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Ien Ang
Watching Dallas
Cultura di massa e
imperialismo culturale
A cura di Marino Livolsi
ARMANDO
EDITORE
Sommario
Premessa
di Marino Livolsi
Watching Dallas
di Ien Ang
1. Dallas tra realtà e finzione
2. Dallas e l’ideologia della cultura di massa
Nota bio-bibliografica
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31
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Premessa
Watching Dallas e watching le soap
di Marino Livolsi
Un libro svelto, intrigante, anche se alla luce degli
studi degli ultimi trent’anni alquanto ingenuo nelle sue
proposte metodologiche e indicazioni teoriche. Con un
indubbio merito. Ha anticipato un tema su cui ci si interroga ancor oggi e che può essere così sintetizzato: cosa
avviene quando si guarda un testo televisivo e si “prova
piacere” nel farlo? In che modo il lavoro di decodifica si
accompagna ad emozioni immediate e forti anche se difficilmente descrivibili? Nella non più tanto breve storia
delle soap opera, Dallas (apparso nel 1978, in Italia tre
anni dopo) non è stato il prodotto più famoso o popolare (il contemporaneo Dynasty lo ha sicuramente battuto
come pubblico e attenzione dei critici), ma va considerato egualmente una svolta o una data da cui partire per
chi si occupa di queste tematiche. Il suo raccontare senza
fine con continui rimandi, il suo stile molto giocato sui
particolari testuali (i primi piani di volti o di oggetti, il
montaggio veloce) è stata una grande novità per chi si
era nutrito, almeno in Italia, dei “romanzi sceneggiati”
in cui si trasponevano in televisione romanzi lunghi ed
edificanti e, certamente, poco ancorati ai tempi nuo7
Premessa
vi che anche il nostro Paese stava conoscendo. Passato
rapidamente dalla RAI (una delle prime prove di “lungimiranza” dei dirigenti del servizio pubblico) alla sua
concorrente Fininvest (Mediaset), impose in breve uno
dei caratteri salienti dello stile della rete: quell’“immaginario nel privato” (modernità, benessere e consumi)
negli anni a venire tipico del suo pubblico. Per l’Italia,
ancora alquanto provinciale ma con una grande voglia di
modernità, Dallas rappresentò una sorta di manifesto di
una società avviata verso la post-modernità o comunque
verso una società e una cultura certamente affascinanti,
specialmente se confrontate con il passato anche recente. Qualcuno ha definito questa serie come la saga della
“cattiveria”, nel lavoro ma soprattutto nei rapporti sentimentali. Una durezza appena mascherata dalle splendide location (gli uffici “vetro e acciaio”, le case lussuose),
dalla presenza di donne bellissime, magre e truccate,
vestite (anche se anziane) in modo elegante, dalle macchine enormi: il tutto in un accattivante e inconfondibile
“profumo di dollari” e di forte benessere. Il messaggio
di fondo suggeriva che era arrivato il tempo in cui la vita
“quotidiana” era lo spazio fondamentale in cui costruirsi la propria vita, da interpretare soggettivamente e non
sulla base di una morale o di una fede religiosa o, tanto
meno, delle ideologie. Una “americaness” (l’espressione
è della Ang) facilmente, anche se spesso superficialmente, riconoscibile e immediatamente “pleasurable”. Non
stupisce che ci fossero poche obiezioni a questo messaggio: la maggior parte degli italiani era già pronta a
lasciare i valori tradizionali, sempre meno credibili e al
passo con i tempi. Soprattutto le norme della tradizione
non sembravano permettere (neppure promettere) quelle cose affascinanti che apparivano sul piccolo schermo.
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Marino Livolsi
Dallas sembrava una versione aggiornata dell’“american
dream”. Nelle storie televisive non apparivano più sceriffi buoni ed eroici, investigatori integerrimi; al contrario
J.R. era cattivo nella vita privata così come nella professione, vinceva sconfiggendo i buoni senza farsi troppi
problemi. Era difficile partecipare ai suoi successi, considerarli positivamente: al più lo si poteva considerare
un intrigante genio del male. Era la morte dell’eroe moderno, duro ma puro. Adesso il protagonista di queste
storie pensava innanzitutto a raggiungere i propri obiettivi: era l’achiever senza scrupoli di cui, da noi, sarebbe
stato caricatura lo yuppie degli anni Ottanta-Novanta. Il
valore (o culto) dell’autorealizzazione, secondo meriti e
capacità, sarebbe lentamente degenerato nell’obbligo di
dover apparire, avere successo anche seguendo vie non
del tutto lecite. Lo sfondo di questo secondo “american
dream” era quello di un’America “senza cattiva coscienza e nostalgia”1, in cui sembrava dominare un relativismo
egoista e un cinismo ostentato. L’“edonismo reaganiano”, apparentemente trionfante, veniva paradossalmente messo in scena proprio nella città dove solo quindici
anni prima era stato ucciso il Presidente “buono”: quello
che aveva spinto i suoi concittadini a muoversi con coraggio verso l’affascinante frontiera di un attraente futuro ormai prossimo. Da Dallas in poi la televisione ha
“messo in scena” lo spettacolo della quotidianità, molto
simile alla realtà almeno così come sembrava o piaceva ai
più. Esserne convinti non era difficile. Per interpretare i
significati impliciti delle soap bastava il “senso comune”
degli spettatori, non serviva una grande abilità interpretativa. Al fondo c’era il desiderio o il gusto della “banalità di tutti i giorni”2 che passava attraverso il profondo
bisogno di continue certezze, di essere accettati “come si
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Premessa
è” e, insieme, avere quelle cose o vivere quelle situazioni
che sembrano altamente desiderabili.
