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Ien Ang Watching Dallas Cultura di massa e imperialismo culturale A cura di Marino Livolsi ARMANDO EDITORE Sommario Premessa di Marino Livolsi Watching Dallas di Ien Ang 1. Dallas tra realtà e finzione 2. Dallas e l’ideologia della cultura di massa Nota bio-bibliografica 7 31 33 86 127 Premessa Watching Dallas e watching le soap di Marino Livolsi Un libro svelto, intrigante, anche se alla luce degli studi degli ultimi trent’anni alquanto ingenuo nelle sue proposte metodologiche e indicazioni teoriche. Con un indubbio merito. Ha anticipato un tema su cui ci si interroga ancor oggi e che può essere così sintetizzato: cosa avviene quando si guarda un testo televisivo e si “prova piacere” nel farlo? In che modo il lavoro di decodifica si accompagna ad emozioni immediate e forti anche se difficilmente descrivibili? Nella non più tanto breve storia delle soap opera, Dallas (apparso nel 1978, in Italia tre anni dopo) non è stato il prodotto più famoso o popolare (il contemporaneo Dynasty lo ha sicuramente battuto come pubblico e attenzione dei critici), ma va considerato egualmente una svolta o una data da cui partire per chi si occupa di queste tematiche. Il suo raccontare senza fine con continui rimandi, il suo stile molto giocato sui particolari testuali (i primi piani di volti o di oggetti, il montaggio veloce) è stata una grande novità per chi si era nutrito, almeno in Italia, dei “romanzi sceneggiati” in cui si trasponevano in televisione romanzi lunghi ed edificanti e, certamente, poco ancorati ai tempi nuo7 Premessa vi che anche il nostro Paese stava conoscendo. Passato rapidamente dalla RAI (una delle prime prove di “lungimiranza” dei dirigenti del servizio pubblico) alla sua concorrente Fininvest (Mediaset), impose in breve uno dei caratteri salienti dello stile della rete: quell’“immaginario nel privato” (modernità, benessere e consumi) negli anni a venire tipico del suo pubblico. Per l’Italia, ancora alquanto provinciale ma con una grande voglia di modernità, Dallas rappresentò una sorta di manifesto di una società avviata verso la post-modernità o comunque verso una società e una cultura certamente affascinanti, specialmente se confrontate con il passato anche recente. Qualcuno ha definito questa serie come la saga della “cattiveria”, nel lavoro ma soprattutto nei rapporti sentimentali. Una durezza appena mascherata dalle splendide location (gli uffici “vetro e acciaio”, le case lussuose), dalla presenza di donne bellissime, magre e truccate, vestite (anche se anziane) in modo elegante, dalle macchine enormi: il tutto in un accattivante e inconfondibile “profumo di dollari” e di forte benessere. Il messaggio di fondo suggeriva che era arrivato il tempo in cui la vita “quotidiana” era lo spazio fondamentale in cui costruirsi la propria vita, da interpretare soggettivamente e non sulla base di una morale o di una fede religiosa o, tanto meno, delle ideologie. Una “americaness” (l’espressione è della Ang) facilmente, anche se spesso superficialmente, riconoscibile e immediatamente “pleasurable”. Non stupisce che ci fossero poche obiezioni a questo messaggio: la maggior parte degli italiani era già pronta a lasciare i valori tradizionali, sempre meno credibili e al passo con i tempi. Soprattutto le norme della tradizione non sembravano permettere (neppure promettere) quelle cose affascinanti che apparivano sul piccolo schermo. 8 Marino Livolsi Dallas sembrava una versione aggiornata dell’“american dream”. Nelle storie televisive non apparivano più sceriffi buoni ed eroici, investigatori integerrimi; al contrario J.R. era cattivo nella vita privata così come nella professione, vinceva sconfiggendo i buoni senza farsi troppi problemi. Era difficile partecipare ai suoi successi, considerarli positivamente: al più lo si poteva considerare un intrigante genio del male. Era la morte dell’eroe moderno, duro ma puro. Adesso il protagonista di queste storie pensava innanzitutto a raggiungere i propri obiettivi: era l’achiever senza scrupoli di cui, da noi, sarebbe stato caricatura lo yuppie degli anni Ottanta-Novanta. Il valore (o culto) dell’autorealizzazione, secondo meriti e capacità, sarebbe lentamente degenerato nell’obbligo di dover apparire, avere successo anche seguendo vie non del tutto lecite. Lo sfondo di questo secondo “american dream” era quello di un’America “senza cattiva coscienza e nostalgia”1, in cui sembrava dominare un relativismo egoista e un cinismo ostentato. L’“edonismo reaganiano”, apparentemente trionfante, veniva paradossalmente messo in scena proprio nella città dove solo quindici anni prima era stato ucciso il Presidente “buono”: quello che aveva spinto i suoi concittadini a muoversi con coraggio verso l’affascinante frontiera di un attraente futuro ormai prossimo. Da Dallas in poi la televisione ha “messo in scena” lo spettacolo della quotidianità, molto simile alla realtà almeno così come sembrava