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Tecnologia, processi e organizzazione del lavoro
Giorgio Pedrocco
La tecnologia Mannesmann dei tubi senza saldatura
L’importante innovazione tecnologica messa a punto tra il 1885 e il 1886 in Germania dai
fratelli Max e Reinhard Mannesmann1, che condusse alla realizzazione di particolari laminatoi
capaci di fabbricare tubi senza saldatura, si colloca per molti motivi lungo le linee di sviluppo
della Seconda rivoluzione industriale, quando in un breve periodo, tra la fine dell’Ottocento e
l’inizio del Novecento, “grappoli” di innovazioni tecnologiche applicate alle attività produttive
riuscirono a rilanciare l’economia mondiale.
In quegli anni, in primo luogo, fu possibile disporre di acciaio in grande quantità e a basso
prezzo, indispensabile materia prima per la produzione dei tubi. In secondo luogo, come in
quasi tutte le innovazioni tecnologiche messe a punto durante la Seconda rivoluzione industriale, anche per quella introdotta dai Mannesmann fu essenziale non solo la pratica dei processi produttivi, ma soprattutto la formazione tecnico-scientifica. E i Mannesmann avevano
studiato alla Gewerbe-Akademie di Berlino seguendo le lezioni di Franz Reuleaux, uno dei più
autorevoli studiosi di meccanica applicata.
Per quasi tutto il Novecento i tubi senza saldatura si sono sostanzialmente fabbricati seguendo il sistema ideato dai fratelli Mannesmann2: centinaia di laminatoi hanno plasmato milioni di
tonnellate di acciaio, inserendosi autorevolmente nel processo di industrializzazione del
Ventesimo secolo.
Nella loro fabbrica di famiglia di Remscheid, nei dintorni di Düsseldorf (Germania), dove
producevano lime, i due fratelli osservarono che al laminatoio nel corso della lavorazione dei
tondini, se sottoposti a forti pressioni, al loro interno si formavano delle cavità. Approfondendo
questa scoperta i Mannesmann si accorsero che, laminando una billetta cilindrica con una gab-
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L’autore ringrazia Pasquale Poma ed Enrico Radicchi per la testimonianza della loro esperienza di lavoro alla Dalmine e Mimmo
Boninelli per aver messo a disposizione i documenti e le registrazioni conservate nel suo archivio privato.
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Sui fratelli Max (1857-1915) e Reinhard (1856-1922) si veda Ruthilt Brandt Mannesmann, Max e Reinhard Mannesmann, in
Scienziati e tecnologi dalle origini al 1875, a cura di Edgardo Macorini, vol. II, Milano, Mondadori, 1975, pp. 337-339.
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Per altre tecnologie di produzione dei tubi senza saldatura si veda Dalmine Spa, Catalogo tecnico generale 1956, Bergamo, Istituto
italiano d’arti grafiche, 1956, pp. 41-49.
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bia costituita da una coppia di cilindri ad assi sghembi ruotanti nello stesso senso3, nel cilindro
di partenza si formava una cavità centrale. Su questa cavità essi fecero insistere un cilindro a
punta conica che da un lato svolgeva un lavoro di vera e propria foratura, e dall’altro, grazie alla
sua forma cilindrica, faceva sì che la billetta si trasformasse in forato, cioè in un semilavorato
in acciaio dalla forma di cilindro cavo. Tra il 1885 e il 1886 i Mannesmann brevettarono così il
procedimento ma, passando dalle sperimentazioni alle applicazioni su scala industriale, fu
chiaro che la sola laminazione obliqua non era sufficiente per produrre tubi senza saldatura a
parete sottile così come erano richiesti dal mercato: essa forniva solo dei forati che necessitavano di ulteriori lavorazioni. Nel 1891 Max Mannesmann mise a punto un secondo laminatoio
detto a passo di pellegrino4, in cui il forato incandescente, proveniente dal laminatoio obliquo,
inserito su un supporto chiamato mandrino, veniva trasformato in un tubo del diametro e dello
spessore desiderato mediante il passaggio attraverso cilindri sincroni profilati a camme, sorta
di ganasce che percuotendo e deformando il forato sul mandrino davano luogo a un tubo senza
saldatura a parete sottile, da destinare agli impieghi più diversi. Negli stessi anni, ancor prima
che fosse messo a punto il laminatoio pellegrino, i brevetti Mannesmann vennero acquisiti da
alcuni industriali che, dopo aver operato separatamente in vari impianti a Bous nella regione
della Saar, a Komotau in Boemia, e a Landore in Inghilterra, nonché nella stessa Remscheid,
nel 1890 confluirono nella società Deutsch-Österreichische Mannesmannröhren-Werke, a cui,
in un primo tempo, parteciparono anche i fratelli Mannesmann5. Dopo la messa in marcia del
laminatoio pellegrino la società conobbe un grande sviluppo aprendo molti altri impianti in tutta Europa e nel 1906 decise, per penetrare meglio nel mercato italiano, di avviarne uno a
Dalmine, alla periferia di Bergamo.
Nuove tecnologie nella pianura bergamasca
Allargando all’Italia la produzione di tubi senza saldatura, la Mannesmann tedesca operò nel
giro di pochi anni un trasferimento di tecnologie: insediò a Dalmine, tra il 1906 e il 1911, l’in______________________________
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Gabbia è un termine tecno-gergale del linguaggio siderurgico che definisce un set di cilindri attraverso i quali si modellano a seconda delle necessità i masselli incandescenti. Una sequenza di gabbie forma il treno di laminazione.
Il nome passo di pellegrino venne in mente a Franz Reuleaux: il movimento di andirivieni continuo del forato al laminatoio gli ricordava una processione che si svolgeva a Echternach (un paese al confine tra la Germania e il Lussemburgo), dove i fedeli, per ricordare i pellegrini in partenza per la Terra Santa, si muovevano facendo tre passi avanti e uno indietro.
Ruthilt Brandt Mannesmann, Max e Reinhard Mannesmann, cit., pp. 337-339.
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tero ciclo produttivo, dall’acciaieria alla laminazione e alla successiva finitura dei tubi. Dopo
aver costruito, nelle pianeggianti campagne del comune di Sabbio Bergamasco in frazione
Dalmine, le indispensabili infrastrutture di trasporto e edilizie – un raccordo ferroviario, i capannoni, le prime case per dirigenti, tecnici e operai specializzati – la società installò il laminatoio
costituito da tre “macchine” strettamente collegate tra loro: il laminatoio trio (a tre cilindri) per
tondi, il laminatoio obliquo e il laminatoio a passo di pellegrino6. Il primo trasformava i lingotti
d’acciaio quadri, nei primi anni provenienti dalla Germania, in billette tonde; l’obliquo forava le
billette, e il pellegrino plasmava in tubi i forati provenienti dall’obliquo. Il 12 luglio del 1909 la
Società tubi Mannesmann laminò i primi tubi con diametri sino a 100 millimetri, continuando
invece a importare dalla Germania i tubi di diametro maggiore7. A valle del laminatoio operavano poi gli aggiustaggi, dove per decenni l’occhio e la mano di esperte maestranze avrebbero eliminato tutti quei difetti che si accompagnavano alla laminazione del tubo; un lavoro che ancor
oggi è presente in forma ridotta e che in passato aveva grande importanza nel confezionamento
dei tubi8. In sequenza alla laminazione a caldo vennero inoltre avviate sezioni per le lavorazioni
a freddo, le trafilature, che permisero di ampliare il ventaglio dei diametri disponibili.
Messo a punto il nucleo centrale del tubificio la nuova società si preoccupò anche di dotare
l’impianto di un’acciaieria. Tra la fine del 1910 e gli inizi del 1911 vennero installati due piccoli forni elettrici Héroult da 3,5 tonnellate, che così consentirono ai laminatoi di lavorare su
un acciaio prodotto in loco. Il forno Héroult, grazie a un particolare procedimento messo a punto alla Mannesmann, trasformava rottami scadenti in un acciaio dolce di buona qualità, particolarmente adatto alla fabbricazione dei tubi senza saldatura9.
Con questa scelta la Società tubi Mannesmann adottava i modelli delle acciaierie situate nell’area padana, che avevano individuato il punto di avvio del ciclo produttivo siderurgico nell’abbondante quantità di rottame di ferro disponibile a basso prezzo. Scegliendo l’elettricità come fonte
energetica nella fusione, seguiva inoltre le tracce di alcuni pionieri dell’industrializzazione italiana, che stavano già dall’inizio del secolo sperimentando l’impiego dei forni elettrici in siderurgia10
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Dalmine Spa, La Dalmine durante cinquant’anni 27 giugno 1906 – 27 giugno 1956, Torino, Ilte, 1956, p. 24.
Peter Hertner, La Società “Tubi Mannesmann” a Dalmine. Un esempio di investimento internazionale (1906-1917), in “Ricerche
Storiche”, VIII, n. 1, gennaio-aprile 1978, p. 112.
“Allora negli aggiustaggi c’erano parecchie persone, mestieri anche pesanti. […] C’erano i molatori che regolavano o toglievano gli
spessori, se c’erano dei difetti”. Pasquale Poma intervistato da Giorgio Pedrocco, Cgil Dalmine, 16 giugno 2006.
Quirino Sestini, La chimica per i meccanici e i metallurgici. Generalità e metallurgia. Aria ed acqua nei loro rapporti coll’industria.
Combustibili solidi, Brescia, G. Vannini, 1928, p. 314. Sestini ricorda anche che “la fabbrica di Tubi Dalmine […] usa da molti anni
forni Héroult con ottimi risultati”.
Federico Giolitti, Ernesto Stassano, pioniere della fabbricazione dell’acciaio elettrico, in “La Metallurgia Italiana”, XXXII, n. 1, gennaio 1940, pp. 19-20.
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con l’obiettivo di accantonare gli allora diffusissimi forni Martin-Siemens, nei quali invece come
combustibile di partenza si usava il carbon fossile, costosissimo per l’Italia.
A Dalmine, però, la scelta, per così dire all’avanguardia, dell’elettrosiderurgia veniva penalizzata e ostacolata dall’incapacità delle imprese idroelettriche, che operavano in quella zona,
sia di fornire le potenze necessarie agli apparati produttivi (forni e motori dei laminatoi), sia di
garantire con continuità le forniture, determinando gravi scompensi all’attività produttiva.
La domanda di tubi, in espansione nel mercato italiano, impose un’altra importante scelta di
carattere impiantistico: l’allestimento, in simultanea con i laminatoi, della sezione di finitura,
che comprendeva una serie di trattamenti a cui i tubi venivano sottoposti, dopo essere stati controllati ed eventualmente aggiustati, per poter essere messi direttamente in opera. In particolare, venne realizzato, con priorità assoluta rispetto alla rimanente parte della fabbrica, un reparto per la fasciatura con iuta incatramata dei tubi campanati importati dalla Germania, consentendo così alla Mannesmann italiana di risparmiare sui dazi di entrata. Venne inoltre allestito
anche un apposito reparto di zincatura per sostenere la diffusione e l’impiego dei tubi zincati, a
scapito dei più costosi tubi di piombo, nelle reti gas e acqua realizzate in Italia.
Parallelamente all’installazione degli impianti, un altro aspetto doveva essere rapidamente
affrontato: reclutare, addestrare e inserire nel processo produttivo personale proveniente da
un’area agricola dove la forza lavoro disponibile mancava di qualsiasi esperienza industriale11.
Mentre per gli operai meccanici “specialisti” quali i tornitori, gli aggiustatori, i macchinisti
comunque provenienti da fuori, il problema era quello di fornire un alloggio, per gli addetti ai
laminatoi e alle acciaierie si trattava di procedere a un addestramento diretto sul campo. Il problema si pose drammaticamente già nel 1909, quando gli operai e i tecnici provenienti dalla
Germania avevano completato il montaggio dei laminatoi e probabilmente si era svolto solo un
sommario affiancamento con gli aspiranti lavoratori.