I. Leggere le soap come piacere immediato
Come si è detto, da Dallas in poi la gran parte degli
utenti televisivi “incantati” ha utilizzato gli schemi cognitivi relativi all’interpretazione dei testi mediali per
cercare di capire cosa avveniva anche nella vita “vera”,
nei rapporti con gli altri, e non viceversa. Non si capirebbe questo “passaggio” senza tener conto di un fenomeno
(per allora) nuovo e importante: la televisione pedagogica (povera e un po’ provinciale) stava lasciando il passo
all’“abbondanza televisiva”, provocata dalla sciagurata
lotta tra RAI e Fininvest (Mediaset) allo scopo di catturare il più gran numero di spettatori da vendere agli
utenti pubblicitari. Nella grande offerta a disposizione,
era sempre possibile (ogni sera) avere nuove occasioni di
interesse o divertimento. Il piacere si realizzava nell’essere coinvolti all’istante da ciò che si vedeva. Era come vivere nel Paese dei balocchi. Una proposta caratterizzata
dall’“eccesso narrativo”, strumento necessario per avere
immediato successo: utilizzare le “tinte forti” sembrava
obbligatorio. Nelle soap, le passioni dei protagonisti erano simili a quelle di un moderno melodramma3. Ciò che
veniva narrato doveva portare immediatamente al riso o
(più facilmente) al pianto, comunque catturare all’istante, commuovere. Non c’era spazio per la riflessione: in
tempo reale si dovevano interpretare frammenti di un
testo che scorreva sul piccolo schermo velocemente. Di
conseguenza l’interpretazione era guidata dal piacere immediato e non dalla ragione o da profonde considerazio10
Marino Livolsi
ni culturali. Da questo momento il “piacere” immediato
diventa la molla fondamentale della fruizione di questi
testi, in seguito anche di tutti gli altri generi (si pensi
all’“infotainment”) televisivi. La Ang non ne dà una definizione precisa, ma una serie di considerazioni esposte
in Watching Dallas ci guida nell’interpretazione del concetto di piacere. Secondo l’autrice è il coinvolgimento
emotivo (spontaneo) a “provocare” la spinta immediata
ad entrare in un testo e a giocarci; un “emotional realism”
che fa riconoscere (e immediatamente) apprezzare una
situazione emotiva già provata (o vista) in precedenza o
che “è bello provare”. Assistendo ad una storia “senza
fine” (con un lieto fine rimandato all’infinito) sembra di
riconoscere molti tratti della “problematica della vita”.
Il vissuto di esperienze (reali o presunte) che si è imparato a ri-conoscere, anche se non si sono sempre vissute direttamente. Una “recognition” che si fonda su un
“realismo dell’illusione” che dà più significato ai valori
dei sentimenti e delle passioni che non ai problemi concreti della vita vera. Un realismo emotivo che si fonda
su una naturale (innata?) “structure of feeling”, dove le
emozioni fluttuano continuamente tra felicità e infelicità
e vengono utilizzate per valutare all’istante ciò che accade. Un’illusione resa credibile dal vedere cose, ambienti
e situazioni, personaggi che “sembrano veri”. La realtà
dei luoghi e degli oggetti “garantisce della verità” dei
sentimenti dei protagonisti, anche se rappresentati con i
toni del moderno melodramma: ovviamente meno urlato
e più realistico di quello tradizionale. In più occasioni,
la Ang afferma che il “piacere” sta più nel modo in cui
alcuni particolari del testo (le “textual characteristics” o
i “textual tricks”) riescano immediatamente a catturare
l’attenzione del lettore, anche se non spiega come con11
Premessa
cretamente ciò avvenga. Questo era ovviamente difficile
sulla base di una metodologia fondata su un ristretto numero di spettatori (42) che aveva risposto all’invito (pubblicato su un giornale) dell’autrice, che chiedeva semplicemente: “tell me why you like watching it, or dislike
it?…”. Era quindi naturale che le risposte portassero ad
un processo di razionalizzazione fondato sulla ricostruzione “ex-post” dell’esperienza ricavata dalla visione del
programma: una ricostruzione di ciò che era avvenuto in
un passato più o meno recente. Ma il “piacere” non può
essere interpretato ex-post; lo si deve più correttamente
interpretare come l’esperienza che un soggetto compie,
in tempo reale, mentre assiste alla visione di un filmato
(o, meglio, di un suo frammento) e secondo una sequenza che possiamo riassumere sinteticamente così:
situazione (contesto della fruizione) – aspettative/