o piaceva ai più. Esserne convinti non era difficile. Per interpretare i significati impliciti delle soap bastava il “senso comune” degli spettatori, non serviva una grande abilità interpretativa. Al fondo c’era il desiderio o il gusto della “banalità di tutti i giorni”2 che passava attraverso il profondo bisogno di continue certezze, di essere accettati “come si 9 Premessa è” e, insieme, avere quelle cose o vivere quelle situazioni che sembrano altamente desiderabili. I. Leggere le soap come piacere immediato Come si è detto, da Dallas in poi la gran parte degli utenti televisivi “incantati” ha utilizzato gli schemi cognitivi relativi all’interpretazione dei testi mediali per cercare di capire cosa avveniva anche nella vita “vera”, nei rapporti con gli altri, e non viceversa. Non si capirebbe questo “passaggio” senza tener conto di un fenomeno (per allora) nuovo e importante: la televisione pedagogica (povera e un po’ provinciale) stava lasciando il passo all’“abbondanza televisiva”, provocata dalla sciagurata lotta tra RAI e Fininvest (Mediaset) allo scopo di catturare il più gran numero di spettatori da vendere agli utenti pubblicitari. Nella grande offerta a disposizione, era sempre possibile (ogni sera) avere nuove occasioni di interesse o divertimento. Il piacere si realizzava nell’essere coinvolti all’istante da ciò che si vedeva. Era come vivere nel Paese dei balocchi. Una proposta caratterizzata dall’“eccesso narrativo”, strumento necessario per avere immediato successo: utilizzare le “tinte forti” sembrava obbligatorio. Nelle soap, le passioni dei protagonisti erano simili a quelle di un moderno melodramma3. Ciò che veniva narrato doveva portare immediatamente al riso o (più facilmente) al pianto, comunque catturare all’istante, commuovere. Non c’era spazio per la riflessione: in tempo reale si dovevano interpretare frammenti di un testo che scorreva sul piccolo schermo velocemente. Di conseguenza l’interpretazione era guidata dal piacere immediato e non dalla ragione o da profonde considerazio10 Marino Livolsi ni culturali. Da questo momento il “piacere” immediato diventa la molla fondamentale della fruizione di questi testi, in seguito anche di tutti gli altri generi (si pensi all’“infotainment”) televisivi. La Ang non ne dà una definizione precisa, ma una serie di considerazioni esposte in Watching Dallas ci guida nell’interpretazione del concetto di piacere. Secondo l’autrice è il coinvolgimento emotivo (spontaneo) a “provocare” la spinta immediata ad entrare in un testo e a giocarci; un “emotional realism” che fa riconoscere (e immediatamente) apprezzare una situazione emotiva già provata (o vista) in precedenza o che “è bello provare”. Assistendo ad una storia “senza fine” (con un lieto fine rimandato all’infinito) sembra di riconoscere molti tratti della “problematica della vita”. Il vissuto di esperienze (reali o presunte) che si è imparato a ri-conoscere, anche se non si sono sempre vissute direttamente. Una “recognition” che si fonda su un “realismo dell’illusione” che dà più significato ai valori dei sentimenti e delle passioni che non ai problemi concreti della vita vera. Un realismo emotivo che si fonda su una naturale (innata?) “structure of feeling”, dove le emozioni fluttuano continuamente tra felicità e infelicità e vengono utilizzate per valutare all’istante ciò che accade. Un’illusione resa credibile dal vedere cose, ambienti e situazioni, personaggi che “sembrano veri”. La realtà dei luoghi e degli oggetti “garantisce della verità” dei sentimenti dei protagonisti, anche se rappresentati con i toni del moderno melodramma: ovviamente meno urlato e più realistico di quello tradizionale. In più occasioni, la Ang afferma che il “piacere” sta più nel modo in cui alcuni particolari del testo (le “textual characteristics” o i “textual tricks”) riescano immediatamente a catturare l’attenzione del lettore, anche se non spiega come con11 Premessa cretamente ciò avvenga. Questo era ovviamente difficile sulla base di una metodologia fondata su un ristretto numero di spettatori (42) che aveva risposto all’invito (pubblicato su un giornale) dell’autrice, che chiedeva semplicemente: “tell me why you like watching it, or dislike it?