveva visto il cadavere di Fabiana Ponticelli.
Il mondo cambiò e la sua esistenza divenne importante,
degna di essere raccontata, quando vide la testa
del pelato scomparire dentro l'ambulanza.
DOPO.
Ti hanno iscritto a un gioco grande.
Edoardo Bennato, Quando sarai grande.
Parte Quarta.
Lunedì.
182.
Nelle prime ore del mattino il temporale che aveva
infuriato per tutta la notte sulla pianura si spostò sul
mare dove finì di sbollire la sua rabbia affondando
un paio di pescherecci e poi, fiacco e indebolito, si
spense al largo dei Balcani.
Il telegiornale delle otto accennò appena al temporale
e alla piena del Forgese, perché quella notte era
stato rapito nella periferia di Torino un noto presentatore
televisivo.
Un sole malaticcio stese i suoi raggi sulle terre grigie
e zuppe e gli abitanti della pianura, come granchi
dopo il passaggio della risacca, tirarono fuori la testa
dai buchi in cui si erano tappati e, come piccoli ragionieri,
incominciarono a stimare i danni.
Alberi e cartelloni abbattuti. Qualche vecchia cascina
scoperchiata. Frane. Strade allagate.
I frequentatori del caffè Rouge et Noir si accalcarono
contro il bancone di marmo e guardarono la teca
in cui erano custoditi i famosi fagottini ripieni di
cioccolata bianca. C'erano. E se c'erano i fagottini voleva
dire che la vita continuava.
La prima pagina del quotidiano locale era occupata
da una foto dei campi coperti dalle acque presa
dall'elicottero. Il Forgese aveva rotto gli argini qualche
chilometro più su di Murelle ed era straripato allagando
capannoni e cascine. In un'azienda vinicola
un gruppo di albanesi che dormivano dentro una
cantina avevano rischiato di morire affogati. Un ragazzo
su una canoa aveva salvato un'intera famiglia.
Fortunatamente non c'erano state vittime tranne
un certo Danilo Aprea di quarantacinque anni che, in
stato di ebbrezza o per un improvviso malore, aveva
perso il controllo della vettura ed era andato a sbattere
a tutta velocità contro un muro di via Enrico Fermi
a Varrano ed era deceduto.
183.
Il professor Brolli era piegato su un tavolino del bar
dell'ospedale del Sacro Cuore e si beveva in silenzio
un cappuccino, osservando il sole stinto che si
scioglieva come un tocco di burro al centro del cielo
grigio.
Era un uomo con il busto corto, un collo sproporzionato
e degli arti lunghi dei quali sembrava non sapesse
bene cosa fare.
La sua strana conformazione fisica gli era valsa
una sfilza di soprannomi: il fenicottero, grissino,
tiraemolla, l'avvoltoio (certamente il più azzeccato per
via di quei quattro peli che aveva in testa e perché
operava spesso mezzi cadaveri). Ma l'unico soprannome
che amava era "Carla". Da Carla Fracci. Lo
chiamavano così per la grazia e la precisione quasi
coreografiche che aveva quando teneva un bisturi in
mano.
Enrico Brolli era nato a Siracusa nel 1950, e ora, a
cinquantasei anni, era il primario di Neurochirurgia
del Sacro Cuore.
Era stanco. Aveva tenuto per quattro ore le mani
nel cranio di un povero cristo che era arrivato con
un'emorragia cerebrale. Lo avevano acciuffato per i
capelli. Mezzora in più e grazie e arrivederci.
Mentre finiva il cappuccino pensò a sua moglie
Marilena che probabilmente lo stava già aspettando
fuori dall'ospedale.
Aveva il resto della giornata libero e si erano dati
appuntamento per andare a comprare un frigorifero
nuovo per la casa in montagna.
Brolli era distrutto, ma l'idea di passeggiare per il
centro commerciale con sua moglie e poi andare a
mangiare un panino in campagna, con i cani, non gli
dispiaceva affatto.
Lui e Marilena amavano gli stessi piccoli piaceri.
Passeggiare con Totò e Camilla, i loro due Labrador,
dormire il pomeriggio, mangiare presto e starsene a
casa, sul divano, a guardare i film in dvd. Con gli anni
Enrico aveva smussato i propri angoli per incastrarsi
con Marilena come un pignone su una ruota.
Al centro commerciale voleva anche comprare gli
ossibuchi per farli insieme al risotto allo zafferano, e
poi passare al videonoleggio e affittare Taxi Driver.
Prima dell'operazione, vedendo la faccia scavata
del paziente, la testa rasata e tutti quei tatuaggi, gli
era venuto in mente Robert De Niro in Taxi Driver, e
avrebbe messo la mano sul fuoco che quel disgraziato
era conciato a quel modo per una rissa. Ma poi,
aprendogli il cranio, aveva scoperto che c'era un'emorragia
subaracnoidea dovuta alla rottura di un
aneurisma, probabilmente di origine congenita.
Si mise in coda davanti alla cassa affollata di infermieri
cercando nelle tasche dei pantaloni di velluto
qualche spicciolo. Nel taschino del camice cominciò a
vibrare il cellulare.
Marilena.
Lo prese, guardò il display.
No, era dall'ospedale.
«Sì?! Pronto! Che c'è?» sbuffò.
«Professore, sono Antonietta...»
Era l'infermiera del secondo piano.
«Mi dica.»
«C'è qui il figlio del paziente operato...»
«Sì?»
«Vuole sapere come sta il padre.»
«Ci faccia parlare Cammarano. Io sto uscendo. Mia
moglie...»
L'infermiera rimase un istante silenziosa. «Ha tredici
anni. E da quello che leggo qui non ha parenti.»
«Lo devo fare io?»
«È nella sala d'attesa del secondo piano.»
«Gli avete detto niente?»
«No.»
«Non ha nessuno, che ne so, amici con cui posso
parlare?»
«Ha detto che ha solo due amici del padre. Ho provato
a chiamarli, ma non rispondono. Nessuno dei
due.»
«Arrivo. Intanto cercateli. E se no chiamate i carabinieri.»
Chiuse la comunicazione e pagò il cappuccino.
184.
Quattro Formaggi si svegliò immerso in un lago di
dolore.
Sollevò appena una palpebra e un raggio di luce
lo accecò. La richiuse. E sentì i passeri che cinguettavano
troppo forte in cortile. Si tappò le orecchie, ma
il movimento gli causò una fitta che gli tolse il fiato.
Rimase sopraffatto dal dolore. Quando finalmente
riuscì ad aprire un occhio riconobbe la carta da parati
consumata della sua stanza da letto. Gli sembrava
di essersi addormentato davanti al presepe, quindi
durante la notte doveva essersi messo a letto, cosa
che non ricordava. Respirava a fatica. Come se fosse
intasato dal raffreddore. Si toccò il naso incrostato e
si rese conto che quello non era muco, ma sangue
rappreso. E anche la barba e i baffi erano incrostati
di sangue.
Ora si accorse che oltre al dolore c'era la sete. La
lingua era così gonfia che non gli entrava in bocca.
Ma per bere doveva alzarsi.
Si sollevò di scatto e per poco dal dolore non svenne.
Alla fine, trascinandosi sulle ginocchia, si avviò
verso il bagno. «Cavolo... Cavolo... Rino... Rino... Mi
hai pestato... Mi hai pestato fortissimo...»
Si attaccò al bordo del lavandino, si tirò su e si
guardò allo specchio. Per un istante non si riconobbe.
Non poteva essere lui quel mostro.
Il torace era cosparso di lividi grossi come uova al
tegamino, ma ciò da cui Quattro Formaggi rimase affascinato
fu la spalla tumefatta e sanguinante come
una bistecca fiorentina.
Quello non glielo aveva fatto Rino. Era opera di
Ramona. Pigiò il dito dov'era la ferita e lacrime di
dolore gli colarono giù per le guance.
Quindi era tutto vero. Non era un sogno. Il suo
corpo raccontava la verità.
La ragazzina. Il bosco. Il cazzo nella mano. Il sasso
in testa. Le botte. Tutto vero.
Avvicinò la faccia allo specchio, con la punta del
naso contro il vetro, e cominciò a sputare muco e
sangue.
185.
Cristiano Zena era seduto nella sala d'aspetto del reparto
di terapia intensiva. Poggiava la testa contro il
distributore di bibite e cercava disperatamente di tenere
gli occhi aperti.
Era arrivato con il primo autobus e un'infermiera,
dopo avergli fatto un'infinità di domande, gli aveva
detto di aspettare lì. Il professor Brolli sarebbe venuto
a parlargli. Aveva i brividi ed era così stanco... le palpebre
gli si chiudevano e la testa gli ciondolava, ma
non doveva addormentarsi.
L'infermiera non lo aveva riconosciuto, ma lui se la
ricordava bene. Era quella che passava ogni tanto la
notte.
Cristiano era già stato in quell'ospedale due anni
prima, quando gli avevano tolto l'appendice. L'operazione
era andata bene, ma aveva passato tre giorni
in una stanza accanto a un vecchio con un sacco di
tubi che gli uscivano dal petto.
Non si poteva dormire perché quello ogni dieci minuti
aveva un attacco di tosse, sembrava che dentro i
polmoni avesse i sassi. Gli occhi gli schizzavano fuori
dalle orbite e cominciava a dare delle manate sul materasso
come se stesse schiattando. Il vecchio poi non
parlava mai, nemmeno quando il figlio lo andava a
trovare con la moglie e i due nipoti. Loro gli facevano
un mucchio di domande ma lui non rispondeva.
Neanche con la testa.
Seduto su quella sedia ad aspettare di sapere se
suo padre era vivo, Cristiano si ricordò che la seconda
notte, mentre sonnecchiava immerso nella
penombra giallastra della camera, il vecchio, improvvisamente,
aveva parlato con una voce sfiatata: «Ragazzino?».
«Sì?»
«Stammi a sentire. Non fumare. È una morte troppo
schifosa.» Parlava fissando il soffitto.
«Io non fumo» si era difeso Cristiano.
«E non cominciare mai. Capito?»
«Sì.»
«Bravo.»
Quando il giorno dopo Cristiano si era svegliato,
non c'era più. Era morto, e la cosa strana era che non
aveva fatto nessun rumore andandosene.
Ora, mentre sentiva il distributore automatico vibrargli
contro una tempia, Cristiano si disse che si sarebbe
fumato una bella sigaretta alla faccia di quel
vecchio, e invece tirò fuori dalla tasca il cellulare di
suo padre. Lo aveva asciugato sotto il getto dell'aria
calda nel bagno e aveva ripreso vita. Compose per
l'ennesima volta il numero di Danilo. Il cliente non
era raggiungibile. Provò Quattro Formaggi. Anche il
suo telefono era staccato.
186.
Mentre camminava per il corridoio del secondo piano
il professor Brolli ripensò a quel giovane uomo
pelato e pieno di tatuaggi che aveva operato. Quando
gli aveva aperto il cranio e aveva aspirato il sangue
aveva scoperto che l'emorragia cerebrale, fortunatamente,
non aveva interessato le zone addette al
controllo del respiro e quindi il paziente inspirava ed
espirava da solo, ma per il resto il suo cervello era
fuori uso e non si poteva prevedere se e quando
avrebbe ripreso a funzionare.
Nella difficile situazione economica in cui versava
quell'ospedale, casi come quello erano vere e proprie
sciagure. I pazienti in coma richiedevano un impegno
costante del personale medico e tenevano bloccate le
macchine necessarie per mantenerne le funzioni vitali.
In quello stato, poi, il malato soffriva sempre di un
generale abbassamento delle difese immunitarie, con
complicazioni infettive secondarie. Ma questo faceva
parte del suo lavoro.
Enrico Brolli aveva scelto quel mestiere e quella
specializzazione sapendo bene a che cosa andava incontro.
Suo padre era anche lui medico. Quello su cui
Brolli non si era fermato troppo a riflettere, per tutti i
sei anni dell'università, era che dopo bisognava parlare
ai familiari del paziente.
Oramai andava per i sessanta e aveva tre figli grandi
(Francesco, il più piccolo, aveva deciso di iscriversi
a Medicina) e non gli era cresciuto ancora il famoso
pelo sullo stomaco per spiattellare la cruda verità, ma
non era bravo nemmeno a indorare la pillola. Quando
ci provava cominciava a balbettare, si confondeva ed
era molto peggio.
Dopo più di trent'anni di carriera non era cambiato
un accidente. Ogni volta che doveva dare brutte notizie
ai familiari del paziente si sentiva morire nello stesso
identico modo. Ma quella mattina lo aspettava un compito
ancora più ingrato. Spiegare a un ragazzino di tredici
anni, solo al mondo, che suo padre era in coma.
Sbirciò nella sala d'aspetto deserta.
Il ragazzo era mezzo addormentato su una sedia
di plastica. La testa poggiata contro il distributore di
bibite. Lo sguardo fisso sul pavimento.
No! No, io non ce la faccio... Brolli girò su se stesso e
si avviò a passo spedito verso gli ascensori. Glielo dice
Cammarano. Cammarano è giovane e deciso.
Ma si fermò e guardò fuori dalla finestra. Centinaia
di stormi dipingevano un imbuto nero che si allungava
sulle nuvole bianche.
Si fece coraggio ed entrò nella sala d'aspetto.
187.
Beppe Trecca si risvegliò urlando: «Il voto!». Cominciò
ad ansimare come se qualcuno gli avesse tenuto
la testa premuta sott'acqua. Con gli occhi infuocati
dalla febbre si guardò intorno smarrito. Ci mise qualche
secondo a capire che era a casa, nel suo letto.
Rivide la faccia di un africano bruttissimo che lo
fissava attraverso il lunotto posteriore della Puma,
mostrandogli un pacco di calzini di spugna bianca.
Che incubo che ho fatto!
L'assistente sociale sollevò la testa dal cuscino. La
luce del giorno filtrava attraverso le serrande. Era
completamente zuppo di sudore e il piumino d'oca
gli pesava addosso come se fosse sepolto sotto un
quintale di terra. Aveva ancora in bocca il sapore
schifoso della vodka al melone. Allungò un braccio e
accese l'abat-jour sul tavolino. Strizzò gli occhi e li
sentì bruciare.
Ho la febbre.
Si tirò su. La stanza prese a girare. Gli scorrevano
davanti, presi in un vortice, Foppe la cassettiera Ikea,
il televisorino Mivar, il poster di una spiaggia tropicale,
la libreriola zeppa di Garzantine e della Biblioteca
del Sapere, il tavolo, un pacco di calzini di spugna
bianca, la cornice d'argento con la foto della
madre, la...
Un pacco di calzini?!
Trecca fece un rutto acido e rimase a fissarli, con il
corpo irrigidito sotto il piumino. Rivide tutta la notte
come in un film. Il camper, Ida, il sesso, la banana,
Rod Stewart, lui sotto la pioggia accanto al cadavere
dell'africano morto e...
Beppe Trecca si diede una manata sulla fronte bollente.
... Il voto!
Dio, ti prego... Ti giuro che se gli salvi la vita rinuncerò
a tutto... Io rinuncerò all'unica cosa bella della mia vita...
Se tu lo salvi io ti prometto che rinuncerò a Ida. Non la rivedrò,
non ci parlerò mai più. Te lo giuro.
Aveva chiesto a Dio e Dio aveva dato.
Quell'africano era tornato dal mondo dei morti
grazie alla sua preghiera. Beppe Trecca, quella notte,
era stato testimone di un miracolo.
Prese la Bibbia che teneva sul comodino e cominciò
a sfogliarla rapidamente. E lesse facendo fatica a
mettere a fuoco le parole:
... Tolsero dunque la pietra. Gesù allora alzò gli occhi
e disse: «Padre, ti ringrazio che mi hai ascoltato.
Io sapevo che sempre mi dai ascolto, ma l'ho detto
per la gente che mi sta attorno, perché credano che
tu mi hai mandato». E, detto questo, gridò a gran
voce: «Lazzaro, vieni fuori!». Il morto uscì, con i piedi
e le mani avvolti in bende, e il volto coperto da un
sudario. Gesù disse loro: «Scioglietelo e lasciatelo
andare».
Uguale!
Ma a che costo?
Rinuncerò a Ida.
Così aveva detto. E quindi...
E quindi non la rivedrò più. Ho fatto un voto.
La testa gli ricadde giù pesante e gli sembrò di essere
risucchiato di nuovo nel buco nero.
Aveva dato via il proprio cuore in cambio di una
vita.
Io rinuncerò all'unica cosa bella della mia vita...
Con una smorfia di terrore appiccicata alla faccia
strinse nei pugni il lenzuolo, mentre il panico lo sgretolava
come fa l'onda con un castello di sabbia.
188.
Sulla porta della sala d'aspetto un medico alto e secco
lo guardava.
A chi assomiglia?
Cristiano Zena ci mise qualche secondo, poi gli
venne. Era identico a Bernardo, l'avvoltoio di Braccio
di Ferro.
Dopo essersi schiarito la voce, il medico si decise:
«Sei tu Cristiano, il figlio di Rino Zena?».
Gli fece segno di sì.
Il professore si sedette tutto curvo su una sedia di
plastica di fronte a lui.
Aveva le gambe più lunghe di quelle di Quattro
Formaggi, e Cristiano notò che aveva i calzini diversi
fra loro. Erano tutti e due blu, ma uno era liscio e l'altro
a coste.
Sentì per quel tipo un istintivo moto di simpatia
che represse subito.
«Sono Enrico Brolli, il chirurgo che ha operato
tuo padre e...» Lasciò la frase così e si mise a leggere
una cartellina che teneva in mano grattandosi la
nuca.
Cristiano si alzò in piedi: «È morto. Non ci stare a
girare tanto intorno».
Il medico lo guardò con la sua piccola testa piegata
un po' di lato, come alle volte fanno certi cani. «Chi ti
ha detto che è morto?»
«Non mi metto a piangere. Dimmelo e basta, così
me ne vado.»
Brolli scattò su e gli poggiò una mano sulla spalla.
«Vieni. Andiamo da lui.»
189.
Quattro Formaggi, sotto la doccia, sollevò le braccia
verso l'alto, poi le riabbassò e si guardò le mani.
Quelle mani avevano preso una pietra e avevano
sfondato la testa a una donna.
L'acqua bollente della doccia divenne pioggia gelata
e sentì sulla punta dei polpastrelli la superficie rugosa
della pietra e la consistenza spugnosa del muschio
e risentì la vibrazione al contatto della fronte di
quella...
Ebbe una vertigine, finì contro le mattonelle e si lasciò
scivolare giù come uno straccio bagnato.
190.
Rino Zena era steso su un letto con un turbante di
garze bianche avvolto intorno alla testa. Una lampada
sopra la spalliera formava un tenue ovale luminoso e
il volto sereno sembrava sospeso sul cuscino come
quello di uno spettro. Il resto del corpo era nascosto
sotto un lenzuolo verdino. Intorno c'era un anfiteatro
di monitor e apparecchiature elettroniche che emettevano
luci e bip.
Cristiano Zena ed Enrico Brolli erano in piedi a un
paio di metri dal letto.
«Dorme?»
Il medico scosse la testa: «No. È in coma».
«Ma sta russando?!»
Brolli si lasciò sfuggire un sorriso. «A volte succede
che le persone in coma russino.»
«È in coma?» Cristiano si girò per un secondo a
guardarlo come se non avesse capito.
«Avvicinati, se vuoi.»
Lo vide fare due passi in avanti, incerto, come se lì
ci fosse un leone anestetizzato. E poi stringere la testiera
del letto. «E quando si risveglierà?»
«Non lo so. Ma di solito ci vogliono almeno un
paio di settimane.»
Rimasero in silenzio.
Sembrava che il ragazzo non avesse sentito. Rigido,
attaccato a quella testiera come se avesse paura di
cadere. Brolli non sapeva come spiegargli la situazione.
Gli si avvicinò. «Tuo padre aveva un aneurisma.
Probabilmente da quando è nato.»
«Cos'è un... ane...?» domandò Cristiano senza girarsi.
«L'aneurisma è la piccola dilatazione di un'arteria.
Una specie di sacchetta piena di sangue che non è
elastica come gli altri vasi e con il tempo si può rompere.
A tuo padre si è rotta ieri notte e il sangue è entrato
nella zona sub... insomma tra il cervello e la scatola
cranica, ed è penetrato nel cervello.»
«E allora cosa succede?»
«Che il sangue comprime il cervello e crea uno
squilibrio chimico...»
«E cosa gli avete fatto?»
«Abbiamo tolto il sangue e chiuso l'arteria.»
«E adesso?»
«È in coma.»
«In coma...» ripeté Cristiano.
Brolli fece per allungare una mano e mettergliela
sulla spalla. Ma ci ripensò. Quel ragazzo non sembrava
volere conforto. Aveva gli occhi asciutti ed era stremato.
«Tuo padre non può svegliarsi. Sembra che dorma,
ma non è così. Per fortuna riesce a respirare da
solo e non deve essere aiutato da una macchina. Quella
bottiglia appesa all'incontrano» indicò la flebo accanto
al letto «serve per alimentarlo, poi gli metteremo
un tubicino che gli porta il cibo direttamente nello
stomaco. Il suo cervello ha subito un danno molto serio
e adesso è impegnato con ogni risorsa a ripararsi.
Tutte le altre funzioni, come mangiare, bere, parlare
sono state sospese. Per il momento...»
«Ma la vena si è rotta perché ha fatto qualcosa di
strano?» A Cristiano la voce uscì stridula.
Il medico sollevò un sopracciglio. «In che senso
qualcosa di strano?»
«Non lo so...» Il ragazzo rimase in silenzio, ma poi
aggiunse: «Io l'ho trovato così...».
Chissà, forse quella sera aveva fatto arrabbiare il
padre e adesso si sentiva responsabile. Brolli cercò di
tranquillizzarlo. «Poteva anche dormire, quando è
scoppiata l'emorragia. Aveva un aneurisma abbastanza
esteso. Si è mai fatto visitare? Gli hanno mai
fatto una tac?»
Il ragazzo scosse il capo: «No. Odiava i medici».
Brolli alzò il volume della voce: «Non parlare al
passato. Non è morto. È vivo. Il suo cuore batte ancora,
il sangue gli circola nelle vene».
«Se gli parlo mi sente?»
Il medico fece un sospiro. «Non credo. Fino a che
non darà qualche segno di ripresa di coscienza come
aprire gli occhi... non credo, onestamente, che ti sentirà.
Ma forse non è così... Sai, è un mistero anche per
noi. Comunque, se ti va di parlarci ci puoi parlare.»
Il ragazzo alzò le spalle. «Ora non mi va di parlarci.»
Brolli andò alla finestra. Vide la macchina di sua
moglie ferma sulla strada. Sapeva perché Cristiano
non voleva parlare con suo padre. Si sentiva abbandonato.
Il dottor Davide Brolli, il padre di Enrico Brolli, per
tutta la vita si era svegliato alle sette. Puntuale, mezzora
dopo prendeva il caffè. Alle otto in punto usciva
di casa, scendeva una rampa di scale e andava nello
studio dove riceveva fino all'una meno cinque. All'una
era a casa per l'inizio del telegiornale. Mangiava
da solo davanti alla televisione. Dall'una e mezzo alle
due e dieci riposava. Alle due e dieci tornava in studio.
Rientrava a casa alle otto. Mangiava e controllava
i compiti ai figli. Alle nove se ne andava a dormire.
Questo succedeva tutti i giorni dell'anno, esclusa
la domenica. La domenica andava a messa, comprava
le paste e ascoltava le partite alla radio.
Qualche volta, quando aveva un dubbio su un tema
o una versione dal latino, il piccolo Enrico usciva
di casa con il quaderno in mano e andava giù allo
studio del padre.
Per raggiungerlo era costretto a farsi largo nel corridoio
pieno di bambini frignanti, di carrozzine e
mamme. Odiava tutti quei marmocchi perché suo padre
li considerava figli propri. Spesso gli aveva sentito
dire: «È come se fosse figlio mio».
Ed Enrico non riusciva a capire se suo padre lo
trattasse come quei bambini o se trattasse quei bambini
come lui.
Quando Enrico compì tredici anni Davide Brolli
cominciò a portarlo con sé per le visite notturne. Lo
tirava giù dal letto a qualsiasi ora e lo portava su una
Giulietta blu per la campagna buia alla ricerca di una
cascina dove c'era un bambino con la febbre. Lui stava
dietro avvolto in una coperta e dormiva.
Quando arrivavano, suo padre scendeva con la
borsa nera e lui restava in macchina. Se finivano dopo
le cinque si fermavano al panificio e mangiavano
una brioche calda, appena sfornata.
Si sedevano, mentre la notte si scioglieva nel giorno,
su una panchina di legno proprio accanto alla
porta del panificio. Dentro era pieno di uomini coperti
di farina che trasportavano enormi teglie piene
di pane e dolci.
«Com'è?» gli chiedeva il padre.
«Buona.»
«Qui le fanno speciali.» E gli faceva una carezza
sulla testa.
Ancora oggi Enrico Brolli continuava a domandarsi
perché suo padre lo portasse con sé la notte. Per
anni aveva desiderato chiederglielo, ma non ne aveva
mai avuto il coraggio. E adesso che si sentiva
pronto a domandarglielo suo padre non c'era più.
Forse per le brioche. Gli altri suoi figli le brioche non le
mangiavano.
Suo padre era morto da quasi dieci anni. Il suo intestino
era stato divorato dal cancro. Negli ultimi
giorni di vita non poteva parlare quasi più ed era
strafatto di morfina. Con una penna continuava a
scrivere ricette sul lenzuolo. Ricette di farmaci contro
l'influenza, la scarlattina, la diarrea.
Due giorni prima di andarsene, in un flebile momento
di lucidità, il pediatra aveva guardato suo figlio,
gli aveva stretto forte il polso e aveva sussurrato:
«Dio si accanisce sui più deboli. Tu sei medico e
questo lo devi sapere. È importante, Enrico. Il male è
attratto dai più poveri e dai più deboli. Quando Dio
colpisce, colpisce il più debole».
Enrico Brolli guardò il ragazzino che stava accanto
al padre, scosse la testa e uscì dalla stanza.
191.
Beppe Trecca, seduto al tavolo del soggiorno con il
termometro sotto l'ascella, prese un sorso di Vicks
MediNait che non gli levò dalla bocca il sapore della
vodka al melone. Fece una smorfia disgustata e osservò
accigliato il suo cellulare Nokia poggiato di
fronte a lui. Sul display c'era una bustina con accanto
scritto: ida.
Posso leggerlo?
Aveva promesso al Padreterno di non parlarci e
non vederla, quindi, teoricamente, leggere un sms
non avrebbe rotto il suo voto. Ma era meglio non farlo.
Doveva mettersi in testa che Ida Lo Vino era un
capitolo chiuso della sua esistenza, dimenticarla e disintossicarsi
da quell'amore.
Come un drogato.
Un'astinenza secca. E forse sarebbe passata.
Avrebbe sofferto come un cane. Ma quella sofferenza
era la moneta con cui ripagava il suo debito
con il Signore.
E questa sofferenza mi farà diventare un uomo migliore.
S'immaginò di essere una specie di eroe del cinema
che commetteva un delitto e attraverso un voto
con Dio diventava un uomo di pace, un essere superiore
che donava se stesso ai poveri e ai maltrattati.
C'era un film con Robert De Niro...
Non ricordava il titolo, ma era la storia di un cavaliere
che uccideva un innocente. Dopo si pentiva, e
come penitenza si trascinava le armi e l'armatura, attaccate
a una corda, attraverso le foreste del Brasile e
su per una montagna altissima e poi diventava un
prete che aiutava gli indios.
Anche lui doveva fare così.
Afferrò il telefonino, girò la testa, allungò il braccio
come se dovessero amputarglielo e digrignando i
denti cancellò Ida Lo Vino dalla sua vita.
192.
«Sono io. Cristiano. Papà, ascoltami! Sono vicino a te.
Ti tengo la mano. Sei in ospedale. Hai avuto un incidente.
Il medico ha detto che sei in coma ma che tra
qualche settimana ti risveglierai. Adesso stai riparando
il tuo cervello perché hai avuto una cosa... Un'emorragia.
Non ti devi preoccupare. Al resto ho pensato
io. Nessuno scoprirà niente. Io in queste cose sono
bravo, lo sai. Quindi tu rimani buono a ripararti e
al resto ci penso io. Tu stai tranquillo. Ho provato a
chiamare Quattro Formaggi e Danilo, ma non mi rispondono.»
Cristiano osservò il volto di suo padre
cercando un movimento, un battito di ciglia, una
smorfia infinitesimale che gli facesse capire che lo
stava ascoltando. Si guardò intorno per controllare
ancora una volta che non ci fosse nessuno, tese un
braccio e con l'indice premette sull'occhio sinistro di
suo padre, prima piano, poi più forte. Niente. Non
reagiva. «Ascoltami. Io posso venire qui solo per poco
tempo ogni giorno. Quindi adesso me ne vado a
casa e torno domani.» Fece per alzarsi, ma poi ci ripensò.
Si avvicinò all'orecchio di suo padre e gli disse
a bassa voce: «Lo so che non puoi sentirmi, ma io
te lo dico lo stesso. Ho detto a tutti che sei entrato in
coma a casa mentre dormivi, così...» nessuno penserà
che sei stato tu.
Cristiano si mise una mano sulla bocca. Lo stomaco
gli si era rattrappito come una busta di plastica sottovuoto.
Tirò su con il naso e si stropicciò gli occhi per
non piangere. Si alzò e uscì dalla sala rianimazione.
193.
Quattro Formaggi era seduto di fronte al presepe.
