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Introduzione
QVAM MAGNA FUERIS INTEGRA FRACTA DOCES
Breve storia urbanistica di Roma da Augusto a Martino V
“Urbem, neque pro maiestate imperii ornatam et inundationibus incendiisque obnoxiam, excoluit adeo, ut iure
sit gloriatus marmoream se relinquere quam latericiam accepisset ”.
[Tanto abbellì l’Urbe, non adorna come richiedeva la maestà dell’Impero e sempre soggetta a inondazioni e a incendi, che a buon
diritto si gloriò di lasciarla marmorea mentre l’aveva trovata di mattoni.]
Con questa forte espressione “di aver trovato Roma di mattoni e di lasciarla di marmo”, attribuita ad
Augusto, Svetonio 1 inizia a parlare delle opere pubbliche realizzate a Roma dal figlio adottivo di
Cesare; e prosegue:
“... Publica opera plurima extruxit, e quibus vel praecipua: Forum cum aede Martis Ultoris, templum Apollinis in Palatio, aedem Tonantis Iovis in Capitolio... Quaedam etiam opera sub nomine alieno, nepotum scilicet et
uxoris sororisque fecit, ut porticum basilicamque Gaii et Lucii, item porticus Liviae et Octaviae theatrumque
Marcelli. Sed et ceteros principes viros saepe hortatus est, ut pro facultate quisque monimentis vel novis vel refectis et
excultis urbem adornarent. Multaque a multis tunc extructa sunt, sicut a Marcio Philippo aedes Herculis Musarum,
a L. Cornificio aedes Dianae, ab Asinio Pollione atrium Libertatis, a Munatio Planco aedes Saturnii, a Cornelio Balbo
theatrum, a Statilio Tauro amphitheatrum, a M. vero Agrippa complura et egregia.”
[Moltissime opere pubbliche edificò, principali tra esse: il Foro col tempio di Marte Ultore, il tempio di Apollo sul Palatino,
quello di Giove Tonante sul Campidoglio... Altre opere fece anche a nome di altri, cioè dei suoi nipoti e della moglie e della sorella, come
il portico e la basilica di Caio e di Lucio, il portico di Livia e di Ottavia, il teatro di Marcello. Ma spesso incitò anche gli altri più emi-
Cesare Augusto. Denario (19 - 15 a.C). Al dritto raffigura la testa nuda di Augusto. Al rovescio, veduta frontale del tempio provvisorio di Marte
Ultore sul Campidoglio, a cupola rotonda, di cui sono visibili quattro colonne su podio di tre gradini e la statua di culto nell’intercolumnio centrale.
Argento, mm. 19,35, gr. 3,82. Inv. n. 3507
Per il testo latino di questi due passi citati e le relative traduzioni cfr.: CAIO SVETONIO TRANQUILLO, Le vite di dodici Cesari, testo
latino e versione di G. Vitali, Bologna 1980, Augusto, XXIX, pp. 116-119.
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Introduzione
nenti cittadini a ornare l’Urbe, ciascuno secondo le proprie facoltà, con monumenti o nuovi o restaurati e abbelliti. E molti ne furono da
molti edificati: da Marcio Filippo il tempio di Ercole Musagete; da Lucio Cornificio quello di Diana; da Asinio Pollione l’atrio della
Libertà; da Munazio Planco il tempio di Saturno; da Cornelio Balbo il teatro; da Stabilio Tauro un anfiteatro; molti infine ed egregi
da Marco Agrippa.]
