la calligrafia come arte della guerra

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la calligrafia come arte della guerra
TranseuropA
EDIZIONI
Andrea Tarabbia
la calligrafia
come arte della guerra
Transeur opA
narratori delle riserve
Collana diretta da Giulio Milani
Nella stessa collana:
Aa. Vv., I persecutori, (a cura di G. Milani e M. Rovelli)
Fabio Genovesi, Versilia rock city (iii ed.)
Giuseppe Catozzella, Espianti (ii ed.)
Elio Lanteri, La ballata della piccola piazza (ii ed.)
Demetrio Paolin, Il mio nome è Legione
Aa. Vv., Over-Age, (a cura di Giulio Milani)
Franz Krauspenhaar, L’inquieto vivere segreto
Stefano Amato, Le sirene di Rotterdam
Riccardo De Gennaro, La Comune 1871
ringraziamenti
Prima di vedere la luce, le versioni di questo libro che sono andato via via approntando
sono state oggetto di letture e discussioni da parte di alcune persone. In particolare,
vorrei ringraziare chi ha contribuito con consigli, critiche o semplici opinioni a renderlo
quello che è: Giulio Milani, Giulio Mozzi e Marco Rovelli; Antonio Moresco e Tiziano
Scarpa: insieme a loro mi piace ricordare tutti gli amici della redazione de «Il primo
amore»; Giorgio Fontana, che ha condiviso questo e altri percorsi fin dall’inizio; infine
Laura, la mia prima editor. Questo esordio è per lei.
Saronno, marzo 2010
© 10
pier vittorio e associati, transeuropa, massa
www.transeuropaedizioni.it
isbn
9788875800802
copertina: idea, progetto grafico e lettering di floriane pouillot
PARTE PRIMA
San Lorenzo
«Piove a dirotto da sempre.»
Paolo Volponi
«Quanto al Giorno del Giudizio, disse l’estraneo,
ogni giorno è il Giorno del Giudizio.»
Flannery O’Connor
i
Adesso parlo io.
Mi sono affacciato al pertugio che collega il mio nido a questa
parte di cosmo e mi sono fermato a guardare.
Se mi stringo nelle spalle, riesco a infilare le braccia nel passaggio
e ad appoggiare i gomiti su quel pezzo di davanzale che mi viene
concesso prima che questa pietra cada nel vuoto e si fracassi sulla
superficie sassosa del cortile interno dell’edificio. Mi sono acceso una
sigaretta e ho cominciato a fumarla con le spalle che mi battevano
sulle orecchie, tutto costretto come sono anche dalla presenza dello
stipite di legno nero che ferma l’infisso. Non si potrebbe fumare
all’interno dei nidi, ma io sfrutto l’accondiscendenza che anche
qui, luogo di ascesi e di guerra, viene concessa al corpo docente. La
signora delle pulizie che tutte le mattine mi rifà il letto e scopa per
terra deve sentire l’odore di fumo, perché mi guarda con sospetto
nei corridoi. Tuttavia non mi dice mai nulla che non sia buongiorno
o buonasera, e io mi sento autorizzato a fare finta di niente.
Ci sono stelle per ogni dove, anche qui. La mia finestra dà sulle
colline, ed è una fortuna, perché le colline sono buie, non si illuminano di quell’aureola di luce elettrica che copre la forma della città
e che si vede dalla finestra dei bagni comuni. Tutte le sere, prima
di coricarmi, mi piace rimanere un po’ a guardare in alto, nel buio,
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con il mio cannocchiale. Mi hanno detto che si vedono spesso le
stelle cadenti, ma io non sono ancora riuscito a scovarne una. Le
guardo con calma, senza l’ansia comune di trovarle: la sessione estiva
è appena cominciata e avrò tutto il tempo di stufarmene.
Ma alle volte, dalle feritoie degli altri nidi, sento venire delle voci.
Sono esclamazioni femminili, di ragazze che hanno visto da qualche
parte un corpo celeste crollare e attraversare tutto il firmamento
steso davanti a loro. Tra pochi giorni potrò riconoscere quelle voci,
individuare il nido e la persona da cui provengono. La mattina in
classe, ogni tanto, sento qualcuna delle ragazze che bisbiglia con
la compagna di banco. «Ieri notte ho visto cadere tre desideri»
ha detto Hina a una compagna pochi giorni fa, mentre suonava la
campanella della ricreazione.
Mi piace pensare che tutto l’Istituto, quando fa buio, si affacci
sullo stesso lato dell’edificio, e tuffi il naso nella catastrofe molecolare
del cielo che si prepara a cadere. Tutta una serie di esseri umani con
le spalle incassate nei loro pertugi a guardare le stelle.
ii
Hina ha quasi quindici anni, è un’età limite. All’Istituto accettano
solo ragazze di età compresa tra i sei e i quindici. Anche lei, come
me, è arrivata da poco, e solo da pochi giorni ha preso posto nel
proprio nido e ha conosciuto le compagne di corso. Sembra una
ragazza mite, chiusa nel sipario di capelli neri e nelle canottiere che
le imbalsamano il busto quasi piatto. Non mi è chiaro come mai il
preside Herbat l’abbia presa con sé: di solito la durata minima di un
corso è due anni, e in qualsiasi caso Hina non lo potrà completare
perché il compimento del sedicesimo anno di età, secondo il regolamento interno, è anche il giorno in cui le ragazze sono obbligate
a congedarsi dalle compagne, dai professori e dai nidi. L’Istituto le
caccia perché i sedici anni sono l’età in cui una donna è in grado di
pensare a se stessa e di metter su famiglia.
Hina ha perso entrambi i genitori nell’attentato di H. di circa
quattro mesi fa. Erano nell’autobus che è saltato in aria al crocevia
tra la H4 e la superstrada. Ci sono stati trentasette morti e un pugno
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di superstiti. Lei era dentro questo pugno e ha saputo mantenere
uno sguardo dolce, gli occhi neri e larghi, cerchiati di nero come le
meridionali. Non ha rabbia, o io non la vedo. Non capisco perché
sia qui. Ogni tanto qualcuna delle sue compagne scoppia improvvisamente a piangere durante la lezione di calligrafia, si asciuga le
lacrime con le stoffe, ma sono lacrime di rabbia, quasi mai di dolore.
È un pianto che si cura con i calmanti e non con gli abbracci. Hina
ha due occhi fatti per essere pieni di lacrime, e invece non piange
mai, o non l’ha ancora fatto. Non ha nemmeno ancora riso, se è per
questo.
Io e Hina siamo entrati qui dentro lo stesso giorno, per motivi
diversi. Io non mi dilungherò a chiarire i miei, che possono anche
rimanere riservati fino al momento della fine. Le nostre strade – la
mia e quella di questa ragazzina forte – hanno cominciato a incrociarsi in uno svincolo autostradale e forse non smetteranno mai di
ritrovarsi. Ma tutto questo dopo, dopo: non scrivo le presenti note
per confessarmi, e comunque voglio dire da subito che non è né
l’odio, né la rabbia, né il dolore per la perdita enorme che ho avuto
che mi hanno spinto a fare domanda per l’Istituto. Come si dice,
fatti miei. Anche il preside Herbat non ha insistito granché il giorno
della mia assunzione. Si è acceso la pipa in quel suo modo goffo e
disperato e ha guardato fuori dalla finestra per qualche istante (la
finestra del suo studio è la più ampia di tutto l’Istituto).
«Lei sa» ha detto, «che le motivazioni sono una componente
fondamentale per poter lavorare qui dentro. Lei vuole tenere le
sue per sé, ed è una scelta che umanamente rispetto, visto anche il
curriculum che ha presentato…» qui ha ammiccato con le sopracciglia, o così mi è parso. «Tuttavia non è la prassi» ha ripreso, «e
normalmente noi non transigiamo sul regolamento. Sappiamo ciò
che le è accaduto, Magister, e comprendiamo il suo desiderio di riservatezza.» Si è fermato per scrutarmi da dietro la nuvola di fumo.
Si è portato il moncherino della mano destra al viso e si è carezzato
la guancia, o se l’è grattata. Ho chiesto se potevo fumare anch’io e
lui ha appoggiato la pipa sul tavolo e mi ha allungato la scatola di
fiammiferi con la mano buona. Siamo rimasti in silenzio per un po’,
senza imbarazzi.
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«Lei conosce bene le ragioni dell’esistenza e il funzionamento
dell’Istituto» ha detto poi. «Questo non è un orfanotrofio, un rifugio per orfanelle. Sapere ogni cosa delle persone che vi entrano
e vi escono è anche una questione di sicurezza, oltre che un valido
principio per il vivere comune. Io conosco singolarmente tutte le
nostre allieve, tutti i loro pregi e i loro difetti e, soprattutto, la loro
storia personale. Con i professori, i bidelli, le cuoche, è lo stesso. C’è
la guerra. Tuttavia faremo un’eccezione con lei, tenuto conto della
situazione in cui ci troviamo, con l’improvvisa defezione di Magister
Hugo. Noi abbiamo bisogno che ci venga restituita la voce…»
Ha detto quest’ultima frase e si è alzato dalla sedia diretto alla
porta, come per accompagnarmi. Ci siamo stretti la mano sinistra.
iii
La distribuzione delle allieve nei corsi non avviene secondo un
criterio anagrafico. Avviene per capacità grafiche. Il primo giorno di
scuola viene distribuito un test che tutte le allieve (anche le veterane)
devono sostenere per l’assegnazione delle aule. I corsi si articolano
sostanzialmente su tre livelli, e solo dopo aver raggiunto l’ultimo e
superato un esame finale si può prendere il diploma. Capita a volte
che alcune delle veterane, per diverse ragioni tra cui anche una certa
superficialità e sufficienza, non superino il test d’ingresso e vengano
implacabilmente declassate di uno o due anni. Le classi sono molto
disomogenee e le adolescenti si trovano spesso a condividere il banco
con bambine di sei anni.
Durante le prime ore del giorno d’ingresso, il preside Herbat fa il
giro delle classi per ridistribuire i nidi. Il criterio per l’assegnazione
è rigido: le coetanee non possono condividere la stessa stanza. Le
quindicenni sono quasi certe di dover fare da chioccia per tutto
l’anno accademico alle bimbe di sei. Nessuna delle ragazze si è mai
lamentata per questo, e comunque l’Istituto non sembra il luogo
dove si possono stringere amicizie durature.
Il preside Herbat è entrato nella mia classe all’improvviso, sul
finire della prima ora. Tutte le ragazze si sono alzate in piedi di scatto e hanno fatto partire un «Buongiooorno!» squillante, che deve
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aver messo in preallarme la classe di fianco. Il preside Herbat mi
ha stretto la mano e ha cominciato uno di quei discorsi da preside
sull’impegno e la dedizione allo studio. Ha citato perfino i sette anni
di Leopardi, e ha promesso una settimana di vacanza tutti insieme
tra la fine di agosto e gli inizi di settembre. Poi si è fatto serio, quasi
grave: «Bene» ha detto, «ci sono tra di voi alcune allieve nuove che
devono ancora ambientarsi e imparare le nostre abitudini e le nostre
usanze… C’è qualcuna che vuole dare il buon esempio e inaugurare
con il suo discorso?»
Si è alzata una ragazzetta di dodici anni, del sud. Ha fatto un
mezzo inchino, prima al preside e a me e poi rivolta alla classe, e si
è messa a declamare ad alta voce: «Mi chiamo Hyena Hyena, sono
di Hu. Ho dodici anni e sono arrivata all’Istituto da circa un anno e
mezzo. Ho deciso di presentare domanda alcuni mesi dopo la morte
dei miei genitori, sgozzati nel sonno in quella che era la nostra casa
da un commando di cinque uomini appartenenti alla falange armata
di L. Sono qui per imparare l’arte del messaggio, della disciplina e
dell’amor patrio.»
Ha ripetuto tutto questo con una freddezza e un odio sconvolgenti. La tragedia non sembrava più sua, ma di tutto un popolo, e
pareva che lei vi partecipasse come si partecipa a un lutto nazionale
che ispira una vendetta senza eguali. Hyena si è seduta mentre il
preside Herbat la guardava compiaciuto. Per oltre mezz’ora, una a
una, tutte le ragazze si sono alzate dal posto, ci hanno riveriti e raccontato la loro storia. Hanno tutte ripetuto la formula che sta scritta
anche sull’arco d’ingresso del cortile della ricreazione: Siamo qui per
imparare l’arte del messaggio, della disciplina e dell’amor patrio.
Sono tutte storie simili a quelle di Hyena, in definitiva anche
quella di Hina. Quando è toccato a lei è arrossita e ha cominciato a
guardare basso, mentre io rovesciavo la testa all’indietro stringendo
gli occhi e la ascoltavo. È stata tra le ultime a raccontare, perché è
stata l’ultima ad arrivare. Ed è per questo che non me ne libero.
iv
Esco a volte a fare un po’ di spesa. (L’Istituto ci assicura i pasti
principali ma non i vizi). Compro le sigarette, bustine di tè e di vari
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tipi di tisane (che non mi piacciono mai, ma di cui sento la mancanza
se la sera non ne trovo), biscotti, succhi di frutta, fazzoletti di carta
e qualche libro, più che altro romanzi e opere classiche; raramente
metto in borsa cose di linguistica o che c’entrino col mio lavoro.
Evito la saggistica, soprattutto quella storica, e non vado mai nel
settore Attualità delle librerie. Sono molto conservatore in campo
musicale: compro un cd una volta l’anno, e solo se lo conosco o
ne ho sentito parlare da qualcuno di cui mi fido ciecamente. Allo
stesso modo per quanto riguarda il cinema: escono molti film che
vorrei vedere e mi dimentico di vederli quasi tutti. Non ho mai letto
fumetti, e comunque non ci è permesso di portare all’interno delle
mura dell’Istituto qualsiasi tipo di rivista o di quotidiano perché
«potrebbe essere consultato dalle allieve». Le allieve devono conoscere, di quanto accade fuori, la versione ufficiale fornita dai dispacci
radiofonici che la segreteria, a richiesta, filodiffonde nei nidi la sera
prima di dormire: si tratta di brevi notiziari ripetuti per un’ora tra
le otto e le nove. Sono notiziari epurati di due tipi di notizie: quelle
che, in qualche modo, potrebbero essere ricondotte dalle ascoltatrici
alle loro vicende personali, e le vicende di gossip e di spettacolo,
«che distraggono oltremodo l’attenzione dallo studio e dal lavoro».
La prima categoria di notizie censurate è evidentemente costituita
dalle novità sulle questioni di politica internazionale.
Circa dieci giorni prima che la mia domanda per entrare nell’Istituto fosse accolta, accadde un avvenimento per noi fondamentale,
di cui a tutt’oggi non si è fatta menzione, sorprendentemente,
nemmeno nell’uovo della sala professori: l’attentato alla stazione.
Un’autobomba è esplosa all’improvviso, una mattina, in corrispondenza del parcheggio degli autobus di fronte alla biglietteria. Ci
sono stati tredici morti – uno in più dei mesi dell’anno, ho pensato
stupidamente io appena mi è giunta la notizia – e l’esplosione ha
spalancato una voragine del diametro di una decina di metri proprio
sotto l’auto saltata per aria. Dentro la voragine, dicono, sono caduti
i corpi straziati di cinque persone e i resti di una cabina del telefono,
mentre un albero si è incurvato e penzola tuttora gettando la sua
ombra primitiva nel vuoto che tutto ha inghiottito.
Terrorizzato, Magister Hugo, il professore che prima di me reg-
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geva la cattedra di calligrafia, ha rassegnato le dimissioni, pregando
il preside Herbat di accettarle per direttissima e rifugiandosi da
qualche parte all’interno dello Stato. Pare che Hugo fosse nei pressi al momento della detonazione, e abbia visto tutto con i propri
occhi. Non ho ancora sentito un collega o un’allieva menzionare il
suo nome, nemmeno di sfuggita. Quando sono entrato per la prima
volta in sala professori, la sua targhetta era già scomparsa dalla fila
di armadietti dove teniamo i libri di testo, e il suo ruolo di rappresentante dei professori era già stato preso da Horson. Nessuno
può dunque far finta che l’attentato non ci sia stato, e che gli eventi
internazionali non abbiano assunto un’accelerazione inedita, eppure
nessuno, dentro, ne parla.
Sono entrato nella libreria del signor Hermes. Lui ormai mi riconosce e mi saluta con riverenza. Siccome, poi, càpito da lui almeno
una volta la settimana, ha preso la buona abitudine di farmi lo sconto
del 10% se compero più di tre libri.
Ho girato per gli scaffali senza guardare niente di preciso per una
decina di minuti. Hermes stava impilando un buon numero di cartoni
addossandoli contro una parete. Lo sentivo sbuffare e digrignare
i denti per lo sforzo ogni volta che si abbassava per raccogliere un
cartone da terra.
«Novità?» ho detto, ammiccando ai cartoni.
«No» mi ha risposto. «Questa settimana nessuna novità di rilievo.
Qualche libretto, se vuole glielo faccio vedere, ma tutte pubblicazioni
secondarie. Le grandi case hanno chiuso le rotative.»
«Cosa?»
Hermes si è sollevato e si è appoggiato alla prima pila di cartoni. «Settimana interlocutoria. Succede.» Si è deterso la fronte con
il polsino della camicia e ha spinto la pila di cartoni più in fondo
possibile.
«Ha bisogno di una mano?»
«No, grazie. Ci mancherebbe. Dovevo solo addossarli qui e il più
ormai è fatto. Pomeriggio passa mio figlio e mi aiuta a portarli di
sotto. Oh, dimenticavo: il suo libro tarderà un po’ ad arrivare.»
«Non importa, posso aspettare.»
La manica di un maglione sbucava, schiacciata, dall’interstizio
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fra due cartoni, e penzolava coprendo parzialmente il logo di un
editore.
«Lei ha un magazzino, di sotto?» ho chiesto.
Hermes si è fermato di nuovo e mi ha guardato. Ho visto che gli
è passata per la mente una domanda a cui non ha dato risposta.
«Un magazzino?» ha detto. «Non è proprio un magazzino…
È… un posto.» Si è voltato, ha notato la manica e l’ha spinta a forza
nell’intercapedine tra i cartoni. «Un posto, sì. Fa anche da cantina,
all’occorrenza.»
«In che senso un posto?»
«Un posto. C’è… Un bagnetto per uso personale, un tavolo,
qualche scaffale. Una stanza.»
Poi si è avvicinato alla postazione computer, dandomi le spalle.
Ha trafficato qualche istante con il mouse, concentrato.
«Questi computer» mi ha detto. «Non imparerò mai a usarli del
tutto… È mio figlio quello che se ne intende.» Mi ha fatto segno
con la mano di avvicinarmi «Venga» ha detto. «Venga pure dietro
il banco, tanto non c’è nessuno.»
Ho girato attorno al banco e mi sono fermato alle sue spalle, un
po’ imbarazzato. L’ho visto digitare la parola demon@ in una tabella,
accanto alla scritta titolo. Sono comparsi sullo schermo cinquantatre titoli di libri, il primo dei quali era un’edizione dei Demoni di
Dostoevskij che non era quella che avevo ordinato. Molti titoli non
avevano niente a che fare con Dostoevskij: Demonologia per tutti,
Demonio (Il), Demoni, Fate, Streghe e Spiriti della casa e altri che
non ho fatto in tempo a leggere. Accanto ai titoli, in un’altra tabella,
sotto la scritta giac compariva una lunga fila di 0. Il signor Hermes
è sceso con il mouse e ha trovato l’edizione che gli avevo chiesto.
Vicino allo 0 c’era un piccolo 1.
«Quell’uno vuol dire che il libro è in ordine e che una copia è
in arrivo.»
«Perfetto.»
«Ma io non posso sapere con precisione quando la spediranno.»
«Non c’è problema.»
«Io ho mandato l’ordine, e l’ordine resta attivo due mesi, dopodiché bisogna rifarlo.»
andrea tarabbia
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«Ci metterà due mesi ad arrivare?»
«Molto meno. Credo già per settimana prossima, se tutto va bene.
Lei ne ha bisogno prima?»
«No, no: non volevo metterle fretta. Come le ho detto posso
aspettare senza problemi. Ma… Cosa significano questi codici dopo
la giacenza?» ho indicato col dito un’altra fila di lettere, vicino al
bordo di destra: ip, op, re, r, c, a, e.
«Sono le disponibilità commerciali: ip e c significano che il libro
è in commercio ed è recuperabile; op che è fuori catalogo; e che
è esaurito; r che è in ristampa; re che è stato messo in resa; a che
è in arrivo. Come vede, i suoi Demoni sono disponibili e sono in
arrivo.»
«Ho capito. È molto interessante. Ma perché nell’elenco ci sono
dei titoli che non c’entrano con i Demoni?»
«Perché per comodità ho digitato demon@ e non la parola completa. Per cui il computer cerca e trova tutti i titoli che contengono
come prima parola demon-.» Si è accorto che la spiegazione non mi
soddisfaceva, e ha aggiunto: «Lei la sa la storia del titolo, vero?»
«No. Quale storia?»
«Il titolo esatto è I demonî. Dostoevskij ha usato il plurale di demonio, che è demonî. Molti chiamano il libro I dèmoni, ma quello è
il plurale di demone, e semmai è un altro libro. Se io avessi digitato
demoni avrei eliminato dalla mia ricerca tutte le edizioni corrette
che hanno per titolo I demonî, tra cui la sua.»
«Ah.»
«È per quello che l’ho fatto.» Si è alzato, e io ho capito che era
ora di andare.
«Allora grazie» ho detto. «Anche della lezione. Ci vediamo settimana prossima.»
Sono uscito dalla libreria mentre Hermes ricominciava a trafficare
con i cartoni impilati. Varcando la soglia ho incrociato un uomo sulla
cinquantina che si è messo una mano sulla falda del cappello e mi
ha salutato chiamandomi Magister. «Buongiorno a lei» ho risposto,
senza che lo avessi mai visto prima.
Sono entrato in un supermercato vicino e ho fatto una spesa veloce. Alla cassa, mi hanno detto che per problemi di natura tecnica
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non potevano accettare né il bancomat né una carta di credito, e che
avrei dovuto pagare in contanti. Di fianco al braccio della cassiera,
la macchina per le carte sembrava attiva. Ho indicato una luce verde
che lampeggiava e la scritta inserire carta.
«Sembra che funzioni» ho detto.
«Oh sì» ha risposto la ragazza, «la macchina funziona. I problemi
sono nella registrazione delle vendite. Per qualche giorno avremo
difficoltà a riscuotere. Per caso non ha contanti con sé?»
«Ne ho, ne ho. Preferivo pagare con la carta, tutto qui.»
Ho cercato le banconote nel portafogli e ho pagato. La ragazza
mi ha ringraziato e ha allungato lo scontrino e il resto. Mi ha dato
moltissime monetine da uno e due centesimi.
«Credo che molti in città in questi giorni avranno questo tipo di
problemi» ha detto poi. «È meglio che si procuri dei contanti. Dopo
l’attentato c’è stata una specie di black out informatico e per molti
esercizi è diventato più difficile stornare le carte di credito…»
La spiegazione non mi ha convinto, anche perché la settimana
precedente, nello stesso supermercato, avevo usato senza problemi
il mio bancomat. Ma ho salutato la ragazza con gentilezza e sono
uscito con la borsa della spesa in mano, le monetine che tintinnavano nella tasca.
Fuori dal supermercato, sulla destra, c’era e forse c’è ancora un
ingresso che non conduce a un appartamento, o a un negozio, o
all’atrio di qualcosa. Un supporto di plastica orizzontale appeso in
alto e illuminato 24 ore su 24 con una luce rossa segnala che in quel
punto si apre l’ingresso per uno dei molteplici rifugi antiatomici
che costellano la nostra città. Questi rifugi vengono chiamati «Porte
Rosse». In caso di emergenza, gli allarmi cittadini suonano all’unisono e le Porte Rosse si aprono automaticamente, per permettere ai
cittadini che in quel momento transitano nella via di trovare riparo.
Dal giorno dell’attentato, ogni Porta Rossa (non saprei dire quante
sono, ma credo almeno una cinquantina nel solo centro cittadino)
viene costantemente presidiata da un militare di leva, il cui compito
è evitare i possibili atti di sabotaggio e (credo) i tentativi dei cittadini terrorizzati di trovare comunque rifugio sottoterra. Al soldato,
dicono, non è concesso l’ingresso in una Porta: una volta regolato
andrea tarabbia

