n° 4 Marzo 2012 - Liceo "Zucchi"

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n° 4 Marzo 2012 - Liceo "Zucchi"
BARTOLOMEO
il giornale degli studenti dello zucchi
EDITORIALE
VERSO IL FUTURO
Caterina ha 20 anni, è laureata
con 109 su 110 in Design degli
interni al Politecnico di Milano e
lo scorso ottobre si è vista dare
della mign***a per aver inviato,
indignata, un’email di protesta al
direttore di Flash Art, in risposta a
un annuncio che proponeva una
stage senza rimborso spese e
rivolto unicamente “a chi può
mantenersi per parecchi mesi a
Milano”.
Mattia, con una laurea in
Ingenieria aerospaziale, ha 27
anni e ormai da qualche anno vive
e lavora in Germania, all’Esa e
non ha nessunissima intenzione di
tornare in Italia.
Chiara studiava i vulcani
all’Università di Firenze, con un
contratto a tempo determinato...
finchè il centro di ricerca è stato
chiuso per mancanza di fondi ed è
stata costretta a fare le valige per
partire e cercare lavoro altrove. In
Italia aveva fatto tredici concorsi
in dieci anni, ma non era mai
riuscita a ottenere nemmeno un
posto (era sempre qualcuno più
fortunato a vincere). La prima
soddisfazione giunge
dall’Università di Cambridge che
le offre un contratto a tempo
indeterminato come responsabile
di un laboratorio di Microsonda.
Esempi di storie simili se ne
potrebbero fare a migliaia, ma
l’epilogo resterebbe sempre lo
stesso. Che fare allora?
Flexsecurity, welfare, articolo 18,
incentivi, contratto unico? Tutto
questo costituisce sì la base, ma in
un certo senso può anche essere
considerato secondario: perchè
non basta una riforma a
convincere i più di 60mila
espatriati a far ritorno. La
battaglia che bisognerebbe
condurre, prima ancora che
legislativa, dovrebbe essere
culturale: la mancanza di
meritocrazia era e continua ad
essere la più grande piaga
dell’ambiente universitario (e non
solo) italiano. Altrimenti il rischio,
già concretizzatosi, è quello di
sentirsi etichettati come “sfigati”
da qualcuno (Martone) che,
dall’alto della sua esperienza di
29enne, si è fatto strada fino alla
cattedra di Professore ordinario a
forza di raccomandazioni elargite
un po’ ovunque dal papà.
Dall’altra parte c’è chi come
Franco la Cecla è entrato nel
mondo universitario ben 35 anni fa
e ne è uscito da poco, senza il
minimo avanzamento, nonostante i
suoi libri, le pubblicazioni, le
ricerche, le conferenze; anzi, nel
corso della sua carriera non ha
fatto altro che scontrarsi con un
paese provinciale e baronale.
Da questo confronto emergono
chiaramente “due Italie”: una ad
alta velocità dove la strada è
spianata e si possono raggiungere
rapidamente le vette perchè
accompagnati da cognomi
importanti, posti assicurati e
concorsi truccati; l’altra fatta di
treni pendolari sempre in ritardo,
stracolmi, senza un solo posto
libero. Il risulato che si ottiene
sommendo le due è quello di un
paese dove la meritocrazia non è
ancora di casa.
•••
Nadeesha Uyangoda
III A
POLITICA / ATTUALITÁ
DIRITTO DI PAROLA
(SE VI PARE)
Sette milioni di euro. Sette milioni,
sette milioni. Lo stipendio di un
lavoratore normale in circa
vent’anni.
È il finanziamento per un’opera
pubblica? Sono i soldi spesi da Bill
Gates per un nuovo software? Un
miliardario americano ha deciso di
costruirsi un intero palazzo solo in
oro? No.
E’ il risarcimento chiesto dalla Fiat
al giornalista Rai Corrado Formigli
per un servizio su un’automobile,
l’Alfa Romeo Mito Quadrifoglio
Verde. Il servizio, andato in onda ad
Annozero nel 2010 metteva a
confronto la Mito con altre due
macchine, la Citroen DS3 e la Mini
Cooper S, facendo notare che
l’autovettura Fiat era più lenta su
circuito delle altre due, distanziata
dalla Mini di circa 3 secondi.
La Fiat ha calcolato il danno
economico subito in seguito alla
pubblicazione di questi dati, e il
risultato è stato la cifra indicata:
sette milioni di euro. Il denaro dovrà
essere risarcito dalla Rai e dallo
stesso Formigli.
Non mi permetto di mettere bocca
sul confronto tecnico tra le
automobili (a malapena riuscirò a
passare il quiz teorico della patente,
figurarsi!), neppure di criticare
l’esito del processo, anche se giudico
l’ammontare del risarcimento giusto
un tantino esagerato. Tanto per citare
un esempio altrettanto attuale, il
barone svizzero Cartier, proprietario
della Eternit, ha dovuto sborsare per
la morte di ciascuna persona a
Casale Monferrato, non più 16.000
euro!
Mi permetto però una
considerazione di carattere generale.
A un giornalista può naturalmente
capitare, nel corso della sua carriera,
di dare un informazione sbagliata o
incompleta. E’ di incompletezza che
è stato tacciato il servizio di
Formigli, poiché nel valutare la Mito
aveva tenuto conto solo della velocità
e non di altri fattori quali ad esempio
la rifinitura interna dei sedili e la
spaziosità del portabagagli. La Fiat
non ha mai contestato, dunque, che le
informazioni fornite da Formigli
fossero esatte.
Insomma, a un giornalista non è
concesso scegliere un terreno di
confronto (in questo caso la
velocità), ma deve fornire una
fotografia completa del prodotto
industriale, mettendone in luce tutti i
pregi e i difetti.
A questo punto, ad Annozero
avrebbero potuto mandare, al posto
del servizio di Formigli, direttamente
una pubblicità della Mito.
Ma dove è andato a finire il diritto di
critica? Dopo questa sentenza,
nessun giornalista si azzarderà mai
più a criticare il prodotto di una
grande azienda, da qualunque punto
di vista ( e lo capisco anche! Sette
milioni di euro!). L’informazione
deve dunque essere asservita alle
necessità e ai capricci dei grandi
gruppi industriali, a cui non piace che
venga fatto presente al pubblico che
le loro creazioni sono carenti sotto
qualche aspetto? Ci riempiamo la
bocca con tanti bei discorsi sulla
libera concorrenza, ma d’ora in poi a
un cittadino non sarà più concesso
usufruire di confronti utili tra beni di
consumo.
Morale?
In Italia chi parla male della Fiat
paga. Punto.
•••
Irene Doda
III D
ATTUALITà
LA NOTIZIA CHE NON FA TENDENZA
“Sono diventato reporter spinto dal
bisogno di raccontare ciò che
vedevo: non solo la sofferenza, ma
anche l’umanità nella sua
espressione più autentica” ha
dichiarato in un’ intervista, rilasciata
n e l n o v e m b r e 2 0 1 0 , G i o rg i o
Fornoni, reporter di guerra che
collabora con la trasmissione
“Report”.
Troppo spesso, invece, fingiamo di
non vedere.
I cosiddetti “conflitti dimenticati”
continuano inesorabilmente a
mietere vittime, lontani dalle
telecamere e nell’indifferenza di
tutti. Solo in Africa, negli ultimi
dieci anni, ci sono state 32 guerre e
attualmente, in 19 dei 53 stati
africani sono in corso dei
combattimenti. La Somalia, per
esempio, è dal 1991 teatro di un
conflitto le cui radici si perdono nel
periodo coloniale. Ben poco
abbiamo saputo a proposito della
Costa D’Avorio che, a partire dalle
elezioni del novembre 2010, è
sconvolta da una sanguinosa guerra
civile scoppiata in seguito al tentato
colpo di stato di Gbagbo, leader
della minoranza; nonostante la
cacciata del dittatore, ancora lontana
ed irraggiungibile sembra la via per
una totale riconciliazione. Solo il
terremoto del 2010 con i suoi esiti
catastrofici è riuscito ad attirare
l’attenzione su Haiti e la sua
drammatica situazione, così come
nel 2004 è servito uno tsunami per
costringere il mondo ad accorgersi
che in Sri Lanka era in corso una
guerra che aveva causato decine di
migliaia di morti e per la quale ogni
tentativo di pace era risultato vano.