…”. Era quindi naturale che le risposte portassero ad un processo di razionalizzazione fondato sulla ricostruzione “ex-post” dell’esperienza ricavata dalla visione del programma: una ricostruzione di ciò che era avvenuto in un passato più o meno recente. Ma il “piacere” non può essere interpretato ex-post; lo si deve più correttamente interpretare come l’esperienza che un soggetto compie, in tempo reale, mentre assiste alla visione di un filmato (o, meglio, di un suo frammento) e secondo una sequenza che possiamo riassumere sinteticamente così: situazione (contesto della fruizione) – aspettative/ motivazioni – ascolto-visione (percezione) – selezione di un frammento del testo (che attrae l’attenzione) – decodifica/comprensione (per inferenza a schemi cognitivi-culturali consolidati e soggettivi) – attribuzione di significato (sense meaning) – valutazione – messa in memoria (ricordo) – eventuale (in base ad una soggettiva aggiunta di valore) interiorizzazione Di questa sequenza, il lavoro della Ang si rifà solo a poche fasi e l’analisi non può non risentirne. La stessa autrice anche in Watching Dallas, aveva ricordato come coloro a cui non piaceva questa soap partivano da motivazioni non legate alla immediata fruizione del testo, ad esempio dichiarandosi contrari alla futilità dei valori espressi dai protagonisti e, nel caso di alcuni, dal loro de12 Marino Livolsi ciso rifiuto dei valori di fondo della società capitalistica ivi rappresentati. Come dire che, nella decodifica-valutazione di un testo (o di alcune sue parti o frammenti), non tutto è legato all’istintivo e immediato “piacere” di vedere, ascoltare. Questo è un aspetto fondamentale messo in luce da Liebes e Katz4 quando, alcuni anni dopo, analizzarono le reazioni a Dallas. Ricorrendo ad una metodologia di tipo etnografico, i ricercatori intervistarono 66 gruppi di 6 persone ciascuno (di questi 45 in Israele, 10 negli USA e 11 in Giappone; nel caso degli israeliani si tenne conto di diverse etnie a seconda dei Paesi di provenienza degli intervistati). I colloqui seguivano la visione, assieme ad un intervistatore, di un episodio della soap; il focus della ricerca era quindi centrato sui modi del “raccontare” (retailing) quanto avevano appena visto. Ovviamente una tale metodologia ha permesso un approfondimento maggiore sulle motivazioni e sulle valutazioni degli spettatori, permettendo di approfondire le prime e meglio analizzare le seconde. Ciò anche considerando che, lavorando in gruppo e confrontandosi con gli altri partecipanti e il ricercatore, il “riassunto” si trasformava in una sorta di “comulative storytelling”, con un aspetto “valutativo” certamente meno casuale e soggettivo. Gli autori, prendendo spunto da una proposta di Barthes, hanno individuato tre diversi e fondamentali tipi di retailing e cioè il modo di ricordare e di esporre ciò che essi ritengono importante. Il primo si fonda sul racconto lineare che si riferisce alle vicende e alle azioni svolte dai protagonisti, seguendo l’ordine cronologico e narrativo suggerito dalla trama: è quindi fortemente “referenziale” in quanto segue e accetta l’impostazione del testo non introducendo considerazioni personali; è quindi “oggettivo”, chiuso e prevedibile. In questo caso 13 Premessa gli intervistati non esprimono dubbi sulla “non realtà” della storia narrata, ma ne rispettano i cliché narrativi, anche se riferiti ad un contesto sociale da loro non condiviso, ma comunque riconosciuto come caratteristico di una certa società e di un certo tempo. Il secondo tipo è caratterizzato da un racconto “segmentato” e riferito solo a singole parti del testo (quelle di maggiore interesse per gli intervistati) di cui viene fornito un resoconto soggettivo, a forte impronta psicologica ed emotiva, e di cui si tenta una interpretazione (ad esempio sul “perché” dell’agire e sulle caratteristiche di alcuni personaggi); un racconto più aperto alle possibili e diverse interpretazioni soggettive fondato su un fondamentale atteggiamento di “gioco” (“ludico” come è definito dai due autori) con un approccio più emozionale che cognitivo. Il terzo si fonda sul tentativo di estrapolare le tematiche (o messaggi) di fondo, spesso in chiave critica, con una chiara impronta culturale se non ideologica, utilizzata per arrivare ad una valutazione sui significati espressi o impliciti del testo. Ricorrenti, in questo contesto, le “accuse” alla scarsa (o nulla) moralità dei personaggi e alcune considerazioni (anche se alquanto generiche ed astratte) del tipo che “la ricchezza non assicura la felicità”. Questo modo di “porsi” verso il testo ha indotto gli autori a considerare una semplice tipologia basata su due variabili; la prima si riferisce alle modalità del riassunto (distinguendo tra un orientamento valutativo ed uno di semplice esposizione); la seconda è invece relativa al modo di atteggiarsi verso la storia, dagli autori definita sulla base dell’opposizione tra un comportamento partecipativo (“caldo”) ed uno più neutrale (“freddo”). La combinazione di queste due variabili dà luogo alla seguente tipologia: 14 Marino Livolsi Atteggiamento Modalità di retailing Caldo Freddo Morale Ideologico Estetico Referenziale Ludico Critico La combinazione delle due variabili suggerisce quattro modi diversi di porsi verso ciò che si è visto. Senza entrare nel merito delle definizioni, possiamo riconoscere che questi tipi danno un quadro significativo (anche se forse non esaustivo) delle possibili letture di un testo, che vanno da quella più emotiva e disimpegnata (ludica) a quella più razionale e impegnata (ideologica). Come sottolineano i due autori, più gli intervistati considerano il testo reale e verosimile più il tipo di