Lo stesso amministratore delegato, Eugen Hannesen ammetteva di essere costretto per addestrare il personale a “rinunciare a lavorare per le ordinazioni”12: infatti alle lavorazioni complesse necessarie per i tubi di diametri, spessori e lunghezze differenti richiesti dal mercato, si
favorivano lavorazioni standard, che permettevano di insegnare il lavoro ma producevano tubi
che venivano accantonati in magazzino.
Intanto, già nel 1909, lungo i 34 chilometri di strada ferrata che congiungevano Salerno a
Pompei (Napoli) si affermava la prima sperimentazione in Italia di un impiego di pali tubolari –
con tubi ancora provenienti dalla Germania – per il sostegno dei cavi della corrente elettrica.
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Su questo tema si veda il contributo di Ferruccio Ricciardi in questo volume.
FD, D, LSca 001.02 verbale del 23 novembre 1909. Per indicazioni sulle segnature archivistiche si veda p. 30.
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Questo avrebbe costituito un punto di forza della produzione della Dalmine nei decenni successivi13. La molteplicità degli impieghi dei tubi venne ulteriormente allargata grazie a un
accordo con la Marina militare che era interessata ai tubi senza saldatura da impiegare nelle
caldaie delle navi, dove i condotti erano soggetti a una rapida usura per gli sbalzi di temperatura a cui erano sottoposti.
Proprio nei mesi che precedettero lo scoppio del conflitto mondiale la Società tubi
Mannesmann si impegnò in una ambiziosa espansione impiantistica corrispondente al suo
ormai consolidato insediamento sul mercato italiano. L’acciaieria venne rafforzata ulteriormente con l’installazione di due nuovi e più capaci forni elettrici Héroult da 15 tonnellate, mentre
al primo laminatoio per tubi da 47 fino a 78 millimetri, detto “piccolo” ne venne affiancato uno
allora definito “grande”, capace di lavorare tubi da 110 a 300 millimetri. L’impianto era così in
grado, arrivando a produrre circa 40.000 tonnellate di tubi, di far fronte alla domanda del mercato italiano. Tuttavia lo scoppio della guerra bloccò i piani dei vertici e dei tecnici della
Mannesmann, che rapidamente rientrarono in Germania per passare la mano a un nuovo
Consiglio d’amministrazione gradito al governo italiano.
La Dalmine tra la Fiat e la Banca commerciale italiana
La fine della Grande guerra coincise con notevoli movimenti ai vertici dello stabilimento di
Dalmine: la società Altiforni, fonderie, acciaierie e ferriere Franchi Gregorini di Brescia, che
aveva gestito l’azienda durante la guerra impoverendone gli assetti produttivi con alcuni smantellamenti di impianti, usciva di scena.
Subentravano ai vertici dell’impresa prima la Fiat e poi la Banca commerciale italiana
(Comit), che nel marzo del 1924, con l’uscita della Fiat diventava socio maggioritario della
Stabilimenti di Dalmine e accentuava ulteriormente la politica di investimenti e di rilancio del
tubificio14. Si trattò di un forte impegno finanziario in tutto il decennio, con un’impennata tra il
1925 e il 1927.
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Stabilimenti di Dalmine, Il palo tubolare “Mannesmann” nella elettrificazione delle linee ferroviarie e tranviarie, Bergamo, Officine
dell’Istituto italiano d’arti grafiche, 1931, pp. 5-33.
Su questi avvicendamenti si veda il contributo di Gianluigi Della Valentina in questo volume. Si veda inoltre: Giancarlo D’Onghia,
L’irresistibile ascesa di una azienda bergamasca: la “Dalmine Tubi S.A.”, in “Studi e ricerche di storia contemporanea”, XV, n. 25, giugno 1986, pp. 8-18; Carolina Lussana, Agostino Rocca alla Dalmine 1921-1944, in “Studi e ricerche di storia contemporanea”, XXIV,
n. 44, dicembre 1995, pp. 5-21; Luigi Offeddu, La sfida dell’acciaio. Vita di Agostino Rocca, Venezia, Marsilio, 1984, pp. 77-101.
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Gli investimenti supportarono innovazioni di prodotto e di processo, volte ad affermare il
tubo Dalmine puntando su qualità, prezzo e un ventaglio sempre più ampio di impieghi. La politica deflazionistica di Quota novanta portata avanti con energia dal governo italiano dal 1926 e
la Grande crisi del 1929 rallentarono, ma non arrestarono, questo flusso di investimenti.
Quest’intervento dal punto di vista tecnologico si caratterizzò innanzi tutto per la ripresa,
già nel 1923, dei rapporti con la Mannesmann tedesca, in modo da aggiornare gli impianti italiani rimasti isolati per quasi un decennio. L’invio di una qualificata delegazione alla “Casa
Madre Mannesmann”, consentì di acquisire la conoscenza di “tutti i più recenti perfezionamenti tecnici introdotti sia nel macchinario che nel prodotto”15. La visita convinse il presidente della Dalmine Mario Garbagni che, mentre “gli Stabilimenti Germanici [ottenevano] un
prodotto migliore, [avevano] una maggiore dotazione di mezzi automatici, una minore mano
d’opera e un macchinario più veloce”, le officine Dalmine potevano stare “in prima linea per
ampiezza, modernità, perfezione e organicità di impianti e per la loro potenzialità di ulteriori
ingrandimenti”16.
Tra il 1921 e il 1925 si aprirono in Italia vaste prospettive per i tubi, che vennero impiegati
non solo nelle infrastrutture di servizio (reti di gas e di acqua), ma anche, quali “elementi
costruttivi resistenti”, nel sostegno di materiali di ogni tipo, dai pali elettrici ferroviari ai lampioni per la pubblica illuminazione. Nel caso dei pali, ad esempio, design, elasticità meccanica
e resistenza all’azione corrosiva degli agenti atmosferici17 furono i fattori determinanti della diffusione dell’impiego di tubi senza saldatura. In quello dei mobili, l’affermazione di canoni estetici del razionalismo – in cui la linea curva, circolare o ovale si affiancava alle squadrature regolari delle strutture perfettamente geometriche e si sostituiva a fronzoli e orpelli tipici del liberty
e del neogotico – favoriva l’impiego dei tubi come montanti. Ma accanto a questi, si andava
intanto profilando un altro nuovo impiego per i tubi senza saldatura: la trivellazione a elevate
profondità per pozzi petroliferi e metaniferi, che richiedevano tubi particolarmente resistenti.
Questo ampliamento del ventaglio di prodotti e del mercato spinse ad aumentare e ad
ampliare la capacità produttiva. Ai due laminatoi esistenti se ne affiancò un terzo, per tubi di
diametro medio ovvero da 75 a 125 millimetri. Per la produzione di tubi di piccolo diametro dei
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Molto accortamente la delegazione, forte del precedente rapporto di filiazione, prese accordi a Bous con Adolf Nowak, già direttore a
Dalmine, perché cedesse “con piccolo compenso” tutti i perfezionamenti tecnici da lui ritrovati e applicati. Si veda FD, D, LSbb
001.01, verbale del 3 marzo 1925.
FD, D, LSbb 001.01, verbale del 24 marzo 1923.
La resistenza all’azione corrosiva degli agenti atmosferici esiste in quanto, a differenza dei tralicci, il palo tubolare non presenta interstizi in cui si annidano normalmente scorie e acqua piovana che ossidano e poi deteriorano la struttura portante.
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quali vi era grande richiesta nel mercato italiano entrò in funzione tra il 1924 e il 1925 un
quarto treno di laminazione, “il nuovo treno Mannesmann piccolo più veloce, che venne fin
dall’origine, indicato col n. 0 (contro una denominazione degli altri tre in funzione, il piccolo, il
medio e il grande, rispettivamente di n. 1, 2 e 3)”18. Tutti gli impianti venivano installati con
l’assistenza di due imprese di impiantistica tedesche, la Demag e la Maschinenfabrik Meer.
Radicali cambiamenti dimensionali intervennero anche in acciaieria dove i piccoli forni
Héroult vennero sostituiti da nuovi forni elettrici dello stesso tipo ma con una capacità maggiore. Un primo venne già introdotto nel 1922, si trattava di un Héroult-Fiat, che oltre a consentire di arrivare a 3-4 colate al giorno, aumentando quindi la quantità di acciaio prodotto, dava
anche garanzie sul piano qualitativo e, fatto decisivo, sul piano dei consumi di energia e di elettrodi di grafite.
Altro aspetto importante delle strategie tecnico-industriali della Dalmine di questi anni è la
creazione di officine e reparti di manutenzione particolarmente attrezzati, che consentiva di
affrancarsi dalla costosa assistenza tecnica delle imprese costruttrici. L’azienda si venne così
dotando, da un lato, di macchinari di prim’ordine, e dall’altro, di un patrimonio di tecnici e di
maestranze capaci non solo di intervenire in caso di guasti, ma anche di progettare innovazioni
incrementali agli impianti e ai prodotti già esistenti19. A fare da cornice a questi importanti
cambiamenti non poteva mancare un particolare impegno nel supporto organizzativo e logistico. La “razionalizzazione [del ciclo produttivo] si incentrò sul miglioramento della produzione
mediante il riordino dei vari reparti, l’introduzione di nuovi macchinari e di perfezionamenti
tecnici, la semplificazione e la trasformazione meccanica dei trasporti interni e la conseguente
riduzione di mano d’opera”20.
Nel 1925, sistemati i reparti di finitura e laminazione, si affrontò l’ultimo vincolo impiantistico, l’acciaieria, che non riusciva a tenere il ritmo delle richieste degli impianti a valle. La
scelta dell’elettrosiderurgia venne messa in crisi non tanto dalla scarsa efficienza dei forni
Héroult, quanto dalla persistente inadempienza delle imprese elettriche fornitrici che non
garantivano la necessaria continuità di erogazione.
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Roberto Calchi, Le vicende della Dalmine dalle origini al 1934, tesi di laurea, Università cattolica del Sacro Cuore di Milano, Facoltà
di economia e commercio, a.a. 1989-1990, p. 135.
Per quanto riguarda le professionalità in corso di formazione si ricorda l’episodio dell’estate del 1925: in occasione del montaggio del
nuovo laminatoio Demag, l’impianto cominciò a migliorare il rendimento solo dopo l’allontanamento del montatore tedesco inviato
dall’impresa costruttrice e la sua sostituzione con maestranze Dalmine. Si veda FD, D, LScb 001.01, verbale del 24 settembre 1925.
Roberto Calchi, Le vicende della Dalmine dalle origini al 1934, cit., p. 137.
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La Dalmine dovette quindi cercare altre soluzioni per evitare di acquistare acciaio da produttori esterni, con costi maggiorati e qualità meno affidabile. Nel 1925, grazie anche alla relativa caduta dei prezzi sul mercato mondiale del carbon fossile, la scelta in favore dei forni
Martin-Siemens fu inevitabile21. Negli anni successivi si procedette all’installazione di tali forni che però funzionarono solo dal 1927 al 1930, ossia fin quando la rivalutazione della lira aveva determinato un calo del prezzo di acquisto del carbone. Ma già negli anni dopo la Grande
crisi, con la lira meno forte, il problema della produzione di acciaio si pose in termini diversi e
si tornò ai forni elettrici, perché nel frattempo le compagnie si erano messe in grado di assicurare buone coperture nelle forniture di energia.
La politica deflazionistica seguita a Quota novanta comportò quindi per la Dalmine una battuta d’arresto nello sviluppo che – pur non portando all’accantonamento degli investimenti
impiantistici progettati e degli interventi logistici in corso – rallentò la fase espansiva dei primi
anni Venti. Un’accorta politica industriale e amministrativa riuscì comunque a far fronte a una
tendenza congiunturale decisamente sfavorevole, che la Grande crisi accentuò ulteriormente.