In effetti, durante gli oltre quaranta anni di regno di Augusto, dal 27 a.C. al 14, Roma, ormai
capitale di un impero di dimensioni già mondiali, si avviò a diventare, pure dal punto di vista edilizio
ed urbanistico, una città imperiale, anzi la “città per eccellenza”, l’Urbe, centro indiscusso dell’Orbe. E
lo stesso Augusto, consapevole che tutti gli interventi edilizi ed urbanistici da lui promossi erano stati
di enorme importanza, li volle elencare tra le imprese degne di maggior ricordo nel suo testamento,
nelle sue Res Gestae 2 redatte poco più di un anno prima della sua morte 3:
“... Curiam et continens ei Chalcidicum templumque Apollinis in Palatio cum porticibus, aedem divi Iuli, Lupercal, porticum ad circum Flaminium, quam sum appellari passus ex nomine eius, qui priorem eodem in solo fecerat
Octaviam, pulvinar ad circum Maximum, aedes in Capitolio Iovis Feretri et Iovis Tonantis, aedem Quirini, aedes Minervae et Iunonis Reginae et Iovis Libertatis in Aventino, aedem Larum in summa Sacra via, aedem deum Penatium
in Velia, Aedem Iuventutis, aedem Matris Magnae in Palatio feci. Capitolium et Pompeium theatrum utrumque opus
impensa grandi refeci sine ulla inscriptione nominis mei. Rivos aquarum compluribus locis vetustate labentes refeci et
aquam, quae Marcia appellatur, duplicavi fonte novo in rivum eius inmisso. Forum Iulium et Basilicam, quae fuit inter
aedem Castoris et aedem Saturni, coepta profligataque opera a patre meo, perfeci et eandem basilicam consumptam incendio, ampliato eius solo, sub titulo nominis filiorum meorum incohavi et, si vivus non perfecissem, perfici ab heredibus meis iussi. Duo et octoginta templa deum in Urbe consul sextum ex auctoritate senatus refeci, nullo praetermisso
quod eo tempore refici debebat. Consul septimum viam Flaminiam ab urbe Ariminum refeci pontesque omnes praeter
Mulvium et Minucium. In privato solo Martis Ultoris templum forumque Augustum ex manibiis feci. Theatrum ad
aedem Apollinis in solo, magna ex parte a privatis empto, feci, quod sub nomine M. Marcelli generi mei esset.”
[... Ho fatto costruire la Curia e ad essa adiacente il Calcidico e il tempio di Apollo sul Palatino con i portici, il tempio del divo
Giulio, il Lupercale, il portico nei pressi del circo Flaminio che permisi che venisse chiamato Ottavio dal nome di quello che aveva fatto il
precedente in quello stesso luogo, la loggia prospiciente al Circo Massimo, i templi sul Campidoglio di Giove Feretro e di Giove Tonante,
il tempio di Quirino, i templi di Minerva e di Giunone Regina e di Giove Libertà sull’Aventino, il tempio dei Lari sulla sommità della
via Sacra, il tempio dei Penati sulla Velia, il tempio della Gioventù e il tempio alla Grande Madre sul Palatino.
Restaurai il Campidoglio e il teatro di Pompeo, l’una e l’altra opera con grande spesa, senza apporvi alcuna iscrizione col mio
nome. Restaurai gli acquedotti cadenti per vetustà in parecchi punti, e raddoppiai il volume dell’acqua detta Marcia con l’immissione
nel suo condotto di una nuova sorgente. Terminai il Foro Giulio e la basilica fra il tempio di Castore e il tempio di Saturno, opere iniziate e quasi ultimate da mio padre, e dopo averne ampliata la superficie, iniziai a ricostruire la medesima basilica, che era stata distrutta da un incendio, intitolandola al nome dei miei figli, e stabilii che, se non l’avessi terminata io da vivo, fosse terminata dai miei
eredi. Console per la sesta volta, restaurai nell’Urbe, per volontà del Senato, ottantadue templi degli dei, e non ne tralasciai nessuno che
in quel tempo dovesse essere restaurato. Console per la settima volta, rifeci la via Flaminia dall’Urbe a Rimini e tutti i ponti, tranne il
Milvio ed il Minucio.
Sul suolo privato costruii il tempio di Marte Ultore e il Foro di Augusto col bottino di guerra. Presso il tempio di Apollo su suolo
comprato in gran parte da privati costruii un teatro, che volli fosse intitolato al mio genero, Marco Marcello ...]
Il lungo elenco di opere pubbliche, che troviamo in questo documento, rivela l’attuazione di un
chiaro programma organico volto al restauro dei vecchi edifici ed all’edificazione di nuovi in tutta la
città, con interventi radicali nei centri focali, come il Foro Romano, il Campidoglio, il Palatino e soprattutto la grande pianura del Campo Marzio. Infatti, oltre ad aver restaurato ben 82 templi nel solo
Da CESARE OTTAVIANO AUGUSTO, Res Gestae Divi Augusti, 19-21, con testo a fronte, introduzione a cura di L. Canali, Roma 1982,
pp. 67-71.
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Secondo SVETONIO (Augustus, CI), Augusto aveva redatto il testamento sotto il consolato di Lucio Planco e Caio Sestilio, il terzo
giorno prima delle None di aprile, un anno e quattro mesi prima della morte: Testamentum, L. Planco C. Silio cons. III. Non. Aprilis, ante annum
et quattuor menses quam decederet.