interpretazione è critico e analitico; più lo considerano poco reale e verosimile più il tipo di interpretazione è meno critico e più attratto da dimensioni di carattere ludico (simile a ciò che la Ang ha definito “piacere”). Come dire che i tipi possibili di lettura di un testo possono articolarsi nei due opposti estremi: l’immediato “piacere” e la “critica” di tipo culturale o ideologico. Ovviamente nel primo caso la “lettura” si riferisce più ai modi testuali o discorsivi (in passato si sarebbe detto la forma), mentre nel secondo ci si riferisce più ai contenuti (a ciò che il testo e i suoi autori hanno voluto significare). In questa prospettiva, ricordiamo che Dallas, visto in oltre cento Paesi, ha conosciuto solo due casi di deciso “rifiuto”: in Giappone (a causa dell’inconsistenza delle storie e della “rozzezza narrativa” oltre che per l’improbabilità dei caratteri dei personaggi) e in Brasile, dove non si è apprezzata l’esagerata intersezione, l’intrecciarsi delle molte storie parallele e la “non passionalità” dei personaggi (in senso opposto al Giappone) nel manifestarsi i loro sentimenti. 15 Premessa II. Dopo Dallas… Le soap, come genere, hanno sempre più caratterizzato il flusso televisivo: in quantità e in qualità. È difficile parlare dei telefilm come un insieme definito e omogeneo. Nella ormai lunga storia di questo genere (in cui vanno considerate centinaia di narrazioni con un’infinità di trame e personaggi) non è facile ricostruire un percorso unitario e lineare a cui riferirsi, anche per cercare di ricostruire alcune sue fasi o periodi nel tempo. Riteniamo che un’impresa del genere sia quasi impossibile se non partendo da una specifica e forte ipotesi interpretativa. Quella che avanziamo (e che ci guiderà nelle prossime pagine) si fonda sul tentativo di “seguire nel tempo” il modo in cui le soap hanno rappresentato progressivamente il “reale”, la società del tempo. Anche facendo riferimento ai contributi di alcuni autori (ad esempio Allen), possiamo proporre (alquanto arbitrariamente e per necessità di sintesi) quattro periodi di un ipotetico percorso dei telefilm negli ultimi 60 anni circa. Il primo (dagli anni Cinquanta agli anni Ottanta) si può ulteriormente dividere in due fasi: s’inizia con prodotti molto diversi tra loro, come ad esempio i “gialli” creati e diretti da Hitchcock (1955-1965) o quelli dell’avvocato Perry Mason (1957-1966), il western Bonanza, i telefilm con eroi animali (come RinTinTin, Lassie, Furia), lo humour nero della Famiglia Addams. Racconti ancora molto “cinematografici”, conclusi in gran parte in un solo episodio. In questo primo periodo si può ancora riscontrare un certo aggancio alla realtà: anche se “inventate”, le vicende narrate si sforzano di sembrare simili a quelle che gli spettatori potrebbero vivere davvero. La seconda fase è segnata da Star Trek (1966-1969; da noi trasmesso fino ai primi 16 Marino Livolsi anni 2000): il primo telefilm “di culto” che ha segnato la nascita del fenomeno fandom, con numerosi circoli di appassionati, pubblicazioni, cerimonie, etc. Il primo esempio di una mania planetaria e la nascita di un genere che avrà numerosi seguiti anche al cinema. Un prodotto che ha spinto ad immaginare un futuro “fantascientifico”, alla ricerca di altri mondi, di altre genti e civiltà. Sullo sfondo, il mito della “nuova frontiera” di cui aveva parlato Kennedy qualche anno prima e, ancor più la corsa nello spazio che culminò, nel 1969, con lo sbarco del primo uomo sulla Luna in diretta televisiva. Ma la vera svolta avviene con il secondo periodo: i prodotti apparsi negli anni Settanta. Tra gli altri Happy Days con l’ilare Fonzie diventato l’icona televisiva dell’epoca. Ricordiamo che nel 1978 un personaggio, assai simile nel look, “ballava il sabato sera” con incredibile leggerezza, mentre in Italia attentati e bombe riempivano le pagine dei giornali. Poi sono arrivati i “poliziotti”: prima di tutto l’inossidabile Colombo (1971-1977 e 1989-1993) che, per quanto umile e stropicciato, era tuttavia capace di “mettere in riga” ricchi e potenti. Ma la cosa più rilevante è che nascono e si impongono alcuni archetipi narrativi tipici di questo genere, come ad esempio l’insistere dei primi piani sul viso scaltro di Colombo, il suo “tornare indietro” e dire la celebre frase “non ho capito una cosa” che anticipava il finale e la spiegazione di una storia non tanto misteriosa. In questo stesso periodo va anche ricordato M.A.S.H. (1972-1983), in cui un gruppo di medici “in prima linea” mescola una forte professionalità con una vita personale all’insegna dello scherzo (anche pesante), del sesso, e dell’irriverenza verso certi valori consolidati (l’esercito, la Patria), etc. È la nascita di un genere misto, tra dramma e commedia, che ritornerà 17 Premessa molto spesso negli anni a venire. Possiamo chiudere emblematicamente questa fase con Dallas (1978). Ma il “trionfo” di questo genere si celebra all’inizio degli anni Ottanta