La Grande crisi
Il Venerdì nero di Wall Street ha fortemente condizionato la storia economica del nostro paese e le vicende delle singole imprese. La Dalmine, pur essendo ancorata solo al mercato nazionale, non poteva non risentirne gli effetti. Razionalizzando la propria struttura e perfezionando
i cicli, trovò comunque al suo interno le forze per sopravvivere. La congiuntura sfavorevole non
aveva scoraggiato i tecnici della Dalmine che, come riferiva il presidente Giuseppe Scavia, erano impegnati in ricerche “per conseguire una continua riduzione dei prezzi di costo ed una
maggiorazione delle rese; il che renderà però necessario […] non lasciare invecchiare gli
impianti di fronte all’incalzante miglioramento della tecnica senza peraltro dimenticare la parsimonia e la prudenza impostaci dalla situazione generale dei mercati”22. Una volta potenziati
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“Il Presidente si trattiene […] sul problema dell’energia elettrica in considerazione di tempi eventualmente meno propizi per la produzione ed in vista dell’impegno di un minimo assicurato di fornitura preteso dalla società Adamello, importante un onere annuo di
£ 3.000.000 circa. Tale problema è stato risolutamente affrontato e, dopo molto studio, risolto con la creazione di una nuova acciaieria con forni Martin-Siemens, di cui espone il preciso programma e il preventivo di spesa di impianto e di esercizio. Si potrà così raggiungere una produzione di tonnellate 300 al giorno con un risparmio di costo, in confronto dell’acciaio prodotto elettricamente, di
circa £ 150 la tonnellata”. FD, D, LSbb 001.01, verbale del 3 marzo 1925.
FD, D, LSbb 001.02, verbale del 17 gennaio 1931.
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i laminatoi e l’acciaieria, la sezione di finitura risultò essere continuamente tenuta sotto pressione innovativa. Ai diversi interventi per migliorare gli impianti, soprattutto quelli della trafilatura, si affiancò un’azione di promozione e vendita non solo di manufatti, ma anche di brevetti e licenze di finitura: fu il caso del rivestimento fibro-cementizio inventato da Agostino Rocca
nel 192923.
Un passaggio decisivo nella storia della Dalmine fu all’inizio degli anni Trenta, quando le
Ferrovie dello stato decisero di utilizzare il palo tubolare per elettrificare le più importanti
linee nazionali (Bologna-Firenze-Roma-Napoli). Allo stesso modo l’intensificarsi delle ricerche
petrolifere in Italia e altrove fece lievitare la produzione di tubi per trivellazioni, così come gli
investimenti nella bonifica integrale di nuovi territori agricoli nazionali promossero le commesse di tubi per acquedotti e per impianti di irrigazione.
Proprio per far fronte a questa nuova grande mole di ordinativi e per evitare che le strutture
produttive rischiassero il collasso, la Dalmine, in accordo con la Mannesmann, mise in cantiere
un nuovo impianto di laminazione per tubi senza saldatura di grandi diametri ovvero oltre i 550
millimetri, in grado di offrire prestazioni superiori agli stessi già operanti in Germania24.
L’impianto era totalmente frutto della tecnologia tedesca: il laminatoio era realizzato dalla
Maschinenfabrik Meer, un’azienda del gruppo Mannesmann, e la parte elettrica venne commissionata alla Siemens, perché in Italia non vi erano aziende elettromeccaniche in grado di affrontare ordini di tale complessità. Alla tecnologia d’oltralpe si venne comunque affiancando un’impostazione dell’organizzazione di matrice “americana”, auspice soprattutto Agostino Rocca, che
nel corso degli anni Venti e Trenta aveva visitato alcune delle principali aree industriali statunitensi. L’importante commessa delle Ferrovie dello stato offriva alla Dalmine condizioni operative prossime a quelle dei tubifici americani: produzione di serie e adeguato supporto della logistica. La realizzazione del laminatoio, inaugurato nel 1935, richiese come ormai suggerivano le
moderne tecniche di organizzazione dello spazio, un nuovo lay out. Infatti “la sola installazione
del nuovo laminatoio per tubi di grande diametro richiese, a sua volta, un adeguato ampliamento di tutti i servizi generali: costruzione di una nuova centrale elettrica in parallelo a quella esistente; costruzione del reparto di aggiustaggio a servizio del nuovo treno, dotato di macchinari
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Carolina Lussana, Agostino Rocca alla Dalmine. 1921-1944, cit., pp. 5-21; Luigi Offeddu, La sfida dell’acciaio. Vita di Agostino
Rocca, cit., pp. 77-101.
All’inizio degli anni Trenta per i tubi senza saldatura il diametro massimo ottenibile al laminatoio a passo di pellegrino Mannesmann,
operante a Rath, era di 520 millimetri; la Meer col nuovo laminatoio di Dalmine aveva previsto di arrivare nel 1935 a tubi con diametro esterno di 620 millimetri e interno di 600 millimetri; grazie ai successivi trattamenti con una nuova trafila i tubi senza saldatura di 620 millimetri potevano arrivare a 800 e persino superare i 900 millimetri di diametro.
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necessari e rispondenti alle più aggiornate esigenze; costruzione di nuovi impianti di finitura e
per le successive lavorazioni (compresi quelli per il rivestimento), adeguati ai nuovi maggiori
calibri di laminazione”25.
Mentre i forni Martin-Siemens e i forni elettrici funzionavano a pieno ritmo, i dati della produttività erano estremamente lusinghieri: per unità di prodotto diminuivano le ore lavorate, i
consumi di materiali, i costi finali; parallelamente aumentava la redditività. Alle soglie della
seconda guerra mondiale la Dalmine riuscì quindi a esportare non solo brevetti, ma anche tubi,
fatto abbastanza insolito in quegli anni per un’azienda siderurgica abituata a muoversi solo
all’interno del mercato nazionale ben protetto da elevati dazi doganali. A questa espansione di
impianti e produzione si accompagnò un rinnovato impegno nella ricerca e nel controllo qualità. All’Ufficio tecnico costituito nel 1926 si affiancò nel 1937 il Laboratorio centrale, che interveniva adeguatamente nei collaudi dei diversi prodotti e regolava il lavoro di ricerca e sviluppo
sulla lavorazione dei tubi che tecnici e maestranze svolgevano, spesso di propria iniziativa26.
Economia di guerra, conflitto mondiale e ricostruzione
Alla fine degli anni Trenta le vicende della Dalmine si intrecciano con quelle di un selfmade man della storia industriale italiana, Ferdinando Innocenti, allora titolare di un’azienda
che commercializzava tubi, e con quella di un ingegnere lussemburghese, Albert Calmes, che
aveva maturato alla Mannesmann grandi competenze nella laminazione dei tubi. Calmes
conobbe agli inizi del 1938 i due direttori generali della Dalmine Vincenzo Zampi e Fermo
Sisto Zerbato in visita agli impianti della Mannesmann a Düsseldorf. Dopo aver esaminato, guidati da Calmes, gli ultimi aggiornamenti tecnologici apportati al pellegrino, i due richiesero che
l’ingegnere potesse recarsi al più presto in Italia per assistere i tecnici della Dalmine nella
gestione dei laminatoi.
Contemporaneamente Ferdinando Innocenti, che stava trasferendo parte della sua attività
dal commercio alla produzione dei tubi senza saldatura, venuto a conoscenza tramite il vertice
della Dalmine delle competenze di Calmes, lo chiamò come direttore esecutivo dello stabilimento che la neonata impresa Innocenti Safta, sorta nel 1936, stava realizzando ad Apuania
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Roberto Calchi, Le vicende della Dalmine dalle origini al 1934, cit., pp. 253-254.
Enrico Donati, Il laboratorio centrale per controlli e le ricerche della Dalmine S.p.A., in Convegno nazionale per la ricostruzione nell’industria, Primo convegno nazionale per la ricostruzione nell’industria: sotto gli auspici della Confederazione generale dell’industria
italiana. Milano, 14, 15, 16 settembre 1946, Milano, Stucchi, 1946.
170
Tecnologia, processi e organizzazione del lavoro
(poi comune di Massa). Come ricorda Giuseppe Turani, “Ferdinando Innocenti cominciò a pensare che ormai era ora di farseli quei tubi. La scelta, anche perché c’erano disponibili delle
agevolazioni fiscali e creditizie, cadde su Apuania: verso il ’36 iniziarono i primi contatti con
Roma e vennero buttati giù i primi progetti. Verso la fine del ’38, mentre i lavori per lo stabilimento di Apuania procedevano, Ferdinando Innocenti incontrò la seconda persona che doveva
fare la sua fortuna: Alberto Calmes. Calmes era un ingegnere lussemburghese, che sapeva tutto sui tubi e che in più aveva un cervello fatto apposta per organizzare stabilimenti. In Italia era
arrivato dalla Germania, dalla quale era fuggito perché antinazista. Quando fu presentato a
Innocenti, Calmes aveva tanto genio in testa, pochissime cose nella sua valigetta e soldi
zero”27. Ferdinando Innocenti, che nello stabilimento di Massa utilizzava le tecnologie
Mannesmann, dopo essersi accordato con la Dalmine, procedette all’allestimento degli impianti con la collaborazione di Calmes. Mentre la parte meccanica necessariamente proveniva dalla Germania28, gli impianti elettrici e tutti gli accessori in questo caso – diversamente dal laminatoio della Dalmine del 1935 – vennero costruiti in Italia. Le difficoltà nei trasporti e la già
pesante carenza di materiali ritardarono l’avvio dell’impianto, che entrò in funzione alla fine
del 1942 con la definitiva messa a punto del pellegrino. L’allestimento dell’impianto aveva evidentemente incontrato delle difficoltà, perché i pezzi dovevano arrivare dalla Germania. Era
stato così ultimato quello che Calmes nel 1939 immaginava come “the most modern and the
most esthetic plant in Italy”29.
Massa nasceva grazie alla collaborazione tra i vertici della Dalmine e della Innocenti: la
maggior parte delle maestranze impegnate nell’installazione dell’impianto provenivano dalla
Dalmine che era ormai alla fine degli anni Trenta un consistente bacino di manodopera qualificata. La fabbrica ebbe però una vita breve perché gli avvenimenti bellici stavano precipitando:
il 9 luglio del 1943 gli Alleati sbarcarono in Sicilia e il 25 Mussolini venne destituito dal Gran
consiglio del fascismo. Si stava profilando, in una girandola di avvenimenti caotici, l’occupazione tedesca, che avrebbe determinato il temporaneo smantellamento dello “stabilimentomodello” di Massa.
______________________________
27
28
29
Giuseppe Turani, Il cavaliere Mini, in “L’Espresso”, 14 maggio 1972.
Per assicurarsi di poter acquistare per l’impianto di Massa i migliori forni di riscaldo, Calmes non esitò a recarsi in Germania nell’estate del 1941 e a “indagare” la concorrenza visitando i tubifici della Deutsch-Österreichische Mannesmannröhren-Werke dove non
trovò nulla di innovativo rispetto a quanto stava realizzando in Italia. Si veda Albert H. Calmes, My and the seamless stories in the
XXth, 1990, pp. 54-55.
Ibidem, p. 48.
171
Dalmine 1906-2006. Un secolo di industria
In quegli stessi anni le commesse belliche non avevano comportato grandi trasformazioni
nell’organizzazione produttiva della Dalmine30: l’azienda si limitò a realizzare involucri per
bombe d’aereo e per siluri, entrambi derivati dai forati e quindi strettamente connessi alla fabbricazione di tubi tradizionali. Parallelamente, anche se in misura minore rispetto al boom
degli anni Trenta, non mancavano gli ordini di tubi normali. In questi anni la Dalmine aveva
continuato a migliorare le proprie tecnologie, mantenendo un rapporto con la Mannesmann e
trasferendo in azienda impianti innovativi messi a punto in Germania.
