uno sguardo di genere Per quanto possano apparire sempre più

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uno sguardo di genere Per quanto possano apparire sempre più
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uno sguardo di genere
Per quanto possano apparire sempre più aperti e paritari, informali e perfino caotici, i mondi della vita quotidiana, così come quelli della famiglia, dello sport, della
scuola e del lavoro, sono organizzati ancora oggi, nelle
società occidentali come in quelle orientali, nel Sud come
nel Nord del mondo, in base ad alcuni confini fondamentali: quelli che separano, facendoli vivere fianco a fianco,
gli uomini e le donne, i bambini e le bambine. È indubbio
che, soprattutto nei paesi plasmati dal liberalismo democratico, le donne attualmente godano al pari degli uomini
di una serie di diritti importanti, ed è altrettanto vero che
diverse sfere d’azione sociale sono formalmente regolate
da norme per le pari opportunità che tentano di promuovere principi di eguaglianza universalistica tra le persone.
Eppure, senza forzatura alcuna, possiamo facilmente renderci conto del fatto che le differenze di «genere»1 – e
cioè quelle differenze sociali e culturali che sono organizzate secondo una logica binaria di appartenenza all’una
o l’altra delle due classi sessuali «maschio» e «femmina»
– rimangono tra quelle più salde ed importanti, sia per
la riproduzione della struttura sociale, sia per la gestione
delle nostre identità.
L’origine della nozione di genere è legata al consolidarsi del pensiero femminista durante gli anni Settanta e
alla diffusa presa d’atto nelle scienze sociali – dalla sociologia, alla storia, all’antropologia – che le differenze tra
uomini e donne vengono sostenute da molte istituzioni sociali e vanno riportate essenzialmente ad uno squilibrio di
potere. Lo stesso trattare le differenze tra uomini e donne
e i loro rapporti mediante un unico termine risponde all’esigenza di dare peso a quanto vi è di socialmente e
culturalmente costruito nelle pratiche che definiscono la
maschilità, la femminilità e le relazioni tra i sessi2. Col termine genere si identifica oggi non solo il carattere socialmente costruito – simbolicamente mediato e ritualmente
sostenuto – delle differenze tra uomini e donne, ma anche
il fatto che il maschile e il femminile si costruiscono reciprocamente, intrecciandosi in un ordine, in un sistema di
relazioni, conflitti ed accomodamenti reciproci: una «cooperazione conflittuale» come scriveva Armartya Sen o una
«orchestrazione» come proponeva Erving Goffman3. Per
quanto relativamente recente, la messa a fuoco delle distinzioni di genere ha consentito di modificare le nostre chiavi
analitiche: non si è trattato di aggiungere ad altri importanti confini sociali (di classe, ceto, etnia, generazione,
età, ecc.) una dimensione prima negletta, ma di considerare l’intreccio creativo e a volte persino contraddittorio di
queste diverse forme della differenza sociale. Pur traendo
origine dalla volontà di predisporre uno strumento capace
di render conto delle differenze tra uomini e donne, tale
termine ha consentito nel tempo di tentare di trascendere
la stessa dicotomia maschio/femmina e di considerare una
pluralità di modi di vivere il corpo, l’identità sessuale, il
desiderio erotico, la femminilità e la maschilità, come è accaduto nei gay and lesbian studies e, più recentemente nei
queer studies. Introdurre il genere come strumento di analisi sociale ha voluto dire affiancare agli studi sulle donne,
vieppiù interessati alle barriere alla partecipazione delle
donne alla piena cittadinanza, anche gli studi sugli uomini,
spesso focalizzati sulla crisi della maschilità e attenti a considerare i diversi modi di interpretarla. Proprio Robert
W. Connell, autore del saggio qui presentato, è stato uno
dei principali ispiratori dei così detti men’s studies contribuendo a definirne i contorni e invitandoci a considerare
la maschilità e la femminilità come entità prismatiche e
conflittuali, nelle quali si fronteggiano visioni egemoniche
e definizioni marginali4.