Si era lavato per bene, si era infilato l'accappatoio e
poi si era messo in bocca tutte le medicine che aveva
trovato in casa: tre Aspirine, due Moment, una pasticca
di Tachipirina, una di Fave di Fuca e un AlkaSeltzer effervescente. Si era spalmato un intero tubetto
di Proctosedyl sul torace e la spalla.
Si sentiva meglio, solo che più osservava il presepe
che si stendeva da una parte all'altra della stanza più
si accorgeva di quanto tutto fosse sbagliato. Non sapeva
esattamente perché, ma era così. E non per colpa
dei soldatini, di tutte le statuine e le bambole, di tutte
le macchine, del piccolo Gesù Bambino incollato alla
mangiatoia. Aveva sbagliato il mondo. Le montagne. I
fiumi. I laghi. Tutti messi male, senza ordine e senza
senso.
Chiuse gli occhi ed ebbe la sensazione di levitare
dalla sedia. Vide un'immensa valle di terra rossa che
lambiva le pareti della stanza e montagne di pietre
altissime che si arrampicavano fino al soffitto. E fiumi.
Torrenti. Cascate.
E vide al centro della valle il corpo nudo di Ramona.
Un gigante morto. Il cadavere della ragazza circondato
dai soldatini, dai pastori, dalle macchinine. Sui
piccoli seni, ragni e iguane e pecore. Sui capezzoli
scuri, piccoli coccodrilli verdi. Tra i peli della fica dinosauri
e soldatini e pastori e dentro, dentro la caverna,
Gesù Bambino.
Gli sembrò di precipitare, spalancò gli occhi e si
aggrappò alla sedia con un gesto scomposto. Piegò
il braccio contuso ed ebbe la sensazione che una lama
rotante lo tranciasse in due. Cacciò un grido di
dolore.
Aspettò che la fitta passasse per alzarsi in piedi.
Ora sapeva cosa doveva fare.
Doveva tornare nel bosco, prendere il corpo della
biondina e metterlo nel presepe.
Era per questo che l'aveva uccisa.
E Dio lo avrebbe aiutato.
194.
Beppe Trecca teneva tra le mani il termometro.
Trentasette e mezzo. Sarà l'influenza. Queste cose non
vanno sottovalutate, se non le stronchi sul nascere te le
porti dietro per mesi.
Meglio prendersi un giorno di riposo. Così avrebbe
anche organizzato un piano strategico per rispettare
il voto. Doveva tenere staccato il telefonino, e
appena si fosse rimesso dall'influenza avrebbe cambiato
numero. Poi avrebbe dovuto smettere di coordinare
le riunioni in parrocchia. E anche al lavoro
evitare il più possibile Mario Lo Vino. Certo, Ida sapeva
dove viveva e quindi doveva pure cambiare casa.
Anche se in uno sputo di paese come quello ci si
può incontrare ovunque. Forse era più saggio affittarsi
una casa in un paesino nei dintorni ed evitare il
centro di Varrano.
Praticamente doveva vivere barricato in un bunker,
senza lavoro, senza amici. Un incubo.
Non ce la poteva fare. L'unica era andare via da
quel posto.
Per un po'.
Il tempo sufficiente a far capire a Ida che il Beppe
Trecca di prima, quello che le aveva detto che se la
sarebbe presa anche con i figli, non esisteva più. Era
stato il miraggio di una notte.
Lontano fino a quando non mi odierà.
Quella era la cosa peggiore di tutte. Peggio della
sofferenza di non vederla più.
Ida avrebbe pensato che lui era una merda, un essere
spregevole. Un individuo schifoso che la disonorava
in un camper, faceva mille promesse e poi scappava
via come l'ultimo dei codardi.
Se almeno potessi spiegarle la verità.
Forse doveva confessare tutto a sua cugina Luisa e
chiederle di dirlo a Ida. Questo almeno avrebbe alleviato
un po' il dolore. E Ida, che era una donna sensibile
e devota, avrebbe certamente capito e, in silenzio,
lo avrebbe amato e stimato per il resto dei suoi
giorni.
No, non poteva. Il valore di quel voto del cazzo
stava proprio lì, in quella pena. Essere scambiato per
un mostro e non poter fare niente per potersi discolpare.
Eliminando quella sofferenza avrebbe rotto la
promessa.
E poi se diceva a Luisa del miracolo doveva anche
parlarle del camper.
No, non esiste. Suo marito mi ammazza.
Il cellulare attaccò a squillare.
L'assistente sociale terrorizzato guardò verso l'apparecchio
che vibrava sul tavolo.
Non l'ho spento.
È lei.
Il cuore cominciò a sbattergli dentro la gabbia toracica
come un canarino che ha visto un gatto. Spalancò
la bocca e provò a inghiottire aria. Fu attraversato
da una vampata di calore. E non era la febbre,
ma la passione che lo bruciava. Il solo pensiero di poter
sentire quella voce dolce gli faceva girare la testa e
tutto il resto non aveva più senso.
Ida, ti amo!
Avrebbe voluto spalancare la finestra e urlarlo al
mondo. Ma non poteva.
Maledetto africano.
Si mise le mani sulla faccia e attraverso lo spazio
tra le dita guardò il display del cellulare. Non era il
numero di Ida. Nemmeno quello di casa. E se lo stava
chiamando da un altro telefono?
Rimase un momento indeciso, ma poi rispose:
«Sì?! Chi è?».
«Buongiorno. Sono l'appuntato Mastrocola, chiamo
dalla stazione dei carabinieri di Varrano. Vorrei
parlare con Trecca Giuseppe.»
Hanno scoperto il camper!
Beppe deglutì e bisbigliò: «Mi dica».
«Lei si occupa di...» Silenzio. «... Zena Cristiano?»
Per un attimo quel nome non gli disse niente. Poi
ricordò. «Sì. Certo. Me ne occupo io.»
«Avremmo bisogno di lei. Il padre ha avuto un
grave incidente e adesso è ricoverato all'ospedale del
Sacro Cuore di San Rocco. Il figlio è lì, potrebbe raggiungerlo?»
«Ma che è successo?»
«Non glielo so dire. Ci hanno avvertito dall'ospedale
e noi abbiamo chiamato lei. Ma lei può andare?
Pare che il minore non abbia altri familiari oltre al
padre.»
«È che io... avrei un po' di febbre.» Poi disse: «Non
importa. Vado subito».
«Bene. Passa dai nostri uffici per i documenti del
caso?»
«Certo. Arrivederci. E grazie...» Beppe chiuse la conversazione
e rimase fermo ad assorbire la notizia.
Non poteva lasciare quel poveraccio da solo.
Si prese due Aspirine e cominciò a vestirsi.
195.
Se Fabiana Ponticelli non avesse deciso di passare
per il bosco di San Rocco avrebbe dovuto fare un giro
lungo e tortuoso per tornare a Giardino Fiorito, il
comprensorio in cui aveva vissuto per quattordici anni
insieme alla sua famiglia.
Da Varrano distava quasi sei chilometri. Bisognava
prendere la tangenziale, poi imboccare la strada provinciale
per Marzio e dopo un paio di chilometri
svoltare a sinistra in direzione della superstrada. Fatti
altri due chilometri tra capannoni, fabbriche e rivendite
di prodotti edili, a un tratto ti appariva davanti,
cinta da mura come una rocca medievale,
l'esclusiva comunità di Giardino Fiorito.
Duecento villette (ranchos) costruite agli inizi degli
anni Novanta in un imprevedibile stile messicanmediterraneo dal noto architetto Massimiliano Malerba.
Infissi azzurri, forme tondeggianti e intonaci
color terra che ricordavano vagamente gli adobe indiani.
Mezzo ettaro di giardino per ogni lotto. In più
uno spaccio e un circolo con tre campi da tennis e piscina
olimpionica. Tre ingressi sorvegliati ventiquattro
ore su ventiquattro da guardie private in divisa
blu. E fari alogeni lungo tutto il tracciato delle mura
di cinta.
Gli altezzosi abitanti del comprensorio non erano
molto amati dalla gente che gli abitava accanto.
Giardino Fiorito era stato ribattezzato "fuga da
New York" facendo riferimento al film di John
Carpenter in cui la Grande Mela, divisa dal mondo da
enormi bastioni di cemento, era diventata un carcere
di massima sicurezza dove buttavano tutti i criminali
d'America.
Fino al giorno prima, proprio accanto al rancho 36
di proprietà della famiglia Ponticelli, tendeva i suoi
rami verso l'infinito un'enorme quercia alta più di
venti metri. Il suo ombrello verde copriva gran parte
di via dei Ciclamini. Il tronco era così largo che ci volevano
tre persone per abbracciarlo.
L'albero stava lì da quando c'erano solo paludi abitate
da serpenti e zanzare. Aveva superato indenne i
disboscamenti, le bonifiche, era sopravvissuto alla
morsa di cemento del villaggio, ma non al phytophotra
ramorum, un fungo parassita di origine canadese
che gli aveva colonizzato il tronco come una carie,
trasformando il legno da compatto in una roba spugnosa
e inconsistente.
Quella notte la tempesta aveva dato il colpo di grazia
alla pianta secolare che si era abbattuta con tutta
la sua mole sul garage dei Ponticelli.
Probabilmente se la micosi non avesse infettato le
fibre del vegetale la quercia avrebbe resistito, come
aveva sempre fatto, alla bufera e non avrebbe ridotto
il garage a un ammasso di macerie e Alessio Ponticelli
avrebbe scoperto subito che sua figlia Fabiana quella
notte non era tornata a dormire.
Il padre di Fabiana era un perfetto rappresentante
della comunità di Giardino Fiorito. Imprenditore di
bell'aspetto. Un metro e ottanta d'altezza. Quarantadue
anni. Capelli brizzolati e dentatura candida.
Sposato con Paoletta Nardelli, ex Miss Eleganza
Trentino '87. Buon padre di famiglia. Frequentava il
club e detestava la politica. E, cosa più importante, i
suoi soldi erano puliti e odoravano di sudore. Li aveva
fatti mettendo su dal niente la Goldgarden, un'azienda
di prodotti per il giardino, con un catalogo
che spaziava dai gazebo in alluminio alle fontane in
cemento armato.
La notte della morte di sua figlia, Alessio Ponticelli
era rimasto bloccato a Brindisi. Il volo che doveva riportarlo
a casa era stato cancellato per le cattive condizioni
atmosferiche.
Aveva avvertito la moglie, si era mangiato una pizza
troppo salata e aveva dormito al Western Hotel.
Con il primo aereo della mattina era tornato a casa.
Per riuscire ad arrivare a Giardino Fiorito ci aveva
messo quasi due ore. Avevano deviato la strada fino
a Centuri. Il ponte Sarca era stato danneggiato dalla
piena e la statale invasa dalle acque del fiume.
Quando Alessio Ponticelli fermò il suv bmw davanti
a casa pensò di aver sbagliato rancho. Di fronte
alla loro villa era cresciuta una giungla verde. Ci mise
un po' a comprendere che quelle erano le fronde
della grande quercia.
Scese dalla macchina con la sensazione che la terra
gli incollasse le suole delle scarpe e si fece spazio tra
le foglie e i rami e con orrore vide che del suo garage
non restavano che macerie. Gli cadde di mano la cartella
della Bottega Veneta e inquadrò la Jaguar che
sembrava una piadina emiliana, i resti del tavolo da
ping-pong e il trattorino John Deere, che non aveva
nemmeno cominciato a pagare, ridotto a un ammasso
di lamiere contorte.
Rimase dov'era, ghiacciato. C'era un silenzio innaturale.
Poi si voltò e si accorse che Renato Barretta, il
proprietario del rancho 35, avanzava verso di lui.
Stringeva in mano un rastrello come fosse un'alabarda
e addosso aveva una tuta da ginnastica e un piumino
grigio. Gli si avvicinò scuotendo la testa: «Che
botto! Quando l'ho visto stamattina mi è preso un
colpo». E poi, tutto fiero: «Ho già chiamato la direzione
e i pompieri, tranquillo. Per fortuna che non c'era
nessuno in casa...».
Alessio guardò la villetta. Almeno quella era stata
risparmiata. Le persiane della finestra della sua camera
da letto erano chiuse.
Sta dormendo.
Di sicuro sua moglie stava ancora dormendo strafatta
di sonniferi e con i tappi nelle orecchie. Non si
era accorta di nulla.
Ma almeno Fabiana deve averlo sentito.
196.
Quattro Formaggi, in sella al Boxer, saliva di nuovo i
tornanti del bosco di San Rocco.
Un fuoco gli ardeva nella spalla. E ogni buca che
prendeva era uno strazio. Ma anche quello era un segno
che Dio era con lui.
Proprio come i fori nelle mani di Padre Pio.
Attraverso il casco sentiva i passeri che cinguettavano
impazziti.
Il sole, che si era fatto spazio in mezzo alle nuvole,
infilava i raggi tra la vegetazione chiazzando il terreno
di macchie luminose. In alto, sui rami, le foglie bagnate
brillavano come diamanti. Durante la notte la
pioggia aveva scavato nella terra ruscelli che continuavano
ancora a versare fango sulla strada.
Quattro Formaggi non aveva nessun piano per riportarsi
a casa il corpo della ragazza. Non poteva
prendere il cadavere e caricarlo sul motorino. Ma Dio
gli avrebbe detto come fare.
Era eccitato. Tra poco avrebbe rivisto Ramona e
l'avrebbe potuta toccare e guardare meglio. Temeva
che il colpo che le aveva dato con la pietra l'avesse
sfigurata. Ma avrebbe trovato un rimedio anche a
questo.
Si fermò nella piazzola di sosta e scese dal motorino.
Si tolse il casco. E si riempì i polmoni di quell'aria
fresca e umida.
Passò una macchina...
Attento!
... e lui si voltò di spalle per non farsi riconoscere.
Se la polizia lo avesse preso sarebbe finito in galera
per il resto dei suoi giorni. L'idea lo terrorizzava. Lì
dentro era pieno di gente cattiva. Arrivò al bordo della
strada, stava per poggiare un piede sulla terra ma
rimase con la gamba sospesa in aria.
Qualcosa non gli tornava.
Il furgone... Dov'è finito il furgone?
Tornò indietro smarrito e si guardò attorno. Il posto
era quello... Ne era sicuro.
Sentì la pelle ghiacciarsi e una mano gelata afferrargli
lo scroto.
Si lanciò nel bosco. Fece una decina di metri e cominciò
a prendersi a pugni la gamba. Prese a girare
su se stesso incredulo.
Il cadavere di Rino non c'era, e nemmeno quello di
Ramona.
Dove sono?
Nel panico tornò indietro, poi corse avanti...
Forse un po' più in là.
Facendosi spazio tra i rovi prese a muoversi in tondo,
a superare tronchi marci, a scalare pietre, a vagare
impazzito per il bosco mentre tutto si sfocava in
macchie di luce e ombra.
No... Non potete farmi questo... Non potete.
197.
Alla guida della sua Puma, Beppe Trecca osservava
la statale che si srotolava tra i campi allagati come
una striscia di liquirizia. Si accodò a un tir che trasportava
giganteschi tubi di cemento. Girò lo sguardo
verso Cristiano Zena, che gli dormiva accanto con
il cappuccio sulla testa.
Poveretto.
Trecca lo aveva trovato all'ospedale, disorientato e
apatico, come se suo padre fosse già morto. Non riusciva
quasi a camminare dritto e lo aveva dovuto sostenere
per scendere la scalinata. Appena salito in
macchina era crollato addormentato.
Il dottore aveva spiegato all'assistente sociale che
Rino Zena era in prognosi riservata e che non si potevano
fare previsioni su come e quando sarebbe uscito
dal coma. Ma se anche si fosse risvegliato in breve
tempo, senza nessun danno, avrebbe dovuto comunque
sottoporsi a un periodo di riabilitazione per riprendersi
completamente.
Passeranno come minimo sei mesi. E chi si occuperà di
questo disgraziato?
Mise la freccia e superò il camion.
Cristiano non aveva neanche una madre e certo
quei due balordi degli amici di Rino non erano in
grado di occuparsi di lui.
Beppe sapeva di dover chiamare il giudice minorile
per fargli presente la situazione. Ma quello, figurarsi,
avrebbe subito spedito Cristiano in qualche casafamiglia o in un istituto.
Posso aspettare un paio di giorni. Giusto il tempo di vedere
cosa succede a Rino. E così Cristiano potrà stare accanto
a suo padre.
Beppe poteva trasferirsi a casa loro.
Gli si accese lo sguardo.
Sono un genio! Lì Ida non mi troverà mai.
In sottofondo la radio trasmetteva un motivo che
conosceva. Alzò appena il volume. Una voce roca
cantava: «Maybe tomorrow l'11 find my way home...».
Forse domani troverò la mia strada verso casa.
Sì, forse l'avrebbe trovata.
198.
E se invece si era sognato tutto? E se Ramona non era
mai esistita? O esisteva solo nel film?
Allora quei dolori, quei lividi, la ferita alla spalla
che cos'erano?
Perché non c'erano più i corpi di Rino e Ramona?
Qualcuno se li è fregati.
«Che cosa ve ne fate, figli di puttana? Ditemelo.
Cosa ve ne fate?» Quattro Formaggi in ginocchio
piangeva e dava pugni a terra. Poi, come l'attrice di
una soap opera scadente, sollevò la testa verso l'intreccio
dei rami neri che imprigionava il cielo e si rivolse
direttamente al Padreterno: «Dove li hai messi?
Dimmelo. Ti prego... Dimmi almeno se era vero. Non
puoi farmi questo... Sei stato tu ad aiutarmi». La testa
gli cadde giù e cominciò a singhiozzare. «Non è giusto...
Non è giusto...»
(Hai l'anello.)
Si rivide mentre sfilava dalla mano di Ramona l'anello
d'argento con il teschio, e poi...
L'ho ingoiato. Sono entrato in casa e l'ho ingoiato.
Si mise le mani sulla pancia. Era lì dentro. Lo sentiva
bruciare dentro di sé come un tizzone ardente.
(Vai a casa.)
Corse fuori dal bosco zoppicando, prese il Boxer e
partì in una nuvola di fumo.
Se solo fosse stato un po' più calmo, se solo si fosse
fermato a ragionare, si sarebbe ricordato che il motorino
di Fabiana Ponticelli era abbandonato dietro la
cabina dell'Enel.
199.
Al commissariato un poliziotto spiegò ad Alessio
Ponticelli che, prima di sporgere una denuncia di
scomparsa, era prassi aspettare almeno ventiquattro
ore. Soprattutto nel caso di un'adolescente.
Ogni anno si avviano circa tremila ricerche di minori
scomparsi, ma l'ottanta per cento si concludono
dopo poche ore con il ritorno a casa del ragazzo.
Il poliziotto cominciò a fargli una sfilza di domande:
se ci fossero problemi in famiglia, se la ragazza
avesse un fidanzato, se frequentasse strane compagnie,
se avesse mai espresso la volontà di fare un
viaggio, se fosse ribelle, se si drogasse e se si fosse allontanata
da casa altre volte.
A tutte queste domande Alessio Ponticelli rispose
no, no e ancora no.
Da poco la polizia aveva anche una psicologa di
supporto che in questi casi era veramente utile e se
lui voleva...
Alessio Ponticelli uscì di corsa dal commissariato e
cominciò a battere la strada che da casa di Esmeralda
Guerra portava fino a Giardino Fiorito.
Fece prima il giro lungo, seguendo la tangenziale.
Avanzava a venti chilometri all'ora continuando a
bestemmiare e a ripetere: «Maledetto il giorno che le
ho comprato il motorino. Tutta colpa mia. Era stata
anche bocciata!». Poi, come parlando con sua moglie:
«Tutta colpa tua che hai insistito per comprarglielo...».
Non riusciva a credere che quella povera scema si
fosse imbottita di psicofarmaci e se ne fosse andata a
letto senza aspettare che Fabiana tornasse a casa. Di
questi tempi poi, c'erano solo marocchini e albanesi
che stupravano le ragazzine a ogni angolo della strada.
E c'erano anche i rapimenti.
«Ma questa me la paghi, quanto è vero Iddio...»
Aveva lasciato sua moglie a casa per aspettare un'eventuale
telefonata.
Decise di fare un tentativo per la strada che passava
attraverso il bosco di San Rocco. Anche se era assurdo
che sua figlia l'avesse presa. Le aveva detto
mille volte di non farla.
Salì per i tornanti. Attraversò il bosco e arrivò dall'altra
parte. Ma decise di tornare indietro. Parcheggiò
la BMW in uno slargo dove c'era una cabina dell'Enel
e scese dalla macchina.
Per il resto dei suoi giorni Alessio Ponticelli si chiese
cosa l'avesse spinto a fermarsi proprio lì, senza riuscire
a darsi una risposta. Secondo alcune ricerche
americane certi animali sono in grado di avvertire l'odore
del dolore. Il dolore ha un odore proprio, forte e
pungente, come i feromoni degli insetti. Un puzzo
che rimane attaccato alle cose per un sacco di tempo.
E forse lui, in qualche modo, aveva sentito la sofferenza
che la figlia aveva provato prima di andarsene.
Fatto sta che quando Alessio Ponticelli vide il motorino
di sua figlia buttato dietro la cabina dell'Enel
qualcosa dentro di lui si seccò e morì. Ed ebbe la certezza
che Fabiana non facesse più parte di questo
mondo.
Ascoltò l'ansare scomposto del proprio respiro. L'universo
si ridusse a una serie di pensieri sconnessi su
cui calò il dolore che lo avrebbe accompagnato, come
un cane fedele, per il resto dei suoi giorni.
200.
Quattro Formaggi si sedette sul cesso e scaricò, con
una serie di tuoni e risucchi, uno spruzzo di diarrea
fetida. Poi, con pena e felicità, avvertì una roba dura
come una pietra attraversargli il retto.
Eccolo!
Cominciò a strizzarsi tutto e a sbuffare come se
stesse partorendo e alla fine cacciò fuori qualcosa che
cadde con un tin contro la porcellana.
Si alzò e guardò nella tazza.
Le pareti erano incrostate di calcare e di una melma
scura. Sotto, i liquami neri come catrame riflettevano
la sua faccia pallida.
La lampadina che pendeva nuda dal soffitto, alle
sue spalle, gli creava intorno alla testa un alone luminoso
come quello di un santo in un dipinto della
chiesa.
Immerse la mano nella sua merda e la ritirò fuori
stretta in un pugno. La mise sotto il rubinetto e finalmente
aprì le dita.
Un grosso anello argentato con un teschio era al
centro del suo palmo. Soddisfatto cominciò a sciacquarlo.
«Eccolo qui. Lo vedi? Lo vedi che non mi sbagliavo?
L'ho uccisa e questa è la prova.»
Sorrise, aprì la bocca e se lo ringoiò.
Adesso bisognava scoprire cosa era successo ai
corpi della biondina e di Rino.
201.
"Guarda che glielo posso domandare io, a tuo padre. Credi
che abbia paura? Sai quanto ci metto?" Così gli aveva
detto Fabiana al centro commerciale.
Era sabato. Quella notte lui e Rino erano andati a
cercare Tekken e poi erano tornati a casa. Domenica
erano stati tutto il giorno insieme.
Non hanno avuto il tempo di conoscersi.
... "Sai quanto ci metto?"
Se non ci metteva niente era perché già lo conosceva, ragionò
Cristiano.
Erano andati a scopare nel bosco perché non volevano
farsi beccare.
Con la pioggia? A quell'ora?
E poi lui aveva avuto l'emorragia ed era entrato in coma.
E lei...
Cristiano si strofinò i piedi uno contro l'altro. Il gelo
che aveva nelle ossa non se ne andava nonostante
la doccia bollente e lo strato di coperte sotto cui era
sepolto.
Trecca si era piazzato giù e guardava la televisione
a tutto volume. La tapparella rotta sbatteva mossa
dal vento e la sveglia continuava a lampeggiare. Tutto
era cambiato e quella stupida sveglia continuava a
segnare l'ora e quella tapparella a sbattere come se
non fosse successo niente.
Cristiano mise la testa sotto al cuscino.
E mio padre l'ha colpita in testa con la pietra.
Non riusciva proprio a capire perché.
Perché lei ha detto che l'avrebbe raccontato a tutti, che
lui se la scopava. Lei è minorenne. Hanno litigato e lui si è
arrabbiato e l'ha uccisa.
Era una stronzata. Non era possibile.
Ci deve essere un'altra ragione.
Cosa poteva essere successo perché suo padre arrivasse
a fare una cosa così brutta?
«Basta» fece abbracciandosi le gambe. «Ora devo
dormire. Non ci devo pensare.»
Chiuse gli occhi e si ricordò di un libro che aveva
trovato quando aveva dieci anni, poggiato sulla panchina
alla fermata dell'autobus. Era consumato e con
le pagine ingiallite come se fosse stato letto e riletto
per un milione di volte. Al centro di un'anonima copertina
grigia c'era il titolo in rosso: Maria si ribella.
La prima pagina era occupata da un'illustrazione
in bianco e nero. In mezzo c'era una bambina con dei
grandi occhiali tondi, le trecce e il grembiule da cui
spuntavano due gambe secche come stecchetti. A destra
un prete ciccione con i capelli tirati indietro, il
doppio mento e un righello tagliente in mano, a sinistra
una donnona con i capelli legati dietro la nuca e
il naso antipatico all'insù. La storia raccontava di
Maria, la ragazzina con gli occhiali, che era orfana (i
genitori ricchi erano morti in un incidente ferroviario)
e viveva in una villa inglese immensa (per andare
dalla cucina alla camera da letto doveva usare la
bicicletta) con la donnona cattivissima e il prete ciccione
che le faceva da maestro e la bacchettava appena
sbagliava una risposta. I due le fregavano tutti i
soldi dell'eredità ed erano oramai i padroni della villa
che cadeva a pezzi e ci pioveva dentro. Maria era
sola, senza nemmeno un cane per amico. Quando
quei due le lasciavano un po' di tempo, lei andava a
esplorare il giardino che si era trasformato in una
giungla.
Un giorno stava giocando in un tempietto avvolto
dalle rose selvatiche e dall'edera che era su un isolotto
al centro di un laghetto scuro. Aveva visto qualcosa
muoversi. Un topo, aveva pensato. Si era avvicinata
e aveva visto due omini e una donna piccolissima
che facevano pascolare una mucca alta due centimetri.
Erano dei Lilliput portati in Inghilterra da un certo
Gulliver di ritorno dai suoi viaggi nelle terre sconosciute.
Erano riusciti a scappare e vivevano in quel
tempietto in mezzo allo stagno.
Maria ne aveva acchiappato uno e lo aveva messo
dentro una scatola da scarpe. E con il tempo ne era
diventata amica.
Era un libro bellissimo. Cristiano lo teneva nascosto
in un armadio. In quel momento avrebbe desiderato
anche lui avere un Lilliput con cui parlare, se lo
sarebbe portato in una tasca della giacca...
Il cellulare di Rino cominciò a squillare.
Cristiano, che oramai era quasi addormentato, fece
un salto.
Chi era?
(Sono il dottor Brolli. Volevo dirti che tuo padre è morto.)
Si alzò dal letto, prese il cellulare dalla tasca dei
pantaloni. «Chi è?» Silenzio. «Chi è?»
«Rino...»
«Quattro Formaggi?! Che fine hai fatto? Non rispondevi
mai! Che ti è successo?! Mi hai fatto preoccupare.»
«Cristiano?»
«Perché non rispondevi? Ti ho chiamato un milione
di volte. Ma che hai fatto?»
«Io non ho fatto niente.»
«Ma ieri sera? Cos'è successo?»
«Sono stato male.»
Cristiano abbassò la voce: «E il colpo? Lo avete
fatto?».
«Io no. Io sono rimasto a casa... Rino?»
Doveva dirglielo nel modo giusto. Rino era il suo
unico vero amico. «Papà non sta tanto bene. Ha avuto
un'emorragia alla testa.»
«È grave?»
«Un po'. Ma tra un po' dovrebbe stare meglio.»
«E come gli è successo?»
Cristiano stava per raccontargli tutto quando si ricordò
che al telefono non bisogna mai parlare. Poteva
essere controllato. «Ieri notte. Stava dormendo e gli è
venuta sta cosa ed è entrato in coma. Adesso è all'ospedale
di San Rocco.»
Quattro Formaggi rimase zitto.
«Ohi, ci sei?»
«Sì.» Aveva la voce rotta. «Come sta adesso?»
Glielo ripeté. «È in coma. È come se dormisse ma
non può risvegliarsi.»
«E quando finisce?»
«Il medico dice che non lo sa. Forse tra una settimana,
forse tra due anni... Forse muore.»
«E tu adesso che fai?»
«Per ora sto qua.» Cristiano abbassò la voce a un
sussurro: «C'è Trecca! Si è piazzato qui».
«Trecca? L'assistente sociale?»
«Sì. È stato gentile. Ha detto che rimane qua una
settimana. Però noi possiamo vederci lo stesso.»
«Senti, si può andare a trovare Rino?»
«Sì. Solo a certe ore però. Perché non vieni qua anche
tu? Così ci andiamo insieme, da papà.»
«Non posso...»
«Dai, vieni.» Avrebbe voluto dirgli che aveva bisogno
di lui, ma come al solito se lo tenne per sé.
«Non sto bene, Cri. Domani?»
«Va bene. Tanto a scuola, questi giorni, non ci vado.»
«Ma come... come te ne sei accorto ieri sera di Rino?»
«Niente. Sono entrato in camera sua e l'ho trovato
in coma.»