Ed è solo a causa di un altro tsunami
che sulla mappa della stampa
internazionale è comparso un luogo
chiamato Acei, in Indonesia, dove si
contano 90mila morti in un conflitto
tra etnie diverse. Infine nel 2006 c’è
voluto un re dittatore, umiliato dal
suo popolo in rivolta, perché i mass
media si interessassero di una
guerriglia sanguinosa in corso sul
tetto del mondo, in Nepal.
“La lista è lunga” scrive la redazione
di Rete Radié Resch, un’associazione
di solidarietà internazionale; “eppure
molte volte questi conflitti sono il
risultato delle scelte compiute dai
colonizzatori occidentali, da inglesi,
olandesi, portoghesi, americani, che
impongono ad altri paesi condizioni
di vita innaturali e situazioni politicoeconomiche impossibili da gestire.”
Allo stesso modo continua ad
allungarsi la lista delle crisi
dimenticate dai media occidentali:
fame, malattie e povertà seminano
silenziosamente, ma inesorabilmente,
morte e disperazione in varie parti
del mondo. Nel 2005 l’associazione
“Medici senza frontiere”, premio
Nobel per la pace nel 1999, ha dato
origine al progetto “Crisi
dimenticate” che si occupa di stilare
la top 10 delle situazioni e delle
tematiche accantonate da porre
all’attenzione dei più importanti
mezzi d’informazione, perché, come
si legge sull’home page del sito di
MSF, “il primo passo per affrontare
un problema è riconoscerlo, renderlo
visibile e spiegarlo.” Molti media da
allora si sono mobilitati, infatti tanti
sono i giornalisti che hanno
partecipato all’azione “Adotta una
crisi dimenticata” e la campagna di
sensibilizzazione ha coinvolto anche
diverse scuole e licei, tra i quali il
nostro che ormai da qualche anno
ospita i volontari dell’associazione.
“Chiediamo ai media di continuare
ad “accendere i riflettori” proprio sui
paesi in difficoltà, perché l’oblio dei
mezzi di informazione rende
invisibile la sofferenza di intere
popolazioni e ostacola ulteriormente
l’avvio di possibili soluzioni a questi
drammi” ha chiesto Kostas
Moschochoritis, presidente di MSF
Italia.
Quindi, ci resta una sola cosa da fare:
accendiamo i nostri riflettori, non
dimentichiamo!
•••
Beatrice Mosca, III C
Claudia Pizzagalli, III C
CARO ZUCCHI...
LO ZUCCHI... TRE ANNI DOPO
Un’emozione.
Di quelle che si attaccano allo
stomaco e ti salgono dentro, si
irradiano. Vogliono prendere forma,
e diventano parole.
Come qualche anno fa mi ritrovo qui
a scrivere per il mio Bartolomeo,
con l’intento di lasciare tra le pagine
una piccola parte di me.
E’ bastato poco, un dettaglio, una
fotografia, un ricordo: ed ecco
innescata la pulsione a scrivere.
Pulsione e passione che ho ritrovato
più forti di prima, perché io sono più
forte di prima.
Non è l’Università, non sono i tre
anni in più, non è nemmeno il fatto
che studi Psicologia. E’ che lo
Zucchi è una palestra di vita, e ti
insegna a combattere, a non mollare.
Se sono arrivata a questo punto, se ci
sono arrivata così, lo devo anche a
Lui. Mi sento, perciò, di ringraziare i
miei insegnanti che, se mai
leggeranno queste quattro parole,
forse si riconosceranno. E magari
scapperà loro un sorriso intenerito o
una risata divertita, una smorfia,
magari rimarranno indifferenti, o
forse si lasceranno prendere dai
ricordi legati a quella IV G a.s.
2004-2005. Non importa la loro
reazione, io li ringrazio tutti.
Ringrazio chi ha avuto fiducia in me.
Chi mi ha supportato nei momenti di
sconforto e sopportato in quelli di
rabbia.
Chi ci ha lasciato troppo presto.
Ringrazio chi mi ha fatto sorridere
per una battuta, chi mi ha coinvolto
al punto di dimenticare che fossi in
classe.
E ringrazio, in generale, tutte le
persone che hanno fatto parte della
mia vita accompagnandomi nel mio
percorso, fino ad oggi.
Un grazie quindi a chi ha creduto in
me, ma soprattutto a chi non lo ha
fatto, perché se sono diventata quella
che sono, lo devo soprattutto a loro.
E grazie anche a voi, ragazzi, che mi
state concedendo questo vostro
spazio che è stato anche mio, e che
per un secondo torna a esserlo.
“Una vita da mediano
lavorando come Oriali
anni di fatica e botte
e vinci casomai i mondiali..
Lì,sempre lì
lì nel mezzo
finché ce n'hai stai lì
stai lì..”
Ligabue, Una vita da mediano
Ero una liceale sognatrice ed ora
sono un’universitaria sognatrice: in
questo lo Zucchi non mi ha cambiato.
•••
Le soddisfazioni all’Università si
affiancano ancora ai miei sogni,
quelli che mi hanno permesso e
tuttora mi consentono di andare
avanti, di non mollare mai.
Avevo undici anni quando ho deciso
che la Psicologia sarebbe stata la mia
strada e la scrittura il mio eterno
amore.
E a pochi mesi dal primo traguardo,
la laurea triennale, mi sono fermata a
fare un bilancio del mio passato, e
sono riaffiorati i ricordi, che
custodisco intimamente, e tengo per
me. Ho fatto nuove considerazioni
riguardo ad alcune cose, e finalmente
ne rido e sorrido.
0ra mi rivolgo a voi che siete oggi
quello che io sono stata ieri, e forse
sarò banale. Ma vi dico con il cuore
queste parole, le scrivo perché le
sento.
Fate tesoro di ogni cosa vi capiti in
questi cinque anni, positiva, negativa,
non importa. Vi ritroverete anche voi
alle porte della laurea a ringraziare
ogni singola persona, ogni singolo
avvenimento, perché vi avrà resi più
forti, magari migliori, di certo non
peggiori.
Ciao Zucchi, e grazie ancora.
Questo è un arrivederci, non un
addio.
Giuliana Genovese
(ex III G, a.s. 2008-2009)
PIANETA ZUCCHI
PARLIAMO DI … DIDATTICA ALTERNATIVA
Come voi tutti ben sapete, tra il 6 e
l’8 febbraio si è svolta la didattica
alternativa. Mi propongo, con questo
articolo, di tirarne le somme dal
punto di vista di noi studenti, grazie
alle opinioni dei rappresentanti degli
studenti in consiglio di istituto (Luca
Busetto, Matteo Buttà, Lorenzo
Confalonieri e Chiara Bolognini), di
una zucchina che si è offerta di
raccontare come lei ha vissuto questi
tre giorni, Clarice Brambilla di V D,
e infine di Yuri Galbiati, ex-zucchino
(e non uno qualunque: come
probabilmente molti di voi
ricordano, era rappresentante in
consiglio di istituto l’anno scorso)
che ha partecipato all’iniziativa in
qualità di esterno.
Innanzitutto sia Luca sia Lorenzo sia
Chiara hanno voluto sottolineare il
basso tasso di assenze registrato
durante l’iniziativa, il quale
dovrebbe aggirarsi attorno al 9%.
Questo dovrebbe già figurare tra i
pregi delle attività proposte: pare che
molti abbiano pensato che valesse la
pena di venire a scuola in quei
giorni, piuttosto che approfittarne
per andare a sciare o alle terme, o,
che so io, per dormire tutta la
mattina.