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Breve storia urbanistica di Roma da Augusto a Martino V
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anno 29 a.C., cioè nel sesto consolato, Augusto aveva completato la Curia, la Basilica Giulia e il Foro
Giulio. Aveva restaurato anche la Regia e la Casa delle Vestali; mentre aveva aperto un suo Foro accanto a quello di Cesare. Ma è principalmente nell’area del Campo Marzio, ancora libera e disponibile per esperienze monumentali, che egli aveva attuato una serie di grandi interventi. Qui, dopo aver
bonificato la zona nord-ovest ancora in gran parte paludosa, aveva fatto costruire teatri, l’Ara Pacis,
il Mausoleo imperiale, l’orologio solare; aveva completato i Saepta Iulia iniziati da Cesare e fatto restaurare l’antico Portico di Metello, dedicandolo a sua sorella Ottavia. Mentre nelle vicinanze dei
Saepta Iulia, il genero Marco Vipsanio Agrippa aveva costruito il Pantheon 4 ed aveva arricchito quell’area monumentale con la Basilica di Nettuno, con un grande quadriportico adorno di giardini e con
le Terme, alimentate da un nuovo acquedotto, quello dell’acqua Vergine, costruito nel 19 a.C.
Strabone aveva visitato Roma nel 7, e già allora era rimasto grandemente colpito proprio dalla
zona del Campo Marzio, e nel V libro della sua Geografia 5, redatta nella forma definitiva tra il 17 ed il
19, la descrisse edificata in modo così imponente, da far sembrare tutta la rimanente città quasi un suo
sobborgo:
“Oƒ palaioˆ m:n toà k£llouj tÁj `Rèmhj çligèroun, prÕj ¤lloij me…zosi kaˆ ¢nagkaiotšroij Ôntej : oƒ d' Ûsteron, kaˆ m£lista oƒ nàn kaˆ kaq'¹m©j, oÙd: toÚtou kaqustšrhsan,
¢ll'¢naqgm£twn pollîn kaˆ kalîn ™pl»rwsan t¾n pÒlin. Kaˆ c¦r Pomp»ioj kaˆ QeÕj Ka‹sar
kaˆ Ð SebastÕj kaˆ oƒ toÚtou pa‹dej kaˆ oƒ f…loi kaˆ gun¾ kaˆ ¢delf¾ p©san Øpereb£llonto
spoud¾n kaˆ dap£nhn e„j t¦j kataskeu£j : toÚtwn d: t¦ ple‹sta Ð M£rtioj œcei k£mpoj, prÕj
tÍ fÚsei proslabën kaˆ tÕn ™k tÁj prono…aj kÒsmon. Kaˆ g£r tÕ mšgeqoj toà ped…ou qauma
stÕn ¤ma kaˆ t¦j ¡rmatodrom…aj kaˆ t¾n ¥llhn ƒppas…an ¢kèluton paršcon tù tosoÚtJ pl»qei
tîn sfa…rv kaˆ kr…kJ kaˆ pala…strv gumnazomšnwn : kaˆ t¦ perike…mena œrga kaˆ tÕ œdafoj
po£zon di' œtouj kaˆ tîn lÒfwn stef£nai tîn Øp:r toà potamoà mšcri toà ·e…qrou skhnografik¾n Ôyin ™pideiknÚmenai dusap£llakton paršcousi t¾n qšan. Plhs…on d' ™stˆ toà ped…ou
toÚtou kaˆ ¥llo ped…on kaˆ stoaˆ kÚklJ pamplhqe‹j kaˆ ¥lsh kaˆ qšatra tr…a kaˆ ¢mfiqšatron
kaˆ naoˆ polutele‹j kaˆ sunece‹j ¢ll»loij, æj p£rergon ¥n dÒxaien ¢pofa…nein t¾n ¥llhn
pÒlin. DiÒper ƒeroprepšstaton nom…santej toàton tÕn tÒpon kaˆ t¦ tîn ™pifanest£twn mn»mata
™ntaàqa kateskeÚasan ¢ndrîn kaˆ gunaikîn. 'Axiologètaton d: tÕ Mausèleion kaloÚmenon,
™pˆ krhp‹doj ØyhlÁj leukol…qou prÕj tù potamù cîma mšga, ¥cri korufÁj to‹j ¢eiqalšsi tîn
dšndrwn sunhrefšj : ™p' ¥krJ m:n oân e„kèn ™sti calkÁ toà Sebastoà Ka…saroj, ØpÕ d: tù cèmati qhka… e„sin aÙtoà kaˆ tîn suggenîn kaˆ o„ke…wn, Ôpisqen d: mšga ¥lsoj perip£touj qaumastoÝj œcon : ™n mšsJ d: tù ped…J Ð tÁj kaÚstraj aÙtoà per…boloj, kaˆ oátoj l…qou leukoà,
kÚklJ m:n perike…menon œcwn sidhroàn per…fragma, ™ntÕj d' a„ge…roij kat£futoj. P£lin d' e‡
tij e„j t¾n ¢gor¦n parelqën t¾n ¢rca…an ¥llhn ™x ¥llhj ‡doi parabeblhmšnhn taÚtV kaˆ basilik¦j sto¦j kaˆ naoÚj, ‡doi d: kaˆ tÕ Kapitèlion kaˆ t¦ ™ntaàqa œrga kaˆ t¦ ™n tù Palat…J
kaˆ tù tÁj Lib…aj perip£tJ, ·vd…wj ™kl£qoit' ¨n tîn œxwqen. ToiaÚth m:n ¹ `Rèmh.”