il flusso dei civili, il suo compito è quello di raggiungere la caserma
e mettersi a disposizione per fronteggiare l’emergenza.
Accanto a ogni Porta Rossa è appeso un piccolo vademecum a
uso della cittadinanza, in cui vengono elencate le regole basilari per
l’utilizzo dei rifugi:
all’attenzione della cittadinanza
Il Consiglio Comunale decreta che:
Vista la Delibera della Giunta Regionale n° vii/947 del **/**/200*
- Allegato b;
Vista Delibera della Giunta Regionale n° 1549 del **/**/200* e
successive deliberazioni.
Vista Delibera della Giunta Regionale n° 3398 del **/**/200*
Visto l’art. 7 del Decreto Legislativo **/**/199*, n° 285 Testo
Unico Codice di Comportamento in situazioni di emergenza con
successive modifiche ed integrazioni;
Visto il D.P.R. 16.12.92, n° 495, Regolamento d’esecuzione e d’attuazione del nuovo Codice e successive modifiche;
Vista la Legge **/**/199* §6 e §7 n° 10;
Visto l’Art. 107 del Decreto Legislativo n° 267 del **/**/200*;
1. le porte rosse verranno aperte solo in caso di attacco di-
retto alla comunità.
2. tutti i cittadini e le persone presenti sul suolo urbano hanno
diritto d’accesso senza distinzione di età, razza, sesso e religione
secondo quanto stabilito dalle leggi di cui sopra.
3. ogni porta rossa ha una capienza massima di n° 40 (quaranta)
individui.
4. ogni porta rossa contiene scorte di cibo e acqua sufficienti
al sostentamento di n° 40 (quaranta) individui per un numero
massimo di 27 (ventisette) giorni.
5. ogni porta rossa è presidiata da un membro nominato
dell’esercito che ne è direttamente responsabile.
5. bis – in caso di necessità i membri dell’esercito organizzeranno il flusso di cittadini all’interno dei locali.
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6. ogni porta rossa viene aperta automaticamente nei trenta
secondi successivi all’entrata in vigore dello stato d’allarme
cittadino.
7. ogni gruppo di cittadini rifugiati è tenuto a nominare un
capogruppo, che sarà responsabile unico delle comunicazioni
con le autorità competenti degli eventuali rapporti con gli
altri rifugi.
8. non sono ammesse persone in esubero. in allegato una pian-
tina con indicata l’ubicazione delle porte rosse nei vari quartieri
cittadini.
**/**/200*
Il Comune
Sfoglio l’allegato, la distribuzione capillare dei rifugi e delle Porte
Rosse. La sentinella non mi guarda nemmeno, ritta com’è e impettita
e responsabile. Non la saluto, passo oltre, gioco con le monete che
ho in tasca. Alla periferia della città, quando sono arrivato, c’erano
delle piccole torri di avvistamento di metallo scuro. Miliziani armati
si danno il cambio sopra i loro catafalchi e scrutano la campagna
che ci circonda. Ogni città ha la sua piccola dogana militarizzata,
anche nelle stazioni: nessuno entra ed esce senza prima essere
identificato. Favorisca di documenti. Come mai in città? Sono stato
assunto dall’Istituto Calligrafico in qualità di Magister calligraphiae.
Sostituisco un collega che ha chiesto e ottenuto il trasferimento.
Oh, benvenuto tra di noi, Magister Horatio. L’Istituto ci ha fatto
pervenire i suoi dati ieri pomeriggio, sapevamo del suo arrivo,
l’aspettavamo. Deve avere qualche minuto di pazienza, controlliamo il chip del suo passaporto e la lasciamo andare. Ha qualcosa da
dichiarare? Niente di particolare. Cos’ha nella borsa? Soprattutto
vestiti, quaderni, penne, qualche libro e un piccolo cannocchiale
astronomico. Si interessa di stelle? È un buon passatempo. Faccia
passare la sua valigia per di qua. Ci scusi, ma è la prassi. Capisco,
fate pure. Indossa un orologio? Ho un orologio da tasca. Dovrebbe
toglierlo e posarlo in questa vaschetta. Se ha delle carte di credito e
dei rullini fotografici li metta qui, altrimenti rischia che la macchina li
smagnetizzi. È tutto a posto? È tutto a posto, Magister, può andare.
Se prende un taxi deve uscire dal retro, il piazzale davanti è inutiliz-
andrea tarabbia
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zabile. Capisco. Arrivederci. Arrivederci, buon lavoro all’Istituto.
E benvenuto tra noi.
v
Semper laboremus quia in labore est laetitia. È così che l’Istituto ci
accoglie. Una lunga frase conventuale scolpita sul frontone dell’edificio al centro, che mi suona lugubre e anche volgare. Mi sembra
stupida, cinica e troppo semplice se tengo conto di quanto si fa qui
dentro e di quello che c’è là fuori. Esco poco, come ho detto, perché
è pericoloso e perché in città non c’è molto da fare, ma anche per
non leggere, rientrando, che c’è letizia nel nostro lavoro.
Apro ad una delle prime pagine il taccuino su cui scrivo e trovo
che poche ore dopo il mio arrivo mi sono appuntato una frase che
mi è stata detta da un’insegnante conosciuta nella sala professori:
«In questo posto sembra che non succeda mai niente e invece succede tutto.»
Nel frattempo, scopro che Plutone ha perduto il diritto di considerarsi un pianeta appartenente al nostro sistema solare. La Conferenza Internazionale di Astronomia o come diavolo si chiama, che
si è tenuta a Praga in questi giorni, ha stabilito che l’orbita di quel
pianetino lontano e invisibile è troppo contorta e bizzosa per essere
equiparata a quella dei suoi otto fratelli. È stato in prima classe per
meno di un secolo, ora è un pianeta nano. Appena ho letto la notizia
sul giornale, questo pomeriggio, ho cominciato a guardare in su e
ad attendere il buio per potermi affacciare dal mio pertugio. Ora
che è in serie b, Plutone si dovrà mostrare, dovrà metter fine agli
atteggiamenti da primadonna. Mi sono infilato nel buco che collega
il mio nido a questa parte di cosmo e, stupidamente, ho puntato il
cannocchiale per trovare quella massa di ghiaccio cristallizzato che
zigzaga per l’universo. Ho visto soltanto la solita fagiolata di stelle,
e non è caduto nemmeno un desiderio.
vi
Visto che fa molto caldo, noi del corpo docente abbiamo pensato
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la calligrafia come arte della guerra
di trasferire le lezioni in giardino. Abbiamo un giardino gigantesco,
percorso da una serie di vialetti ondulati e tempestato di ulivi. C’è
una piccola spianata vicino al muro di cinta, che è grande a sufficienza perché tutte le allieve vi si possano radunare a fare ginnastica e a
sgranchirsi le ossa negli intervalli. Abbiamo deciso di dividerle per
corso di appartenenza e le abbiamo fatte sedere per terra. Con il loro
aiuto e quello dei bidelli abbiamo portato fuori tutta l’attrezzatura:
le ampolle di metallo, i colori, i pennelli, le fasce elastiche. Le nostre
ampolle sono di diverse grandezze e sono sufficientemente leggere
per essere portate anche dalle allieve più giovani: hanno una lamina
di metallo levigato sottile come un’unghia e presentano una forma
conica. All’interno sono vuote, e sembrano degli enormi tappi bic o
la guaina protettiva di smisurate supposte. Riproducono, in realtà,
la forma della testata di un missile di medie dimensioni, anche se
non ne hanno lo sguardo terribile. Sono le pergamene su cui ogni
giorno lavoriamo e dipingiamo qui all’Istituto.
Mi sono messo sotto un ulivo, in piedi, e ho aspettato che tutte le
ragazze si preparassero. Ho guardato a lungo Hina mentre stendeva
sull’erba il suo foglio di compensato e vi poggiava il treppiede che
sorregge la sua ampolla. Le lezioni di calligrafia militare sono il fiore
all’occhiello dell’attività didattica, e io in qualche modo sono il loro
profeta. Ho studiato pittura e calligrafia a lungo, negli anni passati.
Ho cominciato a insegnarla con un entusiasmo che ho perduto, ora
che la situazione internazionale ha trasformato l’apprendimento di
questa forma d’arte antica in una sorta di inutile addestramento, di
esercitazione quasi del tutto alfabetica e priva di un vero rapporto
con il passato. Ma sono nato Magister, o professore, o insegnante,
come si dice oggi nelle altre scuole, e bene o male non ho alternative. Del resto ho già detto che non voglio parlare dei motivi che mi
hanno spinto qua, e non lo farò certo ora.
Ho chiesto alle ragazze e alle bambine se si sentivano a proprio
agio in giardino, poi ho preso il mio treppiede e l’ho allestito col
mio simulacro di missile.
Stiamo tutti in piedi, perché dobbiamo girare attorno all’ampolla
seguendo l’inclinazione del sole: la luce della nostra stella è fondamentale per scrivere. I primi calligrafi infatti furono, entro un certo
andrea tarabbia