Nel corso della sua pur breve carriera nelle scienze
sociali, il concetto di genere si è dimostrato tutt’altro che
stabile ed univoco ed è venuto piuttosto ad identificare un
ambito di studio sia teorico sia empirico che comprende
voci diverse e in continuo mutamento. La teoria femminista ha, per es., sposato in un primo momento la distinzione
tra genere e sesso, definendo genere quelle differenze di
ordine simbolico che venivano ad essere sovrapposte alle
differenze biologiche apparenti nei due sessi. Così facendo
il femminismo – vuoi secondo un approccio sostanzialista
ed essenzialista di matrice anglo-americana (per esempio
Daly o Ruddick) vuoi secondo un approccio più formalista
alla differenza diffuso in Italia e in Francia ed ispirato ai
lavori di Luce Irigaray – ha contribuito a naturalizzare la
differenza sessuale, intensa come differenza biologica data
e a-storica. Sia pure con diverse sfumature, questi approcci
hanno il chiaro difetto di cristallizzare le differenze tra uomini e donne, dipingendo maschilità e femminilità chiuse
in se stesse anziché potenzialmente dialogiche e rendendo
le categorie «donne» e «uomini» molto più omogenee di
quanto non siano in realtà. Negli ultimi due decenni però
una parte importane del pensiero femminista e più in generale degli studi sul genere ha adottato un approccio
sempre più radicalmente costruttivista, traendo ispirazione
dal poststrutturalismo foucaultiano e dal decostruzionismo
derrideiano, sviluppando una critica alla precedente distinzione sesso/genere così da cambiare l’inquadramento
del genere pur conservandolo come sua fondamentale categoria organizzatrice. L’autrice che viene oggi più spesso
associata a questa svolta poststrutturalista è Judith Butler,
che considera il genere come un «performativo» e si propone di decostruire il sistema di segni attraverso il quale
l’identità femminile è stata collegata alla «matrice eterosessuale»5. In questa visione, il genere viene indicato non
come la rappresentazione culturale di una dicotomia biologica tra maschi e femmine, ma come un processo culturale che produce le identità sessuali, inclusa la nostra percezione che esistano due, e solo due, sessi distinti. Al pari
del classico lavoro di Kristeva, questa impostazione è stata
criticata per il suo testualismo, perché le differenze che le
donne sperimentano davvero nella vita quotidiana sui loro
corpi potrebbero sembrare mere interpretazioni, perché
– come scrive Susan Bordo – in ultima analisi i corpi spariscono6.
In realtà, gran parte dell’odierno orientamento poststrutturalista, compresa Butler, riconosce questi rischi
e tenta di partire dalla corporeità e dall’incorporamento
delle differenze di genere, riconoscendo che per quanto
stabilizzate mediante un ordine simbolico, esse non si possono decostruire in pratica solo con un’operazione simbolica7. Peraltro, sottolineando la nozione di pratica oltre a
quella di discorso, il poststrutturalismo non intende dire
che i soggetti possano liberamente e agevolmente agire ora
da donna ora da uomo, o che tutte le pratiche e i discorsi
siano posti sullo stesso piano. Come ha scritto recentemente Pierre Bourdieu, il genere non può venire ridotto
ad un atto volontaristico: essere uomini o donne è un
processo che si realizza nelle diverse realtà sociali in cui
i soggetti si trovano ad agire, e tuttavia tale identità viene
ad essere consolidata mediante aspetti materiali – il portamento, le dimensioni corporee, il modo di parlare, ecc. – e
aspetti simbolici – discorsi, classificazioni e categorie – di
cui le persone non possono facilmente spogliarsi senza rinunciare ad una parte fondamentale di se stesse8. Se è vero
che le società hanno tutte in comune una qualche distinzione tra maschile e femminile che include la corporeità,
esse però percepiscono diversamente il corpo, le sue capacità e forme, e forgiano la corporeità in una varietà di
modi diversi. Il corredo biologico insomma è esso stesso
plasmato socialmente, e non solo da discorsi (medici e
non) ma anche da pratiche e istituzioni. Una varietà di autrici ed autori contemporanei – per esempio Sheila Benabib, Suzanne Kessler, Elisabeth Grosz, Colette Guillaumin,
Judith Butler, Ken Plummer e appunto Robert Connell
– hanno sposato una qualche forma di poststrutturalismo,
con il tentativo di tenere presente la corporeità, ma di
concepirla come un dato socialmente mediato. L’obiettivo
ultimo è quello di considerare le discriminazioni che colpiscono alcuni soggetti senza accorparli in categorie discrete
e chiuse, riconoscendo piuttosto la varietà delle esperienze
soggettive e la situazionalità delle differenze che tratteggiano il genere nelle società contemporanee.
Le identità sociali di genere appaiono in effetti come
un complesso mosaico di differenze modulate nelle più disparate occasioni della vita ordinaria, sostenute dal basso,
nei piccoli rituali quotidiani con l’attiva partecipazione dei
soggetti che le incarnano, oltre che imposte dall’alto della
struttura sociale. Nella vita ordinaria le persone si orien10
tano, si muovono, parlano e si scambiano sguardi comportandosi da uomini e da donne. La nostra appartenenza ad
una categoria sessuale, e le connotazioni di genere ad essa
associate, non sono una maschera che possiamo indossare
e abbandonare a piacimento, non sono un ruolo dal quale
possiamo facilmente distanziarci, ma un’identità «incorporata» che continuamente realizziamo. Si tratta, secondo
un approccio che deve molto all’etnometodologia oltre
che alla ricordata evoluzione del pensiero femminista e al
postrutturalismo, di un «fare il genere» che fa sì che (un
certo tipo di) maschilità o femminilità diventino per noi la
nostra unica, irrinunciabile pelle9.