motivazioni – ascolto-visione (percezione) – selezione di un frammento del testo (che attrae l’attenzione) – decodifica/comprensione (per inferenza a
schemi cognitivi-culturali consolidati e soggettivi)
– attribuzione di significato (sense meaning) – valutazione – messa in memoria (ricordo) – eventuale
(in base ad una soggettiva aggiunta di valore) interiorizzazione
Di questa sequenza, il lavoro della Ang si rifà solo a
poche fasi e l’analisi non può non risentirne. La stessa
autrice anche in Watching Dallas, aveva ricordato come
coloro a cui non piaceva questa soap partivano da motivazioni non legate alla immediata fruizione del testo,
ad esempio dichiarandosi contrari alla futilità dei valori
espressi dai protagonisti e, nel caso di alcuni, dal loro de12
Marino Livolsi
ciso rifiuto dei valori di fondo della società capitalistica
ivi rappresentati. Come dire che, nella decodifica-valutazione di un testo (o di alcune sue parti o frammenti), non
tutto è legato all’istintivo e immediato “piacere” di vedere, ascoltare. Questo è un aspetto fondamentale messo in luce da Liebes e Katz4 quando, alcuni anni dopo,
analizzarono le reazioni a Dallas. Ricorrendo ad una metodologia di tipo etnografico, i ricercatori intervistarono
66 gruppi di 6 persone ciascuno (di questi 45 in Israele,
10 negli USA e 11 in Giappone; nel caso degli israeliani si tenne conto di diverse etnie a seconda dei Paesi di
provenienza degli intervistati). I colloqui seguivano la visione, assieme ad un intervistatore, di un episodio della
soap; il focus della ricerca era quindi centrato sui modi
del “raccontare” (retailing) quanto avevano appena visto. Ovviamente una tale metodologia ha permesso un
approfondimento maggiore sulle motivazioni e sulle valutazioni degli spettatori, permettendo di approfondire
le prime e meglio analizzare le seconde. Ciò anche considerando che, lavorando in gruppo e confrontandosi con
gli altri partecipanti e il ricercatore, il “riassunto” si trasformava in una sorta di “comulative storytelling”, con
un aspetto “valutativo” certamente meno casuale e soggettivo. Gli autori, prendendo spunto da una proposta
di Barthes, hanno individuato tre diversi e fondamentali
tipi di retailing e cioè il modo di ricordare e di esporre
ciò che essi ritengono importante. Il primo si fonda sul
racconto lineare che si riferisce alle vicende e alle azioni
svolte dai protagonisti, seguendo l’ordine cronologico
e narrativo suggerito dalla trama: è quindi fortemente
“referenziale” in quanto segue e accetta l’impostazione
del testo non introducendo considerazioni personali; è
quindi “oggettivo”, chiuso e prevedibile. In questo caso
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Premessa
gli intervistati non esprimono dubbi sulla “non realtà”
della storia narrata, ma ne rispettano i cliché narrativi,
anche se riferiti ad un contesto sociale da loro non condiviso, ma comunque riconosciuto come caratteristico di
una certa società e di un certo tempo. Il secondo tipo
è caratterizzato da un racconto “segmentato” e riferito
solo a singole parti del testo (quelle di maggiore interesse per gli intervistati) di cui viene fornito un resoconto
soggettivo, a forte impronta psicologica ed emotiva, e di
cui si tenta una interpretazione (ad esempio sul “perché”
dell’agire e sulle caratteristiche di alcuni personaggi); un
racconto più aperto alle possibili e diverse interpretazioni
soggettive fondato su un fondamentale atteggiamento di
“gioco” (“ludico” come è definito dai due autori) con un
approccio più emozionale che cognitivo. Il terzo si fonda
sul tentativo di estrapolare le tematiche (o messaggi) di
fondo, spesso in chiave critica, con una chiara impronta
culturale se non ideologica, utilizzata per arrivare ad una
valutazione sui significati espressi o impliciti del testo.
Ricorrenti, in questo contesto, le “accuse” alla scarsa (o
nulla) moralità dei personaggi e alcune considerazioni
(anche se alquanto generiche ed astratte) del tipo che
“la ricchezza non assicura la felicità”. Questo modo di
“porsi” verso il testo ha indotto gli autori a considerare
una semplice tipologia basata su due variabili; la prima si
riferisce alle modalità del riassunto (distinguendo tra un
orientamento valutativo ed uno di semplice esposizione);
la seconda è invece relativa al modo di atteggiarsi verso
la storia, dagli autori definita sulla base dell’opposizione
tra un comportamento partecipativo (“caldo”) ed uno
più neutrale (“freddo”).