Pausa, poi: «Ho capito. D'accordo. Allora ciao».
«A domani?»
«A domani.»
Cristiano stava per abbassare, ma non ce la faceva
proprio. «Quattro? Quattro Formaggi?»
«Sì, dimmi.»
«Senti, ho capito che se papà non si risveglia subito
mi mandano in un istituto. Non mi lasceranno mai qui
da solo. In caso...» Esitò. «... potrei venire a stare a casa
tua? Lo so che tu non vuoi che ci entri nessuno... Ma io
starei buono, mi dai un angolo e io mi abbatto. Lo sai
che sono tranquillo, giusto il tempo che papà...»
«Non credo. Sai cosa pensano di me.»
Una spira di dolore si avvolse intorno alla trachea
di Cristiano. «Sì, lo so. Sono delle merde. Tu non sei
pazzo. Tu sei la persona migliore del mondo. Potrei
andare da Danilo, allora?»
«Sì. Forse.»
«Ho provato a chiamarlo tantissimo, ma non risponde
né al cellulare né a casa. Tu l'hai sentito?»
«No.»
«Vabè. Allora ci vediamo domani.»
Ti devo dire un mucchio di cose.
«A domani.»
202.
Giovanni Pagani, un giovanotto alto e un po' a corto
di materia grigia, se ne stava seduto su un muretto
davanti all'ospedale del Sacro Cuore. Si era da poco
comprato la stessa giacca che aveva usato l'esploratore
canadese Jan Roche Bobois per attraversare le Ande
in deltaplano ed era parecchio soddisfatto della
perfetta tenuta del capo agli agenti atmosferici. Oltre
a questa considerazione di ordine pratico, rifletteva
su quali argomenti usare per convincere la sua fidanzata
ad abortire. Marta era dentro a ritirare l'esito del
test di gravidanza e lui era certo, al cento per cento,
che sarebbe risultato positivo visto l'intimo legame
che la sua esistenza aveva intrecciato con la sfiga negli
ultimi mesi.
Quindi nel cervello di Giovanni Pagani albergavano
due pensieri assai differenti. Ci stavano stretti come
due lottatori di sumo in una cabina telefonica, eppure
un altro pensiero riuscì a trovare un posticino.
Quel tipo che era sceso da un Boxer tutto scassato
sembrava fosse appena fuggito da un manicomio,
gettato di peso in un camion dei rifiuti e per finire in
bellezza picchiato da una banda di hooligan.
Giovanni lo vide liberare dal portapacchi un grosso
orologio da muro, ma poi s'accorse che Marta, tutta
contenta, usciva dall'ospedale sventolando un foglio
e, così come era nato, il pensiero svanì, spazzato
via da quello di essere padre.
Nell'ingresso del Sacro Cuore c'era un gruppo di
vecchi ricoverati seduti su lise poltrone color savana.
Chi in vestaglia, chi in pigiama, afferravano come ramarri
a primavera gli ultimi raggi del sole che filtravano
tiepidi dalla grande vetrata che dava sul parcheggio.
Tutti dicevano che era proprio strano che
dopo una notte come quella ci fosse stata una giornata
di sole e che non ci si capiva più niente con il
tempo.
Michele Cavoli, sessantaquattro anni, ricoverato
per cirrosi epatica, sosteneva che era colpa degli arabi
bastardi che stavano mettendo nell'atmosfera un
sacco di veleni chimici per ammazzarci. Se fosse stato
lui il presidente degli Stati Uniti non ci avrebbe pensato
cinque secondi. Un paio di belle bombe atomiche
sul Medio Oriente e chi si è visto si è visto. Stava
per aggiungere una notazione storica, se a quei merdosi
dei giapponesi non avessero buttato la... Ma si
fermò e rifletté che c'era un altro bastardo che avrebbe
meritato di morire schiacciato come un pidocchio.
Franco Basaglia. Quell'infame con la sua legge di
merda aveva rovinato l'Italia, liberando un esercito
di fuori di testa psicopatici per le strade e negli ospedali
pubblici. Per esempio quel tipo lì, con un orologio
da parete sotto il braccio, perché diavolo non stava
rinchiuso in una bella cella imbottita? Come un
idiota continuava a fissare il lampadario e a gesticolare
come se lassù ci fosse appeso qualcuno. Ma con
chi stava dialogando, con il Padreterno?
Michele Cavoli ci aveva preso.
Quattro Formaggi, in piedi al centro della hall, con
il suo nasone all'aria stava chiedendo a Dio cosa fare,
ma Dio non gli rispondeva più.
Sei arrabbiato. Ho fatto qualcosa di sbagliato... Ma cosa?
Cosa ho fatto di male?
Non ci capiva più niente. Cristiano gli aveva detto
che Rino era a casa quando gli era venuto il colpo.
Com'era possibile? Lui l'aveva visto con i suoi occhi
morire nel bosco.
Era così smarrito... Se non avesse avuto l'anello
con il teschio nello stomaco avrebbe ricominciato a
pensare di essersi sognato tutto.
Dio lo aveva soccorso e lo aveva condotto per mano
durante la tempesta, gli aveva messo davanti Ramona,
aveva fulminato Rino, gli aveva rivelato a che
cosa serviva la morte della ragazza e poi, così, senza
una ragione, lo aveva abbandonato.
Non gli rimaneva che Rino. L'unico con cui poteva
parlare.
Si guardò intorno. L'ingresso era pieno di gente.
Nessuno si curava di lui. Si era vestito bene apposta.
Aveva il completo blu che gli aveva regalato Danilo
perché gli andava stretto. Una cravatta marrone. E
sotto il braccio stringeva l'orologio-barometro a forma
di violino che aveva trovato qualche mese prima
in un cassonetto.
Il regalo per Rino.
Il problema era che odiava quel posto. Ci aveva
passato tre mesi, là dentro, dopo che si era quasi ucciso
toccando con la canna da pesca i fili dell'alta tensione.
Tre mesi che ricordava come un buco nero, illuminato
qua e là da qualche ricordo spiacevole. Un
buco nero da cui era uscito pieno di tic e con la testa
che non gli funzionava più come prima.
Si avvicinò alle scale che portavano ai piani superiori.
Proprio accanto c'era una porta di legno scuro
accostata. Una bava di luce dorata filtrava. Sopra la
porta un cartello blu con scritto in oro: cappella.
Quattro Formaggi si guardò intorno e poi entrò.
Era una stanza stretta e lunga. In fondo, proprio al
centro, c'era una statua della Madonna illuminata da
un faretto e circondata da coppe di rame con dentro
dei fiori. Un paio di panche vuote. Da due altoparlanti
uscivano, soffusi, dei canti gregoriani.
Quattro Formaggi cadde in ginocchio e cominciò a
pregare.
203.
Beppe Trecca era allungato sulla sedia a sdraio dove
Rino Zena aveva passato gran parte delle sue ultime
serate. Per terra un paio di Geox scamosciate.
Si sfregava i piedi infreddoliti. Aveva acceso la stufa
e la stanza, per fortuna, cominciava a scaldarsi. Il
sole che moriva sopra l'orizzonte ficcava gli ultimi
raggi tra le persiane brillando su una bottiglia di birra
vuota.
Beppe fissava la televisione senza guardarla. Si
sentiva stanco e cominciava ad avere fame. L'ultima
cosa che era entrata nel suo stomaco era il pollo alle
mandorle che aveva mangiato nel camper. Si sarebbe
divorato un bel kebab di Sahid.
Com'era buono quel panino esotico! Con la salsina
piccante, lo yogurt, i pomodori e quel pane morbido.
In frigo c'erano solo un barattolo di sottaceti e una
crosta di parmigiano. Nella dispensa un pugno di riso
e un paio di dadi di carne.
E se facessi un salto da Sahid?
Quanto poteva metterci? Mezzora al massimo.
Cristiano era così stanco che non si sarebbe svegliato
fino al giorno dopo. Beppe era salito a controllare
e l'aveva trovato che dormiva avvolto in un doppio
strato di coperte, proprio come un kebab... Era la
prima volta che andava al piano superiore. Aveva visto
la camera di Rino. Un porcile ributtante con una
svastica appesa sulla parete. Il gabinetto zozzo con la
porta sfondata. La stanza di Cristiano. Un cubo vuoto,
senza termosifone e pieno di scatoloni.
Quel ragazzino non poteva più vivere in quel degrado.
Gli andava cercata al più presto una nuova sistemazione.
Avrebbe trovato una famiglia normale a
cui darlo in affido fino alla maggiore età.
Eppure... Eppure non era così sicuro che quella
fosse la cosa giusta da fare. Quei due vivevano uno
per l'altro e qualcosa gli diceva che se li avesse separati
avrebbe fatto peggio. Il dolore li avrebbe uccisi o
trasformati in due mostri feroci.
Lo stomaco vuoto riportò l'assistente sociale a problemi
più concreti. Realizzò che il furgoncino dell'arabo
si trovava non lontano da casa di Ida, quindi in
zona vietata.
E se mi facessi un po' di riso?
In fondo poteva bollirsi il riso e scioglierci sopra il
dado con l'acqua di cottura.
Si stiracchiò guardandosi intorno e si pose la stessa
domanda che si faceva ogni volta che andava a trovare
la famiglia Zena.
Come facevano quei due a vivere in un posto simile?
Senza una lavatrice? Senza un ferro da stiro? Senza
un minimo di cura?
Anche lui era nato in una casa modesta. Suo padre
era bigliettaio sui treni regionali e sua madre casalinga.
Anche loro facevano fatica ad arrivare a fine mese,
ma i suoi genitori erano persone ordinate e responsabili.
Quando entravi in casa dovevi sempre
toglierti le scarpe, lavarti e indossare pigiama e ciabatte.
I vestiti sporchi si mettevano in un ripostiglio e
tutti, compreso suo padre, in casa stavano in pigiama.
Ricordò con nostalgia le cene in famiglia. Si sedevano
a tavola nei loro completi da notte con la pelle
intenerita dalla doccia bollente.
Questo è un modo civile di vivere.
Anche casa Zena, con un po' di fantasia e qualche
mobile Ikea, sarebbe potuta migliorare tantissimo.
Un'imbiancata alle pareti e una pulizia integrale e
tutto sarebbe cambiato.
Dovendo passarci una settimana poteva iniziare a
darle una bella pulita.
Se il povero Rino muore potrei adottare Cristiano e vivere
qui, pensò Beppe Trecca alzandosi dalla sedia a
sdraio con improvviso entusiasmo.
La mente lo cullò con l'immagine di lui insieme a
Cristiano, Ida e i suoi figli in quella casa rimessa a
nuovo. Tutti in pigiama. E poi le passeggiate in montagna
con gli zaini. E lui e Ida nella canadese a fare
l'amore...
"Oddio Beppe... Sto per venire."
Sentì una lama che gli affettava le budella. Quel sogno
non si sarebbe mai realizzato. Non avrebbe più
potuto baciare quella donna. Non avrebbe più potuto
darle piacere.
Crollò sul divano sofferente e cominciò a lagnarsi
come se gli stessero facendo una rettoscopia.
Ce la devi fare. E se non ce la fai te ne vai via.
Sì, forse quello era l'unico modo per ricominciare a
vivere. Andarsene. Per sempre. Poteva tornare ad
Ariccia e cercare di rientrare all'università.
La sua attenzione venne catturata dalle immagini
del TG regionale.
Contro un muro c'era una macchina accartocciata
come una lattina di birra.
«Danilo Aprea deve aver perso il controllo dell'auto,
che è finita contro il muro di un palazzo in via Enrico
Fermi. Quando i soccorsi sono arrivati non c'è
stato niente da fare. Aprea aveva...»
L'assistente sociale era a bocca aperta.
Il collega di Rino. Cristiano, in ospedale, gli aveva
detto che sarebbe andato a stare da lui.
Ecco perché non riusciva a parlarci.
Ma cosa diavolo stava succedendo? Nella stessa
notte finisce in coma tuo padre e il suo migliore amico,
l'unica persona che ti può aiutare, ha un incidente
mostruoso e ci lascia le penne? Ma perché il destino
si accaniva così su quel poveraccio? Cosa aveva fatto
di male?
E adesso come glielo dico?
Il cellulare, poggiato per terra, fece due bip e s'illuminò
e il cuore di Beppe Trecca, per tutta risposta, fece
due tuffi carpiati.
Un altro sms.
Era il terzo da quella mattina.
Basta. Ti scongiuro, basta.
Si sentiva soffocare. Si sciolse il nodo della cravatta
con le dita rattrappite e poi afferrò d'impulso il piccolo
telefono e lo strinse forte in mano. Tra le dita filtrava
la luce azzurrognola del display come quella di
un elemento radioattivo.
Si dovette controllare per non disintegrarlo contro
un muro. A occhi chiusi inspirò. Li riaprì.
MESSAGGIO MULTIMEDIALE.
VUOI RICEVERLO?
Nonostante l'istinto, la ragione, la logica, lo stomaco,
la gola, il sangue che gli rombava nelle vene, i capelli
che gli si rizzavano in testa, le mani che gli tremavano
e persino le ginocchia che gli si piegavano,
nonostante ogni cosa gli intimasse no, no e ancora
no, l'assistente sociale vide che il suo pollice, anarchico
e autodistruttivo, premeva il tasto verde.
Lentamente sul piccolo schermo del cellulare iniziò
a calare un'immagine e l'anima di Beppe Trecca
cominciò a bruciare come carta di giornale.
Ida gli sorrideva un po' imbronciata, come una
bambina a cui hanno tolto le caramelle.
Sotto c'era la scritta:
AMORE, MI CHIAMI?
204.
«Stai pregando per un caro, vero?»
Quattro Formaggi, in ginocchio, si girò verso la voce
alle sue spalle.
Nascosta dall'oscurità della cappella intravide una
sagoma scura.
La figura fece un passo in avanti.
Era un ometto. Doveva essere alto più o meno un
metro e mezzo. Un nano grande. Con una testa tonda
incassata fra due spalle spioventi. Gli occhi azzurri
sembravano due spie luminose. Il riporto biondo. Le
orecchie piccole e accartocciate. Era vestito con un
completo di flanella grigio. I pantaloni troppo corti
erano retti da una cinta di cuoio con una massiccia
fibbia d'argento. E una camicia a rombi gli avvolgeva
come una mongolfiera lo stomaco dilatato. Sotto un
braccio stringeva una cartella di pelle nera.
«Preghi per qualcuno che soffre?»
Aveva una voce bassa, la r moscia. E nessun accento
particolare.
L'omino gli s'inginocchiò accanto. Quattro Formaggi
sentì il suo profumo. Una roba tipo saponetta
del cesso, che faceva venire malditesta.
«Posso unirmi alla tua preghiera?»
Gli fece segno di sì continuando a fissare la statua
piangente della Madonna. Stava per alzarsi e andarsene,
ma quello gli afferrò un polso e guardandolo
negli occhi gli disse: «Lo sai, vero, che il nostro Signore
si prende i migliori per portarli nella Sua casa? E
che la Sua volontà è per noi, poveri peccatori, oscura
come la più buia delle notti d'inverno?».
Quattro Formaggi rimase lì con la bocca aperta. Gli
occhi azzurri dell'omino gli entravano dentro come
due trivelle.
E se quello era stato mandato da Dio? Se era lui il
messaggero che gli avrebbe detto tutto e gli avrebbe
sciolto il garbuglio che aveva in testa?
«Lo sai, vero?»
«Sì. Lo so» si trovò a rispondere Quattro Formaggi.
La voce gli tremava e gli sembrava che il mondo intorno
si sfocasse e poi tornasse a fuoco, come se qualcuno
giocasse con l'obbiettivo di una macchina fotografica.
Il dolore alla spalla si fece più acuto e nello
stesso momento gli parve che i rumori che arrivavano
dall'ingresso dell'ospedale si fossero spenti. Ora
gli altoparlanti diffondevano il suono di un pianoforte
appena sfiorato.
«È la fede che ci sostiene e che ci aiuta a sopportare
il dolore.»
L'omino lo stava guardando con un'espressione
saggia e gentile, e Quattro Formaggi non poté fare a
meno di sorridere.
«Ma a volte la semplice fede può non bastare. Ci
vuole qualcosa in più. Qualcosa che ci può mettere in
contatto con Dio. A tu per tu. Come si farebbe con un
amico. Ti posso chiedere come ti chiami?»
Quattro Formaggi si accorse di avere la gola secca.
Deglutì. «Mi chiamo... Corrado Rumitz...» Si fece coraggio.
«Anche se tutti mi chiamano Quattro Formaggi.
Sono stanco di questo nome.»
«Quattro Formaggi» ripeté l'altro, serio.
Era la prima volta nella vita che gli capitava che
qualcuno non ridesse quando diceva il suo soprannome.
«Allora piacere Corrado, io mi chiamo Riccardo,
ma anch'io ho un soprannome. Riky.»
Quattro Formaggi ebbe la sensazione che gli occhi di
Riky si ingrandissero fino a occupargli tutta la faccia.
«Possiamo scambiarci un gesto di pace?»
«Un gesto di pace?»
L'omino lo abbracciò forte e rimase così per un sacco
di tempo, stringendogli le costole ammaccate.
Quattro Formaggi fece uno sforzo per non urlare dal
dolore.
Quando lo liberò, Riky sembrava commosso. «Grazie.
A volte basta il semplice abbraccio di uno sconosciuto
per farci sentire che Dio ci ama. A volte non è
sufficiente solo la fede per entrare nelle grazie del Signore.
Spesso ci vuole qualcosa in più. Spesso abbiamo
bisogno di...» Si osservò la mano ispirato. «Abbiamo
bisogno di un'antenna per comunicare con
l'Onnipotente. Ti faccio vedere una cosa.» Riky prese
da terra la sua cartella e con le dita corte e grassocce
l'aprì velocemente. «Sei fortunato ad avermi incontrato
proprio oggi. Il mio istinto, o forse la volontà di
Dio stesso, mi porta sempre dalle persone che hanno
bisogno di aiuto.» Il tono della sua voce si era, se possibile,
abbassato di più, e ora era difficile capire che
cosa dicesse.
Tirò fuori un astuccio ricoperto di velluto blu e lo
aprì sotto al naso di Quattro Formaggi. Dentro, poggiato
sopra del raso bianco, c'era un piccolo crocefisso
ossidato attaccato a una catenina d'oro. «Corrado,
conosci Lourdes, vero?»
Quattro Formaggi sapeva che da piazza Bologna
una volta al mese partiva un enorme pullman argentato
per Lourdes e un sacco di gente ci andava, soprattutto
i vecchi, e il viaggio costava duecento euro
e dopo diciotto ore tornavi. Durante il viaggio ti portavano
a comprare padelle e ceramiche, poi pregavi
in una grotta e c'era l'acqua benedetta che se ti ci immergevi
ti poteva fare il miracolo. Lui aveva pensato
di andarci, per i tic. «Sì» rispose grattandosi nervosamente
la barba. La gamba destra, intanto, aveva preso
a muoversi per conto suo.
«Non ci sei mai stato?» Gli occhi azzurri dell'omino
lo fissavano con una tale intensità che Quattro
Formaggi, allarmato, cominciò a strizzare la bocca.
Non riusciva più a parlare, aveva la sensazione che
un tentacolo nero e sottile gli si stesse attorcigliando
al collo.
Fece no con la testa.
«Sai però che esiste l'acqua miracolosa della Madonna
di Lourdes...?»
Fece segno di sì.
«E che quell'acqua ha guarito storpi, paralitici,
gente in tutti gli stati, ammalati dati per finiti dalla
medicina ufficiale?» La voce di Riky gli scivolava giù
per le orecchie come un olio tiepido. «Vedi questo
crocefisso? A guardarlo così non gli daresti una lira.
Tutto ossidato. Brutto. Ci sono centinaia di crocefissi
in qualsiasi gioielleria che valgono cento volte di più.
In platino, con i diamanti o altre pietre preziose. Ma
nessuno, e ti dico nessuno, è come questo. Questo è
speciale.» Lo afferrò con il pollice e l'indice e lo sollevò
delicatamente, neanche fosse una scheggia dell'Arca
di Noè. «Immagino che tu non sappia che le
monache di clausura del convento della Madonna di
Lourdes hanno una piscina segreta di acqua miracolosa...»
Perché continuava a chiedergli se sapeva questo o
quello? Lui non sapeva niente.
«No» rispose Quattro Formaggi.
Riky sorrise mettendo in mostra una sfilza di denti
troppo bianchi e ordinati per essere naturali. «E infatti
non lo sa nessuno. Tranne quelli che contano davvero,
come sempre. In quella piscina riempita fino all'orlo
d'acqua miracolosa ci si immergono da migliaia
d'anni papi con il tumore, re in fin di vita, politici malati.
Il presidente del Consiglio qualche anno fa era
gravemente ammalato. Il cancro se lo stava mangiando,
proprio come una serpe si mangia un uovo. Hai
presente come una serpe si mangia un uovo? Così...»
Spalancò la bocca, gli occhi ridotti a due squarci neri,
e ingoiò un uovo invisibile.
Quattro Formaggi si strinse la gola. Avrebbe voluto
dirgli che a lui della piscina santa non fregava niente.
Che lui aveva solo bisogno di sapere dove era finito il
cadavere di Ramona. Ma non ne aveva il coraggio e
poi le labbra, i denti e la lingua gli si erano intorpiditi
come quando gli avevano tolto un molare marcio.
«Insomma, il presidente è stato portato nella piscina
segreta e si è fatto il bagno. Dieci minuti appena.
Niente di più. Un paio di vasche a stile libero. E il
cancro se n'è andato. Dissolto. I medici non ci potevano
credere. E adesso sta alla grande.» Il nanetto gli
fece dondolare davanti il crocefisso come un incantatore.
«Ora guardalo! Tu non ci crederai a quello che
sto per dirti, ma è vero quanto è vero che noi siamo
qua in questo momento. Sai quanto è rimasto in quella
vasca? Dieci anni. Non sto scherzando. Dieci lunghi
anni. Mentre il mondo cambiava, scoppiavano
guerre, cadevano le Torri, ci invadevano gli extracomunitari,
questo crocefisso è stato immerso nell'acqua
miracolosa.» Sembrava che stesse recitando lo
spot di un whisky di puro malto scozzese. «E stata
una suora... Suor Maria. Lo ha nascosto in uno skimmer
della piscina e poi me lo ha dato in gran segreto.
Lo vedi? Per questo è così opaco e rovinato. Non racconto
balle, io. Ora pensa quanto è potente l'effetto
curativo di questo oggetto. Dalla piscina è passato direttamente
in questo astuccio. Nessuno mai se lo è
appeso al collo. E sai perché? Per non fargli perdere
potenza. Questo non si ricarica come un cellulare.
Questo una volta che è a contatto con la pelle del sofferente
incomincia a emanare il suo potere...» Per la
prima volta Riky non trovò le parole. Ma poi subito si
riprese: «... guarente... Che guarisce, insomma. Ma
l'importante è non levarselo mai. Non scambiarlo
con nessuno. E non parlarne». Fissò Quattro Formaggi
e poi gli chiese a bruciapelo: «Tu perché sei qui?
Per te, Corrado? O per qualcun altro?».
Quattro Formaggi, che si era lentamente adagiato
su uno scranno, chinò la testa e disse: «No, non per
me. Rino è in coma». Dovette interrompersi per
schiarirsi la voce e poi continuò: «Io gli devo parlare.
Devo sapere...».
«È in coma.» Riky si massaggiò le guance riflettendo.
«Be', con questo crocefisso potrebbe risvegliarsi
anche in un giorno. Capacissimo. Sai cosa vuol dire
quando ti si scarica addosso una quantità così immensa
di energia divina? È anche possibile che quello
ti si solleva sul letto, prende la sua roba e se ne torna
a casa felice e contento.»
«Veramente?»
«Non te lo posso assicurare. Potrebbe metterci di
più. Ma io tenterei. Hai una grande opportunità, non
fartela scappare. C'è solo un problema...»
«Quale?»
«Che bisogna fare un'offerta.»
«Che offerta?»
«Dei soldi per le suore di Lourdes. Sono...»
«Quanto?» lo interruppe Quattro Formaggi.
«Quanti soldi hai?»
«Non lo so...» Infilò la mano nella tasca posteriore
dei pantaloni e prese il portafoglio gonfio fino a esplodere
di qualsiasi carta tranne che di denaro. Cominciò
a rovistare e alla fine estrasse una banconota da venti
euro e una da cinque.
«Hai solo questo?» La voce di Riky non riuscì a nascondere
tutta la delusione.
«Sì. Mi dispiace. Aspetta, però. Forse...» Quattro
Formaggi tirò fuori dal portafoglio una busta piegata
in due. I soldi dell'ultimo lavoro che aveva fatto con
Rino e Danilo. Quattrocento euro. Non li aveva nemmeno
toccati... «Ho questi. Prendi.» Glieli porse e l'omino,
impassibile, li prese con la velocità di una faina
e gli consegnò l'astuccio.
«Mi raccomando, a contatto con la pelle. E non ne
parlare con nessuno. Se no addio miracolo.»
Un secondo dopo Quattro Formaggi era di nuovo
solo.
205.
NON POSSO PIÙ CHIAMARTI E VEDERTI.
PERDONAMI.
Così Beppe Trecca, in lacrime, aveva scritto sul cellulare.
Ora bastava che pigiasse sul tasto e Ida si sarebbe
data pace. Avrebbe pensato che era un codardo.
"Beppe, tu mi vuoi davvero?"
"Certo."
"Anche con i bambini?"
"Certo. "
"E allora andiamo fino in fondo. Parliamo con Mario e
diciamogli tutto. Io non ho paura."
"Nemmeno io. Ci parlo io."
Preferiva mille volte passare per un cagasotto piuttosto
che per un bastardo che scompare senza una
parola.
Ma non poteva farlo. Avrebbe rotto il patto.
Forse doveva parlare con qualcuno esperto di pegni
e di voti al Signore. Qualcuno che aveva fatto un
voto come lui.
Padre Marcello.
Doveva confessarsi e raccontargli tutto. Anche se
dubitava che il prete gli avrebbe dato la risposta che
desiderava.
Buttò la testa indietro sullo schienale del divano
inghiottendo aria a ogni singhiozzo. Fissò tra le lacrime
il cellulare. E poi, distrutto dalla colite, cancellò il
messaggio.
206.
Quattro Formaggi aprì l'astuccio blu, ma non toccò il
crocefisso.
Il messaggero gli aveva detto che se lo avesse toccato
avrebbe perduto il suo potere.
Bisognava metterlo addosso a Rino, così sarebbe
uscito dal coma e gli avrebbe detto dov'era nascosta
Ramona.
Ma Rino era molto arrabbiato. Aveva fatto il pazzo
quando aveva visto il cadavere.
Mi ha quasi ammazzato di botte.
E se invece Rino lo denunciava alla polizia?
I peggiori alla fine sono gli amici. Quelli di cui ti
fidi.
Per un periodo Quattro Formaggi aveva lavorato
in una pescheria. Puliva i pesci e faceva le consegne a
domicilio. Ogni giorno scaricavano delle cassette di
polistirolo piene di grosse vongole. Arrivavano vive,
bastava metterle nella vasca e dopo dieci minuti tiravano
fuori un lungo tubo bianco con il quale succhiavano
l'acqua e l'ossigeno. Ma era sufficiente avvicinare
la punta di un coltello al guscio per farle scattare
e richiudere per un'ora almeno. Ma poi, quando si
riaprivano, se le ritoccavi rimanevano chiuse solo
mezzora. E a furia di stuzzicarle ci si abituavano e
non si chiudevano più.
A quel punto erano finite. Ci infilavi dentro la punta
del coltello e le vongole, idiote, si chiudevano di
scatto con tutta la lama dentro. Allora giravi la lama e
il guscio si rompeva e nell'acqua usciva una nuvola
marrone di carne ed escrementi.
A cosa serve il guscio se ti abituano a non usarlo?
È meglio non averlo, stare nudi, se serve solo al
coltello per ucciderti. Rino era come quella lama di
coltello. Quattro Formaggi ci si era abituato e proprio
per questo poteva fargli più male.
E anche Cristiano era uguale a suo padre, gli stava
nascondendo la verità per fregarlo.
Quei due mi accarezzano il cuore per tirarmelo via.
Rino riaprirà gli occhi, si strapperà via l'ago dal braccio
e punterà il dito contro di me e comincerà a urlare: "E stato
lui, è stato lui ad ammazzare la ragazzina, mettetelo in
carcere!".
L'avrebbe fatto. Lo conosceva bene. Non avrebbe
mai capito che lui l'aveva ammazzata perché...
Rivide la mano bianca e le dita sottili strette intorno
al suo coso duro come marmo.
Un brivido gelato gli artigliò la nuca. Chiuse gli occhi
e gli sembrò di precipitare da un grattacielo.
Si ritrovò a terra, steso tra gli inginocchiatoi, con il
respiro affannato e il crocefisso in mano.
Si sbottonò la camicia e si mise la catenina intorno
al collo. Il ciondolo finì tra i peli scuri del petto. Poteva
avvertire il potere benefico del crocefisso che s'irraggiava
come una corrente tiepida nel suo corpo dolorante,
nelle sue costole incrinate, all'interno della
ferita, della carne martoriata e offesa.
Lo sfiorò appena con i polpastrelli ed ebbe la sensazione
di accarezzare la pelle liscia di Ramona. E vide
il piccolo Gesù Bambino nascosto nel corpo umido
della donna.
"La volontà di Dio è per noi, poveri peccatori, oscura come
la più buia delle notti d'inverno. Abbiamo bisogno di
un'antenna per comunicare con l'Onnipotente" gli aveva
detto Riky.
