Treno mica casa tua!

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Treno mica casa tua!
TRENO MICA CASA TUA (da “Pinguini nel deserto”)
® Martino Gonnelli S.I.A.E. COD.96472
– Fanculo! Treno mica casa tua!
Concetto in gran parte condivisibile. Eppure…
Una comitiva allegra, a modo suo, magari un po’ rumorosa, ma è come se fra tutti,
loro fossero le uniche su questo treno ad aver capito di cosa è fatto. Le uniche ad aver
mantenuto un contatto reale col metallo, la similpelle grassa e sporca e le pareti in
formica finto-legno.
Sono sempre almeno cinque o sei, giovani, dai diciannove ai trentacinque anni, di
colore, simpatiche, indubbiamente prostitute. Grottesca coincidenza scendono sempre
alla fermata di Lomazzo: roba da cabaret di quarta categoria.
Un gran casino, non c’è che dire. Entrano, ridono, parlano, urlano nel loro
misterioso idioma. Una lingua contenuta tutta nello scantinato di una emissione
gutturale e stridula che evoca un altrove tutt’altro che esotico, nessuna collocazione
reale, una vastità di territori indefiniti e pochi concetti precisi: africano, straniero,
extracomunitario. Treno di immagini che sale sul treno: precarietà, ostracismo, non
appartenenza, lontananza, eppure iperrealtà, presenza fisica e disponibilità.
Disponibilità a ricevere e a farsi dare del tu. Automatismo dettato dalla quotidianità.
Chissà quanta altra disponibilità…
– Uè! Ti prendo a calci in culo e ti faccio scendere! – dice l’ometto.
– Fanculo! Treno mica casa tua!
Una logica schiacciante si oppone al pragmatismo del controllore.
Evidenti e miseri i commenti compiaciuti delle signore. Nello sguardo vuoto dei
pendolari l’affanno per la ricerca di scorie di concetto da svuotare nei già vuoti luoghi
comuni a disposizione.
– Perché non se ne vanno a casa loro?
– È uno schifo!
– Meno male qualcuno interviene.
– Ci vorrebbe un controllo.
E infatti è intervenuto il controllore.
Non per irregolarità formali e/o evidenti trasgressioni alle normative della premiata
compagnia ferroviaria, ma per la mancanza di misura e per le maniere festose e sguaiate
delle signorine; laddove il bon ton del pendolare definisce indecoroso ogni
atteggiamento spinto oltre la dinamica del “Codice Standard”: una sinusoide
emozionale che va dal sonno o lo stand-by sinaptico (curva bassa), allo sfoggio di una
pungente e forbita ironia sessuale tra colleghi, ad uso esclusivo del mattacchione
dell’ufficio (curva alta).
– Se rispondi ti sbato giù! T’è capi’?
– Io risponde, io capisce tua lingua. Perché non può rispondere?
Brutta bestia l’italiano, cela trabocchetti proprio ai sostenitori più accaniti della
patria.
– Vaffanculo, ti ho detto che se rispondevi ti avrei fatto scendere
– Fanculo tu. Treno mica casa tua!
Argomentazione stringente che fa vacillare l’autocontrollo del controllore, per la
prima volta nostro alleato. Un papà che si prende responsabilità sgradevoli. Meno male
che interviene lui. Grazie papà.
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Poi d’improvviso avviene.
Due palline marroni si spalancano verso di me e, per un attimo di sei ore, la più
anziana mi guarda. Lievissima increspatura delle labbra, richiesta di solidarietà,
subliminale affermazione di diritto, proclamazione di indipendenza della carne, libera
trasmissione di intesa, SOS semplicemente umano. Che si infrange sui gradini di
alluminio della scaletta del piano superiore, sotto la spinta del braccio maldestro e
autoritario del controllore.
La ragazza precipita dai tacchi, frana addosso alla compagna (che si sposta appena,
agile) e finisce a terra. Il raso bruno e liscio della guancia si apre con la zip di fil di ferro
del sigillo del freno di emergenza. Schizzo di sangue sul pavimento, sulle mani e sulle
maglie sbrilluccicose del gruppo. Sangue rosso, strano. Accostamento di colore
azzardato quanto quello dell’ombretto. Poi, diretta personalmente da Riccardo Muti,
l’esplosione armonica di urla in gamma altissima: tweeter di titanio forgiati nei seni
abbondanti e solidi di pelle nera. Spiritual estemporaneo, gospel dell’orrore e della
rabbia.