margine, anche astronomi; oggi questa componente per così dire
scientifica dell’arte calligrafica è andata quasi perduta, e agli studenti
insegniamo solo a tenere presente l’inclinazione della luce solare per
avere una visione perfetta della superficie di lavoro: qualunque sia
il tipo di supporto con cui si scrive (usiamo penne e pennini d’oca,
di cigno o di tacchino – queste ultime sono molte dure e corte, si
consumano in fretta ma hanno il pregio di essere stabili e di non
rompersi) la prima cosa che c’è da imparare per chi si avvicina alla
nostra arte è che le penne e i pennelli vanno impugnati con il pollice
e l’indice a una distanza che equivale a circa 4 centimetri dalle setole
o dalla parte imbevuta d’inchiostro. Bisogna impugnare senza forza
ma in modo saldo: come scrissero i nostri antichi maestri la penna
va tenuta tra le dita «come se si trattasse di un uovo che non deve
assolutamente sfuggire di mano». Bisogna avere la mano ferma, e
noi la aiutiamo con le fasce.
La seconda cosa che insegniamo è che la penna viene sempre
tirata e mai spinta. Facciamo, i primi tempi, lunghissime esercitazioni di tratto sopra grandi fogli bianchi. Consideriamo gli allievi
pronti a essere introdotti alle meraviglie della scrittura solo quando
essi sono in grado di tirare delle linee verticali, orizzontali e oblique
perfettamente diritte per almeno trenta/quaranta centimetri. Quasi
tutte le ragazze dell’Istituto, alcune con qualche imprecisione, sono
in grado di farlo.
Siccome la penna (o il pennello) viene tirata sopra il foglio, ne
viene che le uniche direzioni possibili di scrittura sono da sinistra a
destra e dall’alto verso il basso e, pertanto, che abbiamo l’assoluta
necessità di avere una fonte di luce che provenga da sinistra. Diverso e opposto è il discorso per i mancini, ma all’Istituto per questa
tornata non ce ne sono.
Ci sono due tecniche fondamentali con cui insegniamo l’alfabeto:
una che definiamo spaziale e un’altra formale. In nessun caso l’arte
calligrafica viene insegnata seguendo l’ordine alfabetico.
La tecnica spaziale si basa, fondamentalmente, sull’idea del quadrato: se immaginiamo un quadrato ideale, ci sono delle lettere che
lo occupano interamente, altre che lo occupano per ¾, altre ancora
per metà e infine altre per una minima parte. Così questa è una o:

la calligrafia come arte della guerra
Nel gruppo della o ci sono anche la q, la d, la c e la g; occupano
generalmente ¾ di quadrato la a, la h, la n, la t, la v, la x, la y e la z;
in metà quadrato inseriamo la b, la e, la f, la k, la l, la p, la r e la s;
infine, rimangono lettere che occupano una posizione minima della
forma, e sono, ovviamente, la i e la j.
Preferisco lavorare con il metodo formale, perché è più semplice,
e perché permette alle allieve di mettere in pratica passo passo le cose
che imparano. Siccome di solito insegno per prima cosa a comporre
tratti obliqui – che sono più facili – i primi esercizi alfabetici su cui
faccio lavorare sono su lettere che li contengono: a, v, x, y e poi
m, n, z e k; passo poi al secondo gruppo, che è fatto di lettere che
presentano solo tratti orizzontali e verticali: e, f, h, i, l e t; il terzo
gruppo, molto difficile, contiene solo linee curve: è il più divertente
da imparare, ma anche quello che comporta il maggior numero di
errori nei primi mesi di esercitazioni: c, g, o, q, s. Infine l’ultimo, il
gruppo misto: b, d, p, r, j, a cui si arriva quando si ha già una certa
esperienza. Le lettere del terzo gruppo, nonostante quanto comunemente si crede, non sono costituite da un unico tratto circolare, ma
da almeno due: il pennello va sempre tirato, per cui, arrivati a metà
lettera, generalmente bisogna interrompere e cominciare a tirare dal
vertice opposto. Difficile è collegare le due «pance», come dicono
le allieve. Se prendo la c ad esempio, vedo che è più sottile nella
parte centrale rispetto ai vertici, perché è lì – nella pancia – che si
incontrano i due quarti di luna che la compongono: una allieva alle
prime armi il più delle volte presenta, nell’esatto centro della lettera,
un grumo di inchiostro che mantiene la lettera spezzata in due parti.
Bisogna infine tenere conto che solo una parte delle esercitazioni
(le esercitazioni piane) viene condotta su superfici piatte. Quando
calligrafiamo, calligrafiamo sulle forme ovoidali dei missili, e solo
andrea tarabbia

l’esercizio e la pazienza permettono di lavorare tenendo conto della
prospettiva.
«Bene» ho detto. «Siamo tutti pronti per cominciare. Avete
qualche domanda da fare riguardo la lezione di ieri? Hera, ti avevo
chiesto di esercitarti nel pomeriggio su un foglio, lo hai fatto?»
«Sì, Magister.»
«Portami la tavola da vedere.»
La bambina, non avrà più di dodici anni, si è alzata dal posto,
ha tirato fuori dalla borsa un grosso foglio bianco arrotolato e me
lo ha portato. Era una lunga teoria di a, la stessa lettera maiuscola,
minuscola, ripetuta decine di volte con una calligrafia sempre più
sicura. Ho giudicato buono lo spessore del tratto, che deve essere
diverso tra l’asta sinistra e la destra: la sinistra, infatti, sempre a
causa dell’inclinazione e del fatto che la penna viene tirata dal basso
verso l’alto per comporre / è solitamente un 30% più sottile dell’asta
destra \, che sfrutta il moto discendente della punta che la traccia e
si riempie di inchiostro e di spessore:
/\
Solitamente il tratto di destra appare, a un occhio attento, un po’
più grosso e grasso di quello di sinistra da cui ha origine. La calligrafia
non è un’arte simmetrica. È un’arte ritmica. La forma delle lettere
deve riflettere il movimento del corpo che le crea.
«Hai lavorato bene, Hera» ho detto. «Hai ancora qualche incertezza sul vertice, vedi?, a volte è un po’ impreciso. Si capisce che ti
fermi troppo tempo e il tratto si ispessisce. Ma devo dire che molte
lettere sono quasi perfette. Ti manca ancora la pratica, ma hai fatto
un buon compito. Hai tenuto le fasce, mentre scrivevi?»
«Sì, Magister.»
Hina ha alzato la mano. «Gliele ho legate io» ha detto. «E sono
stata tutto il pomeriggio a esercitarmi con lei. Posso?»
Si è alzata e si è avvicinata con un foglio dove aveva tracciato
decine di volte la stessa lettera della compagna.
«E a te chi ha messo le fasce?» ho chiesto.
Non si è imbarazzata. «Abbiamo fatto a turno. Mezz’ora lei e
mezz’ora io. Nelle pause, ci fasciavamo.»

