n° 4 Marzo 2012 - Liceo "Zucchi"
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n° 4 Marzo 2012 - Liceo "Zucchi"
BARTOLOMEO il giornale degli studenti dello zucchi EDITORIALE VERSO IL FUTURO Caterina ha 20 anni, è laureata con 109 su 110 in Design degli interni al Politecnico di Milano e lo scorso ottobre si è vista dare della mign***a per aver inviato, indignata, un’email di protesta al direttore di Flash Art, in risposta a un annuncio che proponeva una stage senza rimborso spese e rivolto unicamente “a chi può mantenersi per parecchi mesi a Milano”. Mattia, con una laurea in Ingenieria aerospaziale, ha 27 anni e ormai da qualche anno vive e lavora in Germania, all’Esa e non ha nessunissima intenzione di tornare in Italia. Chiara studiava i vulcani all’Università di Firenze, con un contratto a tempo determinato... finchè il centro di ricerca è stato chiuso per mancanza di fondi ed è stata costretta a fare le valige per partire e cercare lavoro altrove. In Italia aveva fatto tredici concorsi in dieci anni, ma non era mai riuscita a ottenere nemmeno un posto (era sempre qualcuno più fortunato a vincere). La prima soddisfazione giunge dall’Università di Cambridge che le offre un contratto a tempo indeterminato come responsabile di un laboratorio di Microsonda. Esempi di storie simili se ne potrebbero fare a migliaia, ma l’epilogo resterebbe sempre lo stesso. Che fare allora? Flexsecurity, welfare, articolo 18, incentivi, contratto unico? Tutto questo costituisce sì la base, ma in un certo senso può anche essere considerato secondario: perchè non basta una riforma a convincere i più di 60mila espatriati a far ritorno. La battaglia che bisognerebbe condurre, prima ancora che legislativa, dovrebbe essere culturale: la mancanza di meritocrazia era e continua ad essere la più grande piaga dell’ambiente universitario (e non solo) italiano. Altrimenti il rischio, già concretizzatosi, è quello di sentirsi etichettati come “sfigati” da qualcuno (Martone) che, dall’alto della sua esperienza di 29enne, si è fatto strada fino alla cattedra di Professore ordinario a forza di raccomandazioni elargite un po’ ovunque dal papà. Dall’altra parte c’è chi come Franco la Cecla è entrato nel mondo universitario ben 35 anni fa e ne è uscito da poco, senza il minimo avanzamento, nonostante i suoi libri, le pubblicazioni, le ricerche, le conferenze; anzi, nel corso della sua carriera non ha fatto altro che scontrarsi con un paese provinciale e baronale. Da questo confronto emergono chiaramente “due Italie”: una ad alta velocità dove la strada è spianata e si possono raggiungere rapidamente le vette perchè accompagnati da cognomi importanti, posti assicurati e concorsi truccati; l’altra fatta di treni pendolari sempre in ritardo, stracolmi, senza un solo posto libero. Il risulato che si ottiene sommendo le due è quello di un paese dove la meritocrazia non è ancora di casa. ••• Nadeesha Uyangoda III A POLITICA / ATTUALITÁ DIRITTO DI PAROLA (SE VI PARE) Sette milioni di euro. Sette milioni, sette milioni. Lo stipendio di un lavoratore normale in circa vent’anni. È il finanziamento per un’opera pubblica? Sono i soldi spesi da Bill Gates per un nuovo software? Un miliardario americano ha deciso di costruirsi un intero palazzo solo in oro? No. E’ il risarcimento chiesto dalla Fiat al giornalista Rai Corrado Formigli per un servizio su un’automobile, l’Alfa Romeo Mito Quadrifoglio Verde. Il servizio, andato in onda ad Annozero nel 2010 metteva a confronto la Mito con altre due macchine, la Citroen DS3 e la Mini Cooper S, facendo notare che l’autovettura Fiat era più lenta su circuito delle altre due, distanziata dalla Mini di circa 3 secondi. La Fiat ha calcolato il danno economico subito in seguito alla pubblicazione di questi dati, e il risultato è stato la cifra indicata: sette milioni di euro. Il denaro dovrà essere risarcito dalla Rai e dallo stesso Formigli. Non mi permetto di mettere bocca sul confronto tecnico tra le automobili (a malapena riuscirò a passare il quiz teorico della patente, figurarsi!), neppure di criticare l’esito del processo, anche se giudico l’ammontare del risarcimento giusto un tantino esagerato. Tanto per citare un esempio altrettanto attuale, il barone svizzero Cartier, proprietario della Eternit, ha dovuto sborsare per la morte di ciascuna persona a Casale Monferrato, non più 16.000 euro! Mi permetto però una considerazione di carattere generale. A un giornalista può naturalmente capitare, nel corso della sua carriera, di dare un informazione sbagliata o incompleta. E’ di incompletezza che è stato tacciato il servizio di Formigli, poiché nel valutare la Mito aveva tenuto conto solo della velocità e non di altri fattori quali ad esempio la rifinitura interna dei sedili e la spaziosità del portabagagli. La Fiat non ha mai contestato, dunque, che le informazioni fornite da Formigli fossero esatte. Insomma, a un giornalista non è concesso scegliere un terreno di confronto (in questo caso la velocità), ma deve fornire una fotografia completa del prodotto industriale, mettendone in luce tutti i pregi e i difetti. A questo punto, ad Annozero avrebbero potuto mandare, al posto del servizio di Formigli, direttamente una pubblicità della Mito. Ma dove è andato a finire il diritto di critica? Dopo questa sentenza, nessun giornalista si azzarderà mai più a criticare il prodotto di una grande azienda, da qualunque punto di vista ( e lo capisco anche! Sette milioni di euro!). L’informazione deve dunque essere asservita alle necessità e ai capricci dei grandi gruppi industriali, a cui non piace che venga fatto presente al pubblico che le loro creazioni sono carenti sotto qualche aspetto? Ci riempiamo la bocca con tanti bei discorsi sulla libera concorrenza, ma d’ora in poi a un cittadino non sarà più concesso usufruire di confronti utili tra beni di consumo. Morale? In Italia chi parla male della Fiat paga. Punto. ••• Irene Doda III D ATTUALITà LA NOTIZIA CHE NON FA TENDENZA “Sono diventato reporter spinto dal bisogno di raccontare ciò che vedevo: non solo la sofferenza, ma anche l’umanità nella sua espressione più autentica” ha dichiarato in un’ intervista, rilasciata n e l n o v e m b r e 2 0 1 0 , G i o rg i o Fornoni, reporter di guerra che collabora con la trasmissione “Report”. Troppo spesso, invece, fingiamo di non vedere. I cosiddetti “conflitti dimenticati” continuano inesorabilmente a mietere vittime, lontani dalle telecamere e nell’indifferenza di tutti. Solo in Africa, negli ultimi dieci anni, ci sono state 32 guerre e attualmente, in 19 dei 53 stati africani sono in corso dei combattimenti. La Somalia, per esempio, è dal 1991 teatro di un conflitto le cui radici si perdono nel periodo coloniale. Ben poco abbiamo saputo a proposito della Costa D’Avorio che, a partire dalle elezioni del novembre 2010, è sconvolta da una sanguinosa guerra civile scoppiata in seguito al tentato colpo di stato di Gbagbo, leader della minoranza; nonostante la cacciata del dittatore, ancora lontana ed irraggiungibile sembra la via per una totale riconciliazione. Solo il terremoto del 2010 con i suoi esiti catastrofici è riuscito ad attirare l’attenzione su Haiti e la sua drammatica situazione, così come nel 2004 è servito uno tsunami per costringere il mondo ad accorgersi che