Nell`ottobre del 2005 usciva il Senza Soste n. 0. Dopo quasi 10 anni
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Nell`ottobre del 2005 usciva il Senza Soste n. 0. Dopo quasi 10 anni
Periodico livornese indipendente - anno X n. 100 - in uscita dal 16 gennaio 2015 OFFERTA LIBERA Poste italiane S.p.A. Spedizione in Abb. Post. 70% Regime libero aut. cns/cbpa/centro1 Validità dal 05/04/2007 www.senzasoste.it La difesa delle libertà Q uando avvengono fatti drammatici come quello dell’uccisione di 12 membri della redazione del giornale satirico Charlie Hebdo, diventa complicato fare analisi perché si viene immediatamente circondati da un’emotività che cerca solo il conformismo da social network e la corsa allo schieramento virtuale sotto la cornice di una pressione mediatica a reti unificate. Premettendo che quello che è successo è un abominio e rischia di portare l’Europa indietro di secoli, abbiamo anche definito come un errore la linea editoriale di Charlie Hebdo, non certo per dire che se la sono cercata, ma per aprire un dibattito sul concetto di libertà di espressione e sulle strumentalizzazioni di giornalisti e politici che in passato non avevano esitato a chiedere censure e sostenere leggi in Parlamento in quel senso. A queste persone noi chiediamo se avrebbero pensato la stessa cosa circa l’assolutezza della libertà di espressione se qualcuno avesse pubblicato una vignetta con Hitler che gioca con una saponetta dileggiando gli ebrei, oppure se le Femen avessero fatto la loro performance dentro il Vaticano invece che in una chiesa ortodossa nella lontana Russia. Oppure se sul famoso striscione appeso a Livorno durante Effetto Venezia ci fosse stato scritto “Forza Hamas, mettili tutti in un forno” invece che un’accusa contro lo Stato di Israele per i bombardamenti su Gaza. Ogni volta che qualcuno di noi scrive, protesta, provoca o accusa, lo fa perché ha un obiettivo. L’articolo, lo striscione o la manifestazione sono strumenti per porre un problema e cercare di risolverlo. Fare vignette con Gesù, Maometto o Buddha che vengono sodomizzati non è una questione da codice penale ma una questione politica e come tale la commentiamo. La satira dovrebbe servire a destrutturare e smascherare un potere, prendendolo in giro. Se poi uno è di “sinistra” l’obiettivo dovrebbe essere anche quello di usare strumenti per deconfessionalizzare il dibattito e concentrarsi semmai sui poteri legati all’Islam e sostenuti anche dall’occidente. Dileggiare Maometto in quel modo genera l’effetto contrario, cioè alimenta l’identità religiosa di centinaia di migliaia di musulmani francesi e dà ad Isis, Al Qaeda o le cellule di assassini un argomento in più. Ed è un errore. Quindi se la sono cercata? No, niente giustifica ciò che è successo. Anzi, ognuno di noi deve lavorare affinché non avvenga più. Ma mentre alcuni esaltano la genialità e la linea editoriale di quel giornale, noi diciamo che ancora non abbiamo capito la genialità, e non condividiamo i loro strumenti e i loro obiettivi, anche se ovviamente avevano il diritto di fare tutto ciò che hanno fatto senza essere uccisi. Redazione Foto di Irene Carmassi 100! Nell’ottobre del 2005 usciva il Senza Soste n. 0. Dopo quasi 10 anni e 100 numeri il progetto è mutato insieme al mutare della città, senza però perdere la propria indipendenza e cercando di dare voce ai movimenti che crescono dal basso e che perseguono i principi di sostenibilità, solidarietà e giustizia sociale. S enza Soste nacque alla fine dell’estate del 2005, quando un gruppo di compagni legati a varie situazioni di movimento all’interno della città si ritrovarono nella palazzina di via dei Mulini 29 che ospitava il Csa Godzilla e il Cp 1921. La provenienza di quella dozzina di persone che poi fondò la redazione era variegata: dall’esperienza di Indymedia alla Curva Nord, dal movimento antagonista al sindacalismo di base fino all’associazionismo culturale. Un bel mix di esperienza, di pratiche e di competenze che a volte hanno portato a duri scontri ma che più che altro hanno portato un arricchimento e una visione più completa di ciò che ci circondava e ci circonda. Molti fanno tutt’ora parte della redazione, altri ne sono usciti ma continuano a sostenerla dall’esterno con i propri contributi sia giornalistici che economici. Ma da cosa era nata la necessità di creare innanzitutto un nuovo strumento di comunicazione dal basso? Sicuramente la motivazione non era solo dovuta all’analisi politica, cioè l’assunzione dell’importanza della comunicazione per chiunque volesse fare politica, ma soprattutto difensiva. Il 2004-2005 era stato un biennio all’insegna della repressione sia per il movimento ma soprattutto per la curva, con il duo Puglisi (questore)- Pennisi (Pm) che imperversava in città e distribuiva perquisizioni e denunce per associazione a delinquere come se piovesse, con Il Tirreno a sostenere la campagna terroristica. Dalle perquisizioni a Csa Godzilla e Cp 1921 del marzo e giugno 2004 con tanto di elicotteri e squadre speciali, fino al sequestro di massa dei tifosi del Livorno a Roma dopo la partita con la Lazio, la cosa che più sconvolgeva non era tanto la sproporzione degli strumenti repressivi messi in atto ma soprattutto il circo mediatico che stravolgeva quotidianamente notizie e realtà. Il 23 ottobre 2005, in occasione di Livorno-Reggina, venne distribuito allo stadio il numero 0 di Senza Soste (nella foto di pagina 4), che fu stampato in una tipografia ma che riportava il “Fotocopiato in proprio via dei Mulini 29” per non incorrere nel reato di stampa clandestina. In prima pagina c’era la foto dei partigiani Barontini, Frangioni e Leonardi (poco dopo avrebbero perso la vita in un incidente stradale) che si preparano ad un comizio sul terrazzino della tribuna coperta dello stadio Armando Picchi. L’editoriale invece si intitolava: “A casa nostra” e cominciava così: “Questo cartaceo, che porta un nome dal sapore antico e, allo stesso tempo, attualissimo, ricorda la figura di Ilio Dario Barontini e gli anni duri della formazione del partito comunista di massa, della costruzione dell’egemonia rossa a Livorno. Ma è anche il ritmo di vita al quale siamo sottoposti quotidianamente: senza soste e, non di rado, senza meta o senza soddisfazione. Lo scopo di questo periodico livornese è quello di far sentire a casa propria tutti quelli che vivono senza soste in questo territorio. Farli sentire, anzi farli essere a casa propria, seguendo un comportamento che ai comunisti viene naturale: parlare una lingua semplice e diretta ma mai banale, parlare di problemi concreti senza essere seri ad ogni costo, parlare per dare la parola e non toglierla […]”. Il nome Senza Soste, infatti, viene proprio da un opuscolo edito dalla Federazione livornese del Pci nel febbraio del 1951, in memoria dei tre partigiani scomparsi in un incidente stradale. All’interno del numero 0, che al tempo era di 4 pagine a differenza delle 8 attuali, la rivolta delle Banlieue di Parigi, l’occupazione del cinema Odeon e la mappa della precarietà con tutti i contratti precari in essere dopo le leggi Treu e Biagi e un focus sul call center Telegate, oggi People Care e a rischio chiusura, che al tempo aveva assunto centinaia di giovani livornesi solo con contratti a progetto. Una battaglia vinta con l’intervento dell’allora Collettivo Precari Autorganizzati, con il sostegno mediatico di Senza Soste e con una sentenza storica dopo una battaglia legale portata avanti dai Cobas e dall’avvocato Marco Guercio che sancì l’assunzione con un contratto di lavoro dipendente a tempo indeterminato di oltre 300 lavoratrici e lavoratori. In ultima pagina, infine, “Spalti Ribelli”, una rubrica dedicata alla Curva Nord in cui veniva subito denunciata l’immotivata e sproporzionata repressione che ha fatto diventare la curva livornese come la più “daspata” d’Italia. In questi 10 anni Senza Soste è cambiato molto, ma non certo per golpe interni o decisioni strategiche. È cambiato perché è cambiato, e molto, il territorio di cui parla, sono cambiati i movimenti, è cambiata la curva e sono cambiate le priorità. Senza Soste era ed è soprattutto la voce di coloro che fanno, indagano, partecipano, organizzano e quindi muta con il mutare delle priorità e degli obiettivi di tutte le persone e le organizzazioni con cui collaboriamo o con cui condividiamo una visione del mondo e del territorio dove viviamo. Negli ultimi anni ci siamo concentrati più sulle inchieste e sui poteri forti della città. E abbiamo seguito il nascere e lo svilupparsi di... (continua a pagina 4) 2 internazionale anno X, n. 