La combinazione di queste due variabili dà luogo alla
seguente tipologia:
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Marino Livolsi
Atteggiamento
Modalità di retailing
Caldo
Freddo
Morale
Ideologico
Estetico
Referenziale
Ludico
Critico
La combinazione delle due variabili suggerisce quattro modi diversi di porsi verso ciò che si è visto. Senza
entrare nel merito delle definizioni, possiamo riconoscere che questi tipi danno un quadro significativo (anche
se forse non esaustivo) delle possibili letture di un testo,
che vanno da quella più emotiva e disimpegnata (ludica)
a quella più razionale e impegnata (ideologica). Come
sottolineano i due autori, più gli intervistati considerano
il testo reale e verosimile più il tipo di interpretazione è
critico e analitico; più lo considerano poco reale e verosimile più il tipo di interpretazione è meno critico e più
attratto da dimensioni di carattere ludico (simile a ciò
che la Ang ha definito “piacere”). Come dire che i tipi
possibili di lettura di un testo possono articolarsi nei due
opposti estremi: l’immediato “piacere” e la “critica” di
tipo culturale o ideologico. Ovviamente nel primo caso
la “lettura” si riferisce più ai modi testuali o discorsivi (in
passato si sarebbe detto la forma), mentre nel secondo
ci si riferisce più ai contenuti (a ciò che il testo e i suoi
autori hanno voluto significare). In questa prospettiva,
ricordiamo che Dallas, visto in oltre cento Paesi, ha conosciuto solo due casi di deciso “rifiuto”: in Giappone
(a causa dell’inconsistenza delle storie e della “rozzezza narrativa” oltre che per l’improbabilità dei caratteri
dei personaggi) e in Brasile, dove non si è apprezzata
l’esagerata intersezione, l’intrecciarsi delle molte storie
parallele e la “non passionalità” dei personaggi (in senso
opposto al Giappone) nel manifestarsi i loro sentimenti.
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Premessa
II. Dopo Dallas…
Le soap, come genere, hanno sempre più caratterizzato il flusso televisivo: in quantità e in qualità. È difficile
parlare dei telefilm come un insieme definito e omogeneo. Nella ormai lunga storia di questo genere (in cui
vanno considerate centinaia di narrazioni con un’infinità
di trame e personaggi) non è facile ricostruire un percorso unitario e lineare a cui riferirsi, anche per cercare di
ricostruire alcune sue fasi o periodi nel tempo. Riteniamo che un’impresa del genere sia quasi impossibile se
non partendo da una specifica e forte ipotesi interpretativa. Quella che avanziamo (e che ci guiderà nelle prossime pagine) si fonda sul tentativo di “seguire nel tempo”
il modo in cui le soap hanno rappresentato progressivamente il “reale”, la società del tempo. Anche facendo
riferimento ai contributi di alcuni autori (ad esempio Allen), possiamo proporre (alquanto arbitrariamente e per
necessità di sintesi) quattro periodi di un ipotetico percorso dei telefilm negli ultimi 60 anni circa. Il primo (dagli anni Cinquanta agli anni Ottanta) si può ulteriormente dividere in due fasi: s’inizia con prodotti molto diversi
tra loro, come ad esempio i “gialli” creati e diretti da
Hitchcock (1955-1965) o quelli dell’avvocato Perry Mason (1957-1966), il western Bonanza, i telefilm con eroi
animali (come RinTinTin, Lassie, Furia), lo humour nero
della Famiglia Addams. Racconti ancora molto “cinematografici”, conclusi in gran parte in un solo episodio. In
questo primo periodo si può ancora riscontrare un certo
aggancio alla realtà: anche se “inventate”, le vicende narrate si sforzano di sembrare simili a quelle che gli spettatori potrebbero vivere davvero. La seconda fase è segnata da Star Trek (1966-1969; da noi trasmesso fino ai primi
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Marino Livolsi
anni 2000): il primo telefilm “di culto” che ha segnato la
nascita del fenomeno fandom, con numerosi circoli di
appassionati, pubblicazioni, cerimonie, etc. Il primo
esempio di una mania planetaria e la nascita di un genere
che avrà numerosi seguiti anche al cinema. Un prodotto
che ha spinto ad immaginare un futuro “fantascientifico”, alla ricerca di altri mondi, di altre genti e civiltà.
Sullo sfondo, il mito della “nuova frontiera” di cui aveva
parlato Kennedy qualche anno prima e, ancor più la corsa nello spazio che culminò, nel 1969, con lo sbarco del
primo uomo sulla Luna in diretta televisiva. Ma la vera
svolta avviene con il secondo periodo: i prodotti apparsi
negli anni Settanta. Tra gli altri Happy Days con l’ilare
Fonzie diventato l’icona televisiva dell’epoca. Ricordiamo che nel 1978 un personaggio, assai simile nel look,
“ballava il sabato sera” con incredibile leggerezza, mentre in Italia attentati e bombe riempivano le pagine dei
giornali. Poi sono arrivati i “poliziotti”: prima di tutto
l’inossidabile Colombo (1971-1977 e 1989-1993) che,
per quanto umile e stropicciato, era tuttavia capace di
“mettere in riga” ricchi e potenti. Ma la cosa più rilevante è che nascono e si impongono alcuni archetipi narrativi tipici di questo genere, come ad esempio l’insistere dei
primi piani sul viso scaltro di Colombo, il suo “tornare
indietro” e dire la celebre frase “non ho capito una cosa”
che anticipava il finale e la spiegazione di una storia non
tanto misteriosa. In questo stesso periodo va anche ricordato M.A.S.H. (1972-1983), in cui un gruppo di medici “in prima linea” mescola una forte professionalità
con una vita personale all’insegna dello scherzo (anche
pesante), del sesso, e dell’irriverenza verso certi valori
consolidati (l’esercito, la Patria), etc. È la nascita di un
genere misto, tra dramma e commedia, che ritornerà
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Premessa
molto spesso negli anni a venire. Possiamo chiudere emblematicamente questa fase con Dallas (1978). Ma il
“trionfo” di questo genere si celebra all’inizio degli anni
Ottanta in parallelo ad una serie di fenomeni a livello
tecnico-produttivo che mutano il quadro della domanda-offerta nel consumo televisivo: ad esempio la nascita
della TV via cavo che fonda le sue entrate sugli abbonamenti e quindi deve cercare il successo e la fidelizzazione
di utenti più differenziati e esigenti con prodotti di qualità. Nascono in questo periodo prodotti di enorme successo quali Hill Street, giorno e notte (1981) che insiste
sullo schema delle molte storie intrecciate e legate tra
loro, con brevi episodi dal montaggio veloce e un grande
uso dei primi e contro piani. La narrazione è cruda e realistica, non ricorda certo gli stereotipi hollywoodiani.