In quest’ambito va evidenziato il ruolo svolto da Albert Calmes, dal gennaio del 1940 divenuto anche consulente della società, che contribuì a proseguire la sostituzione dei primi laminatoi con un nuovo pellegrino della Mannesmann per tubi di medio diametro, impiegando energia idropneumatica nel movimento del mandrino31.
Il bombardamento aereo del 6 luglio 1944 su Dalmine ebbe un effetto devastante. A causa
del mancato allarme l’incursione provocò oltre 270 vittime e circa 800 feriti. Gravissimi i danni agli impianti: un forno Martin-Siemens distrutto, così come il laminatoio medio, ancora in
fase di completamento. Danni ingenti anche ai reparti di finitura, alle officine meccaniche, al
magazzino generale e al sistema di infrastrutture e di viabilità interna. Successive incursioni
nei primi mesi del 1945 provocarono nuovi ingenti danni – stimati al termine del conflitto attorno al mezzo miliardo di lire –, impedirono la riparazione degli impianti e contribuirono a creare un clima di panico nella popolazione di Dalmine e delle zone limitrofe, così duramente colpita dalla tragedia del 6 luglio32.
Tra il maggio del 1945 e l’estate del 1946, grazie soprattutto al generoso apporto delle maestranze, gli impianti danneggiati dai bombardamenti alleati vennero ripristinati e poterono
riprendere a funzionare regolarmente. Nella seconda metà del 1946, grazie a una sommaria
riorganizzazione delle vie di comunicazione nazionali e internazionali, si regolarizzarono sia gli
approvvigionamenti di materie prime (soprattutto di carbone), sia l’erogazione di corrente elettrica: cessò quindi lo stato di precarietà produttiva che aveva caratterizzato il non facile periodo immediatamente successivo alla Liberazione. Nel ripristinare gli impianti non si volle però
rinunciare a portare avanti quel processo di rinnovamento iniziato tra il 1934 e 1935 con l’avvio del laminatoio per grandi diametri e continuato, nel corso della guerra, con il contrastato
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30
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32
FD, D, Ai, 2, 1, Relazione di massima contenente le notizie informative richieste dalla “Export-Import Bank of Washington”, 10
luglio 1947.
Albert H. Calmes, My and the seamless stories in the XXth, cit, p. 68.
Sui danni dei bombardamenti aerei agli impianti di Dalmine sia nel luglio del 1944 sia nei mesi successivi si veda FD, D, serie Danni
di guerra.
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Tecnologia, processi e organizzazione del lavoro
avvio di quello piccolo. Venne approvata la ripresa del programma di sistemazione dei laminatoi – in particolare si portò a conclusione il piano di “integrale rinnovamento” del laminatoio
dei tubi fino a 89 millimetri con la conseguente dismissione degli ormai storici laminatoi 1 e 2.
Per fare le cose al meglio e per sfruttare la breve esperienza avviata presso la Safta di Massa,
su indicazione anche di Oscar Sinigaglia, presidente della Finsider – Società finanziaria siderurgica33, venne avviata una nuova collaborazione con Albert Calmes. Successivamente – in
seguito anche alle pressioni di Ferdinando Innocenti, nominato nel frattempo amministratore
delegato della Dalmine – lo stesso Calmes accettò la carica di direttore tecnico. Per prima cosa,
già nel corso del 1947 Calmes, per far fronte anche al preoccupante esodo di tecnici dalla
Dalmine che avevano seguito Agostino Rocca in Argentina, rinnovò e allargò lo staff degli ingegneri inserendo 22 giovani neolaureati del Politecnico di Milano. Inoltre, ritenendo le tecnologie Mannesmann ormai superate, si dedicò a perfezionare l’impiego del perforatore idraulico
nei laminatoi in modo da poter utilizzare lingotti a sezione quadrata o poligonale e ottenere in
maniera più facile manufatti d’acciaio.
Nel giro di poco tempo arrivarono buoni risultati: la produzione Dalmine passò dalle 5.000
tonnellate al mese dell’immediato dopoguerra a 15.000 dopo due anni34.
Di fronte al boom della domanda di tubi per oleodotti e per trivellazioni35, Calmes seppe
indirizzare il vertice della Dalmine verso efficaci soluzioni impiantistiche. Particolarmente
centrata fu la scelta della riapertura a Massa degli impianti da 180 a 360 millimetri. Grazie ai
finanziamenti del Piano Marshall l’impianto medio da 180 millimetri rientrò in funzione nell’ottobre del 1948 e, confermando le aspettative di Calmes, la sua produzione era già migliorata nell’anno successivo.
Secondo quanto Calmes afferma nella sua autobiografia, My and the seamless stories in the
XXth, nel 1949 egli stesso aveva interpellato il famoso architetto svizzero Le Corbusier per
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33
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La proposta di coinvolgere Albert Calmes venne infatti portata in Consiglio d’amministrazione dal rappresentante della Finsider
Ernesto Manuelli. Si veda FD, D, LSbb 002.05, verbale del 9 gennaio 1946.
Il lavoro di Calmes, già alla fine del 1947, ricevette un riconoscimento in Consiglio d’amministrazione dallo stesso Innocenti perché
l’ingegnere era riuscito ad aumentare la produttività dell’azienda. Innocenti non mancò di lanciare frecciate polemiche: “si è ormai
nella fase di ripresa con risultati apprezzabilissimi [...] il che dimostra che Dalmine non ha servito da cavia per esperimenti sterili,
che prima di criticare bisogna lasciar tempo al tempo, e che ogni innovazione importa un certo tempo di assestamento [...] ormai è
ritornata la fiducia generale”. Si veda FD, D, LSbb 003.01, verbale del 19 novembre 1947.
L’elevata richiesta di tubi petroliferi costrinse la Dalmine a svolgere sul mercato una continua ricerca di lingotti d’acciaio. Molto redditizio fu l’acquisto a basso prezzo di 60.000 tonnellate di blocchi quadrati, provenienti da speciali riserve di guerra, dalla
Copperweld Steel Co. di Warren in Ohio (Stati Uniti d’America), che vennero utilizzati per la consegna rapida di 50.000 tonnellate di
tubi da 254 millimetri di diametro in Argentina. Si veda Albert H. Calmes, My and the seamless stories in the XXth, cit., p. 72.
173
Dalmine 1906-2006. Un secolo di industria
ristrutturare gli uffici dei dirigenti a Dalmine36. Ma la società aveva già avviato il lavoro di
costruzione di una palazzina in via Brera a Milano e il progetto non ebbe seguito; anzi quest’episodio contribuì a inasprire i rapporti tra Calmes e una parte dei vertici della Dalmine, fino a
provocarne le dimissioni da direttore, dopo un quadriennio particolarmente proficuo per le fortune dell’azienda.
Il boom dei tubi senza saldatura nel Miracolo economico
La grande richiesta di tubi e l’aumento della potenzialità dei laminatoi di Dalmine a cui da
poco si erano aggiunti quelli di Massa avevano accentuato lo squilibrio tra acciaieria e tubificio, uno squilibrio ulteriormente aggravato dai problemi di approvvigionamento di rottame, carbon fossile ed energia elettrica per l’acciaieria.
Per risolvere una parte di questi problemi già nel 1948 si cominciò a far funzionare i forni
Martin-Siemens a metano, un combustibile allora disponibile in grandi quantità grazie anche
all’azione di Enrico Mattei dell’Agip. Poi si affrontò il problema, già risolto da molte acciaierie
trent’anni prima, di garantire un più regolare approvvigionamento di energia elettrica diventandone autoproduttori. Le cose procedettero piuttosto speditamente, perché nel corso del 1951
venne approvato il progetto elaborato da Vincenzo Zampi, già direttore generale, allora vicepresidente della società, di una centrale termoelettrica da collocare nello spazio aziendale tra
le due acciaierie, funzionante a metano, fornito dall’Agip. L’impianto avrebbe dovuto svolgere,
come poi avvenne, una funzione di supporto integrativo all’acciaieria elettrica. L’elasticità della produzione di vapore delle caldaie, realizzata con particolari accorgimenti di impianto e
mediante una speciale regolazione automatica, era in grado sia di far fronte alle frequenti punte di carico che si manifestavano durante le fusioni ai forni elettrici, sia di assicurare la continuità del ritmo produttivo nei periodi stagionali di carenza delle forniture.
Nel corso degli anni Cinquanta, in corrispondenza della crescente richiesta di tubi proveniente anche dal mercato estero, la Dalmine da un lato continuò a potenziare gli impianti della
sede centrale, e dall’altro iniziò una politica di apertura di nuove sedi “secondarie” dove collocare produzioni speciali: queste nel corso degli anni Trenta erano già presenti a Dalmine in piccoli reparti specializzati, che vennero chiusi e trasferiti per decongestionare lo stabilimento
principale. Innanzi tutto, a partire dal dicembre 1951 la società si misurò nella produzione di
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36
Albert H. Calmes, My and the seamless stories in the XXth, cit., p. 75.
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Tecnologia, processi e organizzazione del lavoro
tubi saldati aprendo un nuovo impianto a Torre Annunziata, in provincia di Napoli: il progetto
era di fabbricare, con macchinari acquistati negli Stati Uniti, tubi saldati di diametro da 10 a
80 millimetri da impiegare nella rete dei gasdotti e come supporto nella fabbricazione dei
mobili, utilizzando nastro d’acciaio proveniente da aziende Finsider. Nel 1957 venne inoltre
avviato a Costa Volpino, in Val Camonica, un nuovo impianto, dotato di un laminatoio a caldo e
di banchi di trafilatura a freddo per fabbricare “tubi di qualità in genere, a caldo e a freddo, in
acciaio al carbonio, legati e inossidabili”37. Ulteriori ramificazioni vennero avviate nei centri
limitrofi a Dalmine: Sabbio Bergamasco, per le produzioni specializzate, e Levate, per l’impiego di resine e materiali plastici, che in quegli anni cominciavano a diffondersi nel mondo industriale sia come rivestimento sia come struttura base nella produzione dei tubi. Questo tipo di
scelte tecnologiche “estensive”, miranti a coprire tutte quante le opportunità che il mercato
allora in espansione andava dispiegando, a posteriori possono essere apparse poco attente alle
innovazioni tecnologiche dei processi, ma al momento indicavano la volontà dei vertici della
Dalmine di inserirsi nel processo di espansione dei consumi dei tubi e di allargamento del loro
impiego evitando o comunque limitando l’espansione delle imprese concorrenti. Un processo
iniziato dopo la Liberazione e quindi molto prima del boom “coreano” degli anni Cinquanta.
La solida affermazione della Dalmine sul mercato nazionale prima e internazionale poi
avvenne soprattutto grazie all’attività di due società consociate, la Ponteggi tubolari Dalmine
Innocenti e la Montubi – Montaggi materiali tubolari, sorte alla fine degli anni Quaranta. La
Ponteggi riuscì a imporre il tubo di acciaio al posto della tradizionale palificazione in legno nelle costruzioni civili e nelle prime grandi opere infrastrutturali. Invece la Montubi, derivata dall’omonimo ufficio di Dalmine, si occupava di assistenza alla clientela nella realizzazione di
acquedotti, oleodotti, gasdotti, condotte forzate per centrali idroelettriche. Evidentemente per
ottenere buoni risultati nella realizzazione delle costruzioni edilizie e delle opere infrastrutturali occorrevano non solo competenze progettuali, ma anche buone nozioni relative alle caratteristiche dei materiali che solo i tecnici Dalmine erano in grado di fornire, svolgendo non solo
assistenza alla clientela, ma intervenendo anche con proprie competenze tecniche e operative
nella fase successiva della messa in opera dei tubi, e garantendo così uno sbocco sicuro del
prodotto.