È a partire da una simile impostazione che Connell,
uno dei maggiori protagonisti della ricerca sociologica sul
genere e la sessualità, ha sviluppato questo ambizioso e al
contempo felicissimo saggio introduttivo. Connell – che
insegna attualmente all’Università di Sidney e ha trascorso
numerosi anni anche negli Stati Uniti, alle Università di
Harvard e di Santa Cruz – ci offre qui una introduzione
che fa punto di una vastissima area di ricerca e riflessione
teorica, portandoci esempi concreti spesso vivaci ed illuminanti da ogni parte del globo, secondo una prospettiva
originale, sostenuta da una sincera passione intellettuale ed
umana. La teoria si fonde in questo saggio con una grande
ricchezza di riferimenti pratici legati alle situazioni concrete e alle politiche – cosa che del resto non deve stupirci
se proprio Connell è stato invitato ad aprire la conferenza
della Commission on the Status of Women delle Nazioni
Unite nel 2004. Studioso, tra l’altro, dei sistemi educativi,
Connell mostra di avere un occhio di riguardo per i processi mediante i quali i piccoli, nelle scuole e nelle famiglie, imparano a negoziare una propria identità di genere,
adottando e riadattando, rifiutando e sovvertendo modelli
e opportunità d’azione. Riprendendo un importante lavoro di Barrie Thorne sull’interazione tra bambini e bambine nelle scuole, Connell insiste così che non si tratta di
socializzazione: certo le bambine si trovano a fronteggiare
stereotipi sulla loro supposta «naturale» inferiorità, come
denunciava in Italia il best seller di Elena Gianini Belotti,
Dalla parte delle bambine10; eppure bambini e bambine si
impegnano attivamente per costruirsi una propria identità
11
di genere che incarna piaceri e doveri associati a visioni
più o meno legittime della maschilità e della femminilità.
Lungi dall’essere un dato essenziale o semplicemente imposto dall’esterno, il genere viene quindi realizzato dagli
attori sociali, i quali nondimeno si muovono all’interno di
strutture che ne informano le possibilità d’azione, espressione e persino sentimento. Oltre ad uno stile brillante
e ad un argomentare chiaro e ricco di esemplificazioni,
molti sono i meriti di questo libro che si colloca all’avanguardia nel panorama delle introduzioni agli studi di genere: prende sul serio il carattere relazionale del genere
considerando sia gli uomini che le donne; analizza sia
istituzioni del privato (la famiglia e la sessualità) sia della
sfera pubblica (le aziende, le istituzioni politiche, i luoghi
pubblici); tiene presente sia gli aspetti simbolici sia quelli
più propriamente sociali; ha un occhio di riguardo per la
dimensione storica dei fenomeni. Da ultimo, è attento alla
variabilità geografica e culturale dell’organizzazione delle
relazioni e delle identità di genere, ponendosi da una prospettiva globale ma non trascurando le differenze locali.
Anche nel nostro paese peraltro la nozione e gli studi
sul genere sono oggi parte importante del patrimonio sociologico. Sono così molte le ricerche che documentano le
differenze tra uomini e donne nella sfera privata (rispetto
per esempio alla salute, alla gestione delle spese domestiche e alla conciliazione dei tempi di vita tra famiglia
e lavoro11) e in quella pubblica (per esempio in politica,
nel diritto e nelle organizzazioni12), che mostrano quanto
anche la violenza e la devianza siano organizzate secondo
confini di genere13, che tracciano l’evoluzione della maternità e paternità o delle identità omosessuali14. Quella delle
differenze sociali di genere è del resto una realtà tangibile
nell’Italia di questo secondo inizio millennio. Gli ultimi
dati Istat disponibili sul mercato del lavoro ci dicono che
il tasso di attività femminile è ancora nettamente inferiore
a quello della maggioranza degli altri paesi dell’Unione
Europea anche se è migliorato negli ultimi dieci anni: nel
2004 erano occupati o in cerca di lavoro il 74,5% degli
uomini dai 15 ai 64 anni, e solo il 50,6% delle donne nella
stessa fascia d’età15. La retribuzione oraria degli uomini
in Italia è in media di oltre 16% più alta di quella delle
12
donne, un differenziale che è generalmente indipendente
dalle caratteristiche strutturali dell’impresa, dalla tipologia del contratto, dalla professione, dall’età. Le donne
oggi certo riescono ad inserirsi anche nelle professioni
più prestigiose ed è notevolmente aumentata la presenza
femminile tra i medici, gli avvocati e i magistrati, anche se
tale presenza spesso si concentra ai livelli più bassi delle
gerarchie professionali o nelle specializzazioni meno prestigiose16. Più in generale, le donne che raggiungono il
successo economico e professionale devono ancora adattarsi ad un mondo maschile che tipicamente chiede loro di
mettere in campo qualità, attributi e comportamenti dissonanti con quelli che in altre sfere, e soprattutto in quelle
erotica o familiare, sono apprezzati nelle donne, prima fra
tutte la capacità di cura.