Anche in queste storie si racconta la sempiterna lotta tra
bene e male, tra onesti e disonesti; solo che l’happy end
non sempre è scontato. Finisce l’illusione che la società
sia regolata dall’ordine: il disordine della città è il disordine (più che drammatico è triste il modo in cui si è costretti a viverlo) dei suoi personaggi. Si rappresenta il
reale, ma le differenze tra giusto e ingiusto diventano
sempre più sfumate, i personaggi non sono eroi a tutto
tondo, hanno spesso profonde incertezze su come comportarsi. Ma quasi a confortare la nostra ipotesi (molti
prodotti tra loro differenti non riescono a “caratterizzare” compiutamente un periodo e, tanto meno, un genere) negli stessi anni appaiono altre serie solo apparentemente dello stesso tipo. La prima è Miami Vice (1984) in
cui si “mette in scena” l’altra America o meglio lo stereotipo dell’altra America. Quella del lusso e dei consumi,
della bellezza, dei luoghi da favola, delle macchine “da
ricchi”. I protagonisti sono due poliziotti, non troppo
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Marino Livolsi
scaltri, impegnati in indagini non eccezionali. L’unica
piccola novità è che il più furbo e simpatico ha la pelle
più scura del suo compagno bianco. Non a caso, nello
stesso anno, viene trasmessa I Robinson, una serie che
presenta una famiglia borghese americana, umana e intelligente in tutti i suoi componenti, ma con una particolarità: l’essere i membri di questa famiglia “all black”. Si
arriva così agli anni Novanta. I telefilm sono ormai i prodotti di qualità della TV. Questo periodo è caratterizzato
da due titoli: I Segreti di Twin Peaks (1990) e X-Files. Il
mistero porta definitivamente il “dis-ordine” nel mondo
reale. Il primo è definito da Grasso come “un’avventura
metafisica tra i segreti del male”12. Si mette in scena un
mondo a volte sconvolgente, arcano, molto distante da
quello rappresentato fino a poco tempo prima. Si respira
la crisi della società moderna degli anni Novanta e il procedere difficile verso la post-modernità. La malvagità è la
norma e nessuno ne sembra immune. Anche i due tutori
dell’ordine ne sono sfiorati. È un nuovo genere (hornoir)
che mescola horror e noir. Adesso nella finzione entrano
prepotentemente l’eccesso, l’irreale e il soprannaturale.
Nulla sembra più essere normale, anche nello scenario di
una realtà (la provincia americana) che sembrerebbe la
più tradizionale e tranquilla che si possa immaginare.
Anche i modi narrativi (la fotografia, il montaggio, una
musica funzionale, alcuni particolari “intriganti” come
l’ululare di lupi, i giochi di luce e il taglio delle immagini)
parlano di una svolta importante nella ideazione-produzione dei serials. Qualcosa di analogo avviene nell’altra
grande proposta di questi anni: X-Files (1994), dove il
“dis-ordine” è alla base di una nuova estetica. Il mistero
è la dimensione della normalità, quella che permea la
quotidianità della gente comune: in ogni istante può av19
Premessa
venire qualcosa di inusuale, di molto diverso dal modo
in cui si comportano le persone, anche quelle conosciute
e frequentate da sempre. È indicativo che un personaggio dica esplicitamente “non fidarti di nessuno”. Fragili
confini separano investigatori e inquisiti, in un mondo
dove il male e la sua incarnazione del momento (la corruzione) sono una presenza costante e potente. Poliziotti, avvocati e medici sono le figure incaricate di “capire e
combattere il male” in tutte le sue forme: a questo scopo
svolgono indagini su personaggi sempre meno somiglianti ai personaggi “belli ed eleganti” dell’immaginario
filmico di stampo hollywoodiano. Poliziotti, come quelli
di N.Y.P.D. (1993) e C.S.I. Scena del crimine (2000),
tutt’altro che eroi, non vivono una missione in cui identificarsi, fanno un mestiere per cui sono pagati. A volte si
fanno “comprare” come accade per ogni altra cosa nella
società in cui agiscono: forse il crimine “non paga” sempre, ma qualche volta permette una certa ricchezza e di
avere le cose che tutti hanno. Accanto a loro schiere di
medici: i più celebri sono i protagonisti di E.R. medici in
prima linea (1994) e il Dr. House (2004). In entrambi i
casi il sistema sanitario americano è trattato come un
“docudrama” in cui è difficile distinguere tra realtà e fiction, ma anche tra abnegazione e debolezze umane. In
particolare il Dr. House è l’incarnazione di questa ambiguità: bravissimo diagnostico è però poco simpatico e
poco presentabile (è sciatto, veste male, ha perfino una
leggera zoppia). È la metafora della scienza potente e
della debolezza dell’uomo. È un mondo ancora prevalentemente maschile: le donne hanno spesso ruoli anche
non marginali, ma non sono mai “al comando”. Quando
diventano protagoniste, esprimono una ambigua moralità. Sono, ad esempio, le protagoniste di Sex and the City
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Marino Livolsi
(1998) e Desperate Housewives (2004). Donne tra loro
molto diverse: nel primo caso belle, affascinanti e spregiudicate, professioniste e “donne in carriera”; nel secondo piccolo-borghesi che vivono una vita solo apparentemente normale, in una cittadina di provincia dove
pettegolezzo e mistero sembrano essere i tratti dominanti. Le prime, in particolare, vivono in contesti “patinati”
dove i consumi sfiorano il lusso, le location sono “di sogno”, i personaggi sembrano usciti da «Vogue» o da
«Variety». Del resto le storie narrate e la morale che le
regge sembrano uscite proprio da una rivista femminile
moderna e per donne raffinate e alquanto spregiudicate.