in Sri Lanka era in corso una guerra che aveva causato decine di migliaia di morti e per la quale ogni tentativo di pace era risultato vano. Ed è solo a causa di un altro tsunami che sulla mappa della stampa internazionale è comparso un luogo chiamato Acei, in Indonesia, dove si contano 90mila morti in un conflitto tra etnie diverse. Infine nel 2006 c’è voluto un re dittatore, umiliato dal suo popolo in rivolta, perché i mass media si interessassero di una guerriglia sanguinosa in corso sul tetto del mondo, in Nepal. “La lista è lunga” scrive la redazione di Rete Radié Resch, un’associazione di solidarietà internazionale; “eppure molte volte questi conflitti sono il risultato delle scelte compiute dai colonizzatori occidentali, da inglesi, olandesi, portoghesi, americani, che impongono ad altri paesi condizioni di vita innaturali e situazioni politicoeconomiche impossibili da gestire.” Allo stesso modo continua ad allungarsi la lista delle crisi dimenticate dai media occidentali: fame, malattie e povertà seminano silenziosamente, ma inesorabilmente, morte e disperazione in varie parti del mondo. Nel 2005 l’associazione “Medici senza frontiere”, premio Nobel per la pace nel 1999, ha dato origine al progetto “Crisi dimenticate” che si occupa di stilare la top 10 delle situazioni e delle tematiche accantonate da porre all’attenzione dei più importanti mezzi d’informazione, perché, come si legge sull’home page del sito di MSF, “il primo passo per affrontare un problema è riconoscerlo, renderlo visibile e spiegarlo.” Molti media da allora si sono mobilitati, infatti tanti sono i giornalisti che hanno partecipato all’azione “Adotta una crisi dimenticata” e la campagna di sensibilizzazione ha coinvolto anche diverse scuole e licei, tra i quali il nostro che ormai da qualche anno ospita i volontari dell’associazione. “Chiediamo ai media di continuare ad “accendere i riflettori” proprio sui paesi in difficoltà, perché l’oblio dei mezzi di informazione rende invisibile la sofferenza di intere popolazioni e ostacola ulteriormente l’avvio di possibili soluzioni a questi drammi” ha chiesto Kostas Moschochoritis, presidente di MSF Italia. Quindi, ci resta una sola cosa da fare: accendiamo i nostri riflettori, non dimentichiamo! ••• Beatrice Mosca, III C Claudia Pizzagalli, III C CARO ZUCCHI... LO ZUCCHI... TRE ANNI DOPO Un’emozione. Di quelle che si attaccano allo stomaco e ti salgono dentro, si irradiano. Vogliono prendere forma, e diventano parole. Come qualche anno fa mi ritrovo qui a scrivere per il mio Bartolomeo, con l’intento di lasciare tra le pagine una piccola parte di me. E’ bastato poco, un dettaglio, una fotografia, un ricordo: ed ecco innescata la pulsione a scrivere. Pulsione e passione che ho ritrovato più forti di prima, perché io sono più forte di prima. Non è l’Università, non sono i tre anni in più, non è nemmeno il fatto che studi Psicologia. E’ che lo Zucchi è una palestra di vita, e ti insegna a combattere, a non mollare. Se sono arrivata a questo punto, se ci sono arrivata così, lo devo anche a Lui. Mi sento, perciò, di ringraziare i miei insegnanti che, se mai leggeranno queste quattro parole, forse si riconosceranno. E magari scapperà loro un sorriso intenerito o una risata divertita, una smorfia, magari rimarranno indifferenti, o forse si lasceranno prendere dai ricordi legati a quella IV G a.s. 2004-2005. Non importa la loro reazione, io li ringrazio tutti. Ringrazio chi ha avuto fiducia in me. Chi mi ha supportato nei momenti di sconforto e sopportato in quelli di rabbia. Chi ci ha lasciato troppo presto. Ringrazio chi mi ha fatto sorridere per una battuta, chi mi ha coinvolto al punto di dimenticare che fossi in classe. E ringrazio, in generale, tutte le persone che hanno fatto parte della mia vita accompagnandomi nel mio percorso, fino ad oggi. Un grazie quindi a chi ha creduto in me, ma soprattutto a chi non lo ha fatto, perché se sono diventata quella che sono, lo devo soprattutto a loro. E grazie anche a voi, ragazzi, che mi state concedendo questo vostro spazio che è stato anche mio, e che per un secondo torna a esserlo. “Una vita da mediano lavorando come Oriali anni di fatica e botte e vinci casomai i mondiali.. Lì,sempre lì lì nel mezzo finché ce n'hai stai lì stai lì..” Ligabue, Una vita da mediano Ero una liceale sognatrice ed ora sono un’universitaria sognatrice: in questo lo Zucchi non mi ha cambiato. ••• Le soddisfazioni all’Università si affiancano ancora ai miei sogni, quelli che mi hanno permesso e tuttora mi consentono di andare avanti, di non mollare mai. Avevo undici anni quando ho deciso che la Psicologia sarebbe stata la mia strada e la scrittura il mio eterno amore. E a pochi mesi dal primo traguardo, la laurea triennale, mi sono fermata a fare un bilancio del mio passato, e sono riaffiorati i ricordi, che custodisco intimamente, e tengo per me. Ho fatto nuove considerazioni riguardo ad alcune cose, e finalmente ne rido e sorrido. 0ra mi rivolgo a voi che siete oggi quello che io sono stata ieri, e forse sarò banale. Ma vi dico con il cuore queste parole, le scrivo perché le sento. Fate tesoro di ogni cosa vi capiti in questi cinque anni, positiva, negativa, non importa. Vi ritroverete anche voi alle porte della laurea a ringraziare ogni singola persona, ogni singolo avvenimento, perché vi avrà resi più forti, magari migliori, di certo non peggiori. Ciao Zucchi, e grazie ancora. Questo è un arrivederci, non un addio. Giuliana Genovese (ex III G, a.s. 2008-2009) PIANETA ZUCCHI PARLIAMO DI … DIDATTICA ALTERNATIVA Come voi tutti ben sapete, tra il 6 e l’8 febbraio si è svolta la didattica alternativa. Mi propongo, con questo articolo, di tirarne le somme dal punto di vista di noi studenti, grazie alle opinioni dei rappresentanti degli studenti in consiglio di istituto (Luca Busetto, Matteo Buttà, Lorenzo Confalonieri e Chiara Bolognini), di una zucchina che si è offerta di raccontare come lei ha vissuto questi tre giorni, Clarice Brambilla di V D, e infine di Yuri Galbiati, ex-zucchino (e non uno qualunque: come probabilmente molti di voi ricordano, era rappresentante in consiglio di istituto l’anno scorso) che ha partecipato all’iniziativa in qualità di esterno. Innanzitutto sia Luca sia Lorenzo sia Chiara hanno voluto sottolineare il basso tasso di assenze registrato durante l’iniziativa, il quale dovrebbe aggirarsi attorno al 9%. Questo dovrebbe già figurare tra i pregi delle attività proposte: pare che molti abbiano pensato che valesse la pena di venire a scuola in quei giorni, piuttosto che approfittarne per andare a sciare o alle terme, o, che so io, per dormire tutta la mattina. Lorenzo, che ha avuto l’occasione di girare per le varie aule facendo assistenza tecnica, ha rilevato: “collaborazione per organizzare, comunicazione funzionante, quasi nessun casino strano”, insomma, le condizioni perché si potesse svolgere, secondo le sue parole, “una delle migliori cogestioni mai fatte”. Anche Chiara si unisce al coro di voci soddisfatte e propositive : “È stato gratificante per tutti noi prendere parte ad un progetto tanto ben riuscito e abbiamo collaborato con ragazze e ragazzi davvero organizzati e creativi. Penso che alla base di qualsiasi attività di questo genere ci stia l'impegno di ogni singola componente e