Bollettino_05
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pace Conflitti e Violenza Anno V, n. 6, gen-giu 2008 Giornale della Società Italiana di Scienze Psicosociali per la Pace In questo numero: Editoriale di Adriano Zamperini La memoria come azione sociale - Speciale Bolzaneto a cura di Marialuisa Menegatto Enrica Bartesaghi Una madre e una figlia Claudio Benetti Loro erano i perdenti noi i vincitori Evandro Fornasier Ho cercato di resistere al fatto che quanto mi veniva fatto fisicamente, il sequestro e la violenza, non venisse fatto anche alla mia mente Stefania Galante Impotenti, davanti a un abuso di potere Marco Poggi Le peggiori violenze che abbia visto in vita mia Mauro Palma Bolzaneto: un messaggio di impunità Adriano Zamperini Le radici della violenza: uno sguardo psicosociale dentro la prigione di Bolzaneto Dossier Genova G8 Per non dimenticare: il fumetto diventa Memoria Collettiva Memoria Indifferente di Fogliazza Sabina Rossa. Verità e responsabilità per la riconciliazione Intervista di Marialuisa Menegatto Alberto L’Abate “Per un futuro senza guerre”. Incontro con l’autore SISPa – Società Italiana di Scienze Psicosociali per la Pace Presidente: Adriano Zamperini - Direttivo: Gabriele Chiari, Augusto Palmonari, Marcella Ravenna, Antonella Sapio, Saulo Sirigatti, Chiara Volpato Sede legale: Via Cavour, 64 - 50129 Firenze Sito internet: www.sispa.it Indirizzo e-mail: [email protected] pace Conflitti e Violenza anno V, n.6, gen-giu 2008 2 Editoriale Adriano Zamperini, Presidente SISPa “Percosse, minacce, sputi, risate di scherno, urla canzonatorie, insulti di ogni genere venivano rivolti, con evidente fine di disprezzo e di intimidazione, «a mo’ di saluto del comitato d’accoglienza», alle persone arrestate, nel cortile antistante l’accesso alla caserma. Colpi di manganello per impedire che qualcuno tra i feriti, con la testa sanguinante, potesse trovare momentaneo sollievo appoggiandosi a una parete, perché (…) la tinteggiatura non doveva essere macchiata. Nel corso della perquisizione personale, un uomo veniva obbligato a spogliarsi nudo e a sollevare il pene, mostrandolo agli agenti seduti alla scrivania; (..) Un altro, privato con violenza degli indumenti e lasciato in mutande, subiva minacce fisiche e sessuali; in particolare, un poliziotto – mostrandogli una spranga di ferro e tirandogli l’elastico delle mutande – gli diceva: «Vedi questa spranga, adesso te la infiliamo in culo». Trattamenti vessatori, degradanti e disumani sia all’interno delle celle, ove le persone senza plausibile ragione erano costrette per parecchio tempo a mantenere posizioni umilianti e disagevoli, sia nel corridoio, durante gli spostamenti e l’accompagnamento ai bagni. (…) Umiliazioni, offese e insulti in relazione alle opinioni politiche, come «zecche comuniste», «bastardi comunisti », «te lo do io Che Guevara e Manu Chao» e altre di analogo tenore; alla sfera e libertà sessuale, in particolare nei confronti delle donne, con minacce verbali del tipo «entro stasera vi scoperemo tutte»; alle credenze religiose e condizione sociale, quali «ebreo di merda», «frocio di merda» e simili. Costretti a sentire espressioni e motivi di ispirazione fascista, contrariamente alla loro fede politica; ad esempio l’ascolto obbligato del cellulare con suoneria costituita dal tema musicale «faccetta nera bella abissina» e la filastrocca «un due tre viva Pinochet, quattro cinque sei a morte gli ebrei». Pronuncia contro la propria volontà di slogan del genere «viva il duce» e affini, con violenza e minacce costretti a eseguire il saluto fascista. Nono- stante alcune di loro fossero visibilmente ferite, persone obbligate a rimanere per numerose ore in piedi, con il viso rivolto al muro della cella, braccia alzate o dietro la schiena; oppure sedute a terra, ma sempre con la faccia verso la parete, con le gambe divaricate e in altre anomale posizioni. Comunque non giustificate, non necessarie alla detenzione, e senza poter mutare postura. Costrette a subire ripetutamente percosse e violenze – come facce sbattute contro il muro o sigarette spente sulle mani –, calci, pugni, insulti e minacce, (…) Una donna, rinchiusa in cella, avendo il ciclo mestruale, avanzò la richiesta di andare in bagno per cambiarsi; in risposta, attraverso le sbarre, le veniva gettata della carta appallottolata sul pavimento e quindi si vide costretta a sostituire l’assorbente in cella con dei pezzi di vestito, alla presenza di altri reclusi, uomini compresi. (…) Obbligati nei bagni a espletare i bisogni fisiologici in tempi estremamente contenuti, con la porta aperta e alla presenza ravvicinata del sorvegliante, al fine di sottoporli a una profonda umiliazione. Una persona forzata a mettersi davanti al water al grido «orina finocchio!», minacciata di essere violentata con un manganello e col medesimo colpita all’interno delle cosce; un trattamento accompagnato da pugni sulla testa e sulle braccia. Una donna, scortata in bagno con epiteti ingiuriosi, quali «puttana» e «troia», costretta con violenza a mettere la testa dentro la turca; tutt’attorno, agenti che urlavano frasi oltraggiose di natura sessuale, del tipo «che bel culo!» e «ti piace il manganello?» (…) Un agente costringeva un arrestato a stare carponi, intimandogli di abbaiare come un cane e di gridare «viva la polizia!» Altri fatti accucciare a quattro zampe e presi a calci.” Bolzaneto, Italia, 2001 Estratto da A. Zamperini “L’indifferenza”, Einaudi, Torino 2007 pace Conflitti e Violenza anno V, n.6, gen-giu 2008 3 La memoria come azione azione sociale - Speciale Bolzaneto a cura di Marialuisa Menegatto Una manifestazione per i diritti umani sfociata in tragedia. Ciò di cui ora siamo chiamati a onorare e raccontare accadde sette anni fa. G8 Genova, era il luglio 2001. E se allora le vie della città divennero in soli pochi giorni teatro sanguinoso di una guerriglia urbana, culminata con la morte di un giovane ragazzo, Carlo Giuliani, altri due teatri furono la scena di violenze gratuite e inaudite a segnare quei nefasti giorni: la scuola Diaz e la caserma di Bolzaneto. La Diaz per cui si attende ancora il giudizio finale, per Bolzaneto la sentenza è giunta lo scorso 14 luglio. E il nostro raccontare ha inizio proprio da lì. Dal quel luogo, per qualche giorno avulso dallo stato di diritto, garante di offese fisiche e psicologiche, tra le cui mura agenti e sanitari vestirono gli abiti di spietati aguzzini, spogliando “altri” esseri umani della loro dignità. Attraverso le voci narranti di alcuni testimoni e il contributo di specialisti, cercheremo di ampliare i significati di quell’esperienza mantenendo pur sempre salda la memoria, compiendo qualche passo più in là circa un evento a tutt’oggi ancora incomprensibile e in parte taciuto. Nei contesti dove si manifestano abusi a livello collettivo vige normalmente un clima di impunità a protezione degli esecutori. Tale principio, riscontrabile anche attraverso i numerosi “non ricordo” di agenti chiamati a testimoniare al processo, si fonda sulla pratica di una “cultura del silenzio” che si pone come norma tacita. A questa paralisi culturale sovraordinata, che spesso ostacola sino a vanificare ogni azione di resistenza, si aggiungono le conseguenze individuali e sociali dell’aver patito violenza e tortura. Numerosi studi dimostrano come l’esperire di eventi sconvolgenti abbiano effetti negativi sulla salute psico-fisica dell’individuo. Queste disfunzioni sono conosciute con il nome di “trauma” e il quadro clinico evidenziato è il Post Traumatic Stress Disorder. Il grado di sofferenza sopportato e la costruzione di severità dell’offesa subita risentono indubbiamente da fattori soggettivi ma ciò che è universalmente comune alle vittime è che lo stress derivante dall’orrore di aver subito un’offesa, non si placa nel qui e ora sul finire degli abusi. Le ferite psicologiche ed emotive del trauma subito si iscrivono nella mente spesso con modalità involutive tornando a sanguinare anche a distanza di molto tempo, alimentate da ricordi vividi, intensi, che puntualmente si ripresentano alla memoria e plasmano la mente. La tortura in particolare, è una «costruzione psicologica» che non attacca solo il singolo individuo ma ne dipana profondamente gli effetti nei legami interpersonali.1 La vittima sente di essere stata prescelta come un bersaglio di un intenzionale atto malvagio. Questa percezione provoca la frantumazione della fiducia sociale con conseguente abrasione delle relazioni sociali. Il senso di sicurezza e di fiducia vissuto all’interno delle relazioni interpersonali viene a essere imbrigliato nella morsa del sospetto compromettendo una serie di competenze sociali, a loro volta possibili moltiplicatori della sofferenza. Compromissione della capacità lavorativa, incapacità di instaurare relazioni amicali o amorose, isolamento, conseguente impossibilità di ricevere sostegno e aiuto in caso di bisogno. All’interno di un simile processo, il trauma si iscrive non solo nella sfera privata del singolo ma si estende negli effetti sino a raggiungere la dimensione sociale. Quello che alcuni studiosi definiscono come «trauma psicosociale». Come diventa allora possibile “guarire” dai danni provocati dalla violenza, se questa si è sviluppata su scala collettiva? Certamente il processo è arduo e assai delicato, ma diviene indispensabile, come primo passo, orientare lo sguardo verso la giustizia, garante della tutela e della dignità umana, a riconoscimento ufficiale dell’offesa patita e l’accertamento delle responsabilità.2 Un iniziale risarcimento in grado di attivare il singolo a riconnettersi con la propria comunità, dando avvio a quel processo di empowerment verso il recupero di un senso di potere e controllo. Ma nel caso di Bolzaneto, come d’altronde è avvenuto anche per altre atrocità commesse dal dopoguerra a oggi, la macchina giuridica balbetta e la giustizia sociale non è da meno. Ancora lunga è la strada da percorrere. 1 E. Scarry (1990), La sofferenza del corpo. La distruzione e la costruzione del mondo, Il Mulino, Bologna (ed. or. 1985). 2 Cfr, A. Zamperini (2008), Giustizia e benessere: comunità offese e pratiche di riconciliazione, in press. pace Conflitti e Violenza anno V, n.6, gen-giu 2008 4 Enrica Bartesaghi Una madre e la figlia Dei giorni in cui mia figlia Sara venne rinchiusa a Bolzaneto ho un ricordo ancora molto vivo e credo che sarà così ancora per molto tempo. In quei giorni mi sono improvvisamente ritrovata in un Paese che non riconoscevo più, dove non pensavo sarebbe stato possibile perdere a luglio del 2001 una figlia, una ragazza di appena 21 anni, e ritrovarla dopo due notti e un giorno nelle condizioni in cui Sara era, senza nel frattempo sapere nulla di lei. Sapevamo solo che era stata arrestata ma non il perché e nemmeno dove si trovasse. Sara è stata picchiata alla scuola Diaz, è finita in ospedale per trauma cranico, dopo poche ore è stata nuovamente sequestrata dalla polizia e condotta a Bolzaneto. Ovviamente questo l’ho saputo successivamente quando finalmente siamo riusciti a ritrovarla al carcere di Vercelli. Abbiamo rivisto Sara qui il lunedì notte. Quando arrivammo, Sara ci disse, come molti altri ragazzi, che a Vercelli finalmente si erano sentiti al sicuro. Per una ragazza che non è mai stata in carcere questo può dare l’idea di cosa sia successo in quei giorni. Per me è stato un colpo terribile. Non avrei mai pensato che in Italia fosse possibile perdere ogni traccia della propria figlia unitamente alle violenze subite. Il paragone che mi veniva in mente era il Cile e l’Argentina. Dei desaparecidos all’italiana. Di fronte a tutto ciò mi sono sentita impotente perché non ho saputo difendere mia figlia, che credo sia uno dei compiti principali di un genitore. Mi sono chiesta come mamma che cosa avrei potuto fare affinché si fosse evitato tutto ciò, che cosa non avevo fatto, e dove avevo sbagliato. Certamente non avrei potuto obbligare Sara a non partecipare alla manifestazione, anche perché non avrei mai pensato alle terribili conseguenze. E difenderla poi da chi? Dalle forze di polizia? Da coloro i quali avrebbero dovuto proteggerla e verso i quali noi ci rivolgemmo per chiedere dove si trovasse Sara, i carabinieri e la questura. Da chi l’aveva infine sequestrata. È questa la cosa più sconvolgente. Da allora la nostra vita è cambiata e credo lo sarà per sempre. Sara, come tutti gli altri 93 della Diaz, è rimasta per oltre due anni accusata di associazione a delinquere finalizzata alla devastazione e saccheggio, reati che preve- dono dagli 8 ai 15 anni di carcere. Questo ha significato paura. Dopo pochi mesi dal G8, Sara si è recata a Parigi per il programma Erasmus, come previsto, e io temevo che in qualsiasi momento un controllo documenti da parte delle autorità la facesse apparire come una pericolosa Black Bloc, con tutte le conseguenze pensabili, soprattutto psicologiche. Purtroppo, Sara da allora non ha superato il trauma, soprattutto per l’esperienza vissuta a Bolzaneto che ha significato una vera e propria tortura. Ha subito un potere assoluto che incide tutt’ora nella sua vita. Paura di partecipare ad altre manifestazioni, la paura alla vista di una divisa, a subire un controllo. Di conseguenza anche la mia vita e quella di mio marito è cambiata. Dopo alcuni mesi assieme ad altre vittime del G8 abbiamo dato vita al Comitato Verità e Giustizia per Genova, per sentirci meno soli. Il primo impulso è stato coalizzarci, affinché la verità emergesse e arrivare così a una giustizia. A distanza di sette anni posso dire che la verità per Diaz e Bolzaneto è sicuramente emersa nel corso dei processi anche se giustizia non ne avremmo mai. Ma non ci siamo mai molto illusi che questo potesse accadere. L’altro scopo raggiunto è stato quello di continuare, raccontare ai cittadini attraverso incontri pubblici, pubblicazioni, riviste, libri, non solo la storia di quei giorni ma anche di ciò che avveniva e non avveniva dopo. Abbiamo dovuto aspettare sette lunghi anni per la sentenza Bolzaneto e tutto cadrà in prescrizione tra pochi mesi. Lo stesso accadrà per il processo Diaz. Le pene inflitte agli imputati sono irrisorie, se calcoliamo che sono state notevolmente compromesse le vite di centinaia di incolpevoli. Viene da fare poi il paragone con la sentenza che è avvenuta a carico dei “25 manifestanti”, dove le pene in molti casi vanno oltre i dieci anni senza nessuna prescrizione. Questo significa che in Italia danneggiare cose, vetrine, auto, ecc.. è molto più grave che danneggiare le persone. In questi sette anni gli imputati non sono mai stati sospesi, cosa richiesta non solo dal nostro Comitato ma anche da altre associazioni come Amnesty International. La loro sospensione fino al termine dei processi avrebbe significato una forma di cautela e di pace Conflitti e Violenza 5 anno V, n.6, gen-giu 2008 rispetto per le parti lese. Essi invece hanno continuato a lavorare e in particolare sono stati anche promossi. E parliamo di promozioni altissime che toccano i vertici della Polizia e dei Servizi Segreti. Questo ha chiaramente permesso ritardi nelle indagini e nello svolgimento del processo. A Genova, in tribunale ne ho incontrati alcuni personalmente. Dico “alcuni” perché purtroppo in pochi hanno testimoniato, la maggioranza si è rifiutata. Mi sono appositamente recata in tribunale per ascoltarli e guardarli negli occhi perché volevo capire come avevano permesso e voluto il verificarsi di una violenza così inaudita. Infierito su ragazzi inermi alla Diaz, a Bolzaneto torturato persone che non potevano arrecare alcun danno. Ma non ho avuto risposte. Nessuno tra i responsabili, anche a livello istituzionale, ministri, parlamentari, fino al Presidente della Repubblica, non hanno mai chiesto scusa per quanto accaduto. Solo in questi ultimi giorni c’è stato un incontro tra il sindaco di Genova con alcune parti offese e devo dire che, a nome della città di Genova, il sindaco Marta Vincenzi ha fatto questo gesto che trovo molto importante ma che dovrebbe essere fatto a ben più alti livelli. Complessivamente posso dire che, appena ho sentito la sentenza, la prima reazione è stata ovviamente molto negativa, mi son detta che 15 condannati su 45 imputati e, con una riduzione delle pene, mi è sembrato un risultato molto scadente. Nei giorni successivi in realtà ho riflettuto e devo dire che questa sentenza è comunque molto importante e lo dobbiamo sottolineare. Perché se la sviliamo facciamo il gioco del “non è successo nulla” e invece qualcosa c’è stato. È la prima volta in Italia che 15 appartenenti alle forze di polizia vengono condannati, tutte le parti civili sono state risarcite, e questo è un riconoscimento che a Bolzaneto ci sono stati dei torti, delle violenze, dei danni. È un segnale molto forte anche per le forze dell’ordine affinché episodi del genere non si ripetano più. È un mio punto di vista che questa sentenza vada difesa anche se è poca cosa rispetto a ciò che è stato provocato. Abbiamo anche dovuto accelerare i tempi anticipando la sentenza al 14 luglio anziché al 21 come previsto, a causa del gravissimo rischio sospensione processi del decreto “salvapremier”, e questo ha comportato che in aula non ci fossero molte parti lese. Da una parte è stata una ottima scelta ma dall’altra ci è stato rubato anche un momento importante che è quello per le vittime di assistere alla sentenza. Ma siamo arrivati fino in fondo e ce l’abbiamo fatta. Enrica Bartesaghi è la madre di Sara “una della Diaz”, e oggi è Presidente del Comitato Verità e Giustizia per Genova. Fondato nel luglio 2002, il Comitato organizza iniziative volte alla tutela delle vittime della repressione delle forze dell'ordine durante il G8 di Genova, nell'esercizio della manifestazione del pensiero, anche con l'utilizzo degli strumenti di azione regolati e previsti dal diritto internazionale con particolare riferimento a quelli creati nell'ambito dell'Unione Europea. È autrice del libro “Genova. Il posto sbagliato” (Nonluoghi Libere Edizioni, Roma 2004). E-mail: [email protected] © .ste. pace Conflitti e Violenza anno V, n.6, gen-giu 2008 6 Claudio Benetti Loro erano i perdenti noi i vincitori Raccontare l’esperienza vissuta a Bolzaneto è difficile, anche se sono passati anni, ricordare un passato che ha dell’incredibile in una società democratica come la nostra. Ho vissuto un incubo, ho sperimentato sulla mia pelle cosa significa essere in balia della violenza gratuita e questo solo perché riteniamo giusto e nostro dovere testimoniare la nostra opinione, manifestare il nostro dissenso alle logiche del potere. Non ho avuto paura anche quando sapevo che arrivavano le botte, il dolore passa, era cercare di capire che faceva male, capire perché mi trovavo là, capire perché le persone trovano piacere usare violenza contro gente inerme, persone che dovrebbero essere i garanti della giustizia. Per me i miei carcerieri non avevano volto, potevano pure pestarmi, ma loro erano i perdenti e noi i vincitori. Mi venivano in mente le Beatitudini del Vangelo, sì noi eravamo i beati, dovevamo resistere, testimoniare quello che stava accadendo. Questi pensieri mi hanno aiutato a non cedere, a sopportare le violenze, la stanchezza, le umiliazioni. Ancora oggi scrivendo queste righe non posso trattenere le lacrime, è stata una esperienza di dolore che non dimenticherò mai, ma è giusto parlarne perché questo non si ripeta perché noi tutti non dobbiamo smettere di lottare per ciò che riteniamo giusto. In quei momenti l’impressione era che gli ordini venissero dall’alto, oppure che la polizia aveva mani libere di fare ciò che voleva in allegria e divertimento. E per un anno non passava giorno senza che rivivessi con il pensiero le violenze, la notte spesso mi svegliavo e con disperazione mi guardavo intorno per rassicurarmi che quella era la mia stanza, non ero a Bolzanetto. La sola vista di una macchina della polizia mi metteva nel panico. Un anno dopo, convinto da mio figlio e mia moglie sono tornato a Genova alla manifestazione, ho passato la serata a raccontare a mia moglie cosa avevo provato, sono riuscito a tirare fuori tutto il dolore, la rabbia che avevo dentro, da allora ho cominciato ad accettare la cosa con più serenità. Una esperienza così ti passa sopra come un rullo compressore, ne esci con le ossa rotte però ti da anche la consapevolezza che quello che stai facendo è giusto, questa