in parallelo ad una serie di fenomeni a livello tecnico-produttivo che mutano il quadro della domanda-offerta nel consumo televisivo: ad esempio la nascita della TV via cavo che fonda le sue entrate sugli abbonamenti e quindi deve cercare il successo e la fidelizzazione di utenti più differenziati e esigenti con prodotti di qualità. Nascono in questo periodo prodotti di enorme successo quali Hill Street, giorno e notte (1981) che insiste sullo schema delle molte storie intrecciate e legate tra loro, con brevi episodi dal montaggio veloce e un grande uso dei primi e contro piani. La narrazione è cruda e realistica, non ricorda certo gli stereotipi hollywoodiani. Anche in queste storie si racconta la sempiterna lotta tra bene e male, tra onesti e disonesti; solo che l’happy end non sempre è scontato. Finisce l’illusione che la società sia regolata dall’ordine: il disordine della città è il disordine (più che drammatico è triste il modo in cui si è costretti a viverlo) dei suoi personaggi. Si rappresenta il reale, ma le differenze tra giusto e ingiusto diventano sempre più sfumate, i personaggi non sono eroi a tutto tondo, hanno spesso profonde incertezze su come comportarsi. Ma quasi a confortare la nostra ipotesi (molti prodotti tra loro differenti non riescono a “caratterizzare” compiutamente un periodo e, tanto meno, un genere) negli stessi anni appaiono altre serie solo apparentemente dello stesso tipo. La prima è Miami Vice (1984) in cui si “mette in scena” l’altra America o meglio lo stereotipo dell’altra America. Quella del lusso e dei consumi, della bellezza, dei luoghi da favola, delle macchine “da ricchi”. I protagonisti sono due poliziotti, non troppo 18 Marino Livolsi scaltri, impegnati in indagini non eccezionali. L’unica piccola novità è che il più furbo e simpatico ha la pelle più scura del suo compagno bianco. Non a caso, nello stesso anno, viene trasmessa I Robinson, una serie che presenta una famiglia borghese americana, umana e intelligente in tutti i suoi componenti, ma con una particolarità: l’essere i membri di questa famiglia “all black”. Si arriva così agli anni Novanta. I telefilm sono ormai i prodotti di qualità della TV. Questo periodo è caratterizzato da due titoli: I Segreti di Twin Peaks (1990) e X-Files. Il mistero porta definitivamente il “dis-ordine” nel mondo reale. Il primo è definito da Grasso come “un’avventura metafisica tra i segreti del male”12. Si mette in scena un mondo a volte sconvolgente, arcano, molto distante da quello rappresentato fino a poco tempo prima. Si respira la crisi della società moderna degli anni Novanta e il procedere difficile verso la post-modernità. La malvagità è la norma e nessuno ne sembra immune. Anche i due tutori dell’ordine ne sono sfiorati. È un nuovo genere (hornoir) che mescola horror e noir. Adesso nella finzione entrano prepotentemente l’eccesso, l’irreale e il soprannaturale. Nulla sembra più essere normale, anche nello scenario di una realtà (la provincia americana) che sembrerebbe la più tradizionale e tranquilla che si possa immaginare. Anche i modi narrativi (la fotografia, il montaggio, una musica funzionale, alcuni particolari “intriganti” come l’ululare di lupi, i giochi di luce e il taglio delle immagini) parlano di una svolta importante nella ideazione-produzione dei serials. Qualcosa di analogo avviene nell’altra grande proposta di questi anni: X-Files (1994), dove il “dis-ordine” è alla base di una nuova estetica. Il mistero è la dimensione della normalità, quella che permea la quotidianità della gente comune: in ogni istante può av19 Premessa venire qualcosa di inusuale, di molto diverso dal modo in cui si comportano le persone, anche quelle conosciute e frequentate da sempre. È indicativo che un personaggio dica esplicitamente “non fidarti di nessuno”. Fragili confini separano investigatori e inquisiti, in un mondo dove il male e la sua incarnazione del momento (la corruzione) sono una presenza costante e potente. Poliziotti, avvocati e medici sono le figure incaricate di “capire e combattere il male” in tutte le sue forme: a questo scopo svolgono indagini su personaggi sempre meno somiglianti ai personaggi “belli ed eleganti” dell’immaginario filmico di stampo hollywoodiano. Poliziotti, come quelli di N.Y.P.D. (1993) e C.S.I. Scena del crimine (2000), tutt’altro che eroi, non vivono una missione in cui identificarsi, fanno un mestiere per cui sono pagati. A volte si fanno “comprare” come accade per ogni altra cosa nella società in cui agiscono: forse il crimine “non paga” sempre, ma qualche volta permette una certa ricchezza e di avere le cose che tutti hanno. Accanto a loro schiere di medici: i più celebri sono i protagonisti di E.R. medici in prima linea (1994) e il Dr. House (2004). In entrambi i casi il sistema sanitario americano è trattato come un “docudrama” in cui è difficile distinguere tra realtà e fiction, ma anche tra abnegazione e debolezze umane. In particolare il Dr. House