la calligrafia come arte della guerra
Le ho mandate al posto mettendo due note di merito sul registro.
La calligrafia è un’arte esatta, dove la precisione è imprescindibile.
Ci sono molte scuole, ma la nostra è la migliore e la prescelta. Il corpo
della lettera deve avere uno spessore preciso, e deve degradare con
un’inclinazione costante e proporzionata verso i vertici, o angoli di
congiunzione dei segmenti di lettera, e verso quelli che chiamiamo
i «ritorni», che sono i riccioli decorativi, o «grazie», a inizio o fine
lettera. Dipingere una lettera è un lavoro faticoso e perfetto. Sono
in grado di riconoscere all’istante una lettera dipinta di fretta o raffazzonata, sento di potermi esprimere sul valore di una frase, e di
giudicare il sentimento che l’ha prodotta. Le «a» di Hina sono declinanti, con una pendenza dettata tutt’altro che dalla fretta, ma dalla
foga di imparare. Ha anche dei ritorni troppo piatti, imprime una
specie di accelerazione al tratto che è uno dei difetti fondamentali
da correggere, perché la scrittura necessita di pazienza e ostinazione.
Sono convinto che non si sia ancora del tutto abituata a portare le
fasce, anche se ha capito che il loro utilizzo è per obbligarle a tenere
la mano ferma e ad avvicinarsi alla superficie da calligrafare con la
massima lentezza e cautela.
Ho aiutato le mie allieve a fasciarsi i polsi e le mani. La fascia non
è che una benda legata stretta al polso e che arriva a coprire la prima
falange delle dita. È molto fastidiosa, qualche ragazza a volte soffre
di crampi, per cui permettiamo di sfasciare l’arto ogni mezz’ora. Io
ho indossato le fasce per diciassette mesi, prima di poter calligrafare
con la mano libera. Oggi forse non riuscirei più a indossarne una
per più di cinque minuti.
Ho cominciato a spiegare la lettera h. «h» è la lettera con la quale
cominciano per convenzione i nostri nomi e i nostri toponimi, ma
è anche una delle lettere più difficili, all’inizio, perché non ha quei
tratti obliqui che sono i più naturali da tracciare. Se si escludono le
lettere curvilinee, difficile quanto la «h» c’è solo la «e», che è però
una lettera che compare meno nei nostri lavori. Quasi tutte le allieve,
almeno all’inizio, hanno la «sindrome da lettera acca», una naturale
difficoltà nel dipingerla che è anche fonte di frustrazione, dato che
si tratta dell’unica lettera che, almeno una volta, con la firma, bisognerà giocoforza inserire nel messaggio. Le ragazze, prima degli
andrea tarabbia

esami di fine corso, confrontano le proprie acca, si danno consigli.
Se devono rimanere sveglie la notte è per la lettera acca. Ho pensato
di introdurre la calligrafia di questa lettera in giardino, perché in
giardino le ragazze sono più rilassate.
vii
Mi sono seduto nel parco, ho acceso una sigaretta, ho chiuso
gli occhi e ho rovesciato la testa all’indietro. Fumare con la testa
parallela al suolo mi dà un senso di vertigine e di lontananza e mi
aiuta a concentrarmi e ricordare. Hida mi ha raggiunto quasi subito. Mi ricordo di te, non ti dimentico, Hida, che non parli più. È
passato poco tempo, e in questo tempo ho imparato ad associare
dei luoghi al ricordo di te. A casa il letto, il nostro letto nuziale. Ho
dormito due mesi sul divano del salotto per non pensarti prima di
prendere sonno. Ma anche l’angolo cottura, so che non è qualcosa
di romantico, ma anche l’angolo cottura. Ho mangiato più spesso
alle mense, nei ristoranti. Oppure mi facevo portare a casa una pizza
da quegli studenti liberi che per arrotondare saltano sui motorini
e fanno le consegne a domicilio. Hida e Horatio, Horatio e Hida,
unici e indivisibili. Ora anche questa panchina mi ricorderà di te,
di quando eri viva, e non ci verrò più, anche se questa volta non ti
aspettavo ed è stato bello che tu sia venuta e mi abbia sorretto la
nuca mentre sputavo il fumo sulle fronde degli alberi.
Mi sono riscosso, mi sono sgranchito il collo e mi sono guardato
attorno. Il parco era quasi deserto perché si avvicinava l’ora del
pranzo e perché le scuole sono ancora aperte e non ci sono bambini
in giro a giocare. Mi sono levato gli occhiali e ho massaggiato a lungo
i globi oculari. Avevo portato da leggere ma non ho letto, quando
Hida mi viene a trovare mi allontana da tutto, mi deconcentra. Ho
cominciato a camminare senza una meta precisa, ho vagato lungo i
viali di sassi bianchi sotto il sole di mezzogiorno e poi sono uscito in
strada. Alcune persone scaricavano degli scatoloni da una camionetta. Se li passavano e li ammucchiavano sul marciapiedi. Ho sentito
che una donna si lamentava perché avrebbe voluto delle scatole di
plastica e non degli scatoloni.

la calligrafia come arte della guerra
«Ma perché di sotto è umido!» ha urlato a un certo punto. «Sotto
marcisce tutto!»
Da qualche giorno hanno tutti una certa fretta, qui fuori. Un’aria
distratta, di quella distrazione che è figlia di una concentrazione su
qualche cosa di più grande e per me insondabile. Sono passato vicino
a un’edicola e ho cercato con lo sguardo i titoli dei quotidiani. Ne
erano avanzati pochi, e quasi tutti sportivi. Sulla prima pagina di un
giornale locale campeggiava la foto di una Porta Rossa sovrastata da
una scritta in stampatello:
succederà?
Ho chiesto all’edicolante di spiegarmi il senso di quel titolo. Mi
ha guardato in silenzio, strabuzzando gli occhi.
«Mi prende in giro?»
«Assolutamente no» ho risposto. «Vengo dall’Istituto Calligrafico,
sono Magister. Come saprà, là dentro non arrivano molte notizie.
Esco non più di una volta o due alla settimana, e ho bisogno di
essere guidato per capire.»
«Oh, mi scusi, Magister. Lei è quindi Magister Horatio? Non
l’avevo mai vista. Non la conoscevo. Mi scusi davvero.»
«Non si preoccupi. Si pensa alla possibilità di un nuovo attentato?»
«Non si capisce. Alcuni dicono di sì, e come avrà visto la situazione è di massima allerta. La gente si sta preparando a un periodo
molto duro.»
«Verranno aperte le Porte Rosse?»
«E chi lo può sapere!» ha esclamato, schermendosi. «Chi lo può
sapere! Le Porte Rosse si aprono all’improvviso per tutti.»
«Ma ci sono state minacce, rivendicazioni, azioni promesse?»
«Niente. Ma la gente si sta preparando al peggio.»
Ho pensato alle scatole di plastica della signora di poco prima.
«È per quello che vedo sempre più gente che ammucchia scatoloni?»
Ha fatto un gesto sprezzante con la mano.
«Ma quelli lì sono i paranoici! Gente che sembra non aver mai
vissuto in questa situazione!» ha detto. Adesso sembrava sul punto
andrea tarabbia

di arrabbiarsi sul serio. «È gente come quella che causerà un sacco
di problemi quando sarà il momento!»
«Perché?»
«Come perché? Perché non si possono portare troppe cose personali dentro le Porte Rosse!»
«Magari è qualcuno che ha le cantine comunicanti con un rifugio
e…»
«Ascolti me» mi ha interrotto, «e lasci perdere quello che dice o
che fa la gente. Quelle lì» e ha indicato un punto impreciso nella via,
«sono tutte cazzate. L’unica cosa che si sa è che le cose non vanno
bene con quelli di là, punto e basta. Bisogna stare attenti, ma non
c’è niente di concreto. Se vuole la mia opinione quelli là non sono
così scemi da fare un altro attentato adesso. È troppo vicino! Vuol
dire sprecare – mi scusi il termine – quello che hanno appena fatto!
C’è un po’ di tensione, e la gente si spaventa, fa la fila in banca e ai
supermercati, ma son cose normali, e non bisogna dargli più peso
di quello che hanno… Capito?»
Ma tutti portano delle grosse scatole piene di cose, le portano da
qualche parte con un’ansia innaturale. Ho cercato un’altra edicola,
altri titoli di giornali. C’è tanto calciomercato, nonostante tutto.
Una soubrette con le tette finte succhia l’alluce di un tizio con la
pancia e il cellulare. Un bambino è stato rapito o è scappato di
casa. Gli exit poll per le selezioni di un reality show ambientato in
un’isola dell’Honduras. Il caldo soffocante. Un video porno con
due minorenni lesbiche diffuso sulla versione porno di youtube,
una beatificazione di nonsochi, Slimfast, il trend per l’autunno che
viene, Qual è il vero successo dell’estate?, il papa cattolico che spiega
che non è omofobico, il perizoma che torna di moda perché «gli
uomini lo preferiscono alle culotte» – istigazione alla masturbazione
maschile – consigli per una abbronzatura sicura da parte di un esperto (di abbronzature?), morti sull’autostrada, la gara d’appalto per
un memoriale alla stazione, i treni e gli aerei in ritardo, last minute
per Tunisi e Sharm-El-Sheik, tette, culi, tartarughe addominali e
un prete che ha abusato di un bimbo in una comunità montana, le
pagine di attualità e cultura che si interrogano sul valore fondante
della Resistenza.
Cammino, respiro. Sento arrivare il fischio all’orecchio. È Hida

la calligrafia come arte della guerra
che mi chiama, e io sto diventando superstizioso. In questa città non
conosco nessuno a parte le mie allieve e i miei colleghi. Se adesso
sto male e cado, nessuno mi verrà ad aiutare. Compro da un ambulante una bibita all’arancia per rinfrancarmi un po’. Il tizio non ha
resto, gli lascio qualche centesimo di mancia. Dietro di lui, le vetrine
d’ingresso del cinema luxuria sono coperte con delle lunghe fasce
nere adesive; al centro di ogni vetrina hanno pittato delle grosse x
viola: tre vetrine, tre x: xxx. Sono entrato in un cinema porno una
sola volta nella vita, a Monaco di Baviera. Vicino alla stazione, sulla
destra, in quello che sembra il quartiere turco, c’è una via costellata
di cinema e cinemini a luci rosse, peep show, cabin show, pornoshop,
table & lap dance eccetera. Sono entrato con Hida perché entrambi
non l’avevamo mai fatto ed eravamo curiosi. Tutti ci guardavano
perché anche per la Germania è strano che a entrare in un posto del
genere non sia un singolo ma una coppia, per di più eterosessuale.
Abbiamo visto uno spettacolo di lap dance durante il quale lei ha
riso tutto il tempo e io mi sono eccitato. Poi siamo entrati in sala
proiezioni e abbiamo visto un porno tedesco di seconda categoria:
Gut, gut…, e colate di sperma in un’atmosfera vagamente cortina
di ferro.
L’ingresso del luxuria è piccolo e buio. Ci transitano persone di
ogni età, ma perlopiù vecchi con la pancia e poco puliti. Il film di
oggi si chiama PornArmageddon or The Big One.
I locali sono molto piccoli, opprimenti, e c’è un continuo viavai di
persone di sesso maschile vestite molto casual, con il tratto comune
dei jeans: deve essere perché è l’unico tipo di pantalone che è in
grado di contenere almeno un po’ l’erezione.
Mi siedo in ultima fila, da frequentatore navigato. Mentre scorrono i trailer di pellicole di prossima uscita comincio subito a sentirmi turgido, e attraverso la porta del bagno ha inizio un’incessante
processione di individui che evidentemente si vergognano a usare i
fazzolettini in sala e a lasciarli nei cestini ricavati negli schienali delle
poltrone. Nella mia fila siamo in due, io laterale e un tizio, sette-otto
poltrone più in là, che appena si è seduto si è calato i pantaloni e
se lo è preso in mano. Penso che quando si alzerà il suo culo avrà
lasciato un’impronta di sudore nel vellutino della poltrona. PornAr-
andrea tarabbia

mageddon or The Big One comincia con l’inquadratura del giardino
di una villa borghese probabilmente californiana. Sì, è californiana:
compare subito la scritta Santa Monica in sovrimpressione. I californiani aspettano il Big One. Il giardino è enorme, pieno di palme.
C’è una piscina e un Cayenne nero è parcheggiato nel vialetto di
ciottoli che conduce alla gigantesca porta di ingresso della villa. Mi
guardo attorno. Compaiono quattro attrici e qualcuno nelle prime
file comincia ad agitare la spalla destra. Le attrici sono tutte vestite
ma sono pornostar molto famose, e questo basta per eccitare gli
spettatori. Un attore molto prestante e decisamente bello fa il suo
ingresso nell’enorme sala della villa di Santa Monica. È avvolto in una
vestaglia rossa da pappone e ha le infradito – cosa che lo rende un po’
ridicolo. Fa un largo giro della stanza e si mette davanti a un’enorme
finestra che dà su un terrazzo affacciato sul Pacifico. La casa è piena
di libri e di quadri. Davanti a lui, in fila sul divano e ancora vestite,
le quattro sorseggiano dei cocktail che si sono servite durante la
brevissima sigla. C’è un momento di silenzio, il regista gioca prima
sugli sguardi, poi scende piano piano: sono tutte e quattro vestite
in modo molto succinto, e gli abiti faticano a contenere i seni. Di
una si intravede un capezzolo già eretto. La camera scende, scova
un ombelico con un piercing dorato e poi scivola lungo le gambe
depilate e accavallate in sequenza delle quattro. Per essere un porno,
è curato, e l’immagine di lui in vestaglia in controluce con l’oceano
dietro fa un certo effetto. Non capisco davvero la scelta dell’infradito,
che rende il personaggio sciatto e gli dà un’aria provvisoria.
Nero.
succederà?
Mi raddrizzo sulla poltrona. La scritta è qui, rimane ferma per
qualche secondo. succederà?
Sono passati tre minuti dall’inizio e non c’è stato ancora nemmeno
uno sguardo lascivo.
L’uomo con la vestaglia comincia a parlare. È un discorso mal
scritto e mal recitato, che suona più o meno così: è stata annunciata
la fine imminente del mondo, pare che rimangano poche settimane
se non pochi giorni di vita al pianeta. (Il motivo di questa catastrofe