nuova forza viene dopo che sei riuscito a digerirla, cosa che non è stata facile. In seguito ho anche incontrato personalmente al processo il poliziotto che mi ha arrestato, che mi vedeva come protagonista delle violenze di piazza con imputazioni assurde, processo nel quale sono stato assolto. Non ho provato rancore ma la consapevolezza di trovarmi davanti a un imbecille. Oggi a distanza di qualche anno da quel triste evento, purtroppo non è stata fatta chiarezza sulle responsabilità politiche, questo era importante proprio perché questi fatti non devono succedere ancora. I responsabili sono liberi, passati di grado con il benemerito o di nuovo eletti in parlamento. Molta gente non ha capito, anzi è ancora convinta del giusto operato della polizia; in questo sta la gravità, la mancanza di giustizia. Claudio Benetti è attivista di Rifondazione Comunista di Schio e della Federazione di Vicenza. Venne arrestato e portato a Bolzaneto sabato 21 luglio. Il 21 luglio 2001 circa 500 vicentini di Rifondazione avevano partecipato alla manifestazione indetta dal Genoasocialforum contro il G8 per il giorno successivo ai tragici fatti di piazza Alimonda, nel corso dei quali aveva perso la vita Carlo Giuliani. Tra le imputazioni che accompagnarono l’arresto vi era quella di aver lanciato sassi all’indirizzo della polizia e di essere in possesso di un bastone. In realtà, come è stato ampiamente dimostrato dalle testimonianze, quando Benetti venne arrestato stava difendendo, con le braccia appoggiate ad un muro, due ragazzine che si erano accasciate a terra ai suoi piedi, travolte dalla compressione della massa dei manifestanti presa dal panico. Prima della carica era rimasto seduto sull’asfalto assieme agli altri dirigenti del circolo di Rifondazione di Schio senza mai allontanarsi da loro. pace Conflitti e Violenza anno V, n.6, gen-giu 2008 7 Evandro Fornasier Ho cercato di resistere al fatto che quanto mi veniva fatto fisicamente, il sequestro e la violenza, non venisse fatto anche alla mia mente Credo che a partire dal luglio 2001 siano stati raccontati già tante volte i drammatici avvenimenti di quei giorni a Genova e chiunque non si sia dedicato con forza a negare la portata e la drammaticità di quanto è accaduto avrà avuto sicuramente modo di confrontarsi, attraverso la grande quantità di testimonianze e documenti, con una realtà tragica e non facilmente integrabile nella storia di un Paese che voglia dirsi civile. Le vicende della caserma di Bolzaneto sono purtroppo solo una delle storie inquietanti che rappresentano la realtà di quelle giornate: c’è stata la morte di Carlo Giuliani (seguita agli scontri innescati da un assalto a freddo delle forze dell’ordine nei confronti del corteo dei disobbedienti in un area autorizzata alla manifestazione), la “macelleria messicana” alla scuola Diaz (come l’ha definita il vice questore di Genova Michelangelo Fournier), i sistematici indiscriminati pestaggi in strada da parte delle forze dell’ordine nei confronti di manifestanti palesemente non offensivi ed altro ancora che molti hanno testimoniato anche se in numerosi casi non vi è stata alcuna conseguenza sul piano giudiziario per gli autori delle violenze. Racconterei così di una storia che mi riguarda personalmente ma che non può prescindere da questa realtà più ampia: quello che mi è stato fatto alla caserma di Bolzaneto, ma anche prima con l’arresto in strada e dopo con le violenze al carcere di Alessandria, non è stato il frutto del sadismo di qualche agente, l’eccesso di singoli, come in questi anni spesso alcuni alti esponenti di cariche istituzionali hanno cercato di raccontare all’opinione pubblica, ottica nella quale attualmente si cerca di collocare il senso dell’attuale sentenza del Tribunale di Genova sui fatti di Bolzaneto, ma è stata solo una delle articolazioni di qualcosa di ben più sistematico e consapevole che si andava realizzando in quelle giornate. Racconterei di aver subito non un arresto ma un sequestro di persona (nessun giudice mi ha mai contestato alcun reato) da parte di istituzioni dello Stato che invece di realiz- zare e difendere la legalità perseguivano evidentemente, in quelle ore, altre finalità per mezzo delle violenze e degli abusi sugli arrestati. Racconterei di aver cercato di resistere al fatto che quanto mi veniva fatto fisicamente, il sequestro e la violenza, non venisse fatto anche alla mia mente. In quei frangenti non credo fosse possibile fermare le violenze. No, non da parte di coloro che erano le vittime di questa situazione le cui sofferenze sembravano invece dare continuo vigore ai violentatori. Credo che in una situazione che aveva assunto dei tratti così primitivi solo una forza maggiore e contraria avrebbe potuto far cessare le violenze o l’avrebbe potuto la volontà di un’autorità superiore (in effetti avevo sperato che la visita del ministro di Grazia e Giustizia nella tarda serata del 21 luglio alla caserma di Bolzaneto, proprio mentre ero recluso, avrebbe potuto cambiare qualcosa ma ciò non è avvenuto). Questo però rinvia a un complesso, o forse anche non troppo complesso, ragionamento sulla situazione ideologica in quel momento esistente, su tutto quanto aveva portato a realizzare un contesto come Bolzaneto, non tanto sul piano della struttura fisica, ma sul piano delle relazioni fra mondo politico-istituzionale dell’epoca/personale esecutivo/cittadino dissenziente. Sarebbe utile provare a rispondere a qualche domanda: all’interno di questa dimensione qual’era la comunicazione che stava passando tra lo Stato e il cittadino attraverso questi suoi rappresentanti così rozzi, ideologizzati e probabilmente anche strumentalizzati? Che significato aveva la loro violenza e quale ne era l’origine? Nei giorni successivi, uscito dal carcere, mi sono sentito molto male, spaventato. I fatti accaduti avevano sovvertito i miei piani di realtà. Pensavo “se mi hanno fatto questo potrebbero farmelo ancora”. Mi sentivo fortemente minacciato. Le vicende appena accadute mi sospingevano verso una dimensione paranoica e del resto questo aveva una sua legittimità rispetto alla situazione reale. Le più alte cariche istituzionali, nono- pace Conflitti e Violenza anno V, n.6, gen-giu 2008 stante le evidenze dei soprusi già emerse allora, si erano affrettate ad avvalorare e sostenere in toto l’operato delle forze dell’ordine. Non potevo escludere che potessero essere commesse altre illegalità nei miei confronti per motivi da me non prevedibili, esattamente come mi era appena successo. Le forze politiche e sociali che protestavano per quanto era accaduto a Genova sembravano non avere alcun peso. L’unica strada, che aumentava la mia difficoltà ma che contemporaneamente mi restituiva la possibilità di reagire, di cominciare a “maneggiare” l’esperienza appena accaduta, è stata quella di denunciare, scrivere ai giornali, rendere noto. Ma questo ha avuto un costo emotivo molto alto che ho comunque deciso di sopportare. È stata molto importante la presenza della mia compagna e la solidarietà di molte persone, l’attenzione dei mezzi di comunicazione. Ma in quei giorni, a causa della grande insicurezza che provavo, ho anche pensato di allontanarmi dall’Italia. Non credo che l’esperienza di Bolzaneto mi abbia cambiato. No, credo di no. Più che un cambiamento ritengo di aver dovuto affrontare esperienze che hanno investito la mia vita in modo consistente, in particolare rispetto alle denunce, gli interrogatori, i processi. In qualche momento ho fatto davvero molta fatica. Sicuramente tutto questo lascia in me la traccia di un vissuto con il quale periodicamente devo fare i conti, con pazienza, una rielaborazione “continua” che di tanto di tanto, magari sollecitata da fatti occasionali, torna a essere necessaria come una forma di “manutenzione” della mente e delle emozioni. In seguito, ho incontrato personalmente una guardia carceraria che ho denunciato per le violenze subite al carcere di Alessandria, in Tribunale, durante le indagini preliminari e al processo successivamente. Ho avuto la percezione di una distanza incolmabile tra me e un altro essere umano intorno al quale tuttavia mi sono soffermato spesso a pensare. Ho riflettuto sulle sue motivazioni, su ciò che poteva essere passato nella sua mente. Credo che questa sia stata la mia necessità di reperire un senso quale che fosse, su quello che era successo. Ho pensato e constatato che si trattava di una persona semplice, con mezzi non particolarmente evoluti di espressione e forse anche di lettura della realtà, a suo modo anch’egli vittima di un sistema ideologico ma che questo non doveva in alcun modo evitargli di confrontarsi con la propria responsabilità individuale. 8 Oggi a distanza di qualche anno da quel triste evento, alla luce anche dei processi in corso a Genova e della sentenza, giudico la vicenda Bolzaneto una sconfitta di civiltà nella quale sono prevalsi interessi ideologici e politici che hanno di fatto abbandonato il cittadino e la sua petizione di giustizia, un altro “buco nero” nella storia di questo Paese, un malessere non episodico della democrazia. Sarebbe necessario aprire un discorso sul ruolo fondamentale della magistratura in questi anni e sulle conseguenze contraddittorie che ha prodotto la sua attività. La sentenza sui fatti di Bolzaneto pur condannando per la prima volta rappresentanti delle forze dell’ordine in questa misura tende a dare una rappresentazione estremamente riduttiva di quello che è accaduto, realizzando di fatto una nuova ingiustizia. Va ricordato che indipendentemente dalle condanne e la loro entità questo processo finirà in prescrizione nella prossima primavera. Sappiamo già da anni, grazie all’introduzione della legge ex-Cirielli nel nostro ordinamento giudiziario, che gli imputati non faranno mai un solo giorno di carcere. Quando si è votato in parlamento per questa legge si è sancita la loro impunità e noi, parti civili, saremmo stati comunque la parte soccombente con un minimo risarcimento dei danni in forma economica. In conclusione posso dire che, se riconosciamo come fondamentale nell’elaborazione di un trauma che cosa viene “fatto dopo”, quali risposte fornisce la realtà circostante, ebbene, a partire dai giorni del G8 2001 sono avvenuti i seguenti fatti (il mio elenco non è sicuramente esaustivo): Presidente del Consiglio, Vice Presidente del Consiglio, Ministro degli Interni, Ministro di Grazia e Giustizia proclamano con decisione nei primi giorni successivi al G8 totale e incondizionato sostegno alle forze dell’ordine; non viene istituita la Commissione di Inchiesta Parlamentare che sarebbe stato strumento ben più incisivo rispetto all’inoffensiva Commissione di Indagine; viene archiviato il procedimento sulla morte di Carlo Giuliani; viene approvata nel 2005 la citata legge detta ex-Cirielli in base alla quale vengono accorciati i tempi di prescrizione per i reati come quelli contestati nel processo di Bolzaneto; “salta” l’approvazione della legge sulla tortura (della quale l’Italia non dispone nonostante sia prevista dalla Convenzione dell’Onu che l’Italia ha approvato nel 1988; è chiaro che questo strumento legislativo avrebbe cambiato totalmente il profilo di questo pace Conflitti e Violenza anno V, n.6, gen-giu 2008 processo) grazie a una sorta di “colpo di mano” parlamentare del partito di appartenenza del Ministro di Grazia e Giustizia all’epoca del G8; lo stesso ministro fa dichiarazioni irridenti riguardanti le condizioni di detenzione a Bolzaneto (cioè che in fondo si stava lungamente in piedi come fanno tutti i giorni gli operai); promozione di molti funzionari delle forze d’ordine che hanno partecipato direttamente alle vicende di Genova, alcuni a cariche di altissimo prestigio, nonostante diversi fra loro siano sotto processo per reati gravissimi tanto più se commessi da pubblico ufficiale. Ebbene la mia storia e la storia di quelli come me fa i conti con tutto questo e con l’amara constatazione che infine avevano ragione i nostri aggressori nelle stanze di Bolzaneto e i loro capi, a percepirsi e proclamarsi, sicuri del fatto loro, come coloro che non avrebbero dovuto assumersi alcuna responsabilità riguardo ai reati commessi, se non, nella peggiore delle ipotesi, perdere un po’ di tempo nelle aule giudiziarie e spendere un po’ di denaro in avvocati. Affermo inoltre che le modalità di funzionare di tipo primitivo non si possano riferire solo alle violenze di uomini e donne contro altri uomini e donne in stato di inferiorità ma anche di istituzioni, di parti “Un chirurgo plastico di Beverly Hills cancellò i tatuaggi dal mio corpo. Quel che mi restava tatuato nel cervello era tutt’altra faccenda”. EDWARD BUNKER 9 consistenti del mondo politico che in questi anni hanno lavorato alla difesa di legami e appartenenze piuttosto che alla difesa della società civile e della democrazia, anzi, in definitiva, contro di esse. EVANDRO FORNASIER è uno psicologo torinese. È stato arrestato sabato 21 luglio 2001, durante il corteo dei 200 mila, nel garage in cui cercava riparo dalle cariche e dal gas dei lacrimogeni e condotto in seguito a Bolzaneto. «Quelli che ho ricevuto io sono stati colpi sul corpo, colpi al torace, un calcio sui testicoli, mi è stata sbattuta la testa contro il muro un paio di volte come a sollecitare che assumessi la posizione proprio desiderata dai miei aguzzini… c’è stata una canzonetta che è stata cantata per qualche minuto e che diceva: “Uno, due, tre, viva Pinochet; quattro, cinque e sei a morte gli ebrei; sette, otto, nove il negretto non commuove (..) poi con le suonerie dei cellulari ci facevano sentire la canzone di regime Faccetta nera». (Testimonianza resa in udienza del 26 aprile 2006 durante il processo in corso presso il Tribunale di Genova). pace Conflitti e Violenza anno V, n.6, gen-giu 2008 10 Stefania Galante Impotente davanti a un abuso di potere La tortura è cominciata ancor prima di arrivare a Bolzaneto, da quando ci hanno caricati sul cellulare per condurci in carcere. Nessuno ci ha detto dove ci avrebbero portato. Ci hanno fatto sedere con le mani alzate dietro la nuca, immobili, senza la possibilità di parlare, di poter chiedere. L’attesa in queste condizioni è durata più di un’ora. E in questo tempo già divenimmo oggetti di scherno da parte degli agenti con frasi come “non uscirete più dal carcere”. E questo, senza che noi dicessimo alcunché. Quando siamo arrivati a Bolzaneto nemmeno il passaggio dal cellulare alla caserma è stato piacevole. I manganelli sventolavano dietro le nostre nuche, e questo ci terrorizzava. Ci hanno riperquisiti togliendoci quel poco che ci era rimasto dalla Diaz e se non mantenevamo la postura richiesta si veniva incoraggiati con forza ad aprire le gambe, ci hanno minacciate di stuprarci “se non apri le gambe te le faccio aprire io” o “te lo infilo” ecc.. Una cosa indescrivibile che mi confonde ancor oggi. Entrata in caserma ricordo di aver avuto un attacco di panico. Il medico mi ha detto che se non mi calmavo mi avrebbe iniettato del valium in vena e di stare zitta. È cominciato così un calvario allucinante. Dalla cella si sentivano lamenti, urla, grida, insulti, da e verso persone che erano lì, già da prima. Noi siamo state per ore con le mani in alto e con faccia rivolta verso il muro. Siamo state senza mangiare, bere. Potevamo andare al bagno se accompagnate, ma si diceva che chi andava veniva picchiato, quindi si preferiva non chiedere per non essere colpite. Durante la visita medica ci sono state fatte richieste strane, di denudarci completamente, di fronte tra l’altro a medici che non si capiva chi fossero. Lì dentro ho visto togliere un piercing in maniera brutale. A un ragazzo straniero, che quindi non poteva capire l’italiano, e che stava malissimo, un medico proferiva cose assurde “scriva che questo si è fatto di marijuana”. La prima notte l’abbiamo passata in piedi, la seconda abbiamo chiesto delle coperte perché nella cella faceva freddissimo, c’era una finestra aperta. Io non sono mai stata colpita fisicamente, ma verbalmente noi tutte eravamo nel mirino di questi pazzi. Ci minacciavano continuamente. E noi eravamo veramente spaventate, non sapevamo cosa fare, a chi credere. Ci hanno fatto firmare documenti di cui non sapevamo il contenuto, abbiamo chiesto un avvocato e la possibilità di chiamare a casa, ma ci sono stati negati. Il nostro grado di impotenza verso gli agenti era elevatissimo. Alcuni detenuti chiedevano semplicemente cosa stava succedendo perché era talmente assurda la situazione. Eravamo stati presi senza motivo ed eravamo tutti increduli. Ma le risposte erano di punizione, di umiliazione, quindi il messaggio era chiaro: non si doveva parlare, non si doveva chiedere; pena, subire la stessa sorte di chi aveva osato. Ho visto persone ferite e doloranti chiedere aiuto a cui non veniva prestato la necessaria cura. Anzi, venivano messe in condizioni di soffrire ancora di più, attraverso posture da mantenere o azioni da compiere del tipo saltare, fare flessioni, cantare ecc.. Poi la mattina del secondo giorno c’è stato un cambio del personale. Mi ricordo essere stato un momento finalmente positivo perché sono arrivati degli agenti leggermente più miti. Ci hanno chiesto che cosa era successo, ci hanno finalmente dato cibo e trattato meglio. I torturatori sembravano spariti anche se il lunedì mattina un’agente donna passando davanti alla mia cella, guardandomi negli occhi mi dice “puttana, troia, adesso starai in prigione per tutta la vita”. Io non ce l’ho più fatta e ho chiesto il perché di quelle frasi. Lei per ripicca ha preso una forbice e mi ha tagliato una parte di maglietta che indossavo. Poi sono stata portata al carcere di Voghera. Alla mezzanotte mi hanno rilasciata. Eravamo in due e per tornare a casa abbiamo dovuto camminare dal carcere alla stazione del treno. Da allora mi ricordo la paura. La paura di tutto. Paura che mi seguissero, paura di addormentarmi, paura che gli agenti piombassero in casa. Avevo paura che, avendo visto ciò che era successo, mi ammazzassero. Ho vissuto con la paura di essere uccisa da qualcuno per molto tempo. A fine settembre sono tornata a New York dove abitavo. E non è stato facile nemmeno qui. Sia per ciò che era appena accaduto l’11 settembre, sia perché avevo il pace Conflitti e Violenza anno V, n.6, gen-giu 2008 record delle accuse di Genova, accusa di associazione a delinquere. Sono stata interrogata al mio arrivo dalle autorità americane già informate del mio stato e mi hanno avvisata che avrei dovuto restare a loro disposizione per qualsiasi tipo di approfondimento avessero dovuto fare. Quel periodo l’ho vissuto in maniera devastante anche a livello fisico: mal di schiena, ansia, problemi del sonno. Anche se poi le accuse sono state cancellate penso che ancor oggi sia un marchio che induce al sospetto, e lo stress patito dura tutt’ora. Soffro d’agorafobia. Mi ha aiutato tanto il “fare”. A New York ho conosciuto casualmente un giornalista fotografo famoso. Essendo stato anche lui a Genova in quei giorni, organizzò una mostra sul G8 in una famosa galleria di Soho. Mi ha chiesto di partecipare all’evento, così ho scritto un pezzo testimonianza e sono intervenuta alla conferenza. In seguito, con altri scritti, ho avuto modo di trasformare la mia rabbia in informazione e divulgazione. E questo mi è servito molto anche se la parte più profonda del trauma non è ancora stata elaborata. Al processo ho incontrato i responsabili delle violenze. I ruoli si erano ribaltati, loro gli accusati e noi le parti civili. Ho provato un senso di rivincita. Però avrei tanto voluto chiedere loro che cosa gli passava per la testa quando impartivano violenza, il perché. Li vedevo anche parzialmente responsabili di quello che era successo, visto che gli ordini sono stati impartiti da ben più alte cariche. Erano anche ragazzi ventenni, e chissà cosa è stato detto loro per innescare così tanta aggressività. Ho chiesto a un loro collega come vengono impartiti gli ordini. Praticamente mi è stato risposto che a loro viene detto di predisporsi all’attacco e alla difesa durante l’irruzione perché come entreranno nello stabile verranno loro stessi attaccati. A questi poveri “ignari” devono essere state dette cose fuorvianti. Mi riferisco anche all’aggressione alla scuola Diaz. Mentre a Bolzaneto c’è stata sicuramente una tortura premeditata, dentro la Diaz la cosa che mi ha traumatizzata di