quest'anno così è avvenuto: ragazzi propositivi e docenti disponibili. Auguro agli zucchini (soprattutto ai più piccoli, che si sono dimostrati preziosi nella progettazione) di continuare così, rendendo sempre più la didattica alternativa un momento di condivisione e arricchimento”. Luca e Matteo, tra i responsabili rispettivamente della maratona di pallavolo e del flash mob, si sono dichiarati pienamente contenti di tali attività. E queste, effettivamente, ritrovano un apprezzamento anche nelle parole di Clarice, che, riguardo alla maratona di pallavolo, mi racconta: “È stata un'attività nuova, e mi è piaciuta molto perché è stato tutto molto veloce, non c'erano tempi morti. Anzi, devo ammettere di essere stata presa un po' alla sprovvista, perché non mi immaginavo che tutti gli zucchini sarebbero stati così bravi a pallavolo, e devo ammettere che il livello era molto alto! Ciò ha permesso che il gioco fosse sempre vivo e, ripeto, veloce. Abbiamo giocato almeno tre partite, e sebbene io non fossi bravissima, mi hanno fatta entrare in campo più volte, in ogni partita”. Alcune sue compagne hanno partecipato al flash mob, e tutte si sono divertite. Nell’opinione di Clarice le attività sportive figurano proprio tra i maggiori pregi di questa didattica alternativa 2012, tanto che afferma:“Penso che quest'anno sia stata migliore dell'anno scorso, forse perché probabilmente io stessa ho scelto attività migliori, ma anche perché ho notato che c'erano due attività sportive, che l'anno scorso non mi sembra ci siano state, e questo è un punto a favore della didattica! Perché siamo già costretti ai banchi tutto l'anno, almeno i giorni della didattica possiamo muoverci un po' !”. Nei prossimi anni sarebbe quindi opportuno potenziare questo aspetto. In relazione ai film/cineforum e simili, che negli ultimi anni non erano stati motivo di grande soddisfazione, questa volta sono riusciti meglio, se non altro per la qualità più strettamente tecniche. Mi riferisco all’audio e alla sistemazione degli spettatori. Infatti Clarice, che ha assistito alla proiezione dei film di Woody Allen (l’iniziativa era “ Wo o d y A l l e n . P e n s a r e cinematografico, pensare geografico. Manhattan”) afferma: “l'iniziativa di per sè stata bella, l'audio non era male, e il film si vedeva bene: questo ha contribuito a mantenere un'alta attenzione generale.” E ora veniamo alle parole di Yuri (organizzatore della sopraindicata attività su Manhattan), che , riguardo al suo cineforum, osserva che, nonostante una gran fatica, è stato possibile creare anche un minimo di dibattito in cui confidava. In generale, oltre a lodare le capacità logistiche della prof. Magni (la vicepreside) e di tutti gli altri professori coinvolti, afferma: “ Credo che non ci si possa lamentare delle proposte, le delusioni esprimibili possono esser date dal fatto che le preferenze espresse non siano state soddisfatte causa non-coincidenza d'orari nel corso dei tre giorni”. Inoltre mi confida l’intenzione di partecipare anche alla didattica alternativa del prossimo anno – esami permettendo: “ Mi piacerebbe tenere un'aula, però più legata a ciò che sto studiando in università, che sono le scienze umane per l'ambiente, e in generale le problematiche legate alle politiche ambientali, all'impatto economico e demografico della globalizzazione ecc.” . Tutto sommato pare proprio che la didattica alternativa, ogni anno che passa, si migliori un po’ di più, e tanti imparano a convincersi del suo valore, senza condannarla a prescindere. E, pur essendo stata questa la mia ultima ufficiale didattica alternativa da zucchina, sono spinta a credere che forse non sarà l’ultima in assoluto, perché può darsi che troverò il modo di contribuirvi da esterna anche l’anno prossimo. ••• Irene Pronestì III D RIFLESSIONI ZUCCHINE vertigo “Io domani non mi sposo. Non se ne parla, sarò anche buono, ma non sono fesso. Non posso cascarci un’altra volta. Non è che non la ami, questo voglio metterlo in chiaro… è lei che va avanti là dove i miei dubbi mi fermano, è lei che mi dà la sensazione di essere ancora utile a qualcuno, è lei che mi vieta di andare totalmente a pezzi. Lei è la logica conclusione di tutto; o, forse, solo una delle tante logiche conclusioni su cui ho costruito la mia vita. Sono nato, sono cresciuto senza dare troppe preoccupazioni ai miei genitori, sono andato a scuola. Asilo, elementari, medie; poi è arrivato il momento di scegliere, e io sapevo di essere libero, sentivo di poter scegliere per davvero. I miei mi hanno sempre incoraggiato, mi ripetevano ‘Fa’ quello che vuoi’ con una sincerità che non poteva che riempirmi di gratitudine. Anche io volevo essere così, schietto, entusiasta, volevo seguire le orme di mio padre e dei miei fratelli e diventare il quarto uomo eccezionale della mia famiglia. Scelsi di frequentare anche io il liceo artistico, ero bravo e soddisfatto di quello che facevo. Trascorsi cinque anni pieni di successi, poi arrivò di nuovo il momento di scegliere. Per la seconda volta avanzai a passi sicuri, per cinque anni avevo dato il meglio di me e a quel punto il mondo si aspettava solo che andassi avanti così. Io ero pronto ad accontentarlo, anzi, non vedevo l’ora di farlo, ma in quel momento accadde qualcosa che avrebbe per sempre posto un freno dolcissimo alle mie energie. Durante la mia prima mostra personale (una cosa veramente modesta, non c’era niente oltre a due tele importanti e qualche disegno su cartoncino) una ragazza – sì, era lei mi avvicinò e disse che era contenta di conoscermi. Non potei fare a meno di notare come il suo sorriso timido e stanco fosse fuori posto rispetto al cartoncino di fronte al quale ci eravamo fermati. Mi feriva tutta quella cordialità di fronte al mio forno crematorio a forma di castello, così le diedi ad intendere che volevo sapere che cosa ne pensava. A quel punto smise di ignorare la pesante carta ocra, frustata dalle linee secche e fumose del carboncino, e prese a dire che ad essere onesta non le piaceva, lo trovava grezzo e disturbante, ma si trattava inequivocabilmente di arte e, in quanto tale, meritava di essere preso in considerazione. Le sarebbe piaciuto essere lei stessa un’artista e non doversi limitare a commentare il lavoro degli altri, ma non poteva farci niente. Era già tanto se riusciva a scrivere il suo nome in stampatello senza aiutarsi con un righello, figuriamoci disegnare, scolpire, dipingere. Credetti di aver appena incontrato una pacifica detrattrice del mio lavoro e me ne innamorai. Da allora siamo sempre rimasti l’uno a fianco dell’altra. Lei mi incoraggia quando realizzo qualcosa di grande e mi sa demolire quando sbaglio il colpo; io, per parte mia, faccio di lei una presenza costantemente necessaria e ripongo in lei la mia fiducia, il bene più fragile e prezioso per entrambi. Fino a stasera ero convinto che a questo paradosso si potesse dare il nome di “amore”; ora, però, non riesco a togliermi dalla testa l’immagine di quell’incontro e mi sento mancare la terra sotto ai piedi. Se potessi, interromperei tutto e farei dono di questo dubbio nauseante, invece che di tutta quell’incontrastata fiducia. Il fatto è che non vedo perché dovrei sposarmi. Che cosa sarò, una volta sposato? Non ho obiettivi, non ho scadenze entro le quali avrò la certezza di essere