100 SPECIALE CUBA - L’annuncio del disgelo tra Washington e L’Avana E ora arriverà la fine dell’embargo? Pagina a cura di Nello Gradirà I l 17 dicembre il presidente cubano Raúl Castro e quello statuni tense Obama hanno annunciato l’inizio di trattative per il ripristino di normali relazioni diplomatiche tra i due paesi. Gli Stati Uniti hanno liberato i tre agenti cubani del gruppo dei “Cinco” (nella foto) ancora detenuti, mentre i cubani hanno scarcerato la spia statunitense Alan Gross. Cuba dovrebbe essere cancellata dalla lista dei paesi complici del terrorismo in cui è stata inserita dagli Usa nel 1982. Questo processo potrebbe portare alla fine dell’”embargo”, il blocco economico e commerciale contro Cuba introdotto nel 1962, ma non si tratta di un esito scontato: sarà necessario un voto favorevole del nuovo Congresso dove i Repubblicani, contrari ad ogni apertura, hanno la maggioranza in entrambe le Camere. Nel frattempo vediamo quali fattori hanno determinato una svolta nella politica estera Usa, che resta comunque clamorosa. Isolamento diplomatico Il 28 ottobre l’assemblea generale delle Nazioni Unite aveva approvato per il 23° anno consecutivo una mozione contro l’embargo, con i soli voti contrari degli Stati Uniti e di Israele. L’immagine internazionale dell’isola è molto solida nel sud del mondo e la cooperazione sanitaria con i paesi colpiti dall’Ebola l’ha ulteriormente rafforzata. Nel 2015 si svolgerà a N el novembre 2010 a Cuba vennero pubblicati i Lineamientos de la Política Económica y social del Partido y la Revolución, documento che proponeva riforme strutturali molto radicali. Queste proposte furono poi discusse ed emendate in assemblee popolari molto partecipate svoltesi in tutto il paese e formalmente approvate dall’Asamblea Nacional nel maggio successivo. Il documento partiva da una valutazione molto critica sulla situazione economica dell’isola, pregiudicata non solo da fattori esterni come la crisi globale e il bloqueo, ma anche da una scarsa produttività delle imprese pubbliche (un solo esempio: il 42% delle terre statali non coltivate) e dall’inefficienza dell’apparato statale. In questo contesto, i costi per i servizi sociali e sanitari stavano diventando insostenibili. Le proposte principali riguardavano la riduzione di almeno 500mila unità lavorative nel settore pubblico e il loro assorbimento nel settore cooperativo (soprattutto agricolo) e in quello privato - con l’ampliamento delle attività autorizzate, che oggi sono arrivate a ben 178 con più di 400mila occupati e la possibilità Panama il Vertice delle Americhe, al quale quasi tutti i governi latino americani avevano dichiarato di non voler partecipare se non vi fosse riammessa anche Cuba. Ma non sono queste le ragioni principali dell’apertura di Obama. Strategie elettorali Il presidente ha bisogno di portare a casa risultati tangibili in politica estera prima delle elezioni del 2016, nelle quali il voto dei latinos, che ormai rappresentano il 15% della popolazione Usa, sarà fondamentale. Tra questi vi sono 2 milioni di immigrati di origine cubana, che si concentrano soprattutto in Florida, uno stato decisivo per gli equilibri elettorali. Nel 2008 Bush, alla ricerca di consensi tra la mafia anticastrista di Miami, inasprì la politica migratoria e la normativa sulle rimesse verso Cuba, ma fu una autorete clamorosa: i cubani (tra i quali gli esuli politici sono una di assumere dei dipendenti - l’abolizione del sistema della libreta (che ha finora assicurato ai cubani la disponibilità di beni di prima necessità a prezzi politici), il superamento del doppio regime monetario e una liberalizzazione degli investimenti stranieri. Veniva anche autorizzata la compravendita delle case tra privati, liberalizzato il mercato dei pc e cellulari e facilitati i visti per l’estero. Su queste riforme a Cuba è in corso un dibattito estremamente interessante che riguarda le prospettive stesse del socialismo nel XXI secolo. I sostenitori delle riforme sostengo- L’ingresso massiccio di capitali esteri e lo sviluppo del settore privato rischiano di trasformare il socialismo in un guscio vuoto no che non si tratta di un ritorno al capitalismo ma di un attualizzazione del modello socialista. “Marx - si dice - non ha mai scritto che lo Stato dovesse gestire direttamente anche i piccola minoranza) non gradirono e la Florida, tradizionalmente repubblicana, passò ai democratici. Pressione dei media e degli imprenditori Il New York Times ha pubblicato cinque editoriali in meno di un mese a sostegno della riapertura delle relazioni con Cuba. Vi è una forte pressione degli imprenditori che vorrebbero investire nell’isola e vedono imprese cinesi, spagnole, canadesi e brasiliane aggiudicarsi importanti “fette” di un mercato che potrebbe essere molto redditizio, come nel settore turistico e nelle telecomunicazioni: “Nella visione del big data ame ricano nel futuro di Cuba potrebbero esserci distese di call center” scrive Il Manifesto. Da parte sua Cuba ha bisogno di valuta estera pregiata per importare combustibile e alimenti, in una fase in cui la crisi che attraversano Russia e Venezuela limita gli aiuti provenienti dall’estero. Nuovo corso Usa? L’apertura nei confronti di Cuba, più che una svolta ideologica, appare come un tentativo di rompere il fronte progressista latinoamericano: tanto è vero che all’indomani del discorso di Obama gli Stati Uniti hanno deciso il congelamento dei beni e il diniego dei visti d’ingresso per i funzionari venezuelani accusati di aver “violato i diritti umani”. In questo momento per gli Usa il “nemico pubblico numero uno” è proprio il Venezuela, che insieme alla Russia e all’Iran è bersaglio anche di una guerra commerciale contro i paesi Cambiano le strategie ma gli Usa non vogliono rinunciare alla loro tradizionale egemonia sull’America Latina Cuba in mezzo al guado parrucchieri”. Inoltre promuovere il settore cooperativo chiuderebbe l’epoca della pianificazione burocratica e permetterebbe la costruzione di un socialismo meno centralizzato, basato sulla partecipazione e sulla democrazia diretta. Sicuramente tutto ciò è vero, ma le misure previste sono idonee a raggiungere questi obiettivi? A quattro anni di distanza dalla loro approvazione, la produttività non sembra molto migliorata, e questo non ha permesso un aumento significativo dei salari. Il superamento del regime della doppia moneta, che provoca profonde disuguaglianze sociali tra chi può disporre solo di pesos nazionali e chi ha accesso ai pesos convertibili (tramite le rimesse degli emigrati o impieghi nel settore “informale”) non è stato realizzato, “non allineati” esportatori di petrolio. Lo stesso discorso di Obama lascia prevedere che le strategie di destabilizzazione contro Cuba proseguiranno utilizzando metodi più efficaci, come l’intervento di organizzazioni pseudoumanitarie e il finanziamento dei cosiddetti dissidenti. Il ruolo della Chiesa Raúl ha rin gra ziato il Vati cano per la mediazione. Già nel 1998, in visita a Cuba, Karol Wojtyla aveva condannato l’embargo sta tunitense definendolo “ingiusto ed eticamente inaccettabile”. Ma l’appoggio alle dittature militari negli anni ’70-’80 e la condanna della Teologia della Liberazione hanno pregiudicato la credibilità della Chiesa cattolica nel continente aprendo la strada alle sette evangeliche. Oggi papa Bergoglio cerca di recuperare il terreno perduto. Vittoria cubana In ogni caso per Cuba si tratta di una grande vittoria politica e diplomatica. Al di là di ogni retorica, il popolo cubano resistendo al bloqueo ha dimostrato la sua volontà di difendere l’indipendenza dell’isola contro ogni forma di neocolonialismo. Ma quali sono le prospettive? Lo vediamo nell’altro articolo di questa pagina. ma senza un aumento della produttività non avrebbe neanche risultati tangibili sulla qualità della vita. Il settore cooperativo stenta a decollare, sia per la mancanza di tecnologie che per la scarsa propensione a tornare alla campagna da parte di una popolazione molto scolarizzata. Inoltre, la crisi globale ha ridotto il volume degli aiuti provenienti da paesi amici. Le riforme che sembrano marciare più velocemente sono quelle relative alla liberalizzazione degli investimenti esteri: nei Lineamientos venivano previste Zone Speciali di Sviluppo, la prima delle quali è stata realizzata nel porto di Mariel con capitali cinesi e brasiliani, e grazie ad una legge approvata nello scorso aprile ora sono possibili investimenti con il 100% di capitale straniero. L’abolizione dell’embargo sarebbe una grande sfida e una grande opportunità ma l’ingresso