Le loro avventure sentimentali hanno lo scopo di “trovare” uomini che possano dare amore per qualche tempo,
visto che “per sempre” appare impossibile. Il sesso è la
forma fredda e moderna di quel sentimento che poteva
spingere, un tempo, le eroine delle storie romantiche al
sacrificio. Arriviamo così all’ultimo periodo, alle narrazioni più recenti. Adesso più che le storie contano i particolari testuali e quanto essi intendono alludere rifacendosi alla “competenza” alta degli spettatori. Le metafore
sono spesso esasperate. Ad esempio in Lost i protagonisti sono gettati, dopo un incidente aereo (l’inaffidabilità
della tecnologia imperante), su un’isola sconosciuta e
selvaggia (come la società del tempo) dove devono lottare impreparati (ai tempi nuovi e alle difficoltà a cui non
sono stati addestrati) per sopravvivere (un’impresa difficile senza lieto fine) senza la possibilità di ricevere un
aiuto (che nessuno sembra in grado di dare loro). Ancor
più significativo è che questi naufraghi si sono lasciati
alle spalle il nulla (esperienze e rapporti sociali poco significativi) e non sembrano avere prospettive o sogni per
il futuro (come nella società attuale). Vagolano tra il pas21
Premessa
sato (flash-back) e il “domani” (flash-forward) senza trovare alcun senso in ciò che fanno. Tutto sembra essere
affidato più al caso che non ad un possibile obiettivo
condiviso per cui lottare. Ma la metafora più intrigante è
che i personaggi vivono in una società senza delimitazioni significative di spazio (l’isola non ha confini certi e una
misteriosa botola potrebbe portare in luoghi misteriosi)
e senza indicazioni di tempo (si vive in un presente indefinito). È quanto caratterizza la rappresentazione mediale della società contemporanea, dove si mostrano luoghi
diversissimi e si vivono storie ambientate in tempi che
oscillano tra il lontano passato e la fantascienza. La parabola, iniziata negli anni Ottanta e accelerata verso la fine
degli anni Novanta, sembra ormai conclusa. La nostra
ipotesi coincide con quanto afferma la Ang13 quando sostiene che le soap, adesso, “generano significati” non più
riferiti (come fino agli anni Ottanta) ad un mondo sociale “ordinato” nelle sue norme e valori, ovviamente quelli
tipici della società borghese e moderna. Un mondo verosimile (“as-if-it-were-real”) anche se non vero. In quel
contesto il male veniva condannato, la devianza osteggiata. L’eccesso melodrammatico (i comportamenti di
quei personaggi) costituiva una indiretta conferma che si
trattasse di un caso estremo, di un’eccezione. Nel bene o
nel male, un “ordered normative system” a cui fare riferimento era ancora evidente e indicato positivamente. Ma
da Twin Peaks a Lost il realismo è stato sostituito dall’eccesso, come rifiuto del normale, dell’interpretabile razionalmente. Ora il realismo sembra partire, paradossalmente, dal rifiuto della realtà come si è conosciuta-interpretata fin qui. Il “nuovo” realismo (la “real TV”) spinge
ad accettare ciò che accade, anche se appare innaturale o
ai limiti (estremi) del “noto e conosciuto”. Non c’è più
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Marino Livolsi
“normalità”, non ci sono indicazioni sicure. Non ci sono
più buoni o cattivi, il bene non è detto che trionfi sempre
sul male. Le soap più recenti sembrano rappresentare la
fine della società (o della cultura) così come condivisa a
lungo. Gli eventi straordinari sono adesso la norma, il
reale si mescola con mondi fantastici; l’insolito è un elemento nuovo (nella soap come nella vita) che cambia le
cose ma va accettato come un fatto naturale. Nelle soap
non ci sono più norme e valori (“as-we-knew-them”): del
resto è ciò che accade nella vita reale o nell’esperienza
della quotidianità di gran parte delle persone, almeno da
quando il crollo delle Twin Towers ci ha introdotto ad
un mondo complesso e difficile da prevedere e vivere.