Come altri tratti della femminilità anche la capacità
di cura viene culturalmente e socialmente costruita e si
esprime innanzi tutto nella miriade di compiti, impegni, attività di cui sono loro malgrado investite e, allo stesso tempo,
si fanno operosamente carico le donne all’interno della sfera
del privato, della cerchia familiare, parentale e perfino amicale. In un celebre saggio Carole Pateman17 sosteneva che il
contratto sociale – che secondo la tradizione liberale regge
le società democratiche – si fonda a sua volta su un contratto sessuale, che vede le donne impegnate a sostenere le
famiglie con il proprio lavoro non retribuito. Ciò è tanto
più vero nella società italiana dove la gestione domestica
grava sulle donne in modo più ponderoso di quanto non avvenga in altri paesi ad economia avanzata. È ancora a carico
della donna che vive in coppia oltre il 77% del tempo dedicato al lavoro familiare. E anche se questo dato si è ridotto
dall’84% del 1989, la riduzione dell’asimmetria tra uomini
e donne è dovuta più ai comportamenti delle donne che a
quelli degli uomini: in questo arco di tempo le donne occupate per esempio hanno ridotto di quasi un’ora il proprio
impegno nei servizi domestici e accresciuto di quasi mezz’ora il tempo dedicato ai figli piccoli; d’altro canto anche
se sono aumentati gli uomini che contribuiscono in qualche modo al lavoro familiare (dal 71,6 del 1989 al 77,3%
del 2003), la durata media di queste attività è in crescita di
appena 16 minuti18. Senza un’adeguata trasformazione delle
13
relazioni coniugali, delle aspettative sociali e delle richieste
istituzionali codificate in base al genere, l’accresciuta partecipazione delle donne occidentali ed italiane al lavoro salariato contribuisce ad alimentare una divisione del lavoro
sessuale su scala globale, che vede ancora le donne, questa
volte immigrate, chiamate a fare per soldi quello che prima
facevano per amore, magari lasciando ad altre donne, a
casa, la cura dei propri figli, in una catena transnazionale
che trasforma il lavoro di cura in una merce poco valutata
di cui c’è però molto bisogno19.
Le asimmetrie nel lavoro di gestione familiare e di cura
si riflettono non solo sulle relazioni di genere, ma anche
sulla genitorialità. L’Italia è, come noto, uno dei paesi a
più bassa fertilità al mondo, e da recenti studi emerge il
ruolo della condivisione dei lavori domestici e la centralità
del coinvolgimento della figura paterna: nel nostro come
in altri paesi in cui ad un’uguaglianza formale corrisponde
una disuguaglianza di fatto, la scarsa partecipazione dei
padri all’accudimento del primo figlio sembra ripercuotersi negativamente sulla probabilità di averne un secondo
nelle coppie in cui entrambi i partners lavorano20. I modi
di interpretare la paternità e la maternità sono del resto
profondamente influenzati dal modo in cui vengono a costruirsi reciprocamente le identità maschili e femminili: in
Italia gli uomini, e le donne forse ancor di più, sembrano
nel complesso attaccati a visioni tradizionali, per esempio
avere figli è considerato importante per la realizzazione di
un uomo dal 47% dei maschi e dal 42% delle femmine;
ed è considerato importante per la realizzazione di una
donna dal 55% dei maschi dal 58% delle femmine21.
Le differenze di genere emergono anche nelle istituzioni formalmente più attente all’uguaglianza, alla correttezza politica del linguaggio, alle pari opportunità, e così
via. Dalla nascita della Repubblica ad oggi la presenza
delle donne nel parlamento italiano ha avuto un andamento discontinuo, ma è sempre stata significativamente
inferiore a quella registrata in altri paesi democratici ad
alto sviluppo economico: per es. nel 1994 alla Camera
le donne erano solo il 15,1% degli eletti e scendevano
all’8,6% al Senato22. E se la principale istituzione religiosa
in Italia, la chiesa cattolica, rimane profondamente strut14
turata in base a linee di genere, donne e uomini mostrano
tassi di religiosità differenti: ancora alle soglie del 2000 il
44,5% delle donne frequentava i luoghi di culto almeno
una volta alla settimana contro il 26,9% degli uomini23.