più è stato vedere un attacco violentissimo a persone inermi che stavano dormendo, picchiate indiscriminatamente, tanto che non so come certe siano potute sopravvivere. Questo mi ha sconvolta. Io poi sono in una condizione un po’ strana. Alla Diaz non sono stata toccata, nessuno mi ha picchiata. Non so come mai. Ma ho visto tutto. La rabbia c’è ma forse la mia rabbia è 11 diversa da chi ha subito un’aggressione fisica. Non voglio certo sminuire le ferite psicologiche, che in me sento profonde, ma mi sento in una posizione un po’ ambigua. Complessivamente giudico l’esperienza Diaz e Bolzaneto un abuso ingiustificato di potere. Un’azione tipica di una dittatura, non di una democrazia. Non di quello che dovrebbe essere un Paese civile. Azioni del genere sono paragonabile a ciò che succede in Paesi a regimi dittatoriali. Infatti la prima cosa che ho pensato quando la polizia è entrata alla Diaz è che ci fosse stato un colpo di Stato e saremmo morti tutti. Stefania Galante è di Padova ma vive a New York dove studia e lavora. Era presente nella scuola Diaz, un «posto sicuro dove dormire», durante il blitz della polizia. Venne arresta e condotta a Bolzaneto la notte fra sabato 21 e domenica 22 luglio 2001. Con Alexander Stille e Joel Sternfeld è autrice del libro Treading on Kings: Protesting the G8 in Genoa, Steidl Publishing 2002. «Dei colpi… colpi, urla… provocazioni… tante urla. Stai fermo, mettiti a terra… bastardo, vieni qua…insomma, questo da altre…non si capiva da dove venivano, però dal altre celle. Tantissime urla… e urla di persone che sembrava venissero picchiate». (Testimonianza resa in udienza del 3 luglio 2006 durante il processo in corso presso il Tribunale di Genova). © Fogliazza pace Conflitti e Violenza anno V, n.6, gen-giu 2008 12 Marco Poggi Le peggiori violenze che abbia mai visto in vita mia A Bolzaneto, la caserma dove vennero condotti e trattenuti i manifestanti arrestati nel G8 di Genova, c’era anche un’infermeria. Una stanza dove si curano le persone. Dove il detenuto, divenuto paziente bisognoso di cure, dovrebbe ricevere assistenza. Ma nell’infermeria di Bolzaneto, come pure attraverso i corridoi, nelle celle, nel cortile antistante l’entrata, le cose andarono diversamente. Forze dell’ordine e personale medico furono complici di fatti definiti dai pm in sede processuale «estremamente gravi da realizzare un trattamento inumano e degradante, una violazione dei diritti dell'uomo, soprattutto per la sofferenza psicologica inflitta». Tali situazioni, sembra si siano potute realizzare per una sorta di consenso tacito o inespresso che si diffuse tra i pubblici ufficiali. Un contagio relazionale imposto dall’alto, dal vertice dell’autorità, decretando la frattura tra un «noi» potente, che andava costruendo la propria unità sul rigetto di un «loro» diverso, pericoloso, secondo una logica escludente senza nessun possibile riconoscimento reciproco. È l’inizio della distruttività relazionale che rende legittime le pratiche della violenza, della tortura e del non intervento, verso un male da sconfiggere con tutti i mezzi a disposizione. Una distanza sociale legittimata che consente ai perpetratori di agire in assoluta tranquillità e agli spettatori di rimanere imprigionati in un alone di anestesia generalizzata. Nel carcere di Bolzaneto in quei giorni si sono vissuti momenti di vero terrore e di violenza, come racconteranno le vittime. Ma il vedere inflitta una violenza gratuita, se spesso fa voltare lo sguardo altrove, emarginando l’agire nell’alveo dell’indifferenza, in alcuni può innescare un forte disagio emozionale. E qualcuno, spettatore indifferente di allora, testimone sofferente e impotente nell’immediatezza degli eventi, ha preso in seguito il coraggio di dissentire, e chiedere scusa ai manifestanti transitati nel centro di reclusione temporanea di Bolzaneto. Non piegandosi al peso del conformismo che lo esortava a rimanere allineato nell’apatia, ha denunciato pubblicamente l’accaduto.1 Marco Poggi, infermiere penitenziario, entrò in servizio a Bolzaneto dalle ore 20 di venerdì 20 luglio 2001, e ci rimase fino alle 15, 15.30 di domenica 22 luglio. Da quell’infermeria dove si cura, ha visto ciò che si consumava in termini di violenza, «il primo, quello che mi ha tra virgolette sconvolto più di tutti, è stato quel detenuto, o perlomeno tale, che è stato il primo ragazzo arrestato, che gli è stato chiesto di fare la flessione. Lui non capiva e uno dei due agenti gli ha dato due forti pugni all'altezza dei reni.. e nessuno disse niente».2 Per un infermiere come me che ha lavorato a lungo nelle carceri e negli ospedali psichiatrici, entrare in contatto con la sofferenza e la violenza è cosa ordinaria. Mi sono nutrito di violenza, è il mio mestiere, ne ho vista tanta. Negli ospedali psichiatrici è dovuta anche al tipo di patologia che presentano gli ospiti e nelle carceri dobbiamo sempre considerare che i detenuti sono esseri umani con le loro debolezze. Invece ciò che è accaduto a Bolzaneto non è stato un qualcosa di fisiologico a un metodo di osservazione o di controllo, o una violenza esercitata, come succede spesso nelle carceri o nei manicomi, dai pazienti o dai detenuti. Lì è successo l’inverso. Lì la violenza è diventata uno strumento di vendetta e di terrore, esercitata da una parte di alcuni poliziotti, i quali dovrebbero per legge evitare fenomeni di maltrattamento, abuso, brutalità, e proteggere i detenuti affinché tutto ciò non avvenga. E invece, alcuni agenti sono stati autori di nefandezze e di violenze incredibili che escono da ogni logica e ogni giustificazione. Per chi come me crede che la violenza non possa avere giustificazioni, forse, solo motivazioni diverse. Lì è stata gratuita, vendicativa, erroneamente educativa perché nascondeva una voglia di colpire, di picchiare, di far soffrire, di far del male. Quindi direi forse la peggiore, la più gratuita, la più nefasta di tutte le violenze che 1 Cfr. A. Zamperini (2007), L’indifferenza. Conformismo del sentire e dissenso emozionle, Einaudi, Torino. 2 Testimonianza resa in udienza del 6 febbraio 2007 durante il processo in corso presso il Tribunale di Genova. pace Conflitti e Violenza anno V, n.6, gen-giu 2008 ho visto nella mia vita. Anche credo dal punto di vista psicologico. Perché la sofferenza fisica passa, il dolore si lenisce, ma la sofferenza psicologica rimane, ed è quella che fa più male. Naturalmente come spesso ribadisco, non tutti gli agenti si sono macchiati di quelle nefandezze. Anzi, direi fortunatamente pochi rispetto alla maggioranza. Il fatto di ciò che è accaduto a Bolzaneto non deve assolutamente farci cadere nell’errore di fare di ogni erba un fascio e autorizzarci a pensare che i poliziotti siano tutti dei criminali. Sarebbe un errore immenso. C’è stato effettivamente un gruppo sparuto ma abbastanza forte, protetto e tollerato, che ha esercitato queste nefandezze, però all’interno di questi ci sono anche stati episodi di umanità, di benevolenza e di aiuto. Come agenti che hanno dato da bere ai detenuti, e che in qualche modo hanno anche manifestato la loro contrarietà a quello che succedeva. Ma ovviamente sono stati episodi molto ben minori e circoscritti rispetto agli episodi di violenza. E io, conoscendo molto bene l’ambiente carcerario, l’ho sempre detto e lo sostengo con tutta la mia forza che non è stata violenza premeditata ma è stata violenza tollerata ed è stata in qualche modo protetta e coperta soprattutto dall’alto dei vertici. Se proprio gli alti in grado l’avessero voluto, credo che in quei frangenti sarebbe stato possibile fermare la spirale della violenza esercitata. Perché non dimentichiamo che se il corpo di polizia penitenziaria nel 1991 è passato da un corpo militare a un corpo civile, la gerarchia verticale è comunque molto sentita, quindi bastava solo che qualcuno dei superiori avesse detto basta che tutto si sarebbe fermato. Invece hanno guardato, alcuni anche sorridendo. Per questo io dico e ribadisco tollerata, condivisa e protetta. È questo per me lo scandalo più grande. Lì si poteva evitare e fermare. E io al cospetto di tutto ciò mi sono sentito malissimo. Non sapevo cosa fare. Io, Marco Poggi, riconosco di essere una persona molto logorroica. Ma in quei frangenti non riuscivo a parlare. Mi sentivo impotente. E una volta uscito dalla caserma di Bolzaneto non mi sono sentito diversamente. Solo con gli agenti al mio abituale lavoro in carcere si parlava di ciò che era successo. Molti non erano d’accordo, altri dicevano che era giusto. Mi ricordo che alcuni mi dissero “mi raccomando non dire mai quello che hai visto” mentre altri mi esortavano a riferire tutto ciò di cui fui testimone. Ma la mia idea era quella di chiuder- 13 mi in me stesso. Poi, assieme a un altro mio collega in servizio a Bolzaneto, sentendo il dilagare di molte menzogne, provenienti soprattutto dagli organi della stampa, ossia che a Bolzaneto non era successo niente di grave, che erano stati solo episodi sporadici, abbiamo deciso di far emergere la verità perché credo che Bolzaneto sia stato ed è un disonore per il nostro Paese. Credo davvero incancellabile. Perché, togliere la dignità di esseri umani alle persone, checché esse possano aver combinato, è la più grande nefandezza e disonore. Lì a Bolzaneto di Black Bloc non se n’è visto nemmeno uno. Mettiamo pure che i giovani incarcerati fossero stati tutti colpevoli di aver disfatto Genova, secondo me, doveva essere la giustizia a punirli semmai ne fossero stati responsabili. Ma dal momento che a Bolzaneto vennero resi inerti e inoffensivi dovevano essere protetti e rispettati. Invece sono stati torturati, offesi, umiliati, e tra loro c’erano anche dei ragazzini. A parlarne ancor oggi mi viene l’ansia. Il diffondersi delle menzogne unitamente a un senso di colpa verso i ragazzi per non aver fatto nulla o pochissimo per aiutarli, mi ha spinto in seguito a raccontare e denunciare gli episodi di violenza attraverso un mio libro “Io, L’infame di Bolzaneto”.3 E così in questo modo ho pensato di levare una voce non dall’interno del gruppo delle vittime, dei manifestanti, ma da chi si trovava dall’altra parte. Che dichiarasse ciò che aveva visto, quindi incontestabile. L’ho sentito come un mio dovere. E sono felice che questa mia testimonianza, anche se in minima parte, abbia portato ai processi di Bolzaneto, dove spero la giustizia faccia il suo corso. Perlomeno per chi è stato individuato come responsabile delle violenze. Ricordo che un giorno, in occasione del Festival del Cinema di Venezia, dove fui invitato alla proiezione del film Genova senza risposte, incontrai una ragazza vittima a Bolzaneto delle violenze. Al termine della proiezione, la ragazza, additandomi disse: “Lei è un aguzzino come gli altri e non è giusto che stia seduto a fianco di Haidi e Carlo Giuliani”. E mi si gelò il sangue. Però non ho mai potuto dare torto a quella ragazzina. Altri invece che ho incontrato in seguito hanno capito che non ero certamente un aguzzino, che in quei giorni non feci nulla. Anzi, avessi fatto qualcosa per aiutare qualcuno. Ci provai una 3 W. Cavatoi (a cura di) (2004), Io, L’infame di Bolzaneto. Il prezzo di una scelta normale. La storia di Marco Poggi, Yema, Bologna. pace Conflitti e Violenza 14 anno V, n.6, gen-giu 2008 volta ma poi è andata peggio e ho lasciato stare. Parlare anche oggi di Bolzaneto, per me è sempre doloroso. Non credo che quell’esperienza mi abbia cambiato come uomo. Cambiare una persona di una certa età, matura come lo sono io non è facile. Diciamo che mi ha lasciato un’impronta infelice e triste, questo sì. Un’impronta che spesso mi rincorre nei pensieri, nei sogni. Pur non avendo subito ciò che hanno dovuto subire i ragazzi anch’io ho avuto i miei ritorni. È stata una parte della mia vita molto negativa. Non credo mi abbia cambiato ma sicuramente mi ha dato degli imput diversi. Anche nella professione. Il mio lavoro che ho sempre cercato di farlo con giustizia, professionalità, serietà, soprattutto amore, ho dovuto lascialo. Perché quando una persona esce allo scoperto dicendo cose scomode come ho fatto io, diventa un “infame”. Un “infame” come ho intitolato il mio libro. Quindi non è più appartenente al gruppo. Anche tra i lupi succede la stessa cosa. Quando un lupo si macchia di un qualcosa viene abbandonato dal gruppo. E deve continuare da solo, cercando di farcela da solo. Nessuno lo vuole più. Io ho questa sensazione. Sono stato abbandonato. Le alte gerarchie del carcere mi hanno consigliato vivamente per la mia salute di lasciare il posto. È stato un momento molto triste. Ma non perché ho perso il posto, faccio l’infermiere, una professione che trova facilmente impiego. Ma di tutta la vicenda mi ha umiliato il modo, il sistema con cui sono stato additato per aver semplicemente fatto il mio dovere di uomo, di professionista. Per questo ho perso anche amicizie vere, amicizie di anni. Sono cose che non cambiano ma lasciano il segno. E ci si chiede sempre il perché, anche se a oggi ho smesso di chiedermelo. E tutto questo mi ha fatto soffrire moltissimo. Primo perché era ed è un lavoro che amo tanto, secondo è che quando si subisce un’ingiustizia, non si sta bene. Per tutto ciò non posso che giudicare la vicenda Bolzaneto come una pagina tristissima della mia vita e della storia italiana. Checché ne dicano Fini e Castelli a Bolzaneto è stato esercitato il fascismo. Perché torturare e picchiare per nulla le persone, togliere loro la dignità, negare loro il diritto ad avere un avvocato, il diritto a chiamare i famigliari, quando questo è previsto dall’ordinamento penitenziario, è ledere i diritti umani, uso arbitrario della violenza e della sopraffazione. E per coloro che hanno esercitato questo, direi che se non il carcere almeno dovrebbero lasciare il posto di lavoro. Come ritengo debbano fare anche i medici che si sono macchiati di quelle nefandezze. Non è giusto e non è corretto in un Paese civile e democratico come il nostro che continuino a praticare la professione medica. Perché chi ha scelto come professione di lenire la sofferenza e invece la produce, credo che non abbia più nulla a che fare con la cura. Se io fossi un medico mi indignerei di avere dei colleghi così. E invece sembra che l’Ordine dei Medici non voglia fare nulla contro queste persone. © Fogliazza pace Conflitti e Violenza 15 anno V, n.6, gen-giu 2008 Mauro Palma Bolzaneto: un messaggio di impunità Un’Italia distratta, pronta ad occultare e dimenticare troppo in fretta episodi imbarazzanti calpestando una serie di principi sui diritti umani in tema di giustizia. Un Parlamento troppo indaffarato ad arginare il problema di turno, da non poter trovare il tempo in venti anni di adeguare il nostro ordinamento giuridico a quanto previsto dalla Convenzione Onu contro la tortura. In Italia il reato di tortura non è contemplato. E se diffusa era l’opinione che la tortura non fosse affar nostro, ma vicende circoscritte a qualche Paese a regime dittatoriale o arretrato, con Bolzaneto ci si è dovuti ricredere, e constatare che la tortura può costituire un evento di cui nemmeno il più avanzato stato democratico ne è immune. Una giustizia che per due anni ha lavorato a Genova, più di trecento testi ascoltati, ha però permesso di rompere quella “cultura del silenzio”, gettando luce all’interno di una realtà univoca, riuscendo bene a documentare cosa accadde all’interno della Caserma di Bolzaneto e a riconoscere pubblicamente che gli abusi ci furono e non si trattò di semplici fantasie deliranti. I pubblici ministeri Patrizia Petruzziello e Vittorio Ranieri Miniati, nella loro requisitoria riferiscono che «soltanto un criterio prudenziale» impedisce di parlare di tortura, infatti «alla tortura si è andato molto vicini» riconoscendo i fatti come «trattamenti inumani e degradanti». Ma l’accusa si è dichiarata impotente al cospetto di tale vuoto legislativo, e pertanto ha dovuto virare argomentazione sul piano giuridico. I reati contestati sono perciò divenuti: l’abuso di ufficio, l’abuso di autorità contro arrestati o detenuti, la violenza privata. Pene che vanno dai sei mesi ai tre anni, che ricadono nell’indulto, decretando la mancata carcerazione, e colpe che, nel 2009, cadranno in prescrizione. Mauro Palma, Presidente del Comitato Europeo per la prevenzione della tortura e dei trattamenti inumani e degradanti e Socio fondatore e onorario dell’Associazione Antigone, ci parla della mancanza nel nostro ordinamento del reato di tortura, alla luce del Processo in corso a Genova per i fatti svoltisi all’interno della Bolzaneto durante il G8. Caserma di Alla luce dei processi in corso per i fatti accaduti all’interno della Caserma di Bolzaneto durante il G8 di Genova, definiti dai pm come dei “trattamenti inumani e degradanti, una violazione dei diritti dell'uomo”, cosa ne pensa di quell’evento e dell’impossibilità di perseguire i responsabili per mancanza nel nostro ordinamento del reato di tortura? Ritengo che la descrizione che la Pubblica Accusa ha dato al termine del processo sia molto eloquente. Non giudico in maniera specifica gli atti avvenuti nelle strade nel corso della manifestazione perché la competenza del nostro Comitato è soltanto per le persone private della libertà, quindi non è per le questioni di ordine pubblico quanto per le persone che sono già sotto controllo da parte dell’autorità pubblica detenute o fermate. Ma gli atti che sono avvenuti nella caserma di Bolzaneto sono atti che indignano. Se le responsabilità accertate sono così come sono state descritte dai fatti, svelano forte mancanza di professionalità, forte carenza di formazione di chi ha operato, e una grave forma di responsabilità di chi ha impartito gli ordini e le regole di come comportarsi in quell’occasione. Svelano anche una cultura di fondo fortemente irresponsabile. Nel senso che non si avverte la responsabilità dell’autorità pubblica, responsabile dell’incolumità delle persone detenute a lei affidate. Si svela così una cultura che al contrario concepisce i detenuti come persone da punire in maniera anticipata, o comunque da umiliare perché vengono tenute nel “potere” di chi le detiene. Quindi questo è un elemento allarmante anche al di là della responsabilità penale perché è indicativo di una determinata cultura. Detto questo, il processo di Bolzaneto è un’immagine estremamente chiara di ciò che in questi anni hanno più volte detto sia gli organismi internazionali sia le associazioni non governative, cioè, che la carenza di un reato specifico di tortura nel nostro ordinamento è una carenza grave. Non tanto perché le condotte mes- pace Conflitti e Violenza anno V, n.6, gen-giu 2008 se in campo da chi ha operato non vengano perseguite, ma perché vengono perseguite con delle forme improprie: violenza privata, lesioni, abuso di potere, abuso d’ufficio e via dicendo. Tutte queste figure di reato non danno una descrizione chiara di ciò che realmente è successo e sono tutte figure che, giustamente nel codice prevedono delle pene di tipo medio, ma proprio per questo destinate a una prescrizione in termini molto più rapidi rispetto a ciò che sarebbe avvenuto se ci fosse un reato di tortura che naturalmente prevederebbe una pena particolarmente alta e quindi non facilmente prescrivibile. Con questo, l’esito di tutta la situazione sarà che alcune persone saranno formalmente sanzionate anche se di fatto non avranno una reale sanzione, e una cosa importante, non tanto perché si voglia sanzionare chi ha operato con il carcere, è che così facendo si manda indirettamente un improprio messaggio di impunità a tutti gli operatori, soprattutto a quelli più giovani e un messaggio tra virgolette quasi di scherno a chi invece correttamente opera nelle forze dell’ordine, nelle forze di polizia e nelle forze di polizia penitenziaria, che sono la maggioranza. Il messaggio è di impunità perché l’esito sarà quello che, queste persone, seppur siano state accertate come responsabili di fatti molto gravi, di fatto non avranno nel concreto nessuna sanzione proporzionata al reato commesso. Quali sono le motivazioni per cui l’Italia a circa vent’anni dalla convenzione non risponde? Ci sono due convergenti motivazioni. La prima è perché l’Italia si è sempre ritenuta un po’ immune da questi fenomeni. Già il termine tortura sembra un termine che fa scattare un riflesso dal tipo “da noi questo problema non esiste”. Io ricordo che alcuni