massiccio di capitali stranieri rischia di tramutarsi in uno tsunami che può travolgere l’isola. Il timore è che il socialismo possa ridursi progressivamente ad un guscio vuoto e che si approfondiscano e si solidifichino differenze di classe che già oggi sono visibili. Probabilmente in passato si poteva fare di più utilizzando meglio i proventi del turismo (principale fonte di valuta pregiata per l’isola) e puntando con più decisione sulla riconversione agricola, la sovranità alimentare e l’autonomia energetica. E anche su incentivi ben mirati per migliorare l’efficienza dell’apparato statale. La soluzione, come spesso abbiamo avuto modo di scrivere, sta nella sempre maggiore integrazione latinoamericana, alla quale Cuba può partecipare da protagonista con i suoi professionisti e il suo modello di welfare che rimane un esempio per tutto il mondo. in uscita dal 16 gennaio 2015 3 interni ECONOMIA - Un quadro sulla situazione europea e italiana in vista delle prossime elezioni greche Germania, Grecia e tagli di casa nostra JIMMY CASE I l destino della Grecia? Alla Germania di Angela Merkel non interessa probabilmente più. È la conclusione a cui si arriva nel leggere le dichiarazioni che Michael Fuchs, membro senior del partito cristiano-democratico della cancelliera, ha rilasciato al quotidiano tedesco Rheinische Post. Il punto cruciale dell’intervista è nella seguente frase: “L’Eurozona non è più obbligata a salvare la Grecia”. Il paese non ha infatti più una importanza sistemica per l’Eurozona e, di conseguenza, Atene non potrà più “ricattare” gli altri paesi membri. Allo stesso tempo, il numero due del governo tedesco, il socialdemocratico Sigmar Gabriel, non solo fa affermazioni che stanno esattamente al contrario di quelle di Fuchs, ma sembra in pieno accordo con Angela Merkel. Entrambi però si scontrano col capogruppo Spd al parlamento tedesco che sembra, anche lui, vederla come Fuchs: la Grecia può lasciare l’Eurozona (visto che ha ripagato buona parte, o perlomeno quella esigibile, dei debiti contratti con le banche francesi e tedesche). Intanto ad Atene si è sciolto il parlamento. I greci torneranno alle urne il prossimo 25 gennaio, dopo la disfatta del premier Antonis Samaras che lo scorso 29 dicembre, per la terza NELLO GRADIRÀ S econdo l’Onu negli ultimi dieci anni almeno 500 giornalisti sono morti in tutto il mondo nell’esercizio della loro professione. Stando al rapporto annuale della Federazione Internazionale dei Giornalisti, nel 2014 i reporter e gli operatori uccisi sono stati 118, 13 in più rispetto all’anno precedente. Altrettanti sono stati sequestrati e 178 arrestati. Il paese più pericoloso è stato il Pakistan con 14 morti, al secondo posto la Siria (12), poi Afghanistan e Palestina con 9 ed Iraq e Ucraina con 8. Della maggior parte di questi giornalisti sappiamo poco o nulla, perché i media ufficiali (anche se si tratta di loro colleghi) ne parlano solo quando i responsabili sono i “nemici dell’Occidente”. Silenzio (quasi) assoluto, invece, quando la loro morte si deve a governi amici o ai loro servizi segreti, a una banda paramilitare pagata per destabilizzare qualche regione strategica o al narcotraffico, perché in fondo non è bello far sapere che molti paesi “democratici” sono ormai totalmente controllati dalla criminalità organizzata. In questo articolo abbiamo scelto di parlare bre- volta, non è riuscito a ottenere il numero di voti necessari per il suo candidato alla presidenza della repubblica, Stavros Dimas, uomo della burocrazia liberista della Ue. Le preoccupazioni della rete finanziaria globale riguardano ora la molto probabile vittoria del partito di Syriza, che rifiuta di accettare le condizioni di austerity imposte dalla troika in cambio di quelli che vengono chiamati aiuti. Ma che di fatto sono prestiti in cambio di privatizzazioni e di trasferimento. La Commissione formata da membri di Ue, Bce e Fmi ha deciso di estendere il programma di invio fondi fino alla fine di febbraio, rifiutandosi però di concedere un’altra linea di cre- dito per il periodo successivo, in attesa di nuove negoziazioni con Atene. Tanto per condizionare le elezioni, s’intende. Il punto è che il paese ha davanti a sé il pressante pagamento di debiti a scadenza nei primi tre mesi del 2015, che ammontano a quasi 5 miliardi di euro; e questo fattore riporta l’ipotesi di un default disordinato e di un’uscita della Grecia dall’euro, visto che Tsipras non sarebbe disposto a mettere in atto quelle misure di austerity tanto care alla Germania. Paese che, almeno per bocca di una parte dei suoi esponenti, potrebbe anche fare a meno della Grecia. Ma non è un caso che lo stesso Economist si sia lanciato esplicitamente contro la parte di ceto politico tedesco che sarebbe anche disposta a lasciar andare la Grecia. Esplicito il messaggio del settimanale inglese: “non fate come ai tempi Lehman”. Nel 2008 infatti la banca di affari americana fu ritenuta sacrificabile, come oggi potrebbe esserlo la Grecia, e fu fatta fallire perché ritenuto troppo oneroso il suo salvataggio. Finì che Lehman Brothers, fallendo, trascinò con sé non solo importanti fondi assicurativi ma anche una parte significativa della finanza globale. Aprendo una crisi che non si è ancora conclusa. In Italia, a livello di opinione pubblica, l’effetto-Grecia è visto ancora con gli occhi della paura. Ma le pa- role di Renzi “non rischiamo il contagio Grecia” non sono solo false, visto che la borsa di Milano ha già perso valore proprio a causa del paese ellenico, ma proprio non riflettono il contesto. Se c’è una cosa su cui tutti i maggiori partiti sono d’accordo in Germania è che, comunque vada con la Grecia, l’Italia deve continuare la “cura” fatta di tagli e dismissioni dei beni comuni. Anche perché, se l’Eurozona schiva l’effetto negativo dei mercati, la Grecia rimane un piccolo paese che pesa il 2 per cento circa del Pil dell’area. Per l’Italia, terza economia Eurozona, non ci sarebbero dubbi: se la Germania vuol mantenere una politica liberista il nostro paese dovrebbe andare avanti con austerità e privatizzazioni. I mercati sono già andati in subbuglio a partire dal giorno della disfatta di Samaras, con Atene che ha perso fino a -11%. E, come si è visto, la borsa di Milano ne ha risentito. Resta da dire una sola cosa: invece di impaurirsi per il contagio greco sarà meglio aiutare la sinistra greca. Il loro destino è il nostro. Divisi si finisce tutti in miseria. Per la Germania, comunque vada in Grecia, l’Italia dovrà continuare la “cura” fatta di tagli e dismissioni dei beni comuni LIBERTÀ DI STAMPA - Nel 2014 nel mondo sono stati uccisi 118 giornalisti “Matite spezzate”... del tutto ignorate vemente di quattro di questi casi, che ai più saranno sconosciuti. Invitiamo i lettori a cercare le loro storie in rete per rendersi conto di quale sia stata la copertura mainstream delle loro vicende. Serena Shim Trentenne statunitense di origini libanesi, seguiva per l’iraniana Press Tv gli sviluppi della guerra Quando ad uccidere i giornalisti non sono i “nemici dell’Occidente” nessuno ne parla e nessuno scende in piazza in Siria e in particolare l’assedio di Kobane. Aveva documentato i traffici di armi e di combattenti islamici attraverso la frontiera turca smascherando la complici- tà tra le autorità di Ankara e l’Isis. Il 17 ottobre era stata accusata di “spionaggio” dai servizi segreti turchi, ed aveva detto di temere un arresto. Le cose sono andate ancora peggio. Due giorni dopo, di ritorno da Kobane, Serena è rimasta uccisa in uno strano incidente stradale. La famiglia e la sua rete televisiva accusano apertamente di omicidio il governo di Erdogan. Khalid Reyad Ahmad Venticinquenne, lavorava per un’agenzia di Gaza. Durante l’Operazione Protective Edge, l’attacco israeliano dell’estate scorsa, stava documentando il coraggioso lavoro sotto le bombe degli operatori sanitari. Il 20 luglio un missile israeliano ha colpito l’ambulanza su cui si trovavano Khalid e un medico, uccidendoli entrambi. Le 9 vittime in Palestina riportate dalle statistiche citate all’inizio sono state tutte provocate dalle forze israeliane, ma secondo fonti palestinesi i giornalisti uccisi sarebbero 17. Herlyn Espinal Reporter trentaduenne, era corrispondente di Channel 3 da San Pedro Sula, la città honduregna che oggi “vanta” il più alto tasso nel mondo di omicidi per abitante. È stato il trentaquattresimo giornalista ucciso in Honduras dall’inizio del 2013. Nella regione, ormai dominata dalle bande criminali, spicca il Messico con 102 casi negli ultimi dieci anni. Più del 90% degli omicidi rimane