Adesso aveva l'antenna per comunicare.
Si rialzò e zoppicando uscì dalla cappella.
Ora sapeva cosa doveva fare. Doveva uccidere
Rino.
Se si svegliava lo avrebbe accusato.
Era lui che si opponeva al volere di Dio.
Dio lo aveva quasi ammazzato e lui l'avrebbe finito.
In effetti lui e Dio erano la stessa cosa.
Attraversò l'ingresso ansimando, con il suo orologio
a forma di violino sotto il braccio, e s'infilò nell'ascensore
stipato di dottori e parenti.
Quattro Formaggi scese al secondo piano.
Si ricordava che lì c'erano i malati più gravi. Anche
lui, dopo l'incidente con la canna, era stato tenuto lì e
poi trasferito al terzo piano.
Cercando di passare inosservato superò la zona
maternità. Il finestrone con dietro i neonati nelle culle.
Una porta a vetri. Un lungo corridoio e file di porte
chiuse. Arrivò fino al reparto di terapia intensiva.
Sulla porta c'era un foglio con gli orari di visita.
Era fuori orario.
Provò a girare la maniglia. La porta si aprì. Grattandosi
la guancia sbirciò nel corridoio.
La luce in questo reparto era più soffusa, e il soffitto
più basso. Lungo una parete una fila di sedie di
plastica arancione. Dalla finestra si vedeva una striscia
violacea che divideva l'oscurità dalla pianura.
Mentre aspettava che arrivasse qualche infermiera
si prese a pugni la coscia sinistra.
Sembrava deserto.
Si decise ed entrò. Cercando di non fare rumore
chiuse la porta e s'incamminò respirando appena. Alla
sua destra c'era una grande stanza buia. In fondo
una luce sepolcrale pioveva dall'alto su un letto su
cui era allungato un uomo immobile.
Intorno spie luminose e un monitor verdognolo.
Avanzó fino al letto mentre le viscere gli si attorcigliavano.
Rino era steso a occhi chiusi. Sembrava che dormisse.
Quattro Formaggi rimase a fissarlo storcendo il
collo. Alla fine gli afferrò un polso e lo tirò come si farebbe
con un bambino che non vuole alzarsi. «Rino...»
S'inginocchiò accanto al letto e continuando a
tenerlo per il polso gli sussurrò in un orecchio: «Sono
io. Quattro Formaggi. Anzi... Sono Corrado. Corrado
Rumitz. Questo è il mio nome». Prese a carezzargli
una guancia. «Rino, mi dici, per favore, dov'è Ramona?
È importante. Ci devo fare una cosa. È una cosa
molto importante. Me lo dici, ti prego? Io ho bisogno
del corpo. Se me lo dici Dio ti aiuterà. Lo sai perché
sei in coma? È stato Dio. Ti ha punito per quello che
mi hai fatto. Io però non ce l'ho con te. Ti ho perdonato.
Mi hai fatto male, ma non importa... Io sono buono.
Ora, ti prego, mi dici dov'è Ramona? È meglio
che me lo dici.» Lo guardò per un po' tirando su con
il naso e grattandosi una guancia, poi sbuffò spazientito:
«Ho capito, cosa credi... Non me lo vuoi dire.
Non importa. Ti ho portato un regalo». Gli mostrò
l'orologio e poi lo sollevò, pronto a darglielo in testa.
«Tutto per te...»
«Lei cosa ci fa qui?»
Quattro Formaggi schizzò in aria come un tappo di
champagne. Abbassò l'orologio e si girò di scatto.
Sulla porta, nascosto nell'ombra, c'era qualcuno.
«Non è orario di visite. Come ha fatto a entrare?»
L'uomo, alto e magro, in camice, si avvicinò.
Non mi ha visto. Non mi ha visto. Era buio.
Il cuore gli rimbombava impazzito nel petto. «La
porta era aperta...»
«Ha letto il foglio con gli orari?»
«No. Ho trovato la porta aperta e ho pensato...»
«Mi dispiace, ma deve uscire. Torni domani.»
«Sono venuto a trovare il mio amico. Adesso me ne
vado, non si preoccupi.»
Il medico si avvicinò. Era mezzo pelato, con la testa
piccola. Sembrava un avvoltoio. O meglio, un piccione
appena nato.
«Che cosa stava facendo con quell'orologio?»
«Io? Niente. Stavo cercando...»
Rispondi. Forza...
«... un posto dove appenderlo. Cristiano mi ha detto
che Rino è in coma e io ho pensato di portargli il
suo orologio. Può aiutarlo a risvegliarsi. No?»
Il medico diede un'occhiata al monitor e poi regolò
la rotella di una macchina. «Non credo. Il suo amico
adesso ha bisogno solo di riposo.»
«Va bene. Grazie, dottore. Grazie.» Quattro Formaggi
fece il gesto di dargli la mano, ma il medico
non l'accettò e lo accompagnò alla porta.
«Questo è un reparto di cure intensive. Quindi è assolutamente
necessario rispettare gli orari di visita.»
«Mi scusi...»
Il medico gli chiuse la porta in faccia.
Parte quinta.
Martedì.
207.
Alle quattro precise la sveglia cominciò a suonare.
Cristiano Zena la zittì con una manata. Aveva dormito
tutto di un fiato un lungo sonno senza sogni.
Non si era alzato neanche per fare la pipì. La vescica
gli stava esplodendo. Ma si sentiva meglio.
Accese la torcia e si stiracchiò.
Fuori il cielo era nero e picchiettato di stelle.
Cristiano fece pipì, si lavò la faccia con l'acqua
fredda e si vestì pesante. Scese le scale cercando di
non far rumore. La temperatura al piano di sotto era
più alta.
Beppe Trecca dormiva sul divano con la faccia appiccicata
allo schienale. Era raggomitolato in una coperta
troppo corta e gli spuntava fuori una gamba.
Cristiano in punta di piedi entrò in cucina, chiuse
piano la porta, prese un pacchetto di fette biscottate e
se le mangiò, una dietro l'altra, in silenzio. Poi bevve
due bicchieri d'acqua per farle scendere.
Adesso che aveva dormito e mangiato era pronto.
D'ora in poi ogni mossa doveva essere valutata almeno
tre volte.
Sul tavolo della cucina c'era un pacchetto di Diana
di Rino.
Fumiamoci prima una bella sigaretta.
Suo padre diceva sempre così quando stava per
iniziare un lavoro.
Cristiano si chiese se adesso che Rino era in coma
sentiva il bisogno di fumare. Forse quando si sarebbe
risvegliato non avrebbe più avuto il vizio.
Prese la scatola di fiammiferi e ne tirò fuori uno. Lo
poggiò contro la striscia marrone.
Allora, se riesco ad accenderlo al primo colpo tutto andrà
bene.
Lo sfregò e il fiammifero per un secondo rimase
così, quasi indeciso se accendersi, ma poi, come per
magia, scaturì una fiammella blu.
Tutto andrà bene...
Si accese la sigaretta e prese due boccate profonde,
ma la testa cominciò a girargli.
La spense subito sotto al rubinetto.
«Sono pronto» sussurrò.
208.
Mentre Cristiano si fumava la sigaretta Quattro Formaggi,
in mutande e vestaglia, fissava la televisione e
beveva la Fanta da un bottiglione formato famiglia.
C'era un cuoco con i baffi che preparava degli involtini
di speck e couscous e diceva che erano degli
antipasti sfiziosi e originali per un picnic in campagna.
Poi ci fu la pubblicità e dopo l'esperto di bon
ton, un tipo basso e con i capelli tinti, incominciò a
spiegare come andavano disposte le posate a tavola e
come si fa il baciamano a una signora.
Quattro Formaggi con il piede spinse play sul videoregistratore
e apparve Ramona, in manette, nella
stanza dello sceriffo.
«E allora cosa devo fare per non finire in prigione?»
Henry, un poliziotto negro e muscoloso, si girava il
manganello tra le mani e squadrava Ramona. «C'è da
pagare la cauzione. E pure salata. E mi sa che tu i soldi
non li hai.»
Ramona spingendo avanti le grosse tette disse maliziosa:
«E vero. Ma c'è un altro modo. Più semplice».
Henry la liberò dalle manette. «Be', l'unica è trovare
il cadavere della biondina al più presto. Devi trovarlo
e metterlo nel presepe.»
«D'accordo, capo. Esco e lo trovo.»
Quattro Formaggi prese un altro sorso di Fanta e
con gli occhi spenti mormorò: «Bravo Henry». Poi si
voltò verso la cucina. C'era uno strano ronzio. Forse
era il frigorifero. Ma poteva anche essere la gigantesca
vespa che era rimasta intrappolata. Una vespa
con due metri di apertura alare e un pungiglione lungo
quanto un braccio.
L'insetto doveva averlo punto sul costato mentre
dormiva, perché sentiva le viscere marcire e sulla pelle
aveva la sensazione che fossero appuntati un milione
di aghi incandescenti. E il malditesta non lo abbandonava
più. Un fuoco gli saliva su per il collo e gli
bolliva il cervello. Se si toccava le tempie sentiva la
fronte, le arcate delle sopracciglia e gli occhi formicolargli.
Il crocefisso non funzionava.
Non se l'era mai tolto, come aveva detto Riky, ma
il dolore invece di diminuire aumentava.
Dio ce l'ha con me. Ho perso Ramona. Non mi merito
niente. Questa è la verità.
209.
Faceva freddo, ma il giaccone pesante, la camicia di
flanella e il golf di pile coprivano bene Cristiano. L'aria
gelata gli scendeva giù per la gola ancora irritata
dalla sigaretta mentre sollevava la saracinesca del garage.
Accese i lunghi neon che, crepitando, sparsero
un bagliore giallastro sulla grande stanza seminterrata.
Accanto al bancone degli attrezzi trovò un paio di
guanti di plastica arancione di quelli che si usano per
lavare i piatti. Li indossò.
Andò al furgone, tirò fuori dalla tasca dei pantaloni
le chiavi e aprì gli sportelli posteriori sperando
che, non si sa bene per quale oscura ragione, il corpo
di Fabiana non ci fosse più.
Accese la torcia e la puntò dentro.
Il cadavere era là. Buttato da una parte. Come una
cosa vecchia.
Come una cosa morta.
All'interno del furgone, anche se non troppo forte,
ristagnava un odore dolciastro.
Dopo ventiquattr'ore un cadavere già comincia a puzzare.
Una delle poche certezze che Cristiano Zena aveva
era che, se faceva le cose per bene, si sarebbe sbarazzato
di quel corpo senza che nessuno potesse ricondurlo
a suo padre.
E questa certezza era basata sul fatto che lui aveva
visto tutte e tre le stagioni di CSI.
CSI è un serial americano in cui un team di medici
legali, intelligentissimi, studia ed esamina i cadaveri
con strumenti tecnologici, mentre detective geniali ricavano
informazioni anche dai più piccoli e apparentemente
insignificanti indizi.
Tipo: trovano una scarpa. Analizzano la suola. C'è
merda di cane. Attraverso lo studio del dna ricostruiscono
la razza. Dalmata. I Dalmata dove vanno a cagare?
Mandano una serie di agenti in tutti i parchi
pubblici a studiare le concentrazioni di Dalmata e alla
fine ti beccano con precisione matematica dove vive
l'assassino. Roba del genere.
Spesso Cristiano, nella sua esistenza precedente, si
era trovato a ragionare, davanti al telegiornale, sugli
errori commessi dagli assassini italiani. Facevano le
cose malissimo lasciando un sacco di tracce e li beccavano
sempre.
Lui invece avrebbe fatto tutto per bene e perché
ogni cosa funzionasse doveva pensare che quel cadavere
era, né più né meno, uguale a un pollo tirato
fuori dal cellophane.
Quindi forza.
L'afferrò per i piedi e lo trascinò fino al bordo del
furgone. Riuscì a farlo scivolare nella carriola senza
troppe difficoltà. Richiuse gli sportelli.
A ripulire il furgone ci avrebbe pensato dopo.
Spinse la carriola, ondeggiando, dentro al garage, e
abbassò la serranda.
Aveva studiato bene il piano. Doveva cancellare
tutte le tracce dal corpo, poi impacchettarlo e buttarlo
nel fiume.
Prese da sopra il pianoforte un foglio di plastica
trasparente che lo riparava dalla polvere, poi liberò
il tavolo da ping-pong dalle scatole di cartone, dai
pezzi di motore e dai copertoni, e ce lo distese sopra.
Trovò un'asse di legno chiazzata di vernice che
stava accatastata in un angolo insieme a tubi di ferro
e la poggiò di traverso contro il tavolo. Ci mise
sopra il cadavere di Fabiana e poi, facendo leva, lo
portò al livello del piano, su cui lo fece rotolare. Lo
dispose al centro come fosse sul tavolo da dissezione
di un obitorio.
Fabiana gli sembrava più pesante di quando l'aveva
messa la notte prima nel furgone.
Durante tutta l'operazione aveva evitato di guardarle
la testa, ma ora non poté farne a meno. Quella
maschera impiastricciata di sangue rappreso, incorniciata
da una massa di capelli biondi e crespi, era
stata la faccia della ragazzina più carina della scuola,
quella per cui tutti sbavavano.
Perché l'ha ammazzata?
Non riusciva a smettere di pensarci. Tentava disperatamente
di trovare una risposta, ma gli era impossibile.
Con che coraggio aveva sfondato la testa a una
ragazza così bella? E che cosa aveva fatto di tanto
grave Fabiana per farsi uccidere?
Suo padre...
Smettila.
... in ginocchio sopra il corpo di Fabiana steso sotto
la pioggia...
Smettila!
... sollevava la pietra...
SMETTILA DI PENSARE!!!
... e la calava giù.
Cristiano fece un respiro e sentì di nuovo quell'odore
dolciastro di carogna che gli entrava in bocca e
nel naso e gli scendeva come un gas mefitico giù per
la gola. Lo stomaco e tutto il resto del corpo presero a
scuotersi impazziti e dovette fare tre passi indietro
per impedirsi di vomitare le fette biscottate che si era
appena mangiato.
Prese una busta della Esselunga e gliela ficcò in testa
cercando di cacciare via il ribrezzo.
Quando sentì che la nausea era passata tornò a
guardare il corpo della ragazza steso a gambe e braccia
larghe in mezzo al tavolo verde. Con il sacchetto
in testa era meglio.
La osservò. La pelle era giallognola. Le vene violacee,
dove non scorreva più niente, erano venute in
superficie come le mille propaggini di un fulmine. I
vestiti imbrattati di fango e sangue. La patta dei jeans
aperta. La giacca aperta. Il golf e la maglietta strappati
come se un lupo avesse cercato di sbranarla viva.
Dal reggipetto di pizzo bianco spuntava la piccola
areola di un capezzolo. Dalle mutande uscivano un
po' di peli biondicci.
Si era immaginato mille volte di vederla nuda, ma
mai così.
Doveva pulirle le unghie.
Lì ti fregano sempre. È lì che rimane un filo di lana,
un po' di pelle dell'assassino e basta che fanno l'esame
del dna e sei fottuto. E poi doveva...
"Abbiamo trovato tracce di liquido seminale all'interno
della vagina. È spacciato." Così dicevano sempre
nel telefilm.
E quindi?
E quindi doveva abbassarle le mutande. E lavarla.
Dentro e fuori.
No, questo no.
Non ce l'avrebbe mai fatta. Era troppo. E poi i pantaloni
erano aperti, ma le mutande erano tirate su.
Non ci ha scopato.
No, non ci ha scopato. Mio padre non farebbe mai una
cosa del genere con una ragazzina di quattordici anni.
Prese il tubo dell'acqua.
Ma perché l'ha ammazzata?
E il detersivo per togliere il grasso dalle mani.
Perché Rino Zena è un assassino maniaco.
Allora doveva andare dalla polizia.
"Mio padre ha ucciso Fabiana Ponticelli. È nel garage di
casa nostra. "
No. Ci doveva essere un'altra spiegazione. Certo
che ci doveva essere. Quando suo padre si sarebbe
svegliato dal coma gliel'avrebbe detta e lui avrebbe
capito tutto.
Perché suo padre era un violento, era un ubriacone,
ma non un assassino.
Però l'altra notte ha picchiato quella bionda che e entrata
in camera mia. Ma l'ha presa solo a calci in culo. E diverso.
Mio padre è buono.
Osservò la mano destra della ragazza aggrottando
le sopracciglia. C'era qualcosa di strano, che non gli
tornava, ma non sapeva cosa. Le guardò la mano sinistra.
E le confrontò.
Mancava l'anello. L'anello con il teschio.
Fabiana l'aveva sempre al dito.
Dov'è?
210.
Beppe Trecca si risvegliò di colpo, si girò e per poco
non cadde dal divano. Per qualche istante non riuscì
nemmeno a capire dove fosse. Si guardò intorno spaesato.
La vecchia televisione accesa. Una sedia a sdraio.
Quella era la casa di Cristiano Zena.
Si mise seduto e sbadigliò grattandosi la testa. Aveva
la schiena rotta e si sentiva prudere dovunque.
Ma ci sono le pulci?
In quel letamaio poteva esserci qualsiasi cosa. Anche
piattole e pidocchi.
Doveva andare a pisciare e a bere un po' d'acqua.
Gli sembrava di avere mezzo chilo di sale in bocca.
Colpa del riso con il dado.
Guardò lo Swatch.
Le quattro e cinquantacinque.
Si alzò continuando a sbadigliare. Si massaggiò la
base della schiena, lì dove si era incrinato una vertebra.
Non poteva passare un'altra notte su quel divano.
Il medico si era raccomandato che dormisse senza
cuscino su un materasso ortopedico, preferibilmente
in lattice.
Tutta colpa di quell'imbecille di padre Italo, se era
ridotto così. Padre Italo, un missionario domenicano
originario di Caianello, circa tre anni prima, in un villaggio
del Burkina Faso, lo aveva colpito con una pala
e gli aveva incrinato la terza vertebra lombare.
Beppe Trecca era là con un gruppo di volontari a
scavare dei pozzi per il progetto internazionale "Un
sorriso per l'Africa". Sotto un sole che ti arrostiva i
neuroni, tra vacche scheletriche, s'impegnava per
una causa misericordiosa e perché in quel periodo
aveva una mezza storia con Donatella Grasso, una
delle coordinatrici.
Era un lavoro massacrante e Beppe, per ragioni a
lui oscure, era passato da un ruolo di supervisione a
quello di bassa manovalanza.
Il giorno dell'incidente, assalito dalle mosche, per
tutta la mattinata aveva scaricato mattoni di cemento,
sotto lo sguardo tirannico di padre Italo. Finalmente
era arrivata l'ora di mangiare. Aveva buttato
giù uno zuppone in cui galleggiavano dei pezzi di
carne che somigliavano a trucioli. Dopo, per liberarsi
dal sapore dell'aglio, aveva deciso di ciucciarsi una
mentina rinfrescante.
Aveva cercato il pacchetto nella tasca dei pantaloni
e si era accorto che aveva un buco e le mentine gli
erano finite nel fondo dei calzoni. Si era appoggiato
con una mano alla macchina per impastare la calce e
aveva cominciato ad agitare la gamba per farle cadere
a terra.
Un urlo disumano aveva squarciato il silenzio della
savana. Beppe aveva avuto appena il tempo di girare
la testa e vedere padre Italo che saltando lo colpiva
con una badilata nelle reni.
L'assistente sociale era finito giù come un birillo
mentre il domenicano urlava: «Staccate la corrente!
Ha preso la scossa! Ha preso la scossa! Staccatela!».
Il dolore lancinante e la sorpresa avevano impedito
a Beppe di esprimersi. Aveva tentato di alzarsi ma il
sacerdote, come un invasato, insieme a tre neri lo
aveva ributtato giù e gli aveva afferrato la faccia e
spalancato la bocca. «La lingua! La lingua! Si morde
la lingua. Bloccategliela, per la miseria!»
Due giorni dopo, imbottito di antidolorifici, l'assistente
sociale era stato messo su un aereo e rimpatriato
con una vertebra incrinata e la lussazione della
mandibola.
Poggiandosi una mano su un fianco Beppe andò a
pisciare. Gli sembrò di sentire dei rumori provenire
da sotto. Aguzzò le orecchie, ma sentì solo lo scroscio
dell'urina nel water.
Si trascinò fino al divano e ci crollò sopra sbadigliando:
«Com'è amara la vita».
211.
La notte, in fondo alla pianura, cominciava a mostrare
i primi segni di volersene andare. Una striscia di
nebbia densa come ovatta era adagiata tra i filari di
pioppi che seguivano il corso del fiume. Le cime scure
degli alberi spuntavano come pennoni di navi fantasma.
Cristiano Zena ansimava spingendo la carriola su
cui era adagiato il cadavere di Fabiana Ponticelli lungo
una stradina che tagliava i campi chiazzati di pozzanghere.
Si orientava a memoria visto che non poteva accendere
la torcia.
Aveva perso un sacco di tempo nel garage e tra poco
avrebbe albeggiato e c'erano buone possibilità di
incrociare qualcuno.
Contadini. Operai che andavano alle cave di ghiaia
e passavano di lì per fare prima. Ragazzi sulle moto
da cross.
Bisognava essere completamente idioti per non capire
che sotto quella coperta c'era un corpo umano.
E quindi...
E quindi niente, se mi beccano è il destino che vuole così.
Dirò che sono stato io. E così quando papà si risveglierà
capirà quanto gli voglio bene.
Le braccia cominciavano a tremargli e al fiume
mancava ancora un chilometro. La maglietta, sotto le
ascelle e sulla schiena, era completamente zuppa di
sudore.
Aveva percorso quella strada mille volte. Quando
aveva deciso di costruirsi una zattera con delle taniche
vuote per fare rafting, quando andava a pescare
con Quattro Formaggi, quando semplicemente non
aveva niente da fare.
Chi poteva mai immaginare che l'avrebbe percorsa
spingendo il cadavere di Fabiana Ponticelli?
Se almeno ci fosse stato Quattro Formaggi lì con
lui. Forse lui sapeva se suo padre e Fabiana avevano
avuto una storia segreta. Oppure poteva chiederlo a
Danilo. Ma era scomparso. L'aveva chiamato cento
volte. Sempre staccato. E a casa non rispondeva nessuno.
Ripensò alla telefonata con Quattro Formaggi. Non
sembrava particolarmente sorpreso di sapere che Rino
era in coma.
Ma sai com'è fatto quello, si disse passandosi un
braccio sulla fronte imperlata di sudore.
Non vedeva l'ora di vederlo e di abbracciarlo.
Era quasi arrivato. Il rumore della corrente riusciva
a coprire il rombo dei camion che sfrecciavano
sulla statale.
Si tolse la giacca, se la annodò intorno alla vita e riprese
a spingere. Il sentiero, avvicinandosi al fiume,
si era lentamente trasformato in un pantano e la piccola
ruota della carriola slittava e affondava nel fango.
Anche sotto le suole delle scarpe da ginnastica si
erano formati due blocchi di melma pesantissimi.
Davanti a lui, a poche decine di metri, si stendeva un
acquitrino illuminato dai bagliori della centrale elettrica.
Gli alberi emergevano come piloni in mezzo al
mare.
In vita sua Cristiano non ricordava di aver mai visto
la piena del Forgese arrivare fino a là.
212.
Quattro Formaggi era ancora sulla sedia. Aveva i brividi
e dalla spalla il dolore s'irradiava per il torace in
ondate incandescenti.
In una mano stringeva il crocefisso.
Per un attimo era riuscito ad appisolarsi, ma un incubo
orrendo l'aveva avvolto come una coperta fetida
e per fortuna si era risvegliato.
Il televisore acceso a tutto volume gli rimbombava
nel cranio, ma non voleva abbassarlo. Preferiva mille
volte le voci gracchianti della televisione a quelle che
aveva in testa.
Se chiudeva gli occhi, poi, gli appariva Ramona
nuda e stesa tra le montagne, e i pastori e i soldatini
che le salivano sopra con le pecore. La desiderava
con una tale intensità che si sarebbe tagliato una mano
per averla.
E poi c'era quell'incubo terribile che aveva fatto.
Era coperto da una pelliccia viscida e faceva parte
di un branco di esseri scuri che correvano in un budello
nero. Bestie con i denti aguzzi e con gli occhi
rossi e con le lunghe code nude che si spingevano e
squittivano e si azzannavano per arrivare prime in
fondo al tunnel.
E poi tutti s'immergevano in una carcassa ricoperta
di larve cieche e di millepiedi e scarafaggi e sanguisughe
pronte a esplodere. Cominciavano a divorare
la carne marcia e gli insetti. E anche lui mangiava
senza saziarsi mai.
"I cani dell'Apocalisse non mangiano e non lasciano
mangiare" gli diceva suor Evelina in orfanotrofio.
Ma a un tratto una luce gelida lo accecava e al centro
del raggio luminoso la figura filiforme di una
donna gli diceva: «Tu sei l'Uomo delle Carogne».
«Chi? Io?»
«Sì, tu!» e lo indicava mentre tutti gli esseri fuggivano
terrorizzati. «Tu sei l'Uomo delle Carogne.»
E poi si era svegliato.
All'improvviso diede un calcio alla televisione che
cadde dal tavolino ma continuò a strillare.
Ma perché diavolo Ramona aveva scelto di passare
nel bosco?
Ha sbagliato, lo gliel'avevo detto. Non è colpa mia se è
passata nel bosco.
Se avesse preso la circonvallazione ora non sarebbe
successo niente e lui sarebbe stato bene e Rino non sarebbe
finito in coma. E tutto sarebbe stato come prima.
«... Come prima» mormorò l'Uomo delle Carogne
e poi prese a darsi pugni sulla gamba.
213.
L'acqua era diventata troppo alta. Cristiano Zena aveva
lasciato la carriola e mentre trascinava il cadavere
verso il fiume l'alba si era affacciata sulla pianura.
Non aveva incontrato anima viva. Era stato fortunato,
con la piena nessuno passava di lì.
Beppe a quest'ora doveva essere sveglio e sicuramente
lo stava cercando.
Davanti a lui un lungo recinto di filo spinato arrugginito
emergeva dall'acqua. Sopra ci si erano appollaiati
dei grossi corvi neri. Dietro, il greto era completamente
sommerso dalla piena. Cristiano mise un
piede sul filo arrugginito che scomparve nell'acqua e
spinse il cadavere avvolto nel cellophane oltre la barriera.
Il fiume gli arrivava alle ginocchia e la corrente cominciava
a tirare.
All'inizio aveva pensato di legare al corpo dei
massi e farlo affondare nel fiume, ma ora si era convinto
che era meglio lasciarlo portare via dalla corrente.
Quando lo avrebbero trovato sarebbe stato lontano
e nessuno avrebbe potuto ricollegarlo a loro. Se era
fortunato sarebbe arrivato fino al mare e lì ci avrebbero
pensato i pesci a terminare il lavoro.
Guardò per l'ultima volta Fabiana avvolta nella
plastica trasparente.
Sospirò. Non provava nemmeno pena per lei. Si
sentiva stanco, svuotato, ridotto a una bestia. Solo.
Come un assassino.
Provava una nostalgia lancinante per i giorni in cui
andava a giocare sul fiume.
Chiuse gli occhi.
Lasciò andare il corpo come aveva fatto tante volte
con i rami, immaginando che fossero navi e galeoni.
Quando li riaprì il cadavere era un'isoletta lontana.
214.
Anche il ponte Sarca, lungo trecentoventitré metri,
progettato dal famoso architetto Hiro Itoya e inaugurato
da pochi mesi con mongolfiere, fanfare e fuochi
d'artificio, era uscito malconcio dalla furia della tempesta.
L'argine a sud non aveva retto alla piena e la statale,
per centinaia di metri, era stata invasa dalle acque
limacciose del Forgese.
Squadre di operai si erano messe subito al lavoro
per ricostruire il terrapieno mentre le idrovore succhiavano
l'acqua e la risputavano nel fiume, che
sembrava ribollire come se una fiamma ardesse sul
fondo.
Il traffico, travasato in tutte le strade della pianura,
era rallentato fino a impantanarsi in un ingorgo immobile
e strombazzante.
Adesso, a meno di trentasei ore dalla tempesta,
una corsia era stata riaperta e la colonna di tir diretti
o provenienti dalla frontiera e macchine piene di
pendolari avanzava a singhiozzi controllata da semafori
mobili e agenti della Stradale.
Proprio al centro del ponte, dentro una Mercedes
classe S nera come le penne di un condor, erano seduti
i coniugi Baldi.
Rita Baldi, anni trentuno, era una donnina pallida
e magra, vestita con un paio di jeans e una maglietta
corta che lasciava scoperto un ombelico che sembrava
un tortellino e una striscia del ventre gonfio di
una creatura di sette mesi. In quel momento si stava
pennellando le unghie con lo smalto e ogni tanto
guardava senza vederlo il cielo scuro.
Il brutto tempo era tornato.
Vincenzo Baldi, anni trentacinque, sembrava un
incrocio tra Brad Pitt e un orecchione bruno, un piccolo
pipistrello che vive nell'isola del Giglio dotato di
enormi padiglioni auricolari. La barba sfatta gli lambiva
un paio di occhiali neri. Fumava sbuffando le
nuvole di nicotina attraverso uno spiraglio del finestrino.
Erano in fila da quasi due ore.
Davanti avevano un tir tedesco che portava concime
organico (merda di vacca) chissà dove. La boccetta
fosforescente del deodorante attaccato al bocchettone
dell'aria faceva del suo meglio, ma l'odore di escrementi
freschi ristagnava nell'abitacolo della berlina.