anni fa proprio l’Associazione Antigone fece un convegno sul reato di tortura, e in apertura un esponente che allora aveva forti responsabilità di tipo politico sul settore della giustizia intervenne dicendo “questo è un problema che rimane ancora nei Paesi a democrazia non sviluppata”. Invece eravamo a pochi mesi prima degli eventi di Napoli e di Genova. E questo dimostra che il problema è un problema latente che può svilupparsi anche nei Paesi a democrazia sviluppata. Primo fra tutti per esempio gli Stati Uniti che, certamente sono una democrazia sviluppata e elaborata, eppure abbiamo visto tutti le immagini di Abu Ghraib. Quindi c’è un primo 16 filone che è quello di aver sottovalutato il problema in virtù del fatto che la tortura fosse un fatto che non riguardava il nostro Paese e nel codice c’erano altre figure di reato per perseguire tali comportamenti. Il secondo filone di matrice diversa è che l’Italia ha ancora un codice penale risalente al 1931. Da allora, per una riforma complessiva del codice penale si sono avute varie commissioni nominate dai vari ministri della giustizia che si sono succeduti, ma la riforma non è mai arrivata e molti problemi sono stati rinviati a quando si sarebbe messo mano a tutta quanta la questione complessiva del ridisegnare la penalità in Italia. E questo rinvio, ormai avviene da decenni. Io ricordo commissioni di più di vent’anni fa che pur avevano elaborato un nuovo codice penale, questo codice non è mai stato approvato. Ecco, questo rinvio del problema alla riforma complessiva ha finito per essere un altro fattore, di natura del tutto diversa, e del tutto endogena a come avviene la produzione legislativa in Italia. Quindi penso che ci sia la convergenza di due filoni: un filone di sottovalutazione del problema e di presunta immunità dell’Italia rispetto ad esso, e un filone di incapacità complessiva a legiferare in maniera organica nell’ambito del codice penale. Le vittime di tortura chiedono spesso il riconoscimento e la consapevolezza del torto subito. Questo comporta una acquisizione da parte dell’autorità responsabile di far piena luce e verità sui fatti. Per i reati gravissimi alle persone cosa ne pensa alla possibilità di istituire un organismo anche a livello europeo che indaghi le responsabilità non solo penali ma anche civili e politiche? Una sorta di Commissione per la Verità e la Riconciliazione? Noi come Comitato Europeo teniamo ben fermo che la lotta contro la tortura deve avere tre aspetti non scindibili l’uno dall’altro: la prevenzione, la repressione e la possibilità di rimedio per le vittime fin dove è possibile, perché sappiamo che la tortura porta ferite molto profonde difficili da rimarginare. Ora sul piano preventivo mi sembra evidente che l’Italia in qualche modo ha fallito. Lo dimostra Bolzaneto. Sul piano repressivo ci sono i processi in corso, ma come dicevo poc’anzi i processi rischiano di essere delle attività formali, importanti per stabilire determinate cose ma poi di fatto di non attuare un’effettiva repressione perché pace Conflitti e Violenza anno V, n.6, gen-giu 2008 non arriveranno a sanzioni concrete. Resta il terzo versante che è quello del rimedio per le vittime. Io ho una lunga esperienza di interviste e colloqui con le vittime di tortura in molti Paesi. La vittima di tortura è una persona che ha molta difficoltà a rivivere la propria esperienza. Molto spesso è anche molto arduo, anche là dove noi sospettiamo che una determinata persona sia stata vittima di tortura, far in modo che ella confermi i nostri sospetti, che riparli della propria esperienza. La tortura richiede molta elaborazione di drammaticità personale sofferta. Al contrario, le persone che quasi immediatamente parlano di maltrattamenti subiti, alle volte, sono i meno attendibili. Ho un’esperienza di persone con le quali impieghiamo molti incontri per far riemergere la storia. Tuttavia quello che hanno in comune le vittime della tortura nel rivivere la propria esperienza è la necessità che vi sia un riconoscimento dell’aver subito un torto, un riconoscimento di una consapevolezza sociale e ciò che essi hanno passato è qualcosa di negativo che non doveva succedere e non dovrebbe più succedere. Ecco proprio per questo messaggio io credo che una commissione, più che per l’accertamento di responsabilità individuali a cui ci ha pensato la magistratura, avrebbe il ruolo di inviare un messaggio del tipo “siamo consapevoli, siamo tutti responsabili di ciò che voi avete subito, perché non siamo riusciti a prevenirlo, non siamo riusciti a dare ordini giusti a chi doveva operare, perché in quel momento avevamo responsabilità politiche e le abbiamo mal utilizzate”. Quindi una commissione secondo me è uno strumento fortemente necessario nella direzione di dare alle vittime questo minimo rimedio. Il minimo rimedio di avere un segnale che la società nella sua complessità di società politica e civile, è consapevole di ciò che loro hanno patito. Questa commissione la vedrei come necessità nazionale non sovranazionale. Gli organismi sovranazionali sono estremamente importanti, ne presiedo uno, però credo che gli stati democratici debbano trovare nel loro interno, in primo luogo, la capacità di compiere azioni in questa direzione. È lo Stato a dover riconoscere là dove ha fallito, là dove ha sbagliato. Mi auguro che con questo spirito ci sia una possibilità di trovare in Parlamento un pensiero comune verso l’istituzione di una commissione. Certo i tempi non sembrano essere i migliori. Il tentativo di rimuovere è molto forte. Il tentativo di non aver memoria in Italia è sempre 17 stato vincente. Gli eventi passano, nessuno ricorda più niente. Credo invece che su questa questione sia utile sia per le vittime che per noi ritornare a una riflessione su quello che è accaduto a Bolzaneto sette anni fa. Lei, attraverso anche l’Associazione Antigone di cui è fondatore, osserva ormai da tempo il carcere. Spesso si parla che il tempo trascorso in carcere debba essere un tempo di costruzione, rieducazione, crede sia possibile far diventare le carceri luoghi di dialogo e crescita in osmosi con il resto della società? Questa è una finalità che nel caso italiano è addirittura posta nella Costituzione. La pena deve tendere alla rieducazione del condannato. Con questo abbiamo alle spalle uno strumento positivo di diritto molto forte, perché la finalità non è soltanto nella legge penitenziaria ma è nella Costituzione stessa. Oggi non sta funzionando in questo modo. Soprattutto perché il carcere sta diventando sempre più affollato e sempre più abitato da persone che piuttosto che avere un profilo criminale effettivo, hanno un profilo di forte minorità sociale. Questo non toglie che non abbiano commesso dei reati, ma diciamo che il carcere sembra quasi uno strumento di politica del territorio, di ricettacolo di tutte le forme di marginalità che non un effettivo strumento con cui realizzare dei progetti, dei programmi, per far ritornare progressivamente le persone alla società. Ricordiamoci che il reato rappresenta sempre un aver reciso un legame sociale e quindi c’è una necessità di riannodare tale legame. Qui non si tratta di educazione etica, ma di abituare una persona a riannodare quel legame reciso attraverso il reato. Io credo che, perché queste non rimangano parole, il carcere dovrebbe essere uno strumento riservato soltanto a quei reati che richiedono effettiva separazione dalla società e un progressivo progetto di reinserimento e non uno strumento inflazionato come invece attualmente è. I numeri sono sempre crescenti e poiché il carcere ha anche costi, gli standard di vita sono sempre più bassi, e diventa sempre più un luogo di disperazione e al contempo o di parcheggio, o di rischio di costruzione di legami con altre microcriminalità, rischiando di agire come motore all’inverso. Continuo invece a pensare che debba avere un’utilità sociale ma perché abbia questo scopo deve essere uno strumento molto più limitato, controllabile e controllato anche dall’esterno. pace Conflitti e Violenza anno V, n.6, gen-giu 2008 18 Adriano Zamperini Le radici della violenza: uno sguardo psicosociale dentro la prigione di Bolzaneto Introduzione Al di là dei fatti processuali. Questa la strada che intendo seguire. Scrivo subito dopo la sentenza di Bolzaneto. Quando rimbalzano le polemiche in merito agli esiti giudiziari. Come spesso accade, si fa facile profezia affermando che saranno notizie rapidamente accartocciate con i giornali che le hanno pubblicate. Dopotutto, l’estate è alle porte. La mente dei cittadini abbisogna di manutenzione e di una ristoratrice vacanza. Ecco allora voci lamentose bofonchiare: «Ancora con queste storie; ancora con il G8 di Genova». Sì, ancora con queste storie. Serve ancora scrivere di queste storie. A lungo. E ho scritto di Bolzaneto anche prima della sentenza.1 Affrontare ciò che vi è accaduto, prima e dopo il pronunciamento del tribunale – senza voler entrare nel merito degli atti giudiziari –, non è certo un modo per svicolare dai gravi problemi sollevati. Altre voci hanno parlato al riguardo, pure sulle pagine di questo Giornale. Altre ancora continueranno a farlo. Piuttosto, vuol essere una presa di posizione per la conoscenza. Conoscenza di esseri umani che hanno brutalizzato altri esseri umani. Perché, al di là della sentenza, io, come psicologo sociale, so. Conosco ciò che è accaduto in quella prigione – le testimonianze sono innumerevoli e concordanti2 – e non ho bisogno di una sentenza per pronunciarmi. La necessità di affrontare questa vicenda oltre il piano strettamente legale, nasce da una presa di coscienza: le ferite di Bolzaneto non saranno mai sanate da qualsivoglia atto giudiziario. Esse sanguineranno soprattutto al di fuori delle aule del tribunale. Nelle vite personali delle vittime e dei loro familiari. Nel rapporto che instaureranno con le istituzioni e con le forze dell’ordine. Nel loro impegno di cittadini per contribuire al funzionamento di una società che possa dirsi, senza arrossire d’imbarazzo, democratica. E quindi Bolzaneto è anche metafora di come si organizza la 1 Cfr. A. Zamperini (2007), L’indifferenza. Conformismo del sentire e dissenso emozionale, Einaudi, Torino. 2 Si rimanda anche alle testimonianze presenti in questo numero del Giornale. vita collettiva. Per questo motivo Bolzaneto non passerà mai. Resterà sempre lì. Una prigione capace di incarcerare un presente con domande che si vorrebbero confinare nel passato. Interrogativi a cui va data risposta. E io so. Tutto ciò fa parte del mio mestiere di psicologo sociale che mi porta a studiare gli esseri umani, raccogliendo osservazioni sul campo e dati di ricerca. Coordinandoli in un quadro organico, ristabilendo nessi là dove sembrano esserci solo accostamenti casuali. Individuando regolarità all’interno di un’apparente discontinuità. E così, munito di questo sapere, posso addentrarmi nella prigione di Bolzaneto. Non per affrontare la questione giudiziaria, già l’ho detto. Bensì per affrontare quella politica. Non partitica ma politica: ossia l’analisi della situazione che ha figliato il dramma di Bolzaneto. Da cittadini a reietti: la delegittimazione al servizio della violenza indiscriminata «Episodi isolati. Nulla di veramente grave. Forse qualche abuso c’è pure stato, ma è il risultato – sicuramente increscioso e da punire senza tentennamenti – di poche mele marce che si sono fatte prendere la mano nella concitazione del momento». Quante volte abbiamo sentito simili affermazioni? Nulla di nuovo sotto il sole. Sempre, quando è chiamata a rendere conto di un evento negativo, la struttura dell’autorità si nasconde dietro il paravento del singolo, sostenendo: «Non siamo noi, è lui». E davanti a quel “lui”, un carnefice, la vittima Evandro Fornasier – così racconta nella sua testimonianza3 – sperimenta una distanza incolmabile. E, pur senza sollevarlo dalla propria responsabilità personale, egli lo considera una “persona semplice”. Una persona ordinaria. Sicuramente la nostra società e il nostro sistema giudiziario considerano i singoli individui responsabili delle proprie azioni. Ma davanti agli eventi di Bolzaneto uno psicolo3 Cfr. la testimonianza di Evandro Fornasier in questo numero del Giornale. pace Conflitti e Violenza anno V, n.6, gen-giu 2008 go sociale si spinge più in là, ritenendo responsabili sia i pari grado che i superiori, e tutti coloro che esercitavano un controllo sul contesto sociale delle azioni. Attenzione: non perché egli stia da una parte o dall’altra. Piuttosto, perché sta dalla parte del sapere. La psicologia sociale ha ormai accumulato un sapere vastissimo in merito ai processi di influenza sociale. E soprattutto come un particolare contesto possa indurre le persone ad essere aggressive, vessatorie, conformiste e obbedienti. Tutti requisiti che abbiamo visto in azione a Bolzaneto. L’ambiente dell’azione vede ovviamente protagonisti diversi attori; nel nostro caso, “noi” e “loro”. E loro, gli altri, per meritare la violenza inflitta devono patire una delegittimazione sociale.4 In sostanza, la delegittimazione è l’inserimento di un gruppo – o più gruppi – all'interno di categorie negative. In tal modo si rende possibile l'esclusione morale. Un progetto che si concretizza allorché singoli e gruppi vengono percepiti al di là dei confini entro i quali si applicano norme e valori guidati da criteri di giustizia ed equità. Le opinioni e gli atteggiamenti inerenti ai diversi problemi sociali dipendono dalla posizione occupata dai soggetti coinvolti rispetto al perimetro della morale.5 Sia chi sta all'interno di una comunità come chi al suo esterno, può certamente subire violenza e prevaricazione. Però quando il danno è inflitto agli interni è più facile che sia considerato un fatto ingiusto, attivando emozioni di colpa o richieste di riparazione, mentre laddove il bersaglio è un esterno, un estraneo, un nemico, è molto più probabile che non venga percepita alcuna violazione di diritti. Diversi strumenti lavorano per la delegittimazione. Uno di questi è la «disumanizzazione»: un gruppo viene etichettato come inumano inscrivendo i suoi membri nel registro di una diversità dal regno dell’umanità; le etichette linguistiche maggiormente usate fanno riferimento a una razza inferiore, al mondo animale e persino soprannaturale (ad esempio demoni). La «caratterizzazione per tratti» punta a descrivere un gruppo sulla base di tratti estremamente negativi e perciò non tollerabili, servendosi di termini quali idioti o parassiti. Dipingere i componenti di un gruppo come trasgressori di norme fon- 4 Cfr. D. Bar-Tal (1990), «Causes and consequences of delegitimization: Models of conflict and ethnocentrism», Journal of Social Issues, 46, pp. 65-81. 5 Cfr. S. Opotow (1990), «Moral exclusion and injustice: An introduction», Journal of Social Issues, 46, pp. 1-20. 19 damentali vuol dire bandirli dalla società e dalle sue istituzioni; sono individui ritenuti sessualmente pervertiti, criminali, devianti, psicopatici. L'uso di «etichette politiche» assimila un gruppo a una specifica entità politica che minaccia i valori costitutivi di una collettività, creando un serio pericolo per il suo funzionamento e la sua sopravvivenza. Infine, attraverso un «confronto di gruppo» si giunge a identificare e percepire negativamente un determinato insieme di persone, alla stregua di vandali o barbari; ogni compagine sociale dispone di un proprio vocabolario culturale per indicare quei gruppi che rappresentano il male. Eventi sociali e politici, come il G8 di Genova, sono scenari capaci di generare nuovi nemici e inedite rappresentazioni dei medesimi. Grazie soprattutto all’azione della comunicazione sociale. Allora, chi erano le persone condotte e trattenute nella caserma di Bolzaneto? Cittadini che avevano magari infranto la legge durante una manifestazione pubblica? E quindi, come sancito dalle norme vigenti, sottoposti a fermo, affinché venissero identificati e poi eventualmente processati? No. Per quello che sappiamo di Bolzaneto, in quel luogo non sono transitati cittadini – quindi membri della comunità giuridica e morale di un Paese –, bensì qualcun altro o qualcosa d’altro. Basti qui ricordare alcuni appellativi con cui sono stati chiamati: zecche comuniste, bastardi comunisti, ebrei di merda, froci di merda, puttane, troie, bombaroli, e altre dello stesso tenore. Un bel carrozzone di reietti, cacciati ai margini della comunità. Il luogo dove si concentra la complessa fenomenologia della negatività. E, grazie al linguaggio – un rasoio simbolico capace di tagliare i legami della cittadinanza –, i singoli colpiti da un simile etichettamento possono essere impunemente oltraggiati e fatti oggetto di violenza. Dopotutto, il passato insegna. Sempre, la violenza indiscriminata – ossia quella che colpisce le vittime sulla base della propria identità sociale – è preceduta e accompagnata da un processo di delegittimazione. E senza riaprire i libri di storia, basti pensare a ciò che sta accadendo nel nostro Paese ai rom. È creando l’equivalenza simbolica “rom-delinquenti” che diventa possibile colpire i singoli identificabili da questa appartenenza con provvedimenti discriminatori. Rendendo salienti categorie negative, si attivano nella popolazione forti emozioni di rifiuto – odio, rabbia, disprezzo, paura –, sviluppando la convinzione che il gruppo delegittimato è un peri- pace Conflitti e Violenza anno V, n.6, gen-giu 2008 colo per l’ordine costituito e quindi non meritevole di alcuna considerazione morale. Perciò l'aggressività nei suoi confronti è più che motivata (nella mente di chi l’agisce). Sicché, la costruzione sociale di un sistema simbolico e normativo plasmato dalla delegittimazione e dall'esclusione morale produce sugli individui gravi conseguenze cognitive, emotive e comportamentali. Sul piano cognitivo, viene predisposto un set di idee stereotipate in merito alle dinamiche interpersonali e intergruppi. A livello emotivo, i coltivati sentimenti di paura, pericolo o disprezzo nei confronti di un particolare gruppo forniscono benzina per alimentare ulteriormente il processo di delegittimazione. Per quanto riguarda la sfera delle azioni, si sviluppano comportamenti discriminatori e violenti contro il nemico percepito. E di fronte a crudeltà gratuite, la delegittimazione è un ottimo sedativo per le coscienze dei singoli agenti, così come per la massa di spettatori.6 Permettendo soprattutto ai primi di mettere in atto un disimpegno morale circa il proprio operato.7 Dentro il teatro interiore di ogni perpetratore, è infatti facilitato il ricorso a strategie cognitive di auto-assoluzione. Capaci non solo di giustificare in sé la condotta ma anche di capovolgere la relazione di responsabilità tra chi ferisce e chi è ferito, considerando quest'ultimo come responsabile dell'accaduto. Imitare e dire di sì: la brutalità del conformismo dell’obbedienza Una volta creato un simile ambiente – esterno e interno –, votato alla sopraffazione di persone transitate dal ruolo di cittadini a quello di reietti nemici dell’ordine, i ben noti fenomeni della conformità tra pari e dell’obbedienza all’autorità permettono di fornire ulteriori elementi esplicativi per comprendere cosa è accaduto a Bolzaneto. Gli agenti di custodia abusano dei prigionieri in conformità a quello che altre guardie fanno, al fine di adempiere a un ruolo potente. Ciò è stato ben evidenziato dall’esperimento carcerario di Stanford, quando persone comuni – assegnate casualmente al ruolo di guardie e detenuti – hanno dato vita a un dramma vero e proprio. Conclusosi precocemente per evitare che le guardie agissero abusi ancora più gravi nei confronti di vittime inermi.8 Poco sappiamo da parte degli agenti di custodia di Bolzaneto. Molto invece da parte delle vittime, con le loro testimonianze. Ebbene, ascoltandole e leggendole si può riscontrare una forte analogia con quanto vissuto dai “detenuti volontari” della prigione di Stanford. Oltre alla sofferenza fisica, le persone tradotte a Bolzaneto hanno patito per il controllo arbitrario agito dalle guardie. I reclusi hanno fatto esperienze inaspettate in un ambiente imprevedibile, dove non era possibile capire cosa seguiva a cosa. Un disorientamento psicologico assai gradito a chi è preposto al governo delle istituzioni totali. Infatti, la sottomissione fisica non basta. Bisogna colpire anche la mente. Aggredire la percezione di padronanza che ciascuno di noi sperimenta, seppure in grado diverso, nelle varie sfere dell'esistenza collettiva. Un controllo essenziale per il benessere di qualsiasi essere umano. Non è certo una forzatura individuare una somiglianza tra lo stato psicologico – per nulla transitorio, come si evince dalle testimonianze – dei reclusi di Bolzaneto e la nota sofferenza psicologica chiamata “impotenza appresa”.9 Come qualsiasi matricola di psicologia sa, persone comuni possono macchiarsi di azioni incredibilmente distruttive se ricevono ordini da un’autorità legittima. Gli studi sull’obbedienza all’autorità di Stanley Milgram sono ormai entrati a far parte del nostro patrimonio di conoscenza.10 Se è indiscutibile che conformismo e obbedienza possano essere fenomeni non sempre gravidi di pericolose conseguenze, è altrettanto inoppugnabile che, all’interno del scenario simbolico summenzionato, sono armi terribili. Sia detto senza tentennamenti: la tortura, almeno in parte, è il crimine di un’obbedienza socializzata. I subordinati non solo fanno quello che gli è stato ordinato di fare, ma anche quello che essi pensano che i superiori ordinerebbero loro di fare. Guardando dalla parte dei perpetratori, che cosa rappresenta un linciaggio? Una modalità – crudele – con cui persone comuni vanno al di là della legge vigente per ribadire la loro visione della volontà di una comunità o di uno Stato. Con un balzo discorsivo, usciamo dalla prigione di Bolzaneto e entriamo nel 8 6 A. Zamperini (2001), Psicologia dell’inerzia e della solidarietà. Lo spettatore di fronte alle atrocità collettive, Einaudi, Torino. 