Lorenzo, che ha avuto l’occasione di
girare per le varie aule facendo
assistenza tecnica, ha rilevato:
“collaborazione per organizzare,
comunicazione funzionante, quasi
nessun casino strano”, insomma, le
condizioni perché si potesse
svolgere, secondo le sue parole, “una
delle migliori cogestioni mai fatte”.
Anche Chiara si unisce al coro di
voci soddisfatte e propositive : “È
stato gratificante per tutti noi
prendere parte ad un progetto tanto
ben riuscito e abbiamo collaborato
con ragazze e ragazzi davvero
organizzati e creativi. Penso che alla
base di qualsiasi attività di questo
genere ci stia l'impegno di ogni
singola componente e quest'anno
così è avvenuto: ragazzi propositivi
e docenti disponibili. Auguro agli
zucchini (soprattutto ai più piccoli,
che si sono dimostrati preziosi nella
progettazione) di continuare così,
rendendo sempre più la didattica
alternativa un momento di
condivisione e arricchimento”.
Luca e Matteo, tra i responsabili
rispettivamente della maratona di
pallavolo e del flash mob, si sono
dichiarati pienamente contenti di tali
attività. E queste, effettivamente,
ritrovano un apprezzamento anche
nelle parole di Clarice, che, riguardo
alla maratona di pallavolo, mi
racconta: “È stata un'attività nuova, e
mi è piaciuta molto perché è stato
tutto molto veloce, non c'erano tempi
morti. Anzi, devo ammettere di
essere stata presa un po' alla
sprovvista, perché non mi
immaginavo che tutti gli zucchini
sarebbero stati così bravi a pallavolo,
e devo ammettere che il livello era
molto alto! Ciò ha permesso che il
gioco fosse sempre vivo e, ripeto,
veloce. Abbiamo giocato almeno tre
partite, e sebbene io non fossi
bravissima, mi hanno fatta entrare in
campo più volte, in ogni partita”.
Alcune sue compagne hanno
partecipato al flash mob, e tutte si
sono divertite. Nell’opinione di
Clarice le attività sportive figurano
proprio tra i maggiori pregi di questa
didattica alternativa 2012, tanto che
afferma:“Penso che quest'anno sia
stata migliore dell'anno scorso, forse
perché probabilmente io stessa ho
scelto attività migliori, ma anche
perché ho notato che c'erano due
attività sportive, che l'anno scorso
non mi sembra ci siano state, e
questo è un punto a favore della
didattica! Perché siamo già costretti
ai banchi tutto l'anno, almeno i giorni
della didattica possiamo muoverci un
po' !”. Nei prossimi anni sarebbe
quindi opportuno potenziare questo
aspetto.
In relazione ai film/cineforum e
simili, che negli ultimi anni non
erano stati motivo di grande
soddisfazione, questa volta sono
riusciti meglio, se non altro per la
qualità più strettamente tecniche. Mi
riferisco all’audio e alla sistemazione
degli spettatori. Infatti Clarice, che
ha assistito alla proiezione dei film di
Woody Allen (l’iniziativa era
“ Wo o d y A l l e n . P e n s a r e
cinematografico, pensare geografico.
Manhattan”) afferma: “l'iniziativa di
per sè stata bella, l'audio non era male,
e il film si vedeva bene: questo ha
contribuito a mantenere un'alta
attenzione generale.”
E ora veniamo alle parole di Yuri
(organizzatore della sopraindicata
attività su Manhattan), che , riguardo
al suo cineforum, osserva che,
nonostante una gran fatica, è stato
possibile creare anche un minimo di
dibattito in cui confidava. In generale,
oltre a lodare le capacità logistiche
della prof. Magni (la vicepreside) e di
tutti gli altri professori coinvolti,
afferma: “ Credo che non ci si possa
lamentare delle proposte, le delusioni
esprimibili possono esser date dal fatto
che le preferenze espresse non siano
state soddisfatte causa non-coincidenza
d'orari nel corso dei tre giorni”. Inoltre
mi confida l’intenzione di partecipare
anche alla didattica alternativa del
prossimo anno – esami permettendo: “
Mi piacerebbe tenere un'aula, però più
legata a ciò che sto studiando in
università, che sono le scienze umane
per l'ambiente, e in generale le
problematiche legate alle politiche
ambientali, all'impatto economico e
demografico della globalizzazione
ecc.” .
Tutto sommato pare proprio che la
didattica alternativa, ogni anno che
passa, si migliori un po’ di più, e tanti
imparano a convincersi del suo valore,
senza condannarla a prescindere. E, pur
essendo stata questa la mia ultima
ufficiale didattica alternativa da
zucchina, sono spinta a credere che
forse non sarà l’ultima in assoluto,
perché può darsi che troverò il modo di
contribuirvi da esterna anche l’anno
prossimo.
•••
Irene Pronestì
III D
RIFLESSIONI ZUCCHINE
vertigo
“Io domani non mi sposo. Non se ne
parla, sarò anche buono, ma non
sono fesso. Non posso cascarci
un’altra volta. Non è che non la ami,
questo voglio metterlo in chiaro… è
lei che va avanti là dove i miei dubbi
mi fermano, è lei che mi dà la
sensazione di essere ancora utile a
qualcuno, è lei che mi vieta di
andare totalmente a pezzi. Lei è la
logica conclusione di tutto; o, forse,
solo una delle tante logiche
conclusioni su cui ho costruito la
mia vita. Sono nato, sono cresciuto
senza dare troppe preoccupazioni ai
miei genitori, sono andato a scuola.
Asilo, elementari, medie; poi è
arrivato il momento di scegliere, e io
sapevo di essere libero, sentivo di
poter scegliere per davvero. I miei
mi hanno sempre incoraggiato, mi
ripetevano ‘Fa’ quello che vuoi’ con
una sincerità che non poteva che
riempirmi di gratitudine. Anche io
volevo essere così, schietto,
entusiasta, volevo seguire le orme di
mio padre e dei miei fratelli e
diventare il quarto uomo eccezionale
della mia famiglia. Scelsi di
frequentare anche io il liceo artistico,
ero bravo e soddisfatto di quello che
facevo. Trascorsi cinque anni pieni
di successi, poi arrivò di nuovo il
momento di scegliere. Per la seconda
volta avanzai a passi sicuri, per
cinque anni avevo dato il meglio di
me e a quel punto il mondo si
aspettava solo che andassi avanti
così. Io ero pronto ad accontentarlo,
anzi, non vedevo l’ora di farlo, ma in
quel momento accadde qualcosa che
avrebbe per sempre posto un freno
dolcissimo alle mie energie.
Durante la mia prima mostra
personale (una cosa veramente
modesta, non c’era niente oltre a due
tele importanti e qualche disegno su
cartoncino) una ragazza – sì, era lei mi avvicinò e disse che era contenta
di conoscermi. Non potei fare a
meno di notare come il suo sorriso
timido e stanco fosse fuori posto
rispetto al cartoncino di fronte al
quale ci eravamo fermati. Mi feriva
tutta quella cordialità di fronte al
mio forno crematorio a forma di
castello, così le diedi ad intendere
che volevo sapere che cosa ne
pensava. A quel punto smise di
ignorare la pesante carta ocra,
frustata dalle linee secche e fumose
del carboncino, e prese a dire che ad
essere onesta non le piaceva, lo
trovava grezzo e disturbante, ma si
trattava inequivocabilmente di arte e,
in quanto tale, meritava di essere
preso in considerazione. Le sarebbe
piaciuto essere lei stessa un’artista e
non doversi limitare a commentare il
lavoro degli altri, ma non poteva
farci niente. Era già tanto se riusciva
a scrivere il suo nome in stampatello
senza aiutarsi con un righello,
figuriamoci disegnare, scolpire,
dipingere.
Credetti di aver appena incontrato
una pacifica detrattrice del mio
lavoro e me ne innamorai. Da allora
siamo sempre rimasti l’uno a fianco
dell’altra. Lei mi incoraggia quando
realizzo qualcosa di grande e mi sa
demolire quando sbaglio il colpo; io,
per parte mia, faccio di lei una
presenza costantemente necessaria e
ripongo in lei la mia fiducia, il bene
più fragile e prezioso per entrambi.