è l’incarnazione di questa ambiguità: bravissimo diagnostico è però poco simpatico e poco presentabile (è sciatto, veste male, ha perfino una leggera zoppia). È la metafora della scienza potente e della debolezza dell’uomo. È un mondo ancora prevalentemente maschile: le donne hanno spesso ruoli anche non marginali, ma non sono mai “al comando”. Quando diventano protagoniste, esprimono una ambigua moralità. Sono, ad esempio, le protagoniste di Sex and the City 20 Marino Livolsi (1998) e Desperate Housewives (2004). Donne tra loro molto diverse: nel primo caso belle, affascinanti e spregiudicate, professioniste e “donne in carriera”; nel secondo piccolo-borghesi che vivono una vita solo apparentemente normale, in una cittadina di provincia dove pettegolezzo e mistero sembrano essere i tratti dominanti. Le prime, in particolare, vivono in contesti “patinati” dove i consumi sfiorano il lusso, le location sono “di sogno”, i personaggi sembrano usciti da «Vogue» o da «Variety». Del resto le storie narrate e la morale che le regge sembrano uscite proprio da una rivista femminile moderna e per donne raffinate e alquanto spregiudicate. Le loro avventure sentimentali hanno lo scopo di “trovare” uomini che possano dare amore per qualche tempo, visto che “per sempre” appare impossibile. Il sesso è la forma fredda e moderna di quel sentimento che poteva spingere, un tempo, le eroine delle storie romantiche al sacrificio. Arriviamo così all’ultimo periodo, alle narrazioni più recenti. Adesso più che le storie contano i particolari testuali e quanto essi intendono alludere rifacendosi alla “competenza” alta degli spettatori. Le metafore sono spesso esasperate. Ad esempio in Lost i protagonisti sono gettati, dopo un incidente aereo (l’inaffidabilità della tecnologia imperante), su un’isola sconosciuta e selvaggia (come la società del tempo) dove devono lottare impreparati (ai tempi nuovi e alle difficoltà a cui non sono stati addestrati) per sopravvivere (un’impresa difficile senza lieto fine) senza la possibilità di ricevere un aiuto (che nessuno sembra in grado di dare loro). Ancor più significativo è che questi naufraghi si sono lasciati alle spalle il nulla (esperienze e rapporti sociali poco significativi) e non sembrano avere prospettive o sogni per il futuro (come nella società attuale). Vagolano tra il pas21 Premessa sato (flash-back) e il “domani” (flash-forward) senza trovare alcun senso in ciò che fanno. Tutto sembra essere affidato più al caso che non ad un possibile obiettivo condiviso per cui lottare. Ma la metafora più intrigante è che i personaggi vivono in una società senza delimitazioni significative di spazio (l’isola non ha confini certi e una misteriosa botola potrebbe portare in luoghi misteriosi) e senza indicazioni di tempo (si vive in un presente indefinito). È quanto caratterizza la rappresentazione mediale della società contemporanea, dove si mostrano luoghi diversissimi e si vivono storie ambientate in tempi che oscillano tra il lontano passato e la fantascienza. La parabola, iniziata negli anni Ottanta e accelerata verso la fine degli anni Novanta, sembra ormai conclusa. La nostra ipotesi coincide con quanto afferma la Ang13 quando sostiene che le soap, adesso, “generano significati” non più riferiti (come fino agli anni Ottanta) ad un mondo sociale “ordinato” nelle sue norme e valori, ovviamente quelli tipici della società borghese e moderna. Un mondo verosimile (“as-if-it-were-real”) anche se non vero. In quel contesto il male veniva condannato, la devianza osteggiata. L’eccesso melodrammatico (i comportamenti di quei personaggi) costituiva una indiretta conferma che si trattasse di un caso estremo, di un’eccezione. Nel bene o nel male, un “ordered normative system” a cui fare riferimento era ancora evidente e indicato positivamente. Ma da Twin Peaks a Lost il realismo è stato sostituito dall’eccesso, come rifiuto del normale, dell’interpretabile razionalmente. Ora il realismo sembra partire, paradossalmente, dal rifiuto della realtà come si è conosciuta-interpretata fin qui. Il “nuovo” realismo (la “real TV”) spinge ad accettare ciò che accade, anche se appare innaturale o ai limiti (estremi) del “noto e conosciuto”. Non c’è più 22 Marino Livolsi “normalità”, non ci sono indicazioni sicure. Non ci sono più buoni o cattivi, il bene non è detto che trionfi sempre sul male. Le soap più recenti sembrano rappresentare la fine della società (o della cultura) così come condivisa a lungo. Gli eventi straordinari sono adesso la norma, il reale si mescola con mondi fantastici; l’insolito è un elemento nuovo (nella soap come nella vita) che cambia le cose ma va accettato come un fatto naturale. Nelle soap non ci sono più norme e valori (“as-we-knew-them”): del resto è ciò che accade nella vita reale o nell’esperienza della quotidianità di gran parte delle persone, almeno da quando il crollo delle Twin Towers ci ha introdotto ad un mondo complesso e difficile da