Già nel 1949, un anno dopo la riapertura dell’impianto di Massa e il potenziamento dei laminatoi di Dalmine, si attuò una sorta di sorpasso tra la produzione di tubi e quella di acciaio a
vantaggio dei primi. Questa divaricazione si accentuò notevolmente nel corso degli anni
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37
Dalmine Spa, La Dalmine durante cinquant’anni 27 giugno 1906 – 27 giugno 1956, cit., p. 68.
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Dalmine 1906-2006. Un secolo di industria
Cinquanta quando entrarono in funzione le altre sedi esterne e l’acciaieria non conobbe invece
grandi rinnovamenti. Nonostante il funzionamento di 4 forni Martin e 4 forni elettrici, l’acciaio
da lavorare nei laminatoi non bastava e solo le forniture dall’Ilva consentirono di sostenere una
produzione in grande espansione. Negli anni Sessanta, malgrado il varo da parte della direzione di due ulteriori piani di rinnovamento degli impianti, l’assetto produttivo di Dalmine non era
molto diverso da quello progettato dal piano regolatore del 1934 e portato a termine, malgrado
la guerra, nel quindicennio successivo. Questo apparato produttivo basato su un intreccio di
tecnologie Mannesmann e professionalità si era felicemente inserito in un mercato dei tubi senza saldatura in continua crescita, anche grazie al grande ventaglio di manufatti derivati dal prodotto tubolare che le tecnologie Dalmine erano state in grado di mettere a punto a partire dall’ormai lontana gestione della Comit38.
Parallelamente alla diversificazione, continuava la politica di dislocazione in sedi secondarie di attività presenti nella sede centrale, considerate redditizie ma congestionanti. Nei primi
anni Sessanta fu completato il trasferimento dell’ormai storica produzione di bombole, presente nella Dalmine sin quasi dalle origini, ma ora d’intralcio al corretto fluire dei processi produttivi, nel vicino stabilimento di Sabbio. A Costa Volpino furono dislocate le linee per la trafilatura a freddo dei tubi senza saldatura e fu installata una pressa a estrudere da 3.000 tonnellate – “un notevole passo in avanti nell’attrezzatura tecnica”39 – la cui installazione subì
un iter particolarmente laborioso.
Le poche innovazioni tecnologiche realizzate in quegli anni, pur permettendo un ulteriore
allargamento di diametri e pur migliorando le prestazioni degli impianti esistenti, non riuscirono però a scongiurarne la progressiva obsolescenza. Se però la tecnologia produttiva rimase
sostanzialmente ferma e la quota maggiore degli investimenti negli anni Cinquanta e Sessanta
si concentrò sull’apertura delle sedi secondarie, non lo stesso può dirsi dei sistemi informatici
e dell’impiego dell’elaboratore, che vennero introdotti nel tentativo di gestire la produzione e
l’andamento aziendale40. Nel dicembre del 1956, con grande anticipo rispetto al resto del mondo industriale italiano, cominciò una collaborazione con la Ibm che si concretizzò con l’affitto
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40
Per rendersi conto della molteplicità degli impieghi del prodotto tubolare basta scorrere il volume Dalmine Spa, La Dalmine durante
cinquant’anni 27 giugno 1906 – 27 giugno 1956, cit., nella parte produzioni e mercati (pp. 80-90). Ormai l’elemento tubolare era
penetrato in ogni campo dell’attività industriale.
FD, D, Lcda, 6, 27, verbale dell’1 aprile 1963.
Sugli esiti di questo impegno più che ventennale che comportò elevatissimi oneri finanziari sono state espresse riserve non facilmente valutabili. In effetti questo sistema informatico non sembrò interagire con l’andamento produttivo; d’altra parte il suo sviluppo contribuì a formare all’interno dell’azienda esperti di informatica che poterono esprimere le loro competenze nella svolta tecnologica dei
successivi anni Settanta, quando l’informatizzazione degli impianti svolse un ruolo insostituibile. Si veda Mimmo Boninelli, Il “Nuovo
Treno Medio” a Dalmine, in “Primo maggio”, n. 15, primavera-estate, 1981, pp. 60-63.
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Tecnologia, processi e organizzazione del lavoro
di un calcolatore elettronico Ibm 650 da utilizzare per la programmazione della produzione. Il
sistema informatico si venne man mano aggiornando negli anni Sessanta: alla fine del 1967
entrò in funzione a Milano, in via Filodrammatici, il nuovo centro elettronico Sid – Sistemi
informativi decisionali, costituito da due calcolatori centrali Ibm e da un ponte radio per telecomunicazioni.
La svolta tecnologica degli anni Settanta: la colata continua
Solo agli inizi degli anni Settanta, quando alla concorrenza interna ed estera si aggiunse
un’inaspettata conflittualità in tutte le sedi e a tutti i livelli – non solo operai, ma anche impiegati41 – i vertici della Dalmine si posero il problema di un rinnovamento radicale dell’acciaieria e dei laminatoi che consentisse di affrontare i molti nodi che erano venuti contemporaneamente al pettine: i costi elevati dei tubi senza saldatura; un rapporto qualità-prezzo ormai insufficiente a contrastare la concorrenza sempre più agguerrita dei tubi saldati; gli elevati scarti di
materiale nel corso delle lavorazioni; il diretto e determinante intervento della maestranza nella gestione dei processi produttivi, sempre meno controllabile coi tradizionali sistemi discrezionali di relazioni industriali; la nocività ambientale degli impianti che stava determinando in
molti reparti una conflittualità sindacale endemica.
A partire dal 1973-1974, infine, l’oil shock aveva determinato una crisi economica mondiale generalizzata che si era concretizzata per l’Italia in una caduta dei consumi dei prodotti siderurgici, tubi compresi, e in un inasprimento dei processi inflattivi che sembravano ingovernabili. L’unico elemento positivo stava nella ripresa delle ricerche di nuovi giacimenti petroliferi,
e quindi in un rilancio dei consumi di tubi per trivellazioni e per oleogasdotti che aveva aperto
per la Dalmine la strada delle esportazioni a cui però avevano posto dei seri limiti alcune misure protezionistiche, in particolare degli Stati Uniti grandi importatori di tubi.
Occorreva un doppio salto tecnologico nei due reparti chiave, l’acciaieria e i laminatoi. Lo
sforzo sarebbe stato estremamente oneroso per la Dalmine a causa dell’ingente quantità di
denaro richiesta dalle innovazioni progettate in un periodo di tassi bancari elevatissimi. Per
l’acciaieria la soluzione era già a portata di mano con la colata continua, da adattare però alle
esigenze della produzione di tubi senza saldatura. Per i laminatoi, non era facile trovare una
parallela soluzione che sostituisse le lavorazioni del pellegrino o del laminatoio continuo o del
Plug Mill (laminatoio a tappo). Però dopo quasi un decennio di progettazione e di sperimenta______________________________
41
Le lotte dei tecnici, in “Quaderni di Sindacato Moderno”, n. 4, pp. 100-115.
177
Dalmine 1906-2006. Un secolo di industria
zione sul campo da parte dei tecnici della Dalmine e della Innse – Innocenti-Santeustacchio,
con la consulenza dello studio Calmes e con l’apporto delle maestranze venne messo a punto un
nuovo impianto di laminazione con sistema PPM – Press Piercing Mill (presso-laminatoio perforatore) e MPM – Multistand Pipe Mill (laminatoio continuo a mandrino trattenuto), il cosiddetto Ntm – Nuovo treno medio, che, inaugurato nel 1978, consentiva di produrre tubi senza
saldatura con standard e costi largamente competitivi. A monte del processo, un’acciaieria con
colata continua inaugurata già nel 1976.
La colata continua è stata la più importante innovazione tecnologica della siderurgia nel corso del Novecento. La sua introduzione ha consentito di superare una storica strozzatura in
acciaieria ottenendo un triplice obiettivo: ridurre i tempi delle lavorazioni, eliminare lavoro
vivo cancellando la manualità e la gravosità della “colata in fossa” e infine migliorare, attraverso una cristallizzazione più omogenea del lingotto, la qualità del prodotto da laminare, diminuendo anche gli scarti. In conclusione, aumentava la produttività del lavoro, mentre miglioravano sia la qualità dei prodotti sia le condizioni ambientali delle lavorazioni. Alla Dalmine la
colata continua non era stata facilmente applicabile, in quanto le tipologie dei lingotti e la composizione degli acciai necessari alla produzione dei tubi erano sostanzialmente diverse dagli
standard delle billette per tondino e vergella messi a punto nelle colate continue del Bresciano,
dove questa innovazione aveva avuto negli anni precedenti una grande diffusione42. Come
ricorda un lavoratore, “la colata continua per la produzione dei tubi utilizza un processo diverso [da quello dei profilati lunghi: tondino, barre, vergella, ecc.], che richiede una particolare
specializzazione. La tecnologia di base è la stessa, ma la segmentazione dei tagli deve essere
fatta in funzione dei tubi che si vogliono fabbricare. Anche il tipo d’acciaio è particolare per la
produzione di tubi”43. Sarebbe stato quindi necessario sia demolire gli ormai obsoleti forni
Martin-Siemens, sia trovare un forno elettrico di grande capacità, per alimentare la macchina
della colata in modo da produrre lingotti, per dimensione e composizione, adatti alla fabbricazione dei tubi. Il forno elettrico della capacità di 75 tonnellate venne così fornito dalla
Tagliaferri, una società milanese specializzata dal 1930 nella fabbricazione di tali forni, mentre
la macchina di colata venne realizzata dalla Innocenti con la Italimpianti, un’impresa genovese di costruzioni industriali in quegli anni appartenente all’Iri-Finmeccanica44. La novità del
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44
Giorgio Pedrocco, Bresciani. Dal rottame al tondino. Mezzo secolo di siderurgia (1945-2000), Jaca Book, Milano, 2000, pp. 67-102.
Enrico Radicchi intervistato da Giorgio Pedrocco, Bergamo, 21 luglio 2006. Grazie a Mimmo Boninelli, l’autore del presente contributo ha potuto raccogliere questa testimonianza e consultare un’intervista allo stesso Radicchi, realizzata nel 1980 da Mimmo
Boninelli e Carlo Leidi (il nastro è conservato presso l’Archivio Mimmo e Sandra Boninelli, a Mozzo, Bergamo).
B. Petocchi, V. Picardi et al., La nuova acciaieria elettrica di Dalmine, in “Bollettino Tecnico Finsider”, n. 352, giugno 1976,
pp. 377-388.
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Tecnologia, processi e organizzazione del lavoro
forno, al di là delle ragguardevoli dimensioni, consisteva nella possibilità d’intervenire strategicamente, con l’inserimento tra la fusione e la colata della stazione di degasaggio, operando in
siviera sia la deidrogenazione sia la correzione della composizione dell’acciaio che la pulizia
per renderlo adeguato alle lavorazioni al laminatoio. La scelta della tipologia di impianto non fu
semplice e si vagliarono diverse soluzioni già operative in altri impianti con l’intento di valorizzare al massimo “la presenza di un forno elettrico UHP a monte e la presenza di una macchina di colata continua a valle della stazione di degasaggio”45. Con questo sistema, da un lato
si esaltava la produttività del forno elettrico, che sarebbe stata diminuita da interventi di affinazione, e, dall’altro si faceva giungere alla macchina della colata continua l’acciaio fuso alla
temperatura desiderata.