Fino a stasera ero convinto che a
questo paradosso si potesse dare il
nome di “amore”; ora, però, non
riesco a togliermi dalla testa
l’immagine di quell’incontro e mi
sento mancare la terra sotto ai piedi.
Se potessi, interromperei tutto e farei
dono di questo dubbio nauseante,
invece che di tutta quell’incontrastata
fiducia. Il fatto è che non vedo
perché dovrei sposarmi. Che cosa
sarò, una volta sposato? Non ho
obiettivi, non ho scadenze entro le
quali avrò la certezza di essere
diventato qualcosa. Non dovrò
scegliere, non ci sarà nessuno ad
aspettare che io diventi un artista, un
pittore. Certo, potrei improvvisarmi
marito o addirittura padre, ma
sarebbe l’ennesima logica
conclusione, e un matrimonio non
dovrebbe essere qualcosa di
conclusivo. Ma non è stata la mia
vita intera una sorta di continua
conclusione? Il conforto di aver
bruciato una serie di tappe che, per
fortuna, si sono rivelate quelle
“giuste”? Mi chiedo se io e lei ci siamo
mai amati per davvero, o se invece lei
mi abbia voluto accanto perché
rappresentavo le scelte che la vita –o lei
stessa- le aveva negato. Mi chiedo che
cosa sia lei per me, se non l’inconscia
necessità di tenere sempre presente
questo dubbio, cioè che non sono poi
così sicuro che la libertà esista. Forse
quell’orribile forno crematorio a forma
di castello non è che non le piacesse,
ma non lo capiva, e io mi illusi di
essermi innamorato di lei solo perché
potevo esercitare la mia vanità, a cui lei
era disposta ad asservirsi e che, per la
prima volta in vita sua, aveva scelto.
È questa, dunque, la libertà? Per tutta la
vita io sono stato libero solo nella
misura in cui ho potuto eleggere il mio
padrone? Che si trattasse delle orme di
mio padre, dell’arte, della vanità
tirannica nei suoi confronti; forse è per
questo che non voglio essere né un
marito, né un padre: finalmente sono io
il padrone, finalmente ho in mano la
mia libertà, eppure non so come
viverla. Non so nemmeno se sento
finalmente di non essere più cieco o se
invece vorrei esserlo, perché tutto
questo mi fa orrore. Non so se
accettarlo o aspettare che sia lei a
raggiungermi. Io domani non mi
sposo.”.
•••
Eva Casini
III B
RIFLESSIONI ZUCCHINE
IL GIGANTE INGORDO
Quella che seguirà non vuole essere
la fiaba del bene contro il male o
viceversa.
Non vuole nemmeno lasciare a tutti i
costi una morale che in fin dei conti
apparirebbe retorica.
Questa storia è una sorta di
avvertimento: essa mette in luce un
personaggio che potrebbe
rispecchiare ognuno di noi. Però
questo sta a voi stabilirlo, io mi
limiterò a raccontare...
C'era una volta, in un paese sperduto
sopra i colli, un gigante uomo e un
gigante donna che ebbero un figlio,
decisamente brutto. Brutto proprio
d'aspetto.
Dovete sapere che è molto raro che i
giganti siano brutti. Sono sì grandi in
maniera esorbitante, ma non brutti.
Nonostante lo sbalordimento e
l'imbarazzo iniziale, l'amore dei
genitori andava oltre l'aspetto fisico.
Gli anni passarono e il gigante
bimbo cresceva, sempre più brutto.
Ma il paese, che a dire il vero era
una cittadella di poco più di sessanta
abitanti, voleva bene al piccolo, il
quale non era mai stato oggetto di
burla. Insomma, la sua bruttezza,
benchè singolare, non rappresentava
un problema per nessuno: erano tutti
molto felici.
Un giorno la mamma del gigante
brutto, mentre stava preparando una
torta, fu colpita da un bagliore
improvviso e nella sua cucina
apparve il classico folletto.
“Ci risiamo” disse mamma gigante “
è uno di quei personaggi che si sono
inventati gli esseri umani e ora me
l'hanno mandato qui! Magari per
farmi credere che ho le traveggole!”
Ma il folletto con aria spaventata,
come ad annunciare un presagio di
morte, puntò il dito in direzione
della torta e disse: “Bada, se tuo
figlio mangerà più di una fetta di una
torta, accadrà qualcosa di
terribilmente incolmabile!” E subito
dopo sparì.
Anche papà gigante e il figlio
avevano assistito alla scena e i
genitori, scombussolati, non seppero
proferire parola soprattutto quando,
il mattino seguente, scorsero sul colle
più alto della cittadella una torre mai
vista prima. Ben presto il paese fu
travolto da un trasecolamento
generale ma i genitori del gigante
brutto scelsero di non dire niente e
furono sempre più convinti di questa
decisione quando si venne a sapere
che in cima a quella torre, su un
tavolo apparecchiato per uno, c'era
una torta.
Diversi anni dopo, quando ormai
mamma e papà gigante erano
scomparsi, il gigante brutto si era
fatto adulto e sempre più brutto. Si
ricordava vagamente (o forse non
voleva ricordarsi) di ciò che era
avvenuto anni or sono: infatti,
quando accadde il fatto lui era molto
piccolo ed inoltre i genitori, per far sì
che per tutta la vita non mangiasse
torte gli avevano fatto credere di
avere un'allergia ai dolci...!
Intanto quella torre era sempre
rimasta, ma col passare degli anni
nessuno più ci aveva fatto caso ed era
diventata parte del paesaggio della
cittadella.
Il gigante brutto aveva molti amici e
passava con loro ore felici. Un giorno
decisero di fare una
lunga
passeggiata verso i colli, sino a che
giunsero a pochi passi dalla fatidica
torre.
Nessuno mostrava segno d'interesse,
anzi sembravano quasi non vederla e,
mentre tutti si stendevano sull'erba
per una sosta, l'unico inquieto era il
gigante brutto. Questi era come
richiamato da una forza inspiegabile
e decise che doveva entrare in quella
torre.
“Va bene” dissero ridendo gli amici “
poi sappici dire se ci sono i
fantasmi!”
L'ingresso della torre presentava una
scala a chiocciola che conduceva in
alto, sempre più in alto, sino ad
arrivare in cima dove vi era una
stanza. In quella stanza vi era ciò che
era stato detto tanti anni prima, ma il
gigante non lo aveva mai saputo
perché i genitori glielo avevano
nascosto.
Il gigante brutto era in uno stato di
confusione assoluta: non sapeva più se
la storia dell'allergia fosse vera, e
intanto gli tornavano in mente le parole
di quel folletto: “....più di una fetta...”
Pensò che se avesse mangiato solo una
fetta, secondo le parole del folletto, non
sarebbe successo niente e, per quanto
riguardava l'allergia, per una sola fetta
non sarebbe stato poi così male...!
La torta era divisa in tante piccole fette
e il gigante brutto decise di iniziare a
mangiarla.
Ma dopo una fetta, ne voleva un'altra e
poi un'altra ancora ,e nella foga di
mangiare sentiva un mutamento a
livello corporeo e un misto di urla
provenienti da fuori. Ma la torta si
sgretolava rumorosamente nella sua
bocca e quasi non sentiva nemmeno se
stesso.
Finita tutta la torta sentì un grande
silenzio tutt'attorno.
Notò che nella stanza c'era uno
specchio e quando vide la propria
immagine riflessa quasi non si
riconosceva: era diventato bellissimo.
Di corsa scese le scale per raccontare
agli amici del prodigioso avvenimento,
ma quando uscì nel giardino per andare
loro incontro si accorse che non c'era
nessuno.
Li cercò affannosamente sino ad
arrivare in città. Appena vi giunse, vide
che le strade erano vuote e fu colto dal
panico poiché si ricordò le parole del
folletto: “... accadrà qualcosa di
terribilmente incolmabile!”
Si rese conto di essere rimasto solo con
la sua incolmabile bellezza.