prevedere e vivere. III. Per finire Quanto appreso nella vita reale (nella socializzazione a cui ognuno deve il fatto di essere una certa persona) non è più sufficiente a “spiegare” quanto si vede negli ultimi serials (dove predomina il surreale e fantastico e, quindi, il “non-sense”), al contrario, quanto suggerito dalle vicende narrate e dall’agire dei personaggi di queste storie sembrerebbe fornire un possibile “senso” a ciò che nella vita vera non sembra averlo più, specialmente quando il nuovo e l’inaspettato tendono a far implodere norme e comportamenti tradizionali. In questi più attuali “processi cognitivi”, l’estetica (la sensibilità tipica del “performer” narcisista) sembra dominare sull’etica e la cultura tradizionali; le piccole storie (o addirittura quanto emerge da pochi frammenti) vengono vissute con più interesse e coinvolgimento rispetto alle grandi narrazioni che vengono dal passato e spiegavano il “senso del23 Premessa la vita”. L’interpretazione di ciò che si vede non è più orientata dalla narrazione complessiva, il “messaggio” dei tempi andati. Adesso, quando scatta l’interesse, il piacere (immediato) nasce dall’interrogarsi su cosa possano significare (o a cosa possano alludere) i “textual slices”, considerati alla stregua di indizi capaci di suggerire (allo spettatore-investigatore) un particolare significato tra i molti possibili. Sono i dettagli narrativi (la sottolineatura musicale, il particolare tipo di ripresa o montaggio, etc.) a procurare immediato piacere, a indurre al coinvolgimento con quanto si vede-ascolta. Così una storia “prende” più per la sua costruzione testuale (specialmente se originale o fortemente allusiva) che non per la sua trama o i suoi contenuti. Un piacere che si fonda su una naturale (più o meno profonda) competenza di tipo semiologico14 basata su una naturale capacità di “lavorare” sul testo e operare sulla sua polisemia; in particolare quando un testo è “aperto” (Eco) come quelli dei serials di ultima generazione. Come affermano Abercrombie e Longhurst: “text is not monolithic with a strong preferred meaning”15. Il significato va cercato ed evidenziato dal lettore-interprete. È in questo lavoro, a livello cognitivoemotivo (dove è più facile che si riconosca e si apprezzi il già visto che non il nuovo e l’inaspettato) che si realizza il piacere di chi guarda una soap moderna. I performer giocano con il testo mentre “performano” la loro identità in una costruzione continua, difficile ma stimolante, del loro progetto di vita, surfando tra le più diverse esperienze. Già da quanto detto da Ang e Katz era evidente come due fossero sostanzialmente i “piaceri” dello spettatore delle soap. Il primo, immediato, nasceva dal farsi coinvolgere emotivamente (e immediatamente) dalle situazioni e dai personaggi; il secondo, più indiret24 Marino Livolsi to e “colto”, dal confrontare i valori espressi dal testo con i presupposti di fondo della propria appartenenza culturale o sociale. A distanza di trent’anni circa, possiamo ritenere tuttora valida tale distinzione a patto di aggiornarla. A nostro avviso, il piacere immediato è, in proporzione, cresciuto nel tempo. Oggi, questo consiste nel saper individuare nelle text slices (o frammenti) quei particolari formali che colpiscono per la loro capacità di impatto e/o originalità. È questo il prodotto dell’aumentata “capacità interpretativa” (o literacy mediale) che per i più anziani è maturata nel tempo e per i “nativi televisivi” è del tutto naturale. Una skilled literacy fa apprezzare il ritmo rapido della narrazione e il montaggio veloce, l’incrociarsi continuo del tempo presente con quello passato (flash back), il gioco dei “primi piani” (che sono veri e propri schemi interpretativi suggeriti dall’abilità degli attori) o l’indulgere della camera su alcuni oggetti o luoghi, le sottolineature interpretative dovute all’utilizzo funzionale della colonna sonora, il ricorso ad abili cliffhanger per interrompere, con particolare suspense, la narrazione, etc. Il piacere “cognitivo” non è del tutto scomparso anche se oggi questo non sembra più essere legato al condividere alcuni valori o modelli di comportamento sociale, ma più semplicemente al trarre conferme o apportare piccole e funzionali correzioni rispetto agli “schemi cognitivi” appresi fino a quel momento o alla pertinenza ed omogeneità con lo stile di vita che il soggetto si è scelto. Queste considerazioni si fondano su un presupposto implicito ma fondamentale: il reale è quello “rappresentato” dai media e in particolare dalla TV; l’esperienza concreta sembra essere sempre meno significativa e, quindi, non meritare una particolare attenzione tesa a comprenderla e valutarla. È importante 25 Premessa solo ciò che “appare nei media” ed è immediatamente convincente o affascinante. Le soap moderne si muovono in questa direzione, hanno reso il mistero e il fantastico “normale”: si possono vedere creature misteriose che si comportano normalmente (gli alieni che circolano tra gli umani) o il male che sconfigge il bene, senza restarne particolarmente sconvolti. Tutto sembra possibile. Non è più necessario sospendere momentaneamente la propria incredulità, come accadeva alle spettatrici di “Dallas”16: adesso non importa neppure che ciò che si vede sia (almeno) verosimile. Il relativismo (poco responsabile) nel sociale si impone anche per questa via. Sono le emozioni a “guidare l’agire”, almeno nella vita quotidiana. È l’esperienza comune e caratterizzante della postmodernità che le soap hanno anticipato e legittimato. NOTE 1. M. Maffesoli, Da ‘Dallas’ a ‘Plus belle la vie’, in F. La Rocca, A. Malagamba, V. Susca (a cura di), Eroi del quotidiano. Figure della serialità televisiva, Bevivino, Milano-Roma, 2010. 2. Ibidem. 3. I. Ang, Watching Dallas. Soap Opera and the Melodramatic Imagination, Methuen, London, 1985. 4. T. Liebes, E. Katz, The Export of Meaning. Cross-cultural Readings of Dallas, Polity Press, Cambridge, 1993. 5. I. Ang, Cercasi audience disperatamente, il Mulino, Bologna, 1998. 6. Ivi, p. 283. 7. Ivi, p. 280. 8. N. Abercrombie, B. Longhurst, Audiences: A Sociological Theory of Performance and Imagination, Sage, London, 1998. 26 Marino Livolsi 9. M. de Certeau, L’invenzione del quotidiano, Edizioni Lavoro, Roma, 2001. 10. N. Abercrombie, B. Longhurst, op. cit. 11. A. Grasso, Buona maestra. Perché i telefilm sono diventati più importanti del cinema e dei libri, Mondadori, Milano, 2007. 12. Ivi, p. 97. 13. I. Ang, J. Stratton, The end of civilization as we knew it: ‘Chances’ and postrealist soap opera, in R.C. Allen (ed.), To be continued… Soap opera around the world, Routledge, London, 1995, pp. 122-144. 14. J. Fiske, Television Culture, Routledge, London, 1989. 15. N. Abercrombie, B. Longhurst, op. cit., p. 18. 16. Nel riproporre il volume di Ien Ang, non si può non far riferimento al sequel di Dallas, recentemente trasmesso sugli schermi italiani: un furbo sequel di una serie cult in cui non si è tenuto conto degli anni che passano. Dallas, al suo apparire, era il messaggio (affascinante nella sua patinata brutalità per gli italiani ancora poveri e ingenui) del capitalismo cattivo che “comunque” assicurava ricchezza e riconoscimento sociale. Gli anni trascorsi hanno mostrato la falsità e la vacuità di questo messaggio. Non a caso, si è passati dalla società industriale, degli imprenditori duri e achiever, alla società liquida, in cui gli attori sociali si interrogano sul senso e i significati da dare ai loro progetti di vita, non sempre riuscendoci. Allora Dallas rappresentava una possibile deroga alla morale puritana del “castigo per i cattivi” in nome del successo “terreno”, della ricchezza e del denaro, entrambi molto ostentati. Adesso, nell’epoca del disincanto, questi personaggi, più che oggetto di condanna morale diventano oggetto di sarcasmo. Nella prima puntata del sequel, nuovi personaggi o “reincarnazione” di quelli scomparsi (come gli attori che li rappresentavano), si mescolano a pochi vecchi attori-personaggi che sembrano usciti dal “Museo delle cere”, tutti rughe e sul punto 27 Premessa di deflagrare in mille pezzi; il richiamo a certi film horror è d’obbligo. Il nuovo J.R. è solo la caricatura di quello precedente. Le sue malefatte incerte rappresentano il delirio di un vecchio ormai fuori dal mondo in cui è “condannato” a vivere. Non è più la maschera ambigua e tragica del potere, ma solo lo spettro di una cattiveria che distrugge ogni cosa senza costruirne altre socialmente più utili o almeno funzionali a un uso spregiudicato del potere. Temi quali denaro e petrolio portano molti (anche tra i meno attenti) ad associare il mondo finzionale rappresentato in Dallas, alle “malefatte” (le tragiche guerre) degli USA cattivi, in cui l’american dream ha corso il rischio di trasformarsi in una gara al “più perfido vince”. Tra l’altro un mondo messo in ombra dalla pesante e vincente concorrenza del Finanzcapitalismo. Quanto alla storia, la mancanza di personaggi buoni e il mancato (o troppo rinviato) “lieto fine”, che allora aveva stupito e attratto, sembra oggi poca cosa, se paragonato agli intriganti personaggi delle fiction più recenti (da X Files a Lost) dove il bene e il male (il senso ultimo della vita) sono considerati diversamente. Il realismo tragico di queste narrazioni fanno di Dallas 2 un vecchio libro pieno di polvere. Così il ritorno di Dallas, prima molto annunciato e poi rapidamente abbandonato, è una sorta di epitaffio a un programma cult e alle storie (personaggi e valori) riferite a un periodo in cui il benessere sembrava facile e per tutti. Una storia vecchia verso cui provare poca nostalgia e rimpianti. 28 Marino Livolsi BIBLIOGRAFIA N. Abercrombie, B. Longhurst, Audiences: A Sociological Theory of Performance and Imagination, Sage, London, 1998. R. Andò (a cura di), Audience Reader, Guerini, Milano, 2007. R. Andò, Lost. 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