la calligrafia come arte della guerra
non viene specificato, ma vedo che in sala non interessa a nessuno).
Io sono molto ricco, con il denaro ho sempre comprato tutto e sono
molto potente. Mi rendo però conto che – testuale – non posso comprare la continuazione della specie, per cui mi rassegno a morire e a
lasciare che tutti i miei beni vengano distrutti. Voglio però finire in
modo degno, ed è per questo che vi ho fatte venire qui. Tutto quello
che vedete qui dentro (allargando un braccio fa un gesto circolare
che allude a tutto quello che lui possiede) è vostro e lo sarà da qui
fino alla fine. Siete le padrone del mio piccolo mondo per il tempo
che ci resta. Vi offro agio, ricchezza e ogni comodità in cambio della
vostra totale disponibilità sessuale e oltre. Voglio che siate lesbiche,
dominatrici, sottomesse, voglio che partecipiate a orge, che vi facciate fare ogni cosa sia possibile fare, voglio che non ci siano filtri
tra voi, me e le mie ricchezze, voglio che vi facciate mettere incinte
e che vi lasciate spiare nelle vostre sfere più intime. Voglio tutto e in
ogni declinazione possibile. Saranno esclusi – precisa – la tortura e
l’omicidio, perché a tutto questo penserà la natura entro breve e noi
dobbiamo vivere quello che ci resta nella gioia. Vi prometterei del
denaro, se ci fosse anche una sola possibilità di poterlo utilizzare. Le
ragazze lo guardano, si scambiano delle occhiate indefinibili.
Poi lui si avvicina a un cassetto, tira fuori delle carte e le lascia
cadere sul tavolo davanti a loro.
Le ragazze prendono i fogli e li sfogliano. Sono i miei estratti conti,
le rendicontazioni di borsa, l’elenco delle mie proprietà demaniali,
dice. È tutto quello che ho, e se accettate è vostro – nostro – da qui
fino alla fine.
In sala qualcuno comincia a mormorare. Dalla terza fila arriva
uno sbuffo. Che cazzo di porno è?, si sente dire.
Le ragazze, naturalmente, accettano. L’uomo a questo punto fa
una cosa curiosa: leva dalla tasca della vestaglia un foglio dattiloscritto e lo fa firmare alle sue ospiti. Dall’inizio di PornArmageddon or
The Big One sono passati quasi dieci minuti. Un tizio seduto poco
davanti a me si alza e fa un gesto di stizza e bestemmia. Vaffanculo.
Che porno è se si parla e non si scopa? Mi passa accanto borbottando
qualcosa sul fatto che si farà restituire i soldi del biglietto. Che film
di merda, non ho mica tempo da perdere, io. Lo sento uscire dalla
andrea tarabbia

sala mentre sullo schermo, finalmente, i primi indumenti cominciano
a cadere sul tappeto.
Per prima cosa, dice l’uomo, vi voglio vedere lesbicare sul divano.
Le ragazze si guardano con lascivia e cominciano a toccarsi i seni
a vicenda, si strizzano i capezzoli e li leccano. Il miliardario, che
nel frattempo ha detto di chiamarsi Joe, si siede su una poltrona di
vimini (citazione di Emmanuelle?) e le osserva. Un’enorme erezione sagoma la vestaglia. Le ragazze sono completamente nude, e si
leccano sul divano. Arrivano da subito dallo schermo le loro urla di
piacere, mentre lui ormai si è aperto la vestaglia e si sta masturbando. La scena dura una decina di minuti buoni. Sento il rumore del
prepuzio del mio vicino di fila che viene sbatacchiato violentemente
a pochi passi da me.
Dall’ingresso, arriva l’eco di una discussione piuttosto animata
tra lo spettatore e il bigliettaio. Non posso restituirle i soldi del
biglietto, abbia pazienza. Come sarebbe a dire? Io non sono mica
venuto qui per vedere un film di filosofia, io! Sono venuto a vedere
un porno! Tette, culi, figa, sborrate! Mi spiace, ma le assicuro che
PornArmageddon è il film migliore dell’anno! A febbraio ha vinto
quattro Oscar del porno a Los Angeles! Non me ne frega un cazzo
se ha vinto quello che ha vinto! Io rivoglio i miei soldi!
Joe sta per venire. La camera indugia sul suo glande arrossato.
È grosso come un barattolo di marmellata. Le ragazze si voltano
a guardarlo e lui le chiama. Tutte corrono verso di lui e gli si inginocchiano davanti: una di loro glielo prende in bocca, mentre altre
due gli mordicchiano le palle prima di levarsi giusto in tempo per
ricevere il fiotto che Joe direziona sui loro volti e sui decolté.
La seconda scena è nella vasca a idromassaggio. Joe e le ragazze
sono già nudi e immersi nell’acqua. Joe non sa più dove toccare e
baciare. La ragazza con il piercing all’ombelico, rimasta disoccupata
per qualche istante, si infila il bocchettone della doccia tra le gambe
e per un po’ si trastulla con quello. Poi Joe se ne accorge, glielo leva
di mano e subito la scopa mentre le altre tre si masturbano sui bordi,
tenendo le gambe ben spalancate in favore della camera.
Lo spettatore picchia i pugni sul banco della biglietteria e tira
una bestemmia.

la calligrafia come arte della guerra
Cambio di scena. Viene inquadrato il cielo. L’oceano è agitato,
schiumano le onde. Nulla di troppo impressionante, nessuna apocalisse sembra annunciarsi. Il vero Big One, al momento, è Joe con
quel suo batacchio smisurato che entra ed esce da ogni buco e viene
utilizzato dalle quattro in tutti i modi immaginabili.
Scena nella piscina.
Scena nel campo da golf.
Scena (classica) sul tavolo da biliardo.
Sull’elicottero personale di Joe, che viene pilotato da una bionda
completamente nuda a cui la ragazza con il piercing sta nel frattempo
lappando le grandi labbra, Joe tenta di inculare una delle altre due,
una rossa che sembra recalcitrante. Per convincerla, Joe le sussurra
all’orecchio la frase migliore di tutto il film: «Vuoi per caso morire
senza aver provato la terza via?» – la seconda, per gli americani,
dev’essere con ogni evidenza la bocca.
Questo basta per convincere la rossa: l’inculata aerea è davvero
un prodigio di tecnica, di stile, di equilibrio e resistenza fisica da
parte di entrambi. Lo spettatore incazzato rientra in sala borbottando proprio nel momento in cui la rossa gode e copre con le sue
urla il rumore del rotore. Lo spettatore si siede in fretta davanti a
me, si slaccia la cintura e sfoga la sua rabbia repressa in un grumo di
fazzolettini di carta. Le ragazze decidono che Joe deve venire fuori
dall’elicottero e lo lavorano facendogli puntare verso il portellone
spalancato. Joe viene copiosamente e qui il regista si concede una
cabrata dello schizzo dal giardino della megavilla.
Colpo di scena. Dall’elicottero, lo schizzo cade in testa a un
tipo biondo e palestrato che si trova sul bordo della piscina e sta
guardando verso l’alto. La testa del biondino viene letteralmente
inondata di bianco (avranno usato del latte, non è possibile spremere
così tanto sperma in una sola volta), mentre altri due uomini che
gli sono vicino scoppiano a ridere; il tizio impreca un po’ schifato e
mette la testa nell’acqua per lavarsi.
«Ha già fatto la scena dell’elicottero, il vecchio Joe!» dice uno
degli altri due, e tutti si mettono a ridere.
«Sì!» dice l’altro. «E ha già fatto piovere!»
Inquadratura di un vulcano in eruzione – ma ci sono vulcani a Los
Angeles?, e altro colpo di genio: dal vulcano si passa direttamente
andrea tarabbia

al glande del biondino che viene immediatamente ingoiato dalla
bionda che guidava l’elicottero.
Joe ha invitato i suoi amici in villa e il resto del film consiste
in una serie di orge più o meno fantasiose compiute nei seguenti
luoghi: in cucina durante una cena, in una camera, nella limousine
di Joe – guidata da chi? – nel caveau al piano interrato, dove Joe
distribuisce lingotti d’oro (che vengono anche utilizzati nella maniera
che si può immaginare), dollari e – dice – «felicità», in giardino, su
un complicato sistema di amache, sopra un albero (con la rossa a
testa in giù inculata da un amico di Joe), nel garage, sulla scalinata
di marmo che si apre nell’ingresso della villa.
L’Armageddon non arriva. In alcune scene piove a dirotto, ci
sono tuoni e lampi, ma i giorni scorrono e sembra non debba più
succedere niente. È passata quasi un’ora e mezza. Attori e spettatori
hanno smesso (se mai hanno iniziato) di farsi domande sulla fine del
mondo che incombe. Infilo un fazzolettino nella tasca della poltrona
davanti, lo incastro tra gli altri. La luce del bagno invade per un
attimo la sala e un tizio torna a sedersi tra noi spettatori.
È chiaro per tutti che il film sta per finire, e la fine arriva con un
vero colpo di scena da romanzo popolare: gli otto sono ospiti di
una grande sala, e ci stanno dando dentro. Joe è dentro la bionda,
che sta ragliando di piacere. Anche Joe sta ululando, il momento
dell’orgasmo è molto vicino anche per lui (l’attore che interpreta
Joe fa una smorfia molto particolare ogni volta che sta per venire, e
quindi è facile per lo spettatore arrivare a capire quando è il momento
per le ragazze di essere inondate di sperma): ma Joe, stavolta, non si
sfila dal corpo della bionda. «Mettimi incinta! Mettimi incinta!» sta
gridando lei, completamente trasfigurata dal piacere. E Joe le viene
dentro. Credo sia l’unico porno della storia dove c’è una scena in
cui un attore viene dentro un’attrice, perlomeno nel buco davanti.
Quando Joe si leva, la camera si ferma a lungo sulla figa della bionda
e sullo sperma che le cola attraverso le labbra. Lei prende Joe per
il collo, lo tira a sé e lo bacia, carezzandogli affettuosamente il Big
One. C’è un momento di silenzio in cui tutti sembrano felici, mentre
in sala torna a serpeggiare un po’ di malumore. Il pubblico non ha
avuto la sua dose di sperma sulle tette siliconate e quindi protesta. A

la calligrafia come arte della guerra
nessuno interessa che le ragazze stiano aspettando di morire e che la
bionda sia felice di affrontare l’apocalisse con del seme nel grembo.
Ma si spalanca la porta d’ingresso. Entrano un signore attempato e
una donna che è evidentemente la moglie. I due si guardano attorno
e vedono gli otto corpi avvinghiati in salone.
«Che cazzo state facendo?» urla l’uomo. «Questa è casa mia!»
I ragazzi si alzano di colpo e arraffano dei vestiti a caso. Il biondo
scappa dalla finestra che dà sul Pacifico. La moglie dell’uomo – una
bella donna cinquantenne – ha un mancamento e si accascia sul
divano.
«Joe!» urla l’uomo. «Joe! Che state facendo? È opera tua, questo?
L’hai fatto di nuovo?»
Joe biascica qualcosa di incomprensibile e fa tre passi indietro.
«Joe! Sei licenziato!» urla l’uomo, furente. «Ti avevo chiesto di
custodire la casa!»
Joe e gli altri due si infilano le vestaglie e senza dire una parola
scappano attraverso il giardino.
Rimangono in casa l’uomo, la moglie svenuta e le quattro ragazze,
ancora nude.
«E voi?» dice l’uomo. «E voi? Siete puttane? Che cosa vi ha
raccontato, questa volta?»
Le ragazze si guardano l’un l’altra e fanno spallucce.
«Ancora quella storia della fine del mondo?»
La ragazza con il piercing si avvicina al padrone di casa e lo bacia
dietro un orecchio. «Non te la prendere, paparino» dice. «Ci stavamo
solo divertendo un po’…»
Si capisce che con una mano sta tastando il pene dell’uomo dentro
i pantaloni. L’uomo suda e si guarda attorno.
«Non facevamo niente di male…» dice ancora la ragazza con il
piercing. La ragazza gli estrae il pene eretto e lo massaggia con le
dita.
«Ma… Signorina… C’è qui mia moglie…» dice lui.
«E via!» dice la bionda, avvicinandosi a quattro zampe all’uomo e
leccandogli il glande. Anche le altre due si avvicinano, lo baciano. La
rossa gli mette in mano un tetta. La quarta lo afferra per un braccio,
gli prende due dita e se le mette sul clitoride. «Rilassati un po’!»
dice. «Tua moglie sta dormendo! Cosa vuoi che sia!»
andrea tarabbia