Cesare Augusto. Denario (19 - 15 a.C). Al dritto raffigura la testa nuda di Augusto. Al rovescio, la facciata del tempio di Giove Tonante
a frontone triangolare, esastilo, su podio di tre gradini, con la statua di Giove stante nell’intercolumnio centrale.
Argento, mm. 18,60, gr. 3,69. Inv. n. 3510
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5
Sarà poi ricostruito interamente all’epoca dell’Imperatore Adriano.
BIFFI N., L’Italia di Strabone, testo, traduzione e commento dei libri V e VI della Geografia, Bari 1988, pp. 79 e 81.
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Introduzione
[... I primi abitanti poco si curarono della bellezza di Roma, perché dovettero badare ad altre e più urgenti necessità; i loro discendenti, invece, e soprattutto i nostri contemporanei, non trascurarono nemmeno quest’esigenza e riempirono la città di molti e splendidi monumenti. Ché Pompeo, il Divo Cesare, Augusto e i figli, gli amici, la moglie e la sorella hanno rivolto ogni sforzo e ricchezza all’abbellimento
di Roma. La maggior parte di queste cure è andata al Campo Marzio, che alla bellezza naturale unisce gli ornamenti dovuti alla cura
dell’uomo. Infatti da una parte si deve ammirare l’estensione della piana che liberamente consente, a così grande folla, insieme le corse dei
carri e altri esercizi equestri e il gioco della palla o del cerchio o la lotta; dall’altra le opere d’arte che lo circondano e il terreno ammantato
d’erba tutto l’anno e la corona di colli, al di là del fiume, che si affacciano sul suo corso formando un fondale di scena, offrono uno spettacolo da cui è difficile distogliere lo sguardo. Nei pressi del Campo Marzio c’è un altro campo con numerosi portici disposti in cerchio, boschetti sacri, tre teatri, un anfiteatro e splendidi templi contigui l’uno all’altro, sicché il resto della città potrebbe figurare come un suo
accessorio. Ciò spiega perché i Romani abbiano giudicato questo come l’ambiente sacro per eccellenza e vi abbiano innalzato anche i monumenti degli uomini e delle donne più illustri. Il più insigne è il cosiddetto Mausoleo, un grande tumulo che si erge su un alto basamento
di marmo bianco in vicinanza del Tevere e nascosto fino alla sommità da una fitta selva di alberi sempreverdi. In cima si trova la statua
bronzea di Cesare Augusto; all’interno le urne di lui, dei parenti e degli amici più intimi; sul retro un ampio bosco sacro percorso da meravigliosi vialetti. Nel centro del Campo Marzio si trova il peribolo in cui Augusto venne cremato, anch’esso di marmo bianco: è cinto da
una balaustra di ferro e dentro vi sono piantati pioppi neri. Ma se uno, passando nell’antico foro, vedesse, l’uno dopo l’altro, i fori che lo
fiancheggiano, e le basiliche e i templi, e vedesse anche il Campidoglio e le opere d’arte che si trovano lì e sul Palatino e nel Portico di Livia,
facilmente dimenticherebbe tutto ciò che ha visto altrove. Così è fatta Roma.]
Tiberio. Sesterzio (35 - 37 d.C. circa). Al dritto presenta le lettere S(enatus) C(onsulto) entro iscrizione circolare.