impunito. Serghei Dolgov Era il direttore di un giornale chiamato “Rivoglio l’Urss” e documentava le violazioni dei diritti umani da parte delle forze golpiste di Kiev nell’Ucraina dell’Est. Rapito il 18 giugno, è stato torturato e ritrovato morto il 13 luglio. Se si eccettua il caso avvenuto durante le manifestazioni di EuroMaidan, in tutti gli omicidi avvenuti nel paese (compreso il fotoreporter italiano Andrea Rocchelli, ucciso il 24 maggio) sembra evidente la responsabilità dei militari ucraini. Per questi giornalisti nessuno è sceso in piazza con la matita in mano. 4 Livorno anno X, n. 100 LA NOSTRA STORIA - Il traguardo del numero 100 di questo giornale Alle radici di Senza Soste (segue da pagina 1) ...una coscienza più attenta alla sostenibilità ambientale e alla salute, insieme con i vari comitati sorti in questi anni. Lo ritenevamo e lo riteniamo importante in un territorio che ha vissuto il declino degli ultimi 20 anni arroccato sulle posizioni di rendita di una classe dirigente coperta e sostenuta dai media mainstream locali: Il Tirreno e Granducato Tv. Ma il progetto Senza Soste in questi anni è cambiato molto anche graficamente ed ha cercato di allargarsi e migliorare sempre di più, non senza alcuni ostacoli da dover superare. Dopo il successo dei primi numeri, i carabinieri fecero visita alla tipografia che lo stampava. Al tempo non eravamo registrati presso il Tribunale di Livorno e quindi non eravamo autorizzati a diffondere il giornale. Dovemmo fermare per tre mesi la stampa, ci mettemmo alla ricerca di un giornalista che ci facesse da direttore e facemmo un’associazione che deteneva la proprietà della testata. Il 2 marzo del 2006 il Tribunale ci dette l’ok e da metà marzo potemmo tornare a stampare il giornale uscendo da quel momento con regolarità ogni mese per 11 mesi all’anno, periodicità che manteniamo ancora attualmente. Quattro pagine però erano poche e ad ogni numero qualche buona proposta JACK RR I l 21 marzo 2013 pubblicammo un articolo on line dove facevamo cenno alle microplastiche che ormai rappresentano il principale inquinante del nostro mar Ligure e di tutti i mari in generale. Il mare è il corpo ricettore finale e l’acqua che attraversa le zone emerse è il primo veicolo di trasporto, oltre all’aria, di inquinanti che rimarranno per decine di anni a modificare in negativo le condizioni di vita naturali della biosfera. La liquidità del mare non crea presidi contro gli inquinanti mescolando ogni elemento dannoso, facendolo poi interagire con flora e fauna e addirittura con l’aerosol marino. Quindi se andiamo a valutare tutto nel suo complesso non esistono veri e propri presìdi contro gli impatti antropici ed ogni elemento immesso nel sistema naturale ritorna e colpisce indistintamente quei processi che si reggono su equilibri naturali molto precisi e delicati. Plastiche, minerali, fenoli e diossine sono gli elementi “non costitutivi” del nostro mondo di vita e l’atteggiamento umano incredibilmente continua a seguire la strada della rilevazione del grado di dispersione dell’inquinante di articolo rimaneva tagliata fuori. Al numero 9 già eravamo passati a otto pagine con il conseguente “impegno” raddoppiato. Così come erano raddoppiati i punti di distribuzione. Nel giro di pochi mesi almeno 20 edicole e altrettanti tra bar, ristoranti, spazi sociali e biblioteche distribuivano, a offerta libera, il nostro giornale. Avevamo però il problema dei portalocandine per le edicole ed un compagno con una ditta di carpenteria ce ne costruì e regalò una decina. Se oggi siamo arrivati al numero 100 è anche grazie a tutte queste persone che ci hanno aiutato a sostenere e distribuire il progetto. Il definitivo salto di qualità è avvenuto, però, nel gennaio 2007, quan- do con l’aiuto di compagni fiorentini legati ai collettivi di Indymedia, sbarcammo online con il nostro sito www.senzasoste.it. Nel giro di poche settimane avevamo centinaia di contatti singoli giornalieri, ma soprattutto la redazione dovette darsi regole e ritmi nuovi, perché se il cartaceo usciva mensilmente, con il sito il lavoro da fare era diventato quotidiano. Adesso siamo alla terza versione del sito, che speriamo di poter rinnovare presto, con quasi 20.000 articoli caricati in questi 8 anni di presenza in rete e oltre 2000 ingressi quotidiani da aggiungere a quelli dei social network. A fine 2008 è stata invece la volta della sperimentazione di Facebook e Twitter. Una sperimentazione che mano a mano è diventata una piattaforma che integra quotidianamente il sito e che in questi anni ci ha dato la possibilità di far commentare le notizie a chi ci segue e ha allargato la platea di chi si interfaccia con noi. Il mese scorso abbiamo avuto il record di copertura settimanale della notizie sulla nostra pagina Facebook: oltre 198.000 contatti. In mezzo a tutto questo, non sono mancate le querele. Dai militari, ai fascisti fino all’Autorità Portuale di Livorno. Al momento in tribunale ci siamo andati una volta, proprio per volontà del presidente genovese dell’Autorità Portuale. Avevamo raccontato la storia di un ricorso contro la graduatoria di un concorso per entrare nell’ente dove aveva vinto il portaborse del senatore Filippi. Una denuncia non certo fatta di illazioni, calunnie o sentiti dire (anche se come si suol dire, lo sapevano tutti e ci avevano annunciato in anticipo chi avrebbe vinto) ma con in mano i documenti della candidata che aveva fatto ricorso. La denuncia non è partita sui contenuti dell’articolo (probabilmente perché era inattaccabile) ma perché nella locandina abbiamo scritto come gioco di parole “Pork Authority”. In primo grado abbiamo perso. Ora andiamo in appello. Sono i rischi del mestiere, specialmente quando si vuole andare contro i poteri consolidati e incancreniti di questa città. In questi anni di attività e militanza, abbiamo giù contribuito a mandarne a casa qualcuno… Una redazione e 100 numeri che si portano dietro tante storie e tanti cambiamenti nell’arco di quasi 10 anni Redazione AMBIENTE - L’inquinamento delle acque, un problema sempre più grave Il mare e i distruttori endocrini piuttosto che prendere in considerazione una rivoluzione in ambito produttivo eliminando in senso assoluto gli scarti. I tentativi esistono ma i risultati sono ancora limitati per cui l’economia non si arresta e continua a imperversare sulla natura dei luoghi e infine del mare. Restando comunque nell’ambito delle analisi che misurino lo status È stato stimato a livello europeo un costo sanitario dovuto agli effetti dei distruttori endocrini pari a 31 miliardi di euro all’anno quo del mare che viviamo, attendiamo i risultati dei programmi di studio dell’Università di Siena riguardanti la quantità di polimero presente nei tessuti dei mammiferi e l’apporto di microplastiche da parte dell’Arno e del Tevere e anche i risultati e i suggerimenti del progetto Gionha (Governance and Integrated Observation of marine Natural Habitat) condotto localmente dall’Arpat. Gli elementi dannosi vengono definiti “interferenti o distruttori endocrini” e sono catalogati normativamente a livello comunitario come: “sostanza che altera la funzionalità del sistema endocrino, causando effetti avversi sulla salute di un organismo, oppure della sua progenie o di una (sotto)popolazione”. Alcune di queste sostanze come ftalati, bisfenoli e parabeni si ritrovano in materiali utilizzati quotidianamente e prodotti per la cosmesi che nei periodi di balneazione addirittura vengono accompagnati dall’uomo direttamente in mare. Gli interferenti possono essere anche naturali come gli estrogeni, il progesterone e il testosterone ma le quantità non sono di certo il risultato di una produzione industriale su scala planetaria. È ormai conclamata la dannosità di tali sostanze a tal punto che l’Unep nel suo rapporto Endocrine Disrupting Chemicals 2012 ne ha definito l’impatto come una “minaccia globale” da combattere. Esiste infatti ormai la certezza scientifica che questi ormoni di sintesi entrano nei processi endocrini naturali alterandone gli equilibri, quindi possono inibire o accelerare le funzioni biologiche di riproduzione cellulare. Così quel mare che noi osserviamo spesso con tanta poesia e tanta soddisfazione, da cui la vita prende la sua forza, crea al contrario la base di molte malattie che affliggono le specie e di conseguenza l’uomo. È stato stimato a livello europeo un costo sanitario dovuto agli effetti antropici dei distruttori endocrini pari a 31 miliardi di euro all’anno. La valutazione fatta dall’Heal (Health and Environment Alliance) è divenuta argomento di discussione