diventato qualcosa. Non dovrò scegliere, non ci sarà nessuno ad aspettare che io diventi un artista, un pittore. Certo, potrei improvvisarmi marito o addirittura padre, ma sarebbe l’ennesima logica conclusione, e un matrimonio non dovrebbe essere qualcosa di conclusivo. Ma non è stata la mia vita intera una sorta di continua conclusione? Il conforto di aver bruciato una serie di tappe che, per fortuna, si sono rivelate quelle “giuste”? Mi chiedo se io e lei ci siamo mai amati per davvero, o se invece lei mi abbia voluto accanto perché rappresentavo le scelte che la vita –o lei stessa- le aveva negato. Mi chiedo che cosa sia lei per me, se non l’inconscia necessità di tenere sempre presente questo dubbio, cioè che non sono poi così sicuro che la libertà esista. Forse quell’orribile forno crematorio a forma di castello non è che non le piacesse, ma non lo capiva, e io mi illusi di essermi innamorato di lei solo perché potevo esercitare la mia vanità, a cui lei era disposta ad asservirsi e che, per la prima volta in vita sua, aveva scelto. È questa, dunque, la libertà? Per tutta la vita io sono stato libero solo nella misura in cui ho potuto eleggere il mio padrone? Che si trattasse delle orme di mio padre, dell’arte, della vanità tirannica nei suoi confronti; forse è per questo che non voglio essere né un marito, né un padre: finalmente sono io il padrone, finalmente ho in mano la mia libertà, eppure non so come viverla. Non so nemmeno se sento finalmente di non essere più cieco o se invece vorrei esserlo, perché tutto questo mi fa orrore. Non so se accettarlo o aspettare che sia lei a raggiungermi. Io domani non mi sposo.”. ••• Eva Casini III B RIFLESSIONI ZUCCHINE IL GIGANTE INGORDO Quella che seguirà non vuole essere la fiaba del bene contro il male o viceversa. Non vuole nemmeno lasciare a tutti i costi una morale che in fin dei conti apparirebbe retorica. Questa storia è una sorta di avvertimento: essa mette in luce un personaggio che potrebbe rispecchiare ognuno di noi. Però questo sta a voi stabilirlo, io mi limiterò a raccontare... C'era una volta, in un paese sperduto sopra i colli, un gigante uomo e un gigante donna che ebbero un figlio, decisamente brutto. Brutto proprio d'aspetto. Dovete sapere che è molto raro che i giganti siano brutti. Sono sì grandi in maniera esorbitante, ma non brutti. Nonostante lo sbalordimento e l'imbarazzo iniziale, l'amore dei genitori andava oltre l'aspetto fisico. Gli anni passarono e il gigante bimbo cresceva, sempre più brutto. Ma il paese, che a dire il vero era una cittadella di poco più di sessanta abitanti, voleva bene al piccolo, il quale non era mai stato oggetto di burla. Insomma, la sua bruttezza, benchè singolare, non rappresentava un problema per nessuno: erano tutti molto felici. Un giorno la mamma del gigante brutto, mentre stava preparando una torta, fu colpita da un bagliore improvviso e nella sua cucina apparve il classico folletto. “Ci risiamo” disse mamma gigante “ è uno di quei personaggi che si sono inventati gli esseri umani e ora me l'hanno mandato qui! Magari per farmi credere che ho le traveggole!” Ma il folletto con aria spaventata, come ad annunciare un presagio di morte, puntò il dito in direzione della torta e disse: “Bada, se tuo figlio mangerà più di una fetta di una torta, accadrà qualcosa di terribilmente incolmabile!” E subito dopo sparì. Anche papà gigante e il figlio avevano assistito alla scena e i genitori, scombussolati, non seppero proferire parola soprattutto quando, il mattino seguente, scorsero sul colle più alto della cittadella una torre mai vista prima. Ben presto il paese fu travolto da un trasecolamento generale ma i genitori del gigante brutto scelsero di non dire niente e furono sempre più convinti di questa decisione quando si venne a sapere che in cima a quella torre, su un tavolo apparecchiato per uno, c'era una torta. Diversi anni dopo, quando ormai mamma e papà gigante erano scomparsi, il gigante brutto si era fatto adulto e sempre più brutto. Si ricordava vagamente (o forse non voleva ricordarsi) di ciò che era avvenuto anni or sono: infatti, quando accadde il fatto lui era molto piccolo ed inoltre i genitori, per far sì che per tutta la vita non mangiasse torte gli avevano fatto credere di avere un'allergia ai dolci...! Intanto quella torre era sempre rimasta, ma col passare degli anni nessuno più ci aveva fatto caso ed era diventata parte del paesaggio della cittadella. Il gigante brutto aveva molti amici e passava con loro ore felici. Un giorno decisero di fare una lunga passeggiata verso i colli, sino a che giunsero a pochi passi dalla fatidica torre. Nessuno mostrava segno d'interesse, anzi sembravano quasi non vederla e, mentre tutti si stendevano sull'erba per una sosta, l'unico inquieto era il gigante brutto. Questi era come richiamato da una forza inspiegabile e decise che doveva entrare in quella torre. “Va bene” dissero ridendo gli amici “ poi sappici dire se ci sono i fantasmi!” L'ingresso della torre presentava una scala a chiocciola che conduceva in alto, sempre più in alto, sino ad arrivare in cima dove vi era una stanza. In quella stanza vi era ciò che era stato detto tanti anni prima, ma il gigante non lo aveva mai saputo perché i genitori glielo avevano nascosto. Il gigante brutto era in uno stato di confusione assoluta: non sapeva più se la storia dell'allergia fosse vera, e intanto gli tornavano in mente le parole di quel folletto: “....più di una fetta...” Pensò che se avesse mangiato solo una fetta, secondo le parole del folletto, non sarebbe successo niente e, per quanto riguardava l'allergia, per una sola fetta non sarebbe stato poi così male...! La torta era divisa in tante piccole fette e il gigante brutto decise di iniziare a mangiarla. Ma dopo una fetta, ne voleva un'altra e poi un'altra ancora ,e nella foga di mangiare sentiva un mutamento a livello corporeo e un misto di urla provenienti da fuori. Ma la torta si sgretolava rumorosamente nella sua bocca e quasi non sentiva nemmeno se stesso. Finita tutta la torta sentì un grande silenzio tutt'attorno. Notò che nella stanza c'era uno specchio e quando vide la propria immagine riflessa quasi non si riconosceva: era diventato bellissimo. Di corsa scese le scale per raccontare agli amici del prodigioso avvenimento, ma quando uscì nel giardino per andare loro incontro si accorse che non c'era nessuno. Li cercò affannosamente sino ad arrivare in città. Appena vi giunse, vide che le strade erano vuote e fu colto dal panico poiché si ricordò le parole del folletto: “... accadrà qualcosa di terribilmente incolmabile!” Si rese conto di essere rimasto solo con la sua incolmabile bellezza. ••• Alice Pennino ID RIFLESSIONI ZUCCHINE IL disinteresse della scuola “Sia genitori sia insegnanti mi esortavano a studiare. E io studiavo, provando una noia mortale, con l’attenzione corrotta dal dubbio che stessi lavorando inutilmente […]. Le pagine erano disanimate, straniere, mi avvicinavo a loro con l’urgenza di altri pensieri insieme al senso di colpa per il fatto di averne. […] A me non interessava più nulla di quel che veniva detto a scuola. Erano discorsi di cui vedevo immediatamente l’inutilità, la contraddizione. Mi sembravano linguaggi parlati da estranei e non certo rivolti a me. E a nessun insegnante sembrava importasse qualcosa di queste mie sensazioni. […] …solo giudici, tante persone che avevano capito tutto e sapevano proprio tutto. Ma tutto cosa?’’ “Il disinteresse della scuola” è un c a p i t o l o d e l l i b r o “ L’ o s p i t e inquietante – il nichilismo e i giovani” del filosofo e psicoanalista Umberto Galimberti, che qui ho inteso illustrare. Disinteresse dei giovani verso la scuola, ma soprattutto disinteresse della scuola verso le problematiche giovanili, che sono ben più profonde di ciò che appare in superficie (alcool e droga gli esempi più eclatanti). Problemi che sono di ordine culturale oltre che psicologico. Il nichilismo è “l’ospite inquietante” che dilaga nella nostra società; società che impone ritmi di crescita superiori ai giovani rispetto al passato, senza saper dare loro il giusto sostegno. Ma per una lettura più ampia di tali problematiche vi rimando al libro sopra citato. Qui mi limiterò a (tentare di) illustrare il capitolo dedicato esclusivamente alla scuola. Il mio intento è quello di ampliare le vedute sulla scuola, che non è metro assoluto per le qualità di uno studente e che non è certo un sistema perfetto, e di ‘dare sollievo’ a quegli studenti (e credo tutti, chi più chi meno) che a volte hanno difficoltà a comprendere il proprio rapporto con la scuola. “La scuola ha a che fare con quella fase precaria dell’esistenza che è l’adolescenza, dove l’identità appena abbozzata non si gioca come nell’adulto tra ciò che si è e la paura di perdere ciò che si è, ma nel divario ben più drammatico tra il non sapere chi si è e la paura di non riuscire a essere chi si sogna.” In tale divario, scrive Galimberti, si gioca la costruzione dell’identità, del ‘concetto di sé’, che per costruirsi ha bisogno di passare attraverso i meccanismi dell’autostima, ‘considerazione positiva di sé’, e dell’autoaccettazione, ‘accoglimento del negativo’. Ma già su questo punto la scuola è spesso incapace di sostenere un’adeguata crescita: “L’autostima dello studente è scambiata spesso per presunzione, e l’autoaccettazione come un esplicito riconoscimento da parte dello studente di non valere un granché. Se poi è lo stesso studente a esser convinto di valere poco, il professore si sente assolutamente assolto nel suo ribadire, con voti e giudizi negativi, quel nulla che lo studente avverte già per conto suo dentro di sé” E dunque, quanti professori si saranno mai dati pensiero dell’autostima degli studenti? Ben pochi, secondo Galimberti. L’identità si costruisce a partire dal riconoscimento da parte dell’altro e “se il riconoscimento manca, come manca sempre a chi va male a scuola, l’identità, che è un bisogno assoluto per ciascuno di noi, si costruisce altrove, in tutti quei luoghi, scuola esclusa, dove è possibile ottenere riconoscimenti”. L’adolescenza è fra le fasi della vita la più colma di desideri, sogni, speranze. Tali desideri si scontrano spesso, tuttavia, con la realtà. Da questo scontro, e in reazione ad esso, possono scaturire due atteggiamenti: rimozione e frustrazione. La rimozione è ‘fuga dalla realtà’, che si traduce agli occhi del professore quale ‘distrazione’. La rimozione è uno ‘sfogo’ alla forza del desiderio che si oppone alla realtà, senza di essa il desiderio esploderebbe incontrollato nella realtà. La frustrazione è invece uno stato d’animo utile, in determinate dosi, alla crescita, ma che in eccesso porta a spostare altrove la ricerca del riconoscimento, senza il quale non si costruisce alcuna identità. Tale spostamento non è altro che ‘divertimento’ e cioè di-versione dalla realtà. Ma il ‘divertimento’ non è vera gioia, “la gioia è innanzitutto gioia di sé, quindi identità riconosciuta, realtà accettata, frustrazione superata, rimozione ridotta al minimo”. A tutto questo la scuola non provvede e di tutto ciò non tiene conto, perché alla base della scuola, afferma Galimberti, c’è il principio, se non esplicitamente dichiarato quanto meno implicitamente accettato, che l’educazione è un derivato necessario dell’istruzione. Ma è tutt’al più il contrario: “E’ se mai l’istruzione un evento possibile a educazione avvenuta. E l’educazione non è fatta solo di buone maniere, ma è una lenta acquisizione, attraverso riconoscimenti della gioia di sé”. E nell’invertire tale rapporto la scuola ha sviluppato una tendenza all’oggettivazione, causa prima della demotivazione scolastica, che è l’equivalente nel campo ospedaliero di quel processo “che porta i medici a considerare i pazienti solo come organismi”. SEGUE A PAGINA 8 RIFLESSIONI ZUCCHINE SEGUE DA PAGINA 7 che porta i professori a giudicare i loro studenti in base al profitto, […] risolvendo l’educazione in un puro fatto quantitativo”. E si sprona allo studio attraverso espressioni semplicistiche riconducibili al ‘mito della buona volontà’ (una su tutte ‘dovrebbe impegnarsi di più…’), senza tenere in conto “ che la volontà non esiste al di fuori dell’interesse, che l’interesse non esiste separato da un legame emotivo, che il legame emotivo non si costruisce quando il rapporto tra professore e studente è un rapporto di reciproca diffidenza, se non addirittura di assoluta incomprensione”. E dunque, la scuola, attraverso le interrogazioni, misura il ‘profitto’, che in realtà è l’ultimo anello di una catena composta da sollecitazione emotiva, interesse, volontà, e che è, dunque, la naturale conseguenza di “premesse che la scuola ha evitato di curare”. Vi propongo, in ultimo, quasi per intero, un paragrafo, il sesto, che mi è sembrato particolarmente significativo ed incisivo: “Questi sono i problemi della scuola, problemi che si possono risolvere solo con la formazione, e non solo la preparazione, di professori che abbiano come tensione della loro vita la cura dei giovani. E come non si può fare i corazzieri se si è alti un metro e cinquanta, cominciamo a chiederci perché si può insegnare per il solo fatto di possedere una laurea, senza alcuna richiesta in ordine alla competenza psicologica, alla capacità di comunicazione, al carisma. Sì, proprio il carisma. Tutti abbiamo conosciuto almeno un professore che è stato decisivo nelle nostre scelte di vita. Perché questa possibilità è sempre più ridotta per i giovani di oggi, quando la psicologia ci insegna che i processi di identificazione con gli adulti, le cariche emozionali che su di loro vengono convogliate sono le prime condizioni per la costruzione di un concetto di sé così necessario per non brancolare nell’oscillazione dell’indeterminatezza? La mancanza di formazione personale, infatti, se non porta gli adolescenti al suicidio, li porta spesso là dove si spaccia musica, alcol e droga, in quella deriva dell’esistere che è poi quell’assistere allo scorrere della vita in terza persona senza esserne granché coinvolti, in ritmi sempre più estremi ed estranei. Per cui, in certo modo, ci si sente stranieri nella propria vita, in quell’insipido trascorrere di giorni, dove equivalente diventa esserci o non esserci, senza che alcun gradiente faccia apparire la vita preferibile al suo nulla […] A queste forme di disagio si è soliti rispondere con quell’elenco di riforme dove ciò che si prospetta sono autonomie gestionali, rivalutazione della figura del preside, accorpamenti di indirizzi di studio, ecc. L’unico fattore trascurato è il