Al rovescio, la facciata del tempio della Concordia su podio con gradinata e alto timpano triangolare; nel vano della cella è posta la statua di culto;
ai lati della fronte esastila appaiono le pareti della cella, disposta trasversalmente all’asse dell’edificio.
Bronzo, mm. 39,80, gr. 27,10. Inv. n. XVIII, 39
Ma è soprattutto nei poeti di quel tempo che troviamo larga eco dell’eccezionale urbanizzazione
del paesaggio romano operata da Augusto. Nell’ingenuo dialogo tra Titiro e Melibeo, nella prima ecloga
di Virgilio 6, cogliamo la straordinaria ammirazione per la grandezza dell’Urbe manifestata dallo stesso
poeta immigrato dai piccoli centri della Valle Padana:
Urbem quam dicunt Romam Moeliboee putavi
stultus ego huic nostrae similem, quo saepe solemus
pastores ovium teneros depellere fetus.
Sic canibus catulos similes, sic matribus haedos
noram, sic parvis componere magna solebam.
Verum haec tantum alias inter caput extulit urbis,
quantum lenta solent inter viburna cupressi.
[Quella città che chiaman Roma, Melibeo, io la credevo,
nella mia ignoranza, simile a questa dove noi pastori
portiamo spesso gli agnelli appena nati.
Così – sapevo – i cuccioli son simili alle cagne, così i capretti
alle madri, così paragonavo il grande a ciò che è piccolo.
Ma tanto ha levato il capo sulle altre questa città
quanto il cipresso tra i docili viburni.]
6
VIRGILIO, Egloga I, vv. 19-25; per il testo e la traduzione dei versi di questa ecloga cfr. VIRGILIO, Opere Minori, a cura di M. Cavalli,
A. Barchiesi, M.G. Iodice, Milano 2007, pp. 22-23.
Breve storia urbanistica di Roma da Augusto a Martino V
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A questi versi di Virgilio fanno eco quelli di Orazio, che nel Carmen Saeculare si augurava che il
sole non potesse mai vedere nulla più grande di Roma 7:
Alme Sol, curru nitido diem qui
promis et celas, aliusque et idem
nasceris, possis nihil urbe Roma
visere maius.
[Sole fecondo che dischiudi e celi
il giorno col tuo fulgido carro e nasci
uguale sempre e sempre nuovo, nulla mai
tu possa vedere più grande di Roma.]
In effetti, se verso la fine dell’ultimo secolo prima di Cristo, Roma si era molto ampliata, tanto
da raggiungere – si stima – gli 800.000 abitanti, già alla morte di Augusto la sua popolazione non
doveva essere certamente inferiore al milione di persone.
Nei decenni successivi, sotto la dinastia Giulio-Claudia, Roma proseguì nella sua espansione
urbana. Se a Tiberio (14-37), infatti, si deve la costruzione sia della Domus Tiberiana, sul Palatino, sia
dei Castra Praetoria, la grande caserma fortificata dei pretoriani, ad est della città, fuori dalle mura
Serviane, a Claudio (41-54) va il merito della realizzazione di due nuovi acquedotti, quello dell’Aqua
Claudia e l’Anio Novus, come pure di un grande porto commerciale, alla foce del Tevere, dotato di due
lunghi moli frangiflutti e di un alto faro.
Caligola. Sesterzio (38 - 41 d.C.). Al dritto raffigura la figura allegorica della Pietas seduta, che tiene una patera nella destra.
Al rovescio, veduta frontale del tempio ionico esastilo del Divo Augusto sul Palatino, dedicato da Caligola nel 38 d. C. Davanti ad esso,
è rappresentata la scena di un sacrificio. Bronzo, mm. 36,50, gr. 28,42. Inv. n. XIX, 34
Ma fu soprattutto l’ascesa al trono di Nerone (54-68) a segnare l’inizio di uno dei momenti più
importanti della storia urbanistica di Roma. Questo tanto discusso Imperatore, particolarmente
“demonizzato” dalla storiografia senatoria e condannato senza appello da tutta la tradizione cristiana,
iniziò con la realizzazione di notevoli opere pubbliche, tra le quali le Terme, nel Campo Marzio, il
Macellum Magnum, cioè un nuovo grande mercato coperto, sul Celio, e soprattutto la valorizzazione
della zona paludosa tra quest’ultimo colle ed il Palatino. Egli estese, infatti, la residenza imperiale dal
Palatino all’Esquilino, su cui aveva iniziato l’edificazione della Domus Aurea, realizzando così un’unica
immensa reggia, la Domus Transitoria. Quindi, per allestire un atrio monumentale, trasformò addirittura in lago artificiale, il lacus Neronis, la palude che si era formata laddove la collina Velia si poneva
come ostacolo naturale al deflusso delle acque del “Fosso Labicano”.