•••
Alice Pennino
ID
RIFLESSIONI ZUCCHINE
IL disinteresse della scuola
“Sia genitori sia insegnanti mi
esortavano a studiare. E io studiavo,
provando una noia mortale, con
l’attenzione corrotta dal dubbio che
stessi lavorando inutilmente […]. Le
pagine erano disanimate, straniere, mi
avvicinavo a loro con l’urgenza di altri
pensieri insieme al senso di colpa per il
fatto di averne. […] A me non
interessava più nulla di quel che veniva
detto a scuola. Erano discorsi di cui
vedevo immediatamente l’inutilità, la
contraddizione. Mi sembravano
linguaggi parlati da estranei e non certo
rivolti a me. E a nessun insegnante
sembrava importasse qualcosa di queste
mie sensazioni. […] …solo giudici, tante
persone che avevano capito tutto e
sapevano proprio tutto.
Ma tutto
cosa?’’
“Il disinteresse della scuola” è un
c a p i t o l o d e l l i b r o “ L’ o s p i t e
inquietante – il nichilismo e i
giovani” del filosofo e psicoanalista
Umberto Galimberti, che qui ho
inteso illustrare. Disinteresse dei
giovani verso la scuola, ma
soprattutto disinteresse della scuola
verso le problematiche giovanili, che
sono ben più profonde di ciò che
appare in superficie (alcool e droga
gli esempi più eclatanti). Problemi
che sono di ordine culturale oltre
che psicologico. Il nichilismo è
“l’ospite inquietante” che dilaga
nella nostra società; società che
impone ritmi di crescita superiori ai
giovani rispetto al passato, senza
saper dare loro il giusto sostegno.
Ma per una lettura più ampia di tali
problematiche vi rimando al libro
sopra citato. Qui mi limiterò a
(tentare di) illustrare il capitolo
dedicato esclusivamente alla scuola.
Il mio intento è quello di ampliare le
vedute sulla scuola, che non è metro
assoluto per le qualità di uno
studente e che non è certo un sistema
perfetto, e di ‘dare sollievo’ a quegli
studenti (e credo tutti, chi più chi
meno) che a volte hanno difficoltà a
comprendere il proprio rapporto con
la scuola.
“La scuola ha a che fare con quella
fase precaria dell’esistenza che è
l’adolescenza, dove l’identità appena
abbozzata non si gioca come
nell’adulto tra ciò che si è e la paura
di perdere ciò che si è, ma nel divario
ben più drammatico tra il non sapere
chi si è e la paura di non riuscire a
essere chi si sogna.” In tale divario,
scrive Galimberti, si gioca la
costruzione dell’identità, del
‘concetto di sé’, che per costruirsi ha
bisogno di passare attraverso i
meccanismi dell’autostima,
‘considerazione positiva di sé’, e
dell’autoaccettazione, ‘accoglimento
del negativo’. Ma già su questo punto
la scuola è spesso incapace di
sostenere un’adeguata crescita:
“L’autostima dello studente è
scambiata spesso per presunzione, e
l’autoaccettazione come un esplicito
riconoscimento da parte dello
studente di non valere un granché. Se
poi è lo stesso studente a esser
convinto di valere poco, il professore
si sente assolutamente assolto nel suo
ribadire, con voti e giudizi negativi,
quel nulla che lo studente avverte già
per conto suo dentro di sé” E dunque,
quanti professori si saranno mai dati
pensiero dell’autostima degli
studenti? Ben pochi, secondo
Galimberti. L’identità si costruisce a
partire dal riconoscimento da parte
dell’altro e “se il riconoscimento
manca, come manca sempre a chi va
male a scuola, l’identità, che è un
bisogno assoluto per ciascuno di noi,
si costruisce altrove, in tutti quei
luoghi, scuola esclusa, dove è
possibile ottenere riconoscimenti”.
L’adolescenza è fra le fasi della vita
la più colma di desideri, sogni,
speranze. Tali desideri si scontrano
spesso, tuttavia, con la realtà. Da
questo scontro, e in reazione ad esso,
possono scaturire due atteggiamenti:
rimozione e frustrazione. La rimozione
è ‘fuga dalla realtà’, che si traduce agli
occhi del professore quale
‘distrazione’. La rimozione è uno
‘sfogo’ alla forza del desiderio che si
oppone alla realtà, senza di essa il
desiderio esploderebbe incontrollato
nella realtà. La frustrazione è invece
uno stato d’animo utile, in determinate
dosi, alla crescita, ma che in eccesso
porta a spostare altrove la ricerca del
riconoscimento, senza il quale non si
costruisce alcuna identità. Tale
spostamento non è altro che
‘divertimento’ e cioè di-versione dalla
realtà. Ma il ‘divertimento’ non è vera
gioia, “la gioia è innanzitutto gioia di
sé, quindi identità riconosciuta, realtà
accettata, frustrazione superata,
rimozione ridotta al minimo”. A tutto
questo la scuola non provvede e di tutto
ciò non tiene conto, perché alla base
della scuola, afferma Galimberti, c’è il
principio, se non esplicitamente
dichiarato quanto meno implicitamente
accettato, che l’educazione è un
derivato necessario dell’istruzione. Ma
è tutt’al più il contrario: “E’ se mai
l’istruzione un evento possibile a
educazione avvenuta. E l’educazione
non è fatta solo di buone maniere, ma è
una lenta acquisizione, attraverso
riconoscimenti della gioia di sé”. E
nell’invertire tale rapporto la scuola ha
sviluppato una tendenza
all’oggettivazione, causa prima della
demotivazione scolastica, che è
l’equivalente nel campo ospedaliero di
quel processo “che porta i medici a
considerare i pazienti solo come
organismi”.
SEGUE A PAGINA 8
RIFLESSIONI ZUCCHINE
SEGUE DA PAGINA 7
che porta i professori a giudicare i
loro studenti in base al profitto, […]
risolvendo l’educazione in un puro
fatto quantitativo”. E si sprona allo
studio attraverso espressioni
semplicistiche riconducibili al ‘mito
della buona volontà’ (una su tutte
‘dovrebbe impegnarsi di più…’),
senza tenere in conto “ che la
volontà non esiste al di fuori
dell’interesse, che l’interesse non
esiste separato da un legame
emotivo, che il legame emotivo non
si costruisce quando il rapporto tra
professore e studente è un rapporto
di reciproca diffidenza, se non
addirittura di assoluta
incomprensione”. E dunque, la
scuola, attraverso le interrogazioni,
misura il ‘profitto’, che in realtà è
l’ultimo anello di una catena
composta da sollecitazione emotiva,
interesse, volontà, e che è, dunque,
la naturale conseguenza di
“premesse che la scuola ha evitato di
curare”. Vi propongo, in ultimo,
quasi per intero, un paragrafo, il
sesto, che mi è sembrato
particolarmente significativo ed
incisivo:
“Questi sono i problemi della scuola,
problemi che si possono risolvere
solo con la formazione, e non solo la
preparazione, di professori che
abbiano come tensione della loro
vita la cura dei giovani. E come non
si può fare i corazzieri se si è alti un
metro e cinquanta, cominciamo a
chiederci perché si può insegnare per
il solo fatto di possedere una laurea,
senza alcuna richiesta in ordine alla
competenza psicologica, alla
capacità di comunicazione, al
carisma. Sì, proprio il carisma. Tutti
abbiamo conosciuto almeno un
professore che è stato decisivo nelle
nostre scelte di vita. Perché questa
possibilità è sempre più ridotta per i
giovani di oggi, quando la psicologia
ci insegna che i processi di
identificazione con gli adulti, le
cariche emozionali che su di loro
vengono convogliate sono le prime
condizioni per la costruzione di un
concetto di sé così necessario per non
brancolare nell’oscillazione
dell’indeterminatezza? La mancanza
di formazione personale, infatti, se
non porta gli adolescenti al suicidio,
li porta spesso là dove si spaccia
musica, alcol e droga, in quella
deriva dell’esistere che è poi
quell’assistere allo scorrere della vita
in terza persona senza esserne
granché coinvolti, in ritmi sempre
più estremi ed estranei. Per cui, in
certo modo, ci si sente stranieri nella
propria vita, in quell’insipido
trascorrere di giorni, dove
equivalente diventa esserci o non
esserci, senza che alcun gradiente
faccia apparire la vita preferibile al
suo nulla […] A queste forme di
disagio si è soliti rispondere con
quell’elenco di riforme dove ciò che
si prospetta sono autonomie
gestionali, rivalutazione della figura
del preside, accorpamenti di indirizzi
di studio, ecc. L’unico fattore
trascurato è il frequente disinteresse
emotivo e intellettuale
dell’insegnante, con trasmissione
diretta allo studente, che tra i banchi
di scuola finisce per trovare solo
quanto di più lontano e astratto c’è in
ordine alla sua vita, in quella calda
stagione dove il sapere non riesce,
per difetto si trasmissione, a divenire
nutrimento della passione e suo
percorso futuro.”