La macchina per la colata installata a Dalmine differiva dagli impianti realizzati in quegli
anni perché la linea di colata non era né unica né curva, ma era suddivisa in quattro linee verticali della lunghezza di 18 metri. Ognuna era in grado di colare 0,27 tonnellate di acciaio al
minuto per un tempo di colata di circa 70 minuti. Tra un ciclo e l’altro dovevano passare 20
minuti per ripristinare l’agibilità della macchina. L’acciaio fuso, dopo aver raggiunto la composizione chimica corrispondente alle caratteristiche dei tubi da laminare, veniva spillato da una
siviera; questa provvedeva poi a versarlo nella macchina, dopo essere stata posta in una torre
girevole che consentiva colate sequenziali. “Il flusso di metallo liquido passa[va] dalla siviera
al tundish [paniera], che lo riparti[va] sulle quattro linee di colata. Dopo la totale solidificazione, le barre giung[evano] alla zona di taglio dove ven[ivano] tagliate nelle lunghezze prefissate
mediante cannelli ossi-metano”46.
La colata continua cambiava radicalmente le condizioni di lavoro, eliminando alcune mansioni faticose e pericolose che si accompagnavano al colaggio nelle singole lingottiere. “Le
innovazioni tecnologiche dovevano aiutarci anche a superare la nocività e il rumore all’interno
dei reparti di produzione. L’esempio dell’acciaieria è chiaro da questo punto di vista: il lavoratore non è più di fronte alla colata in fossa […]. Tutto diventa automatico”47.
Infatti, già in quegli anni, la nuova acciaieria disponeva di un sistema di informatizzazione
che controllava il corretto svolgimento delle procedure attraverso un calcolatore centrale collegato a un video posto nel pulpito, che dava l’assenso all’avvio della marcia del forno.
Ugualmente, la tempestiva analisi spettrografica in laboratorio tramite invio di provini serviva
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45
46
47
Ibidem, p. 387.
Ibidem, p. 388.
Pasquale Poma intervistato da Giorgio Pedrocco, Cgil Dalmine, 16 giugno 2006.
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Dalmine 1906-2006. Un secolo di industria
a verificare la regolare composizione dell’acciaio e a suggerire in diretta la precisa correzione
in forno o in siviera48. L’impiego di queste nuove procedure con controllo informatico cambiava i profili professionali di molti addetti ai forni: scomparivano i capisquadra49 e le valutazioni
sull’adeguatezza della colata o l’aggiunta di additivi durante la fusione non erano più affidate
all’occhio esperto, ma a volte fallibile dei capiforno. A processi basati su un sapere individuale si contrapponeva così l’elaborazione del calcolatore che, sulla base dell’analisi spettroscopica del bagno fuso, proponeva eventuali aggiunte in relazione anche alla tipologia di acciaio che
si voleva ottenere50.
La svolta tecnologica degli anni Settanta: il Nuovo treno medio
Nel 1978, quando i bilanci Dalmine erano a dir poco rovinosi con una perdita di esercizio di
ben 100 miliardi di lire51, compariva su una rivista specializzata, il “Bollettino Tecnico
Finsider”, un documentato articolo di un tecnico della Innse che dava rassicuranti e dettagliate notizie sul nuovo impianto da alcuni anni in sperimentazione in quel tubificio.
L’apparato iconografico che corredava il testo dava significativamente conto della complessa
grandiosità dell’innovazione messa a punto, rispetto all’essenzialità dei due laminatoi realizzati dai fratelli Mannesmann quasi un secolo prima. Il nuovo impianto poteva sembrare una soluzione pletorica, ma una piccola tabella nella pagina finale mostrava che i conti tecnici e soprattutto economici tornavano, si risparmiava rispetto ai sistemi produttivi allora in esercizio (Plug
Mill e pellegrino), materiale, energia, manodopera e attrezzature52. Nel momento quindi di
massima sofferenza finanziaria dell’azienda era ormai a buon punto un sistema tecnico che
doveva traghettarla fuori della crisi.
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48
49
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51
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Luciano Murtas, Controllo di processo con calcolatore in acciaieria elettrica, Dalmine Spa, 19 maggio 1980. Il fascicolo è conservato
nell’Archivio Boninelli.
“Introdurre delle ferro-leghe in un bagno di acciaio è un processo che ha delle regole matematiche molto precise: le variabili sono
delle quantità, e l’elaboratore può puntare al giusto in maniera sorprendente. Le persone sono state espropriate […], possono essere
sostituite da altre, ma lo stesso sistema è più facile da acquisire rispetto a prima, quando ognuno era geloso del proprio sapere e tendeva a mantenerlo segreto”. Bruno Mazzoli, Note sull’organizzazione del lavoro alla nuova acciaieria della Dalmine di Dalmine (BG),
giugno 1977, p. 3. Il fascicolo è conservato presso l’Archivio Boninelli.
Enrico Radicchi intervistato da Mimmo Boninelli e Carlo Leidi, Bergamo, 15 settembre1980. Il nastro è conservato presso l’Archivio
Boninelli.
Istituto regionale di ricerca della Lombardia, Siderurgia lombarda. Problemi e prospettive, Milano, FrancoAngeli, 1981, pp. 132-137.
Giulio Balzi, Impianto di laminazione per tubi senza saldatura diametro medio, in “Bollettino Tecnico Finsider”, n. 371, gennaio-febbraio 1978, pp. 3-17.
180
Tecnologia, processi e organizzazione del lavoro
Tutto era forse cominciato da un incontro avvenuto alla fine del 1971 tra Albert Calmes e
l’amministratore delegato della Dalmine, Tomaso Liberati, un ingegnere che, pur provenendo
dal comparto commerciale, era molto attento ai vantaggi derivanti dalle nuove tecnologie di
laminazione – in vista di un progetto di modernizzazione degli impianti in discussione a
Dalmine da un decennio, che però aveva fatto pochi passi avanti. Liberati organizzò poco dopo
un incontro con tutti i dirigenti tecnici durante il quale Calmes illustrò i nuovi processi, PPM e
MPM, e analizzò filmati degli stabilimenti di Bessèges (Francia) e di Düsseldorf53, portando in
esame anche campioni di tubi che resero più convincente la validità del nuovo metodo MPM
per produrre tubi senza saldatura di alta qualità. Quest’ultimo metodo era sostanzialmente
basato su un laminatoio continuo a mandrino trattenuto in cui, a differenza del “continuo” tradizionale, i mandrini non accompagnano il tubo per tutto il ciclo di laminazione. Ciò presentava una serie di vantaggi, tra cui “un più razionale flusso continuo di materiale in laminazione e
tolleranze più ristrette sullo spessore; superfici interne molto levigate54.
Qualche mese più tardi i vertici Dalmine decisero, primi in tutto il mondo, di tentare di realizzare un laminatoio con processo MPM per tubi con un diametro che alla fine raggiunse i
355,6 millimetri. Lo studio Calmes, tanto per avviare la sperimentazione, propose di fare un
primo test trasformando un normale impianto per tubi a 100 millimetri, già presente alla
Dalmine, in un MPM per tubi dello stesso diametro. Questo impianto pilota lavorò per lunghi
periodi tra il 1973 e il 1974. A quel punto si decise anche di acquistare un PPM nuovo per il
progettato laminatoio per tubi a 360 millimetri: questo impianto venne installato vicino a un
forno rotatorio indipendente e su di esso vennero sperimentati tutti i tipi di acciaio. I risultati
dei test su questo sistema pilota furono così soddisfacenti che la Dalmine nel 1974 ordinò alla
Innse un MPM per tubi fino a 360 millimetri. I macchinari furono costruiti dalla stessa
Innocenti, con la quale Jean Paul Calmes, figlio di Albert, collaborò in qualità di consulente, in
stretto contatto con gli ingegneri della Dalmine.
Fu così che tra il 1974 e il 1978 un’agguerrita équipe di tecnici venne mobilitata per operare una svolta che fu di notevole importanza non solo nella storia della Dalmine, ma anche nella storia delle tecnologie siderurgiche mondiali. Come ricorda Enrico Radicchi, esperto di
informatica, uno dei giovani tecnici che venne incaricato dall’azienda, assieme a un consisten______________________________
53
54
Negli anni Sessanta lo studio di consulenza di Albert Calmes aveva cercato di convincere alcune delle maggiori imprese siderurgiche
europee produttrici di tubi e la statunitense Uss – United States Steel a modificare radicalmente il sistema di fabbricazione dei tubi
senza saldatura adottando una combinazione del PPM e del MPM.
Carlo Fedeli, Ecco il Nuovo treno medio, in “Conversazioni”, XXV, n. 3, 1978.
181
Dalmine 1906-2006. Un secolo di industria
te nucleo di maestranze particolarmente capaci, di affiancare gli ingegneri della Innse e della
Italimpianti nella non facile opera di messa a punto degli impianti, in particolare del nuovo
laminatoio: “Sicuramente su questo nuovo laminatoio ci [anda]va la crema dei reparti:
occorr[eva]no operai specializzati, giovani capaci, periti ma anche operai qualificati con grande esperienza. Mi ricordo Scarpellini, che veniva dalla tecnologia del pellegrino, ma [era] stato
inserito nella nuova tecnologia per le sue grandi capacità perché lui era un caposquadra,
emblema della risoluzione dei problemi pratici”55. Questa testimonianza rispecchia la visione
strategica del personale diffusa all’interno della società negli anni Settanta: “da sempre gli
uomini hanno costituito la vera forza della Dalmine, sia per il loro forte senso di appartenenza
all’azienda sia per la loro grande volontà di apprendimento. La Dalmine ha percepito l’importanza delle persone […], ha soprattutto teso alla realizzazione di un elevato numero di ricerche,
sperimentazioni, task force, coordinate da un servizio di Sviluppo organizzativo, creato appositamente per lo sviluppo del piano [di rinnovamento tecnologico aziendale]”56.
“Il Nuovo treno medio – ricorda ancora Radicchi – è stato introdotto perché alla Dalmine gli
impianti erano ormai obsoleti, tranne il laminatoio continuo che venne introdotto tra il 1958 e
il 1960. Per poter concorrere con le realtà giapponesi e americane l’azienda ha individuato una
macchina che potesse dare un rapporto produzione/costo ottimale. Grazie a quest’impianto la
Dalmine ha migliorato la propria immagine nel mondo”57.
Il nuovo laminatoio, strettamente integrato alla colata continua dell’acciaieria, era costituito da 10 stazioni di diversa consistenza, che rappresentavano il punto più alto sino ad allora raggiunto dalla tecnologia della laminazione del tubo senza saldatura. Va poi notato come
l’intero impianto fosse dotato di un sistema informatico di regolazione, frutto dell’esperienza
che la Dalmine aveva maturato in questo campo da molti anni e che si sarebbe progressivamente rinforzata.
Come descriveva uno studio di quegli anni, “molti elementi tecnici ed economici di questo
impianto [erano] tali da suscitare stupore nel profano e interesse nel tecnico: è probabilmente
la grandezza, complessità e costosità della grande ‘macchina’, che si estende per 65.000 metri
quadrati, a colpire entrambi. Lungo gli impianti principali viene fabbricato un tubo ogni 35-50
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55
56
57
Enrico Radicchi intervistato da Giorgio Pedrocco, Bergamo, 21 luglio 2006.
Giuliana Maggi, Il cambiamento strategico: il caso Dalmine, tesi di laurea, Università commerciale Luigi Bocconi, Facoltà di economia e commercio, a.a. 1994-1995, pp. 47-48.
Enrico Radicchi intervistato da Mimmo Boninelli e Carlo Leidi, Bergamo, 15 settembre1980.