L'appuntamento con l'ingegner Bartolini oramai
era saltato.
Bartolini aveva studiato una soluzione, a suo dire
definitiva, per eliminare l'umidità che affliggeva, come
una maledizione misteriosa, la loro villetta. L'acqua
risaliva attraverso i muri che si riempivano di
muffe variopinte. L'intonaco si sgretolava e cadeva in
pezzi. I mobili si piegavano e i panni nei cassetti marcivano.
La soluzione, secondo Bartolini, era quella di
tagliare orizzontalmente tutti i muri maestri della casa
e infilarci dentro una guaina impermeabile, un
brevetto scandinavo, in modo da impedire la micidiale
risalita dell'umidità.
Quella coda aveva fatto crescere il nervosismo nella
macchina. E da quando erano entrati nell'auto i
due non si erano scambiati nemmeno una parola.
A essere precisi non avevano un dialogo con più di
quattro battute da una settimana (avevano litigato,
ma nessuno dei due, oramai, si ricordava esattamente
il perché), per cui Rita fu stupita quando Vincenzo
se ne uscì con: «Ho comprato una macchina nuova».
La donna ci mise un attimo a riprendersi dalla sorpresa,
un attimo a inumidirsi la bocca e a rispondere:
«Cosa? Non ho capito». Anche se aveva capito benissimo.
Lui si schiarì la voce e ripeté: «Ho comprato una
macchina nuova».
Lei, con il pennellino sospeso in aria: «Che macchina?».
«Sempre una classe S. Ma il modello superiore a
questo. Sempre benzina. Qualche cavallo in più.
Qualche accessorio in più.»
Rita Baldi prese aria.
La sua amica d'infanzia Arianna Ronchi, che era
diventata parlamentare, le raccontava come, grazie a
quel mestiere, aveva imparato che prima di rispondere
impulsivamente e poi pentirsene era necessario
toccare un oggetto e scaricare la rabbia come si fa con
una pila carica. Ma era nella natura di Rita Baldi rispondere
istintivamente, la stessa natura che porta
l'istrice a sollevare gli aculei quando viene avvicinato
dal predatore. E quindi non poté trattenersi: «Perché
non me lo hai detto?».
«Cosa?»
A molte persone è capitata la penosa esperienza di
rendersi conto che, dopo il patto coniugale, l'uomo
/donna che consideravi un essere brillante e intuitivo
si rivela un emerito coglione.
A quel punto che fai?
Nel trentasei per cento dei casi, secondo un recente
sondaggio, chiami l'avvocato e ti separi. Rita Baldi
faceva parte dell'altro sessantaquattro per cento. Si
era adattata, ma continuava a stupirsi dell'idiozia di
suo marito.
«Che volevi cambiare macchina! Questa quando
l'hai presa? Nemmeno sei mesi fa! Perché non me
l'hai detto?»
«Perché, ti devo dire ogni cosa?»
Quello che la rendeva folle di rabbia e le faceva venire
una voglia irresistibile di prendere e spaccare
tutto era che a domanda Vincenzo rispondeva con
domanda.
Rita fece un respirone e con una voce apparentemente
placida ci riprovò: «Va bene. Ora ti spiego
perché. Allora...» Altro respirone. «Perché hai appena
comprato una moto bmw. Poi hai comprato un
frigorifero danese per...» non voleva ma non poté
esimersi «... i tuoi merdosi vini. Poi hai comprato il
coso... Come si chiama? Il trattore per il prato.
Poi...».
Lui la interruppe: «E allora? Qual è il problema?
Chi li paga?».
«Non tu. Visto che dobbiamo pagare rate fino al
2070. Le pagherà tuo figlio e forse il figlio di tuo figlio...»
Era troppo furente per riuscire a esprimere
questo concetto di microeconomia. «Dimmi una cosa.
Questa macchina non va bene? Che cosa ha che non
va? Fa schifo? Allora se fa schifo...» Mollò un calcio
con il tacco a spillo della sua scarpa Prada contro la
centralina dell'aria condizionata. E poi un altro contro
il display del navigatore.
Il braccio sinistro di Vincenzo Baldi scattò con la
stessa micidiale velocità della coda di uno scorpione
e lei fu appiccicata allo schienale da una mano stretta
intorno alla carotide. Solo a quel punto suo marito
girò il capo e sorrise. Gli occhiali da sole nascondevano
due solchi iniettati di odio. «Se ci provi di nuovo ti
ammazzo! Attenta che ti ammazzo.»
E lei, a quel punto, come un capretto, un Bambi o
quello che diavolo era, cominciò ad agitarsi, a urlare,
a dimenarsi, a farfugliare: «Bravo! Bravo! Ammazzami!
Ammazzami! Ammazzami a me e a tuo figlio,
povero...» e stava per insultarlo quando un sano
istinto di sopravvivenza le proibì di proseguire.
Lui ritirò la mano e lei ansando scattò, prese la borsa
e uscì dalla macchina.
Vincenzo Baldi abbassò il finestrino: «Torna qui.
Dove vai?».
Ancora una domanda.
Rita non rispose. Passò in mezzo alle macchine in
fila, superò un cordone di coni spartitraffico e, appoggiandosi
al guardrail, si sporse dal ponte.
Sapeva che non si sarebbe buttata di sotto. Anche
se immaginarlo la fece sentire meglio.
Piccino, se mi gettassi di sotto ti salverei da un padre di
merda... Ma non ti preoccupare che prima o poi lo lascio,
disse al figlio che aveva in grembo.
Chiuse gli occhi e li riaprì. Sentì un odore buono,
d'acqua e fango, salire dal fiume che sembrava esplodere
dentro gli argini di cemento.
Lo sguardo le cadde sui resti di alcuni alberi che si
erano incagliati contro il pilone che reggeva il ponte.
I rami erano ricoperti, come l'albero di Natale di uno
straccione, di buste di plastica colorate. Vicino riposavano
due papere. Un maschio con la testa di un
verde splendente e una femmina nella sua livrea
marroncina. Certo quella coppia di pennuti andava
d'accordo. Stavano sereni, uno vicino all'altra, a pulirsi
le penne su una grossa busta...
«Cos'è?» le uscì.
Rita Baldi strizzò gli occhi e con una mano si
schermò gli occhi dal riverbero.
Non riusciva a capire. Sembrava...
Tirò fuori dalla borsa un paio di sottili occhiali da
vista di Dolce&Gabbana e li inforcò.
Con un gesto istintivo si toccò lì dove cresceva la
sua creatura, e poi iniziò a urlare.
215.
L'Uomo delle Carogne stava marcendo.
In vita sua non si era mai sentito così male. Nemmeno
dopo aver preso la scossa. Allora era stato attraversato
dal fuoco, e poi il buio.
Adesso era diverso. Adesso stava marcendo lentamente.
Era steso sul letto e continuava a massaggiarsi la
pancia dura e tesa come un tamburo.
Le sentiva. Le larve di mosca si muovevano, si nutrivano
della sua carne e gli corrodevano le budella.
Il male partiva da lì e si irradiava per tutto il corpo,
fin dentro i capelli e le unghie dei piedi.
Forse devo andare all'ospedale.
Ma gli avrebbero fatto un sacco di domande, gli
avrebbero chiesto come si era ridotto così e poi lo
avrebbero obbligato a rimanere.
Lui conosceva la gente. La gente che vuole sapere.
La gente che fa domande.
E poi lo avrebbero messo accanto a Rino. E Rino
avrebbe aperto gli occhi, si sarebbe sollevato puntando
il dito e avrebbe urlato: "È stato lui! È stato lui! È
stato lui ad ammazzare la ragazzina".
E finisci in galera dove di notte ti prendono e ti...
Al pensiero di finire in prigione una lama di dolore
bollente gli trapassò la spalla e sprigionò mille scintille
su per il collo e dentro la testa. Sentì il male
sprizzare dalla sua carne infetta, attraversare il materasso
zuppo di sudore, infilarsi nelle zampe del letto,
irraggiarsi sul pavimento e giù per i muri, tra i mattoni,
nelle fondamenta, attraverso i tubi, nella terra
scura e da lì nelle radici degli alberi che seccavano e
perdevano le foglie e si raggrinzivano nel silenzio.
L'Uomo delle Carogne si poggiò sopra lo stomaco
il crocefisso che gli aveva dato Riky, il messaggero di
Dio, e gli sembrò di provare un pochino di sollievo.
Si alzò e si trascinò in bagno e si osservò allo
specchio.
Il teschio della morte traspariva dietro la pelle del
viso. Sollevò il cappuccio dell'accappatoio e la sua
faccia ossuta scomparve avvolta dalle ombre. Solo gli
occhi lucidi e striati di sangue e i denti giallognoli
emergevano come sospesi nel nulla.
Quella era la faccia della morte. E quando sarebbe
uscita fuori dal suo cadavere avrebbe sorriso come
stava facendo lui in quel momento.
Quando era piccolo aveva avuto la meningite e la
febbre era salita oltre i quaranta gradi.
«Non sei morto per un miracolo. Devi ringraziare
il Signore» gli dicevano le suore.
Una febbre così forte che lo avevano immerso dentro
la fontana di fronte all'orfanotrofio. Si ricordava
che dentro la vasca c'erano le anguille e che l'acqua
bolliva e le anguille si erano cotte ed erano diventate
bianche.
Ma forse non è vero.
Si ricordava anche dell'Aspirina che si scioglie. E
quello era vero.
Se la vide di fronte. Un enorme disco bianco che
ondeggiava nel bicchiere e si consumava trasformandosi
in bolle, in schizzi, in friccicorino.
Voleva l'Aspirina che si scioglie. Avrebbe dato tutto
quello che possedeva per sentire il suo sapore salato
sulla lingua secca.
Andò in cucina. Sulla credenza c'era un barattolo
di marmellata pieno di centesimi e mezzi euro. I soldi
per comprare l'Aspirina ce li aveva.
Il problema era uscire di casa. Al solo pensiero di
incontrare la gente gli sembrò di affogare, di essere
afferrato da mille mani ed essere trascinato in fondo
all'oceano.
(Se non prendi l'Aspirina muori.)
Sulle prime non riconobbe la voce. Poi sorrise.
Cristiano.
Era la voce di Cristiano.
Da quanto non pensava più a lui? Come aveva fatto
a dimenticarselo? Era il suo migliore amico, il suo
unico vero amico.
Una fitta, più dolorosa del male che sentiva in corpo,
gli afferrò il cuore e una cosa dura e appuntita gli
si conficcò nella gola.
Era bastata una notte e tutto era cambiato.
(Cos'hai fatto?)
(Cos'hai combinato?)
Non sono stato io. È stato Dio. lo non volevo, veramente.
Ve lo giuro, io non volevo. È stato Dio a farmi fare quelle
cose. Io non c'entro.
«Tutto cambiato» disse, e sentì gli occhi umidi di
lacrime.
Ripensò ai giri con Cristiano al centro commerciale,
alle loro passeggiate lungo il fiume, alle serate a mangiare
la pizza e a guardare la tv con Rino e Danilo.
Non ci sarebbe stato più niente.
Lui non era più Quattro Formaggi. Lui adesso era
l'Uomo delle Carogne.
S'infilò, lanciando guaiti, un paio di pantaloni, un
golf a collo alto, la cerata, la sciarpa e si cacciò un
cappello con il pompon in testa.
(Devi andare dritto in farmacia, comprare l'Aspirina e
tornare velocissimo a casa. Se fai così non ti succederà
niente.)
Prese una manciata di monete dal boccale, si fece il
segno della croce, si avvicinò all'ingresso e spalancò
la porta dell'inferno.
216.
«Ma cos'è questo traffico? Non capisco» sbuffava Beppe
Trecca alla guida della sua Puma. Cristiano, con il
cappuccio della felpa calato sulla fronte e le braccia incrociate,
sentiva appena l'assistente sociale.
Insonnolito, fissava attraverso il finestrino i capannoni,
gli outlet e le lunghe cancellate ai lati della
strada.
Facevano cinque metri e si piantavano. Uno strazio.
Erano sulla statale e in mezzora erano riusciti a
fare sì e no mezzo chilometro.
Trecca diede un pugno stizzito contro il volante.
«Dev'essere successo qualcosa! Un incidente. Non è
normale, questo traffico.»
Cristiano l'osservò con la coda dell'occhio. Non
l'aveva mai visto così nervoso.
Chiuse le palpebre e poggiò la testa contro il finestrino.
Chissà perché non mi ha ancora mandato dal giudice?
Si sentiva troppo stanco per darsi una risposta.
Avrebbe voluto dormire altre dodici ore. E al pensiero
di tornare da suo padre e vederlo su quel letto gli
sembrava di morire.
L'idea che il sole sorgeva e scompariva, che la gente
faceva la fila in macchina, che potevano buttare
una bomba atomica, che Cristo poteva tornare in Terra,
e che gli infermieri potevano prendere per il culo
suo padre, ridere di lui, mentre se ne stava lì, steso
come un pupazzo, gli faceva venire la nausea e una
rabbia tale che le mani cominciavano a formicolargli.
Se scopro che qualcuno lo prende in giro lo ammazzo,
giuro su Dio che lo ammazzo.
"Impara a dormire con un occhio solo, Cristiano. È nel
sonno che t'inculano" gli aveva detto suo padre la notte
che lo aveva mandato ad ammazzare il cane di Castardin.
Gli sembrava passato un secolo.
No, non ce la faceva ad andarlo a trovare.
Voleva tornare a casa e rimettersi a cercare l'anello,
quel maledetto anello con il teschio. Dopo aver abbandonato
il cadavere nel fiume, Cristiano era tornato a
casa e mentre Trecca dormiva si era messo a cercarlo.
Aveva messo a soqquadro il garage, e nemmeno ripulendo
il furgone l'aveva trovato.
Non c'era.
Aveva cercato nella giacca e nei pantaloni che suo
padre aveva addosso.
Nemmeno lì.
Doveva essere ancora nel bosco!
Le impronte digitali di suo padre su quel maledetto
anello erano l'unico indizio che poteva collegarlo
alla morte di Fabiana.
«Senti, e se svoltassimo per via Borromeo? Forse...»
gli chiese Trecca.
Cristiano fece finta di dormire. Finché erano in fila
non erano all'ospedale.
"Sta arrivando Trecca, veloce, tira fuori il Monopoli."
L'immagine di lui e suo padre che disponevano in
fretta e furia le casette e i soldi sul tabellone mentre
Trecca posteggiava gli rimase impressa sullo schermo
delle palpebre e un lieve sorriso gli increspò le labbra.
Una cosa che Cristiano non riusciva proprio a capire
era perché quello lì si stava sbattendo in questo
modo per lui.
Io per lui non farei nulla.
Era andato a prenderlo all'ospedale, l'aveva riportato
a casa, si era rotto la schiena a dormire sul divano
e ora lo riaccompagnava da suo padre.
"Nessuno fa niente per nessuno. Guarda dietro ai gesti,
Cristiano." Questo gli aveva insegnato Rino.
Eppure aveva la sensazione che Beppe Trecca non
avrebbe avuto lo straordinario a fine mese per essersi
occupato di lui.
Forse gli sto simpatico.
In ogni caso, entro pochi giorni, se suo padre non
si risvegliava, il giudice lo avrebbe sbattuto in un istituto
o in affidamento da qualche stronzo.
Doveva trovare Danilo al più presto. Lo poteva
adottare lui, almeno fino a quando papà non usciva
dal coma.
Sempre che lo riesco a trovare.
E se non lo avessero lasciato andare da Danilo sarebbe
scappato.
217.
Beppe Trecca aveva un bisogno disperato di caffè.
«Ma cos'è questo traffico? Non capisco» disse senza
aspettarsi nessuna risposta da Cristiano.
Dopo circa un chilometro c'era un bar, ma con
quella fila... Non riusciva neanche a capire quanto
poteva metterci.
L'assistente sociale diede un pugno stizzito contro
il volante. «Dev'essere successo qualcosa! Un incidente.
Non è normale, questo traffico.»
Oltre al caffè sarebbe stato perfetto un bel massaggio.
Le molle di quel divano sfondato gli avevano distrutto
la schiena.
Che notte infernale aveva passato. Troppo, troppo
freddo. E in più il boato dei camion sulla statale.
La sensazione, quando chiudevi gli occhi, era di essere
sdraiato in una piazzola di sicurezza dell'autostrada.
Spiò Cristiano con la coda dell'occhio.
Si era nascosto dentro il cappuccio e sembrava dormire.
Adesso sarebbe stato il momento perfetto per dirgli
tutto.
"Senti Cristiano, ti devo dire una cosa. Danilo è morto
in un incidente stradale." Vabbè, sai che faccio? Glielo dico
dopo.
Quel giorno doveva anche chiamare il giudice minorile.
Forse riusciva a convincerlo ad aspettare un
altro po'. Un paio di giorni.
Il tempo che Ida si fosse dimenticata di lui.
Ma a lui quanto tempo occorreva per dimenticarsi
di lei?
Era passato solo un giorno senza vederla e sentirla,
ma gli sembrava un anno. Prima si vedevano sempre.
Una volta a settimana andavano a fare la spesa ai
Quattro Camini. E Ida gli impediva di comprarsi le
schifezze congelate. E poi lui l'accompagnava a riprendere
i bambini in piscina. E se capitava che non
si vedevano per un paio di giorni si sentivano al telefono.
Era la sua migliore amica.
La compagna della mia vita.
Continuava ossessivamente a ripensare a loro due
nel camper che facevano l'amore. All'odore buono
della sua pelle. A quei capelli così lisci. A quando l'aveva
sentita tremare fra le sue braccia. Era stata la
cosa più bella della sua vita. E per la prima volta si
era comportato da uomo. Aveva preso in mano le loro
vite ed era pronto ad assumersi le proprie responsabilità.
Improvvisamente aveva capito cosa voleva dire vivere.
Ma ora, nello stato disperato in cui si trovava,
avrebbe cancellato quella notte e sarebbe tornato indietro
ai tempi in cui erano solo amici. Ai tempi in
cui mentiva a se stesso.
Si guardò intorno.
Sulla destra c'era Truffarelli, un grande rivenditore
di sanitari.
In quel posto c'era andato con lei a scegliere le
maioliche del cesso per la casa di montagna comprata
da Mario.
Ogni cosa di quella maledetta pianura gli ricordava
lei.
Basta!
Se ne doveva andare. Lontano. Nel Burkina Faso a
scavare pozzi artesiani. Era l'unica cosa da fare. Una
volta sistemato Cristiano, si sarebbe licenziato e sarebbe
partito.
218.
Era stato facile arrivare fino alla farmacia.
Nessuno lo aveva degnato di uno sguardo. O, se lo
avevano fatto, l'Uomo delle Carogne non lo aveva
notato, perché aveva tenuto gli occhi a terra.
La vecchia farmacia Molinari, con la croce al neon
che si accendeva e si spegneva, in vetrina il busto di
un uomo marrone ricoperto di bende e i cartelli delle
creme rassodanti, era lì di fronte.
Ora bastava entrare, chiedere l'Aspirina, pagare e
scappare.
L'Uomo delle Carogne si grattava la guancia, strizzava
la bocca e si dava pugni sulla coscia.
Era indeciso se entrare. Quel farmacista era pazzo,
completamente fuori di testa. Si era convinto, chissà
perché, che lui fosse un tifoso sfegatato della Juventus.
E l'Uomo delle Carogne detestava i pazzi, i tipi
strani, gli anormali, insomma. E poi a lui il calcio faceva
schifo.
Non gli capitava spesso di andare in farmacia, ma
ogni volta quello lì, un tipo magrolino con pochi capelli
in testa e il pizzetto, attaccava a parlargli di giocatori
che lui non conosceva e della classifica e una
volta lo aveva invitato ad andare a Torino a vedere
una partita di Champions.
«Dai dai, vieni vieni, siamo un bel gruppo di scalmanati.
Ci divertiamo. Si va in pullman.»
L'Uomo delle Carogne aveva il problema che se
qualcuno gli diceva qualcosa su di lui che non era vero,
lui non riusciva a smentire. Si vergognava.
Anche quando aveva accettato di seguire un corso di
yoga l'aveva fatto perché un collega dell'impresa edile
gli aveva detto che era certo che gli sarebbe piaciuto.
E quindi si era ritrovato in un pullman stipato di
tifosi bianconeri diretti allo stadio. Quando erano
scesi dal pullman, l'Uomo delle Carogne aveva finto
di andare in bagno e si era nascosto dietro un furgone
dei celerini e soltanto dopo la fine della partita era
risalito sul pullman.
E se adesso entrava nella farmacia e quello l'obbligava
di nuovo ad andare allo stadio?
L'Uomo delle Carogne si sedette su una panchina
senza sapere cosa fare. Aveva bisogno di quella
Aspirina.
Poteva sempre andare alla farmacia della stazione.
Era lontana e doveva prendere il motorino, ma meglio
che affrontare il folle.
Stava per tornare a casa quando dalla Boutique
della Carne, dall'altra parte della strada, uscirono
due donne che si fermarono davanti alla farmacia.
Dovevano avere una sessantina d'anni. Una era alta
e affilata come una mantide religiosa e l'altra era
piccola e verde come un goblin. Il goblin si trascinava
dietro un quadrupede che sembrava un diavolo della
Tasmania.
L'Uomo delle Carogne le vedeva discutere animatamente
di fronte alla vetrina della farmacia. Se si decidevano
a entrare, il farmacista sarebbe stato troppo
occupato per parlare con lui.
Finalmente la mantide religiosa spinse la porta a
vetri e le due scomparvero dentro il negozio.
L'Uomo delle Carogne si alzò e zoppicando entrò
anche lui. Si nascose dietro un espositore girevole di
prodotti per i piedi.
A servire, oltre il pazzo, c'era una signora di una
certa età con il camice bianco che leggeva le ricette e
le timbrava con violenza. Era a lei che doveva chiedere
l'Aspirina.
In fila, oltre alle due, c'erano un vecchio con la coppola
e un ragazzo.
L'Uomo delle Carogne, con le sue monete strette
nel pugno, cominciò a ripetersi a bassa voce la sua
battuta: «Salve. Buongiorno. Per favore mi dà l'Aspirina
che si scioglie nell'acqua? Grazie. Quant'è?».
Intanto le due donne, a meno di mezzo metro, parlavano
sottovoce come cospiratrici.
«E insomma mi ha chiamato cinque minuti fa...»
diceva il goblin e mostrava il cellulare all'amica come
per provare che non diceva balle.
Quella alta e mezza calva si accigliò un istante. «Ma
non ho capito, dov'è tuo marito ora?»
«Sul ponte! È lì da due ore. Il traffico è completamente
bloccato.»
«E che cosa ti ha detto esattamente?»
«Matilde, perché ti devo ripetere le cose cento volte?
Ma la prendi la medicina per la testa che ti ha dato
il medico?»
«Sì, che la prendo» tagliò corto la perticona, spazientita.
«Mi dici cosa ti ha detto? Ti ha detto proprio
che c'è un cadavere sotto il ponte?»
«Esatto. Proprio così. Senti, Matilde cara, perché
non fai una santa cosa? Perché non ti prendi un taxi e
vai a vedere? Così capisci tutto.»
"Comunque con te non si può proprio discutere!"
avrebbe voluto ribattere la mantide, ma riuscì a dire
solo «Comunq...» perché un uomo con una cerata addosso
aggrappato all'espositore girevole dei prodotti
del dottor Scholl's le piombò sull'alluce e la donna cominciò
a urlare un po' per lo spavento e un po' per il
dolore. A terra, l'uomo con la cerata tentava di rimettersi
in piedi, ma come un alce su un tappeto di biglie
riusciva solo a scivolare e scalciare sui cerotti per i calli
e sulle suolette traspiranti al mentolo e quando finalmente
riuscì a tirarsi su, zoppicando, singhiozzando,
ragliando come un mulo in un mattatoio, si gettò contro
le porte a vetri della farmacia e scomparve.
219.
«Scusi, ma che cosa è successo?» stava domandando
Beppe Trecca a un camionista che era sceso da un
lungo tir giallo e nero e si fumava una sigaretta.
L'uomo cacciò una boccata di fumo e disse con voce
annoiata, come se gli fosse già capitato un milione
di volte: «Sembra che abbiano trovato un morto nel
fiume».
Cristiano, che cercava ancora di appisolarsi, trasalì
come se avesse ricevuto un cazzotto in pieno stomaco.
Sentì un brivido alla base della nuca, le ascelle che
si gelavano e le guance che prendevano fuoco.
Chiuse e riaprì gli occhi. Spalancò la bocca. Provò
ad ascoltare quello che si stavano dicendo Beppe e il
camionista, ma un rombo nelle orecchie gli impediva
di sentire.
Riuscì solo ad afferrare una frase del camionista:
«In questi casi bloccano tutto fino all'arrivo del magistrato».
E così avevano ritrovato il corpo di Fabiana.
Subito.
Secondo le sue previsioni doveva arrivare al mare
e lì essere mangiato dai pesci e invece, dopo nemmeno
quattro ore, era stato ritrovato a uno sputo da casa
sua.
Provò a deglutire, senza riuscirci. Doveva vomitare.
Uscì dalla macchina e poggiò le mani sul cofano
caldo e lasciò penzolare il capo.
(Pensavi veramente che, per magia, il corpo sarebbe
scomparso?)
Dovevo sotterrarla.
(Pensavi veramente che Dio o la fatina buona ti avrebbero
aiutato perché stai salvando tuo padre?)
Dovevo metterla nel cemento.
(Da quando sei entrato in quel bosco e hai deciso di...)
Dovevo scioglierla con l'acido. Dovevo carbonizzarla.
(Sei diventato...)
Conosceva la parola.
COMPLICE.
Dovevo tagliarla in mille pezzi e darla da mangiare ai
maiali, ai cani.
(Tu sei colpevole più di lui.)
«Cristiano?» Beppe Trecca lo stava chiamando.
(Tu sei peggio di lui.)
«Cristiano?»
(E adesso ti beccheranno. Ci metteranno un attimo a
beccarti. Sei finito.)
«Cristiano, mi rispondi? Cos'hai?»
Sollevò il labbro superiore e ringhiò: «Che cazzo
vuoi tu, eh?». Strinse i pugni sentendo improvvisamente
una voglia incontenibile di ridurre la faccia di
quel pezzo di merda a una palla di macinato.
L'assistente sociale fece un passo indietro spaventato
e incassò la testa tra le scapole. «Niente. Sei pallido
come un lenzuolo. C'è qualcosa che non va? Ti
senti male?»
Dal profondo della gola gli uscì un gorgoglio e poi
sputacchiando riuscì a dire: «Non mi rompere il cazzo!
Che cazzo te ne frega come mi sento? Ma chi cazzo
sei? E che cazzo vuoi da me?». Mentre diceva tutto
questo si accorse che intorno a loro si era formato un
gruppetto di automobilisti curiosi, che erano scesi
dalle macchine incolonnate convinti di osservare la
classica scena di un padre che litiga con il figlio adolescente.
Chissà, forse speravano che si prendessero a
botte, che scoppiasse un casino.
Quanto avrebbe voluto avere una spranga bella
pesante per sfondare a tutti le loro teste di cazzo. Almeno
prima di finire il resto della vita in galera faceva
una strage.
E questi li ho ammazzati io. Io con queste mani. Così
quando ti svegli - se mai ti sveglierai, stronzo - vediamo
chi ne ha ammazzati di più, figlio di puttana bastardo.
Trecca gli si avvicinò. «Cristiano! Ascolta...»
Ma Cristiano Zena non ascoltava. Guardava verso
il cielo, verso quelle nuvole marroni così basse che
avrebbe potuto toccarle con la punta delle dita, verso
quelle nuvole che tra poco avrebbero sparso altra acqua
su questo mondo di merda, e si sentì levitare, come
se improvvisamente gli alieni lo avessero risucchiato
nello spazio. Barcollò provando una vertigine,
sollevò le braccia verso le nuvole, gettò la testa indietro
e s'immaginò di cacciare fuori tutto quello che teneva
dentro, tutto quel nero che aveva dentro, quella
rabbia nera, quella paura, quella sensazione di non
contare un cazzo, di essere il più sfigato del pianeta,
il più solo e disperato essere del mondo. Fuori. Sì,
fuori. Doveva sputare fuori dalla bocca tutti i pensieri,
tutte le angosce, tutto. E trasformarsi in un cane
nero. Un cane nero, un cane senza cervello, che correva
allungando le zampe, curvando la schiena, rizzando
la coda. Toccava appena terra e si distendeva perfetto
come un angelo.
«Come un angelo...» gli uscì, poi guardò con uno
strano sorriso Beppe, il camionista con il gilè di pelle,
gli automobilisti che sembravano manichini e dietro
di loro, oltre la statale, una striscia verde di erbacce
che divideva due campi arati e su cui avrebbe potuto
correre per sempre fino ad arrivare dove sarebbe stato
libero. Libero.
Guardò ancora Trecca e poi si lanciò verso i campi
e con un salto incredibile superò il guardrail e per un
infinito istante gli sembrò di volare.
220.
La pioggia scrosciava sugli ombrelli di centinaia di
curiosi che si affacciavano dal ponte e dai terrapieni,
scrosciava sui fari argentati che spargevano fasci di
luce asettica sui flutti neri del fiume e sul cellophane
che nascondeva il cadavere, scrosciava sugli impermeabili
degli agenti della polizia stradale, scrosciava
su un tendone, tirato alla meno peggio, proprio dove
Rita Baldi aveva visto per prima il cadavere, scrosciava
sulle volanti e sui camion dei pompieri, scrosciava
sul fuoristrada dei sommozzatori e sui pullmini delle
televisioni locali e sulla cerata gialla dell'Uomo delle
Carogne.