Scusate per la lunghezza
dell’articolo, ma mi pareva quanto
meno conveniente esporre queste
riflessioni all’interno di un giornalino
scolastico. Se avete avuto
l’incredibile pazienza di giungere fin
qui, vi ringrazio, e spero ne abbiate
ricavato motivi per riflettere.
•••
Michele Vitobello
III B
MUSICA
SANREMO IN 10 PUNTI
Ovvero: quello che ci ha segnati di questo Festival e che
non dimenticheremo facilmente …
Anche quest’anno minaccioso è
arrivato il Festival di Sanremo, una
nemesi per il popolo italiano, che è
rimasto impegnato cinque serate,
della durata di quattro ore ciascuna,
a non perdere il sorriso di fronte alla
tristezza di un evento tradizionale
che sembrava non finire mai. Cosa
di queste cinque serate ha colpito nel
profondo il pubblico italiano?
1. L o r e d a n a B e r t è e G i g i
D’Alessio: il duetto più
improbabile che la televisione
italiana abbia mai visto.
Superato lo shock provocato
dalla figura di Loredana, uno
strano incrocio al femminile tra
Mickey Rourke e Marilyn
Manson, nonché lo sgomento al
sentire le sue straordinarie doti
vocali, ci si può dedicare
all’ascolto della canzone che
non risulta essere la peggiore in
gara, almeno provoca ilarità.
2. G i a n n i
Morandi:
semplicemente patetico, il
pubblico la prima serata lo ha
accolto acclamando il suo nome
con un tale entusiasmo che
deve essersi montato la testa. Si
atteggiava come un ventenne:
d’altra parte i capelli di quel
castano vivace possono trarre in
inganno, inconsapevole di
risultare ridicolo, e cercava di
mettere in scena gag tutt’altro
che divertenti con chiunque
salisse sul palco.
3. Adriano Celentano, colpito da
una gravissima forma di delirio
di onnipotenza, ha tenuto
un’orazione politica che
avrebbe lasciato senza parole
anche Cicerone… per la noia e
la fatica a seguirne i discorsi.
4. Geppi Cucciari: per fortuna c’è
stata lei a rallegrare l’atmosfera
della serata finale durata la
bellezza di cinque ore!
Simpatica e spontanea, come
sempre, si è presa gioco di tutto
quello che ha reso questo
Festival tristemente
indimenticabile, dal lessico
colorito del presentatore
all’interminabile monologo di
Celentano, che ha messo a dura
prova chiunque. Non sempre
però Morandi sembrava
coglierne l’ironia.
5. Shaggy, noto ai più per il
tormentone Boombastic, ha
accompagnato Chiara Civello
nella serata dedicata alla
celebrazione della canzone
italiana, purtroppo non era stato
avvisato che Sanremo è una
competizione canora di un certo
calibro, per cui si è presentato
indossando un pigiama. Per non
parlare della sua totale
incapacità di cantare.
6. Emma, la vincitrice, ennesimo
prodotto di Amici di Maria De
Filippi a calcare il palco
dell’Ariston, ha senza dubbio
talento, ma poteva rinunciare
alla canzone di stampo politico
che non le si addice affatto.
7. Arisa, il brutto anatroccolo un
po’ impacciato dell’edizione del
2009, è diventata una donna
capace di mostrare tutte le sue doti
vocali: meritava la vittoria.
8. Noemi: la sirenetta a Sanremo!
Capelli rosso fuoco e abito da sera
blu non verranno facilmente
dimenticati dal pubblico, la
canzone, invece, lunga, pesante e
noiosa è già caduta nel
dimenticatoio.
9. Il numero d’apertura della serata
finale deve essere interpretato, io
ancora non sono riuscita a farlo:
cosa centrano tutte le coppie
impegnate in effusioni d’amore
con il festival della canzone
italiana?
10. Ivanka Mrazova, una modella
ceca, e le fiere Elisabetta Canalis e
Belen Rodriguez, la cui utilità sul
palco ai fini della conduzione è
ancora da chiarire, non hanno fatto
altro che mostrare quale sembra
essere il ruolo della donna in
televisione, purtroppo. Non
occorre spendere troppe parole a
trattare di tatuaggi e biancheria.
Insomma, se gli italiani sono riusciti a
sopravvivere a questo festival, il 21
dicembre 2012 sarà un gioco da
ragazzi...
•••
Elisa Tonussi
II D
MUSICA
“DIMENTICHIAMOCI DI COME HANNO
VISSUTO E CONSERVIAMO LA LORO VOCE”
New Jersey, anni ’70. Michael
Zager, leader di una band chiamata
Michael’s Zager Band, nota nel coro
di un locale di Newark una voce in
particolare. Calda, limpida, pulita
ma profonda e molto estesa.
E’ la voce di una ragazzina di soli 14
anni che si diverte ad accompagnare
la madre Emily al lavoro.
Quest’ultima
infatti è da tempo
cantante nel gruppo soul “Sweet
Inspiration”, che ha anche fornito
voci supporto per Elvis Presley e
Aretha Franklin. Dopo aver
partecipato alla registrazione del
brano di Zager “Life’s a party” come
cantante di sostegno, Whitney riceve
l’offerta di un contratto discografico
che è costretta a rifiutare, perché
Emily vuole che sua figlia si occupi
prima di tutto degli studi scolastici.
Nei primi anni ’80 comincia a
lavorare come modella ma presto
decide insieme ai suoi genitori di
intraprendere la carriera musicale, in
quanto aveva già mostrato in
precedenza di possedere abilità
vocali fuori dal comune.
Nel 1983, dopo aver firmato un
contratto con la casa discografica
“Tara Production” diventa una delle
prime donne di colore ad
aggiudicarsi le copertine di riviste
come Vogue, Cosmopolitan e
Glamour. Nel 1984 registra il
singolo “Hold me” con Teddy
Pendergrass, noto compositore,
costituendo il primo grande trionfo.
Sale il primo gradino per il successo
nell’85, pubblicando l’album
intitolato “Whitney Houston”, che si
inserisce direttamente al primo posto
nella classifica americana degli
album più venduti, restandovi per
quattordici settimane ed entrando nel
Guinness dei Primati come l’album
più venduto di un’artista esordiente
(con quasi 29 milioni di copie). Nel
1987 torna con la raccolta
“Whitney”, con la quale riafferma le
proprie capacità. Nel 1988 incide
“One moment in time” che diventa
l’inno delle Olimpiadi di Seoul.