7 Cfr. A. Bandura (1997), Riflessioni sul disimpegno morale, in G.V. Caprara (a cura di), Bandura, FrancoAngeli, Milano. 20 Cfr. P. Zimbardo (2008), L’effetto Lucifero. Cattivi si diventa?, Cortina, Milano (ed. or. 2007). Cfr. A. Zamperini (2004), Prigioni della mente. Relazioni di oppressione e resistenza, Einaudi, Torino. 10 S. Milgram (2003), Obbedienza all’autorità, Einaudi, Torino (ed. or. 1974). 9 pace Conflitti e Violenza anno V, n.6, gen-giu 2008 clima sociale attuale da caccia alle streghe con i rom nei panni dei reietti. E, anche solo per un attimo, pensiamo ai roghi dei campi nomadi. Lascio ai ragionamenti del lettore la risposta in merito a chi abbia acceso questi incendi. Conclusioni In breve, gli studi della psicologia sociale evidenziano chiaramente come, all’interno di un particolare contesto di forze sociali, persone comuni possano commettere atrocità. Tali azioni appartengono alla sfera della condotta umana e perciò possono e vanno studiate da una prospettiva scientifica. Non dobbiamo temere queste spiegazioni. Magari pensando che giungano a corrompere il giusto giudizio di condanna verso i carnefici. Studiare la vicenda di Bolzaneto significa rifiutarne la demonizzazione. Quei poliziotti e quei sanitari sono esseri umani. Dobbiamo pertanto riconoscere che, nella stessa situazione, altri avrebbero potuto macchiarsi di quella violenza, se vogliamo comprendere e spiegare nel modo migliore i loro comportamenti. Sicché spiegare non significa assolvere, scusare, o perdonare. Piuttosto, significa offrire risposte capaci di andare al di là dei fatti giudiziari, necessariamente e giustamente limitati a sanzionare specifiche condotte individuali. E oltrepassare il giuridico vuol dire chiamare in causa la responsabilità politica dell’accaduto. Già immagino le facce dei miei colleghi e dei miei studenti: ancora con la delegittimazione, con Milgram, con Zimbardo. Studi e nomi arcinoti per gli addetti ai lavori. Ma allora perché non se ne parla in merito a Bolzaneto? Perché la maggioranza dei cittadini, coloro che certo non sono tenuti a conoscere a menadito tutte queste ricerche, non ne hanno quasi mai sentito parlare e soprattutto non hanno quasi mai avuto la possibilità di discutere e di confrontarsi con tali idee? Credo proprio che Doris Lessing, premio Nobel per la letteratura, abbia ragione. Ha ragione quando, nelle sue lezioni sulla libertà, lamenta il fatto che noi esseri umani possediamo un bel po’ di informazioni su noi stessi, ma non ne facciamo uso per migliorare le nostre istituzioni e quindi le nostre vite.11 Allora, sulla base del sapere psicosociale di cui disponiamo, è certo che quanto è acca11 Cfr. D. Lessing (2003), Le prigioni che abbiamo dentro. Cinque lezioni sulla libertà, Minimun Fax, Roma (ed. or. 1986). 21 duto a Bolzaneto non è riconducibile all’azione isolata di pochi subalterni. Scientificamente va respinta qualsiasi spiegazione che si limiti a puntare il dito contro singoli individui. Riconoscere invece che quelle stesse azioni non possono che essere il frutto di un particolare contesto sociale, atto a promuovere e istigare aggressività, vuol dire essere interrogati sulle responsabilità politiche di quel contesto. Altrimenti, senza questa pubblica presa di coscienza, tutti i proclami affinché episodi simili non debbano più ripetersi resteranno lettera morta. Diventa allora decisivo usare il sapere di cui disponiamo per analizzare vicende come quella di Bolzaneto, perché se sappiamo quali processi psicosociali preparano il terreno a una violenza indiscriminata, possiamo lavorare tutti per promuovere contesti di vita dove questi pericoli siano vanificati o perlomeno attenuati. Adriano Zamperini insegna Psicologia sociale alla Facoltà di Psicologia dell'Università di Padova. I suoi interessi di ricerca sono rivolti in modo particolare alla comprensione del comportamento umano in situazioni estreme (come nel genocidio) e all'estensione di queste conoscenze nella scuola e nella comunità per la formazione alla convivenza e alla tolleranza. Si interessa inoltre del rapporto tra cinema e psicologia sociale. È tra i fondatori e Presidente della Società Italiana di Scienze Psicosociali per la Pace. Fra i suoi scritti: Psicologia sociale della responsabilità (Utet, Torino 1998), Psicologia dell'inerzia e della solidarietà (Einaudi, Torino 2001), Psicologia sociale (con Ines Testoni, Einaudi, Torino 2002), Prigioni della mente (Einaudi, Torino 2004). E-mail: [email protected] [email protected] pace Conflitti e Violenza anno V, n.6, gen-giu 2008 22 “Dossier Genova G8” Per non dimenticare: il fumetto diventa Memoria Collettiva Nando Dalla Chiesa Sarà la storia a giudicare, e il giudizio peserà. Peserà più di quanto ora immaginano gli impuniti: non resteranno anonimi, e il marchio sarà indelebile. Amnesty International La più grande sospensione dei diritti democratici in un paese occidentale dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. DOSSIER GENOVA G8 IL RAPPORTO ILLUSTRATO DELLA PROCURA DI GENOVA SUI FATTI DELLA SCUOLA DIAZ Gloria Bardi - Gabriele Gamberini BeccoGiallo, Padova 2008, € 15 Will Eisner un grande maestro del fumetto, parla del fumetto come arte sequenziale. Egli sostiene che le figure prese individualmente sono solamente delle figure, mentre prese in sequenza danno vita all’arte del fumetto. E come ogni forma d’arte anche il fumetto comunica. Alla pari di documentari, film, libri narrativi, saggi, e dipinti, il fumetto sa esprimere attraverso le proprie immagini e contenuti, concetti anche molto impegnativi e difficili. In questo raccontare attraverso il fumetto, ci sono riusciti Gloria Bardi, scrittrice e autrice teatrale, docente di storia e filosofia, e Gabriele Gamberini, pittore e disegnatore, ricostruendo ciò che accadde la notte del 21 luglio 2001 quando la Polizia irruppe nel complesso scolastico Armando Diaz, in un assalto/perquisizione inspiegabilmente violento contro persone inermi. Un fumetto, che apparentemente potrebbe sembrare banale, si rivela in realtà uno spazio altamente innovativo, non solo per l’ulteriore occasione di accessibilità alla memoria e alle informazioni, ma per l’opportunità di leggere all’unisono immagini e narrazione non altrimenti disponibili. In questo, il tratto dell’autore si mostra abile nel riuscire a rappresentare in ogni sfumatura lo sventolare dei manganelli, la violenza dei calci sferrati con gli anfibi, ma sono soprattutto le espressioni dipinte nei volti degli attori a rendere pregnante tutta la narrazione. Lodevole di un resoconto che segue puntualmente gli atti processuali, mantenendo in siffatto modo un rigore epistemologico, “Dossier Genova G8” ci accompagna attraverso una sceneggiatura, in cui gli eventi si susseguono l’uno dopo l’altro sino a trasmettere a chi legge emozioni alla stregua di un film. pace Conflitti e Violenza anno V, n.6, gen-giu 2008 23 pace Conflitti e Violenza anno V, n.6, gen-giu 2008 24 pace Conflitti e Violenza anno V, n.6, gen-giu 2008 25 pace Conflitti e Violenza anno V, n.6, gen-giu 2008 26 pace Conflitti e Violenza 27 anno V, n.6, gen-giu 2008 G8 Genova 2001. Per saperne di più LIBRI LIBRI Mario Portanova Inferno Bolzaneto Melampoeditore 2008 Lorenzo Guadagnucci Noi della Diaz. “La notte dei manganelli” al G8 di Genova. Una democrazia umiliata Terre di Mezzo 2008 Roberto Ferrucci Cosa cambia Marsilio 2007 Adriano Zamperini L’indifferenza. Conformismo del sentire e dissenso emozionale Einaudi 2007 Lorenzo Guadagnucci La seduzione autoritaria Nonluoghi Libere Edizioni 2005 SITOGRAFIA Comitato Verità e Giustizia per Genova www.veritagiustizia.it Comitato Piazza Carlo Giuliani www.piazzacarlogiuliani.org Processi G8 www.processig8.org Supporto Legale www.supportolegale.org Lorenzo Guadagnucci Blog www.altreconomia.it Carlo Gubitosa Genova nome per nome Editrice Berti – Altra Economia Edizioni 2003 Andrea Camilleri Il giro di boa Sellerio 2003 Stefano Tassinari I segni sulla pelle Marco Tropea Editore 2003 Haidi e Giuliano Giuliani Un anno senza Carlo Baldini & Castoldi 2002 Giulietto Chiesa G8/Genova Einaudi 2001 AA.VV. I giorni di Genova. Cronche, commenti e testimonianze dai giornali di tutto il mondo Internazionale 2001 Concita De Gregorio Non lavate questo sangue Laterza 2001 Obbligo di referto a cura di I sanitari del GSF FretelliFrilli Editore 2001 Enrica Bartesaghi Genova. Il posto sbagliato Nonluoghi Libere Edizioni 2004 Walter Cavatoi a cura di Io, L’infame di Bolzaneto. Il prezzo di una scelta normale. La storia di Marco Poggi Yema 2004 Genoa Legal Forum a cura di Stefano Bigliazzi e Emilio Robotti Dalla parte del torto Fratelli Frilli Editore 2002 FILMOGRAFIA OP Genova 2001. L’ordine pubblico durante il G8 di Genova a cura di segreteria Genova Legal Forum (2007) Ora o mai più di Lucio Pellegrini (2003) Il seme della follia di M. Parissone e R. Burchielli (2003) Carlo Giuliani ragazzo Di F. Comencini (2002) Le strade di Genova Di D. Ferrario, I. Fraioli, G. Grosso e J. Renzi (2002) pace Conflitti e Violenza anno V, n.6, gen-giu 2008 Cosa resta di Bolzaneto Se numerosi video e fotogrammi hanno nutrito il nostro immaginario collettivo circa la vicenda scoppiata a Genova nell’estate del 2001, dalle devastazioni ai pestaggi della guerriglia urbana, sino alle scene dell’assalto alla scuola Diaz, e, alle strazianti immagini del corpo di Carlo in Piazza Alimonda, a Bolzaneto, nulla ci è stato permesso vedere. Ammantato da un segreto che si sperava andasse preservato, Bolzaneto non ha immagini. Le immagini di Bolzaneto appartengono solo all’intimo di chi a Bolzaneto c’e stato. Immagini ancor oggi strazianti e nitide. Di quelle immagini abbiamo voluto farne tesoro, e, ri-costruire l’immagine di Bolzaneto. E perciò il nostro intento attraverso le pagine di questo Giornale è stato molteplice. Abbracciando un profilo più ampio, onorare e commemorare le vittime delle violenze come severo monito che qualcosa di simile non accada mai più. Da un altro lato, contribuire a mantenere viva una memoria minacciata costantemente dalla “cultura del silenzio” e preservarla dal tentativo di dissolvimento o dall’indifferenza che spesso il tempo condanna. Infine, si è voluto porre attenzione al comprendere e, in una categoria più ampia tratteggiare il fenomeno della delegittimazione come processo di esclusione sociale nei confronti di qualsivoglia gruppo pericoloso. In questo peregrinare siamo partiti dal basso esplorando il vissuto dei testimoni, preziosi custodi di tale memoria, da chi porta in prima persona le ferite dell’esperienza subita, privilegiando le loro emozioni e sentimenti. Sino ad arrivare a chi da anni incontra e guarda negli occhi la fenomenologia della tortura e del carcere, a chi, come scienziato sociale studia il comportamento umano in condizioni estreme ponendo il focus alla relazione di oppressione tra vittima e carnefice, a chi, è riuscito a tradurre in immagini di fumetto la vicenda della scuola Diaz rendendo accessibile alla memoria un più vasto pubblico. Questo è l’affresco che abbiamo voluto tratteggiare di Bolzaneto. E a voi lettori lasciamo l’opinione se in questo intento ci siamo riusciti. Attraverso questi racconti “altri” orizzonti ci sono stati svelati ad ampliamento della nostra comprensione, orizzonti del cuore e di intimi pensieri. Non è stato facile ripercorrere il viaggio a Bolzaneto soprattutto per i testimoni chiamati a rievocare l’esperienza patita, alla luce di 28 un’offesa ulteriormente ferita dalla sentenza promulgata, e un ringraziamento loro è doveroso per il dono resoci. Rabbia, turbamento e timore riecheggiano a tutt’oggi nelle loro menti. In loro resta la paura di frequentare luoghi affollati, paura di essere uccisi, paura delle forze di polizia, paura di ri-subire violenza. La “paura di tutto”. E forse, anche la paura d’amare. Dalle più recenti indagini sociali la paura sembra essere l’emozione più diffusa della nostra società moderna.1 Ma la paura originatasi dall’esperienza di aver subito violenza e tortura, è, come si evince dalle testimonianze, così devastante da sommergere le biografie individuali. Incapsula l’individuo in un inquieto vivere che accompagna passo passo la sua esistenza. E la giustizia, non contemplando nell’ordinamento il reato di tortura sembra non essere stata in grado di indennizzare completamente le vittime dal danno. Il processo di “guarigione” nell’introduzione menzionato sembra essersi arrestato. Quindi il nostro intento, lungi dal voler sembrare presuntuosi, è stato un volere anche “curativo”. Il riammettere le testimonianze all’interno di una cornice più ampia significa per tutti noi appropriarci di quel “buco nero” altrimenti non conoscibile, per le vittime, può significare il rielaborare non solo la sofferenza patita ma l’essere riammessi all’interno dei confini sociali di una comunità che il processo di delegittimazione aveva allontanato2 riannodando nel contempo i legami recisi.3 Sicuramente le testimonianze raccolte in sede giudiziaria ci hanno permesso un primo riscontro e verifica. Ma il piano giudiziario lascia poco spazio alle emozioni e i sentimenti. E poi, quale spiegazione, quale risposta, quale consolazione potrà mai essere trovata, individuale e collettiva, a seguito della constatazione dell’incapacità della giustizia di trionfare sul male? Il voltar pagina diventa ancor più arduo. Ma assai necessario per ricostruire da oggi un “altro” Bolzaneto. A partire dai suoi attori interni o esterni fondare spazi “alternativi” di cittadinanza attiva nei quali sperimentare “altre” forme di giustizia sociale, avulse dalla cultura dominante del silenzio e dell’ingiustizia. Spazi definiti 1 J. Bourke, Paura. Una storia culturale, Laterza, Bari 2007 (ed. or. 2005). 2 Cfr. l’articolo di Adriano Zamperini in questo numero del Giornale. 3 Cfr. intervista a Mauro Palma in questo numero del Giornale. pace Conflitti e Violenza 29 anno V, n.6, gen-giu 2008 della “cittadinanza insorgente”4, nei quali la protesta e il conflitto svaniscono, ove la spazialità e il dialogo si propongono aperti e pubblici, ove la ferita subita viene continuamente ridefinita dalle pratiche sociali di una comunità partecipativa e empatica. Si tratta di pratiche di “giustizia sociale riparativa” che sfuggono alle leggi canoniche giuridiche, senza tuttavia agire al di fuori del campo in cui essa si esercita. In simili spazi, attori individuali e collettivi sono chiamati a mantenere vive le narrative. In simili spazi essi possono trovare un luogo terapeutico, premessa di un possibile cambiamento. Il potere rigenerante delle narrazione permette di ri-significare il senso dell’azione subita verso la costruzione di una narrativa comune, condivisa, nella quale le diversità possono incontrarsi ed essere riconosciute come peculiarità «Poiché colui che ascolta una storia entra in società con colui che la racconta; colui che la legge partecipa anch’esso a quella società. E chi dice partecipazione dice condivisione, scambio, comunicabilità, o ancora “comune misura” che rende la realtà tramandabile».5 Per concludere, ci è sembrato che dedicare le pagine del nostro Giornale a Bolzaneto abbia potuto rappresentare uno di questi spazi di in-contro, di costruzione, opportunità e cambiamento. E se del lager Bolzaneto non avremo mai immagini, rimangono innegabilmente le voci di tutti gli attori coinvolti che in forma corale hanno “contribuito in questi anni a scrivere un pezzo di storia italiana o meglio europea”, come dichiara l’Avv. Stefano Bigliazzi.6 Che cosa resta allora di Bolzaneto? Molto. Sicuramente un passato ferito, ma nel presente una sentenza voluta e raggiunta grazie alla forza e tenacia della coesione delle parti offese, e un futuro ove proiettarsi in numerose “altre” possibilità, guardando Bolzaneto con gli occhi di una risorsa. DISPOSITIVO DELLA SENTENZA REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO IL TRIBUNALE DI GENOVA-III SEZIONE PENALE IN COMPOSIZIONE COLLEGIALE Visti gli artt. 533 e 535 c.p.p. DICHIARA PERUGINI Alessandro colpevole del solo reato ascrittogli al capo 2) della rubrica, esclusa la contestazione in ordine alla mancata somministrazione di cibo, bevande e pasti; POGGI Anna colpevole del solo reato ascrittole al capo 7) della rubrica, esclusa la contestazione in ordine alla mancata somministrazione di cibo, bevande e pasti; GUGLIOTTA Antonio Biagio colpevole dei reati ascrittigli ai capi 18), esclusa la contestazione di cui alla lettera F); 19), esclusa la contestazione in ordine alla mancata somministrazione di cibo, bevande e pasti; 20), esclusi i riferimenti alle persone offese Crocchianti Massimiliano, O’Byrne Mark Thomas, Zehatschek Sebastian e Junemann Sebastian, escluso per Pignatale Sergio l’episodio del denudamento e posizione fetale; 21), 22), 23), escluso per questo capo il riferimento allo sputo e 24), esclusa l’aggravante dei motivi abietti e futili per tutti i capi in cui è stata contestata; MAIDA Daniela colpevole del solo reato ascrittole al capo 27) della rubrica, esclusa la contestazione circa la mancata somministrazione di cibi e bevande; ARECCO Matilde colpevole del reato ascrittole al capo 35) della rubrica; PARISI Natale colpevole del reato ascrittogli al capo 36) della rubrica; TURCO Mario colpevole del reato ascrittogli al capo 37) della rubrica; 4 J. Holston, “Spaces of insurgent citizenship”, in: J. Holston (a cura), Cities and citizenship, Duke University Press, Durham, 1999. 5 M. Revault d’Allones, Peut-on élaborer le terribile?, Fragile Humanité, Aubier, Paris 2002, p. 41. 