frequente disinteresse emotivo e intellettuale dell’insegnante, con trasmissione diretta allo studente, che tra i banchi di scuola finisce per trovare solo quanto di più lontano e astratto c’è in ordine alla sua vita, in quella calda stagione dove il sapere non riesce, per difetto si trasmissione, a divenire nutrimento della passione e suo percorso futuro.” Scusate per la lunghezza dell’articolo, ma mi pareva quanto meno conveniente esporre queste riflessioni all’interno di un giornalino scolastico. Se avete avuto l’incredibile pazienza di giungere fin qui, vi ringrazio, e spero ne abbiate ricavato motivi per riflettere. ••• Michele Vitobello III B MUSICA SANREMO IN 10 PUNTI Ovvero: quello che ci ha segnati di questo Festival e che non dimenticheremo facilmente … Anche quest’anno minaccioso è arrivato il Festival di Sanremo, una nemesi per il popolo italiano, che è rimasto impegnato cinque serate, della durata di quattro ore ciascuna, a non perdere il sorriso di fronte alla tristezza di un evento tradizionale che sembrava non finire mai. Cosa di queste cinque serate ha colpito nel profondo il pubblico italiano? 1. L o r e d a n a B e r t è e G i g i D’Alessio: il duetto più improbabile che la televisione italiana abbia mai visto. Superato lo shock provocato dalla figura di Loredana, uno strano incrocio al femminile tra Mickey Rourke e Marilyn Manson, nonché lo sgomento al sentire le sue straordinarie doti vocali, ci si può dedicare all’ascolto della canzone che non risulta essere la peggiore in gara, almeno provoca ilarità. 2. G i a n n i Morandi: semplicemente patetico, il pubblico la prima serata lo ha accolto acclamando il suo nome con un tale entusiasmo che deve essersi montato la testa. Si atteggiava come un ventenne: d’altra parte i capelli di quel castano vivace possono trarre in inganno, inconsapevole di risultare ridicolo, e cercava di mettere in scena gag tutt’altro che divertenti con chiunque salisse sul palco. 3. Adriano Celentano, colpito da una gravissima forma di delirio di onnipotenza, ha tenuto un’orazione politica che avrebbe lasciato senza parole anche Cicerone… per la noia e la fatica a seguirne i discorsi. 4. Geppi Cucciari: per fortuna c’è stata lei a rallegrare l’atmosfera della serata finale durata la bellezza di cinque ore! Simpatica e spontanea, come sempre, si è presa gioco di tutto quello che ha reso questo Festival tristemente indimenticabile, dal lessico colorito del presentatore all’interminabile monologo di Celentano, che ha messo a dura prova chiunque. Non sempre però Morandi sembrava coglierne l’ironia. 5. Shaggy, noto ai più per il tormentone Boombastic, ha accompagnato Chiara Civello nella serata dedicata alla celebrazione della canzone italiana, purtroppo non era stato avvisato che Sanremo è una competizione canora di un certo calibro, per cui si è presentato indossando un pigiama. Per non parlare della sua totale incapacità di cantare. 6. Emma, la vincitrice, ennesimo prodotto di Amici di Maria De Filippi a calcare il palco dell’Ariston, ha senza dubbio talento, ma poteva rinunciare alla canzone di stampo politico che non le si addice affatto. 7. Arisa, il brutto anatroccolo un po’ impacciato dell’edizione del 2009, è diventata una donna capace di mostrare tutte le sue doti vocali: meritava la vittoria. 8. Noemi: la sirenetta a Sanremo! Capelli rosso fuoco e abito da sera blu non verranno facilmente dimenticati dal pubblico, la canzone, invece, lunga, pesante e noiosa è già caduta nel dimenticatoio. 9. Il numero d’apertura della serata finale deve essere interpretato, io ancora non sono riuscita a farlo: cosa centrano tutte le coppie impegnate in effusioni d’amore con il festival della canzone italiana? 10. Ivanka Mrazova, una modella ceca, e le fiere Elisabetta Canalis e Belen Rodriguez, la cui utilità sul palco ai fini della conduzione è ancora da chiarire, non hanno fatto altro che mostrare quale sembra essere il ruolo della donna in televisione, purtroppo. Non occorre spendere troppe parole a trattare di tatuaggi e biancheria. Insomma, se gli italiani sono riusciti a sopravvivere a questo festival, il 21 dicembre 2012 sarà un gioco da ragazzi... ••• Elisa Tonussi II D MUSICA “DIMENTICHIAMOCI DI COME HANNO VISSUTO E CONSERVIAMO LA LORO VOCE” New Jersey, anni ’70. Michael Zager, leader di una band chiamata Michael’s Zager Band, nota nel coro di un locale di Newark una voce in particolare. Calda, limpida, pulita ma profonda e molto estesa. E’ la voce di una ragazzina di soli 14 anni che si diverte ad accompagnare la madre Emily al lavoro. Quest’ultima infatti è da tempo cantante nel gruppo soul “Sweet Inspiration”, che ha anche fornito voci supporto per Elvis Presley e Aretha Franklin. Dopo aver partecipato alla registrazione del brano di Zager “Life’s a party” come cantante di sostegno, Whitney riceve l’offerta di un contratto discografico che è costretta a rifiutare, perché Emily vuole che sua figlia si occupi prima di tutto degli studi scolastici. Nei primi anni ’80 comincia a lavorare come modella ma presto decide insieme ai suoi genitori di intraprendere la carriera musicale, in quanto aveva già mostrato in precedenza di possedere abilità vocali fuori dal comune. Nel 1983, dopo aver firmato un contratto con la casa discografica “Tara Production” diventa una delle prime donne di colore ad aggiudicarsi le copertine di riviste come Vogue, Cosmopolitan e Glamour. Nel 1984 registra il singolo “Hold me” con Teddy Pendergrass, noto compositore, costituendo il primo grande trionfo. Sale il primo gradino per il successo nell’85, pubblicando l’album intitolato “Whitney Houston”, che si inserisce direttamente al primo posto nella classifica americana degli album più venduti, restandovi per quattordici settimane ed entrando nel Guinness dei Primati come l’album più venduto di un’artista esordiente (con quasi 29 milioni di copie). Nel 1987 torna con la raccolta “Whitney”, con la quale riafferma le proprie capacità. Nel 1988 incide “One moment in time” che diventa l’inno delle Olimpiadi di Seoul. Nel 1990 pubblica il suo terzo album, “I’m Your Baby Tonight” e l’anno successivo un singolo che riprende l’inno americano e che canta alle truppe americane di ritorno dalla guerra del Golfo. Nel ’92 debutta al cinema con il film “La guardia del corpo”, nel quale è coprotagonista. Il brano portante della colonna sonora è “I Will Always Love You”, cover di un pezzo di Dolly Parton, che ottiene un successo planetario mai raggiunto prima. Per qualche anno si impegna nel cinema, fino a quando, nel 1998, esce il quarto album, “My Love Is Your Love”. Questo contiene il duetto con Mariah Carey intitolato “When You Believe”, che diventa parte della colonna sonora del cartone della DreamWorks “Il principe d’Egitto”, vincendo l’Oscar come migliore canzone originale. Nel 2000 esce la raccolta “Greatest Hits”, che contiene un brano registrato con George Michael e uno con Enrique Iglesias. L’album vende 8 milioni di copie e diventa uno dei 20 più venduti in Inghilterra. Dopo l’uscita della quinto album, “Just Whitney “, decide di lanciare un album natalizio intitolato “One Wish: The Holiday Album” insieme ad altri artisti tra i quali Mariah Carey, Barbra Streisand e Celine Dion. Dal 2004 al 2006 la carriera di Whitney subisce uno “stop” a causa di