Altrettanto significative sono le differenze di genere riferibili alla sfera del tempo libero e dei consumi. In Italia
per es., le donne tendono a leggere (libri) e a scrivere (lettere, diari, racconti) in misura decisamente maggiore degli uomini; e soprattutto uomini e donne sono lettori dai
diversi profili: i romanzi e la poesia sono letture più tipicamente femminili, la saggistica e i quotidiani più tipicamente maschili24. Per quanto riguarda la pratica sportiva
il divario tra uomini e donne va diminuendo ma non è ancora stato colmato: se tra gli uomini il tasso di sportività è
pari al 37,8%, tra le donne si attesta intorno al 22,6%25. A
differenza delle attività sportive vere e proprie, nella partecipazione all’attività fisica generica e non competitiva le
donne superano gli uomini, con un 33,6% a fronte di un
28,8%. Uomini e donne peraltro sembrano spinti da motivazioni diverse: la stragrande maggioranza delle donne
sostiene di fare attività fisica per mantenersi in forma,
mentre competizione e divertimento sono motivi più importanti per gli uomini. Proprio perché la storia dello
sport moderno è strettamente intrecciata ad una maschilità
egemonica, forte, aggressiva e competitiva, ancora oggi le
donne sono in media assai meno disposte degli uomini a
spendere tempo e denaro per praticare un’attività sportiva
e, qualora lo facciano, tendono a preferire specialità non
competitive che possano essere svolte con membri della famiglia anziché attività competitive o sport di contatto che
potrebbero farle apparire mascoline.
Non solo uomini e donne consumano prodotti e servizi diversi, ma esistono anche oggetti «maschili» e oggetti «femminili», appropriati per l’uno o per l’altro sesso
in quanto capaci di conferire maschilità o femminilità26.
Sappiamo molto bene che i giocattoli sono importanti strumenti di socializzazione ai ruoli maschili e femminili, e che
già dall’infanzia i bambini e le bambine tendono a negoziare la propria identità di genere utilizzando giochi che
vistosamente incorporano visioni dicotomiche ed asimmetriche della femminilità, della maschilità e dei rapporti tra
15
i sessi. Alcuni studi sulle preferenze alimentari hanno documentato che nella società occidentale, oggi e nel passato,
la carne si configura come un cibo maschile (associato alla
caccia, alla forza, alla violenza) e, allo stesso tempo, viene
attivamente prescelto, rifiutato o centellinato all’interno
delle famiglie per segnare i confini di genere27. In molti
campi però più che consumare cose diverse, uomini e
donne consumano in modi sottilmente diversi. Per es. sia
gli uni che le altre fanno shopping, ma come emerge da
uno studio condotto in Gran Bretagna, gli uomini non
solo acquistano in media più tecnologia le donne più vestiti – ed entrambi lo fanno per tutti i componenti del nucleo familiare – ma anche tendono a descrivere il tempo
che dedicano agli acquisti utilizzando un linguaggio preso
a prestito dalla sfera lavorativa, mentre le donne lo concepiscono più spesso come tempo libero e ludico28. Allo
stesso modo, uomini e donne oggi fanno spesso la spesa
supermercato insieme, però le modalità di negoziazione
degli acquisti rafforzano marcate asimmetrie di genere che
si esprimono nel tentativo maschile di sanzionare le scelte
e in quello femminile di anticipare i desideri29. Simili differenze di genere segnano anche gli usi degli oggetti, inclusi
quelli più funzionali. Agli ausili acustici, per esempio, vengono attribuite facoltà diverse a seconda che si rivolgano
ad un pubblico maschile o femminile: consentirebbero agli
uomini di essere «più capaci di interagire» e di far fronte ad
una «mancanza di autorevolezza» sul «lavoro», alle donne
invece di essere di nuovo delle «buone ascoltatrici» e di recuperare «vicinanza con la famiglia e il marito»30.
Per rendere conto del perché una simile trama di genere, alcune volte enfatizzata altre volte nascosta, possa
rimanere così fondamentale nelle società liberali-democratiche contemporanee occorre considerare la sua centralità per la costituzione e il mantenimento dell’identità
personale. Se le differenze sociali possono essere sostenute è perché i soggetti credono ad esse e le sorreggono
emotivamente. Come scrive Arlie Russell Hochschild31 vi
sono particolari «regole del sentimento» che stabiliscono
come dobbiamo sentirci e cosa dobbiamo provare, e tali
regole sono nettamente differenziate per genere. Per es., in
quanto custodi dell’amore monogamo, le donne tendono
16
molto più degli uomini a svalutare le proprie passate storie
d’amore e a ricordarle come semplici «infatuazioni». Ed
anche le «regole per la rappresentazione delle emozioni»
sono differenziate in base al genere: le donne sono più
propense a mascherare la propria rabbia in pubblico, gli
uomini la propria paura.
Tali regole di gestione del sé hanno ovviamente a che
fare con le rappresentazioni culturali della maschilità e
della femminilità, rappresentazioni che sono state peraltro
suscettibili di grandi cambiamenti, più o meno accentuati
a seconda del momento storico, e che sono tuttora in atto.