interna alla Commissione e richiamata spesso da rappresentanti alla sanità dei singoli paesi, specialmente dalla Francia. in uscita dal 16 gennaio 2015 5 Livorno PORTO - Intervista con Vladimiro Mannocci sul senso e sulle ragioni dell’opera Darsena Europa Una Darsena elettorale...? V ladimiro Mannocci è il responsabile del Settore portuale della Federazione Prc di Livorno e vanta una lunga esperienza lavorativa in porto nella Compagnia Lavoratori Portuali. Lo abbiamo incontrato per capire meglio, fuori dalle sparate elettorali, dai giochi di potere e dagli interessi dei “soliti”, quale potrà essere il futuro del Porto di Livorno. Dopo i convegni, le polemiche e le promesse elettorali di questi giorni, come vedi la questione della Darsena Europa? Quali rischi e tipi di finanziamento si porta dietro? Al di là della posizione dei 5 Stelle che pare superficiale, ci sono anche pareri discordanti su questa opera: chi dice che ne serve una “light”, chi dice che è irrinunciabile, chi dice che è un’opera che rischia di costare troppo rispetto ai traffici che riuscirà poi ad intercettare. Mai come oggi l’intreccio tra il porto e il tessuto economico e sociale della nostra area sono indissolubili. O si comincia a ragionare in termini di sistema o imbocchiamo la via del declino. Nel programma elettorale della coalizione della sinistra livornese abbiamo mosso non poche critiche al Piano Regolatore Portuale, a partire dal sovradimensionamento della Darsena o Piattaforma Europa nella sua versione “mega”. Una infrastruttura pensata per operare 3 milioni di Teu, che a Livorno non faremo nemmeno tra cent’anni, con un costo di 1,2 miliardi di euro sui quali sarebbe difficile anche trovare dei finanziatori privati, non per la quantità di risorse da investire, ma per il fatto che non sarebbero remunerativi. Il problema della overcapacity non sta riguardando solo i grandi vettori marittimi, ma anche il terminalismo portuale, specie in Italia. Se analizziamo i progetti presentati dalle varie Autorità Portuali ci accorgiamo che produrrebbero da oggi al 2025 un’offerta di 37 milioni di Teu, mentre le statistiche più ottimistiche prevedono che nei porti gateway (porti che hanno collegamenti logistici con il continente, come il nostro), quindi escludendo i porti di transhipment (porti di trasbordo/smistamento dove le merci sono caricate su navi più piccole), arriveremo ad una capacità di movimentazione di circa 13 milioni di Teu. È nel suo complesso che la parola programmazione si scontra con i processi reali in corso nello shipping. Noi però non abbiamo mai messo in discussione lo sviluppo a mare del porto, a partire dall’utilizzo delle due vasche di colmata. Mi sembra che gli obiettivi attuali, chiamiamoli light, siano molto più realistici rispetto alla versione “monster”. La proposta del presidente Rossi, che ha tutte le carat- Foto di Giacomo Spagnoli teristiche elettoralistiche, non può però cadere nel vuoto livornese. Dobbiamo prenderne atto e rilanciare anche con proposte concrete per superare la crisi che attanaglia la città. Non illudiamoci però che la realizzazione delle infrastrutture portuali sia di per sé generatrice di sviluppo automatico della nostra area, come si diceva quando i “mulini erano rossi”: è condizione necessaria ma non sufficiente. A tuo avviso a quale modello di porto e a quali traffici dovrebbe guardare il porto di Livorno sulla proiezione dei traffici di merci e passeggeri e sul modello di trasporto e logistica dei prossimi 20 anni? Come dicevo, il modello porto va ripensato a partire dal suo consolidamento di scalo “multipurpose” a trazione commerciale, cercando di servire le filiere. Uno studio Irpet/ Autorità Portuale, mai presentato e infilato subito in un cassetto, arriva alla conclusione che le attività turistiche e crocieristiche, che pure devono essere sviluppate, non sarebbero in condizione di sostituire il valore aggiunto che deriva dal settore commerciale sia in termini di creazione di ricchezza, sia in termini di occupazione. Però, se guardiamo il settore portuale nazionale ci accorgiamo che il trend dei traffici è passato da movimentare nel 2005 circa 490 milioni di tonnellate, con un picco del 2007 di oltre 500 milioni di tonnellate, fino al 2013 nel quale il movimento delle merci si attesta su una cifra inferiore ai 460 milioni di tonnellate. Quindi nei porti si è aperta una gara competitiva per accaparrasi la poca merce che circola in Italia. Livorno, specie nel settore dei contenitori non è certo messo bene, anzi ha perso quote di mercato che devono essere recuperate. Nel 2013 sono stati movimentati nel nostro scalo circa 28 milioni di tonnellate di merce rispetto agli oltre 34 milioni movimentati nel 2008. Sul contenitore si sono movimentati 546.046 teu, ritornando sui livelli di 10 anni fa. Se analizziamo il rapporto tra import ed export ci accorgiamo che il secondo prevale sul primo e questo dato indica una la ridotta attività produttiva e di consumi. In Toscana abbiamo perso il 25% della produzione industriale che ha inciso non poco sulla riduzione dei traffici. Il nostro obiettivo deve essere quello di creare le condizioni per attrarre su Livorno quelle merci ad alto valore aggiunto che siano in condizione di reggere i costi di servizi che potrebbero essere realizzati nel nostro territorio. Un esempio? Oggi l’industria automobilistica italiana si è ridotta a produrre 380 mila veicoli (dato 2013) mentre le immatricola- zioni sono circa 1,4 milioni. Allora io vedo per Livorno una funzione hub per il traffico delle auto nuove dove oltre che a garantire lo sbarco e l’imbarco si possa anche offrire nel nostro territorio, lavorazioni di assemblaggio, personalizzazioni, etc.. Insomma non mancano le opportunità, mancano studi e progetti seri che, anche attraverso delle facilitazioni che possono derivare da un formale riconoscimento di area di crisi complessa, possono essere messi in campo. Questo era solo un esempio. Non dovremmo sottovalutare la nuova tendenza alla rilocalizzazione delle attività produttive (backshoring), che guarda caso riguardano in gran parte settori qualificati dell’industria italiana e americana. Cioè, per vari fattori (aumenti salariali, qualità inferiore, costi dei trasporti e inefficienze logistiche) oggi diventa più conveniente ritornare a produrre in Italia alcune produzioni che erano state delocalizzate in Asia o nel Medio Oriente. Insomma, se invece di guardarsi l’ombelico guardassimo a ciò che sta accadendo nel mondo ci accorgeremmo che, seppure in una fase di crisi, esistono possibilità concrete di ricostituire un tessuto economico e produttivo partendo da una relazione funzionale più stretta tra porto e territorio. Superiamo i campanilismi e valorizziamo le infrastrutture che già abbiamo, a partire dall’interporto Amerigo Vespucci ed altre aree, implementiamo le infrastrutture immateriali, dando una nuova centralità ad un lavoro qualificato utilizzando la formazione. È chiaro che sta alla politica, alle amministrazioni ai vari livelli, creare un progetto di sviluppo che sia basato su analisi e non su suggestioni. PRG portuale e Porta a Mare. Quale futuro ha la Porta a Mare? È veramente a rischio flop sull’investimento turistico e commerciale? Cosa deve fare l’Amministrazione? Se non partiamo da questi obiettivi prioritari, sviluppo del porto e realizzazione di nuovi insediamenti industriali, non possiamo parlare di sviluppo del commercio, turismo, valorizzazione dei nostri beni paesaggistici e culturali e comunque non possiamo pensare che queste attività siano in condizione di sopperire alla costante deeconomizzazione che fin dai primi anni novanta ha caratterizzato il trend economico della nostra città. Come dicevo all’inizio, manca una visione di insieme anche rispetto a ciò che accade a pochi km da noi, penso a Piombino che ha saputo portare avanti una battaglia per salvaguardare la sua identità industriale anche perché si è puntato sul porto come fattore centrale. Sulla Porta a Mare, navi grandi sì o navi grandi no, potrei cavarmela dicendo che possiamo farci le attività compatibili con le prescrizioni che saranno indicate. Io sono convinto che in una logica di leale collaborazione vi siano margini per votare questo “calimero” di Piano Regolatore Portuale, aprendo al contempo delle varianti su quegli elementi che oggi sono fattore di divisione ideologica. Io sono molto critico su questo Prg, ma penso che si debba completare velocemente tutte le procedure, lo dico soprattutto perché se non si mettono dei paletti è forte il rischio che si acceleri una fase di conflitto commerciale