III. Per finire
Quanto appreso nella vita reale (nella socializzazione
a cui ognuno deve il fatto di essere una certa persona)
non è più sufficiente a “spiegare” quanto si vede negli
ultimi serials (dove predomina il surreale e fantastico e,
quindi, il “non-sense”), al contrario, quanto suggerito
dalle vicende narrate e dall’agire dei personaggi di queste storie sembrerebbe fornire un possibile “senso” a ciò
che nella vita vera non sembra averlo più, specialmente
quando il nuovo e l’inaspettato tendono a far implodere
norme e comportamenti tradizionali. In questi più attuali “processi cognitivi”, l’estetica (la sensibilità tipica del
“performer” narcisista) sembra dominare sull’etica e la
cultura tradizionali; le piccole storie (o addirittura quanto emerge da pochi frammenti) vengono vissute con più
interesse e coinvolgimento rispetto alle grandi narrazioni che vengono dal passato e spiegavano il “senso del23
Premessa
la vita”. L’interpretazione di ciò che si vede non è più
orientata dalla narrazione complessiva, il “messaggio”
dei tempi andati. Adesso, quando scatta l’interesse, il
piacere (immediato) nasce dall’interrogarsi su cosa possano significare (o a cosa possano alludere) i “textual slices”, considerati alla stregua di indizi capaci di suggerire
(allo spettatore-investigatore) un particolare significato
tra i molti possibili. Sono i dettagli narrativi (la sottolineatura musicale, il particolare tipo di ripresa o montaggio,
etc.) a procurare immediato piacere, a indurre al coinvolgimento con quanto si vede-ascolta. Così una storia
“prende” più per la sua costruzione testuale (specialmente se originale o fortemente allusiva) che non per la
sua trama o i suoi contenuti. Un piacere che si fonda su
una naturale (più o meno profonda) competenza di tipo
semiologico14 basata su una naturale capacità di “lavorare” sul testo e operare sulla sua polisemia; in particolare
quando un testo è “aperto” (Eco) come quelli dei serials
di ultima generazione. Come affermano Abercrombie e
Longhurst: “text is not monolithic with a strong preferred
meaning”15. Il significato va cercato ed evidenziato dal
lettore-interprete. È in questo lavoro, a livello cognitivoemotivo (dove è più facile che si riconosca e si apprezzi
il già visto che non il nuovo e l’inaspettato) che si realizza
il piacere di chi guarda una soap moderna. I performer
giocano con il testo mentre “performano” la loro identità in una costruzione continua, difficile ma stimolante, del loro progetto di vita, surfando tra le più diverse esperienze. Già da quanto detto da Ang e Katz era
evidente come due fossero sostanzialmente i “piaceri”
dello spettatore delle soap. Il primo, immediato, nasceva
dal farsi coinvolgere emotivamente (e immediatamente)
dalle situazioni e dai personaggi; il secondo, più indiret24
Marino Livolsi
to e “colto”, dal confrontare i valori espressi dal testo
con i presupposti di fondo della propria appartenenza
culturale o sociale. A distanza di trent’anni circa, possiamo ritenere tuttora valida tale distinzione a patto di
aggiornarla. A nostro avviso, il piacere immediato è, in
proporzione, cresciuto nel tempo. Oggi, questo consiste
nel saper individuare nelle text slices (o frammenti) quei
particolari formali che colpiscono per la loro capacità di
impatto e/o originalità. È questo il prodotto dell’aumentata “capacità interpretativa” (o literacy mediale) che per
i più anziani è maturata nel tempo e per i “nativi televisivi” è del tutto naturale. Una skilled literacy fa apprezzare
il ritmo rapido della narrazione e il montaggio veloce,
l’incrociarsi continuo del tempo presente con quello
passato (flash back), il gioco dei “primi piani” (che sono
veri e propri schemi interpretativi suggeriti dall’abilità
degli attori) o l’indulgere della camera su alcuni oggetti
o luoghi, le sottolineature interpretative dovute all’utilizzo funzionale della colonna sonora, il ricorso ad abili
cliffhanger per interrompere, con particolare suspense,
la narrazione, etc. Il piacere “cognitivo” non è del tutto
scomparso anche se oggi questo non sembra più essere
legato al condividere alcuni valori o modelli di comportamento sociale, ma più semplicemente al trarre conferme o apportare piccole e funzionali correzioni rispetto
agli “schemi cognitivi” appresi fino a quel momento o
alla pertinenza ed omogeneità con lo stile di vita che il
soggetto si è scelto. Queste considerazioni si fondano
su un presupposto implicito ma fondamentale: il reale
è quello “rappresentato” dai media e in particolare dalla
TV; l’esperienza concreta sembra essere sempre meno
significativa e, quindi, non meritare una particolare attenzione tesa a comprenderla e valutarla. È importante
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Premessa
solo ciò che “appare nei media” ed è immediatamente
convincente o affascinante. Le soap moderne si muovono in questa direzione, hanno reso il mistero e il fantastico “normale”: si possono vedere creature misteriose che
si comportano normalmente (gli alieni che circolano tra
gli umani) o il male che sconfigge il bene, senza restarne
particolarmente sconvolti. Tutto sembra possibile.