Le quattro guardano in macchina facendosi passare le lingue
sulle labbra.
«Non è mica la fine del mondo!» urlano.
fine
Esco senza più sentire il fischio all’orecchio. Cammino in fretta ed
evito di guardare in faccia gli altri spettatori. Credo che anche loro
facciano lo stesso. Fa molto caldo. Anche dentro al luxuria faceva
caldo, ma dopo un po’ ho smesso di preoccuparmene. Anche il bigliettaio, ho visto, aveva uno scatolone dietro la cassa, su cui aveva
appoggiato un espositore di caramelle. Sulle alette dello scatolone
c’era la scritta Kleenex, e per un attimo mi sono vergognato.
Ciao Hida. Non ho voglia di parlare. Voglio arrivare al mio nido e
aspettare la notte sgranocchiando dei cracker che andrò a comprare
sulla via del ritorno. Non c’è nemmeno una nuvola, il cielo è pulito
come quello di Santa Monica, stanotte avrò voglia di riempirmi la
testa di costellazioni.
viii
Poi è caduto un desiderio, o così mi è sembrato all’inizio. Una
lunga scia di luce, per un attimo, ha illuminato la volta del cielo
con una parabola discendente e si è infilata dietro la collina. Si è
sentito subito il rumore di uno schianto, e il vetro del mio pertugio
ha vibrato tremandomi addosso mentre il pezzo di mondo da cui
provengo, e che sta dietro la collina, si accendeva come il culo di una
lucciola. Subito ha brillato qualche luce nell’Istituto, e, ho scoperto
poi, anche nel resto della città. Tutti quelli che si sono svegliati o
che non dormivano si sono ritrovati come per un convegno pattuito
nella spianata del giardino, con il naso rivolto all’insù.
«Avete sentito?»
«Sono arrivati, sono arrivati!»
«Io ho visto, ho visto tutto! Ero alla finestra e ho visto tutto!»
Io e il preside Herbat abbiamo tentato di calmare gli animi e di
far abbassare le voci. È inutile svegliare le bambine e preoccuparle.
Ho telefonato a casa, mentre il preside Herbat convocava tutti noi
professori nel suo ufficio. La bomba è caduta nelle campagne a pochi

la calligrafia come arte della guerra
chilometri da qui, non ha toccato i paesi della zona. Sono andati a
fuoco alcuni ettari di campi, e alla periferia di Hebru si è formata
un’enorme buca geologica nel punto esatto dove quel mostro di
metallo ha impattato con la terra. Non ci sono morti. Per tutta la
notte abbiamo sentito i mezzi dei pompieri e della protezione civile
sfrecciare lungo le strade illuminate della città per raggiungere il
cratere della bomba e spegnere l’incendio.
Siamo entrati nell’ufficio del preside mentre era al telefono con
qualcuno. Ci siamo distribuiti lungo le pareti della stanza, rimanendo
in piedi. Nessuno ha osato sedersi sull’unica sedia, e tutti guardavamo fuori dalla finestra.
«Ero al telefono con il capitano dell’esercito» ha detto Herbat
quando ha concluso la telefonata. «Il generale Homanat è già sul
posto, per cui potremo parlare con lui non prima di domani mattina. Il capitano non mi ha potuto fornire informazioni precise,
perché anche loro, al momento, sono in attesa di chiarimenti. Di
sicuro è stata una bomba ed è finita in un campo: difficilmente chi
l’ha lanciata ha sbagliato bersaglio di così tanti chilometri. L’ipotesi
più attendibile è che sia stato un lancio di avvertimento, anche se
bisogna recuperare l’ampolla per leggere il messaggio.» Il preside
si è acceso la pipa e ci ha guardati per un po’. «Hanno voluto dare
una dimostrazione di forza» ha aggiunto.
«Comincia la controffensiva» ha detto una voce.
«Non sappiamo ancora niente, e per le ragazze ufficialmente
non è accaduto nulla di particolare fino a quando non riceveremo
dall’esercito informazioni e istruzioni precise» ha detto Herbat.
Ci siamo guardati l’un l’altro per un istante.
«Dovevamo aspettarcelo, doveva succedere, prima o poi» ha
detto Hanna, la prima Lector. «Sembravano settimane tranquille.»
«Non cominciamo a fasciarci la testa» ho detto, «tutto fa pensare
che sia un lancio di avvertimento e niente di più.»
«Niente di più!»
«Intendo dire che, in un certo senso, possiamo interpretare questa
bomba come un’azione diplomatica, più che come un bombardamento. Non stanno lanciando più niente da un’ora. Se volevano
distruggere un villaggio potevano farlo, e non l’hanno fatto.»
andrea tarabbia

«Ma come è potuto accadere? Con tutto il sistema di sorveglianza
che…»­
Il preside Herbat si è alzato dalla scrivania e ha guardato fuori
dalla finestra. Ha preso un elastico dal davanzale e ha cominciato a
rigirarselo tra le nocche della mano sinistra.
«Non si sa» ha detto. «Il generale non me lo ha saputo spiegare.
Si capisce che è la prima cosa che ho chiesto. Lei ha sicuramente
ragione» ha aggiunto, voltandosi verso di me, «è la stessa cosa che mi
è stata detta al telefono. Tuttavia non possiamo pensare che, da qui
in avanti, la situazione non avrà una sua evoluzione. Verrà chiesto il
nostro aiuto e noi dobbiamo farci trovare pronti: sono convinto che
non più tardi di giovedì riceveremo il pezzo da decifrare.»
«Probabilmente è una richiesta» ho detto io.
«Una richiesta?»
«In aperta campagna è più facile recuperare i pezzi e ricomporli.
Se è un’intimidazione o una serie di condizioni, vogliono che abbiano
effetto immediato.»
«In ogni caso» ha detto Herbat, con il solo pollice libero dalla
presa dell’elastico, «da domani si torna nelle aule. È più sicuro e le
ragazze non devono vedere cosa succede fuori. Hanna, si prenda
delle ore in più, nel pomeriggio, per le ore di lettura, ma non le
spaventi. Se le chiedono qualcosa, risponda, ma dica loro che il
pericolo è ancora lontano.»
Sono risalito nel mio nido con una voglia irrefrenabile di uscire e
di andare sul posto. I nidi dei professori sono in corsie separate da
quelle delle ragazze, e tuttavia, per arrivarci, noi docenti dobbiamo
attraversare uno dei loro corridoi. È anche un modo per farle sentire
controllate e per costringerle a non fare baccano.
Appena sono arrivato al piano ho cominciato a camminare con
lentezza. Ho avuto la tentazione di accostare l’orecchio alle porte
e di ascoltare i rumori all’interno. Ma tutto sembrava tranquillo, le
porte erano chiuse e non si sentivano voci, solo il rullio degli impianti
ad aria condizionata. Probabilmente dormivano tutte quante al momento dell’esplosione, e non si sono svegliate: se si tengono chiuse
le finestre, i nidi sono protetti dai rumori esterni, anche se quello
di una bomba che scoppia a pochi chilometri dovrebbe scavalcare
l’insonorizzazione.

la calligrafia come arte della guerra
Ho passato tutte le stanze della mia ala, finché ho sentito chiamare il mio nome, preceduto dal titolo onorifico di Magister. Mi
sono voltato di scatto, quasi spaventato. Hina stava in piedi a pochi
metri dietro di me, a piedi nudi, con indosso una vestaglia da notte
bianca e accollata e le mani intrecciate sulla pancia.
«Magister, sono Hina.»
«Hina! Cosa ci fai ancora sveglia? Lo sai che non potete uscire
dai vostri nidi durante la notte?»
«Magister, cosa è stato? Ho sentito un rumore enorme…»
«Non parlare ad alta voce in corridoio, sveglierai qualcuno.»
L’ho portata dietro l’angolo della corsia dei docenti.
«Parla a bassa voce anche qui» ho detto, «sono tutti svegli.»
«È stata una bomba, vero?»
«Come hai fatto ad accorgertene?»
«Io di notte prima di dormire guardo un po’ fuori, tengo la
finestra aperta.»
«E la tua compagna?»
«Chi? Holivia? Si addormenta sempre verso le nove. Le leggo
una storia. Non le dà fastidio se tengo accesa la luce.»
Aveva i capelli sciolti e neri, arricciati sulle tempie.
«È stata una bomba, vero?»
«L’hanno lanciata lontano, in campagna. Abbiamo telefonato alla
caserma per informarci. Non è successo niente.»
«Ma l’hanno lanciata!»
«Sì, ma non hanno voluto uccidere, non ancora. Domani sarà
una giornata come le altre. Con ogni probabilità è una bomba diplomatica, ne hai mai sentito parlare? Hanno voluto dirci qualcosa.
Nei prossimi giorni ci sarà un po’ da lavorare.»
L’ho vista che tremava sotto la camicia da notte, e mi guardava
fisso negli occhi.
«Non avere paura» le ho detto. «Qui dentro siamo al sicuro. Non
devi dire niente alle tue compagne, quello è compito nostro.»
Ha fatto di sì con la testa. Mi ha chiesto se potevo riaccompagnarla verso il suo nido. Si è girata a guardarmi sulla soglia.
«Comincerà di nuovo la guerra?»
«Non è mai finita. Probabilmente è iniziata una nuova fase, ma
dobbiamo aspettare per poter capire.»
andrea tarabbia

Mi ha abbracciato stretto, a lungo, ho sentito le ossa del suo
sterno premere contro la mia pancia e tremare.
ix
Sogno. Sono seduto sopra un’escrescenza del terreno che è sotto
un ulivo. C’è il sole e fa caldo. Non riesco a leggere il titolo di copertina del volume che ho tra le mani e che sto leggendo tenendo
ferme le pagine con la mano aperta perché c’è vento. Sono molto
concentrato, anche se nel sogno non sono in grado di distinguere le
parole che mi passano sotto gli occhi. Forse è Mentre morivo. Sento
un colpo molto lieve sul piede destro, ho un piccolo sussulto perché
ero molto concentrato. Una lucertola giovane è andata a sbattere
contro la suola della scarpa, chissà come ha fatto a non accorgersi di
me. La guardo che scappa via a scatti nervosi. Seguo con gli occhi la
traiettoria della sua corsa, che è molto irregolare: sbatte di continuo
contro i sassi e si lascia sorprendere dalle gibbosità del sentiero. A
pochi metri da me, prima di infilarsi in un pertugio, riesce addirittura
a ribaltarsi. Si gira subito, sparisce.
Riprendo a leggere, sono sempre più convinto che si tratti di
Faulkner. Mentalmente, nel sonno, mi ricordo di Darl. Sento un
altro colpo, questa volta alla spalla. Mi volto di scatto, una seconda
lucertola, anch’essa molto giovane, rotola giù dalla mia camicia e
si sfracella. Si volta con un colpo di coda, muove nervosamente il
collo a destra e a manca, corre via terrorizzata. Mi guardo un po’
attorno, butto lo sguardo verso l’ulivo sopra di me. Un’altra lucertola
mi cade sulla coscia. Questa volta l’ho vista staccarsi dall’albero e
cadere e ho lanciato un urlo che non ha sentito nessuno. La bestia
scivola lungo i jeans e atterra su un sasso. Mi guardo attorno senza
capire. Un’altra lucertola plana tra le pagine 114 e 115. Per un riflesso incondizionato, mollo il volume e lo lascio cadere, chiudendovi
involontariamente dentro l’animale spaventato. Poi me ne cade
un’altra sulla spalla, mentre quella nel Faulkner si libera del libro
e fugge lontano. Un’altra, sulla gamba. Tento di alzarmi, ne sento
qualcuna piovere sulla schiena e comincio a divincolarmi, mi tocco
convulsamente dappertutto perché sono terrorizzato dal fatto che
una di loro possa infilarsi dentro la camicia. Guardo di nuovo verso

la calligrafia come arte della guerra
l’alto: da tutto l’ulivo stanno piovendo lucertole, cadono a intervalli
regolari, piombano sul terreno e su di me. Si staccano dai rami e si
lasciano cadere nel vuoto a peso morto. Una di loro mi atterra su
una lente, si aggrappa con le sue ventosine al vetro e lo unge. C’è
una frazione di secondo in cui io e lei ci guardiamo, divisi solo da
una lama di vetro ottico. I suoi occhietti miopi che si muovono in
tutte le direzioni, la sua linguetta da rettile. Getto gli occhiali lontano
con uno strattone. Ho lucertole tra i capelli, continua a piovere e
per me è molto difficile fuggire da sotto l’ulivo.
Urlo, mi divincolo, strappo via le lucertole dalla testa. Mi sembra di sentirle gridare quando le afferro e le lancio lontano. Ho dei
sussulti di vomito, mentre le bestie cadono dall’albero come olive
e mi ricoprono, e ricoprono il terreno attorno a me con uno strato
di carne fredda e nervosa. Ci sono tre dita di lucertole ai miei piedi
e non vuol smettere di piovere dall’ulivo. Riesco finalmente a fare
un balzo in avanti, mi tolgo la camicia e la rivolto molte volte per
vedere se è invasa di animali. Raccolgo Faulkner. Dall’ulivo piove
ancora questa cascata eterna di animali, proviene dal terreno un
rumore sordo che è la somma di centinaia di piccoli tonfi di corpi in
caduta libera e in fuga verso altre zone del giardino. Cerco e trovo
gli occhiali, sono sporchi di terra e una lente porta la sagoma del
corpo di lucertola che l’ha impressa e mi ha guardato.
Guardo l’ulivo da lontano, con un occhio solo. Un muro di squame cade ancora in tutto il suo disordine e in tutto il suo nervosismo
e l’albero sembra non doversi svuotare mai. Vomito da in piedi,
perché ho paura ad accovacciarmi. Comincio a correre.
x
Piove. Piove su questa terra dove da secoli non piove più, piove
una pioggia densa e fitta che ingrassa il terreno sotto gli ulivi e lava
via la polvere e il caldo e le lucertole che non ci sono.
C’è sempre qualche cosa che cade dal cielo, e che si rovescia
sopra queste nostre teste sempre tese per un motivo o per l’altro
a guardare all’insù. La pioggia ci ha risparmiato di dover spiegare
alle ragazze perché, all’improvviso, abbiamo deciso di non tenere
più le lezioni in giardino.
andrea tarabbia

Appena sveglio, ho aperto la finestra del nido e mi sono messo
a guardare fuori. Ho visto un’alta torre di fumo nero che rimaneva
ferma nell’atmosfera, sospesa sopra quel pezzo di campagna massacrato e cosparso di uomini e militari che cercano un’ampolla da
decifrare tra le sterpaglie e i campi coltivati. Ho pensato che difficilmente le ragazze non vedranno la torre nera, e non potremo fare
finta di niente per molto.
Ci siamo trovati tutti quanti in sala professori per ripianificare il
programma didattico. Hanna non ha dormito, si è presentata con un
enorme paio di occhiali da sole che nascondevano le occhiaie. «Ho
guardato fuori fino all’alba» mi ha detto invece di salutarmi. Avevamo
tutti delle facce piuttosto tese, Horson si grattava continuamente il
pizzetto da junghiano mentre prendevamo posto attorno al tavolo
e aspettavamo il preside Herbat.
«Hanno già completato il recupero» ha detto il preside entrando.
«L’ampolla è stata ritrovata questa mattina poco prima dell’alba dagli
artificieri. Era a qualche centinaio di metri dal punto dell’impatto,
perfettamente integra. Il generale Homanat, con cui ho parlato al
telefono mezz’ora fa, ha chiesto un incontro con me e con voi per
oggi pomeriggio. Dice che ci verrà portata al più presto l’ampolla
da decifrare, non appena gli artificieri avranno dato il nulla osta al
trasferimento.»
Mi è sembrato che l’aria sopra il tavolo vibrasse per un momento, come scossa dal colpo di coda di una lucertola. Siamo rimasti
in silenzio per alcuni secondi, chi guardava i volti degli altri, chi
fissava il vuoto, chi giocherellava con un pezzo di matita. È stato il
preside Herbat a riprendere la parola: «Tra poco le ragazze saranno
in refettorio» ha detto, «e per loro comincerà una giornata in tutto
e per tutto normale.»
Ha estratto la sua pipa dal cassetto, e con essa il suo supporto
di legno. Ha appoggiato il corpo del braciere sulla struttura del
supporto, ha cercato il tabacco e ha cominciato a caricarlo facendo
pressione col pollice. Poi si è abbassato verso il tavolo, ha preso in
bocca il bocchino appoggiando il mento alla superficie di legno e con
la mano sinistra ha avvicinato il fiammifero al braciere. Si è acceso la
pipa e ha tirato una lunga boccata caramellando l’aria sopra il tavolo.
«È inutile che vi ripeta che non bisognerà allarmarle.»