interno al porto basato sul ribasso tariffario, in particolare nel settore dei contenitori, che andrebbe tutto a detrimento, della qualità dei servizi, del lavoro e dei lavoratori che in questi anni sono quelli che più di ogni altro hanno pagato la crisi sulla propria pelle. Mai come oggi l’intreccio tra il porto e il tessuto economico e sociale della nostra area sono indissolubili, è necessario ragionare in termini di sistema Redazione 6 per non dimenticare NELLO GRADIRÀ E ric Arthur Blair (questo il vero nome di George Orwell) nasce il 25 giugno 1903 a Motihari, nel Bengala, territorio appartenente all’Impero britannico di cui suo padre era funzionario. All’età di quattro anni si trasferisce in Inghilterra con la madre e studia in alcune prestigiose scuole britanniche, tra cui il College di Eton dove tra gli insegnanti trova Aldous Huxley, l’autore di Brave New World, un capolavoro della letteratura distopica [1] che avrà su di lui molta influenza. Stanco dello snobismo dei suoi coetanei delle classi più elevate, si arruola nella polizia imperiale di stanza in Birmania, un’esperienza dalla quale ricava la più totale repulsione per l’imperialismo britannico. Si riferiscono a questo periodo il romanzo Giorni in Birmania (1934) e brevi racconti come Un’impiccagione (1931) e Uccidendo un elefante (1936) [2]. «Ero gravato da un immenso senso di colpa che dovevo espiare», scrive «Sentivo di dovermi sottrarre non soltanto dall’imperialismo ma da ogni forma di dominio dell’uomo sull’uomo». Tornato in Europa (1928), si reca a Parigi per conoscere la realtà dei bassifondi. Sopravvive facendo i mestieri più umili e grazie alla carità. Contrae la tubercolosi, che gli sarà letale. Scrive Senza un soldo a Parigi e Londra (1933), dove usa per la prima volta lo pseudonimo di George Orwell, e poi La strada per Wigan Pier (1937), sui minatori dell’Inghilterra settentrionale. Milita nell’Independent Labour Party, e allo scoppio della Guerra Civile spagnola ottiene il lasciapassare per arruolarsi nelle file del anno X, n. 100 GENNAIO 1950/1 - 65 anni fa moriva l’inventore del “Grande Fratello” George Orwell Una vita per la libertà va: da una parte uno Stato centralizzato e dominato da una burocrazia di partito, dall’altra un modello di società basata sull’autogestione e la democrazia diretta. Orwell riesce a stento a sottrarsi alla repressione stalinista e torna in Inghilterra. Sull’esperienza spagnola scrive nel 1938 “Omaggio alla Catalogna”. Ha maturato un profondo orrore per ogni forma di autoritarismo e per la politica in generale, ma continua a diOrwell al fronte a Huesca nel marzo 1937 (è il più alto in piedi), in basso la moglie Eileen chiararsi di sinistra. Riformato come inaPoum, organizzazione collegata blicane che provocano centinaia di bile, durante la Guerra Mondiale all’Ilp [3]. Giunto a Barcellona nel morti. Tra i due schieramenti c’e- diventa direttore del Tribune, giornovembre 1936, vive con entusia- rano profonde divergenze su come nale socialista, e comincia a scrismo il clima rivoluzionario di quei condurre la guerra contro Franco: vere La fattoria degli animali, una giorni e chiede di essere inviato in gli stalinisti erano contrari a for- feroce caricatura della burocrazia prima linea. Ferito da un cecchino zature in senso rivoluzionario per sovietica che aveva tradito la Risul fronte aragonese, torna a Bar- evitare di rompere il fronte antifa- voluzione. Il libro sarà terminato cellona proprio nei giorni (maggio scista con la borghesia, mentre per nel 1944 ma - a causa dell’allean1937) in cui gli stalinisti danno l’as- gli anarchici, i trotskisti e il Poum za tra Urss e Regno Unito - verrà salto alla centrale telefonica con- la guerra e la rivoluzione sociale pubblicato solo nel 1947. trollata dagli anarchici, episodio dovevano marciare di pari passo. Si trasferisce alle Isole Ebridi, e dal quale prendono il via durissimi Ma c’erano - anche e soprattutto qui scrive 1984. Orwell teme che scontri tra le varie fazioni repub- - irriducibili diversità di prospetti- anche dopo la fine del nazismo le tendenze al totalitarismo possano estendersi anche all’Occidente e che possano emergere due o tre superpotenze guidate da nuovi “führer” capaci di dominare non tramite la forza bruta ma con raffinati strumenti di controllo sociale. Nel frattempo le sue condizioni di salute peggiorano e lo costringono a continui ricoveri. Morirà nel gennaio del 1950 in un ospedale londinese. A qua- “Un bel giorno il partito avrebbe proclamato che due più due fa cinque, e voi avreste dovuto crederci “ (Da 1984) si settant’anni dalla sua uscita, 1984 continua ad essere uno dei libri più letti e più attuali: l’utopia negativa di Orwell oggi più che mai rischia di realizzarsi. Note: [1] Distopica è un termine che sta ad indicare un’utopia negativa [2] Essendo reperibili in rete, consigliamo vivamente di scaricarli [3] Il Poum (Partido Obrero de Unificación Marxista) viene spesso definito erroneamente come “trotskista”. Forse è più adatta la definizione di comunista libertario (anche se non nel senso che a questo termine danno gli anarchici) GENNAIO 1950/2 - 65 anni fa l’eccidio delle Fonderie di Modena: 6 morti, nessun colpevole NELLO GRADIRÀ I l 3 dicembre 1949 i 565 lavoratori delle Fonderie Riunite di Modena ricevono le lettere di licenziamento. Le Fonderie non sono in crisi: durante l’anno la produttività e i profitti sono cresciuti, e anche gli straordinari sono aumentati. I salari, quelli sì, sono diminuiti. Il padrone è il conte Adolfo Orsi, pezzo grosso della Confindustria, proprietario della Maserati e di varie altre imprese, arricchitosi con le forniture militari. Orsi non vuole il sindacato tra i piedi: ha in mente di mandare via gli operai più politicizzati e poi riaprire le Fonderie con 250 dei licenziati e un centinaio di nuovi assunti. Il 9 gennaio 1950 è il giorno previsto per la riapertura e viene dichiarato uno sciopero provinciale. Il governo democristiano vuole mostrare i muscoli: 800 tra poliziotti e carabinieri, dotati di autoblindo, affluiscono a Modena da tutta la regione. Le Fonderie sono presidiate dalla Celere armata, la città è in stato d’assedio. Alle 10 è previsto un comizio nella centrale Piazza Roma. Per le strade ci sono diecimila lavoratori, ma non c’è alcun corteo organizzato. E Gli anni di piombo della Dc le “forze dell’ordine” cominciano a sparare. Dopo un lancio di lacrimogeni e raffiche in aria, un carabiniere appostato sulla terrazza delle Fonderie uccide Arturo Chiapelli (43 anni) mentre attraversa la ferrovia accanto allo stabilimento. Non è facile recuperare il corpo, perché il cecchino spara anche sui soccorritori. Intanto un agente uccide Angelo Appiani (30 anni), che si trovava davanti ai cancelli con altri lavoratori. Poi il terzo assassinio: c’è un lancio di lacrimogeni e una violenta carica contro un corteo di circa 200 lavoratori. Nel fuggi fuggi, l’operaio Roberto Rovatti di 36 anni, ex partigiano, viene agg redito, percosso con i calci dei fucili, gettato in un fossato e finito con un colpo alla nuca. Dopo una breve fase di calma, verso le 12 riprendono le cariche e gli spari: i lavoratori vengono spinti verso il viale Ciro Menotti dove vengono aggrediti e molti di loro arrestati. Qui un carabiniere uccide a sangue freddo prima Ennio Garagnani e poi Renzo Bersani, fratello di un giovane fucilato dai nazisti. Poi, in circostanze rimaste oscure, viene assassinato l’operaio Arturo Malagoli. Tutti e tre avevano 21 anni. Non c’è stato nessuno “scontro”, nessun “atto di violenza” e nessuna “provocazione” contro le cosiddette forze dell’ordine. Si tratta, come scriverà L’Uni- tà, di “omicidi premeditati”. Ma i colpevoli saranno assolti. Prima di Modena in soli due mesi c’erano stati tre eccidi di braccianti in lotta: a Melissa (Kr), il 29 ottobre 1949 la Celere ne aveva uccisi tre; il 29 novembre a Torremaggiore (Fg) i carabinieri avevano fatto due vittime, e il 14 dicembre a Montescaglioso (Mt) c’era stato un altro omicidio. Perfino il moderato Corriere della Sera condanna la repressione: “C’è una realtà disonorevole per il nostro paese: la rivoltante uccisione di contadini affamati, la Celere come capitolo della scienza economica, mentre i proprietari di immense terre se ne stanno a Roma o a Capri, a intrigare con la politica o con l’alta società”. Sono anni di piombo: tra il gennaio 1948 e il giugno 1950 il bilancio è di 62 lavoratori uccisi, 3.126 feriti e 92.169 arrestati (solo nel 1948 tra questi ultimi vi furono 77 segretari di Camere del lavoro). Dati impressionanti che una propaganda unilaterale e faziosa cerca