mamme chenon possono avere tutto

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mamme chenon possono avere tutto
MAMME
CHENON
POSSONO
AVERE
TUTTO
Fare un figlio e poi rimettersi sul
mercato: una missione difficile,
se non impossibile in Italia, dove
il congedo di maternità spesso
si trasforma nell'addio definitivo
alla carriera (volontario nel
53% dei casi). 5 storie, 5 modi di
ritornare a casa di Gina Pavone
A
ncora immersa nel ciclo continuo
poppata-pannolino-nanna-notti
insonni, Ludovica S. è rientrata al
lavoro tre mesi dopo il parto, tormentata dall'ansia di perdere terreno e rimanere fuori. I ritmi della redazione erano
pesanti, ma il contratto era in scadenza e non potevarischiare.Il rinnovo però è finito lo stesso sul
tavolo di un avvocato, il posto al nido non c'era e
i nonni non erano ancora in pensione. «Così mi
sono detta: accerto la liquidazione e mi godo miofiglio,poi si
vedrà». Da neomamma a neocasalinga il passo è stato breve,
i figli sono diventati due e Ludovica tenta la via del lavoro da
casa, in remoto e part-time. Non sarà piena indipendenza
economica, ma è comunque una strategia per non isolarsi.
Ma questo non è che uno tra i nuovi modelli di mamme in
lite con il mercato del lavoro: «Sono le cosiddette opting out,
quelle che rinunciano a lavorare nonostante l'istruzione e la
qualificazione. Deluse dalle condizioni lavorative, guadagnano poco, hanno contratti precari e poche tutele», osserva
Annalisa Tonarelli, sociologa del lavoro all'università di Firenze. Non sono la maggioranza, le più istruite sono anche
le più occupate, ma la condizione di mamme ex-lavoratrici è
in aumento anche tra queste ultime. «Quando il lavoro non è
appetibile,riemergela cultura dell'accudimento materno e si
cerca nella cura deifigliun appagamento», osserva Tonarelli.
D152
Le mamme che a due anni dal parto non lavorano più sono
il 22,3%, nel 2005 erano il 18,4%. Il rapporto Istat 2014 sottolinea che è aumentata la quota di quelle che il lavoro lo
perdono, più che lasciarlo, ma nel 53% dei casi l'abbandono
è volontario. Spesso però non è una scelta: «In molti casi il
rientro dopo il parto può prevedere un inasprimento delle
rigidità proprio per incentivare l'abbandono "spontaneo"»,
sottolinea Maria Luisa Bianco, docente di Sociologia all'università del Piemonte orientale. La situazione tipo, per cui
le mamme rinunciano a lavorare, è fatta di orari impossibili,
aziende per nulla mommy-friendJy, welfare inesistente e nid
insufficienti.
Loredana B. ha provato di tutto, compreso far salire ogni
giorno la mamma 79enne sul pullman da Torino a Orbassano, perché facesse da babysitter fino alle 21, quando lei e
suo marito, commessi in un centro commerciale, rientrava-
Professione guerriere
Quelle con il calendario alla mano, che evitano di partorire a ridosso della
scadenza del contratto e programmano la gravidanza in base alla propria
condizione lavorativa; quelle con partita Iva intente a inventarsi trucchi per non
perdere committenti nei cinque mesi in cui la legge le obbliga a non emettere
fattura; le piccole imprendìtrici alle prese con una burocrazia snervante, poppante
in braccio perché per loro il posto al nido non c'è; quelle che al rientro non sono
considerate più le stesse, ma con qualcosa in meno e non in più; e ancora quelle
che a lavorare ci rinunciano perché il gioco non vale la candela e persi no il sistema
di tassazione in Italia «disincentiva il lavoro delle donne». Un vero inventario: quello
delle infinite tipologie di mamme in lotta con il mercato professionale, raccontato
nel libro Guerriere, della giornalista Elisabetta Ambrosi (Chiarelettere), raccolta
di voci e quasi racconto corale di quali e quante battaglie riservi la maternità tra
lavoro e vita quotidiana. Tutto innegabile. Ma se ci fosse dell'altro? Se il mestiere
del genitore corrispondesse a «tanta gioia e zero divertimento»? È la tesi del
libro Le mamme felici non esistono, della statunitense Jennifer Senior (Rizzoli),
che documenta come la genitorialità sia cambiata rispetto al passato, senza
che anche gli strumenti per affrontarla si siano adeguati. Così quello che continua
a essere raccontato, ingannevolmente, come un idillio finisce spesso per
essere un inferno - o quantomeno un periodacelo di stress - per gli impossibili
standard di perfezione che la società (e la nostra coscienza) impone. G.P.
no a casa. Ha provato a chiedere una riduzione di orario, ma non l'ha ottenuta.