Era lì, schiacciato nella folla, affacciato al ponte.
Cinquanta metri più sotto, un gommone rosso
combatteva con rapide e mulinelli cercando di raggiungere
il corpo avvolto nella plastica.
Lo sguardo dell'Uomo delle Carogne si spostò dal
fiume nero ai terrapieni gremiti di ombrelli, da lì scivolò
sulla statale completamente ricoperta di macchine
ferme e sui poliziotti bagnati, si sollevò verso il
cielo dove un elicottero ronzava e infine si posò sulle
sue mani tremanti.
Le mani che avevano prodotto tutto quello...
Quando una formica trova il cadavere di un topo non si
tiene la scoperta per sé. La prima cosa che fa è correre come
una pazza nel formicaio e avvertire tutti: "Correte! Correte!
Non sapete cosa ho trovato!".
Mezzora dopo la carcassa è completamente rivestita di
formiche.
Uguale identico per gli uomini.
Se lui non avesse ucciso la ragazza, ora tutte quelle
persone sarebbero state a casa loro. E non affacciate
lì, a gelarsi sotto la pioggia per vedere quello che lui
aveva fatto.
Anche quella fila di macchine lunga dieci chilometri
l'aveva fatta lui. Quei fari li aveva fatti mettere lui.
E quei carabinieri li aveva fatti venire lui. E lui avrebbe
fatto sedere delle persone a un tavolo per scrivere
di lui.
E la cosa incredibile era che nessuno poteva immaginare
che in mezzo a loro c'era colui a cui Dio aveva
ordinato di farlo.
Lo vedete quello lì? Quel povero sciancato che voi considerate
una merdina? Signore e signori, è stato lui. A lui
Dio ha affidato la missione.
E tutti ad applaudire.
"Bravo! Bravo! Beato te!"
Questa cosa era molto bella. Molto bella davvero.
L'Uomo delle Carogne si ricordò che una volta
Duccio Pinelli, un saldatore che aveva lavorato all'Euroedil
nella loro squadra, aveva raccontato a lui
e a Rino che all'età di diciotto anni, dopo una sbornia
al pub, aveva investito un ciclista sulla strada
che portava a Bogognano. Sul luogo dell'incidente
erano arrivate le ambulanze e la polizia e la strada,
proprio come in quel momento, era stata chiusa per
un sacco di tempo e si era formata una coda lunga
dieci chilometri.
«Quella è stata la cosa più importante che ho fatto
in tutta la mia vita» aveva spiegato. «Sai quanta gente
c'è in una fila di dieci chilometri di macchine? Migliaia
di persone. Vi rendete conto che migliaia di
persone hanno perso quattro ore della loro vita per
colpa mia? Hanno mancato appuntamenti, sono arrivate
tardi al lavoro e chissà che possibilità incredibili
hanno perso. Io gli ho cambiato il destino. Cominciando
dal ciclista e dalla sua famiglia. No, "importante"
non è la parola giusta. "Importante" sembra
che sia una cosa bella. C'è un'altra parola, più giusta,
che non mi viene. Ce l'ho sulla punta della lingua...»
«Rilevante?» gli aveva suggerito Rino, mezzo
ubriaco.
«Bravo! Rilevante! Io nella mia vita avrò cambiato
il destino di due, tre persone al massimo. Ma il giorno
dell'incidente l'ho cambiato a migliaia di persone.»
Era stato in silenzio a lungo con gli occhi puntati
nel nulla. E poi d'improvviso aveva aggiunto: «Forse
a qualcuno pure in meglio, chi può saperlo. Forse per
quelle quattro ore di ritardo due hanno avuto la possibilità
di incontrarsi, di conoscersi e di amarsi». Poi
si era stiracchiato e aveva concluso: «Sì, quello è stato
il momento più rilevante della mia vita».
E ora anche l'Uomo delle Carogne aveva fatto una
cosa importante. Mille volte più importante di quella
di Duccio Pinelli.
Questa sarebbe finita in prima pagina, forse anche
in televisione.
221.
Cristiano Zena era seduto sulla carcassa di una 127
bruciata e guardava nella pioggia centinaia di gabbiani,
ad ali spiegate, avvitarsi in larghe spirali sopra
un cratere ricolmo d'immondizia.
Migliaia di tonnellate di rifiuti fumanti su cui banchettavano
corvi e gabbiani, su cui si arrampicavano
ruspe e camion.
Se l'era trovata davanti. All'improvviso.
Dopo che si era buttato giù dalla statale, aveva corso
a perdifiato tra i campi, aveva costeggiato capannoni,
seguito recinzioni, si era fatto abbaiare dietro
da cani alla catena, a un tratto aveva guardato il cielo
e aveva visto i gabbiani volteggiare come avvoltoi
che hanno puntato una bestia morta. Era andato
avanti, premendosi una mano sulla milza, a testa
bassa e seguendo il terreno ricoperto di erbacce e sassi,
e gli era apparso di fronte quel cratere circolare
largo quasi un chilometro.
Tutta la merda finisce qua dentro.
Si accese l'ultima sigaretta del pacchetto che teneva
in tasca oramai da una settimana e prese una bella
boccata senza provare nessun piacere.
Si girò. Attraverso i finestrini senza più vetri vide
che del sole era rimasto solo un alone violaceo.
A quest'ora la polizia si è già messa alla ricerca dell'assassino.
Al pensiero che centinaia di persone erano lì a cercare
di capire chi mai aveva potuto ammazzare Fabiana
si sentiva soffocare.
In realtà stava così da quando la telefonata di suo
padre l'aveva svegliato nel cuore della notte. Non
riusciva più a respirare a pieni polmoni e anche se
apriva il petto e inspirava forte non si riempiva mai
completamente d'aria.
Improvvisamente si ricordò del piranha che aveva
visto nel negozio di animali al centro commerciale.
Era una bella bestia con la pancia rossa. Grande
quanto un dentice da due porzioni. Tre, quattro etti.
A Cristiano i piranha non piacevano per niente.
Stanno lì, immobili, al centro dell'acquario e non fanno
niente. Non c'è pesce più noioso.
Questo qui poi era proprio cretino, con quella faccia
inespressiva, quei dentini storti che gli uscivano
dalla bocca e quegli occhi neri come due caramelle alla
liquirizia. Lo avevano messo in una vaschetta troppo
stretta, in compagnia di una grossa tartaruga acquatica,
una di quelle verdi con le macchie arancioni
sulle guance. Quelle che la gente tiene dentro delle
bacinelle con la palmetta di plastica fino a quando
non si rompe i coglioni e le butta nel cesso.
Be', le tartarughine acquatiche le devi lasciar perdere.
Sono animali tosti. A sangue freddo. Non muoiono
mai. Bestie tropicali, abituate a vivere nell'acqua
calda, ma stanno benissimo anche nell'acqua
fredda, dove diventano grandi come padelle. E in
natura esistono pochi animali più voraci e aggressivi
delle tartarughe acquatiche. Peggio dei coccodrilli,
che sono voraci pure loro, ma dopo che sono sazi
si abbattono sulla riva e li puoi prendere a calci che
nemmeno ti filano. Invece le tartarughe hanno sempre
fame.
Insomma, il piranha e la tartaruga stavano in questo
acquarietto nel negozio di animali del centro
commerciale. La tartaruga agitava quelle sue zampette
come se non sapesse nemmeno nuotare e allungava
il collo e tac, dava un morsetto con quel suo
becco a punta alle pinne del piranha. Gli aveva mangiato
già mezza coda e delle pinne laterali erano rimasti
due monconi.
Cristiano vedendo quello che stava combinando
quel mostro era corso dalla proprietaria del negozio a
dirglielo. Ma lei lo aveva fissato con la stessa attenzione
con cui osservava i barattoli di mangime per
pesci rossi.
Cristiano era tornato alla vasca e la tartaruga continuava
a massacrare il piranha, che accettava la tortura
con una pazienza e una rassegnazione che ti facevano
arrotolare le budella nella pancia.
Ma a un certo punto la tartaruga, dopo aver attaccato
la pinna, aveva preso di mira l'opercolo branchiale.
Un colpo. Un altro. E finalmente aveva affondato
le fauci nella branchia, gonfia di sangue. La
vasca si era riempita di una nuvola rossa che si era
stemperata in rosa pallido nell'acqua della vasca. E
quel sangue era andato a contatto con il naso del piranha.
L'occhio gli si era riacceso come lo schermo di
un computer e il pesce aveva cominciato a fremere, a
eccitarsi, proprio come uno squalo farebbe per il sangue
di una preda: ma non era il sangue di una preda,
era sangue suo, e improvvisamente il piranha era
scattato sguainando una sfilza di dentini affilati e
aveva lacerato la gola della tartaruga con la stessa facilità
con cui si slabbra un collant.
Cristiano era riuscito a tirare fuori, con un retino
(non avrebbe messo le mani là dentro per nulla al
mondo), il rettile dalla vasca prima che il piranha lo
ammazzasse e lo aveva gettato in un'altra piena di piccoli
pesci neon. La tartaruga, mezza morta, si era avventata
sui pesciolini e li ingoiava tutti interi, ma quelli
vivi e vegeti le uscivano fuori dallo sbrego sulla gola.
Ecco, Cristiano Zena, in quel momento, si sentiva
proprio come il piranha del centro commerciale, attaccato
da tutte le parti. E quando finalmente avrebbe
sentito l'odore del sangue, del suo stesso sangue, sarebbe
scattato e avrebbe fatto una strage.
Gettò a terra la cicca e con la suola la ridusse a una
poltiglia.
E se qualcuno mi ha visto?
Improvvisamente gli sembrò di non essere più tanto
sicuro che nessuno lo avesse visto quando aveva
buttato il cadavere nel fiume. Bastava un pescatore,
una persona qualunque, anche a centinaia di metri,
ed era spacciato.
Cristiano si passò una mano sulla fronte. Era sudato
e si sentiva male.
Mi troveranno. Mi troveranno sicuro.
Aspetta!
Aspetta! Aspetta un attimo, cazzo! Non l'hai ammazzata
tu! Ma che ti prende? Non l'hai ammazzata tu! Non sei
stato tu! Tu non hai fatto niente. Tu hai fatto quello che
avrebbe fatto qualsiasi figlio.
«Qualsiasi figlio farebbe come me» mugugnò Cristiano
con la mano sulla bocca. «Lo capiranno.»
Ma che capiranno... Io finirò in galera per sempre.
«Ma perché...? Cazzo!» Si alzò di scatto e mentre
dava un calcio contro la portiera ammaccata della
127 il telefonino cominciò a suonare. Lo tirò fuori dalla
tasca sperando che fosse Danilo. Ma era Trecca...
Lo lasciò squillare e dopo una decina di squilli si
zittì e a quel punto lui richiamò ancora una volta Danilo.
Il cellulare, come al solito, era staccato. Provò a
casa.
Era libero. Suonava suonava, e nessuno rispondeva.
Stava per riattaccare quando una voce di donna all'improvviso
fece: «Sì, pronto?».
«Pronto...» rispose stupito Cristiano.
«Chi è?»
«Sono Cristiano...»
Un attimo, poi: «Sei il figlio di Rino?».
Cristiano riconobbe la voce. Era Teresa, la moglie
di Danilo. «Sì... Posso parlare con Danilo?»
Ci fu di nuovo un istante di silenzio, poi Teresa con
una voce spenta disse: «Non sai niente?».
«Cosa?»
«Nessuno te l'ha detto?»
«No. Cosa?»
«Danilo... Danilo se n'è andato.»
«Come se n'è andato? Dove se n'è andato?»
«Ha avuto un terribile incidente in macchina. È
uscito fuori strada e si è schiantato contro un muro
e...»
No, non poteva essere... «È morto? Non ho capito,
è morto?»
«Sì. E morto. Mi dispiace...»
«Ma perché è morto?»
«Pare che fosse ubriaco. Ha sbandato...» La voce di
Teresa sembrava venire fuori da un buco.
Cristiano si tolse il cellulare dall'orecchio e lasciò
scivolare giù il braccio. Chiuse la conversazione fissando
i gabbiani in cielo, la spazzatura, le colonne di
fumo nero.
Danilo era morto.
Come il cuore di Cristiano.
Che non sentiva più nulla. Assolutamente nulla.
Non gliene fregava proprio un cazzo che Danilo, il
suo zio adottivo, quel ciccione di Danilo, fosse morto
schiantato contro un muro.
L'unica cosa che gli venne da pensare era che adesso
era veramente nella merda.
Devo scappare. Devo trovare Quattro Formaggi e dobbiamo
scappare.
Ma prima devo spiegarlo a papà.
222.
Sul fiume, a qualche chilometro di distanza dalla discarica,
il gommone dei carabinieri era riuscito ad avvicinarsi
al cadavere.
La folla si era improvvisamente zittita e si sentivano
solo il suono della pioggia che cadeva sugli
ombrelli, il ronzio delle lampade incandescenti da
cui si sollevavano spirali di vapore e lo scroscio del
fiume.
Un sommozzatore, con muta e salvagente, si gettò
imbracato dal gommone. Per un istante sembrò
che un gorgo lo risucchiasse sul fondo, ma poi fu
sputato fuori e riuscì a farsi portare dalla corrente fino
all'albero su cui si era incastrato il cadavere. Abbracciò
il fagotto e venne riportato faticosamente
sulla barca.
Dai terrapieni, da sopra al ponte, partì una salva di
applausi che si perse nel fragore del fiume.
L'Uomo delle Carogne, affacciato al parapetto, si
grattava a sangue il collo.
Ramona.
Chi era stato? Chi l'aveva avvolta in quel telo di
plastica e l'aveva gettata nel fiume?
Dio non può essere stato. Lui non si sporca le mani.
Dio le cose le fa fare sempre agli altri, lui ordina e
qualcuno si prende la briga di eseguire.
Perché non lo hai fatto fare a me? Avrei capito. Avrei rinunciato
a finire il presepe. Ho fatto tutto per te.
Si guardò intorno. C'erano centinaia di persone bagnate.
Tra quelle, forse, c'era anche chi aveva buttato
il cadavere.
Chi sei? Dove sei? Voglio parlarti. Forse tu mi puoi aiutare
a capire.
Si prese la testa tra le mani e premette sulle tempie.
Troppi pensieri gli attraversavano la mente. Troppe
voci gli parlavano insieme e lo stordivano. Anche
se avvertiva che presto quei ragionamenti che gli infettavano
il cervello si sarebbero spenti e ci sarebbe
stato finalmente il silenzio.
Il cellulare, nella tasca, cominciò a suonare. Lo tirò
fuori. «Pronto?»
«Pronto, Quattro Formaggi?»
Basta!!! Non mi chiamo così, lo volete capire?!! «Chi
sei?»
«Sono io, Cristiano. Ascoltami. È importante. Dove
sei?»
«In giro.»
«Ti va di vederci in ospedale? Ti devo parlare.»
«Quando?»
«Subito. Ho avuto un'idea. Vieni presto.»
L'Uomo delle Carogne sentì alle sue spalle il suono
di una sirena. Si voltò e vide una macchina della polizia
che avanzava lentamente tra due ali di folla. Dietro
al finestrino posteriore, rigato dalla pioggia, c'era
un uomo.
È lui. È lui che ha buttato il cadavere.
Vacillò, le gambe non lo reggevano più, si attaccò
alla ringhiera.
«Quattro Formaggi, ci sei?»
«Scusami.» Spense il cellulare. Cominciò a seguire
la volante, a barcollare tra la gente, ad avanzare con
fatica, ansando, in quel delirio, a testa bassa, facendosi
spazio a gomitate, quasi svenendo per il male al
fianco e alla spalla. Tutto si era sciolto in una tenebra
affollata di mostri che si arrabbiavano, che lo insultavano,
che lo notavano, che si segnavano la sua faccia
nella memoria, ma non importava: doveva seguire
quell'uomo.
Finalmente la macchina si fermò e la sirena si spense.
L'Uomo delle Carogne avrebbe voluto avvicinarsi
di più, ma un cordone di poliziotti gli impediva di
farlo.
Una donna, con l'ombrello e una torcia in mano,
aprì la portiera della volante. Il tipo uscì coprendosi
la testa con un giornale. I due scomparvero per una
scala di ferro che portava al greto del fiume.
L'Uomo delle Carogne fendette la calca e si affacciò
per seguirli con lo sguardo.
Li vide scendere una lunga scala di ferro e raggiungere
la riva, dove era stata portata Ramona. Vide
l'uomo accucciarsi accanto al cadavere e poi mettersi
le mani sulla faccia.
Ma quello è il padre...
Spalancò la bocca e per un istante un raggio di luce
gli illuminò il cuore. Rimase senza fiato, sopraffatto
dal dolore di quell'uomo a cui aveva ammazzato la
figlia.
Cosa ho fatto?
Ma durò un attimo. Le tenebre gli avvolsero di
nuovo il cuore e si rese conto che non avrebbe mai finito
il presepe. Ora avrebbero messo Ramona dentro
una bara e poi l'avrebbero coperta di terra.
Tutto quello che aveva fatto non era servito a niente.
Nessuno capiva che era morta per qualcosa di
grande, di più importante. Perché così Dio comanda.
La gente cominciava a tornarsene alle macchine.
Lo spettacolo era finito.
C'era una bambina con un impermeabile blu e un
caschetto di capelli neri che teneva la madre per mano
e con gli occhi lucidi continuava a tirare su con il
naso. L'Uomo delle Carogne si fermò, la guardò e desiderò
piangere anche lui. Sollevò la mano e singhiozzando
le fece ciao. La bambina si coprì la faccia
come intimidita dalla figura di quell'uomo magrìssimo
che piangeva nascosto sotto un cappuccio giallo,
ma poi lo salutò.
I due si sorrisero.
E se fosse stato Rino a gettare Ramona nel fiume? Un
fulmine illuminò il crepuscolo della mente dell'Uomo
delle Carogne.
E se Rino, nel bosco, non era morto come sembrava?
Se aveva fatto finta?
223.
Beppe Trecca, chiuso nella Puma, era ancora imbottigliato
nel traffico. Se fino a mezzora prima la fila si
era mossa a passo d'uomo ora si era inchiodata. Vedeva
lo svincolo a un centinaio di metri, come un miraggio.
Richiuse con uno scatto nervoso il cellulare.
Quel piccolo teppista non rispondeva.
Adesso aveva proprio esagerato. Ma che modo di
fare era? Lui cercava di aiutarlo e quello prendeva e
scappava come un pazzo. E se gli succedeva qualcosa?
Chi ci finisce, nei casini? Il sottoscritto!
Ma appena lo trovava gliene diceva quattro.
Sarà andato da suo padre. Dove altro può andare? E se
non lo trovo in ospedale? Se quel deficiente è scappato?
Ebbe la sensazione che un boa lo stesse stritolando.
Allentò il nodo della cravatta, si slacciò il colletto della
camicia e prese a iperventilare cercando di buttare
fuori l'ansia.
Ho anche finito lo Xanax.
In quella maledetta macchina non si respirava.
Aprì il finestrino, ma la situazione non migliorò.
Era quella coda infinita a farlo stare male. Si sentiva
bollire.
Spostò la Puma sulla corsia di emergenza, mise le
quattro frecce, prese l'ombrellino dal sedile posteriore
e uscì.
È solo un attacco di panico. Basta che ti prendi le gocce e
ti passa.
Poggiò una mano sul cofano come se fosse stremato
da una lunga maratona e si guardò intorno. Il cielo
grigio come piombo. Le macchine che strombazzavano.
La pioggia che non finiva mai.
Ma cosa sto facendo ancora in questo posto?
Io devo andare nel Burkina Faso.
Era meglio che Cristiano andasse in un istituto. Lui
quello che poteva fare l'aveva fatto. Adesso basta,
però.
E insomma... Io sono un uomo libero.
Lui non dipendeva da nessuno. E nessuno dipendeva
da lui. Poteva scegliere di fare della propria vita
quello che voleva. Era stato lui a decidere di essere
single, libero di viaggiare, di conoscere nuovi mondi,
nuove civiltà.
E allora perché cazzo mi sono fatto incastrare in questa
landa di merda? Ad aiutare gente che non vuole essere aiutata.
Se c'è uno che ha bisogno di aiuto, quello sono io.
Non c'è un cane che si domanda come sta questo disgraziato!
Pure mia cugina, una telefonata...
Diede uno sguardo alla fila immobile. A una decina
di metri era ferma una monovolume. Al volante
un frate. Dietro s'intravedevano due grossi cani San
Bernardo che con il fiato avevano appannato i finestrini.
Inebetito, Beppe rimase a fissare il monaco.
Ci devo variare. Immediatamente.
Gli si avvicinò e bussò al finestrino. L'uomo, sorpreso,
fece un salto sul sedile.
«Mi scusi, mi scusi. Non volevo spaventarla.»
Il vetro si abbassò.
Il frate aveva una faccia smilza e i capelli lisci e
bianchi. La carnagione olivastra. Degli occhiali stretti
gli si posavano su un lungo naso. «Ha bisogno di
aiuto?»
«Sì.»
«Problemi con la macchina?» I musi dei molossoidi
si sporsero come per vedere chi fosse quel tipo e poi
tutti contenti incominciarono a sbavare sul sedile del
guidatore.
«Isotta! Tristano! Basta! A cuccia!» urlò il frate e poi
si rivolse di nuovo a Trecca. «Sono ore che stanno
chiusi qua dentro...»
«Posso salire? Devo confessarmi.»
Il frate aggrottò le sopracciglia. «Mi scusi, non ho
capito.»
«Deve confessarmi.»
«Qui? Adesso?»
«Sì, adesso. La prego...» implorò l'assistente sociale.
E senza aspettare risposta salì nella Espace.
224.
Il chiarore lattiginoso dei lampioni bagnava la larga
scalinata dell'ospedale del Sacro Cuore. L'Uomo delle
Carogne posteggiò il motorino. La sciarpa arrotolata e
il cappello gli lasciavano fuori solo gli occhi. Tutto
gobbo e zoppicante entrò nella hall semideserta dell'ospedale.
Vide Cristiano fermo davanti all'ascensore.
Gli si avvicinò. «Eccomi.»
Il ragazzo sulle prime sembrò non riconoscerlo. Ma
poi lo afferrò per un braccio: «Ma cosa ti è successo?».
L'Uomo delle Carogne stava per dirgli la balla idiota
che si era preparato ("Sono caduto dal motorino")
quando ebbe un improvviso lampo di genio.
Abbassò lo sguardo. «Mi hanno picchiato.»
Cristiano fece un passo indietro e strinse i pugni
come se fosse su un ring. «Chi è stato?»
«Dei ragazzi sulle moto mi hanno tagliato la strada
e mi hanno preso a calci e pugni.»
«Ma quando è successo?»
«Domenica sera. Stavo andando a casa di Danilo...»
«Chi erano?» Un'espressione di odio deformò i lineamenti
di Cristiano. «Dimmi la verità. Era Tekken?
È stato Tekken?»
C'è cascato.
L'Uomo delle Carogne a questo punto, come un attore
consumato, fece segno di sì.
«E perché non mi hai chiamato?»
«Non lo so... Quando se ne sono andati ho preso il
motorino e sono tornato a casa. E poi non riuscivo ad
alzarmi dal letto.»
«Perché non mi hai detto niente quando ci siamo
sentiti?»
Quattro Formaggi alzò le spalle.
«Tu me lo dovevi dire invece, Quattro. Tekken ti ha
picchiato perché sei mio amico. Ce l'ha con me e
quindi se l'è presa con te. Quel bastardo la pagherà.
Giuro su Dio che la pagherà.» Cristiano gli guardò la
guancia ricoperta dalla macchia violacea di un ematoma:
«Ma ti sei fatto vedere da un dottore?».
L'Uomo delle Carogne cercò di liquidare. «Non è
niente... Sto bene.»
Cristiano gli toccò la fronte. «Tu scotti. Devi avere
la febbre. Non ti reggi in piedi... Qui c'è il pronto soccorso...»
«No! Ti ho detto di no. Mi chiuderebbero da qualche
parte. Non vedono l'ora...»
Cristiano inspirò con il naso. «Hai ragione, Quattro
Formaggi. Anche a me mi vogliono sbattere in
un istituto. Stai a sentire, ho avuto un'idea. Una
buona...»
L'Uomo delle Carogne non ascoltava. Era sbiancato
e digrignava i denti come se li volesse frantumare
e gonfiava e sgonfiava le guance. Era la terza volta
che Cristiano lo chiamava Quattro Formaggi e questo
non andava bene. Nessuno doveva mai più chiamarlo
così. Mai più.
Si trattenne dall'afferrarlo e lanciarlo contro una
vetrata dell'ingresso urlandogli: "Nessuno! Nessuno
mi deve chiamare così. Hai capito?! Nessuno!".
Invece si diede un paio di manate sulla fronte e con
un sospiro angosciato riuscì a borbottare: «Non mi
devi chiamare così».
«Come?» Cristiano stava parlando e non aveva
sentito. «Cos'hai detto?»
«Non mi devi più chiamare così.»
Cristiano sollevò un sopracciglio. «In che senso,
scusa?»
L'Uomo delle Carogne si diede due pugni su una
gamba e abbassò gli occhi come un bambino che ha
combinato un pasticcio. «Come hai fatto prima. Non
mi chiamare più così.»
«Così, come? Non vuoi che ti chiamo più Quattro
Formaggi?»
«Sì. Mi dà fastidio. Ti prego, non farlo più.»
225.
"E così tu sei Quattro Formaggi. "
A Cristiano Zena sembrava di sentire Tekken e gli
altri mentre lo prendevano a calci.
"E bravo il nostro formaggino."
Ecco perché non voleva più essere chiamato così.
Tekken, pezzo di merda, questa me la paghi.
Si avvicinò a Quattro Formaggi e lo abbracciò forte
sentendo, sotto la cerata, che era ridotto a uno scheletro
tremante. E che puzzava.
Era rimasto tutti quei giorni da solo. Soffrendo come
un cane. Senza mangiare. Senza nessuno che lo
potesse aiutare.
Se lo immaginò steso sul letto in quel buco in cui
viveva. La gola gli si serrò come se avesse ingoiato
un riccio di mare.
Con la voce rotta disse: «Promesso. Non ti chiamerò
mai più così. Tranquillo».
E lo sentì mormorare: «Io sono l'Uomo delle Carogne».
Cristiano si scostò e lo guardò negli occhi. «Come?»
«L'Uomo delle Carogne. Da oggi questo è il mio
nuovo nome.»
Eccoci. Ha sbroccato.
Rino era in coma. Danilo era morto. E Quattro Formaggi
era uscito definitivamente di testa.
Forse erano state tutte le botte che gli avevano dato
che lo avevano fatto impazzire del tutto.
«Ascoltami...» Cristiano si sforzò di parlare chiaro e
lentamente. «... Ascoltami bene. Noi due ce ne dobbiamo
andare via da qui... Se non ce la filiamo finirà male.
Lo so.»
«E dove andiamo?»
Cristiano abbracciò di nuovo Quattro Formaggi
per parlargli nell'orecchio. Nel bar dietro le vetrate
un gruppo di medici, seduti a un tavolino, ridevano
con il barista che si metteva una moneta sul gomito e
poi la prendeva al volo.
«A Milano. Andiamo a Milano. Ascoltami. Mi hanno
detto che nei sotterranei di Milano ci vive un sacco di
gente. Gente che non vuole vivere con quelli sopra. C'è
un re e una specie di esercito che vive nei tunnel della
metropolitana e decide se puoi entrare. Penso che ti
facciano delle prove. Ma noi due possiamo superarle. E
poi ci troviamo un buco nascosto dove possiamo farci
la casa. Sai, un posto con un'entrata segreta che sappiamo
solo io e te. E dentro ci facciamo i letti e una zona
dove cucinare. E di notte usciamo fuori e mentre tutti
dormono troviamo tutto quello di cui abbiamo bisogno.
Che ne dici? Ti piace la mia idea? E buona, vero?»
Cristiano chiuse gli occhi con la certezza che Quattro
Formaggi non sarebbe mai andato con lui. Non
avrebbe mai abbandonato il paese e la sua casa.
E invece lo sentì mormorare: «Va bene. Andiamo».
226.
L'Uomo delle Carogne piangeva abbracciato a Cristiano.
Finalmente qualcuno gli aveva detto cosa fare. Cristiano,
il suo amico, era lì, con lui, e non lo avrebbe
mai più lasciato...
Sì, dovevano andare a Milano a vivere sotto terra.
E non tornare mai più. Mai più. E dimenticare tutto.
Ramona. La pioggia. Il bosco.
L'orrore di quello che aveva fatto gli fece venire le
vertigini e gli sembrò che gli si aprisse un buco sotto i
piedi. Si attaccò a Cristiano. Si asciugò le lacrime e
mugugnò: «E Rino? Come facciamo con Rino? Lo lasciamo
qui?».
«Andiamo da lui.» Cristiano gli offrì la mano. «Dai,
ti aiuto.»
L'Uomo delle Carogne gliela strinse.
227.
«... Ma secondo lei, padre, se le mando un sms rompo
il voto? In fondo non la vedo...»
Beppe Trecca e il frate erano fermi nella piazzola di
sosta, mentre accanto a loro la fila aveva iniziato finalmente
a scorrere. La pioggia batteva sulle lamiere
della monovolume.
Gli aveva raccontato tutto. La notte. Ida. Mario.
L'incidente. L'extracomunitario. Il voto. Il miracolo.