di cancellare dalla memoria collettiva. Ma la Dc resterà per sempre il vero “partito armato” della storia d’Italia. “Il dispositivo di polizia per tutti gli anni ’50 è interamente nelle mani di funzionari di provenienza fascista. Dei 64 prefetti non di primo grado e 241 prefetti, soltanto due prefetti di primo grado non hanno fatto parte dell’ingranaggio fascista. Dei 135 questori e 139 vicequestori, che hanno tutti iniziato la loro carriera con il fascismo, solo cinque vicequestori hanno avuto rapporti con la Resistenza. La continuità del ceto che esercita le funzioni repressive dello Stato tra fascismo e post-fascismo, quindi, non potrebbe essere più netta” (C. Bermani, La democrazia reale). Il padrone aveva in mente di mandare via gli operai politicizzati e poi riaprire le Fonderie con 250 dei licenziati e un centinaio di nuovi assunti in uscita dal 16 gennaio 2015 7 stile libero LETTURE - Un interessante e stimolante testo critico che mette in discussione il sistema economico I l 25 maggio del 2011 a Bourges, cittadina della Francia centrale, si è tenuto un interessante incontro dibattito tra due dei più interessanti intellettuali europei espressione di due delle correnti di pensiero che mettono in discussione il modello di società capitalista: l’economista e filosofo francese Serge Latouche, conosciuto al vasto pubblico come il padre della “Decrescita” ed il filosofo tedesco Anselm Jappe, studioso di Debord e del Situazionismo ed uno dei massimi teorici della “Critica del Valore”. Incontro dibattito che aveva per tema centrale la messa in discussione dell’Economia e soprattutto la ricerca ed analisi su come si è sviluppata e poi imposta come paradigma assoluto, e che sia proprio questo paradigma a determinare l’inevitabile crisi. In rete esiste un video in lingua originale che documenta quell’evento, ma da poche settimane è adesso disponibile, tradotto in italiano, un libro che raccoglie quegli interventi ed il dibattito che ne è seguito: Serge Latouche, Jappe Anselm. Uscire dall’economia. Un dialogo fra decrescita e critica del valore: letture della crisi e percorsi di liberazione, pubblicato a fine 2014 da Mimesis Edizioni e curato da Massimo Maggini, attivista storico livornese impegnato da anni sulle tematiche sociali ed ambientali. Il libro si apre con una interessante introduzione di Maggini Fuori dall’economia (che per Mimesis, sempre nella collana Eterotopie, ha già curato il volume Terremoto nel mercato mondiale, uscito a metà del 2014), ricca di riferimenti e citazioni ed utile per inquadrare gli autori, il contesto del dibattito e l’orizzonte storico e politico che lo contiene. Una introduzione nella quale Maggini individua ed isola dei temi fondamentali della riflessione e del confronto teorico tra “Decrescita” e “Critica del Valore”: Lavoro, Moneta, Rivoluzione culturale e immaginario, Modernità. Temi che ritorneranno naturalmente anche nella lettura successiva dei due interventi e del dibattito. Molto attuali le domande e considerazioni che lo stesso Maggini pone rispetto ad esempio al tema Lavoro: sia la “Decrescita” che la “Critica del Valore” (e che Jappe preferisce definire Critica del feticismo, rivalutando uno dei temi centrali della riflessione di Marx) ad esempio cerca- no di decostruire il mito del lavoro e può sembrare controproducente in questo contesto sociale in cui il lavoro non c’è più (pensiamo alla sola situazione di Livorno ad esempio) avanzare certe idee. A ben vedere però, ed andando al di là delle semplificazioni superficiali, il punto non è tanto lavorare o meno o mettere in discussione il lavoro come attività manuale o intellettuale, ma quello astratto, ossia una delle categorie di base (insieme al valore, la merce ed il denaro) del capitalismo: il lavoro strutturato dunque, organizzato e metabolizzato per come lo conosciamo oggi. In questa prospettiva anche il concetto stesso di Decrescita in realtà non mette in discussione la dimensione produttiva in sé, ma la dimensione produttiva, ormai ecologicamente insostenibile, del capitalismo. Ed ovviamente la domanda è sempre la solita: è possibile un’alternativa? E come organizzarla? Quali risposte pratiche alternative? Nella già citata introduzione di Maggini, a proposito della ne- cessità di trovare soluzioni concrete, si ritrova ad esempio un ampio stralcio di una intervista del maggio 2010 (dal titolo La teoria di Marx, la crisi e l’abolizione del capitalismo) ad un altro esponente della Critica del Valore, il filosofo marxista tedesco Robert Kurz. Ne riportiamo una passaggio significativo, invitando successivamente alla lettura di questo importante volume attraverso il quale riscoprire alcuni fondamenti del pensiero critico marxista e non. «Un “antiproduttivismo” ugualmente astratto, o la regressione a una povertà idilliaca in un’economia di sussistenza e l’atmosfera socialmente oppressiva di confuse “comunità”, non è alternativa, ma solo il rovescio della stessa medaglia. Il compito è dunque di rivoluzionare le condizioni materiali di produzione a livello sociale globale e mirare come obiettivo la soddisfazione dei bisogni, così come la preservazione delle basi naturali. Ciò significa che non potrà più aversi lo sviluppo incontrollato secondo il criterio generale e astratto della cosiddetta razionalità dell’economia d’impresa». “Siamo entrati in una crisi che è economica, ecologica ed energetica allo stesso tempo” A cura di Lucio Baoprati INTERVISTA - La nostra città diventa sede nazionale della solidarietà con il popolo curdo È nata l’associazione Mezzaluna Rossa Kurdistan Italia Onlus, diramazione italiana dell’organizzazione internazionale umanitaria Heyva Sor a Kurdistanê (www.heyvasor.com), che ha scelto Livorno come sede base nazionale per i propri progetti e campagne di solidarietà in favore delle popolazioni civili, curde e non, vittime della guerra e altre calamità. Ne parliamo insieme al neopresidente, l’amico Alican Yildiz, che ringraziamo per aver scelto il nostro giornale per questa prima “uscita” sulla stampa. Come nasce la “Mezzaluna Rossa Curda” italiana? E perché proprio a Livorno? Ormai sono diversi anni che vivo in Italia. Ho un lavoro, una casa, sono al sicuro e al caldo. Ma quando vedevo le immagini in tv o leggevo le notizie dei massacri, delle sofferenze, delle ingiustizie subite dal popolo curdo, mi sentivo impotente. E mi chiedevo: cosa posso fare io per loro? Come posso dare il mio aiuto? Un’esigenza che si è rivelata pressante negli ultimi mesi, da quando cioè le popolazioni del Kurdistan siriano sono impegnate in una feroce resistenza contro l’assedio dello Stato Islamico. Pensavo che fosse necessario, allora, creare un’associazione, ma non sapevo come Livorno chiama Kurdistan fare. Allora ne ho parlato con un gruppo di amici, curdi e italiani. Sapevamo che la Mezzaluna Rossa Curda, organizzazione nata in Germania nel 1993 con scopi umanitari, ma attiva anche in altri paesi europei, non era presente, tuttavia, in Italia. Così, ragionandone tra di noi, abbiamo pensato che il modo migliore per mettere in pratica gli obiettivi che volevamo raggiungere fosse quello di creare una La Onlus ha come obiettivo l’aiuto alle popolazioni in difficoltà a seguito di guerre, carestie o calamità naturali “Mezzaluna Rossa Curda” anche sul territorio italiano, in modo che i numerosi curdi che ci vivono, e in generale anche tutti coloro che sono vicini alle popolazioni che soffrono potessero avere a disposizione un canale diretto per esprimere concretamente tutta la loro solidarietà. Perché Livorno? Beh, non è stata una scelta difficile. Certamente non solo a causa del fatto che diversi del gruppo dei promotori sono livornesi, ma soprattutto perché Livorno ha sempre espresso in maniera forte la sua solidarietà nei confronti di popoli in guerra o vittime di calamità. È una città aperta, che ha sempre accolto, e continua ad accogliere, gente da ogni parte del mondo. Tanti esponenti delle comunità curde in Italia erano d’accordo su questa soluzione. Che natura ha la vostra associazione? E quali sono gli obiettivi che si propone? Anzitutto l’associazione, come si può vedere già nel nome e come espressamente indicato nello statuto, è una onlus a carattere volontario, apartitico e aconfessionale, che opera nei settori della beneficenza, della formazione, dell’istruzione e della tutela dei diritti civili e umanitari. Persegue in modo esclusivo finalità di solidarietà sociale, e, come tale, è aperta a tutti coloro che ne condividono i principi ispiratori. Attraverso l’invio di aiuti e contributi in denaro e non, si propone di intervenire, in