L’immagine della casalinga, per esempio, è fortemente mutata dal secondo dopoguerra in avanti, influenzata dalla
pubblicità commerciale e dalla sua continua necessità di
commercializzare nuovi elettrodomestici, nuovi prodotti
alimentari, nuove forme dell’abitare. In Italia, come po’ in
tutta Europa e negli Stati Uniti, le immagini pubblicitarie
hanno promosso una visone della femminilità vieppiù imperniata sulla ricerca di autonomia ed auto-realizzazione
che poteva contrastare con le visioni più tradizionali della
casalinga ma che risultava tradizionalista nell’assegnare
alle donne lavori di cura, gestione familiare, preparazione
(sia pur veloce e razionale) dei pasti32. Allo stesso tempo,
è a partire dal secondo dopoguerra che la pubblicità comincia a proporre immagini di maschilità associate a più
paritarie visioni dei rapporti di genere proponendo l’accesso ai nuovi beni di massa come un modo di essere maschi moderni in opposizione ai «cafoni» ancora dominati
di sentimenti incivili33. Peraltro, soprattutto negli ultimi
tre decenni, in tutti i paesi occidentali l’identità maschile è
stata sempre più messa in gioco da codici visivi trasversali
rispetto al genere propugnati dai meccanismi della moda34.
In effetti, l’«uomo nuovo» dell’industria della moda mescola spesso forme maschili e femminili, non solo mettendo in discussione l’identificazione tra sobrietà e maschilità ma anche a rappresentando l’uomo come «oggetto»
del desiderio. Il modello della rivista femminile sulla salute
e la bellezza, che tanta parte ha avuto nel legare insieme
femminilità e frivolezza, è a sua volta stato esteso anche al
pubblico maschile come mostra chiaramente il largo successo di riviste come «Men’s Health»35.
17
Lungi dall’essere messi al bando dalla cultura contemporanea, ibridismo e trasgressione dei confini di genere,
omosessualità e ambiguità sessuale sono diventati importanti codici della moda, della pubblicità, della musica pop,
ecc. Accanto alla maschilità e femminilità egemoniche,
vengono quindi continuamente messe in circolo immagini
non tradizionali delle identità di genere: immagini sovversive, marginali, devianti che arrivano a giocare sull’ambiguità sessuale, l’omosessualità, il travestitismo e l’immaginario drag36. Eppure, in definitiva, l’ibridazione di maschile
e femminile sembra avvenire non mediante il superamento
della distinzione di genere in quanto tale, quanto mediante
la distillazione in forme nuove, più sofisticate e sottili,
della differenza. Pur avendo cavalcato l’onda di movimenti
come quello femminista o omosessuale, le immagini pubblicitarie, per es., sembrano lavorare in funzione dialettica
rispetto alla realtà dell’ordine di genere: rassicurano le
identità tradizionali mentre le spingono verso consumi che
destabilizzano l’ordine di genere, ma anche solleticano le
nuove sensibilità di genere mentre le ancorano a consumi
che sono espressione di ruoli tradizionali. Anche l’evoluzione del costume ha aspetti ambigui ed ambivalenti. Pensiamo al codice del vestire spesso adottato dalle donne negli ambienti professionali con l’obiettivo di veicolare allo
stesso tempo connotazioni maschili (autorità/distacco) e
femminili (sessualità/emotività): si tratta di un modo di
porsi che le donne riescono a volte a giocare a proprio favore, ma che le obbliga ad una vigilanza assai più costante
e consapevole di quella richiesta ai loro colleghi maschi37.
Nel complesso, uno sguardo di genere attento alla rapida evoluzione, al reciproco costituirsi e all’incessante intrecciarsi di maschilità e femminilità permette di abbracciare con lo sguardo l’insieme del tessuto sociale, nelle sue
pieghe più profonde come in quelle apparentemente più
superficiali, rendendoci consapevoli di lacerazioni, nodi
e sfumature spesso sorprendenti. È anche questo uno dei
tanti meriti del libro di Connell che ci offre, con la sua ricchezza di riferimenti e il rigore vivace della sua prosa, una
bussola preziosa sulle questioni di genere.
Roberta Sassatelli
18
note alla presentazione
1
Il termine «genere» è ormai consolidato in italiano anche se non
rappresenta una fedele traduzione dell’inglese «gender» che è connotato
esclusivamente in senso sessuale e non fa riferimento anche al generico
significato di «tipo» o «specie» come accade in italiano. Per una panoramica, cfr. soprattutto S. Piccone Stella e C. Saraceno (a cura di), Genere: la costruzione sociale del femminile e del maschile, Bologna, Il Mulino,
1995 e più recentemente C. Leccardi (a cura di), Tra i generi. Rileggendo
le differenze di genere, di generazione, di orientamento sessuale, Milano,
Guerini, 2002. Cfr. anche F. Bimbi (a cura di), Differenze e disuguaglianze. Prospettive per gli studi di genere in Italia, Bologna, Il Mulino, 2003.
2
Piccone Stella e Saraceno (a cura di), Genere, cit., pp. 11 ss. Per
una più ampia riflessione sulle diverse impostazioni femministe, cfr. F.
Restaino e A. Cavarero, Le filosofie femministe, Torino, Paravia, 1999.