7
ORAZIO, Carmen Saeculare, vv. 9-12; per il testo latino e la traduzione dei suddetti versi di questo carme cfr. ORAZIO, Tutte le opere,
introduzione di N. Rudd, traduzione di L. Canali e di M. Beck, commento e note di M. Pellegrini e di M. Beck, Milano 2007, pp. 358-359.
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Introduzione
Proprio quando stava sorgendo questa reggia faraonica, nel 64, scoppiò un immane e spaventoso incendio, che infuriò per ben sette giorni, tanto che delle quattordici Regiones, in cui Augusto
aveva diviso Roma, solo quattro restarono intatte; delle altre dieci, tre furono completamente rase al
suolo, mentre le rimanenti sette furono gravemente danneggiate. Tacito nei suoi Annales ci ha lasciato
una descrizione drammatica di questo memorabile avvenimento 8:
“Sequitur clades, forte an dolo principis incertum (nam utrumque auctores prodiere), sed omnibus, quae huic urbi
per violentiam ignium acciderunt, gravior atque atrocior. Initium in ea parte circi ortum, quae Palatino Caelioque montibus contigua est, ubi per tabernas, quibus id mercimonium inerat, quo flamma alitur, simul coeptus ignis et statim
validus ac vento citus longitudinem circi conripuit. Neque enim domus munimentis saeptae vel templa muris cincta aut
quid aliud morae interiacebat. Impetu pervagatum incendium plana primum, deinde in edita adsurgens et rursus inferiora populando anteiit rimedia velocitate mali et obnoxia urbe artis itineribus hucque et illuc flexis atque enormibus
vicis, qualis vetus Roma fuit ...
Eo in tempore Nero Anti agens non ante in urbem regressus est, quam domui eius, qua Palatium et Maecenatis hortos continuaverat, ignis propinquaret. Neque tamen sisti potuit, quin et Palatium et domus et cuncta circum
haurirentur.
Sexto demum die apud imas Esquilias finis incendio factus, prorutis per immensum aedificiis, ut continuae violentiae campus et velut vacuum caelum occurreret. Necdum positus metus aut redierat levis spes: rursum grassatus ignis,
patulis magis urbis locis; eoque strages hominum minor: delubra deum et porticus amoenitati dicatae latius procidere ...
Domuum et insularum et templorum, quae amissa sunt, numerum inire haud promptum fuerit; sed vetustissima
religione, quod Servius Tullius Lucinae, et magna ara fanumque, quae praesenti Herculi Arcas Evander sacraverat,
aedesque Statoris Iovis vota Romulo Numaeque regia et delubrum Vestae cum penatibus populi Romani exusta; iam
opes tot victoriis quaesitae et Graecarum artium decora, exim monumenta ingeniorum antiqua et incorrupta, ut quamvis
in tanta resurgentis urbis pulchritudine multa seniores meminerint, quae reparari nequibant ...”.
[Accadde in seguito, non si sa se per caso o per colpa dell’imperatore (gli scrittori hanno tramandato ambedue le versioni), il disastro più grave e spaventoso fra tutti quelli che mai abbiano colpito Roma per violenza d’incendio. L’inizio fu dalla parte del circo contigua
ai colli Palatino e Celio; di là il fuoco, attraverso botteghe di combustibili, prese subito forza e sospinto dal vento percorse rapidissimo tutta
la lunghezza del circo: poiché non v’erano sul percorso né case protette da recinti, né templi circondati da muri, né alcun altro ostacolo. L’incendio si propagò impetuoso prima nel piano, poi guadagnò le parti alte e ridiscese a devastare le più basse, perché l’avanzare del flagello
era più veloce di ogni rimedio e la città era indifesa contro il pericolo, a causa delle vie strette e tortuose e dei caseggiati irregolari, quali erano
quelli della vecchia Roma ...