182
Tecnologia, processi e organizzazione del lavoro
secondi: lavorazioni diverse in stadi discreti divengono momenti di un flusso quasi continuo
più simile – da questo punto di vista – a un impianto chimico che a uno meccanico. I 13 motori azionanti gli organi (le ‘gabbie’) che portano il tubo incandescente alla lunghezza e allo
spessore desiderati sono macchine alte ciascuna quanto un edificio di tre piani e collocate
obliquamente in una immensa fossa che circonda l’impianto principale. Diverse centinaia di
metri lineari di armadi contenenti apparecchiature di regolazione della potenza erogata danno
anche al profano l’immagine visibile della quantità di energia assorbita e della complessità
della sua regolazione. Un calcolatore concentrato nella sala di controllo centrale e 16 distribuiti in quelle periferiche sono invece destinati alla regolazione dei processi di trasformazione e di movimentazione. Accanto a questi forni circolari grandi come astronavi, a queste macchine alte quanto palazzi, a questi corridoi interminabili di armadi di regolatori di potenza e di
calcolatori, intorno ai chilometri di vie a rulli e sotto i carriponte che sollevano tonnellate d’acciaio con piastre magnetiche, si incontrano pochi uomini. Essi sono nelle sale di controllo e
negli uffici e appaiono numerosi accanto alle macchine solo quando queste si fermano o devono essere manutenute”58.
Non mancavano positive conseguenze anche a valle, nell’articolata sezione di finitura grazie all’entrata in esercizio sia della nuova acciaieria elettrica sia del Nuovo treno medio. La
superiore qualità dell’acciaio significava migliore e più regolare standardizzazione dei tubi:
questi, a differenza del passato, richiedevano un minor intervento manuale nei reparti di
aggiustaggio e quindi anche un contenimento dei costi industriali del prodotto a cui corrispondevano sul mercato prezzi più competitivi per il tubo della Dalmine. Un testimone ricorda: “Quando passavo nel reparto aggiustaggio si vedevano tante teste, tante teste di aggiustatori perché erano parecchi; se si va adesso fai fatica a vederli perché hanno ridotto notevolmente l’intervento sul prodotto”59.
Grazie a questa doppia innovazione, la Dalmine mantenne così per tutti i difficili anni
Ottanta una solida posizione nel mercato mondiale dei tubi collaborando autorevolmente a
diffonderne il know-how concedendo licenze per l’utilizzo dei propri brevetti. Queste radicali innovazioni sarebbero state seguite, agli inizi degli anni Novanta, dall’introduzione di un
ulteriore impianto, elaborato grazie alla collaborazione dello studio Calmes: il laminatoio
Expander, che avrebbe permesso di produrre tubi di grande diametro, fino a 710 millimetri, a
spessore medio-sottile, sostituendo in questa gamma dimensionale il pellegrino: “la nuova
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58
59
Federico Butera, La progettazione congiunta di tecnologia e organizzazione. Il caso Dalmine NTM, in “Studi organizzativi”, XV, n. 34, 1984, pp. 173-174.
Pasquale Poma intervistato da Giorgio Pedrocco, Cgil Dalmine, 16 giugno 2006.
183
Dalmine 1906-2006. Un secolo di industria
tecnologia prevede l’utilizzazione di materia prima colata in continuo invece che in lingotti,
nessun sfrido per geometria del similavorato, velocità di laminazione più elevata nel rapporto da circa 5 a 1”60.
Trasformazione tecnologica, mestiere, organizzazione del lavoro: alcuni spunti
Le trasformazioni tecnologiche vissute dalla Dalmine dall’installazione del pellegrino fino
agli anni Novanta sono profondamente correlate con l’organizzazione del lavoro, la politica
salariale e il ruolo del “mestiere” operaio. Non trattando sistematicamente l’argomento in questa sede61, ma solo per comprendere appieno il peso e le conseguenze della svolta tecnologica
degli anni Settanta sopra descritta, conviene risalire brevemente alla situazione del lavoro nell’immediato secondo dopoguerra. Nel 1947, proseguendo l’indirizzo razionalizzatore già avviato da Rocca negli anni Trenta, la Dalmine aveva accentuato l’“americanizzazione” dell’organizzazione del lavoro introducendo le paghe di posto per quella parte della maestranza a più diretto contatto con la produzione – acciaieria, laminatoi – circa 1.200-1.300 lavoratori. Il nuovo
sistema retributivo, istituito con un accordo tra Commissione interna e Direzione in un momento di grande espansione produttiva rispetto alla crisi manifestatasi tra il 1943 e il 1946, fu dunque definito in un periodo di grande e collettivo fervore “ricostruttivo”, quando alla precisa e
determinata volontà dei vertici aziendali di riprendere il controllo dell’organizzazione di fabbrica faceva riscontro un certo “produttivismo” sindacale, pronto a concedere spazi a forme di
incentivazione salariale legate a incrementi di rendimento del lavoro62. Con questa impostazione, che prevedeva uno stretto collegamento tra posto di lavoro e salario, si finì col privilegiare
la maestranza addetta ai lavori direttamente produttivi – l’acciaieria, i laminatoi e le finiture –
mentre i servizi, e in particolare la manutenzione, risultavano abbastanza penalizzati63.
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Dalmine Spa, Relazione e bilancio esercizio 1993. Assemblea ordinaria degli azionisti del 29 aprile 1994, [1994], p. 18.
Si veda il contributo di Ferruccio Ricciardi in questo volume.
Manuel Tonolini, Le relazioni industriali alla Dalmine dalla Liberazione alla metà degli anni cinquanta, tesi di laurea, Università
degli studi di Milano, Facoltà di lettere e filosofia, a.a. 2001-2002.
Come attesta una sommaria documentazione a posteriori, queste decisioni vennero prese con la collaborazione dei singoli esperti di
reparto e di alcuni operai dei reparti stessi. In una discussione agli inizi dell’aprile del 1952 tra la Direzione e la Commissione interna, a fronte di reiterate richieste dei rappresentanti dei lavoratori di revisionare le percentuali di cottimo legate alle paghe di posto, il
capo dell’Ufficio personale, Carlo Molinari, “ricorda[va] che le paghe per tutti gli operai del primo gruppo [erano] state fissate nel
1947 in accordo con la C. I. che si valse in quell’occasione della collaborazione dei singoli esperti di reparto e di alcuni operai dei
reparti stessi. E quindi al momento Molinari non intende[va] revisionarle”. Isrec Bg, Acdf Dalmine, fald. 2, Verbali riunioni
Commissione Interna, fasc. 1952, verbale del 9 aprile 1952.
184
Tecnologia, processi e organizzazione del lavoro
Un prospetto elaborato dalla Direzione nel 1951, in occasione di una rivalutazione salariale,
mostra come fosse distribuito il ventaglio delle paghe di posto per i 1.232 lavoratori interessati: 17 classi di retribuzione oraria da un massimo di 62 a un minimo di 42 lire, riunite in cinque
gruppi. In quell’occasione le rivalutazioni salariali vennero calcolate sulla base dei gruppi in
maniera molto marcata, con un forte sventagliamento tra il minimo e il massimo da 11,25 a 2,75
lire di aumento orario64.
Negli anni successivi, la Direzione della Dalmine continuò a perseguire una politica salariale che non privilegiava le professionalità, ma la collocazione dei lavoratori all’interno del processo produttivo. Questa linea incontrava un sotterraneo malcontento nello stabilimento di
Dalmine, dove la Fiom nei primi anni Cinquanta, pur indebolita dalle scissioni sindacali e dalle pressioni della Direzione nei confronti dei suoi attivisti, continuava ad avere una notevole
forza tra la base operaia, che chiedeva una continua revisione degli incentivi di cottimo65.
Alle paghe di posto si affiancò poi, negli anni Cinquanta e Sessanta, una strategia aziendale,
favorita dal buon andamento del mercato, tendente a premiare molto discrezionalmente con
aumenti ad personam erogati su segnalazione delle gerarchie di fabbrica. Questo rafforzava nella maestranza sia il conseguimento di aumenti di produttività sia il senso di appartenenza all’a______________________________
64
Paghe di posto (lit/h), operai (n.) e rivalutazione salariale (lit/h).
Paga di posto (in lire orarie)
62,00
60,75
59,50
58,25
57,00
55,75
54,50
53,25
52,00
50,75
49,50
48,25
47,00
45,75
44,50
43,25
42,00
Numero operai per posto/lavoro
30
26
52
61
52
60
44
18
175
132
69
196
70
76
52
50
59
Rivalutazione (in lire orarie)
11,25
10,70
10,15
9,60
9,10
8,55
8,05
7,50
7,00
6,45
5,90
5,40
4,85
4,35
3,80
3,30
2,75
Fonte: Isrec Bg, Acdf Dalmine, fald. n. 1, Verbali riunioni Commissione Interna, fasc. 1951, verbale del 2 marzo 1951.
65
Sulla non facile “agibilità politica” dei militanti sindacali di sinistra nella Dalmine degli anni Cinquanta e Sessanta si veda: Maria
Grazia Meriggi, Gli operai della Dalmine e il loro sindacato. Momenti della pratica sindacale della Fiom in una “zona bianca”,
Bergamo, Il filo di Arianna, 2002, pp. 29-96; Ferruccio Ricciardi, Lavoro, conflitto, istituzioni. La Fiom di Bergamo dal dopoguerra
all’autunno caldo, Bergamo, Il filo di Arianna, 2001.
185
Dalmine 1906-2006. Un secolo di industria
zienda. Si venne così realizzando una forte individualizzazione dei rapporti con il personale,
con un risvolto salariale costituito da superminimi, premi e passaggi di qualifica stabiliti direttamente dalla Direzione attraverso la segnalazione dei capi reparto66. Per coniugare questa
impostazione neopaternalistica con la “filosofia delle human relations”, e nel contempo renderla ancora più efficace, la Dalmine curò in maniera particolare la formazione a tutti i livelli dei
capi: attraverso corsi di addestramento volti a sensibilizzarli ai problemi quotidiani delle loro
maestranze; svolgendo colloqui di “applicazione controllata” per stabilire se i capi applicavano
effettivamente i principi acquisiti; intavolando conversazioni sulle “tecniche di comportamento” per ottenere la collaborazione dei dipendenti67. Questi interventi non sembravano preoccuparsi troppo del sistema di organizzazione del lavoro, del suo svolgersi giorno dopo giorno, ma
sembravano solo guardare – a differenza dell’organizzazione tayloristica dei tempi e dei metodi, presente allora massicciamente anche in Italia nell’industria manifatturiera – al conseguimento di buoni risultati finali sia in quantità che in qualità.
Una ricerca sull’organizzazione del lavoro68 – svolta su incarico della Direzione tra il 1975
e il 1976 presso il vecchio laminatoio Dalmine con l’obiettivo di migliorare la qualità del prodotto – suggeriva questa tesi, allargabile anche all’acciaieria. Questa ricerca fotografava la
situazione prima delle grandi innovazioni tecnologiche della fine degli anni Settanta, che avevano condotto alla costruzione del Nuovo treno medio: consentiva quindi di leggere il quadro
della fabbrica in un momento in cui le tecnologie non avevano subito rilevanti cambiamenti
rispetto all’assetto impresso alla produzione tra gli anni Trenta e Quaranta, anche se i rapporti
sociali, a partire dal 1969, erano attraversati da continue tensioni e vertenze. La ricerca rilevava l’esistenza di una doppia organizzazione del controllo del processo produttivo: da un lato
l’organizzazione formale costituita dalla gerarchizzazione del lavoro e dall’altro un’organizzazione informale basata sulla rete di rapporti e sui percorsi comunicativi fra lavoratori. Mentre la
prima non sembrava svolgere alcun ruolo nel farsi del processo produttivo ed era impegnata
solo in compiti di carattere amministrativo di gestione della maestranza, l’organizzazione informale affrontava direttamente le variabili di un processo condizionato dall’imponente presenza
delle macchine.
______________________________
66
67
68
“In una officina, per esempio, c’erano venti operai specializzati tutti con la paga diversa, uno aveva 5 L/h più dell’altro e così via.