problemi familiari che si risolvono nel settembre 2006, quando la cantante decide di divorziare dal marito Bobby Brown, dal quale era stata picchiata e che più volte era stato denunciato per droga e alcool. Una tappa importante del suo “viaggio” è Piazza Castello di Torino, dove si esibisce per i XX Giochi Olimpici Invernali. Nel febbraio 2007 viene ingaggiata per cantare nella serata di gala che anticipa i Grammy Awards e per consegnare il premio al Miglior Album R&B il giorno seguente. Nell’agosto dello stesso anno, a poca distanza dall’ultimo lavoro discografico, esce “I Look To You”, che interpreta per la prima volta il 1° settembre nel Central Park di New York. Dopo una sola settimana riceve il disco d’oro, poiché con la sua ultima composizione supera la soglia delle 35 000 copie vendute in Italia. Il 22 novembre si esibisce sul palco degli American Music Awards cantando “I Didn’t Know My Own Strenght” e ricevendo il “Premio Internazionale per Eccellenza”. Tre anni dopo, il 26 gennaio 2010, l’Arista Records pubblica “Whitney Houston: The Deluxe Edition”, per celebrare il 25° anniversario dell’album di debutto dell’artista. Mentre negli anni ottanta e nei primi novanta appariva come la classica “brava ragazza”, a fine anni novanta ci fu u cambiamento radicale nel suo comportamento. Si iniziò a parlare delle droghe che Whitney avrebbe assunto insieme al marito. Nel 2001 la Houston fece un'apparizione nello show per i trent'anni di carriera di Michael Jackson, destando impressione per la sua magrezza; l'esibizione rafforzò i sospetti di uso di droga, anoressia e bulimia, ma il suo agente la difese: "Whitney è sotto stress per motivi familiari e, quando è sotto stress, non mangia". In realtà fece uso di droghe per qualche anno, fino a quando, nel 2004, decise di entrare in riabilitazione. Dopo esserne uscita per qualche mese fu costretta a rientrarci nel 2005, completando il programma con successo. Sebbene alcuni scettici sostenessero che la cantante continuasse a fare uso di droghe, la casa discografica e lei stessa negarono duramente. Nonostante ciò, nel maggio 2011, la sua agente dichiarò che la cantante era di nuovo in cura riabilitativa presso una clinica, per completare il programma che aveva abbandonato nel 2007 a causa dei suoi impegni lavorativi. Whitney è morta l’11 febbraio scorso, all’età di soli 48 anni, mentre si trovava insieme alla famiglia in un hotel a Beverly Hills, per inaugurare i Grammy. E’ stata trovata in condizioni critiche nella vasca da bagno della sua suite intorno alle 15.30, poiché aveva bevuto un cocktail di farmaci e alcool. E’ deceduta pochi istanti dopo il ritrovamento. Oggi viene universalmente riconosciuta come una delle più grandi icone della musica soul; inoltre fu la donna che aprì le porte della musica alle cantanti di colore, per le quali erano sempre state sbarrate. ---CONTINUA A PAGINA 9 cINEMA The Iron Lady Regista: Phyllida Lloyd. Musica: Thomas Newman. Sceneggiatura: Abi Morgan Firmo subito un trattato di pace con voi lettori: la mia intenzione non è fare di questo film una questione politica ma solo commentare, come sempre, i suoni, i costumi… insomma tutto ciò che dovrebbe renderlo un buon film. Margaret Hilda Thatcher fu primo ministro dell’Inghilterra dal 1979-1990 e cercò di risollevare il paese dalla crisi che lo affliggeva in quegli anni. Faceva parte del partito conservatore, durante il suo mandato operò importanti scelte politiche ed economiche ( alcune delle quali non condivido), dichiarò inoltre guerra all’Argentina per il controllo delle isole Falkland, guerra che durò da marzo a giugno 1982. Cercando di mantenere il patto stipulato un attimo fa, comincerò con l’elemento più banale e ovvio che si possa cogliere in questo film: l’interpretazione di Meryl Streep (Margaret Thatcher) come sempre fantastica e molto realistica. Si può dire che il primo ministro inglese abbia rivissuto in una pellicola la sua storia. Come avrete intuito è un film storicopolitico: se dovessimo fare un paragone con un’altro film dello stesso genere abbastanza recente sceglierei “Il discorso del re “. A mio parere il secondo è da preferire sia a livello di battute nei dialoghi sia come montaggio delle scene. Tuttavia, si sa, i film storici ---CONTINUA DA PAGINA 8 Nei giorni immediatamente successivi alla sua morte mi è capitato di leggere sui social network commenti sarcastici come “se l’è cercata” e cose simili. Personalmente credo che sì, se avesse smesso di drogarsi prima non sarebbe morta ma in fondo era una persona adulta, capace di prendere proprie decisioni e in grado di scegliere o perlomeno di cambiare il proprio destino. A me piace ricordarla con il nome che le non sono cosa semplice a realizzarsi e bisogna tener conto anche dell’attinenza alla verità storica che in questo caso è abbastanza buona. Il montaggio come accennavo prima è abbastanza particolare e si articola su tre livelli: il primo nel tempo presente rappresenta una Thatcher ormai anziana, stanca e scossa potremmo quasi dire prigioniera dei ricordi, dei quali ci rende partecipi. il secondo livello dipinge la sua carriera politica mentre il terzo ricorda la sua giovinezza. Naturalmente secondo e terzo livello sono interscambiabili perché raccontati in flashback dalla protagonista. Soffermandoci ancora un attimo sul personaggio principale, notiamo che dalla giovinezza fino alla vecchiaia il suo carattere forte e autoritario non cambia. Ad esempio come durante la carriera di primo ministro accettava raramente consigli dai suoi collaboratori, se non coincidevano perfettamente con i suoi piani e non si faceva influenzare da polemiche e pressioni politiche, allo stesso modo durante la vecchiaia non ammette di avere delle allucinazioni (Margaret soffre per la perdita del marito) e non ascolta i consigli ragionevoli e protettivi della figlia per la sua salute. Da sempre era stata una persona forte e autoritaria, mai sottomessa al marito e sempre ordinata nell’aspetto, rappresentato nelle scene da un completo blu e dall’immancabile collana di perle. era stato attribuito da Oprah Winfrey: “The Voice”. Concludo con due citazioni, affinchè quando ci capiterà di sentire il nome di Whitney Houston la ricorderemo per la donna, oltre che per la cantante, meravigliosa che era, dimenticandoci dei suoi difetti e delle scelte fatte. “I musicisti sono persone con una sensibilità particolare. Spesso sono molto fragili, troppo fragili. Quando poi arriva il successo le pressioni diventano enormi: c'é chi A proposito di immagine, i costumi nel film sono ben curati inoltre lo spettatore viene calato nel periodo storico, per altro non molto remoto, anche grazie all’inserimento da parte del regista di filmati contemporanei a quell’epoca. La colonna sonora è mediocre, accompagna lo scorrere della pellicola senza imporsi all’attenzione dello spettatore (come avrete notato le colonne che non sono prodotte da Hans Zimmer non mi convincono particolarmente, tuttavia per questo film non è la musica il tratto più importante).Che dire degli altri personaggi? A mio parere vengono un po’ oscurati da Meryl Streep forse per la sua recitazione o semplicemente per il fatto che il film è incentrato su di lei. Ad ogni modo è importante il ruolo del marito (interpretato da Jim Broadbent )che