La nonna non ce la faceva più e quando
la bimba ha avuto dei problemi di salute Loredana si è dovuta dimettere. «Ho
sempre lavorato, prendere questa decisione a 42 anni mi è costato tantissimo. E
con uno stipendio solo si fa fatica».
Ma se il tempo da dedicare ai figli è il
motivo principale per cui si decide di stare a casa, la quota di licenziate è passata
dal 16% del 2005 al 27,2 nel 2012. «La
riduzione dei diritti ha comportato anche una drastica diminuzione delle protezioni per la maternità. Le donne che
hanno un impiego a tempo indeterminato la conservano gelosamente anche dopo la nascita del figlio. Si rinuncia al lavoro quando le prospettive sono scarse e le condizioni difficili»,
osserva Bianco. Le più esposte al rischio di lasciare o perdere
il lavoro sono le neo-madri con contratti a tempo determinato (45,7% nel 2012, rispetto al 2005 più 36,3%), si legge nel
rapporto annuale Istat. «Quando ho detto che ero incinta, i
miei datori hanno fatto una faccia inequivocabile e, giunti
alla scadenza del contratto, è bastato non rinnovarlo. Ero al
settimo mese», racconta Valentina Sgnappolini, 40enne che
fino a tre anni fa lavorava in un negozio di Roma e oggi si
arrangia con diverse attività, con la figlia che gioca in sottofondo e presentandosi col passeggino agli appuntamenti.
Secondo il rapporto Maternità e Lavoro (Isfol, 2010) nei
sistemi di welfare pensati per famiglie con un unico reddito, l'occupazione femminile è in media inferiore a quella
maschile di 18 punti, mentre nei welfare "universalistici" lo
scarto è del 3,7%. I tagli alla spesa pubblica si sono abbattuti
spesso su servizi come nidi e scuole. «Con la crisi sono peggiorati i servizi pubblici e la conciliazione è diventata ancora
più difficile», ricorda Bianco.
Ci sono mamme a cui lavorare non conviene, perché tra nido
e tata spendono più di quel che guadagnano. «Se vivi alle
porte di Roma, hai una bimba al nido, un secondo in arrivo
ei nonni lontani, la docenza su base volontaria all'università diventa un lusso»: per Annalisa Marinelli, architetto con
carriera da ricercatrice più volte interrotta, la situazione era
insostenibile e ha deciso di fermarsi per un po'. «Ho continuato a lavorare a saggi, inviato miriadi di candidature, ma
niente». Non arrendersi vuoi dire guardare lontano, il biglietto pronto per la Svezia, dove il marito ha avuto il trasferimento, e dove Annalisa spera di rientrare nel mercato a 40 anni.
All'estero spesso le cose vanno meglio che da noi. «In Francia i figli si fanno prima, e solo poi ci si concentra sul lavoro»,
osservaTonarelli. «li i tassi di occupazione femminile hanno
un andamento a M, con il calo che coincide con la fase in
cui si fanno i figli, ma poi non ci sono grossi problemi per
6 SETTEMBRE 2014
proseguire la carriera». Da noi invece, una volta usciti, rimanere fuori è più che un rischio. L'occupazione femminile in
Italia sembra un crocevia, il risultato di un intreccio di aspetti
economici, culturali e organizzativi, dove nel 78% dei casi la
causa dell'inattività è proprio la cura dei figli, secondo l'indagine Isfol Perché non lavori?. «Eppure c'è una consistente fetta
di inoccupate disposte a tornare a lavorare, ma solo con una
flessibilità di orario e la disponibilità di permessi per imprevisti», osserva Valentina Gualtieri, ricercatrice Isfol.
Anche per i contratti standard il mondo del lavoro in Italia
continua a essere un campo di battaglia. «Il mio dramma è
iniziato con una gravidanza tragicamente interrotta all'ottavo mese», racconta Silvia Balercia, ai tempi assunta in un
negozio per bambini. «La legge prevede lo stesso il periodo
di congedo obbligatorio, cosi sono stata a casa. Al mio rientro è cominciata la guerra, il licenziamento con una scusa, la
causa, la sentenza di reintegro, il mobbing. Alla seconda gravidanza, quando è nata la mia bambina, ho lasciato perdere».
Di fronte alle difficoltà, non sono poche quelle che rinunciano e in effetti «la natalità è più alta nei paesi (in Italia nelle regioni) dove le donne hanno un tasso di occupazione più alto
e il welfare pubblico offre asili e scuole con orari flessibili»,
nota Bianco. «Le madri talvolta rinunciano al lavoro quando
in famiglia c'è un altro reddito sicuro e quando questo manca, la rinuncia è alla maternità stessa».