3
A. Sen, Gender and cooperative conflicts, in I. Tinker (a cura di),
Persistent Inequalities: Women and World Development, New York,
Oxford University Press, 1990, ed E. Goffman, The Arrangement
between the Sexes, in «Theory and Society», 4, 1977, pp. 301-331.
4
R.W. Connell, Maschilità, Milano, Feltrinelli, 1996. Cfr. inoltre,
tra i suoi più importanti lavori, Id., Gender and Power, Cambridge,
Polity, 1987, e Id., Theorising Gender, in «Sociology», 19, 2, ????, pp.
260-272. Per una discussione del lavoro di Connell sulla maschilità e il
genere, cfr. Symposium on R.W. Connell’s Masculinities, in «Gender &
Society», 12, 4, 1998.
5
J. Butler, Corpi che contano, Milano, Feltrinelli, 1997. Cfr. anche
Id., Scambi di genere, Milano, Sansoni, 2004.
6
S. Bordo, Il peso del corpo, Milano, Feltrinelli, 1997.
7
E.A. Grosz, Volatile Bodies. Toward a Corporeal Feminism, London,
Allen & Unwin,1994; V.L. Pitts, Le donne e i progetti di trasformazione
fisica, in «Rassegna Italiana di Sociologia», XLIII, 3, 2002, pp. 379-405.
8
P. Bourdieu, Il dominio maschile, Milano, Feltrinelli, 1998. Cfr.
anche C. Guillaumin, Il corpo costruito, in «Studi Culturali», 2, 2006.
9
Cfr. H. Garfinkel, Agnese (1967), Roma, Armando, 2000; e il fondamentale C. West e D.H. Zimmerman, Doing Gender, in «Gender and
Society», 1, 1987, pp. 125-151. Il contrapporsi sempre più evidente di
forme differenti di essere (nel) corpo e l’emersione di soggetti che rivendicano uno spazio per la propria «diversità» ha portato in primo piano la
relazione fra corpo, cultura e potere. Tra questi soggetti spiccano le persone con caratteri razziali o sessuali misti cfr. R. Sassatelli, Corpi ibridi.
Sesso, genere, sessualità, in «aut aut», 2, 2006.
10
E. Gianini Belotti, Dalla parte delle bambine. L’influenza dei condizionamenti sociali nella formazione del ruolo femminile nei primi anni
di vita (1973), Milano, Feltrinelli, 2000; B. Thorne, Gender Play. Girls
and Boys in School, New Brunswick, Rutgers University Press, 1993.
11
Cfr. C. Facchini e E. Ruspini (a cura di), Salute e diseguaglianze
sociali: genere, condizioni sociali e corso di vita, Milano, Angeli, 2001;
19
D. Gambardella, Chi guadagna, chi spende. Denaro e disuguaglianze di
genere nella famiglia, Napoli, Dante & Descartes, 1998; A. Scisci e M.
Vinci, Differenze di genere, famiglia, lavoro, Roma, Carocci, 2002.
12
T. Pitch, Un diritto per due. La costruzione giuridica di genere sesso e sessualità, Milano, Il Saggiatore, 1998; B. Beccalli (a cura di), Donne in quota. è giusto riservare posti alle donne nel lavoro e nella politica?, Milano, Feltrinelli, 1999; F. Bimbi e A. Del Re (a cura di), Genere
e democrazia, Torino, Rosenberg & Sellier, 1997; S. Gherardi, Il genere
e le organizzazioni, Milano, Cortina, 1998.
13
T. Pitch e C. Ventimiglia, Che genere di sicurezza. Donne e uomini
in citta, Milano, Angeli, 2001; G. Del Guidice, G. Bambara e C. Adami
(a cura di), I generi della violenza, Milano, Angeli, 2001.
14
Cfr. per esempio C. Saraceno, Verso il 2000: la pluralizzazione
delle esperienze della figura materna, in M. D’Amelia (a cura di), Storia della maternità, Roma-Bari, Laterza, 1997, e G. Maggioni (a cura
di), Padri nei nostri tempi. Ruoli, identità, esperienze, Roma, Donzelli,
2000. Sull’identità omosessuale in Italia, cfr. e M. Barbagli e A. Colombo, Omosessuali moderni, Bologna, Il Mulino, 2001. Per una lettura in
chiave di genere delle nuove tecniche di riproduzione assistita in Italia,
cfr. A. Gribaldo, La natura scomposta. Riproduzione assistita, genere, parentela, Roma, Sassella, 2006.
15
Il basso tasso di partecipazione femminile al lavoro retribuito è
da mettere in relazione alla forte presenza della figura della casalinga
(circa 4 milioni). Tuttavia, circa due milioni di donne, soprattutto giovani e residenti nel Mezzogiorno, sarebbero disposte a entrare nel mercato del lavoro se mutassero le condizioni, ed in particolare se ci fossero più servizi di cura per i bambini, cfr. Istat, Rapporto annuale 2004,
Roma, 2004. Per una rapida panoramica sulle differenze di genere nel
mondo, cfr. J. Véron, Il posto delle donne, Bologna, Il Mulino, 1999.