Era stata una liberazione.
Il monaco era rimasto in silenzio ad ascoltarlo.
Allargò le braccia. «Figlio mio, cosa ti devo dire... Il
voto è un impegno solenne che viene preso davanti a
Dio. Romperlo è molto grave.» Lo fissò dritto negli
occhi. «Molto grave. Qualsiasi altra cosa deve passare
in second'ordine, costi quel che costi...»
Trecca, affranto, spinse indietro un San Bernardo
che lo aveva scambiato per un lecca-lecca. «Quindi
neanche un sms?»
Il frate scosse la testa. «Dio ti ha illuminato. Ti ha dato
la possibilità di non prendere la cattiva strada. Avresti
rovinato una famiglia. Ferito il tuo amico. Il Signore
ti ha rimesso in carreggiata. Sei stato molto fortunato.
Ogni volta che ti viene la tentazione di rompere il voto
devi pregare: e troverai la forza per resistere.»
L'assistente sociale sbuffò. «Io l'ho fatto. Ho pregato.
Ma non ce la faccio proprio. Lei fa parte di me.
L'unica vita possibile che vedo è accanto a lei.»
Il frate gli afferrò un polso e strinse forte. «Ragazzo,
smettila! Ascoltami. Tu sei stato scelto dal Padreterno.
La tua preghiera è stata ascoltata. Tu sei stato
testimone di qualcosa d'immenso. Credi che Dio faccia
i miracoli tutti i giorni? Dimentica quella donna.
Tu ora hai una missione. Raccontare la tua storia agli
altri come hai fatto con me ora.» E poi, preso da
un'eccitazione improvvisa, cominciò a scuotergli il
braccio. «Adesso tu vieni con me.»
Beppe si fece piccolo e intimorito, e chiese: «Dove,
padre?».
«In Svizzera. A Saint-Oyen, nella Casa Ospitaliera
del passo del San Bernardo. Devo farti incontrare i
miei superiori. Ti rendi conto di quanto la tua storia
può essere utile ai giovani? In questa società che ha
perso la fede tu sei un faro che brilla nelle tenebre. I
miracoli servono a questo, a ridare la speranza.»
Trecca si liberò dalla presa. «Ottima idea. Mi faccia
chiudere la macchina. Arrivo subito.»
228.
Cristiano Zena e l'Uomo delle Carogne si misero in
ginocchio accanto al letto di Rino. La pioggia sbatteva
contro i vetri termici senza far rumore. Ogni tanto
entrava un'infermiera e attraversava la stanza nella
penombra come uno spettro.
Rino, steso nella stessa posizione in cui Cristiano
lo aveva lasciato, sembrava aver ripreso un po' di colore
in faccia e i due ematomi viola intorno agli occhi
si stavano stemperando in un rosso scarlatto.
Quattro Formaggi (Cristiano non riusciva a pensarlo
con quell'altro nome idiota) stringeva la mano
di Rino. «Secondo te ci può sentire?»
Cristiano sollevò le spalle: «Non credo... Non lo
so... No...». Doveva raccontare a Quattro Formaggi
del bosco. Di Rino e Fabiana. Era l'unico a cui poteva
dirlo. Era l'unico che avrebbe capito. Prese coraggio.
«Senti... Ti devo dire una cosa...» Ma si fermò. Quattro
Formaggi guardava Rino intensamente, quasi
stesse comunicando con lui, poi senza voltarsi disse:
«Tuo padre è un grande».
«Perché?»
Quattro Formaggi strizzò la bocca. «Perché mi ha
salvato.»
«Quando?»
Cominciò a grattarsi una guancia. «Sempre. Anche
la prima volta che ci siamo conosciuti in collegio. Mi
avevano chiuso in un barile e mi facevano rotolare. E
lui è arrivato e mi ha salvato. Non mi conosceva neppure.»
Cristiano in realtà sapeva pochissimo degli anni
del collegio, quando quei due si erano conosciuti. Rino
gli aveva raccontato che a quel tempo Quattro
Formaggi non aveva i tic e la gamba zoppicante, era
solo un po' strano.
«Mi ha aiutato anche dopo che ho preso la scossa
al fiume... Quando sono uscito dall'ospedale camminavo
con le stampelle. E lui mi portava in giro. Un
giorno ha guidato fino a un campo abbandonato, dove
adesso c'è il magazzino di ricambi della Opel, e mi
ha tolto le stampelle e mi ha detto che se volevo tornare
a casa dovevo andarci senza le stampelle. E che
se non ci riuscivo me la dovevo fare strisciando, che
si era rotto il cazzo di aiutarmi, che potevo camminare
benissimo e che i problemi erano solo nella mia testa
marcia.»
«E poi?»
«E poi è salito in macchina e se n'è andato e mi ha
lasciato là.»
«E cosa è successo?»
«Sono rimasto steso in mezzo al campo per un sacco
di tempo. Sopra di me, in alto, passavano i fili dell'alta
tensione e sentivo il suono dell'elettricità che
scorreva veloce. E quei cavi, a guardarli da terra, uno
vicino all'altro, sembravano le corde di una chitarra.
Fortuna che avevo un paio di Buondì Motta. Me li sono
mangiati. Poi, mentre ero lì, per terra, ho visto una
figura nera, tutta gobba, che spuntava dalle spighe di
grano. Era un mostro. Stava fermo. Lì. E mi guardava.
Aveva addosso una specie di vestito nero lungo
lungo e la faccia sembrava quella di un corvo. Con
un becco nero e le penne qua», si indicò le spalle.
«Non mi faceva nulla. Ma mi guardava con quegli
occhietti cattivi. E aveva le braccia con le maniche
lunghissime che arrivavano fino a terra. Poi si è avvicinato
e dalle maniche usciva il pezzo delle stampelle
che ha quel tappetto di plastica che serve per non scivolare.»
Fece una pausa e prese fiato. «Era la morte.»
Cristiano era rimasto in silenzio per tutto il racconto,
ma non si trattenne dal domandare: «Era papà che
ti faceva uno scherzo?».
«No. Era la morte. Aspettava che io morissi. Ma io
ho chiuso gli occhi e poi quando li ho riaperti non
c'era più. E allora mi sono alzato in piedi e ho cominciato
a camminare. Dicevo alle mie gambe: "Camminate!
Camminate!" e quelle camminavano. E davanti
a me c'era tuo padre che fumava una sigaretta sopra
il cofano della Renault 5. E mi sono girato e la morte
non c'era più.»
«Sei stato tu a farla scappare quando hai cominciato
a camminare.»
«No. È stato tuo padre. È stato tuo padre a farla
scappare.»
Cristiano afferrò le mani di Rino e di Quattro Formaggi,
poggiò la faccia contro il lenzuolo e cominciò
a singhiozzare.
229.
L'Uomo delle Carogne carezzava la testa di Cristiano
che sussultava squassata dai singhiozzi e fissava terrorizzato
un angolo buio della stanza.
Non aveva raccontato tutta la storia. Ma non poteva.
La morte era lì con loro. Lui la vedeva. Era in
quella stanza. Era nascosta nell'angolo a destra. Dietro
i carrelli con sopra i monitor. Sembrava un'ombra,
ma era lei. Era uguale, aveva la stessa forma della
morte nel campo, lo stesso becco, le stesse penne
sulle spalle, le stesse braccia lunghissime che finivano
con le stampelle d'alluminio.
L'Uomo delle Carogne era terrorizzato. Non aveva
più saliva in bocca.
Lo so, sei venuta per Rino. Sei venuta a prendertelo.
230.
«Ma tutte a me? Saint-Oyen, la Casa Ospitaliera, i
San Bernardi!» Beppe Trecca guidava e parlava ad alta
voce. «Sì, vabbè, adesso secondo quello andavo
anche in Svizzera, in alta montagna, a fare una figura
di merda raccontando di Ida e del camper. Non esageriamo!»
Era salito in macchina, era sfrecciato davanti al frate
che faceva pisciare i due cani e si era allontanato.
Per sicurezza controllò nello specchietto se il religioso
lo stesse seguendo. Nessuno.
Il monaco però era stato chiaro, il voto non si poteva
rompere. Era molto grave. Lo aveva guardato con
un'espressione inequivocabile, la stessa espressione
che avrebbe avuto il Signore quando Beppe si sarebbe
trovato a bussare alle porte del paradiso. Quindi
nessun contatto con Ida, nessun sms, mms, niente lettere
e affini.
La verità era che nessuno poteva aiutarlo. Quello
era un problema suo. Che doveva risolvere con la sua
coscienza di uomo e di credente.
E c'era solo un modo di risolverla. Telare.
Avrebbe portato Cristiano il giorno dopo dal giudice
e poi, fatti i bagagli, se ne sarebbe tornato ad
Ariccia e da lì sarebbe volato in Africa.
Si fermò davanti all'ospedale nel momento in cui
Cristiano e Quattro Formaggi uscivano.
Adesso mi sente.
Suonò il clacson.
E si maledisse. Si era dimenticato che lì c'erano i
malati.
Cristiano si fece vicino. Aveva gli occhi rossi.
Deve aver pianto.
La voglia di dirgliene quattro gli era passata.
Aprì lo sportello e lo fece salire.
Parte sesta.
Mercoledì.
231.
Cristiano Zena fu svegliato, alle sei di mattina, dalla
porta della camera di suo padre che sbatteva piano, a
intervalli regolari.
£ tornato.
Papà è tornato a casa.
Non era possibile. Sapeva che se anche suo padre
si fosse risvegliato non sarebbe stato in grado di
muoversi dal letto. Eppure si alzò, sperando, come
spera di non morire chi cade da un grattacielo, che
fosse lui.
La stanza di Rino era vuota.
La porta sbatteva perché la finestra del bagno era
aperta e faceva corrente. La chiuse. Tornò in camera
sua, bevve un po' d'acqua e si sedette al tavolino e
scrisse.
Ciao papà,
se stai leggendo questa lettera sono felice vuol dire
che ti sei risvegliato. Io non ci sono, sono andato a
Milano. Sono scappato perché mi volevano sbattere
in un istituto. Hanno trovato il modo per dividerci.
Me lo hai detto sempre che cercavano un pretesto
qualsiasi e l'hanno trovato. Vieni a Milano da me. Io
vivo nelle gallerie della metropolitana con 4 Formaggi.
4 Formaggi è molto malato e mi sembra che pure con
la testa non ci sta tanto bene. Anche lui ha paura che
lo mettono in manicomio.
Danilo è morto. Ha avuto un incidente stradale mortale.
Non ti arrabbiare se non mi troverai, io sto bene. Tu
raggiungimi a Milano. Oppure ci vediamo dove
vuoi te.
Per quanto riguarda l'altra cosa non ti preoccupare
ho pensato a tutto io ma non parlare con nessuno è
importante non sospettano niente.
Io non ti ho abbandonato. Ti sto solo aspettando.
Ti voglio bene.
Cri.
La rilesse e gli fece schifo. Era bruttissima, avrebbe
voluto dire milioni di cose, ma in quel momento
non gli venivano. E poi quella lettera poteva servire
alla polizia come prova e agli assistenti sociali per
trovarlo.
Si alzò e la gettò nel cesso, poi cominciò a fare la
valigia.
Avrebbe trovato un altro modo per far sapere a suo
padre che lui e Quattro Formaggi erano a Milano.
232.
Mentre Cristiano faceva la valigia, l'Uomo delle Carogne
era steso davanti alla televisione.
La febbre lo stava divorando. Era immerso in una
sindone di sudore, gli sembrava di bollire. Cinque
minuti prima batteva i denti per il freddo.
Aveva la bocca secca e la lingua piena di tagli e ferite.
Devo chiamare Cristiano e dirgli che oggi non ce la faccio
ad andare a Milano. Se possiamo fare domani...
«Non posso chiamarlo! Verrebbe qui... Scoprirebbe
il presepe» sospirò.
Durante la notte aveva cominciato a delirare. Vedeva
le lenzuola e le pareti della stanza ricoprirsi di
margherite. Enormi margherite di ferro. Lui provava
a coglierle, ma erano troppo pesanti per tenerle in
mano.
Avrebbe voluto spegnere la televisione che gli friggeva
il cervello. Ma per farlo doveva alzarsi.
«Dall'esperienza dei laboratori Garnier nascono le
nuove creme per capelli Fructis, che affiancate a
shampoo e balsamo aiutano a proteggere e rinforzare
il cuoio capelluto» urlava qualcuno da dentro il televisore.
L'Uomo delle Carogne cominciò a toccarsi i capelli.
Gli facevano male e pulsavano come fili elettrici.
Poi prese a spalmarsi quella crema invisibile sul
capo, lentamente. Sentì sollievo, gli stava facendo
molto bene e presto avrebbe ammutolito le voci che
gli rimbombavano nella testa.
233.
Cristiano Zena aveva riempito lo zaino con un po' di
vestiti, un barattolo di sottaceti, la torcia per vederci
nelle gallerie e tutte le medicine che aveva trovato da
dare a Quattro Formaggi.
Aveva un problema. I soldi. Aveva in tutto venticinque
euro risparmiati per comprarsi chissà quando la
PlayStation. Con quelli non ci arrivavano mica a Milano.
Aveva frugato ovunque nella roba di suo padre, in
tutte le tasche e i cassetti, e aveva rimediato altri tre
euro.
Ventotto euro.
E sicuramente Quattro Formaggi non aveva un
soldo.
Dove poteva trovarne altri?
Beppe Trecca.
Scese le scale lentamente, cercando di fare meno
rumore possibile.
L'assistente sociale dormiva allungato sul divanetto
davanti alla televisione accesa. Una bionda spiegava
come fare un paralume con dei semplici lacci per
le scarpe e dei bottoni.
Poi attaccò la pubblicità.
Beppe aveva steso i pantaloni e la camicia sullo
schienale di una sedia. E per terra, accanto al letto,
aveva poggiato il cellulare, le chiavi della macchina e
il portafoglio.
Trattenendo il respiro Cristiano si piegò e lo prese.
Stava per aprirlo quando alla televisione partirono
la sigla e il sommario del telegiornale.
«La giovane Fabiana Ponticelli, ritrovata ieri nelle
acque del Forgese, riceverà oggi l'estremo saluto nella
chiesa di Varrano. Il magistrato ha autorizzato le
esequie dopo aver esaminato i risultati dell'autopsia
eseguita in serata dal dottor Viotti...»
L'immagine di Fabiana occupava tutto lo schermo.
Cristiano, con il portafoglio in mano, si paralizzò.
Era una foto un po' vecchia, lei aveva ancora i capelli
corti e rideva.
«Cosa stai facendo?»
Cristiano fece un salto e per lo spavento per poco
non lanciò il portafoglio in aria.
Trecca lo guardava sbadigliando. «Cosa fai con il
mio portafoglio in mano?»
Rimase senza parole cercando una scusa. Farfugliò
una roba tipo: «Niente... Stavo vedendo se avevi
qualche soldo. Volevo andare a comprare qualcosa
per la colazione... Poi te li ridavo. Tranquillo». E poggiò
il portafoglio sulla sedia.
Trecca lo osservò per un attimo, perplesso. Poi sembrò
credergli. Si stiracchiò e si mise a guardare la televisione.
«Era per lei che siamo rimasti infilati in quel
casino di traffico. Povera ragazza.»
Intanto era partito il servizio su Fabiana. Si vedevano
i genitori inseguiti dai giornalisti. Poi il pubblico
ministero, una donna di mezza età vestita in tailleur,
che diceva che le ricerche degli assassini erano
già state avviate a trecentosessanta gradi e che nessuna
traccia sarebbe stata esclusa. Poi si passava a
parlare del funerale organizzato per quella mattina.
Avrebbe officiato il cardinale Bonanni alla presenza
delle autorità.
Cristiano, malfermo sulle gambe, si teneva allo
schienale del divano e si sentiva svenire. Era come se
fosse risucchiato in fondo a un pozzo d'acqua gelata,
mentre i muscoli e i tendini gli si scioglievano.
Beppe prese la camicia dalla sedia e se la infilò.
«Stava a scuola tua. La conoscevi?»
Cristiano fece una fatica sovrumana per risalire in
superficie e rispondere. «Sì...» Avrebbe voluto dire
che la conosceva poco. Ma non ne aveva la forza.
«Ti rendi conto? L'hanno violentata e poi ammazzata
sfondandole la testa. Ma che razza di uomo può
essere capace di fare una cosa del genere? Una ragazzina
di quattordici anni!»
Cristiano si sentì in dovere di rispondere, ma non
gli venne nulla.
Sto per mettermi a vomitare.
«Comunque l'assassino non ha scampo. Lo beccheranno
subito.»
«Ah... sì?» si ritrovò a dire Cristiano.
Beppe si alzò in piedi continuando a guardare lo
schermo. «Quando ammazzi qualcuno, ti beccano.
Prima o poi ti beccano. Ne puoi stare certo. Basta una
sciocchezza, la più insignificante, e sei fregato. Bisogna
essere completamente scemi o folli a credere che
si possa commettere un assassinio e farla franca. L'unica
possibilità per compiere un omicidio perfetto è
che a nessuno freghi nulla di trovare il colpevole. Mica
è stato ammazzato un immigrato clandestino. E
una ragazzina di quattordici anni, violentata e uccisa
in quel modo. Importa a tutti di trovare l'assassino. Ai
familiari, alla polizia che non vuol fare figure di merda,
alla gente che non vuole un mostro a piede libero
che gli ammazzi i figli, a quelli che vogliono la pena
di morte, a quelli che vogliono vedere in faccia il mostro,
alla televisione e ai giornalisti che ci vivono, sopra
sta roba. A questo qui, te lo dico io, lo beccano in
una settimana al massimo. Garantito. Ci vorrebbe un
miracolo per salvarlo. Io se fossi l'assassino mi andrei
a costituire. O meglio, mi farei saltare le cervella.»
S'infilò i pantaloni.
«Dobbiamo andare al funerale. Ci va tutta la scuola.
Ci devi andare pure te. Poi abbiamo un appuntamento
dal giudice. Così cerchiamo di capire cosa fare.
Va bene?»
«Va bene.» E per il resto della sua vita Cristiano
Zena continuò a chiedersi come avesse trovato, quella
mattina, la forza di resistere e di non tirare fuori
tutta la verità.
234.
L'Uomo delle Carogne vedeva Ramona che gli sorrideva
dentro il televisore. Era finita al telegiornale.
Grazie a me.
Sorrise e allungò un braccio cercando di carezzarla
senza riuscirci.
Chiuse gli occhi e quando li riaprì non fu in grado
di capire né quanto tempo fosse passato né se si fosse
addormentato.
Attraverso la porta che dava nel soggiorno poteva
vedere il confine orientale del presepe che arrivava
quasi all'ingresso di casa. Era la zona più desertica.
Poca vegetazione. Dune di sabbia. Ci vivevano i robot,
le astronavi, gli ufo e i mostri preistorici. Era una
zona pericolosa, contaminata, dove i pastori non si
avventuravano e nemmeno i soldati avevano il coraggio
di andare.
L'Uomo delle Carogne sollevò la testa e con lo
sguardo si spinse fino al confine opposto del presepe.
Ricordava dove aveva trovato ogni statuina,
ogni animale, ogni automobilina. Ad esempio quel
robot nero là, con gli occhi rossi e le pinze al posto
delle mani, lo aveva recuperato dentro una fontana
del giardinetto un anno prima. Lo aveva regalato
una madre a suo figlio. Il bambino aveva strappato
il cartone digrignando i denti come se dentro ci fosse
un nemico da ammazzare. Aveva preso il robot,
gli aveva acceso gli occhi, fatto muovere le gambe e
poi, annoiato, lo aveva lanciato nella fontana dei pesci
rossi.
La donna si era accucciata vicino al piccoletto e gli
aveva parlato: «Antonio, perché lo hai buttato nell'acqua?
Non si fa così. La mamma lo ha pagato un
sacco di soldi. E bisogna rispettare le cose che ti regalano».
Lo avevano lasciato lì e l'Uomo delle Carogne
lo aveva preso e messo nella zona del futuro.
Gli sarebbe piaciuto tornare a quei giorni.
Quando niente era successo.
235.
Cristiano Zena era fermo al centro del soggiorno.
Trecca lo stava aspettando fuori.
Forse non avrebbe mai più rivisto quella casa.
Guardò la sedia a sdraio dove si metteva sempre Rino.
Ci si sedette sopra.
Aveva sempre detestato quella casa non finita, attaccata
alla statale, ma all'idea di lasciarla gli si stringeva
il cuore. Ci era nato, là dentro. Cercò in giro
qualcosa, un ricordo da portare con sé, ma non c'era
niente da prendere.
«Cristiano! Andiamo. Siamo in ritardo.» La voce di
Trecca da fuori.
«Un attimo, arrivo!»
Poi Cristiano vide appallottolata in un angolo la
coperta lisa che suo padre si metteva addosso. La
prese, l'annusò e la cacciò nello zaino. Uscì sbattendosi
la porta alle spalle.
Fuori, il sole si era da poco sollevato dall'orizzonte,
ma già si capiva che sarebbe stata una giornata tiepida
e senza nuvole. L'aria era trasparente e un vento
leggero soffiava tra le fronde degli alberi.
«Che hai in quello zaino?» chiese Beppe Trecca a
Cristiano infilando le chiavi nella Puma.
«Vestiti.»
«Vestiti?»
«Sì, vestiti di mio padre per Quattro Formaggi.
Quando arriviamo a Varrano glieli porto e poi ti raggiungo
in chiesa.»
Salirono in macchina.
L'assistente sociale accese l'automobile e si mise la
cintura di sicurezza. «Non penso che sia una buona
idea. Prima andiamo al funerale. Per gli studenti hanno
riservato una zona della chiesa. Ti stanno aspettando.
Poi dobbiamo andare dal giudice e dopo gli portiamo
i vestiti.»
Cristiano cominciò a ridere forzatamente. «A me?
Chi mi sta aspettando?»
«I tuoi insegnanti, i tuoi compagni di scuola...»
L'automobile imboccò la statale.
Cristiano poggiò i piedi contro il cruscotto. «Ma cosa
dici? A quelli non gliene frega una minchia di me.»
«Ti sbagli. Ho parlato con la tua insegnante di Italiano
e le ho detto quello che è successo a tuo padre.
È molto triste e spera che tu torni presto a scuola.»
Cristiano cominciò a dondolare la testa sorridendo.
«Che bastarda... Ma ti rendi conto la gente com'è
fatta?»
«Cosa?»
Cristiano aprì il finestrino e poi lo richiuse. «Niente.
Lascia perdere... Tanto è inutile. Tu certe cose non
le capisci...» Ma poi continuò: «Esattamente cosa ti ha
detto? Dimmelo, forza».
«Che le dispiaceva tanto e sperava che tu tornassi a
scuola al più presto.»
«Sai quante volte quella ha detto che io farei bene
a lasciare la scuola il prima possibile? E allora perché
ora vuole che torno? Non capisco. E sai cos'ha
detto di mio padre, davanti a tutta la classe? Lo vuoi
sapere? Che è un poco di buono. Chi cazzo è lei per
dire che mio padre è un poco di buono? Lo conosce?
Sono amici? Non mi sembra. Poco di buono sarà lei.
Quella puttana. Sai quanto ti costa dire al telefono:
"Mi dispiace tanto, spero che torni presto a scuola"?
Niente. Zero. Nulla. La fatica di muovere la bocca.
M'immagino quant'è dispiaciuta che mio padre è in
coma... Piangerà tutto il giorno. Quella spera solo
che muore. Ma si sbaglia, perché mio padre si risveglierà...!
Io non ci voglio andare a quel cazzo di funerale.»
L'assistente sociale mise la freccia e si fermò in una
piazzola d'emergenza, poi guardò Cristiano a lungo
prima di parlare. «Questo, però, non lo capisco. Fabiana
era una tua amica.»
«Tanto per cominciare chi ti ha detto che Fabiana
Ponticelli era una mia amica? La conoscevo appena.
L'amicizia è un'altra cosa. E poi a quel funerale ci
sarà solo gente che sta lì a farsi vedere e far vedere
quanto sono buoni. A far finta di piangere. È tutto
finto. A nessuno frega un cazzo di Fabiana Ponticelli.
Non lo capisci?»
«Senti, se muore tuo padre a te dispiace?»
«Ma che domande fai? Certo.»
«E a Quattro Formaggi?»
«Certo.»
«E a Danilo, se fosse vivo, non dispiacerebbe?»
«Certo.»
«E a me, non dispiacerebbe?»
Cristiano avrebbe voluto rispondergli no, ma non
se la sentì. «Sì... Penso di sì.»
«E ai genitori di Fabiana non dispiacerà che la loro
figlia è stata riempita di botte, violentata e ammazzata?
Non gli dispiacerà, secondo te?»
«Sì.»
«E il suo fratellino piccolo, i suoi parenti, i suoi
amici e chiunque ha un po' di cuore non soffrirà che
una ragazzina innocente che ha commesso l'unico
sbaglio di tornare a casa troppo tardi è stata uccisa
peggio di una bestia che va al macello?»
Cristiano restò in silenzio.
«Hai tuo padre che vegeta su un letto di un ospedale.
Danilo che è morto per colpa dell'alcol schiantato
contro un muro. Dovresti capire cosa vuol dire soffrire
ed essere compassionevole. Lo sai cos'è la compassione?
A sentirti parlare non sembra proprio che tu lo
sappia. Odi tutti. Sei pieno di rabbia da scoppiare.
Cristiano, ce l'hai un cuore?»
«No. L'ho perso...» riuscì solo a dire.
236.
Le voci della televisione continuavano a pestare sul
cervello febbricitante dell'Uomo delle Carogne. Un
insieme incomprensibile di musica, telegiornali, ricette
di cucina, spot pubblicitari. Però da questo miscuglio
di suoni una frase riuscì a farsi spazio e a diventare
intelligibile: «Adesso parliamo del terribile
delitto del bosco di San Rocco con il professor Gianni
Calcaterra, noto criminologo e conduttore della trasmissione
Delitto & Castigo».
L'Uomo delle Carogne girò la testa verso la televisione
con la velocità di una scimmia da laboratorio
sotto oppio. Strinse gli occhi e cercò faticosamente di
concentrarsi.
Sullo schermo c'erano due uomini seduti su delle
poltrone bianche. Uno, magrolino, lo conosceva, era
quello che si vedeva ogni mattina su Rai Uno. L'altro
era un panzone con il pizzetto e dei lunghi capelli
bianchi che assomigliava un po' a Danilo. Indossava
un vestito grigio a righe e teneva in bocca una pipa
spenta.
«Allora, professor Calcaterra, che idea si è fatto
dell'assassino o degli assassini della povera Fabiana?
Intanto, secondo lei, dalle prime ricostruzioni, l'omicidio
è stato commesso da una o più persone?»
Il professore sembrava incazzato come se l'avessero
portato a forza in quel programma. «Voglio chiarire
che dati i pochi elementi in mio possesso quello
che dico non ha nessun valore scientifico, ma è una
semplice congettura per aiutare il pubblico a capire.»
«Giusto. Ribadiamo che quello che dice il professore
non ha nessun valore scientifico.»
Il professor Calcaterra afferrò la pipa per il braciere
e fece una smorfia schifata come se si fosse mangiato
uno stronzo ancora caldo. «Intanto va detto che lo
stupro nasce sempre da un non facile rapporto con la
propria sessualità.»
L'Uomo delle Carogne si era convinto che quello lì
fosse Danilo che faceva finta di essere il professor Calcaterra.
E se non era lui doveva essere un suo parente.
«Lo stupro nasce da un senso d'impotenza e d'inadeguatezza
nei confronti del mondo e in particular
modo dell'universo femminile. È probabile, nel caso
di Fabiana Ponticelli, che lo stupratore abbia ucciso la
ragazza perché non è riuscito ad avere soddisfazione
durante la violenza...»
Calcaterra fu interrotto dal presentatore: «È veramente
molto, molto interessante quello che lei ci
dice, professore, e aggiunge certamente nuove prospettive
alla comprensione di questo omicidio terribile
che ha lasciato tutta l'Italia sconvolta. Peccato
che non abbiamo molto tempo per parlarne. Un'ultima
domanda, professore. Ha qualche novità sul
caso?».
«La ricerca degli assassini di Fabiana Ponticelli è
già a buon punto e gli inquirenti e la polizia, anche se
non si sbilanciano ufficialmente, sembrano moderatamente
ottimisti sulla possibilità di trovare i colpevoli
in breve tempo. Qualcuno sa e parlerà.»
Le tenebre caddero sull'Uomo delle Carogne e un
terrore nuovo, immenso, come non aveva mai conosciuto
fino a quel momento, si impossessò di lui. Il
cervello gli si svuotò di ogni pensiero e anche le voci
si ammutolirono di botto.
Rimase accasciato sulla poltrona, ansante, a fissare
il soffitto.
Lentamente riemerse dalle tenebre un pensiero, un
nome.
Rino.
Rino Zena.
Lui era l'unico che poteva incolparlo. Lui era quello
che sapeva e avrebbe parlato. Vide il braccio di Rino
che si sollevava e puntava l'indice verso di lui.
Ma a quest'ora doveva essere già morto. L'Uomo
delle Carogne aveva visto la morte che gli girava intorno.
E se fosse stata lì per qualcun altro? Un sacco di
gente muore ogni giorno in un ospedale.
Si mise in piedi e traballando afferrò da sopra il
comò la pistola che aveva preso a Rino nel bosco e la
strinse forte.
Questa volta non l'avrebbero fermato.
237.
Lasciarono la macchina al parcheggio del centro sportivo.