6 L’Avv. Stefano Bigliazzi è membro “Genoa Legal Forum”, un gruppo di avvocati che hanno contribuito all’assistenza legale delle parti civili ai processi G8 in corso a Genova. UBALDI Paolo colpevole del reato ascrittogli al capo 38) della rubrica; GAETANO Antonello colpevole dei reati ascrittigli ai capi 54), 55) e 56) della rubrica, escluso il concorso con l’imputato pace Conflitti e Violenza 30 anno V, n.6, gen-giu 2008 SALOMONE Massimo e esclusa l’aggravante dei motivi abietti e futili; PIGOZZI Massimo Luigi alla pena di anni 3 e mesi 2 di reclusione; PIGOZZI Massimo Luigi del reato ascrittogli al capo 57) della rubrica, esclusa l’aggravante di aver agito con crudeltà; AMADEI Barbara, ritenuta la continuazione tra i reati contestatile ai capi 59), 60) e 61), alla pena di mesi 9 di reclusione; AMADEI Barbara colpevole dei reati ascrittile ai capi 59), limitatamente alla condotta contestata quale violazione dell’art. 581 c.p., 60) e 61), con esclusione, per questi capi, dell’aggravante dei motivi abietti e futili; INCORONATO Alfredo alla pena di anni 1 di reclusione; INCORONATO Alfredo colpevole del reato ascrittogli al capo 66) della rubrica, esclusa l’aggravante dei motivi abietti e futili; PATRIZI Giuliano colpevole del reato ascrittogli al capo 68) della rubrica, esclusa l’aggravante dell’aver agito per motivi abietti e futili; TOCCAFONDI Giacomo Vincenzo colpevole dei soli reati ascrittigli ai capi 85), 90) e 92) della rubrica, esclusa, per i capi 90) e 92) l’aggravante dei motivi abietti e futili e escluso, per quest’ultimo capo, il concorso con Amenta Aldo e Sciandra Sonia; AMENTA Aldo colpevole del solo reato ascrittogli al capo 108) della rubrica, esclusa l’aggravante dei motivi abietti e futili; e, per l’effetto, CONDANNA PERUGINI Alessandro e POGGI Anna alla pena di anni 2 e mesi 4 di reclusione ciascuno; PATRIZI Giuliano alla pena di mesi 5 di reclusione; TOCCAFONDI Giacomo Vincenzo, unificate le condotte sotto il vincolo della continuazione, alla pena di anni 1 e mesi 2 di reclusione; AMENTA Aldo alla pena di mesi 10 di reclusione; nonché tutti i predetti imputati, in solido, al pagamento delle spese processuali; visto l’art. 31 c.p., APPLICA a tutti i suddetti imputati la pena accessoria dell’interdizione temporanea dai PP.UU. per la durata di legge; CONCEDE ai soli imputati MAIDA Daniela, ARECCO Matilde, PARISI Natale, UBALDI Paolo, GAETANO Antonello, AMADEI Barbara, INCORONATO Alfredo, PATRIZI Giuliano, TOCCAFONDI Giacomo Vincenzo e AMENTA Aldo i benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna; DICHIARA GUGLIOTTA Antonio Biagio alla pena di anni 5 di reclusione; MAIDA Daniela alla pena di anni 1 e mesi 6 di reclusione; ARECCO Matilde, PARISI Natale, TURCO Mario e UBALDI Paolo alla pena di anni 1 di reclusione ciascuno; GAETANO Antonello, ritenuta la continuazione tra i delitti ascrittigli ai capi 54), 55) e 56) della rubrica, alla pena di anni 1 e mesi 3 di reclusione; le pene principali come sopra inflitte interamente condonate in relazione agli imputati PERUGINI Alessandro, POGGI Anna e TURCO Mario e condonate nella misura di anni tre in favore degli imputati GUGLIOTTA Antonio Biagio e PIGOZZI Massimo, per effetto del provvedimento di indulto di cui alla L. 241/06; (……….) (……….) (……….) pace Conflitti e Violenza 31 anno V, n.6, gen-giu 2008 visto l’art. 529 c.p.p. DICHIARA non doversi procedere a carico di GUGLIOTTA Antonio Biagio per gli episodi di ingiurie, percosse, lesioni, contestatigli al capo 20) in danno di: Ghivizzani Federico, Haldimann Fabian, Laval Alban Sebastian, Manganelli Danilo e Zincani Sabatino per mancanza di querela; visto l’art. 530 cpv c.p.p. AMADEI Barbara dal reato ascrittole al capo 59) limitatamente alla contestazione di violazione dell’art. 608 c.p. perché il fatto non sussiste; CERASUOLO Daniela dal reato ascrittole al capo 64) della rubrica perché il fatto non sussiste e dal reato ascrittole al capo 65) per non aver commesso il fatto; FORNASIERE Giuseppe e TOLOMEO Francesco Paolo Baldassarre dai reati loro rispettivamente ascritti ai capi 69) e 70) della rubrica per non aver commesso i fatti; ASSOLVE PERUGINI Alessandro, POGGI Anna, BRAINI Giammarco, BARUCCO Piermatteo, PISCITELLI Maurizio, MULTINEDDU Antonio Gavino, RUSSO Giovanni, FURCAS Corrado, SERRONI Giuseppe, FONICIELLO Mario, AVOLEDO Reinhard, PINTUS Giovanni, ROMEO Pietro, MURA Ignazio, MANCINI Diana, TOCCAFONDI Giacomo Vincenzo, AMENTA Aldo, MAZZOLENI Adriana, SCIANDRA Sonia e ZACCARDI Marilena dai reati loro rispettivamente ascritti ai capi 1), 6), 29), 31), 33), 34), 39), 40), 41), 42), 43), 44), 45), 46), 47), 48), 50), 84), 97), 104), 112), 113) e 119) perché i fatti non costituiscono reato; PERUGINI Alessandro dai reati ascrittigli ai capi 3), 4), 5) della rubrica per non aver commesso il fatto; GUGLIOTTA Antonio Biagio, dal reato ascrittogli al capo 25) della rubrica per non aver commesso il fatto; VALERIO Franco, TARASCIO Aldo e TALU Antonello dai reati loro rispettivamente ascritti ai capi 26), 33) e 34) della rubrica per non aver commesso i fatti; NURCHIS Egidio, MULAS Marcello, AMOROSO Giovanni e SABIA COLUCCI Michele dai reati loro rispettivamente ascritti ai capi 71), 72), 73), 74), 75), 76), 77), 79), 80), 81), 82), 83) della rubrica perché i fatti non sussistono; TOCCAFONDI Giacomo Vincenzo dai reati ascrittigli ai capi 86), 87), 88), 91), 93), 95), 98) e 103) della rubrica perché i fatti non sussistono e dai reati ascrittigli ai capi 89), 94) e 100) per non aver commesso i fatti; AMENTA Aldo dai reati ascrittigli ai capi 105), 109), 110) perché i fatti non sussistono e dai reati ascrittigli ai capi 106) e 107) per non aver commesso i fatti; SCIANDRA Sonia dai reati ascrittile ai capi 114) e 118) perché i fatti non sussistono e dal reato ascrittole sub 115) per non aver commesso il fatto; ZACCARDI Marilena dal reato ascrittole al capo 120) della rubrica perché il fatto non sussiste; visto l’art. 530, comma 1°, c.p.p., MAIDA Daniela dal reato ascrittole al capo 28) della rubrica per non aver commesso il fatto; BRAINI Giammarco e BARUCCO Piermatteo dai reati loro rispettivamente ascritti ai capi 30) e 32) della rubrica per non aver commesso i fatti; SALOMONE Massimo dal reato ascrittogli al capo 51) della rubrica per non aver commesso il fatto; ASSOLVE CIMINO Ernesto, PELLICCIA Bruno e DORIA Oronzo dai reati loro rispettivamente ascritti ai capi 12), 13), 14), 15), 16) e 17) della rubrica perché i fatti non sussistono; SALOMONE Massimo dai reati ascrittigli ai capi 52) e 53) della rubrica per non aver commesso i fatti; pace Conflitti e Violenza 32 anno V, n.6, gen-giu 2008 TOCCAFONDI Giacomo Vincenzo dai reati ascrittigli ai capi 96) e 99) della rubrica perché i fatti non sussistono; AMENTA Aldo dal reato ascrittogli al capo 111) della rubrica perché il fatto non sussiste; SCIANDRA Sonia dai reati ascrittile ai capi 116) e 117) della rubrica perché i fatti non sussistono. “...la società non può semplicemente far passare sotto il silenzio un capitolo della sua storia. L’unità di una nazione riposa sopra un’identità comune, che la tiene ampliamente a una memoria collettiva. Anche la verità contribuisce ad una salutare catarsi sociale e aiuta a impedire il passaggio del ripetersi” José Zalaquett .8 ORDINA infine, in dovuta ottemperanza alla conforme richiesta del P.M., la trasmissione al Procuratore della Repubblica di Genova degli atti relativi alle deposizioni rese in dibattimento dai seguenti testi: Mattana Piergiorgio, Serra Giuseppe, Marras Roberto, Chighine Marco, Murru Igor, Pirastu Gianni, Atzori Roberto, Mambella Giambattista, Erriu Samuele, Esposito Cristian, Desideri Tiziano. Indica in giorni NOVANTA il termine per il deposito della motivazione. Così deciso in Genova il 14 luglio 2008. Il Presidente Renato Delucchi7 © Fogliazza 7 Parte del dispositivo della sentenza del processo Bolzaneto del 14 luglio 2008, www.processig8.org/Bolzaneto/htlm 8 J. Zalaquett, The MathewTobriner Memorial Lecture: Balancing ethical imperative and politicalconstraints: The dilemma ofbnew democracies confronting past human rights violations, in «Hastings Law Journal», 1, 43 (1992), p. 14251438, p. 1433. José Zalaquett è un filosofo e attivista cileno, è stato presidente della Commissione nazionale cilena per la verità e la riconciliazione. pace Conflitti e Violenza anno V, n.6, gen-giu 2008 33 Memoria Indifferente Narrazione a fumetti Fogliazza La storia non va insegnata. Va trasmessa Ho sempre guardato la storia dal basso verso l’alto, come stesse su un monumento inaccessibile, un monolito equestre edificato da professori che a scuola mi hanno disinnamorato prima ancora di scoprire che (la storia) l’avrei amata. Ho due figli, Jacopo e Nicolò, ai quali non dico NO ogni volta che fanno o stanno per fare qualcosa che non devono: offro loro un’alternativa. Questo gli permette di non produrre intolleranza verso quello che cerco di trasmettere. Perché non glielo insegno. Parlo loro scavalcando la scrivania del genitore, scendendo dal piedistallo marmoreo, disarcionandomi, se necessario, dall’ego equestre di certi condottieri. Mio nonno era un gigante, non era né alto né grosso. Io ero piccolo e tutto di lui mi sembrava inarrivabile. La sua voce, poi, baritonale e piena… raccontava le barzellette con tale enfasi che diceva la battuta finale come se mi stesse rimproverando, arrivava a sovrastarmi come un tenore che sta per mangiarsi il microfono, l’orchestra e tutto il pubblico. Credevo mi stesse sgridando. Invece amava la vita e pure una barzelletta sapeva iniettarla di passione. Tutto questo non mi è servito. Forse perché crescendo mi sono accorto che non era un gigante come solo oggi capisco. Forse perché io diventavo più alto di lui ma senza crescere nella consapevolezza del tempo che perdevo a ignoralo. Ho capito tardi quanto fosse importante per me. Ho vissuto la mia vita come spettatore molto a lungo prima di imparare la puntualità sulle cose che contano. E l’immagine più nitida che ho di mio nonno è lui in cima alla rampa di scale che sto scendendo, mi chiama, mi volto, dice di volermi bene e io rispondo quello che è più comodo alla vergogna della presunzione di uno stupido: annuisco. Mio nonno si chiamava Ugo Pellegri. Mio nonno non ha fatto il partigiano, ha ricevuto la Medaglia d’Argento al Valor Militare nel 1951, è rientrato dalla deportazione in Germania nel maggio del ’45, altra storia… la Resistenza era finita. L’ho voluto comunque nello spettacolo, ultimo dei ritratti che svelo, perché un sentimento solo unisce lui alle donne che racconto: la memoria, l’ importanza di ricordare ciò che conta. E lui, mio nonno, ho capito troppo tardi quanto fosse importante per me. Non ho voluto commettere lo stesso errore con le donne partigiane. pace Conflitti e Violenza anno V, n.6, gen-giu 2008 Tutto comincia con una casa diroccata, un rudere, sassi divorati dalle erbacce e intuire che lì c’era una casa è impresa ardua. Eppure ci viveva Angiolina, una donna che sola, con due figli, ha tirato avanti dieci anni, dopo che il marito gliel’hanno fatto fuori finita la guerra. La curiosità di sapere e di capire fa il resto, con le domande in giro, a chi ha voglia di raccontare e a chi ancora le domande di un certo tipo dan fastidio. Ricostruisco un po’ di quella storia e la compongo a pezzetti, come fosse un mosaico. Ma i tasselli questa volta son persone e quando incastro tutto mi appare la libertà conquistata dalla Resistenza Partigiana. In “MEMORIA INDIFFERENTE” sono proprio i ritratti appesi, che lo spettatore trova già allestiti, ad essere il mosaico. Il tutto viene man mano rivelato “svelando”, cioè facendo cadere quella stoffa/diaframma tra chi guarda e le donne ritratte. Un gesto semplice, ma lacerante, come squarciare il velo dell’oblio. Immediatamente lo spettatore ha così davanti a sé il riscontro della donna che ho appena narrato. Guidare senza fretta, per le stradine imboscate dell’Appennino Reggiano dà un senso di pace. Seguire un foglietto appoggiato al parabrezza con l’indirizzo di una signora ottantenne piuttosto che impostare i dati di un GPS ha un sapore strano, come se ogni numero civico del quale sono alla ricerca fosse una conquista del tesoro. Una dopo l’altra, vinta una più che legittima diffidenza iniziale, le donne che avrei raccontato nello spettacolo MEMORIA INDIFFERENTE, un anno e mezzo più tardi, mi fanno accomodare in casa, si fidano, mi offrono un caffè, qualcuna ha preparato la torta, altre sono andate dal parrucchiere. Tutte… raccontano. Con i tempi che corrono, e con la pessima fama che il fumetto ha in Italia quando si tratta di tematiche importanti, non è uno scherzo vincere il sospetto iniziale. Negli occhi delle signore c’è la perplessità di chi immagina che “questo sconosciuto” voglia disegnare Topolino e Paperino che cantano “Bella Ciao”. Il lavoro è lento, non scava nella riservatezza solamente, va a pescare più in là, rimuovendo quell’indifferenza storica che si protrae da oltre sessant’anni. 34 Le donne che hanno fatto la Resistenza sono un fatto abbastanza sconosciuto. Colpa della mancata appariscenza delle armi: la maggior parte di esse faceva la staffetta. E poi queste donne raccontano poco e quando decidono di farlo lo fanno molto avanti negli anni. Mentre gli uomini erano obbligati a scegliere se stare con i Partigiani o con in Fascisti, le donne non avevano la costrizione di una scelta obbligata: potevano starsene a casa. Per questa ragione il loro contributo è anche più significativo. Tanto più una storia è meno nota e tanto più mi interessa. Il tributo alle donne in questo caso diventa un valore aggiunto. E poi si tratta di donne che non appaiono nella ribalta delle cerimonie, questa sorta di anonimato contribuisce a far sì che lo spettatore si senta ancora più coinvolto che non di fronte a un “divo” da prima pagina! Esalto le signore comuni, anche se le “mie” hanno resistito al nazi-fascismo. pace Conflitti e Violenza anno V, n.6, gen-giu 2008 Parto da un nome, da una citazione. Una breve ricerca, verifico un numero di telefono. Smanio come un ragazzino nell’attesa che all’altro capo del telefono una “nuova nonna mia” mi risponda. Cos’ho in mente di fare non lo so bene, ma la curiosità ormai mi comanda, quella curiosità di sapere come mai siamo quello che siamo oggi o più semplicemente ho bisogno di qualcuno in cui credere, qualcuno che mi sia d’esempio senza per forza finire stampato sulle magliette, effige di un declino culturale. Cerco un riferimento, qualcuno che la contingenza dell’epoca aveva reso straordinario, anche se all’epoca la differenza tra nero e bianco era netta. Oggi la scala di grigi ti scivola nel peggioramento con una indifferenza consensuale. Della Resistenza sapevo poco. Devo molto alla mia ignoranza, una bocca sempre aperta che non si sfama mai. Mi ha “costretto” a conoscere. In un Paese che non trova modelli… io li ho trovati nella Resistenza. Sullo sfondo di questi incontri c’è sempre una figura, quella a me più cara, l’unica, a differenza di queste donne ancora in vita, che non posso più recuperare: mio nonno. È lì che voglio arrivare, un’altra volta tardi sui fatti della mia vita che contano, ma lì, nel recupero della memoria, quella che pesa al solo pensiero di guardarsi indietro e fare i conti con le proprie responsabilità. Fare i conti con la propria indifferenza trascorsa, ma che mai espiata paziente logora la coscienza. Almeno quella mia. Non è semplice trovare tante donne così avanti negli anni e ancora lucide disposte ad accogliere uno sconosciuto fumettaro e per di più con i capelli lunghi! È una lotta contro il tempo. Mio nonno l’ho perso nell’arco di un anno, ho avuto tutto il tempo per vederlo morire senza tentare un riavvicinamento. Non l’ha sorpreso un infarto, ma un cancro lento, di quelli che sembrano presentarti il conto alla fine di una vita che hai amato tanto e che hai vissuto e divorato. Non voglio lasciare che accada la stessa cosa con 35 queste donne. Penso spesso che solo ricordando si smette di morire. Queste donne sono alla fine del loro ciclo vitale, tra poco non ci saranno più. Le ho prese per i capelli, sono arrivato appena in tempo ed ora ho i loro volti impressi a china e acquerello su carta ruvida, le loro parole trascritte nei balloon di quello straordinario, se correttamente usato, veicolo di comunicazione che è l’arte sequenziale. In MEMORIA INDIFFERENTE i ritratti non occupano l’intero rettangolo della tela, ma sono realizzati attraverso lettere, che lette in verticale compongono il nome di battaglia delle donne partigiane. Il nome di battaglia è sicuramente un aspetto evocativo, ma si tratta anche della necessità di un effetto “speciale” che ammicchi alla curiosità dei ragazzi. Va detto che questo trucco non l’ho inventato io, è preso dalla scritta “Marvel” attraverso la quale si vedeva un idiota in calzamaglia… Non ho fatto altro che mettere persone vere e straordinarie! Ho l’onore di avere incontrato persone semplici e sconosciute che difficilmente ammetteranno d’aver fatto cose eroiche, ma che il loro piccolo pezzo di storia, intrecciato con quello di tante altre, ha costruito la nostra Costituzione e la nostra libertà. La memoria è un fiume lento, sornione come il Po. Sbanda ubriaco tra un’ansa e l’altra e gli si dà poco peso. Sta lì. Finisce che ti abitui alla sua presenza, che non ci fai caso, ti diventa indifferente, fino alla prossima piena, quando rompe gli argini e non lo ferma se non la furia esausta del suo risveglio. La memoria è un fiume che quando rompe gli argini vuole dire che ce lo siamo dimenticato quanto male fa. Come l’indifferenza al ricordo: accorgersi che ci siamo dimenticati della nostra storia non è bene: significa che è già troppo tardi. A queste donne non avevo che da garantire una cosa: che le avrei disegnate. Raccontarle? Dovevo trovare il modo, la formula giusta. I libri non si leggono più, mentre le immagini hanno l’inestimabile vantaggio dell’immediatezza. pace Conflitti e Violenza anno V, n.6, gen-giu 2008 36 pace Conflitti e Violenza anno V, n.6, gen-giu 2008 Le ho disegnate, ognuna si è rivista ritratta, ognuna mi ha dato il suo consenso ai fini della correttezza e della trasparenza della testimonianza storica. Nello stesso momento si presentava una responsabilità che non avevo immaginato: tutte erano già state fotografate in passato, ritratte mai. La differenza è pesante. Una foto va pensata prima, studiata, fatti tanti scatti. Ma l’azione dura comunque un clik. Disegnare è diverso: maturi lo studio prima e dopo, quando lo realizzi e per quanto tu sia veloce a farlo… l’azione (il disegno) è un percorso lento. È in questa lentezza che affiora ancor più quello che tu hai visto e sentito di queste donne, con una intimità emozionale che a volte si fa scabrosa. È il caso di Anna, donna che non ho mai visto sorridere, mai più ripresa dal dolore della guerra e soprattutto dalla perdita del fratello. Una donna la cui tristezza ha segnato il volto come una ruga. Nel momento in cui ha visto il suo ritratto mi dice “Non mi piace, sono sconvolta”. Non parlo, penso che devo rifarlo, penso… “Ma se ritiene che servirà allo scopo allora va bene così” è Anna stessa ad assolvere il mio dubbio. E se quel ritratto l’avessi rifatto, magari per lenire la sua espressione sofferente, che cosa avrei ottenuto? Racconto la mia perplessità a un paio di signore che conoscono bene Anna: no, mi dicono, se l’avessi fatta sorridente non sarebbe stata lei. Avrei mentito. Spero invece che comprenda la mia scelta e che mi faccio carico, in modo infinitesimale, della sua tristezza, avendola colta. Adoro starmene tranquillo e anonimo dietro il mio tavolo da disegno, assediato solo da Jacopo e Nicolò che legittimamente mi pretendono. Al loro posto penserei la stessa cosa: disegnare è un lavoro?! Mi piace il silenzio. Ricordare è silenzioso. Ricordare è un sangue che esce piano, spesso devi riaprire ferite che sembrano asciutte. Ma un istante dopo ecco una goccia ed è rosso vivo, come il ricordo che si scalda e recupera i particolari che sembrano persi. Alcune di queste donne si scusano se non ricordano bene. Tutte, alla fine, non mancano un dettaglio! Tullia, per esempio, è una piacevole chiacchierona. Alla fine dell’incontro mi confiderà che poco prima che arrivassi aveva preso una pastiglia per il cuore. Il giorno dopo, al telefono, mi dirà che appena me ne sono andato… “ho pianto tanto… perché vede… anche se dico una battuta poi ci soffro a ricordare certe cose, 37 che poi vorrei raccontarle, ma spesso mi accorgo che non interessano, che c’è tanta indifferenza…”. Tullia è una che ha voglia di raccontare e capisco che quello che manca è la voglia di ascoltare. Ma se non le ascoltiamo noi, queste donne, chi se le ricorda più? Gina, invece, la prima volta che mi sente al telefono, appena il tempo di accennarle le mie intenzioni e subito tuona “siete arrivati… finalmente siete arrivati… siamo in ritardo ma siete arrivati: io ho lottato contro i tedeschi e ora sto lottando contro il cancro!!!” La disposizione delle tele è tale per cui il gesto di svelarle avviene sempre in ordine cronologico (questo dà anche una scansione del tempo che passa). Man mano che la narrazione procede sono sempre più i ritratti che si rivelano e questo permette un effetto in crescendo sia nel racconto che nella partecipazione del pubblico. Le donne partigiane sono protagoniste, sono loro che hanno il risalto maggiore, io mi muovo e scompaio definitivamente nel finale, lasciando chi veramente deve essere celebrato a prendere tutta la consapevolezza degli spettatori del contributo che hanno dato. Penso che ogni viaggio sia una responsabilità che ci si assume. Incontrare queste pace Conflitti e Violenza anno V, n.6, gen-giu 2008 donne è stato un viaggio in ogni senso. Avevo solo un taccuino nello zaino. Sono tornato con un baule pieno di vite. Non è stato solo un viaggio in auto, ma in un passato remoto per la cultura della società attuale e in un presente mai trascorso nel ricordo di queste donne. Adoro starmene tranquillo e anonimo dietro il mio tavolo da disegno, ma stavolta il viaggio mi spinge avanti e tornare sarebbe fingere che quello che è accaduto oltre sessant’anni fa non mi riguarda. Lasciare perdere e limitarsi al disegno sarebbe fuggire accelerando nel futuro, quanto basta in là nel tempo perché la Resistenza sia sommersa dall’indifferenza della memoria. L’indifferenza deposita sul dovere di ricordare una polvere leggera, ma bastante a isolarci dall’esserne responsabili. Succede la stessa cosa con l’indignazione da telecomando: premere il bottone per cambiare le cose. Il disegno e la sua immediatezza, quindi, il fumetto che così bene parla alle generazioni più giovani, l’immagine che con la sua rapidità non chiede di essere letta come una pagina di solo testo. Non basta: musica, ci vuole musica e comincio con un amico alla chitarra, se ne aggiunge un altro e completiamo con un fisarmonicista. Serve la melodia popolare delle arie partigiane, qualcosa che faccia da colonna sonora ai ritratti delle signore partigiane e metta le ali alle mie parole di narratore improvvisato, perché è così che andrà a finire. Anzi no: sarà un inizio. 