16
P. David e G. Vicarelli (a cura di), Donne nelle professioni degli
uomini, Milano, Angeli, 1994.
17
C. Pateman, C. Il contratto sessuale, Roma, Editori Riuniti, 1997.
18
Così nel corso della settimana, la giornata lavorativa media di una
giovane donna italiana occupata è fatta di 11 ore e mezza (di cui 5 di lavoro familiare) e quella maschile di 10 ore e mezza (di cui 2 e un quarto
di lavoro familiare), Istat, Rapporto annuale 2004, cit. Sui ruoli di genere
tra le giovani generazioni, cfr. F. Sartori, La giovane coppia e C. Leccardi,
Ruoli di genere ed immagini di vita di coppia, in C. Buzzi, A. Cavalli e A.
de Lillo, Giovani del nuovo secolo, Bologna, Il Mulino, 2002.
19
Cfr. B. Ehrenreich e A.R. Hochschild, Donne globali, Milano,
Feltrinelli, 2004. Sull’immigrazione al femminile in Italia, cfr. F. Decimo, Quando emigrano le donne, Bologna, Il Mulino, 2005, e R. Salih,
Gender in Transnationalism. Home, Longing and Belonging among Moroccan Migrant Women, London, Routledge, 1993.
20
Istat, Diventare padri in Italia, Roma, 2005. Cfr. più in generale
M. Barbagli, M. Casiglioni e G. Dalla Zuanna, Fare famiglia in Italia,
Bologna, Il Mulino, 2003.
20
21
R. Gubert, La via italiana alla postmodernità. Verso una nuova architettura dei valori, Milano, Angeli, 2000.
22
M. Guadagnini, La cittadinanza politica, in Bimbi e Del Re (a
cura di), Genere e democrazia, cit.
23
Istat, La pratica religiosa, Roma, 2000.
24
Istat, I lettori in Italia, Roma, 1998.
25
Istat, I cittadini e il tempo libero, Roma, 2002.
26
P. Kirkham (a cura di), The Gendered Object, Manchester, Manchester University Press, 1996, e V. De Grazia ed E. Furlough (a cura
di), The Sex of Things, University of California Press, Berkeley, 1996. In
generale, su queste tematiche cfr. R. Sassatelli, Genere e consumi, in S.
Cavazza e E. Scarpellini, Il secolo dei consumi, Carocci, Roma, 2005.
27
Cfr. M.G. Muzzarelli e F. Tarozzi, Donne e cibo, Milano, Bruno
Mondadori, 2003.
28
C. Campbell, Shopping, Pleasure and the Sex War, in P. Falk e C.
Campbell (a cura di), The Shopping Experience, London, Sage, 1997.
29
D. Miller, Teoria dello shopping, Roma, Editori Riuniti, 1998.
30
H. Schwartz, Hearing Aids. Sweet Nothing, or an Ear for a Ear, in
Kirkham (a cura di), The Gendered Object, cit.
31
A.R. Hochschild, Per amore o per denaro. La commercializzazione
della vita intima, Bologna, Il Mulino, 2006. Su queste tematiche cfr. anche J.-C. Kaufmann, Quando l’amore comincia, Bologna, Il Mulino, 2005.
32
L. Passerini, Donne, consumi e cultura di massa, in G. Duby e M.
Perrot (a cura di), Storia delle donne in Occidente, vol. V, Novecento, a
cura di F. Thébaud, Roma-Bari, Laterza, 1992; cfr. anche P. Capuzzo
(a cura di), Genere, generazione e consumi. L’Italia degli anni sessanta,
Roma, Carocci, 2003.
33
S. Bellassai, Mascolinità, mutamento, merce, in Capuzzo (a cura
di), Genere, generazione e consumi, cit.; cfr. anche S. Bellassai e M. Malatesta (a cura di), Genere e mascolinità. Uno sguardo storico, Roma, Bulzoni, 2000.
34
Cfr. per esempio S. Nixon, Hard Looks, London, University College London Press, 1996. Più generale su genere e moda con riferimento anche al caso italiano, cfr. L. Bovone e L. Ruggerone, Che genere di
moda è, Milano, Angeli, 2006.
35
Cfr. F. Boni, Men’s Help. Sociologia dei periodici maschili, Roma,
Meltemi, 2004 e, sul panorama internazionale, P. Jackson, N. Stevenson e K. Brooks, Making Sense of Men’s Magazines, Cambridge, Polity
Press, 2001.
36
Cfr. per esempio D. Bergman (a cura di), Camp Grounds: Style
and Homosexuality, Amherst, University of Massachusetts Press, 1993.
37
Cfr. J. Entwistle, The Fashioned Body, Cambridge, Polity Press,
2000, e Id.???, Genere e perfomatività sul lavoro, in Bovone e Ruggerone, Che genere di moda è, cit.
21