rappresenta in modo complementare i tratti mancanti del carattere di Margaret: non è ambizioso, è subordinato alla moglie, accetta gli avvenimenti senza cercare di cambiarli. Infine vi consiglio questo film principalmente per conoscere meglio un periodo della storia dell’Inghilterra e (per chi volesse diventare un politico) per chiedersi come avrebbe reagito davanti a particolari situazioni e che decisioni avrebbe preso. ••• Irene Camporeale II A ricorre a scorciatoie, alcool, droga, psicofarmaci. E il mestiere più bello del mondo diventa un inferno. Dimentichiamoci di come hanno vissuto e conserviamo la loro voce.” (Enrico Ruggeri) "If the voice is a musical instrument, hers is a Stradivarius" (Se la voce è uno strumento musicale, il suo è uno Stradivari). (Time Magazine) ••• Beatrice Bosco VF BAR SPORT BYE BYE OLIMPIA La notizia del mese è senza dubbio quella che Roma non si metterà in lizza per le Olimpiadi del 2020. Dopo l'annuncio della candidatura, avvenuto quest'estate tra squilli di tromba e con il consenso di buona parte del parlamento, a metà febbraio il governo Monti ha deciso di non dare il via libera economico all'organizzazione dei Giochi. Le reazioni del mondo dello sport e dei politici della Capitale sono state, ovviamente, piene di delusione e di amarezza per l'occasione perduta e sostenute dai dati di crescita economica, secondo i quali i Giochi avrebbero portato ad un aumento del pil pari all'1,7% (rispetto al 2011) con incidenze ben maggiori al centro ed al sud, oltre che ad un aumento dell'occupazione pari allo 0,7% su scala nazionale (ma anche in questo caso con ricadute maggiori sul centro-sud). Secondo questi dati, dunque, le ingenti spese sarebbero state ripagate dai benefici economici di cui avrebbero goduto soprattutto alcune delle zone più disagiate del paese. Inoltre, l'Olimpiade avrebbe potuto costituire un'ottima occasione per rilanciare le politiche sportive del nostro paese, ultimamente piuttosto carenti, e, più in generale, il mondo dello sport italiano che sta passando un periodo tutt'altro che roseo. Senza contare i benefici di cui avrebbe goduto la stessa città di Roma. Ma per fare un ragionamento basato su elementi un po' più concreti sui benefici potenziali dei Giochi, si possono andare a vedere gli elementi in base ai quali viene giudicata l'ammissibilità di una candidatura. Il primo è il “supporto governativo” che oramai sappiamo non esserci. Ci sono poi diversi parametri collegati all'impiantistica ed alle infrastrutture: sui primi non ci sarebbero stati problemi, poiché buona parte delle strutture costruite in occasione dei Giochi del 1960 sarebbero state ancora attive ed utilizzabili. Questo comporta una minor spesa nella costruzione degli impianti ed una garanzia sul fatto che non sarebbero diventati delle “cattedrali nel deserto”; qualche problema avrebbe potuto sorgere sulle seconde. La città, infatti, pur essendo facilmente raggiungibile, avrebbe qualche problema con la viabilità interna, poiché il Comitato Olimpico chiede per l'evento un forte apparato di mezzi pubblici che però a Roma consistono quasi esclusivamente in autobus, avendo la città solo due linee di metropolitana. Si sarebbero dovuto, quindi, spendere un po' nella costruzione di infrastrutture. Ma questi lavori avrebbero avuto poi una ricaduta in positivo sulla viabilità e sulla vita dei cittadini anche dopo l'evento. Non avrebbero infine dato particolari problemi gli ultimi parametri, che riguardano soprattutto impatto ambientale, sicurezza, esperienza organizzativa ed “ospitalità” per pubblico ed atleti. Alcuni di questi, come l'esperienza organizzativa e l'ospitalità (soprattutto quella per il pubblico), erano, tra l'altro, due dei fiori all'occhiello della candidatura capitolina, che era considerata la favorita. Le avversarie sarebbero state, infatti, Baku, Doha, Tokyo, Istanbul e Madrid. Dato che le prime due candidature sono più che altro delle boutades (la prima, capitale dell'Azerbaijan, per motivi oggettivi, la seconda, capitale del Qatar, per motivi climatici), al congresso del Cio che designerà la città sarebbe stata una corsa a quattro con Roma, appunto, in prima posizione. Improbabile la scelta di Tokyo, perché i Giochi invernali del 2018 si disputeranno in Corea del Sud e generalmente si cerca il più possibile di alternare i continenti, e difficile quella di Istanbul, poiché in Turchia si partirebbe praticamente da zero, anche se la crescita economica del paese è un dato tenuto in considerazione (basti pensare a Pechino 2008 ed a Rio 2016). Detto ciò, la rivale più accreditata, che è ora la favorita, era Madrid, città ben fornita di impianti ed infrastrutture, ma che si trova in un paese economicamente messo peggio dell'Italia e che fornisce dunque meno garanzie. Ma che, nonostante le difficoltà, ha deciso lo stesso di sostenere la candidatura proprio per gli effetti positivi che avrebbe sull'economia spagnola. Sulla scelta del governo italiano ha pesato più di tutti il pessimo esempio dato di Atene. Uno dei motivi dell'attuale crisi greca sembra che siano state le Olimpiadi del 2004, per le quali le spese, a conti fatti, si rivelarono il doppio di quanto preventivato. Questo, però, non tanto per l'evento in sé, quanto più per le “cricche” (come le chiamiamo noi) che hanno approfittato dei Giochi per guadagnare in modo non molto limpido vagonate di soldi. È (anzi, sarebbe stato) questo il vero problema di Roma: le cricche, la corruzione, le tangenti e tutti quegli affari sporchi collegati al mondo degli affari e della politica, che in Grecia hanno portato il paese sull'orlo del baratro, mentre da noi, per fortuna, si sono limitati “solo” a speculare sui grandi eventi sportivi e non. Sono stati loro ad infrangere il sogno olimpico, non la crisi né il governo Monti. ••• Alessandro Mantovani III D GIOCHI Sudoku medio difficile Le soluzioni … nel prossimo numero! Quorinfranti e empr sei s asaro li Cana e c i r eat io a B c a b Un no M. Marti ina C Carol ima! belliss imo Anon Giu l tro ia Sp pp o c reafic ari na o sei Un !! n me ap ole tro t e s ano a ess lto un an ta r ti a r i rit M do a t a a rz Fo i! in her c c Gia ! ta o Ma s ian l i sim Bri i D BARTOLOMEO il giornale degli studenti dello Zucchi R E D A Z I O N E A/S 2011-12 DIRETTRICE: Nadeesha Uyangoda - III A VICEDIRETTRICE: Clara Del Genio - III A CAPOREDATTORI: • Chiara Borghi - IV B • Claudia Pizzagalli - III C • Irene Doda - III D • Silvia Arpano - II A REDATTORI • • • • • • • • • • • Alessandro Mantovani - III D Alice Pennino - I D Andrea Merola - I D Anna Caprotti - I A Beatrice Mosca - III C Elisa Tonussi - II D Eva Casini - III B Federica Mutti - I C Irene Camporeale - II A Irene Pronestì - III D Silvia Zicaro - IV D COLLABORATORI: GRAFICA: • Matteo Monti - III B • Michele Vitobello - III B • Simona Pronestì - I D Ringraziamo inoltre tutti coloro che hanno collaborato all’uscita del Bartolomeo (collaboratori, insegnanti ed operatori scolastici). Ricordiamo che chiunque può partecipare alla redazione del Bartolomeo inviando un suo articolo all’indirizzo mail [email protected] I numeri del Bartolomeo sono disponibili anche on line sul sito www.liceozucchi.it CHI V UN OLESS MES E SGG INVIA IO RE R “QU ORI UBRIC ALLA A NF F bart ARLO RANTI ” olom T eo@ RAMIT PUÓ E lice ozu cchi .