Non è più necessario sospendere momentaneamente
la propria incredulità, come accadeva alle spettatrici di
“Dallas”16: adesso non importa neppure che ciò che si
vede sia (almeno) verosimile. Il relativismo (poco responsabile) nel sociale si impone anche per questa via. Sono
le emozioni a “guidare l’agire”, almeno nella vita quotidiana. È l’esperienza comune e caratterizzante della postmodernità che le soap hanno anticipato e legittimato.
NOTE
1. M. Maffesoli, Da ‘Dallas’ a ‘Plus belle la vie’, in F. La
Rocca, A. Malagamba, V. Susca (a cura di), Eroi del quotidiano.
Figure della serialità televisiva, Bevivino, Milano-Roma, 2010.
2. Ibidem.
3. I. Ang, Watching Dallas. Soap Opera and the Melodramatic Imagination, Methuen, London, 1985.
4. T. Liebes, E. Katz, The Export of Meaning. Cross-cultural
Readings of Dallas, Polity Press, Cambridge, 1993.
5. I. Ang, Cercasi audience disperatamente, il Mulino, Bologna, 1998.
6. Ivi, p. 283.
7. Ivi, p. 280.
8. N. Abercrombie, B. Longhurst, Audiences: A Sociological Theory of Performance and Imagination, Sage, London,
1998.
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Marino Livolsi
9. M. de Certeau, L’invenzione del quotidiano, Edizioni Lavoro, Roma, 2001.
10. N. Abercrombie, B. Longhurst, op. cit.
11. A. Grasso, Buona maestra. Perché i telefilm sono diventati più importanti del cinema e dei libri, Mondadori, Milano,
2007.
12. Ivi, p. 97.
13. I. Ang, J. Stratton, The end of civilization as we knew it:
‘Chances’ and postrealist soap opera, in R.C. Allen (ed.), To be
continued… Soap opera around the world, Routledge, London,
1995, pp. 122-144.
14. J. Fiske, Television Culture, Routledge, London, 1989.
15. N. Abercrombie, B. Longhurst, op. cit., p. 18.
16. Nel riproporre il volume di Ien Ang, non si può non far
riferimento al sequel di Dallas, recentemente trasmesso sugli
schermi italiani: un furbo sequel di una serie cult in cui non si
è tenuto conto degli anni che passano.
Dallas, al suo apparire, era il messaggio (affascinante nella
sua patinata brutalità per gli italiani ancora poveri e ingenui)
del capitalismo cattivo che “comunque” assicurava ricchezza
e riconoscimento sociale. Gli anni trascorsi hanno mostrato la
falsità e la vacuità di questo messaggio.
Non a caso, si è passati dalla società industriale, degli imprenditori duri e achiever, alla società liquida, in cui gli attori
sociali si interrogano sul senso e i significati da dare ai loro
progetti di vita, non sempre riuscendoci. Allora Dallas rappresentava una possibile deroga alla morale puritana del “castigo
per i cattivi” in nome del successo “terreno”, della ricchezza
e del denaro, entrambi molto ostentati. Adesso, nell’epoca del
disincanto, questi personaggi, più che oggetto di condanna
morale diventano oggetto di sarcasmo.
Nella prima puntata del sequel, nuovi personaggi o “reincarnazione” di quelli scomparsi (come gli attori che li rappresentavano), si mescolano a pochi vecchi attori-personaggi che
sembrano usciti dal “Museo delle cere”, tutti rughe e sul punto
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Premessa
di deflagrare in mille pezzi; il richiamo a certi film horror è
d’obbligo.
Il nuovo J.R. è solo la caricatura di quello precedente. Le
sue malefatte incerte rappresentano il delirio di un vecchio ormai fuori dal mondo in cui è “condannato” a vivere. Non è più
la maschera ambigua e tragica del potere, ma solo lo spettro
di una cattiveria che distrugge ogni cosa senza costruirne altre
socialmente più utili o almeno funzionali a un uso spregiudicato del potere.
Temi quali denaro e petrolio portano molti (anche tra i
meno attenti) ad associare il mondo finzionale rappresentato
in Dallas, alle “malefatte” (le tragiche guerre) degli USA cattivi, in cui l’american dream ha corso il rischio di trasformarsi
in una gara al “più perfido vince”. Tra l’altro un mondo messo in ombra dalla pesante e vincente concorrenza del Finanzcapitalismo.
Quanto alla storia, la mancanza di personaggi buoni e il
mancato (o troppo rinviato) “lieto fine”, che allora aveva stupito e attratto, sembra oggi poca cosa, se paragonato agli intriganti personaggi delle fiction più recenti (da X Files a Lost)
dove il bene e il male (il senso ultimo della vita) sono considerati diversamente.
Il realismo tragico di queste narrazioni fanno di Dallas 2 un
vecchio libro pieno di polvere.
Così il ritorno di Dallas, prima molto annunciato e poi rapidamente abbandonato, è una sorta di epitaffio a un programma cult e alle storie (personaggi e valori) riferite a un periodo
in cui il benessere sembrava facile e per tutti. Una storia vecchia verso cui provare poca nostalgia e rimpianti.
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Marino Livolsi
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