la calligrafia come arte della guerra
«Cosa diremo?» ha chiesto Hanna, inarcando le sopracciglia
sopra la montatura. «Mi sembra naturale che non possiamo far
finta di niente.»
Mi sono voltato verso la torre nera bagnata di pioggia.
«Ha ragione» ha risposto Herbat. «Andando in refettorio noteranno sicuramente la colonna di fumo. Bisognerà tranquillizzarle,
dire loro che sono al sicuro e che al momento non è accaduto niente di grave. Le convocheremo tutte quante nell’aula magna dopo
colazione.»
Hanna si è passata due dita sul naso, sotto gli occhiali.
«Bisogna anche che sappiano che in questi giorni intensificheremo le ore di lettura e calligrafia» ho detto. «Bisogna dire tutto così
com’è. È inutile fare giri di parole.»
Horson mi ha guardato tirando un sospiro. «Ha ragione. Ma
alcune di loro sono qui da poco…» ha detto. «Non dico che non
debbano sapere, ma lei deve tenere conto che ci sono casi di ragazze
che hanno perso la famiglia da poche settimane, qualcuna solo da
alcuni giorni. Alcune sono molto piccole, per loro la guerra non
c’è mai stata, o comunque è cominciata nel momento in cui sono
diventate orfane. Non conoscono le ragioni del conflitto, non si
spiegano perché i loro genitori siano morti. Non si può spiattellargli
tutto in faccia in tre frasi.»
«Ma non sono qui per imparare l’arte del messaggio, della disciplina e dell’amor patrio?» ho detto io. Herbat mi ha fulminato
con un’occhiata.
«Non volevo essere cinico. Intendevo dire che mi sono sembrate
tutte molto, come dire… Coscienti di quanto ci succede intorno.»
Horson si è drizzato sulla schiena. «Oh, sì. Ma perlopiù sono
bambine, non se lo dimentichi. Non è certo una formula ripetuta
davanti alla classe che le può rendere consapevoli appieno della loro
situazione e di quella di tutto il paese. La maggior parte di loro, quando è a colloquio con me nel mio studio, non riesce a parlarne.»
Si sono sentite alcune voci femminili provenire dal corridoio.
Le ragazze uscivano dai bagni collettivi dopo essersi lavate e andavano verso il refettorio per la colazione. Senza dire niente, il
preside Herbat si è alzato all’improvviso e ha aperto la porta della
sala professori. Il flusso dei passi si è bloccato all’improvviso, e un
andrea tarabbia

enorme «Buongiooorno!» ha riempito la stanza. Tutte le nostre allieve ferme ritte all’impiedi e voltate verso la figura del loro preside
con la pipa in bocca.
«Buongiorno a voi. Non fate tutto questo rumore, per favore.
Siamo in riunione» ha detto lui. «Oggi piove, perciò le lezioni si
terranno nelle classi secondo il programma, ma prima abbiamo
bisogno di comunicarvi alcune cose. Ci vediamo dopo colazione
nell’aula magna. Arrivederci.»
Herbat ha richiuso la porta ed è tornato al posto.
«Non doveva farlo, non così» ha detto Horson.
«Che cosa?»
«Lei non era mai uscito per salutarle prima di colazione, e noi
non abbiamo mai fatto una riunione alla mattina presto.»
C’è stato un attimo di imbarazzo. Ho pensato che all’interno di
quel flusso compatto una di loro, Hina, sapeva già tutto e forse non
si era stupita di vedere il preside.
Haron, il professore di storia, si è alzato, e ha cominciato a caricare la macchinetta del caffè. «Chi ne vuole?» ha chiesto. Abbiamo
alzato la mano in due.
«Non ci ho pensato» ha detto Herbat. «Ma in qualche modo bisognava avvisarle della riunione in aula magna, e ho pensato che…»
«Non si preoccupi» ho detto, indicando fuori dalla finestra. «C’è
una colonna di fumo nero alta almeno 70 metri a pochi chilometri
da qui. L’avranno vista tutte e ne avranno già discusso. Le più grandi
forse lo avranno capito, e in ogni caso entro mezz’ora scopriranno
tutte quante cosa sta succedendo.»
Haron ci ha portato i caffè e si è seduto a mescolare lo zucchero.
«Immagino che i nostri orari saranno ridotti» ha detto.
«I nostri orari?»
«Quelli di chi non è né Lector né Magister calligraphiae. Non
è vero che le lezioni si terranno secondo il programma. Ragion di
Stato.»
«È naturale» ha detto Herbat. «Prenda per favore i registri.»
Haron si è alzato di nuovo, con il bicchiere di plastica in mano. È
andato all’armadio e ha tirato fuori i registri di tutte le classi. Herbat
li ha messi davanti a Hanna e a me.
«Prendete carta e penna e segnate i nomi delle alunne migliori

la calligrafia come arte della guerra
nelle vostre discipline, per favore. Lei, ormai, dovrebbe conoscerle»
ha detto, rivolgendomi l’ultima frase.
«Le alunne che non compariranno in quei due elenchi faranno
lezioni alternative con voi» ha detto poi Herbat rivolgendosi a Haron
e agli altri presenti. «Si tratta di qualche giorno, abbiamo bisogno
che le alunne migliori si esercitino molto seriamente.»
Il preside ha poi chiesto di vedere gli elenchi, il mio e quello di
Hanna. Su entrambi, ho notato, comparivano quasi gli stessi nominativi, in tutto una quindicina per foglio.
Herbat ha letto con attenzione i fogli e poi mi ha guardato a
lungo.
«È qui da poco, lo so» ho detto. «Ma è necessario che ci sia.»
Horson si è fatto passare il foglio da me redatto e ha sgranato
quasi subito gli occhi.
«È qui da poco?» ha esclamato. «È qui da meno di un mese!
Non ha ancora finito il primo giro di alfabeto!»
Tutti hanno voluto leggere il nome che avevo scritto. Sono
stato tentato per un istante di raccontare l’incontro notturno, e di
giustificarmi dicendo che non me la sentivo di lasciarla fuori dalle
attività, ma non l’ho fatto, ho aspettato che finisse il giro di lettura
mentre Horson sproloquiava che la situazione era molto seria, che
Hina non era pronta, e che la morte dei genitori era ancora troppo
fresca per farla partecipare a un atto di guerra. Sollevando il suo
pezzo di braccio il preside Herbat ha messo a tacere tutti e mi ha
guardato di nuovo a lungo.
«Magister» ha detto, «lei è davvero sicuro della sua scelta? Ci può
fornire delle motivazioni che siano almeno plausibili?»
«Hina non ha ancora appreso tutto l’alfabeto, ma ha talento» ho
detto. «Si impegna e riesce bene, anche se per ovvie ragioni non può
essere tra le più brave. Ma per quanto ne sappiamo, questa situazione può andare avanti per settimane o mesi, e lei prima di Natale
compirà sedici anni. Non mi sembra giusto escluderla dalle lezioni.
Lei si è iscritta per imparare, e voi l’avete accettata. Se il momento
impone un cambio nei programmi, non è comunque giusto che la
ragazza venga privata della possibilità di studiare calligrafia. Per
quanto riguarda me, avere un’allieva in più o in meno non cambia
le cose.»
andrea tarabbia

«Non è l’unica in quella situazione» ha detto Horson.
«Invece sì. Nessun’altra delle ultime arrivate ha più di quindici
anni.»
«Questo le causerà dei problemi con le compagne.»
«Sarà tutto lavoro per lei, dottor Horson.»
«Bene» ha detto Herbat interrompendoci. «Se siete tutti d’accordo, Hina seguirà le lezioni di calligrafia… e di lettura.» Ci siamo
voltati tutti verso Hanna. «Il gruppo delle prescelte deve rimanere
compatto, le quindici ragazze seguiranno lo stesso programma intensivo con voi due. D’accordo?»
Tutti abbiamo annuito.
«Bene. È deciso. Dividetevi le quindici in due gruppi, uno da
sette e uno da otto. Mettete Hina in quello da otto. Il gruppo che
la mattina lavorerà con la Lector farà calligrafia nel pomeriggio
e viceversa. Vi lascio la completa gestione dei gruppi, anche se,
naturalmente, passerò spesso a farvi visita. Prenderete le aule H1
e H2, si comincia subito dopo l’assemblea in aula magna.» Herbat
si è interrotto per un istante, ha tirato una lunga boccata dalla sua
pipa, e poi: «Quando il generale Homanat verrà in visita all’Istituto»
ha aggiunto, «vorrà parlare con le ragazze, oltre che con tutti voi.
Probabilmente insieme a lui arriverà anche l’ampolla, e bisognerà
cominciare a lavorarci al più presto. Preparate le allieve all’incontro.
Io non ho più niente da dirvi. Abbiate tatto, soprattutto chi avrà a
che fare con le allieve più grandi. Buone lezioni.»
Tutti ci siamo alzati dai nostri posti. Ho raccolto i bicchieri di
plastica e li ho gettati nel cestino, mescolando fra loro i fondi di caffè.
Prima di uscire ho sentito la mano di Herbat sfiorarmi una spalla.
«Ci fidiamo di lei» ha detto.
xi
Abbiamo radunato le nostre ragazze. Le finestre dell’aula magna
sono più ampie di quelle delle altre sale, entra più luce, e non mi
aspettavo di trovarvi un’atmosfera così buia. Pioveva obliquo contro
le superfici verticali dei vetri, e l’enorme torre nera pareva gettare un
cono d’ombra su tutta la città e sull’Istituto che ne è il culmine. Ho
deciso di aprire tutte le tende, perché le ragazze, entrando, potessero