38 gramma, ma convinti della necessità di provarci. In MEMORIA INDIFFERENTE a volte la musica cammina da sola, altre mi accompagna, sempre costituisce un vento di trasporto. I musicisti borbottano i loro strumenti quando tocca al “pedale”, gergo musicale del sottofondo. Poi la musica si esalta e sospinge in improvvise ascese che sottolineano passaggi di romantica bellezza. Ci sono molti modi per viaggiare. Uno è stato quello di incontrare i musicisti, chiedere loro di credere alla mia idea balzana, aver fiducia che donne sconosciute e ottuagenarie avrebbero incuriosito i ragazzi di quattordici anni. Un altro è stato scoprire che fuori dalla trincea del mio tavolo da disegno… non ci sto poi tanto male! Che bisogna rischiare, assumersi le responsabilità, che lamentarsi e imprecare contro il capro espiatorio di turno è roba da telecomando. Che il pubblico se ne sta seduto al sicuro in platea, solidale con se stesso mischiato tra la folla e non si mette in gioco, solo, in piedi, affrontando tutti con la fissa che “questa storia è una bella storia, che ci riguarda, che l’ho incontrata di persona, dove ogni persona è un mosaico da spolverare, che quando è completo si intitola libertà!”. Contemporaneamente aggiorno le signore, per dire loro che “ci sto lavorando, che provo con i ragazzi, che sto mettendo in piedi contatti”. Non voglio che le signore si scordino del capellone che un anno prima le ha fatte chiacchierare tanto. Come non voglio diventare, io, l’ennesimo cavaliere dell’entusiasmo che dice dice e poi spala la polvere dalla propria coscienza alla memoria, sepolta. Il 2 dicembre 2007 la prova generale, un luogo insolito, la casa comunità per ragazzi con famiglie a rischio, gestita da una coppia di amici che sono i miei eroi terrestri. Sessanta invitati, almeno quindici sono i “loro ragazzi”, dai 7 ai 17 anni, i cui genitori sono sparsi chissà dove, caso mai fossero ancora vivi e non morti di droga o violenza o che altro. Finalmente un pubblico vero al quale raccontare una storia che in prova, costretto a immaginare chi ascolta, cominciava ad essere una nenia ritmica e vuota di senso. Finalmente un pubblico vero al quale trasmettere la vitalità di una storia che sta morendo di indifferenza collettiva. Il giorno prima di quella prova generale allestisco i ritratti, prendo confidenza con gli spazi. Facciamo un’ultima prova prima del debutto generale. È un disastro!!! Sbaglio tutto, la cronologia, i tempi, i nomi. Tutto. Quaranta minuti frettolosi di racconto vissuti con un pensiero fisso: che cosa sto combinando? Cosa ho fatto? Cosa sono andato a promettere? Non mi resta altro che consegnarmi a quello che accadrà domani con la consapevolezza che sarà già l’ultima. Dietro al tavolo, il mio tavolo da disegno, al mio telecomando…. Lì posso stare tranquillo e tranquillo indignarmi. La notte dormo male. Mi sento spacciato. Devo solo passare il due dicembre, giorno della prova generale e ammettere davanti a tutti che ho esagerato. Che sarà meglio disegnare. E basta! Durante questo viaggio costruisco la fiducia dei musicisti, non più impiegati del penta- Ne valeva la pena! Ho avuto paura e pure voglia di tirarmi indietro. Ma ogni volta che pace Conflitti e Violenza anno V, n.6, gen-giu 2008 ho pensato questo mi sono rifatto alle “mie donne” partigiane, a quello che devono aver 39 passato loro. Solo così, grazie a loro, mi sono “liberato” delle mie paure. pace Conflitti e Violenza anno V, n.6, gen-giu 2008 Quel due dicembre facevo una scoperta importante: potevo mantenere la promessa fatta alle signore che le avrei raccontate in quello che ancora, per imbarazzo intellettuale, era a tutti gli effetti uno spettacolo. E che liberazione poterle risentire al telefono e dire loro che tutto era andato bene, anche quello che era andato storto! MEMORIA INDIFFERENTE, che si articola tra narrazione orale, immagini e musica, ha un contributo in più: la voce di mio nonno. Mi domando ancora come mai tredici anni fa ho intervistato mio nonno e mi sono fatto raccontare la sua esperienza di guerra, l’ammutinamento, la ferita, la deportazione in Germania, il ritorno a casa. Mi domando quale lampo di maturità deve avermi folgorato quella volta per poi lasciarmi stordito tutti gli anni a seguire, fino al giorno in cui ho potuto ufficialmente realizzare lo spettacolo, “spolverare” la mia indifferente memoria e riportarla al dovuto splendore. Oggi riascolto la voce di mio nonno, nel fruscio evocativo del nastro magnetico, il sottofondo di mia nonna di là in cucina che spignatta e mi chiede, interrompendo mio nonno, se mi fermo a pranzo!! Lo spettacolo si apre e si chiude con due tracce audio di quelle parole registrate tanto tempo fa, come se la voce, in un certo senso, potesse farlo rivivere. E in un certo senso è così. Mio nonno, va detto, non ha fatto il partigiano. È rientrato dal campo di internamento in Germania nel maggio del ’45, a liberazione avvenuta. Ma se nello spettacolo arrivo a lui raccontando di queste dieci donne che ho conosciuto… è perché un sentimento forte li unisce: la memoria, e uno spettro: l’indifferenza. Ho compreso che anche noi, a nostro modo o figli del nostro tempo, possiamo e dobbiamo resistere, senza armarci per combattere, ma ricordando per difendere tutto ciò che altrimenti finirebbe sepolto dalla sabbia dell’indifferenza, soffocando la memoria, cancellando la storia e la nostra identità. Il 9 aprile, su Repubblica, usciva la dichiarazione di Marcello Dell’Utri “Se vinciamo riscriveremo i libri di storia epurandoli dalla retorica della Resistenza”. 40 C’è sempre una buona ragione per resistere, una è quella di ribattere colpo su colpo le minacce tese a vanificare il sacrificio di chi si è battuto per la libertà, la stessa che permette anche a Dell’Utri di manifestarsi con la libertà di opinione. Oggi lo spettacolo, considerando che di mestiere sono uno che disegna, mi è un po’ “scoppiato” tra le mani: è molto richiesto, è solo l’inizio ma vedo che i ragazzi… ascoltano. Di più: le cose stanno andando così bene che sto preparando un nuovo progetto, con lo stesso format, ma è presto per parlarne. Già fatico a trovare le parole adatte per spiegare a Jacopo e Nicolò che “lavoro” fa papà!! Adoro starmene tranquillo e anonimo dietro il mio tavolo da disegno. Ma restare dentro una trincea, qualunque essa sia, presto o tardi ci resti sepolto. Vivo o morto. Peggio ancora: indifferente. Gianluca Foglia alias Fogliazza è vignettista, illustratore e copertinista. Collabora con PolisQuotidiano e Meptropolino di Parma, SabatoSera di Lugo di Romagna, Junior Italia di Milano, per l’Unità nella collana curata da Maurizio Chierici "I quaderni dell'America Latina" e la casa editrice EMI di Bologna. Ha collaborato con Diario di Enrico Deraglio. Espone ogni anno al Festival della Satira Politica di Forte dei Marmi. Come autore di fumetti ha realizzato “Once de Septiembre” (2003), “La notte di San Nessuno” (2006/2007), “Tuttinsieme” (2007), “Napoli Comicon” (2007), “Resistenze”, Beccogiallo, Padova (2007), e “Memoria Indifferente” (2008). Memoria Indifferente narrazione a fumetti è il tentativo di contribuire alla memoria partigiana, soprattutto quella femminile, attraverso la narrazione orale, la musica, ma soprattutto il disegno, il fumetto quando si fa arte sequenziale trattando tematiche importanti. Con l'auspicio che tale progetto parli un linguaggio più simile a quello dei giovani, gli stessi capaci di garantirci la più lunga aspettativa di vita della memoria. Il suo sito è: www.fogliazza.net E-mail: [email protected] pace Conflitti e Violenza anno V, n.6, gen-giu 2008 41 Sabina Rossa Verità e responsabilità per la riconciliazione Intervista di Marialuisa Menegatto Sembra esserci un momento nella vita in cui il passato torna a bussare alla porta del presente chiedendo udienza. Rimozione, omertà, silenzio, oblio, condensate in una sola parola “indifferenza” spesso non bastano a governare un vuoto, soprattutto se questo contiene in se un’offesa latrice di dolore, verità distorte o occultate. Ecco che il vissuto desta le emozioni, la memoria conferma il dubbio, il desiderio si fa azione. E contro l’indifferenza nasce il bisogno di conoscere la verità, di ripercorrere gli eventi fondando in essa nuovi significati, cercando di sanare quel torto subito che nel trascorrere del tempo continua a rivendicare attenzione seguendo la logica del turbamento, sfiducia, risentimento, rancore. La giustizia penale, strumento privilegiato, fondante della tutela dei diritti umani, invocato dalle vittime a ricerca della verità in riparazione dell’offesa subita, si è spesso dimostrata sfuggente, fragile, impotente, evidenziando nella prassi punti deboli non solo giurisdizionali, ma anche organizzativi, burocratici, nonché temporali. Uscire da un piano giuridico dimostratosi fallace per limiti e incongruenze diventa allora necessario. Rompere la tacita “legge del silenzio” che annichilisce le menti consegnandole al regno dell’amnesia collettiva, conduce a un primo risarcimento che dal privato si espande sino alla sfera sociale e pubblica. Questo viaggio al di fuori della sfera giuridica, l’ha compiuto Sabina Rossa. Ora deputata del PD, figlia del sindacalista genovese Guido Rossa ucciso da un commando brigatista il 24 gennaio 1979, vittima degli anni di piombo già da ragazzina, Sabina Rossa è riuscita a colmare in parte quel vuoto, là dove la giustizia tradizionale in tanti anni si è dimostrata inadempiente. Donna tenace come il padre, animata da un forte principio di giustizia sociale ha avviato un’indagine privata il cui risultato ha visto la luce tra le pagine di un libro “Guido Rossa, mio padre” (Rizzoli, 2006), scritto con Giovanni Fasanella. Un viaggio-inchiesta che l’ha condotta a incontrare vis à vis uno dei killer di suo padre, e a ricostruire seppur parzialmente la regia di quell’omicido. Nel suo cammino non sono certamente mancati atteggiamenti omissivi da parte di alcune persone chiamate in causa, tanti punti interrogativi persistono, ma grazie a lei nuovi tasselli si sono aggiunti, colmando in parte un fallimento giuridico. E ciò che Sabina Rossa è riuscita fare è stato quello di consegnare alla comunità, raccontando, un segmento mancante di storia collettiva, e di raccontarsi rendendo pubblico il suo dolore. Ma la sua missione non si è conclusa. Come Senatrice è stata la prima firmataria della Legge che ha istituito il giorno della memoria per le vittime del terrorismo e ora esorta la pubblicazione di un vastissimo materiale raccolto da una Commissione d’Inchiesta a tutt’oggi coperto da segreto di stato. Un insegnamento importante ci proviene da Sabina Rossa: se non è possibile avere una verità giudiziaria, buone pratiche possono rendere una verità storica una verità anche giudiziaria, restituire alle vittime parte di un risarcimento morale, divulgare conoscenza affinché la memoria non si consegni all’oblio, ma anzi serva come esempio e colmi una biografia collettiva. Vorrei che lei descrivesse, per chi non ha letto il libro, chi era Guido Rossa. Mio padre era un operaio dell’Italsider che a Genova era allora una delle più grandi industrie siderurgiche di Stato, contando qualcosa come 15 mila persone. Quindi un operaio iscritto al partito comunista e delegato della CGIL. Ma mio padre era anche una persona che aveva una personalità con molte sfaccettature. Era anche un alpinista. Attività sportiva che iniziò all’età di 17 anni, le prime salite nelle Dolomiti. Credo che la montagna ne abbia forgiato il carattere e modellato i valori. Questa è una lettura della sua personalità e di quella che è stata anche la sua vita. Posso aggiungere che c’è stato un dualismo molto forte in quello che è stata la vita di mio padre. Da una parte la vita della fabbrica e quindi anche l’impegno politico, dall’altro il grande amore per la montagna. E poi la sua storia è conosciuta. Credo che si possa dire che mio padre abbia avuto il coraggio di fare quello che nessun altro fino a quel momento ha avuto il coraggio di pace Conflitti e Violenza anno V, n.6, gen-giu 2008 fare. In quel periodo del settantanove, perché, tre mesi prima del giorno della sua uccisione, aveva denunciato la violenza e l’azione propagandistica di un brigatista all’interno della fabbrica dove egli stesso lavorava. E per questo è stato giustiziato da un commando brigatista che ne aveva decretato la sentenza di morte in quel 24 gennaio 1979. Un uomo che ha scelto di andare contro l’indifferenza collettiva e di denunciare, ma che per questo coraggio è stato lasciato solo dai compagni e dalle istituzioni. Quali sentimenti e emozioni sono prevalsi in lei dopo che le era stato strappato improvvisamente? Allora in quel clima è stato davvero un atto singolare perché dobbiamo anche ricordarci quello che era il contesto storico di quegli anni. Ascoltare il telegiornale tutte le sere era come ascoltare un bollettino di guerra. Non passava giorno dove non ci fosse un’azione definita di violenza politica, un attentato, un ferimento, varie azioni di intimidazione di rappresaglia. Venivano fatte esplodere auto. Il clima era un clima particolare e dirlo oggi non fa lo stesso effetto. Quando mi è stato strappato avevo appena compiuto i 16 anni e non avevo un’età per la quale potevo pormi tanti interrogativi. Nel senso che è stata una grande tragedia dalla quale sono uscita perché ho messo in atto un meccanismo di rimozione che viene quasi istintivo e naturale. A quell’età non si è in grado di affrontare una tale vicenda, non si è in grado di capire quello che è successo realmente. Non riuscivano a capirlo nemmeno chi era preposto alle indagini. Qui a Genova operava una colonna definita inafferrabile, che per anni ha portato a termine rapimenti e gambizzazioni. Era una colonna composta da persone che non si riusciva a identificare. Credo ci fosse anche un’area di contiguità molto molto vasta, sulla quale non è mai stata fatta completa luce. Quindi io in quegli anni non mi sono posta il problema di capire. Ho subito quella che è stata la mancanza di un padre, il modo con cui mi è stato portato via, e ho accantonato quello che era successo per continuare la mia vita da adolescente, continuando ad andare a scuola e a studiare. 42 Dal suo libro emerge il bisogno di conoscere la verità attorno alla morte di suo padre, una verità che va oltre le aule del tribunale. Che cosa ha significato e significa per lei ricercare la verità? Il tema della verità è un tema di forte attualità, perché a 30-40 anni di distanza chiunque sia stato nella mia situazione come tutte le altre vittime del terrorismo, oggi cavalcano la battaglia dicendo “vogliamo la verità su quegli anni”. Perché dobbiamo anche dire che una verità su quegli anni a tutt’oggi non ce l’abbiamo. O solo per poche, come la Strage di Peteano. Abbiamo ancora fortissimi dubbi. Per esempio sono stati riconosciuti e incarcerati due colpevoli per la strage di Bologna, ma ancora tanti punti interrogativi persistono, così come per Piazza Fontana non si è mai arrivati a una verità definitiva. Per quanto riguarda il fenomeno delle Brigate Rosse forse siamo arrivati a qualche verità in più, mentre per quello che ha riguardato il mio percorso ho pensato di recuperare quello che non avevo fatto allora. Un debito per me che ha significato approfondire ciò che era successo, interrogare tutti quei soggetti che hanno avuto una parte in causa all’evento, che hanno vissuto da vicino quel periodo o che erano stati amici operai e compagni di lavoro di mio padre, ma anche i protagonisti di quegli anni che oggi noi chiamiamo ex-terroristi. Quindi un recupero di verità non dette e non scritte perché volevo riuscire a mettere insieme qualche tassello che mancava alla mia memoria. E poi come ho scritto nel libro credo che questo percorso mi abbia portato a recuperare un confronto che mio padre non ha avuto. Se fosse stato ferito e oggi fosse ancora in vita, avrebbe cercato lui stesso un recupero della verità. Perché mio padre era anche essenzialmente un uomo di dialogo e quindi si sarebbe confrontato con queste persone. Che cosa l’ha condotta a incontrare faccia a faccia uno dei killer di suo padre, Vincenzo Gagliardo, e che cosa ha provato? Vincenzo Guagliardo era l’unica persona rimasta viva, partecipe dell’attentato a mio padre. L’unico testimone e autore superstite che sparò a mio padre assieme a Riccardo pace Conflitti e Violenza anno V, n.6, gen-giu 2008 Dura morto invece durante il blitz del Generale Dalla Chiesa il 28 marzo del 1980. E Guagliardo essendo stato il primo ad aprire il fuoco, volevo da lui il racconto di quella mattina, di come andarono i fatti. In particolare davanti a lui non ho provato niente. Non ho provato particolari emozioni. Ho avuto modo di constatare che tutti coloro che hanno partecipato ad azioni terroristiche di quegli anni, oggi hanno grosse difficoltà ad assumersene la colpa. La prima cosa che mi disse è che lui aveva solo sparato alle gambe. Un tentativo di frammentare quella colpa e di non assumersi direttamente la responsabilità. Un po’ quel tentativo come narra Erri De Luca nel suo libro che chiunque poteva uccidere il Commissario Calabresi. Quindi tutti colpevoli ma nessun colpevole. Il contrario di ciò che accadeva nella tragedia classica. Come cita Paolini in un’analisi della narrativa di quegli anni, la grandezza di Edipo davanti ai suoi figli è stata nell’assunzione piena della responsabilità. Mentre di quegli anni la tragedia viene negata, nessuno mai si è assunto la colpa e la responsabilità. Nessuno si è mai messo dinnanzi la sua colpa come è avvenuto ad esempio nella Commissione per la Verità e la Riconciliazione in Sudafrica. In cui il colpevole guarda la sua colpa di fronte alle vittime senza implicazioni giudiziarie, con un’amnistia, durante la quale però emergono e si manifestano tutte le verità non dette. E credo che oggi, da parte di chi si occupa di quegli anni, ma anche da parte di chi scrive, mi riferisco a Giovanni Fasanella, Giovanni Pellegrino autore del libro “Segreto di Stato”, ci sia la necessità di mettere in campo questa possibilità, ossia verità in cambio di impunità. Oppure come arrivare a una riconciliazione che non significa perdono. Se si arrivasse alla completa verità, la riconciliazione sarebbe quasi conseguente. Io credo che questo sia un percorso che andrebbe perseguito e portato avanti con l’abolizione del segreto di stato, con l’apertura di tutta quella documentazione che a tutt’oggi è coperta dal segreto. Anche il giudice Rosario Priore ha affermato che solo oggi si è appreso dei tanti faldoni sul caso Moro che sono stati sottratti alla Magistratura. Quindi dico che a 40 anni di distanza dai fatti, forse non possiamo più avere una verità giudiziaria ma possiamo e dobbiamo avere una verità storica. 