La ragazza si alza, urla e piange in parti uguali. Con la destra trattiene insieme i
lembi di carne in sorprendente esplosione cromatica, con la sinistra cerca di colpire
svagatamente il controllore (che ha perso il controllo, il contatto con la realtà e il suo
cappello; ed è in un limbo di incertezze sulla priorità di disperazione: timore per
denuncia di abuso o terrore di contagio?). Ed è quella magra con la scollatura profonda
ed i capelli a caschetto che lo colpisce. Sulla testa, con la borsetta di cuoio. Due volte.
Chi l’avrebbe detto, così magra, minuta? È brava, però non viene voglia di dirle brava.
Il controllore vacilla, sguardo nel vuoto, occhio lacrimoso, angoli della bocca in
giù: oddìo il papà è perduto, e adesso? Ma è bravo anche lui. Recupera. Accidenti se
recupera! Mette a cuccia il dialetto. E la lingua Italiana stavolta non lo tradisce: come
un gattone, si siede sul tappetino dei suoi concetti e fa le fusa.
– Chi non si attiene ai regolamenti può incorrere in gravi sanzioni.
Frase oscura, ma azzeccata (addirittura il papà imposta la voce), che innesca una
serie di commenti spiazzati e incazzati del colorato gruppetto.
– Che dice?
– ‘cazzo vuoi?
– Fanculo!
– Bastardo.
– Fascista.
Sarà alto al massimo un metro e sessantacinque, ma è farcito di autorità, adesso. Il
capello brizzolato gli regala i gradi di generale. Il comandante in capo dell’esercito,
ancora una volta, ci protegge.
– Se sarebbe permesso a tutti di urlare, sai che casino. – Il gattone della lingua
italiana si è alzato. Si sa: non fanno le fusa a lungo, poi si rompono. – il regolamento
dice che non si urla in treno.
– Tu quale regolamento dice? Io no ha rotto regolamento.
La ragazza piange e ha una mano vermiglia che difende le sue ragioni, ma
innervosisce le autorità.
– Non si fa casino sul treno.
– Io non fa casino, tu fatto male. Guarda mia guancia! Di che casino parla?
– Non quello dove lavori tu! – a volte l’ironia è il preludio della disfatta. – Ma va
là, tas! Bagascia! Tùrna al to’ pais!
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Il papà è partito, arteriosclerotico. Sbaglia tutto.
– Va queste bagasce! Puttane!
Dissimulati e ricchi i commenti delle Signore (rottura del copione, forte d’orchestra,
paginone a colori di “Novella 2000”). Guardo lo sguardo mezzo pieno dei pendolari,
felici che l’affanno di stabilire i torti e le ragioni sia finito: “è lui a sbagliare, mica noi”.
Un coro silenzioso ha ritrovato una sincronia di pensiero curiosa ed in
controtendenza: “Vergogna, poverina! Ma quale papà: quello è un sadico. Lo zio
perverso e violento”.
– (…)
– Silenzio.
– (…)
Occhi enormi (Africa in widescreen su musica di John Williams) esplorano il grigio
brizzolato di un metro e sessantacinque di autorità occidentale. Zebre, gazzelle, antilopi,
coccodrilli, ippopotami, lucertole, millepiedi enormi, leopardi, armadilli. Tutti lì a
spogliare i resti di un omino dotato di chiavetta a brugola per l’apertura forzata delle
porte. Senza cappello.
Solo un miracolo lo potrebbe salvare. Ed è LEI che lo salva.
– Fanculo! Treno mica casa tua.
Risata in coro delle ragazze. Ridono a crepapelle. La gamma dei suoni si allarga:
applaudono il metallo e la similpelle. Anche il rosso del sangue, opportunamente, perde
di saturazione. Bacio in fronte della quotidianità che si riappropria anche della mia
giornata. Grazie.
L’omino passa oltre, mi chiede il biglietto. Bruscamente.
– Biglietti, signore. – è rosso in faccia, imbarazzato e con una contravvenzione
nella fondina.
Riavvio i sistemi operativi in modalità “risparmio energia”. E lui, per innescare
sollecitudine, inverte i fattori della domanda, ma il risultato non cambia:
– Signore, biglietti!
Guardo il grigio dei capelli, poi scivolo con lo sguardo alle sue spalle e metto a
fuoco. Dietro di lui sono spuntate ancora le due palline marroni incorniciate di bianco.
Si spalancano sui miei occhi. Sotto di loro due labbra carnose si allargano in un sorriso
di smalto nel contesto scuro, satinato.
– Biglietti – ripete ruvida la voce.
Abbasso la testa e recupero il tesserino. Ho due palle marroni conficcate nel collo,
ma sono terapeutiche. Giro lo sguardo verso la voce e scopro che è vero: Treno mica
casa sua.
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