Italia e all’estero, per soccorrere e aiutare le popolazioni in difficoltà a seguito di guerre, carestie e calamità naturali; inoltre, anche in collaborazione con altre associazioni nazionali e internazionali, vuole realizzare corridoi umanitari per alleviare le condizioni di disagio e di sofferenza delle popolazioni sfollate, in particolare quelle del Kurdistan. Ma le attività nelle quali l’associazione sarà impegnata sono davvero tante, non è possibile elencarle tutte. Cosa deve fare chi fosse interessato a saperne di più o ad iscriversi? In questi giorni stiamo ultimando il nostro sito dove saranno disponibili tutte le informazioni utili sull’associazione. Comunque è già possibile scrivere un’email all’indirizzo mezzalunarossacurda@gmail. com o consultare la pagina facebook Mezzaluna Rossa Kurdistan Italia Onlus. Redazione PAGINA OTTO ANNO X - n. 100 - in uscita dal 16 gennaio 2015 Il terzo incomodo TITO SOMMARTINO R iprendiamo, con questa seconda e ultima parte, il viaggio in alcune delle più importanti città europee alla ricerca delle terze squadre calcistiche e delle loro storie. Beşiktaş (Istanbul, Turchia) Adesso è una potenza crescente del calcio europeo, soprattutto dal punto di vista finanziario, ma il Beşiktaş è a tutti gli effetti la terza squadra di Istanbul. Il Galatasaray, oltre ad essere la squadra più amata di Turchia, è l’emblema dell’élite, mentre il Fenerbahçe, l’altra grande di Istanbul, è da sempre piena di soldi e tifosi vip. Due squadre ricche, di potere e tradizione. Mentre il Beşiktaş è da sempre l’outsider, la squadra che non molla mai, la squadra di quartiere: 13 campionati vinti contro i 19 a testa di Galatasaray e Fenerbahçe, 9 coppe di Turchia. Squadra di popolo, di sfortunati e operai, di pochi notai e molti disoccupati. Un senso collettivo di appartenenza, solido e corporativo come pochi. Non a caso è la squadra preferita degli armeni. Il Beşiktaş è la squadra più vecchia di Turchia e i suoi ultras, i Çarşi (che letteralmente significa “mercato”, “bazar”), politicamente schierati a sinistra, sono di gran lunga la curva più calda di tutto il paese e con pochi eguali in Europa. Ma in realtà definire i Çarşi l’anima ultrà della tifoseria è limitativo: l’intero stadio segue in tutto e per tutto i cori dei Çarşi, sono loro a dettare le regole del gioco sugli spalti. Nei match più caldi si fa fatica a distinguere il nucleo portante dei Çarşi dal resto della tifoseria. Ecco perché i Çarşi sono la tifoseria del Beşiktaş e forse il Beşiktaş stesso. Di loro si è iniziato a sentir parlare fuori dai confini nazionali nel 2013 in occasione delle rivolte in Turchia. Sono stati loro tra i più attivi nelle proteste di piazza Taksim e del Parco Gezi e sono riusciti a convincere gli ultrà di Galatasaray e Fenerbahçe a scen- CALCIO - Seconda e ultima parte dedicata alle terze squadre calcistiche delle più importanti città europee. Un panorama estremamente variegato che spazia dal club in procinto di scalare le gerarchie del calcio continentale, alla piccola ma blasonata realtà che ancora gioca in uno stadio costruito 111 anni fa che in tribuna coperta non offre comodi seggiolini ma rigide panche di legno segnate dal tempo e dall’usura. dere in piazza al loro fianco, tutti insieme, dimenticando vecchie ruggini in nome di qualcosa di ben più importante. La vendetta dei poteri politici e militari turchi non si è fatta attendere e lo scorso 16 dicembre a Istanbul, tra le proteste, è iniziato il processo contro i leader del gruppo, 35 tifosi accusati di aver tentato di rovesciare il governo. Fuori dal tribunale centinaia di tifosi del Besiktas hanno protestato con slogan e fumogeni e non sono mancate neanche delegazioni di ultrà di Fenerbahce, Galatasaray e persino Trabzonspor. I tifosi del Besiktas prendevano a modello la tifoseria del Livorno, come scrissero su uno striscione. Qualche anno più tardi hanno guidato le rivolte di piazza Taksim e Gezi Park Aek (Atene, Grecia) Può suonare strano definire terza squadra cittadina un club che negli incontri di cartello può portare allo stadio 70 mila spettatori, ma per titoli conquistati e numero di tifosi l’Aek è senza dubbio un passo dietro a Panathinaikos e Olympiakos. Relegato due anni fa in terza serie per problemi economici (oggi è primo in seconda serie), l’Aek non è sicuramente inferiore a nessuno per calore della propria tifoseria e si contende con quella del Paok e forse dell’Aris la palma di più calda della nazione. Proprio con il Paok Salonicco (ma i rapporti tra le due tifoserie sono pessimi sebbene entrambe le tifoserie siano collocate a sinistra) condivide quella “k” finale che è qualcosa di più di una semplice lettera: la “k” (che in greco si legge kara) sta per Costantinopoli perché entrambi i club sono stati fondati a distanza di appena due anni da un gruppo di rifugiati provenienti dall’attuale Istanbul. Un ormai storico gemellaggio lega gli Original 21 (il gruppo degli ultrà gialloneri fondato nel lontano 1982 dalle ceneri del Gate 21, nato sette anni prima) alla Curva Nord del Livorno e al Commando Ultrà ’84 dell’Olympique Marsiglia. Ultimamente è nata un’amicizia anche con gli ultrà del Fenerbahce. Bohemians (Praga, Rep. Ceca) Il Bohemians 1905, fino al 2005 noto come Bohemians Praga, è attualmente la terza società calcistica della capitale ceca dopo lo Sparta e lo Slavia, ma per numero di tifosi è secondo soltanto allo Sparta (il Dukla, mitico sodalizio cecoslovacco, si è sciolto nel 1996). Attualmente gioca nella massima serie e tra i calciatori più famosi che hanno militato nel club biancover- de c’è l’attuale presidente Antonín Panenka, l’inventore del cosiddetto “cucchiaio” con il quale segnò il rigore decisivo nella finale Germania Ovest-Cecoslovacchia degli Europei di calcio 1976, svoltosi in Jugoslavia. Nato prima di Slavia e Dukla, è sempre stato oscurato dal cammino delle altre squadre concittadine che insieme hanno vinto quasi 40 campionati cecoslovacchi (contro l’unico conquistato dal Bohemians nella stagione 1982/83). È uno dei pochi club del paese ad avere una tifoseria organizzata ideologicamente spostata a sinistra. Il “Vršovice Derby” contro lo Slavia è il match più sentito (entrambi i club si trovano nel quartiere di Vršovice e i loro stadi sono separati da un solo km). Iraklis (Salonicco, Grecia) Quando una città di neanche 400 mila abitanti ha tre tifoserie del calibro di Paok, Aris e Iraklis, vince per dispersione il titolo di città europea con i tifosi più caldi e numerosi. L’Iraklis, oggi scivolata fino in terza serie per vicissitudini societarie, è un club storico nel panorama calcistico greco: ha vinto una coppa nazionale, ha partecipato a 50 edizioni del massimo campionato e a 6 dell’ex Coppa Uefa. L’Iraklis, fondato nel 1908, è anche il primo club di Salonicco per data di fondazione e come le altre polisportive della città e del paese è dotata anche di forti sezioni nelle discipline della pallacanestro e pallavolo. Ma soprattutto conta un consistente numero di tifosi. La squadra è molto seguita in città e la tifoseria è stata protagonista di veri e propri esodi come testimoniano i 17.000 che nel 1987 viaggiarono fino ad Atene per la finale della coppa nazionale persa contro l’Ofi Creta. La tifoseria dell’Iraklis è sostanzialmente di sinistra, così come quelle di Aris e Paok, e il Gate 10 (15 filiali in Grecia settentrionale) ne è il gruppo portante. Organizza ogni anno un festival antirazzista per gruppi ultras ed è gemellato con le tifoserie di Mainz, Rayo Vallecano e Buducnost Podgorica. Altre città Terze squadre cittadine sono anche l’Ofk (Belgrado, Serbia), una vita all’ombra delle due grandi serbe di sempre Stella Rossa e Partizan, il Gwardia (Varsavia, Polonia), nobile decaduta che al proprio attivo ha anche due partecipazioni in Coppa dei Campioni e il Rapid (Bucarest, Romania), spesso antagonista di Steaua e Dinamo e capace di conquistare tre campionati e ben 13 coppe nazionali. I bianconeri dello Slavia (Sofia, Bulgaria) con la vittoria di sette campionati, altrettante coppe nazionali e una semifinale di Coppa delle Coppe sono invece il terzo club bulgaro per importanza dopo i concittadini del Cska e del Levski. E poi come non citare il Weiner SK (Vienna, Austria), oggi mediocre club di terza serie, che nel suo splendido Wiener Sportclub-Platz Stadion, inaugurato nel 1904 e ad oggi il più antico terreno di gioco ancora usato in patria, ha scritto pagine importanti nella storia del calcio austriaco a cominciare da un 7-0 rifilato alla Juventus di John Charles nei sedicesimi di finale della Coppa dei Campioni 1958/59.