43 Durante il vostro incontro Vincenzo Guagliardo le disse: “Davanti a te mi sento in colpa”. Che effetto le ha fatto il riconoscimento della colpa da parte di uno dei killer? Ho trovato Guagliardo molto sfuggente. Devo dire la verità che non mi ha commossa. E anche la sua verità è stata una verità molto parziale, con tante omissioni sia di nomi che di fatti. Lui non mi ha mai guardato direttamente negli occhi quindi anche questo credo sia un fatto che possa essere letto. È sfuggito alla mia richiesta di confronto. In realtà questo confronto vero da lui non sono riuscita a ottenerlo fino in fondo. Da questo incontro lei si è riconciliata con i carnefici di suo padre? Io la riconciliazione la vedo in cambio di una verità piena che non c’è ancora. Forse è troppo presto per parlare di riconciliazione così come non è possibile a oggi voltare pagine o chiudere un capitolo come tanti auspicano in cambio di un’amnistia. Occorre aprire un dibattito, chiarire tante cose. Dopodiché potremmo chiudere e mettere a parola fine a questo capitolo. Questo suo esempio di ricerca individuale per la verità potrebbe essere estesa, attraverso una commissione, a tutto il periodo degli anni di piombo in Italia? Un periodo ancora buio della nostra storia e auspicare a una riconciliazione nazionale con quegli anni, visto che lei, in qualità di Senatrice, è stata anche la prima firmataria per la legge che ha istituito la giornata della memoria per le vittime del terrorismo. Intanto bisogna chiedere con forza al Parlamento la pubblicazione di tutti gli atti che sono contenuti in quella Commissione d’Inchiesta sul terrorismo e le stragi che fu presieduta da Pellegrino prima del 2001 e che ha raccolto tantissime testimonianze. Lì dentro c’è una documentazione vastissima che è stata completamente secretata da chi è venuto dopo, da chi ha governato dal 2001 al 2006 e in particolare dalla Commissione presieduta da Guzzanti. Io credo davvero che prima occorrerebbe chiedere la pubblicazione di tutti quegli atti. Poi affidare la lettura della storia agli storici perché sono pace Conflitti e Violenza anno V, n.6, gen-giu 2008 necessari gli occhi della storia per leggere quel passato. Il 9 maggio, data che è stata istituita per legge, dovrà essere il giorno del ricordo di tutte le vittime del terrorismo interno e internazionale. Credo che questa giornata debba diventare davvero un momento significativo di una più generale riflessione sul terrorismo. Non soltanto come commemorazione e ricordo ma credo dovrà indicare un percorso da portare avanti soprattutto nelle scuole dove si dovrà raccontare e spiegare agli studenti che cosa sono stati quegli anni che loro non hanno vissuto ma che appartengono anche a loro. In modo che i giovani studenti possano diventare i primi interlocutori di un processo di analisi e chiarificazione storica che a oggi non abbiamo. 44 Ho trovato molto interessante il fatto che lei abbia dedicato questo libro a sua figlia Eleonora e agli studenti di due licei. Quale insegnamento trarre da quegli anni per le nuove generazioni? Noi oggi parliamo di cultura della legalità, contro la criminalità, le mafie. Credo che l’insegnamento da trarre debba essere quello del rifiuto di ogni tipo di violenza politica, terrorismo, mafie, criminalità. Di una cultura alla legalità che occorre diffondere e portare ai nostri giovani studenti attraverso l’insegnamento, la testimonianza, la memoria. Giovanni Fasanella e Sabina Rossa, Guido Rossa, mio padre, BUR, Milano 2006, € 8,8 È l’alba del 24 gennaio del 1979. Le brigate rosse uccidono il sindacalista Guido Rossa, che aveva provato a rompere il clima di omertà che regnava nelle fabbriche intorno ai terroristi. Quasi trent’anni dopo la figlia prova a capire che cosa quel giorno è veramente successo e lo racconta in questo libro. Chi era suo padre? Nessuno aveva mai chiarito il segreto di quell'omicidio: compagni di partito, operai, magistrati, carabinieri. Ed ex brigatisti: anche coloro che parteciparono all'azione armata. Le loro testimonianze sono toccanti e dolorose, ma decisive. Guido Rossa fu ucciso perché sapeva troppo, oggi la verità comincia ad affiorare. Chi in seguito provò a cercare più in alto, fino alle complicità con gli apparati dello Stato, fu costretto a fermarsi. Come traspare da questa ricostruzione pagina dopo pagina. “Se invece considererà la verità come la più ampia raccolta possibile di impressioni personali, storie, miti, esperienze, allora avrà scelto di ristabilire la memoria e promuovere una nuova umanità. E forse questo è il senso profondo della giustizia”. ANTJIE KROG pace Conflitti e Violenza anno V, n.6, gen-giu 2008 45 Alberto L’Abate Per un futuro senza guerre Incontro con l‘autore L’obiettivo del libro è triplice. Da un lato il libro è nato perché essendo aumentati i corsi di laurea universitari per operatori per la pace, unitamente a dottorati e master su quest’argomento, non sembra essere però ancora aumentato lo spazio di lavoro per le persone laureate o perfezionate in questo settore. Dall’altro c’è l’obiettivo attraverso il mio libro di cercare di lottare contro una cultura che io definisco “bellicogena”. Una cultura convinta che i conflitti si risolvano con le guerre e le armi e convinta che non ci siano altri modi per risolverli. Cosa che secondo me è esattamente l’opposto della realtà dei fatti. Ovvero, che la guerra non porta la pace, ma produce inevitabilmente altri conflitti e altre guerre. L’obiettivo quindi è proprio quello di cercare di dimostrare, non in modo etico o morale, ma attraverso un’analisi scientifica dei dati e delle teorie, che in realtà la guerra peggiora la situazione, e il metodo migliore applicabile è invece quello della nonviolenza attiva che interviene sia lottando contro tutte quelle che sono ritenute le cause della guerra, le ingiustizie, gli squilibri, secondo un modello di sviluppo che tende a inasprire le differenze economiche tra ricchi e poveri, sia attuando progetti costruttivi, promulgando la costruzione di una società diversa, più umana, più sostenibile, più a portata dell’uomo e più valida per la convivenza. Il predominio di questa “cultura bellicogena” non avviene solo a livello sovraordinato ma è presente anche a livello di relazioni interpersonali. In Italia il 70-80% della popolazione non si fida degli altri. La persona è convinta che gli altri la vogliano ingannare perciò vige la regola “ti inganno prima io anziché lo faccia prima tu”. Questa è una cultura chiaramente di tipo violento che è legata a quella che Galtung chiama una “cultura profonda”. Ecco, con il libro, il mio è un tentativo di lottare contro questa cultura violenta. L’esortazione certo non è solo a livello teorico, il mio approccio di scienziato è sempre stato, come del resto emerge anche nei miei libri precedenti, anche se non troppo amato dai miei colleghi sociologi che lasciano ad altri il compito di agire, un approccio che si chiama ricercaintervento. Un approccio che individua certi problemi intervenendo e valutando i risultati concreti dell’intervento stesso. E questo infine è un obiettivo che si aggiunge agli altri. Riuscire a prevenire i conflitti, ma anche, come nel caso del Kosovo, riuscire a comprendere attraverso un’analisi precisa il perché non si sia potuto prevenire. E da questo punto di vista abbiamo verificato che in realtà questo conflitto poteva essere previsto ed evitato. Troppo spesso il fatto che non si prevengano i conflitti è legato anche a determinati interessi economico-politico, lo sfruttamento del petrolio, dell’acqua ecc... La guerra rende troppo in termini economici. La guerra si concilia perfettamente con un modello di sviluppo attuale. Un modello che induce a consumare sempre di più le energie, e naturalmente queste energie sono poche e bisogna farsele proprie, ed ecco che alla fine si arriva alle guerre. Questo comporta la necessità di dover studiare questo nostro modello di sviluppo, vederne i limiti, che sono davvero moltissimi, e trovare delle alternative credibili, valide e possibili. Infatti un capitolo del libro è dedicato proprio alla nostra esperienza durante la prima guerra del Golfo e la guerra del Kosovo. Conflitti di cui ci siamo occupati per parecchi anni attraverso quella che noi chiamiamo “Ambasciata di Pace”. Cioè un lavoro attraverso il superamento delle tradizionali ambasciate che sembrano siano fatte solo per fare la guerra. Che pensano solo al mercato, e non avendo nessuna formazione sui problemi dei conflitti ovviamente non se ne occupano. E nel mio libro emerge molto chiaramente che in tutti e due i casi citati c’era l’opportunità di trovare soluzioni alternative, ma che non si sono volutamente portate avanti, per una serie di ragioni non molto confessabili, ma forti e presenti dal punto di vista del mercato economico. Tutto il mio libro poi è orientato a far arrivare al lettore un messaggio esortativo affinché non si lasci annichilire dalla questa “cultura bellicogena”. Da un lato contestando tutta la teoria dell’aggressività dell’uomo che in realtà non esiste, o esiste come forma del non lasciarsi sopraffare come desiderio di autoconservazione. Sappiamo benissimo che l’aggressività non proviene dalla guerra, ma nasce semmai da una ricerca di quella che viene chiamata la sicurezza collettiva, ossia un mondo più valido dove non si mette a repentaglio nessuno, pace Conflitti e Violenza anno V, n.6, gen-giu 2008 ma si cerca il benessere comune, che corrisponde all’idea ghandiana del sarvodaya. Penso che sostanzialmente la base della guerra non sia l’aggressività dell’uomo ma piuttosto la passività. Che egli subisce ciò che gli arriva dall’alto, dalle autorità, dalla politica, e non agisce, se non nei momenti in cui avvengono catastrofi naturali. Ma il tentativo del mio libro è proprio quello di cercare di superare il bisogno dell’estremo e della disgrazia, per poi muoversi e contrastare la guerra dal basso. Ed è proprio qui che si mostra l’importanza dell’agire dell’uomo. E ci sono tutta una serie di elementi che danno validità a questa teoria, come ad esempio il concetto di assertività, che supera da una parte l’aggressività e dall’altro la passività. In questo quadro viene anche smantellata l’idea che a mantenere la pace siano state le armi nucleari e il rischio della guerra nucleare. In realtà per il mantenimento della pace sono stati molto importanti i movimenti anti-nucleare, di cui nel libro c’è una dimostrazione concreta, e di cui io ne sono stato anche coinvolto in prima persona. Quindi l’importanza dell’azione come empowerment o come “cittadinanza insorgente” che si muove per far rispettare i diritti dell’uomo che spesso vengono attaccati. Una cittadinanza che mai come ora è necessaria per difendere i diritti dell’uomo già riconosciuti e arrivare a promuoverne di nuovi come il diritto alla casa, al minimo vitale, alla vita in generale. Diritti di cui si parla molto ma che ancora non vengono realizzati. La metodologia architrave del libro è la concezione della guerra non come un fatto ma come un processo che si costruisce, la ricerca-intervento, di cui ho già parlato, il principio di reciprocità tra gli attori, l’individualismo metodologico che non solo riconosce l’importanza delle strutture ma soprattutto riconosce il ruolo e l’importanza dell’individuo all’interno di queste strutture. Perché attraverso l’azione degli individui, che non siano essi solo semplice somma di parti ma uniti in un processo strategico, si può arrivare a modificare le strutture stesse. Il mio libro infine è anche un po’ un’autobiografia di una persona che ha sempre cercato di darsi da fare, nel bene e nel male, fallendo o riuscendo, per agire in questo senso, nel senso della pace. 46 Alberto L’Abate abbina attività di studio sulla pace e sulla nonviolenza con un impegno diretto su questi temi. Insegna, presso l’Università di Firenze, “Sociologia dei Conflitti e Ricerca per la Pace” e collabora a vari master nazionali di formazione. Ha fondato e coordinato per anni la Scuola estiva di formazione alla nonviolenza della Casa per la Pace di San Gimignano. È stato per circa due anni in Kosovo come “Ambasciatore di Pace”, per studiare a fondo il conflitto e cercare una soluzione nonviolenta, possibile, ma non implementata. È autore di libri e articoli su queste tematiche apparsi in Italia e all’estero. È presidente nazionale dell’IPRI-Rete CCP (una associazione per la promozione sociale cui aderiscono 15 organizzazioni italiane) che sta promuovendo la creazione, a livello italiano ed europeo, dei “Corpi Civili di Pace”, per l’intervento nonviolento per la prevenzione e l’interruzione dei conflitti armati, e per la riconciliazione dopo la loro fine. Alberto L’Abate, Per un futuro senza guerre, Liguori, Napoli 2008, € 32 L’educazione alla pace ed alla nonviolenza (…) non si esaurisce in un generico appello. Si appoggia al contrario su esempi, prove e documenti storici inoppugnabili... Nella tradizione del pensiero sociale italiano l’opera di Alberto L’Abate non costituisce uno sforzo solitario. Essa può legittimamente richiamarsi agli scritti e agli insegnamenti del non dimenticato Aldo Capitini e dei suoi ‘Centri di Orientamento Sociale’; più recentemente, si ricollega ai contributi didattici e di ricerca di Aldo Visalberghi, soprattutto quando questi si augura “che la scuola non trasmetta più messaggi tipo quelli di Papini che inneggiava alla guerra in nome del ‘progresso sanguinoso’... [mentre] la scuola deve formare e contribuire a formare cittadini con mentalità planetaria, che rifiutano un benessere ... fondato sulla sofferenza e la morte dei loro simili di altre parti del globo. pace Conflitti e Violenza anno V, n.6, gen-giu 2008 47 Schede bibliografiche Angela Fedi e Ronnie Bonomelli, Lutto, protesta, democrazia, Napoli, Liguori 2008, € 17,5 La storia delle Madres de Plaza de Mayo rappresenta un esempio per certi versi unico nella storia della mobilitazione sociale: un gruppo di madri argentine, digiune di politica e di partecipazione, diviene l’epicentro della lotta alla dittatura e della volontà di cambiamento sociale. A loro, e ai movimenti a esse collegati, il presente volume dedica un’attenta analisi in ottica psicosociale, basata sui principali contributi teorici al tema, volta a rintracciare i principali processi in gioco e a esplorare le articolazioni fra livelli micro e macro della mobilitazione. www.liguori.it Camillo Regalia e Giorgia Paleari, Perdonare, Bologna, Il Mulino 2008, € 8,8 Offendere ed essere offesi, ferire ed essere feriti sono esperienze molto comuni nel vivere umano. I quotidiani e la Tv ci aggiornano puntualmente su violenze e soprusi di ogni genere perpetrati a danno di persone o di interi gruppi sociali. E anche se la maggior parte di noi è estranea a vicende così estreme, a tutti è capitato di offendere o di essere feriti. Il perdono si prospetta come via alternativa alla vendetta o alla fuga, una possibilità che, pur non abdicando al bisogno di ottenere giustizia e di avere memoria dell'accaduto, lascia spazio a una sua risoluzione più positiva. Ma cosa vuol dire perdonare? Cosa facilita o ostacola il perdono di un'offesa tra persone o tra gruppi sociali? Il perdono ci fa stare bene? Sfatando una serie di luoghi comuni, gli autori rispondono a questi interrogativi sottolineando le potenzialità ma anche i limiti insiti nel delicato processo del perdono. www.mulino.it Miguel Á. Martin, Neuro habitat. Cronache dell’isolazionismo, Roma, Coniglio Editore 2008, € 11 NeuroHabitat è il racconto lineare e definitivo di un isolamento fisico ed emozionale. Chiuso nel suo appartamento con la sola compagnia di una anaconda e di un cane robot, un ragazzo senza nome ci accompagna nella raggelante quotidianità dell’isolazionismo radicale. Fino alla totale eliminazione della vita sociale, fino alla cancellazione del proprio volto, per affermare – forse – una nuova paradossale identità. Il bisturi di Martín (autore del cult Brian the Brain) affonda con precisione nella paranoia contemporanea. All’inizio sembra quasi che non faccia male, e vi farà sorridere con la sua ironia crudele, mentre lascia il segno. La storia di questo libro non è reale e non è fantastica: assurda, plausibile e presente, è vera. È la storia del vostro vicino di casa, oppure, forse, la vostra. www.coniglioeditore.it/coniglio-editore.asp pace Conflitti e Violenza anno V, n.6, gen-giu 2008 48 Notiziario Padova. Psicoperapia per tutti: una nuova opportunità per i cittadini Sono ormai ricorrenti e numerose le voci di esperti e ricercatori che segnalano la diffusione del disagio psichico e psicosociale in gran parte della popolazione. Addirittura, l’OMS ritiene che nel 2020 la depressione sarà la malattia più diffusa. E spesso le espressioni più gravi di sofferenza mentale sono solo la punta di un iceberg, quella visibile e classificabile dalle statistiche epidemiologiche. Al di sotto e nascoste vi sono ulteriori e molteplici forme di disagio, indotte dalla solitudine, dalla precarietà delle relazioni, da un diffuso senso di vulnerabilità, dalla marginalità e dall’esclusione sociale. Nonostante il benessere psicologico personale sia un bene fondamentale per la vita di ogni essere umano, non tutti però dispongono dei mezzi economici per proteggerlo o svilupparlo. Per offrire una risposta concreta a tutti i cittadini padovani bisognosi di un aiuto psicologico e psicoterapeutico l’Institute of Constructivist Psychology (ICP) ha creato il Centro di Psicoterapia Costruttivista. Una struttura che, oltre a svolgere attività di ricerca, eroga prestazioni di psicologia clinica e psicoterapia. Nel Centro svolgeranno le loro prestazioni psicoterapeuti e specializzandi della Scuola di Psicoterapia dell’ICP, già iscritti all’Ordine e sotto supervisione. Il Centro di Psicoterapia prevede che le persone, per cui sia indicato un sostegno psicologico o un percorso terapeutico – nel caso non riescano a sostenerne le spese – possano accedere gratuitamente al servizio. E in ogni caso, sempre nei limiti delle possibilità economiche dei cittadini, potrà essere richiesto un contributo non superiore ai dieci euro per incontro. Tali contributi saranno raccolti in un fondo cassa per coprire le spese vive dell’iniziativa. L’attività del Centro parte ai primi di luglio 2008, avrà sede presso l’Institute of Constructivist Psychology in via Martiri della Libertà, 13 a Padova. È attivo un servizio di segreteria telefonica (049 657712). Roma. Istituto Nazionale per lo Studio e la Promozione del Cohousing Verso la fine dello scorso anno, è nato a Roma l'ISPCO, Istituto Nazionale per lo Studio e la Promozione del Cohousing con presidente Antonella Sapio. L’ISPCO vuole costituire un punto di riferimento per le istituzioni, gli enti, i ricercatori, i cohousers (potenziali o già attivi) e la società civile. Il cohousing (coabitazione) nasce in Scandinavia negli anni '70 ed è oggi diffuso specialmente in Danimarca, Svezia, Olanda, Inghilterra, Stati Uniti, Canada, Australia, Giappone. In questi paesi sono già svariate migliaia le persone che hanno scelto di abitare condividendo alcuni spazi che consentono di unificare i servizi. Le persone che scelgono il cohousing per lo più hanno già sperimentato rapporti umani ravvicinati e sono inclini a stabilire relazioni amicali profonde; nella maggioranza dei casi, tuttavia, è proprio l'esperienza del cohousing ad aiutare le persone ad acquisire una maggiore maturità alla convivenza civile e ad approfondire il proprio spessore relazionale. Sito internet: www.ispcohousing.org Vicenza. No Dal Molin “La resistenza contro la costruzione della nuova base USA” Nel prossimo autunno la città di Vicenza sarà chiamata a pronunciarsi in merito a un referendum storico: Dal Molin di guerra o Dal Molin di pace. Il movimento No Dal Molin dovrà affrontare questa impegnativa campagna e visto che non gode di finanziamenti pubblici, sta attivando una serie di iniziative di raccolta fondi per questo scopo. La prima è la pubblicazione del libro “Non c’è più Pace”, Lalli Editore € 10, 128 pagine a colori, che ripercorrono la storia dell’esperienza No Dal Molin attraverso i titoli di giornali, locali e nazionali, commentati dalle vignette-amare di happy caps. Per informazioni: www.nodalmolin.it Per ordinare il libro: www.lallieditore.it [email protected] pace Conflitti e Violenza anno V, n.6, gen-giu 2008 Per gentile concessione dell’autore Fogliazza pace Conflitti e Violenza Giornale della Società Italiana di Scienze Psicosociali per la Pace 49