«Che ci fanno tutti questi cosi qui?» chiese Cristiano
indicando una fila di pullman.
Beppe si mise degli orrendi occhiali da sole stile
mosca. «Scuole, gente venuta per il funerale.»
Cristiano pensò che o Fabiana Ponticelli conosceva
mezzo mondo oppure c'era gente che andava al funerale
senza conoscerla.
Le strade del centro erano chiuse e presidiate dalla
polizia municipale e non si poteva entrare a meno di
avere un'autorizzazione speciale.
«La messa è nella chiesa di San Biagio» fece Beppe.
Trecca non lo abbandonava mai con lo sguardo.
Come si fa con un cane lasciato per la prima volta senza
guinzaglio.
Doveva aver intuito qualcosa.
C'era un sacco di gente che si dirigeva in silenzio
verso la chiesa di piazza Bologna. Lungo la strada
Cristiano si accorse che tutti i negozi erano chiusi e
sulle serrande abbassate c'erano dei fiocchi neri.
Non aveva visto tante persone nemmeno l'estate
passata quando erano venuti il Gabibbo e le veline,
ma quando arrivò nella piazza rimase a bocca aperta.
Era un unico tappeto umano da cui spuntavano i
tetti dei pullmini delle tv con le antenne paraboliche,
la statua con il cavallo di marmo e i lampioni su cui
erano aggrappati mazzi di megafoni. Alle finestre dei
palazzoni moderni che cingevano la piazza era affacciata
altra gente. E dei lunghi striscioni bianchi, preparati
in fretta e furia, univano i terrazzini. Dicevano:
FABIANA SARAI PER SEMPRE NEI NOSTRI CUORI. FABIANA
INSEGNACI A ESSERE PIÙ BUONI. FABIANA ORA VIVI
IN UN POSTO MIGLIORE.
«Dammi la mano che con questo casino rischiamo
di perderci.» Trecca gli porse la mano e Cristiano fu
costretto a prendergliela.
Costeggiarono la piazza e finalmente arrivarono accanto
alla chiesa. Un edificio moderno in cemento grigio
e con un tetto a punta ricoperto di lunghe piastre
di rame ossidato. Al centro della facciata c'era un'enorme
vetrata colorata con un Cristo rinsecchito. Anche
le scale erano ricoperte di folla che premeva per
entrare.
«Andiamocene. Non ci faranno entrare» fece Cristiano
cercando di liberarsi dalla stretta.
«Aspetta... Tu sei un suo compagno di scuola.»
Trecca parlò con il servizio d'ordine e li fecero passare.
Attraversarono la navata destra facendosi largo
nella calca. C'era un odore forte d'incenso, di fiori e
sudore.
Cristiano si ritrovò di fronte a Castardin, il proprietario
del mobilificio, quello a cui aveva ammazzato
il cane.
Castardin lo squadrò un attimo. «Ma tu, se non
sbaglio, sei il figlio di Rino Zena.»
Cristiano stava per dire di no, ma Trecca gli era accanto.
Fece sì con la testa.
«Ho saputo di tuo padre. Mi dispiace tantissimo.
Come sta?»
«Bene. Grazie.»
Intervenne l'assistente sociale. «È ancora in coma.
Ma i medici sono ottimisti.»
Castardin urlava come se fosse dentro una discoteca
di Riccione. «Bene. Bene. Allora appena si risveglia
salutamelo, capito? Appena esce dal coma gli dici
che il vecchio Castardin lo saluta tanto tanto.» Gli
diede due buffetti sulla nuca.
Cristiano s'immaginò che suo padre si risvegliava
e gli dicevano che Castardin lo salutava tanto tanto.
Come minimo sarebbe risprofondato nel coma per
sempre.
Pochi metri più in là c'era Mariangela Santarelli, la
parrucchiera, quella che stava con suo padre quando
lui era piccolo. Si era messa un velo in testa e la minigonna.
E Max Marchetta, il proprietario della Euroedil.
Era vestito elegantissimo come se si dovesse
sposare e parlava al cellulare. C'era pure il vecchio
Marchetta su una sedia a rotelle spinta da un filippino.
Arrivarono alla zona in cui erano seduti i suoi compagni
di scuola. Appena lo videro cominciarono a
parlottare e a darsi gomitate indicandolo.
Cristiano dovette trattenersi dal prendere e scappare
via.
Si fece largo la professoressa d'Italiano, gli si avvicinò,
lo abbracciò forte e gli sussurrò in un orecchio:
«Ho saputo di tuo padre. Mi dispiace tanto».
Le stesse parole di Castardin.
238.
L'Uomo delle Carogne entrò in ospedale.
Il cuore sembrava volergli fuggire via dal petto. E
doveva pisciare. Teneva una mano premuta sullo stomaco
e con le dita sfiorava l'acciaio della pistola nascosta
nelle mutande.
Alla fine era riuscito ad arrivare. E non sapeva
neanche lui come. Aveva pure acceso il motorino al
primo colpo.
Il paese sembrava impazzito. Tutte le serrande dei
negozi abbassate. Tutte le vie chiuse al traffico. I parcheggi
pieni di pullman. Le strade invase di gente
che si dirigeva verso il centro.
Avrebbe voluto chiedere dove stavano andando
tutti, che diavolo succedeva, ma non ne aveva avuto
il coraggio. Dovunque c'erano guardie e vigili.
Forse c'era un concerto di Laura Pausini o un comizio
politico.
Avrebbe voluto correre su da Rino, ma prima di
ogni cosa doveva pisciare. Aveva la vescica che gli
stava esplodendo.
Entrò nel bagno accanto al bar. In quel momento,
ringraziando Iddio, non c'era nessuno. L'Uomo delle
Carogne corse al pisciatoio e si liberò buttando la testa
indietro e chiudendo gli occhi.
Dovette poggiare una mano contro il muro per non
cadere a terra per il dolore. Gli sembrava di pisciare
fuoco mischiato a schegge di vetro.
Quando riaprì gli occhi vide che le pareti di ceramica
bianca dell'orinatoio erano schizzate di rosso e
dal suo uccello gocciolava piscio e sangue. Il tanfo
acido dell'ammoniaca si univa a quello metallico del
sangue.
«Cazzo» mormorò disperato.
In quel momento la porta a molla del bagno si aprì
e si chiuse con un cigolio.
L'Uomo delle Carogne si accostò al muro e guardò
il buco in cui finiva il piscio rosso.
Sentì alle sue spalle un rumore di tacchi che sbattevano
contro le mattonelle del pavimento. Poi con la
coda dell'occhio vide una figura piazzarsi a tre orinatoi
dal suo.
«Ahhh! Dicono che fa male trattenerla. Soprattutto
dopo una certa età» fece l'uomo, e contemporaneamente
si sentì uno scroscio.
L'Uomo delle Carogne si girò.
Era Riky. L'angelo mandato da Dio.
Era vestito con lo stesso completo di flanella grigia
e la stessa camicia a scacchi. Lo stesso riporto biondo
che sembrava essere stato appena leccato da una vacca.
Lo stesso tutto.
«Riky...» gli uscì senza volerlo.
L'omino si voltò, lo osservò e inarcò le sopracciglia.
«Chi sei, caro?»
«Sono io. Non mi riconosci?»
«Prego?»
«Come? Mi hai dato questo.» L'Uomo delle Carogne
tirò fuori dal golf il crocefisso che teneva sul
petto.
Riky sembrava indeciso se dire che lo conosceva o
negare tutto e darsela a gambe. Alla fine fece sì con la
testa. «Sì. Certo... Ora mi ricordo. Come va?»
L'Uomo delle Carogne tirò su con il naso. «Sto morendo...»
Riky si chiuse la patta dei pantaloni. «Allora il crocefisso
era per te?» Andò a lavarsi le mani. «Dovevi
dirmelo... Ti avrei dato qualcos'altro. Perché non me
l'hai detto?»
L'Uomo delle Carogne alzò le spalle e ammise:
«Non lo so. So che sto morendo e che Dio mi ha abbandonato».
Riky fece due passi indietro asciugandosi le mani
con una salvietta di carta: «Hai pregato il Signore?».
«Dio non mi parla più. Ha scelto un altro. Che cosa
ho fatto di male?» L'Uomo delle Carogne zoppicando
si avvicinò all'omino e lo afferrò per un braccio.
Riky s'irrigidì. «Questo non lo so. Ma devi continuare
a pregare. Più convinto.»
«Ma lo devo ammazzare io, Rino? O l'ha già fatto
Dio?» Prese a sbattere un piede a terra come se dovesse
schiacciare uno scarafaggio invisibile.
Riky si liberò dalla stretta come se a toccarlo fosse
stato un lebbroso. «Senti, scusami ma devo andare.
Buona fortuna.»
L'Uomo delle Carogne lo vide sparire dalla porta e
poi strizzò la bocca in un ghigno di terrore, si lasciò
cadere in ginocchio, si abbracciò, si piegò su se stesso
e cominciò a piangere e a mugugnare: «Ditemi cosa
devo fare. Vi prego... Ditemelo voi. E io lo farò».
239.
Beppe Trecca era poggiato contro una colonna della
navata laterale con le braccia incrociate.
Aveva lasciato Cristiano con i suoi compagni e ora
vedeva la sua testa bionda spuntare tra quelle degli
altri.
Sembrava un alieno, lì in mezzo. Non li aveva
nemmeno degnati di uno sguardo.
Ha carattere, quel ragazzino, ed è forte.
Si sarebbe ripreso, di questo Beppe era certo. Non
si era mai lamentato, non lo aveva mai visto versare
una lacrima. Così bisognava affrontare le difficoltà.
Lui invece si sentiva stanco e debole.
Non vedeva l'ora di tornarsene a casa, farsi una
doccia, rasarsi e scrivere la lettera di dimissioni. Il
giorno dopo avrebbe chiuso il conto in banca, preso
quelle quattro cose che possedeva e se ne sarebbe andato
in macchina ad Ariccia.
Si tolse gli occhiali, li pulì e se li rimise. Strizzò gli
occhi e vide Ida seduta nei banchi della navata centrale.
Accanto, Mario e i bambini.
Avrebbe dovuto sobbalzare, strozzarsi, nascondersi
e invece rimase lì, come incantato, a fissarla. In
quei giorni aveva immaginato mille volte quel momento
e non aveva mai pensato che la sua reazione
sarebbe stata quella. Era in pace, tranquillo, perché
gli bastava vederla che tutte le sue ansie, le sue paure
si scioglievano come tempera nell'acqua. Sapeva che
era l'ultima volta che la vedeva e voleva riempirsi la
memoria di lei per non scordarsela mai più. E vivere
nel suo ricordo.
Era vestita con un tailleur nero e un golfino grigio.
I capelli raccolti dietro la nuca. Il collo lungo. Era
magnifica. Con la mano si toglieva un ciuffo dalla
fronte.
Ma perché cazzo ho fatto quel voto?
E poi chi aveva detto che l'africano era morto? Era
a terra, ma poteva essere solo svenuto. Non gli aveva
nemmeno sentito il cuore. Che imbecille! Era stato il
senso di colpa che aveva deciso per lui. Nel panico
l'aveva dato per spacciato. Ma non c'era stato nessun
medico ad accertarne la morte.
Stava benissimo. Gli ho pure comprato i calzini.
E poi i miracoli non esistono. Sono solo un'illusione per
far crescere la fede. Il Signore non è un mercante con cui
contratti favori in cambio di promesse.
Ma come mi è venuto in mente di pensare che uno fa
una preghiera e Dio resuscita i morti? Così non morirebbe
nessuno!
Non c'era stato nessun miracolo. E se non c'era stato
non c'era nessun voto. Se si sbagliava e doveva pagare
per essere felice, avrebbe pagato.
Io sono innamorato di Ida Lo Vino e non la voglio perdere
per niente al mondo.
Sentì diffondersi per il corpo una sensazione di calore,
e le membra che s'illanguidivano. Era come rinascere.
Qualcuno gli aveva sollevato dal petto quei
mille chili che non lo facevano più respirare.
Dilatò i polmoni, buttò fuori l'aria e si passò le dita
fra i capelli. Si stirò con le mani la giacca e si aggiustò
il nodo della cravatta.
Attraversò deciso la calca e si infilò nel banco dove
stava Ida.
Sentì l'odore buono del suo profumo. Le strinse un
braccio. «Ida?»
La donna si girò e lo vide. Sbalordita sospirò: «Beppe!
Dove eri finito?».
«A chiudere i conti con Dio» disse, poi le fece cenno
di aspettare e si rivolse a Mario Lo Vino che lo
guardava sorridente: «Finita la funzione, devo parlarti».
Si sedette e prese la mano a Ida.
240.
Cristiano aveva dovuto abbracciare tutti i suoi compagni
di scuola. Alcuni lo avevano anche baciato.
Pure quello sfigato di Colizzi, il secchione, che lo
aveva sempre odiato. L'unica che non lo aveva degnato
di uno sguardo era Esmeralda Guerra, l'amica
di Fabiana.
Sulle prime neanche la riconobbe, vestita così elegante
e con i lunghi capelli neri raccolti in una treccia.
Si era anche tolta il piercing. Sembrava più grande
ed era bellissima. In mano aveva un foglio che
continuava a leggere. Intorno le sedeva un drappello
di damigelle che cercavano di consolarla.
Cristiano si sedette accanto a Pietrolin, che una
volta aveva picchiato al centro commerciale con la sagoma
di cartone di Brad Pitt.
Pietrolin gli diede una gomitata. «La Guerra leggerà
una poesia che ha scritto per Fabiana. E domani
alle tre e mezzo va anche alla Vita in diretta.»
Dall'altra parte, in piedi accanto a un confessionale,
c'era Tekken con tutta la sua banda. Ducati, Nespola,
Memmo e altri tre o quattro di cui Cristiano
non conosceva il nome. Aveva addosso un'armatura
di gesso.
Allora la legnata te l'ho data bene. Ti ho fatto male. Te lo
meriti. Visto quello che hai fatto a Quattro Formaggi...
A un tratto ci fu un mormorio generale.
Cristiano si voltò.
Erano entrati il padre, la madre e il fratellino di Fabiana.
La folla si aprì per farli passare. I Ponticelli si
tenevano stretti l'uno all'altro e avanzavano smarriti
in mezzo alla gente. C'era chi sollevava i telefonini
per fotografarli e fare i video. Nella penombra della
chiesa gli schermi dei cellulari s'illuminavano come
ceri funebri.
Li fecero sedere in prima fila accanto al sindaco, a un
sacco di personaggi importanti e ai poliziotti in divisa.
La madre prese in braccio il figlio mentre le telecamere
delle televisioni zoomavano in un primo piano.
«Dopo il funerale c'è il corteo fino al cimitero. Non
ho capito se ci dobbiamo andare anche noi.»
Cristiano fissò Pietrolin senza sapere cosa dire. Da
quando era entrato nella chiesa aveva evitato di guardare
verso l'altare, ma non resse più.
La bara bianca era deposta sopra un tappeto rosso.
Intorno migliaia di iris, tulipani, margherite. Decine
di corone e coniglietti di peluche bianchi.
Una fila sterminata di persone si avvicinava e deponeva
altri fiori o semplicemente sfiorava la bara.
Lì dentro c'è Fabiana e io sono stato l'ultimo a toccarla.
Rivide il momento in cui spingendo nel fiume il
cadavere avvolto nella plastica le aveva sfiorato un
dito del piede.
241.
L'Uomo delle Carogne aprì la porta del reparto di
rianimazione.
Il cuore ora gli batteva forte nel petto, ma il ritmo
era regolare.
C'era un viavai di medici e infermieri che uscivano
ed entravano dalla stanza dove era ricoverato Rino.
Un allarme suonava.
Si avvicinò mordendosi il palmo della mano.
Intorno al letto c'era un capannello di dottori che
discutevano e gli nascondevano la visuale.
Nessuno faceva caso a lui.
Allora prese coraggio e si avvicinò un altro po'.
Sotto il golf sentiva la pistola che spingeva sul costato
indolenzito.
Attraverso le schiene dei medici vide il corpo di
Rino sotto le lenzuola. Il collo, il mento, le guance, le
palpebre abbassate... Il braccio tatuato da cui uscivano
i tubi trasparenti che si sollevava. L'indice puntato
verso di lui. Gli occhi azzurri fissi nei suoi.
Rino aprì la bocca e disse: "Sei stato tu!".
242.
Incominciò una musica e la chiesa si ammutolì. Rimase
solo il pianto di qualche bambino.
In fondo, a lato dell'altare, c'erano quattro ragazze
con la gonna nera e la camicia bianca che con il violino
suonavano una melodia tristissima. Cristiano l'aveva
già sentita in un film di guerra.
Esmeralda guardò la Carraccio, l'insegnante di
Matematica, che le fece segno di andare, e tutti i suoi
compagni si sollevarono dagli scranni per farla passare
dandole delle pacche d'incoraggiamento.
La chiesa era così silenziosa che i tacchi delle scarpe
nere rimbombavano sulle arcate in cemento armato.
Esmeralda salì composta i tre gradini, passò accanto
alla bara e si mise in piedi dietro al leggio. Si avvicinò
al microfono e dovette prendere tre respiri prima
di riuscire a dire con un filo di voce: «Questa è
una poesia. L'ho scritta per te, Fabiana». Si passò una
mano sugli occhi. «Fabiana dal sorriso. Fabiana dal
cuore grande. Fabiana che sapeva illuminare anche le
giornate più buie... Fabiana che ci faceva ridere... Ora
sei...» Piegò la testa e cominciò a sussultare. Provò a
continuare. «... ora sei... ora sei...» ma non ci riuscì.
Bofonchiò tra i singhiozzi: «Ci mancherai, farfallina».
E poi si allontanò dal leggio e corse al suo posto coprendosi
il viso.
Alessio Ponticelli guardò la moglie e le strinse forte
la mano. Fece un respiro e andò al microfono.
Cristiano lo aveva visto qualche volta davanti alla
scuola. Era un bell'uomo, un tipo atletico, sempre abbronzato.
Ma ora sembrava ammalato, come se gli
avessero succhiato via ogni forza. Era pallido, spettinato
e con gli occhi lucidi e febbricitanti. Tirò fuori
dalla giacca un foglio piegato, lo aprì, lo guardò, ma
poi se lo rinfilò in tasca e cominciò a parlare piano.
«Avevo scritto di Fabiana, mia figlia, di che magnifica
creatura era, avevo scritto dei suoi sogni, ma non
ce la faccio, scusatemi...» Tirò su con il naso, si
asciugò gli occhi e riprese a parlare con più vigore.
«Dicono che Dio sa perdonare. Dicono che Dio, nella
sua infinita bontà, ha creato gli esseri umani a sua
immagine e somiglianza. Io non capisco, però: come
può aver creato quel mostro che ha ucciso la mia
bambina? Come può aver assistito a tutto ciò? A una
povera bambina che veniva buttata giù dal suo motorino,
presa a botte, violentata e finita con una sassata
in testa? Dio vedendo tutto ciò avrebbe dovuto urlare
dall'alto dei cieli così forte da renderci tutti sordi,
avrebbe dovuto oscurare il giorno, avrebbe dovuto...
E invece non ha fatto niente. I giorni passano e non
succede niente. Il sole sorge e tramonta e un assassino
infame si nasconde tra noi. E mi chiedono di parlare
di perdono? Io come posso perdonarlo? Non ho
la forza. Mi ha tolto la cosa più bella che avevo...»
Poggiò i gomiti sul leggio, si mise le mani sulla faccia
e scoppiò a piangere a dirotto. «Io lo voglio vedere
morto...»
La madre di Fabiana si alzò, raggiunse il marito, lo
strinse forte e se lo portò via.
Dietro l'altare il cardinale Bonanni, un gobbo vecchissimo,
cominciò a officiare la messa con una voce
roca: «L'eterno riposo dona loro, o Signore, e splenda
ad essi la luce perpetua».
Tutta la chiesa si alzò in piedi e ripeté: «L'eterno riposo
dona loro, o Signore, e splenda ad essi la luce
perpetua».
Cristiano rimase seduto, piangeva in silenzio e rotto
dai singhiozzi riusciva a malapena a respirare.
Sono un mostro, un mostro.
Come aveva fatto a trascinare il corpo di Fabiana
imbrattato di sangue senza provare nessuna pena?
Come aveva fatto a vivere quei giorni senza sentire
vergogna? Senza pensare di avere distrutto una famiglia?
Dove aveva trovato la forza per pulire il cadavere
senza nessun rimorso? Perché era riuscito a fare
tutto questo?
Perché sono un mostro e non merito perdono.
243.
Faceva caldo nel soggiorno dell'Uomo delle Carogne.
Il sole alto in cielo attraversava i vetri delle portefinestre
e sulla zona orientale del presepe albeggiava.
Dalla finestra spalancata del bagno arrivavano il
cinguettio dei passeri, i clacson delle macchine e lo
strillo dei megafoni che diffondevano la messa che si
stava svolgendo nella chiesa di San Biagio.
L'Uomo delle Carogne uscì dalla cucina con una
sedia in mano.
«Dal profondo a te grido, o Signore: Signore, ascolta
la mia voce. Siano i tuoi orecchi attenti alla voce
della mia preghiera» gracchiò il cardinale Bonanni attraverso
gli altoparlanti.
L'Uomo delle Carogne, facendo attenzione a non
far cadere nulla, mise la seggiola al centro del presepe.
Una zampa si poggiò su di un laghetto fatto con
una bacinella di plastica blu. Una zampa sopra i binari
del treno. Una zampa in mezzo a un branco di
orsi bianchi che sbranavano un Pokémon. Una zampa
al centro di un piazzale dove erano parcheggiati
in fila carri armati e camion dei pompieri.
«Io spero nel Signore, l'anima mia spera nella sua
parola. L'anima mia attende il Signore più che le sentinelle
il mattino.»
Poi l'Uomo delle Carogne tornò indietro e si spogliò.
Si tolse la cerata. Si tolse la sciarpa bianca e nera
della Juve. Si tolse il golf e la canottiera. Si sfilò le
scarpe e i calzini. Si tolse i pantaloni. Prese la pistola
e la poggiò sul mucchio di vestiti. Infine si levò anche
le mutande.
«Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito
Santo.»
Allargò le braccia come fossero le ali di un piccione
ferito, spinse il ventre gonfio in avanti, piegò la testa
di lato e si specchiò nella portafinestra.
Le braccia lunghissime. La spalla destra viola e tumefatta.
Il pomo d'Adamo. La barba nera. La piccola
testa rotonda. Il crocefisso tra i peli del petto. Il torace
smagrito chiazzato di ematomi bluastri. Il pene scuro
poggiato davanti ai coglioni che penzolavano come
frutti maturi. La gamba destra, storta, mangiata dal
fulmine. La cicatrice, dura come il nodo di un tronco,
che gli traversava il polpaccio. I piedi con le unghie
nere.
Vide un'ombra scivolargli alle spalle. Non si girò.
Sapeva chi era. Gli sembrava di sentire i toc toc che
faceva camminando sulle stampelle e il fruscio della
veste nera che strusciava sul pavimento.
«Fratelli e sorelle, per celebrare questa Santa Eucarestia
in suffragio della piccola sorella Fabiana nella
speranza che ci viene dal Cristo Risorto, riconosciamo
umilmente i nostri peccati» urlava il prete.
L'Uomo delle Carogne staccò il caricabatterie del
cellulare dalla presa elettrica e riattraversò, come un
colosso, i deserti, i fiumi, le città e salì sulla sedia. Sollevò
un piede. Una piccola mucca bianca e nera gli si
era conficcata sotto la pianta. Se la tolse e la avvolse
alla catenina del crocefisso.
«Dio onnipotente abbia misericordia di noi, perdoni
i nostri peccati e ci conduca alla vita eterna.»
L'Uomo delle Carogne allungò le braccia verso il
soffitto. Proprio sopra di lui c'era il gancio per il lampadario
e due fili elettrici che spuntavano dall'intonaco
come la lingua biforcuta di un serpente.
Fece passare più volte il filo del caricabatterie intorno
al gancio e poi se lo girò intorno alla gola.
«O Dio, tu sei l'amore che perdona: accogli nella
tua casa la nostra sorella Fabiana che è passata a te da
questo mondo: e poiché in te ha sperato e creduto,
donale la felicità senza fine. Per il nostro Signore...»
Che strano. Era come se non fosse più nel suo corpo.
Era vicino. Lì accanto. Si vedeva, nudo, stringere
il filo nero intorno alla gola. Si vedeva respirare affannosamente.
Sono io questo qui?
(Sì, sei tu quello lì.)
Cosa diavolo aveva portato quell'uomo nudo a salire
su una sedia e mettersi un cappio al collo?
L'Uomo delle Carogne conosceva la risposta.
La sua testa.
La sua piccola testa ricoperta di capelli neri come le
penne di un corvo. La sua testa pazza. Quella testa che
gli aveva rovinato la vita. Lì dentro c'era qualcosa che
gli aveva fatto sentire troppe cose, che lo aveva fatto
sentire sempre fuori luogo, diverso, che gli aveva fatto
fare cose che non poteva dire a nessuno perché nessuno
le avrebbe capite, che lo aveva terrorizzato, esaltato,
accecato, che lo aveva fatto rintanare in un buco pieno
di immondizia, impaurito come un sorcio, che gli aveva
fatto sognare un presepe così grande da coprire tutta
la Terra, da sostituire montagne, mari e fiumi con
montagne di cartapesta e mari di carta stagnola.
Be', quella testa lo aveva stancato.
«Sì, stancato» disse l'Uomo delle Carogne e diede
un calcio alla sedia. Rimase sospeso sopra i pastori, i
soldatini, gli animali di plastica e le montagne di cartapesta.
Come Dio.
Gorgogliando sollevò un po' le braccia e allargò le
mani.
«Il Signore è il mio pastore: su pascoli erbosi mi fa
riposare, ad acque tranquille mi conduce. Mi rinfranca,
mi guida per il giusto cammino, per amore del
suo nome.»
Adesso che non respirava più, che i suoi polmoni
disperati urlavano "aria, aria!", che le meningi gli
esplodevano, che le sue gambe si dibattevano come il
giorno in cui era stato attraversato dalla corrente, improvvisamente
capì.
Capì cosa mancava al presepe.
Non era Ramona.
Era così semplice.
Io.
Mancavo io.
Quattro Formaggi sorrise. Un bagliore accecante.
Una. Due. Tre volte.
Poi ci fu il buio che libera.
244.
«Venite, santi di Dio, accorrete angeli del Signore. Accogliete
la sua anima e presentatela al trono dell'Altissimo.
Ti accolga Cristo, che ti ha chiamato, e gli angeli
ti conducano con Abramo in paradiso. Accogliete
la sua anima e presentatela al trono dell'Altissimo.
L'eterno riposo donale, o Signore, e splenda a lei la
luce perpetua. Accogliete la sua anima e presentatela
al trono dell'Altissimo.»
Cristiano era ancora seduto tra i suoi compagni ma
la sua mente era distante, in un'altra chiesa. Vuota. Lui
era in piedi di fronte al leggio accanto alla bara di suo
padre. Quattro Formaggi e Danilo seduti in prima fila.
Mio padre era un uomo cattivo. Ha violentato e ammazzato
una ragazzina innocente. Merita di finire all'inferno.
E io con lui per averlo aiutato. Io non so perché lo ho aiutato.
Giuro che non lo so. Mio padre era un ubriacone, un
violento, un buono a nulla. Menava tutti. Mio padre mi ha
insegnato a usare la pistola, mio padre mi ha aiutato a
riempire di botte uno a cui avevo tagliato la sella della moto.
Mio padre mi è sempre stato vicino dal giorno che sono
nato. Mia madre è scappata e lui mi ha tirato su. Mio padre
mi portava a pescare. Mio padre era un nazista ma era
buono. Credeva in Dio e non bestemmiava. Mi voleva bene
e voleva bene a Quattro Formaggi e a Danilo. Mio padre
sapeva quello che era giusto e quello che era sbagliato.
Mio padre non ha ucciso Fabiana.
Io lo so.
Il filo del caricabatteria si spezzò. Quattro Formaggi
cadde giù tra i pastorelli, le case di Lego, le paperelle
e i Barbapapà.
Rino Zena, steso nel suo letto, mosse una mano.
Una voce disse: «Mi può sentire? Se mi può sentire
faccia un segno. Un segno qualsiasi».
Rino sorrise.
Cristiano Zena aprì gli occhi.
Tutti erano in piedi e applaudivano al passaggio
della bara bianca.
Si alzò e urlò: «Non è stato mio padre!».
Ma nessuno lo sentì.
FINE
Indice.
PROLOGO
7.
PRIMA
29.
I Venerdì
31.
II Sabato
125.
III. Domenica
169.
LA NOTTE
177.
dopo
355.
IV. Lunedì
357.
V. Martedì
412.
VI. Mercoledì
467.
Niccolò Ammaniti aderisce alla campagna "Scrittori per le
foreste" lanciata da Greenpeace.
Questo libro è stampato su carta certificata fsc, che unisce
fibre riciclate post-consumo a fibre vergini provenienti
da buona gestione forestale e da fonti controllate.
FSC.
accredited.
FSC Trainarli© 1996.
For«! Stewardship Council A C.
«Come Dio Comanda».
di Niccolò Ammaniti.
Collezione Scrittori italiani e stranieri.
Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.
Questo volume è stato impresso nel mese di settembre dell'anno 2006
presso Mondadori Printing S.p.A.
Stabilimento Nuova Stampa Mondadori - Cles (TN).
By Martina V. at 11:52 pm, Oct 22, 2008
Stampato in Italia - Printed in Italy.