Ogni tanto il capo faceva la sua selezione e assegnava degli aumenti al singolo. Alla Dalmine in questo modo si era riusciti ad avere
1.200 paghe”. Testimonianza di un delegato del Consiglio di fabbrica riportata in Giuseppe Abbatecola, Dalmine, in Lotte operaie e
sindacato in Italia (1968-1972). V. Dalmine, Falck, Redaelli, a cura di Alessandro Pizzorno, Bologna, il Mulino, 1975, p. 30.
Marianna Gandossi, L’industria italiana negli anni del “miracolo”: i casi di Dalmine e Italcementi, Università degli studi di Pavia,
Facoltà di lettere e filosofia, a.a. 2003-2004, p. 149.
Federico Butera, La ricerca-intervento sull’organizzazione, Cedis, Roma, 1977, pp. 67-95.
186
Tecnologia, processi e organizzazione del lavoro
I rapidi tempi di colata e di laminazione imponevano ritmi incalzanti e richiedevano agli
operai una sorta di adattamento al meccanismo della produzione che da sempre nella grandi
fabbriche aveva portato alla formazione di un sistema informale di organizzazione del lavoro. Si
trattava di una spontanea conseguenza che si manifestava quando il lavoro operaio si trovava di
fronte a un processo produttivo “forte” costituito, come nel caso del laminatoio a caldo, da macchine già programmate e da materiali di notevole grandezza in lavorazione a elevata temperatura. Il ciclo produttivo prevedeva interventi e discrezionalità dirette degli operai. Fra l’altro si
trattava di lavori non individuali ma a squadre, che richiedevano oggettivamente un forte coordinamento, conditio sine qua non per evitare un rallentamento del ritmo delle macchine, lo scadimento del prodotto o addirittura la paralisi dell’impianto. Il mestiere diventava qui essenziale, come mix di competenze sull’esecuzione al meglio dei lavori, responsabilità rispetto a quello che si fa, conoscenza del processo produttivo, forte integrazione del comportamento lavorativo e sociale. Come ricorda un lavoratore, “prima il rapporto col tubo era diretto, adesso [riferito al 1980] invece l’operaio vede il tubo solo indirettamente. Nei settori automatizzati passa
ogni 46 secondi un tubo attraverso un televisore e l’addetto deve valutare se è giusto oppure no.
La sua fatica è diventata soprattutto mentale: il controllo e la decisione sono molto più veloci.
Oggi l’operatore è in cabina pressurizzata [sic, si intende condizionata], vede il processo attraverso i cristalli e gli interventi avvengono solo in caso di emergenza […]. Il tecnico regola le
macchine per plasmare l’acciaio e le macchine lavorano autonomamente. Il laminatoio a passo
di pellegrino e quelli di Costa Volpino continuano a funzionare con i manovratori che intervengono a regolare le distanze tra i cilindri via via che va avanti il tubo. Il lavoro al laminatoio a
passo di pellegrino invece è un sistema più artigianale. I manovratori devono seguire il ritmo di
rotazione. Il primo laminatore è quello che segue il processo dall’inizio alla fine, gestendo la
distanza tra i cilindri. Quindi sembra fabbricare il tubo. La laminazione a passo di pellegrino
non può essere automatizzata, e per questo sta per scomparire”69.
In definitiva, la ricerca rilevava nella rigidità tra staff e line un elemento di debolezza, agevolmente superato però con il sistema di “ricompense (carriera, retribuzioni, qualifiche, agevolazioni) incentivanti i singoli lavoratori via via valutati positivamente”70. Questo equilibrio aveva cessato di funzionare al meglio con l’esplosione tra il 1968 e il 1972 della “contestazione
______________________________
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70
Enrico Radicchi intervistato da Mimmo Boninelli e Carlo Leidi, Bergamo, 15 settembre 1980.
Federico Butera, La ricerca-intervento sull’organizzazione, cit., p. 78.
187
Dalmine 1906-2006. Un secolo di industria
generale” degli operai e degli impiegati della Dalmine contro il sistema paternalistico aziendale71, e con la più temibile “rivolta” del mercato.
La svolta tecnologica – rappresentata dalla colata continua e dal Nuovo treno medio, con un
impianto produttivo le cui caratteristiche operative avevano pochi riscontri nella pratica precedente di organizzazione industriale – aveva così da un lato migliorato la qualità dei prodotti, e
dall’altro aveva trasformato figure professionali chiave nel processo produttivo precedente –
non solo nell’acciaieria e nel laminatoio, ma anche a valle nell’aggiustaggio – ponendo le basi
per un nuovo sistema socio-tecnico72. Nel sistema tradizionale la qualità del prodotto dipendeva da un insieme di fattori, capacità e in subordine disponibilità di operai specializzati a eseguire al meglio il delicato lavoro dell’avanzamento del forato. Nel nuovo impianto invece non
solo la regolazione e l’esercizio, ma anche il controllo della qualità del tubo, sono prevalentemente affidati al sistema informatico che necessita di pochi operatori selezionati tra chi “ha
mostrato nel passato capacità di contribuire positivamente al controllo e regolazione dei processi produttivi e aspirazioni a una maggiore qualificazione professionale”73.
______________________________
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72
73
Per la ricostruzione della “rivolta” Dalmine si rinvia a Giuseppe Abbatecola, Dalmine, cit., pp. 23-105; nonché a Marianna Gandossi,
L’industria italiana negli anni del “miracolo”: i casi di Dalmine e Italcementi, cit. e al contributo di Ferruccio Ricciardi in questo volume.
Federico Butera, La progettazione congiunta di tecnologia ed organizzazione. Il caso Dalmine NTM, cit., pp. 173-221.
Ibidem, p. 189.
188
Tecnologia, processi e organizzazione del lavoro
Il procedimento Mannesmann
La laminazione dei tubi senza saldatura secondo il procedimento Mannesmann avviene con due macchine e
con due processi distinti (in seguito in molte applicazioni sono arrivati anche a tre con l’inserimento di una pressa a forare prima del perforatore/allungatore). La configurazione base originaria è:
1) Laminatoio obliquo per forare un massello di acciaio e ottenere un cilindro cavo di grosso spessore, il
forato.
2) Laminatoio a passo di pellegrino per la lavorazione del forato e la trasformazione in tubo caratterizzato
da una lunghezza molto più grande del forato di partenza e da diametro e spessore più piccoli.
Laminatoio obliquo (figg. 1-4)
Il laminatoio obliquo è costituito da una coppia di cilindri motorizzati con profili diversi (a “botte”, conico
ecc.) a seconda del particolare lavoro cui la macchina è destinata. Tali cilindri sono posizionati nella gabbia di
laminazione con assi sghembi. La loro rotazione consente l’avanzamento del massello. Nella zona di uscita è
posizionata la punta che, agendo da elemento resistente, penetra nel massello generando il foro.
Il massello viene spinto contro i cilindri da uno spintore; il materiale viene posto in rotazione e inizia ad
avanzare nel cono di entrata. Per effetto della riduzione della sezione di passaggio e della rotazione impressa dai
cilindri, si genera nel massello una rottura assiale che viene poi completata dall’inserimento della punta. Il diametro della punta definisce lo spessore del forato. Si ottiene così un corpo cavo di grosso spessore, completamente forato, con una lunghezza che può arrivare fino a tre volte quella del massello originario.
Laminatoio a passo di pellegrino (figg. 5-8)
Il laminatoio a passo di pellegrino è costituito da una coppia di cilindri motorizzati con profili diversi a
seconda del particolare lavoro cui la macchina è destinata. Tali cilindri sono posizionati nella gabbia di laminazione. Una cassa aria/acqua comanda l’avanzamento/ritorno e rotazione del mandrino, un pezzo cilindrico che
determina il diametro interno del tubo.
Il mandrino si posiziona all’interno del forato. Durante la laminazione il mandrino è aderente alla cassa ariaacqua fissata sul carro di avanzamento. Quest’ultimo spinge il forato e il mandrino fra i due cilindri che, ruotando, comprimono circonferenzialmente il materiale contro il mandrino realizzando la riduzione di sezione. A ogni
rotazione completa dei cilindri si ottiene la laminazione di un tratto di tubo. La laminazione procede per tratti
successivi ruotando ogni volta il tubo di 120°. Il tempo di laminazione è di qualche minuto, in funzione del tubo
da laminare. La riduzione di sezione può essere molto elevata; è possibile produrre spessori sia sottili che grossi. La gamma dimensionale va da diametri esterni di 100 mm fino a 700 mm.
Fonti: Fernando Streito, I materiali, Edizioni scientifiche Einaudi, Torino, 1958, pp. 122-124; Dalmine Spa, Catalogo tecnico generale 1956, Bergamo, Istituto italiano d’arti grafiche, 1955, pp. 35-41; Ruthilt Brandt Mannesmann, Max e Reinhard Mannesmann, cit.,
pp. 337-339.
189
Dalmine 1906-2006. Un secolo di industria
Fig. 1
Fig. 2
Fig. 3
Fig. 4
190
Tecnologia, processi e organizzazione del lavoro
Fig. 5
Fig. 6
Fig. 7
Fig. 8
191
Dalmine 1906-2006. Un secolo di industria
Il laminatoio continuo a mandrino trattenuto (fig. 9)
Un grande forno rotatorio riscalda le billette di acciaio, di lunghezza massima pari a 3.500 mm. La billetta a
sezione quadrata, una volta riscaldata viene avviata al discagliatore, che ne libera le superfici dall’ossido generato dal riscaldamento, e a un calibratore a cilindri rotanti, che porta la billetta alle dimensioni richieste per la
lavorazione successiva. A questo punto la laminazione avviene con tre macchine e con tre processi distinti:
1) Il PPM – Press Piercing Mill per trasformare una barra di sezione quadra in un corpo tondo cavo corto,
di grossissimo spessore ed ancora non completamente forato.
2) Un allungatore per ottenere un forato di spessore più sottile e di maggior lunghezza.
3) Il MPM – Multistand Pipe Mill per trasformare il forato in tubo.
PPM – Press Piercing Mill
Il PPM è un presso laminatoio costituito da uno spintore azionato idraulicamente o elettricamente, da una
coppia di cilindri motorizzati a gola circolare che ruotano nella direzione di avanzamento della barra e da un
punzone fisso posizionato dalla parte opposta rispetto allo spintore, in mezzeria rispetto alla gola dei cilindri.
Lo spintore, aiutato dai cilindri, forza la barra quadra contro il punzone; il materiale viene spinto verso l’esterno e va a riempire la gola dei cilindri ottenendo così la trasformazione della barra quadra in un corpo cilindrico forato, seppur non completamente.
Allungatore
È un laminatoio obliquo a cilindri con assi sghembi e lineari fissi verticali.
Il processo conduce allo sfondamento del fondello del corpo cilindrico ottenuto nel PPM, all’allungamento
del forato e alla correzione della sua eccentricità.
MPM – Multistand Pipe Mill
Il laminatoio continuo a mandrino trattenuto o MPM è costituito da coppie di cilindri posizionati in otto gabbie di laminazione disposte a 90° fra di loro e azionate da motori elettrici. La sequenza di gabbie è detta treno.
Il mandrino avanza, durante tutta la laminazione, con velocità controllata e più lenta del flusso del materiale.
Con tale accorgimento si permette un flusso più regolare del materiale migliorando le caratteristiche geometriche del prodotto. Completata la laminazione il tubo viene sfilato dal mandrino per mezzo di un laminatoio estrattore posto a valle del laminatoio stesso. Il mandrino ritorna indietro sulla stessa linea di laminazione.
Fonte: Giulio Balzi, Impianto di laminazione per tubi s. s. a Ø medio, cit., p. 6.
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Tecnologia, processi e organizzazione del lavoro
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