Quando Nerone, che in quel momento si trovava ad Anzio, ritornò a Roma, l’incendio si avvicinava alla sua casa, colla quale egli
aveva messo in comunicazione il Palazzo coi giardini di Mecenate. E tuttavia non si poté impedire che il Palatino e la casa e tutto quanto
all’ingiro fosse inghiottito ...
Finalmente, dopo sei giorni, l’incendio ebbe termine ai piedi dell’Esquilino, essendo crollato sopra una sterminata distesa ogni edificio, cosicché l’instancabile violenza del fuoco incontrava ormai la nuda pianura e, per così dire, il vuoto del cielo. Né ancora era cessato lo
spavento, o rinata una debole speranza, quando le fiamme si riappiccarono in modo altrettanto grave, infuriando nei luoghi più aperti della
città: cosicché la strage di uomini fu minore, ma caddero in maggiore quantità i templi degli dei e i portici destinati allo svago ...
Nerone. Sesterzio (64 - 66 d.C.). Al dritto raffigura la testa laureata dell’Imperatore. Al rovescio, il tempio di Giano in una veduta di tre quarti.
Bronzo, mm. 35,20, gr. 25,17. Inv. n. XXI, 17
8
TACITO, Annales, XV, 38-41; per il testo e la traduzione del passo citato cfr. Annali di Tacito, a cura di A. Arici, Torino 1983,
pp. 878-883.
Breve storia urbanistica di Roma da Augusto a Martino V
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Calcolare il numero delle case, degli isolati e dei templi che andarono perduti non sarebbe facile: certo bruciarono i più venerati per
antichità, quello che Servio Tullio aveva consacrato a Lucina, e la grande ara e la sede che l’Arcade Evandro aveva consacrato ad Ercole
in sua presenza, e il tempio di Giove Statore votato da Romolo e la Reggia di Numa e il delubro di Vesta coi penati del popolo romano.
E poi le ricchezze guadagnate con tante vittorie, le meraviglie dell’arte greca, i documenti antichi e autentici di grandi ingegni: sì che pur in
mezzo a così grande splendore della città risorgente i vecchi ricordarono molte cose impossibili a rifarsi.]
Se l’incendio, dunque, trasformò Roma in un cumulo di macerie, esso ebbe pure degli effetti
positivi, dal momento che diede la possibilità a Nerone di elaborare un nuovo piano regolatore,
ispirato a criteri urbanistici ed edilizi più rispondenti alla sicurezza, alla funzionalità ed all’efficienza.
Fu risistemato, infatti, l’impianto viario della città, con strade più larghe e fiancheggiate da portici; fu
aumentato il numero delle fontane pubbliche; furono rinnovati i quartieri popolari, limitando l’altezza
e l’estensione degli isolati, come pure fu imposta una distanza di sicurezza tra le case.
L’Imperatore approfittò anche delle distruzioni causate dall’incendio per costruirsi la Domus Aurea,
in sostituzione della Domus Transitoria. L’enorme e lussuosa residenza imperiale, che occupava l’Oppio, il Celio ed il Palatino, con un’estensione di quasi cento ettari, così ci viene descritta da Svetonio 9:
“Non in alia re tamen damnosior quam in aedificando, domum a Palatio Esquilias usque fecit, quam primo
transitoriam, mox incendio absumptam restitutamque auream nominavit. De cuius spatio atque cultu suffecerit haec
retulisse. Vestibulum eius fuit, in quo colossus CXX pedum staret ipsius effigie; tanta laxitas, ut porticus triplices
miliarias haberet; item stagnum maris instar, circumsaeptum aedificiis ad urbium speciem; rura insuper, arvis atque
vinetis et pascuis silvisque varia, cum multitudine omnis generic pecudum ac ferarum. In ceteris partibus cuncta auro
lita, distincta gemmis unionumque conchis erant; caenationes laqueatae tabulis eburneis versatilibus, ut flores, fistulatis, ut unguenta desuper spargerentur; praecipua caenationum rotunda, quae perpetuo diebus ac noctibus vice mundi
circumageretur; balineae marinis et albulis fluentes aquis. Eius modi domum cum absolutam dedicaret, hactenus
comprobavit, ut se diceret quasi hominem tandem habitare coepisse”.