la calligrafia come arte della guerra
trovarsi subito di fronte alla torre nera, che del resto dovevano aver
già visto. Le abbiamo attese distribuendoci sul tavolo a mezzaluna
dei relatori, col preside al centro e me e Hanna ai lati. Horson è
andato a prenderle in sala mensa. Herbat aveva svuotato la pipa e se
la rigirava in mano osservando il movimento delle proprie nocche.
Mi sono voltato verso Hanna: «Togliti gli occhiali» le ho detto. «Non
c’è motivo per cui tu debba tenerli e mostrarti nervosa. È almeno
mezz’ora che non parli.»
Se li è tolti, e ha cominciato a massaggiarsi le occhiaie.
«Non me lo aspettavo, tutto qui. Non è la mia prima bomba, ma
eravamo convinti nonostante tutto di essere in un periodo di calma
relativa, e forse mi ero convinta di essere al sicuro. Voglio vedere le
ragazze, con loro mi scioglierò e tutto sarà normale.»
Sono entrate in fila a due a due, seguite da Horson che le contava mentre varcavano la soglia. Hanno preso posto in silenzio sulle
sedie, guardando fuori dalla finestra, oltre il muro d’acqua. Ho
cercato Hina con lo sguardo, lei guardava me e non ha sorriso. Era
seduta accanto alla bambina con cui condivide il nido e le teneva
una mano sul grembo.
«Buongiorno, ragazze» ha esordito Herbat, e subito si è voltato
verso la finestra. «Vi starete domandando la ragione per cui vi abbiamo convocate tutte quante qui a quest’ora insolita per un’assemblea
d’Istituto… Vi starete anche chiedendo, immagino, cosa sia e perché
sia comparsa la colonna di fumo nero che vedete se guardate fuori
dalla finestra…»
Dicendo questo, Herbat ha indicato con il manico della pipa la
torre nera oltre la pioggia, e tutti ci siamo voltati di nuovo.
Piovono gocce grosse come scarafaggi, creano dei piccoli pieni
d’acqua circolari sui vetri. L’acqua si slabbra subito, comincia a colare verso terra e ad allungarsi, lascia degli aloni che vengono subito
lavati via da un nuovo scarafaggio pronto a farsi vincere dalla forza di
gravità e a infilarsi nelle guarnizioni basse dell’infisso. Il rumore della
pioggia viene amplificato dal tetto che ci sta sopra e ci protegge, e a
tratti è così intenso che sembra una festa di corpi in caduta libera.
Herbat è costretto a ripetere l’ultima frase per farsi sentire anche
dalle ragazze che hanno trovato posto nel fondo dell’aula.
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
«Questa notte, non credo che qualcuna di voi se ne sia potuta
accorgere» io e Hina ci guardiamo senza espressione, «è successo
qualcosa di molto importante nelle campagne attorno a noi: è stata
lanciata una bomba d’avvertimento che non ha causato né morti
né feriti perché è caduta in un’area coltivata e completamente disabitata.»
Le ragazze mormorano, le più piccole chiedono qualcosa alle più
grandi. «Buone, buone» dice Herbat. «Non c’è da allarmarsi e da
aver paura: per il momento ci vogliono soltanto comunicare qualcosa. Quella lunga colonna nera di fumo è il risultato del lancio di
stanotte, che non può essere definito un vero e proprio attacco. Gli
artificieri e l’esercito si sono mobilitati e hanno già recuperato l’ampolla col messaggio calligrafato e ce la porteranno al più presto. Per
il momento non sappiamo ancora cosa intendano chiederci o dirci
attraverso l’ampolla, anzi, sarà compito nostro decifrarlo ed elaborare una risposta di comune accordo con il generale Homanat.»­
Tutte le ragazze hanno cominciato a parlare tra loro animatamente
e si sono zittite soltanto dopo che Herbat e Horson si sono messi a
urlare di fare silenzio.
«Non corriamo nessun pericolo» ha detto Horson. «Noi non
siamo un obiettivo e non lo possiamo essere. In ogni caso, lo ripetiamo, la città non è stata oggetto di un attacco. È stata una bomba
diplomatica, come l’ha definita il vostro Magister. Ce ne saranno probabilmente altre, e dobbiamo accoglierle con tranquillità perché non
costituiscono un pericolo per le nostre vite e il nostro lavoro.»
«Sì» lo ha interrotto Herbat, agitando il moncherino nell’aria
vuota, «si è trattato di un messaggio, di un avvertimento. Conosceremo presto il senso reale di questa iniziativa nemica, ma tutto
sembra indicare che non abbiamo nulla da temere e che voi dovete
continuare a comportarvi come avete sempre fatto.»
Herbat ha cominciato a dare istruzioni alle ragazze sul nuovo
regime di insegnamento provvisorio. Ha chiesto a Hanna di allungargli il foglio con i quindici nominativi delle prescelte, ha posato la
pipa e li ha letti ad alta voce. Le quindici ragazze, Hina compresa,
si sono alzate e hanno ringraziato. Hina era la più stupita, e deve
aver capito cos’era successo perché mi ha guardato.
Haron e gli altri hanno preso in consegna le ragazze rimaste e sono
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la calligrafia come arte della guerra
usciti dall’aula magna per andare a lezione. Noi abbiamo spiegato
alle quindici quello che si chiedeva loro.
xii
Abbiamo scritto per molte ore, quel primo giorno. Alcune ragazze
erano brave, molto avanti con la preparazione. Ho voluto che Hina
si posizionasse davanti, vicino a me e di fianco a quella che tra tutte
mi sembra la calligrafa più dotata. Davo ordini che Hina non poteva comprendere e Hasja, la prima della classe, aveva la pazienza di
aiutarla. Nessuna di loro mi ha fatto domande sul perché fosse nel
gruppo un’allieva che non aveva ancora terminato di apprendere
l’alfabeto, probabilmente tutte sentivano il peso di quanto sarebbe
successo di lì a poche ore o giorni e non badavano alle contingenze.
Hina è parsa molto stupita della velocità con cui le sue compagne
sanno mettersi le fasce, ma non ha mai mostrato imbarazzo e si è
applicata al meglio.
Lavoravamo con le tende aperte, per far entrare più luce. Calligrafare un’ampolla con la luce artificiale rende più facile commettere
delle imperfezioni, e quella luce grigia di pioggia era comunque preferibile ai neon dell’aula H1. Non sapendo con che frase cominciare,
ho pensato di far scrivere, in caratteri sempre più minuti, ritornati
e precisi, il testo dell’incisione che ci accoglie quando entriamo
nell’edificio centrale: Semper laboremus quia in labore est laetitia.
Ascoltavo il rumore dei pennelli sulle superfici delle ampolle e
guardavo fuori dalla finestra verso la torre nera.
«Magister, ho finito» ha detto Hasja dopo un’ora.
Mi sono avvicinato a lei e ho cominciato a controllare le frasi
che aveva scritto.
«Se vuole, intanto che le altre finiscono, posso dare una mano a
Hina con la sua ampolla.»
Hina non aveva ancora terminato il primo giro di frasi. Mi sono
avvicinato e le ho chiesto come andasse il lavoro.
«Magister» ha risposto, «faccio molta fatica. È molto difficile la
q.»
«Lo so. È perché non l’hai ancora studiata. Hasja si è offerta di
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aiutarti. Farai molti più progressi stando qui qualche giorno che in
due mesi con la tua classe.»
«Lo so, Magister. Grazie.»
Hasja si è seduta accanto a Hina e ha cominciato a guidarle la
mano lungo l’ampolla. L’ora di pranzo è arrivata velocemente, e
mezz’ora prima che suonasse la campanella ho detto alle ragazze di
posare i pennelli, di togliere le fasce e lasciare che girassi fra i treppiedi per controllare gli esiti. Hina è stata l’unica a non terminare il
compito, ma, con l’aiuto di Hasja, aveva fatto un buon lavoro. Mi
sono complimentato con lei. Hasja potrebbe lavorare senza fasce,
ormai, e come lei almeno altre due allieve sono diventate calligrafe
esperte. Nella nostra scuola, dire a un’allieva che è in grado di lavorare senza fasce è la lode più grande, è come conferirle il massimo
dei voti.
Hina mi ha avvicinato mentre tutti uscivamo dall’aula per andare
a pranzo. «Magister» ha detto.
Aveva la mano arrossata e la fascia le aveva lasciato dei piccoli
segni orizzontali lungo la circonferenza del polso.
«Ti fa male la mano?» ho chiesto.
«Non avevo mai lavorato con questo ritmo. Faccio molta fatica.
Senza Hasja…»
«Sei brava» l’ho interrotta. «Ci sono molte cose che non conosci,
ma sei intelligente. In qualche giorno di immersione completa nello
studio acquisterai la manualità necessaria per liberarti dei segni sui
polsi e per lavorare in scioltezza.»
«Lei sa benissimo che non sono all’altezza. Perché mi ha scelta?
Per l’altra notte?»
«Non voglio che tu rimanga indietro, tutto qui. Non te lo meriti.»
«Ma mi mancano le basi…»
L’ho presa da parte. Lei mi guardava, massaggiandosi il polso.
«Faranno quanto promesso?» ha chiesto.
«Non lo so. Non credo che il messaggio ce lo dirà, che sarà così
chiaro. Pomeriggio va’ alla lezione di lettura, impegnati e non ci
pensare.»
Hina continuava a sostenere il mio sguardo. «Ha informato gli
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la calligrafia come arte della guerra
altri docenti di quanto scrivevano i giornali prima che io e lei arrivassimo qui?»
«No. Hanno preso così male i fatti di questa notte che è meglio
aspettare qualche giorno, e vedere prima cosa c’è scritto sull’ampolla.»
«Ma qui dentro» ha detto poi, «del massacro di L. qualcuno sa
qualcosa?»
xiii
Il generale Homanat, insieme ad alcuni ufficiali dell’esercito, ha
fermato la jeep nel cortile d’ingresso dell’Istituto. Erano seguiti da
una camionetta piena di soldati, che hanno cominciato a scaricare
un piccolo involto molto pesante. Siamo usciti tutti nel cortile ad
accoglierli, il preside Herbat in testa. Il preside e il generale si sono
stretti la mano sinistra, e mentre i bidelli accompagnavano i soldati
verso il montacarichi la delegazione è stata fatta accomodare nell’aula
magna.
Homanat è un uomo grasso e macrocefalo, con una voce da generale. Si è lasciato cadere su una poltrona e si è messo a guardare
fuori dalla finestra.
«Questa pioggia non vuole smettere di cadere» ha detto. «La
maggior parte delle strade è coperta di fango, il fiume si sta ingrossando. La zona del lancio è ormai inagibile. Anche per questo ci
abbiamo messo più tempo del normale per recuperare l’ampolla: i
campi sono una specie di acquitrino.»
«Ha cominciato a piovere verso l’alba della notte del lancio» ha
detto Hanna.
«Oh sì, e non ha mai smesso. I miei uomini hanno fatto un buon
lavoro, ma per forza di cose è andato a rilento.»
Un bidello ha bussato, e senza aspettare risposta ha aperto la porta
dell’aula magna. Tre soldati sono entrati spingendo un carrello, su
cui era posata la forma dell’ampolla ricoperta da un telo bianco. Ci
siamo voltati tutti verso l’oggetto nascosto.
«Quando l’abbiamo recuperata» ha detto Homanat accennando
col mento alla testata, «era già interamente coperta di fango. L’abbiamo ripulita per bene.»
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«Posso?» ha chiesto Hanna.
Si è alzata e ha camminato a grandi passi verso il telo bianco.
Un soldato ha scoperto con delicatezza la testata, e tutti ci siamo
sollevati dai nostri posti per vederla. Si era scheggiata solo nella
parte inferiore. Hanna le ha girato a lungo attorno, l’ha esaminata
con attenzione. L’ho vista impallidire di colpo, ma è riuscita a mantenere un contegno.
«È quasi intatta» ha detto senza voltarsi. «L’avete pulita molto
bene, non avete cancellato nessuna traccia calligrafica.»
«I miei uomini sono molto preparati» ha detto Homanat.
«Allora?» ha chiesto Herbat rivolgendosi a Hanna.
«Hanno usato il Codex Verbi Deorum» ha detto lei voltandosi,
questa volta. Il suo volto era preoccupato. La voce le è tremata
leggermente sulla prima u.
«Il Codex Verbi Deorum?» ha sbottato Homanat. «È impossibile!
È scritta in Codex Verbi Deorum! Ne è sicura?»
«Assolutamente.»
Mi sono alzato e mi sono avvicinato alla bomba. Le ho girato
attorno per qualche passo, ma il carattere usato mi era stato chiaro
fin da subito. «Sì, generale» ho detto. «È scritta in Codex Verbi
Deorum.»
Tutte le bocche hanno sputato delle esclamazioni che sono confluite in brusio concitato.
«Dovrò informare immediatamente il ministro» ha detto Homanat come tra sé. «Il Codex Verbi Deorum… Riuscite già a stabilire a
grandi linee cosa ci hanno voluto comunicare?»
Hanna si è massaggiata gli occhi, e gli zigomi. Mi ha lanciato uno
sguardo che tutti hanno notato, ma che solo io devo aver capito.
«No, generale» ha detto intanto. «Qualche ora ce la deve dare,
questa non è la nostra lingua. E il codice che hanno usato… Il Codex
Verbi… Francamente è una scelta incomprensibile.»
xiv
Il Codex Verbi Deorum appartiene come gli altri al ceppo indoiranico e risale all’epoca della prima disseminazione dei popoli
di quelli terre, alcuni dei quali si sono stanziati nella nostra zona e

la calligrafia come arte della guerra
hanno dato vita, nel corso dei secoli, alla tradizione calligrafica di
cui anch’io mi sento parte. Questo Codex, che è in assoluto il più
nobile ed elegante, appartiene alla prima delle tre ramificazioni
fondamentali dell’Ars Calligraphiae che vado insegnando, e che si
può riassumere nello schema seguente:
Codex Verbi Deorum, grazie al quale da secoli riportiamo e interpretiamo la parola di Dio. È, come dicevo, il più elegante, ma anche
il più antico e il più difficile.
Codex Civilis, che si suddivide nei Codici: Familiaris et Sexualis,
usato per regolamentare la vita famigliare, Rei Publicae, che è il
codice delle leggi e dell’amministrazione pubblica e sociale, e Belli,
il codice della guerra. È, come si vede, il codice più comune e più
diffuso; è una sorta di linguaggio standard, per noi: ci stampiamo i
libri, ci prendiamo gli appunti, ci firmiamo i documenti. Essendo il
più comune, tutti lo conosciamo alla perfezione.
Codex Artis, con cui da secoli calligrafiamo e interpretiamo le
arti tutte, e che differisce (anche se di poco) a seconda dell’arte di
cui tratta.
Esiste un quarto codice, che teniamo separato dagli altri perché
è un codice di genere, per così dire: è il Codex Muliebris, con cui
per molti secoli le donne a cui era permesso hanno calligrafato e
dissertato di tutti gli argomenti, compresi quelli appartenenti alle
tre fondamentali categorie. Esso è il più grezzo ma anche il più ricco
di varianti, dato che da solo deve coprire tutte le categorie che ho
appena elencato.
Ogni codice è in sostanza un alfabeto, o, come mi piace dire, un
«modo per trattare una lettera». Ogni codice codifica un argomento: ad esempio, trovare uno scritto antico redatto con l’utilizzo del
Codex Artis ci rende noto, prima ancora di cominciare a leggere, che
la pagina che abbiamo tra le mani tratterà un argomento artistico.
Fra i tre codici della seconda specie ci sono differenze minime, ed
è per questo che vengono raggruppati sotto un’unica categoria.
Alle nostre ragazze insegniamo tutti i codici principali, compreso
quello Muliebris, anche se ormai non viene più utilizzato e non è
considerato molto importante. Devono imparare, come si vede, un
numero elevatissimo di tecniche e linguaggi alfabetici.
NOTE SULL’EDIZIONE
La calligrafia come arte della guerra
di Andrea Tarabbia
Editing
Impaginazione
Correzione delle bozze
Promozione e distribuzione
Giulio Milani
Dario Rossi
Giada Perini
Dario Rossi
pde Italia
La nuova casa editrice Transeuropa ha sede dal  a Massa,
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Al momento in cui questo libro va in stampa
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. Fabio Genovesi, Versilia rock city (a ed.)
. Giuseppe Catozzella, Espianti (a ed.)
. Elio Lanteri, La ballata della piccola piazza (a ed.)
. Demetrio Paolin, Il mio nome è Legione
6. Aa.Vv., a cura di G. Milani, Over-Age. Apocalittici e disappropriati
7. Franz Krauspenhaar, L’inquieto vivere segreto
8. Stefano Amato, Le sirene di Rotterdam
9. Pier Vittorio Buffa, Ufficialmente dispersi
10. Riccardo De Gennaro, La Comune 1871
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13. Paolo Passanisi, L’Angelo di Leonardo (giugno 2010)
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. Giulio Milani (a cura di), Mario Rigoni Stern, Hermann Heideg­ger. Ritorno
sul fronte
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Giuliani
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finito di stampare, a milano, nel marzo
10