Nel 1990 pubblica il suo terzo
album, “I’m Your Baby Tonight” e
l’anno successivo un singolo che
riprende l’inno americano e che
canta alle truppe americane di
ritorno dalla guerra del Golfo. Nel
’92 debutta al cinema con il film “La
guardia del corpo”, nel quale è
coprotagonista. Il brano portante
della colonna sonora è “I Will
Always Love You”, cover di un
pezzo di Dolly Parton, che ottiene un
successo planetario mai raggiunto
prima. Per qualche anno si impegna
nel cinema, fino a quando, nel 1998,
esce il quarto album, “My Love Is
Your Love”. Questo contiene il
duetto con Mariah Carey intitolato
“When You Believe”, che diventa
parte della colonna sonora del
cartone della DreamWorks “Il
principe d’Egitto”, vincendo l’Oscar
come migliore canzone originale. Nel
2000 esce la raccolta “Greatest Hits”,
che contiene un brano registrato con
George Michael e uno con Enrique
Iglesias. L’album vende 8 milioni di
copie e diventa uno dei 20 più
venduti in Inghilterra. Dopo l’uscita
della quinto album, “Just Whitney “,
decide di lanciare un album natalizio
intitolato “One Wish: The Holiday
Album” insieme ad altri artisti tra i
quali Mariah Carey, Barbra Streisand
e Celine Dion. Dal 2004 al 2006 la
carriera di Whitney subisce uno
“stop” a causa di problemi familiari
che si risolvono nel settembre 2006,
quando la cantante decide di
divorziare dal marito Bobby Brown,
dal quale era stata picchiata e che più
volte era stato denunciato per droga e
alcool. Una tappa importante del suo
“viaggio” è Piazza Castello di
Torino, dove si esibisce per i XX
Giochi Olimpici Invernali. Nel
febbraio 2007 viene ingaggiata per
cantare nella serata di gala che
anticipa i Grammy Awards e per
consegnare il premio al Miglior
Album R&B il giorno seguente.
Nell’agosto dello stesso anno, a poca
distanza dall’ultimo lavoro
discografico, esce “I Look To You”,
che interpreta per la prima volta il 1°
settembre nel Central Park di New
York. Dopo una sola settimana riceve
il disco d’oro, poiché con la sua
ultima composizione supera la soglia
delle 35 000 copie vendute in Italia.
Il 22 novembre si esibisce sul palco
degli American Music Awards
cantando “I Didn’t Know My Own
Strenght” e ricevendo il “Premio
Internazionale per Eccellenza”. Tre
anni dopo, il 26 gennaio 2010, l’Arista
Records pubblica “Whitney Houston:
The Deluxe Edition”, per celebrare il
25° anniversario dell’album di debutto
dell’artista. Mentre negli anni ottanta e
nei primi novanta appariva come la
classica “brava ragazza”, a fine anni
novanta ci fu u cambiamento radicale
nel suo comportamento. Si iniziò a
parlare delle droghe che Whitney
avrebbe assunto insieme al marito. Nel
2001 la Houston fece un'apparizione
nello show per i trent'anni di carriera
di Michael Jackson, destando
impressione per la sua magrezza;
l'esibizione rafforzò i sospetti di uso di
droga, anoressia e bulimia, ma il suo
agente la difese: "Whitney è sotto stress
per motivi familiari e, quando è sotto
stress, non mangia". In realtà fece uso
di droghe per qualche anno, fino a
quando, nel 2004, decise di entrare in
riabilitazione. Dopo esserne uscita per
qualche mese fu costretta a rientrarci
nel 2005, completando il programma
con successo. Sebbene alcuni scettici
sostenessero che la cantante
continuasse a fare uso di droghe, la
casa discografica e lei stessa negarono
duramente. Nonostante ciò, nel
maggio 2011, la sua agente dichiarò
che la cantante era di nuovo in cura
riabilitativa presso una clinica, per
completare il programma che aveva
abbandonato nel 2007 a causa dei suoi
impegni lavorativi.
Whitney è morta l’11 febbraio scorso,
all’età di soli 48 anni, mentre si trovava
insieme alla famiglia in un hotel a
Beverly Hills, per inaugurare i
Grammy. E’ stata trovata in condizioni
critiche nella vasca da bagno della sua
suite intorno alle 15.30, poiché aveva
bevuto un cocktail di farmaci e alcool.
E’ deceduta pochi istanti dopo il
ritrovamento. Oggi viene
universalmente riconosciuta come una
delle più grandi icone della musica
soul; inoltre fu la donna che aprì le
porte della musica alle cantanti di
colore, per le quali erano sempre state
sbarrate.
---CONTINUA A PAGINA 9
cINEMA
The Iron Lady
Regista: Phyllida Lloyd.
Musica: Thomas Newman.
Sceneggiatura: Abi Morgan
Firmo subito un trattato di pace
con voi lettori: la mia intenzione
non è fare di questo film una
questione politica ma solo
commentare, come sempre, i
suoni, i costumi… insomma tutto
ciò che dovrebbe renderlo un buon
film.
Margaret Hilda Thatcher fu primo
ministro dell’Inghilterra dal
1979-1990 e cercò di risollevare il
paese dalla crisi che lo affliggeva
in quegli anni. Faceva parte del
partito conservatore, durante il suo
mandato operò importanti scelte
politiche ed economiche ( alcune
delle quali non condivido),
dichiarò inoltre guerra
all’Argentina per il controllo delle
isole Falkland, guerra che durò da
marzo a giugno 1982.
Cercando di mantenere il patto
stipulato un attimo fa, comincerò
con l’elemento più banale e ovvio
che si possa cogliere in questo
film: l’interpretazione di Meryl
Streep (Margaret Thatcher) come
sempre fantastica e molto
realistica. Si può dire che il primo
ministro inglese abbia rivissuto in
una pellicola la sua storia. Come
avrete intuito è un film storicopolitico: se dovessimo fare un
paragone con un’altro film dello
stesso genere abbastanza recente
sceglierei “Il discorso del re “. A
mio parere il secondo è da
preferire sia a livello di battute nei
dialoghi sia come montaggio delle
scene. Tuttavia, si sa, i film storici
---CONTINUA DA PAGINA 8
Nei giorni immediatamente
successivi alla sua morte mi è
capitato di leggere sui social
network commenti sarcastici come
“se l’è cercata” e cose simili.
Personalmente credo che sì, se
avesse smesso di drogarsi prima
non sarebbe morta ma in fondo era
una persona adulta, capace di
prendere proprie decisioni e in
grado di scegliere o perlomeno di
cambiare il proprio destino. A me
piace ricordarla con il nome che le
non sono cosa semplice a
realizzarsi e bisogna tener conto
anche dell’attinenza alla verità
storica che in questo caso è
abbastanza buona. Il montaggio
come accennavo prima è
abbastanza particolare e si articola
su tre livelli: il primo nel tempo
presente rappresenta una Thatcher
ormai anziana, stanca e scossa
potremmo quasi dire prigioniera
dei ricordi, dei quali ci rende
partecipi. il secondo livello dipinge
la sua carriera politica mentre il
terzo ricorda la sua giovinezza.
Naturalmente secondo e terzo
livello sono interscambiabili perché
raccontati in flashback dalla
protagonista.
Soffermandoci ancora un attimo sul
personaggio principale, notiamo
che dalla giovinezza fino alla
vecchiaia il suo carattere forte e
autoritario non cambia. Ad esempio
come durante la carriera di primo
ministro accettava raramente
consigli dai suoi collaboratori, se
non coincidevano perfettamente
con i suoi piani e non si faceva
influenzare da polemiche e
pressioni politiche, allo stesso
modo durante la vecchiaia non
ammette di avere delle
allucinazioni (Margaret soffre per
la perdita del marito) e non ascolta
i consigli ragionevoli e protettivi
della figlia per la sua salute. Da
sempre era stata una persona forte e
autoritaria, mai sottomessa al
marito e sempre ordinata
nell’aspetto, rappresentato nelle
scene da un completo blu e
dall’immancabile collana di perle.
era stato attribuito da Oprah
Winfrey: “The Voice”.
Concludo con due citazioni,
affinchè quando ci capiterà di
sentire il nome di
Whitney
Houston la ricorderemo per la
donna, oltre che per la cantante,
meravigliosa che era,
dimenticandoci dei suoi difetti e
delle scelte fatte.
“I musicisti sono persone con una
sensibilità particolare. Spesso sono
molto fragili, troppo fragili.
Quando poi arriva il successo le
pressioni diventano enormi: c'é chi
A proposito di immagine, i costumi
nel film sono ben curati inoltre lo
spettatore viene calato nel periodo
storico, per altro non molto remoto,
anche grazie all’inserimento da parte
del regista di filmati contemporanei a
quell’epoca. La colonna sonora è
mediocre, accompagna lo scorrere
della pellicola senza imporsi
all’attenzione dello spettatore (come
avrete notato le colonne che non sono
prodotte da Hans Zimmer non mi
convincono particolarmente, tuttavia
per questo film non è la musica il
tratto più importante).Che dire degli
altri personaggi? A mio parere
vengono un po’ oscurati da Meryl
Streep forse per la sua recitazione o
semplicemente per il fatto che il film
è incentrato su di lei. Ad ogni modo è
importante il ruolo del marito
(interpretato da Jim Broadbent )che
rappresenta in modo complementare
i tratti mancanti del carattere di
Margaret: non è ambizioso, è
subordinato alla moglie, accetta gli
avvenimenti senza cercare di
cambiarli.
Infine vi consiglio questo film
principalmente per conoscere meglio
un periodo della storia
dell’Inghilterra e (per chi volesse
diventare un politico) per chiedersi
come avrebbe reagito davanti a
particolari situazioni e che decisioni
avrebbe preso.
•••
Irene Camporeale
II A
ricorre a scorciatoie, alcool, droga,
psicofarmaci. E il mestiere più
bello del mondo diventa un
inferno. Dimentichiamoci di come
hanno vissuto e conserviamo la
loro voce.” (Enrico Ruggeri)
"If the voice is a musical
instrument, hers is a
Stradivarius" (Se la voce è uno
strumento musicale, il suo è uno
Stradivari). (Time Magazine)
•••
Beatrice Bosco
VF
BAR SPORT
BYE BYE OLIMPIA
La notizia del mese è senza dubbio
quella che Roma non si metterà in
lizza per le Olimpiadi del 2020.
Dopo l'annuncio della candidatura,
avvenuto quest'estate tra squilli di
tromba e con il consenso di buona
parte del parlamento, a metà
febbraio il governo Monti ha deciso
di non dare il via libera economico
all'organizzazione dei Giochi.
Le reazioni del mondo dello sport e
dei politici della Capitale sono state,
ovviamente, piene di delusione e di
amarezza per l'occasione perduta e
sostenute dai dati di crescita
economica, secondo i quali i Giochi
avrebbero portato ad un aumento del
pil pari all'1,7% (rispetto al 2011)
con incidenze ben maggiori al centro
ed al sud, oltre che ad un aumento
dell'occupazione pari allo 0,7% su
scala nazionale (ma anche in questo
caso con ricadute maggiori sul
centro-sud). Secondo questi dati,
dunque, le ingenti spese sarebbero
state ripagate dai benefici economici
di cui avrebbero goduto soprattutto
alcune delle zone più disagiate del
paese. Inoltre, l'Olimpiade avrebbe
potuto costituire un'ottima occasione
per rilanciare le politiche sportive
del nostro paese, ultimamente
piuttosto carenti, e, più in generale,
il mondo dello sport italiano che sta
passando un periodo tutt'altro che
roseo. Senza contare i benefici di cui
avrebbe goduto la stessa città di
Roma.
Ma per fare un ragionamento basato
su elementi un po' più concreti sui
benefici potenziali dei Giochi, si
possono andare a vedere gli elementi
in base ai quali viene giudicata
l'ammissibilità di una candidatura. Il
primo è il “supporto governativo”
che oramai sappiamo non esserci. Ci
sono poi diversi parametri collegati
all'impiantistica ed alle
infrastrutture: sui primi non ci
sarebbero stati problemi, poiché
buona parte delle strutture costruite
in occasione dei Giochi del 1960
sarebbero state ancora attive ed
utilizzabili. Questo comporta una
minor spesa nella costruzione degli
impianti ed una garanzia sul fatto
che non sarebbero diventati delle
“cattedrali nel deserto”; qualche
problema avrebbe potuto sorgere
sulle seconde.
La città, infatti, pur essendo
facilmente raggiungibile, avrebbe
qualche problema con la viabilità
interna, poiché il Comitato Olimpico
chiede per l'evento un forte apparato
di mezzi pubblici che però a Roma
consistono quasi esclusivamente in
autobus, avendo la città solo due
linee di metropolitana. Si sarebbero
dovuto, quindi, spendere un po' nella
costruzione di infrastrutture. Ma
questi lavori avrebbero avuto poi una
ricaduta in positivo sulla viabilità e
sulla vita dei cittadini anche dopo
l'evento. Non avrebbero infine dato
particolari problemi gli ultimi
parametri, che riguardano soprattutto
impatto ambientale, sicurezza,
esperienza organizzativa ed
“ospitalità” per pubblico ed atleti.
Alcuni di questi, come l'esperienza
organizzativa e l'ospitalità
(soprattutto quella per il pubblico),
erano, tra l'altro, due dei fiori
all'occhiello della candidatura
capitolina, che era considerata la
favorita. Le avversarie sarebbero
state, infatti, Baku, Doha, Tokyo,
Istanbul e Madrid. Dato che le prime
due candidature sono più che altro
delle boutades (la prima, capitale
dell'Azerbaijan, per motivi oggettivi,
la seconda, capitale del Qatar, per
motivi climatici), al congresso del
Cio che designerà la città sarebbe
stata una corsa a quattro con Roma,
appunto, in prima posizione.
Improbabile la scelta di Tokyo,
perché i Giochi invernali del 2018 si
disputeranno in Corea del Sud e
generalmente si cerca il più possibile
di alternare i continenti, e difficile
quella di Istanbul, poiché in Turchia
si partirebbe praticamente da zero,
anche se la crescita economica del
paese è un dato tenuto in
considerazione (basti pensare a
Pechino 2008 ed a Rio 2016). Detto
ciò, la rivale più accreditata, che è
ora la favorita, era Madrid, città ben
fornita di impianti ed infrastrutture,
ma che si trova in un paese
economicamente messo peggio
dell'Italia e che fornisce dunque meno
garanzie. Ma che, nonostante le
difficoltà, ha deciso lo stesso di
sostenere la candidatura proprio per gli
effetti positivi che avrebbe
sull'economia spagnola.
Sulla scelta del governo italiano ha
pesato più di tutti il pessimo esempio
dato di Atene. Uno dei motivi
dell'attuale crisi greca sembra che siano
state le Olimpiadi del 2004, per le quali
le spese, a conti fatti, si rivelarono il
doppio di quanto preventivato. Questo,
però, non tanto per l'evento in sé,
quanto più per le “cricche” (come le
chiamiamo noi) che hanno approfittato
dei Giochi per guadagnare in modo non
molto limpido vagonate di soldi. È
(anzi, sarebbe stato) questo il vero
problema di Roma: le cricche, la
corruzione, le tangenti e tutti quegli
affari sporchi collegati al mondo degli
affari e della politica, che in Grecia
hanno portato il paese sull'orlo del
baratro, mentre da noi, per fortuna, si
sono limitati “solo” a speculare sui
grandi eventi sportivi e non. Sono stati
loro ad infrangere il sogno olimpico,
non la crisi né il governo Monti.
•••
Alessandro Mantovani
III D
GIOCHI
Sudoku
medio
difficile
Le soluzioni … nel prossimo numero!
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BARTOLOMEO
il giornale degli studenti dello Zucchi
R E D A Z I O N E
A/S 2011-12
DIRETTRICE: Nadeesha Uyangoda - III A
VICEDIRETTRICE: Clara Del Genio - III A
CAPOREDATTORI:
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• Claudia Pizzagalli - III C
• Irene Doda - III D
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GRAFICA:
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Ringraziamo inoltre tutti coloro che hanno collaborato all’uscita del
Bartolomeo (collaboratori, insegnanti ed operatori scolastici).
Ricordiamo che chiunque può partecipare alla redazione del Bartolomeo
inviando un suo articolo all’indirizzo mail [email protected]
I numeri del Bartolomeo sono disponibili anche on line sul sito
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