[Tuttavia in nulla fu più rovinoso che nell’edificare. Costruì la sua casa dal Palatino all’Esquilino, e dapprima la chiamò
“Passaggio”, poi, quando fu distrutta da un incendio e rifatta, “Aurea”. Della sua vastità e del suo fasto basterà dir quanto segue. Il vestibolo era tale che vi sorgeva nel mezzo un colosso, alto centoventi piedi, che rappresentava Nerone; la larghezza era tanta che c’erano tre
porticati lunghi un miglio; e v’era uno stagno simile a un mare, cinto da edifici formanti delle città; e ville con campagne, vigneti, pascoli,
selve, con grandissimo numero di capi di bestiame e di selvaggina. Nelle altre parti ogni cosa era coperta d’oro, ornata di gemme e di conchiglie perlifere; sale da pranzo con soffitti di lastre d’avorio mobili e forate perché si potessero far piovere dall’alto fiori e profumi; la sala
principale rotonda, che con moto perpetuo diurno e notturno si girava secondo il moto della Terra; bagni ove scorrevano acqua di mare e
acqua di Albula. Inaugurando una casa siffatta la lodò dicendo «che cominciava finalmente ad abitare una casa da uomini».]
Vespasiano (69-79) e Tito (79-81), succeduti a Nerone dopo il breve intermezzo, dal 68 al 69,
degli Imperatori Galba, Vitellio ed Otone, provvidero prima di tutto a ridimensionare la Domus Aurea,
riportando la residenza degli Imperatori al solo colle Palatino; quindi arricchirono Roma di nuovi,
splendidi monumenti come, ad esempio, il Foro della Pace e soprattutto l’Anfiteatro Flavio, conosciuto
da sempre come il “Colosseo”, innalzato proprio prosciugando il lacus Neronis. Questa immensa mole
ellittica, alta più di 50 metri e con il diametro maggiore di circa 200 metri, poggiata su una platea di
calcestruzzo per consentirne appunto la stabilità sul terreno acquitrinoso, diventerà il perno topografico dell’evoluzione urbanistica dell’Urbe, nonché il suo simbolo più famoso nel mondo.
Plinio il Vecchio nel III libro della sua monumentale opera Naturalis Historia, ci ha lasciato questa suggestiva descrizione di Roma intorno al 73, al tempo cioè di Vespasiano, da cui si possono trarre
importanti indicazioni sulla forma e sulle dimensioni della città a circa la metà degli anni intercorrenti
tra il perimetro delimitato dalle mura Serviane nel 378 a.C. e quello che avrebbero delimitato le mura
Aureliane nel 272-273.
9
Per il testo latino di questo passo citato e la relativa traduzione cfr. CAIO SVETONIO TRANQUILLO, Le vite di dodici Cesari, cit., Nerone,
XXXI, pp. 92-93.
10
Introduzione
Vespasiano. Aureo (73 d.C.). Al dritto raffigura la testa laureata di Vespasiano. Al rovescio, il tempio di Vesta,
a quattro colonne visibili con stretta scalea di accesso e con la statua di Vesta stante su base, sorreggente patera e scettro; ai lati del tempio,
due statue femminili sulle rispettive basi. Oro, mm. 19,90, gr. 7,04. Inv. n. X, 2
Plinio racconta che il tessuto urbano di Roma si era notevolmente allargato al di fuori delle
mura Serviane – ancora esistenti ai suoi tempi – e si era sviluppato secondo una forma geometrica
e definita 10:
“... Urbem tres portas habentem Romulus reliquit aut, ut plurimas tradentibus credamus, IIII. Moenia eius
collegere ambitu imperatoribus consoribusque Vespasianis anno conditae DCCCXXVI m. p. XIII·CC, conplexa montes septem. Ipsa dividitur in regiones XIIII, compita Larum CCLXV. Eiusdem spatium mensura currente a miliario in capite Romani fori statuto ad singulas portas, quae sunt hodie numero XXXVII, ita ut XII portae semel
numerentur praetereanturque ex veteribus VII, quae esse desierunt, efficit passuum per directum XX·M·DCCLXV.
Ad extrema vero tectorum cum castris praetoriis ab eodem miliario per vicos omnium viarum mensura colligit paulo
amplius LX p. Quod si quis altitudinem tectorum addat, dignam profecto aestimationem concipiat fateaturque nullius
urbis magnitudinem in toto orbe potuisse ei comparari ...”.
Vespasiano. Sesterzio (76 d.C.). Al dritto raffigura la testa laureata di Vespasiano.
Al rovescio, veduta frontale del tempio di Giove Capitolino, su alto podio, esastilo, a colonne corinzie, con negli intercolumni centrali
le tre statue di Giove seduto fra Giunone e Minerva stanti.
Sul frontone triangolare è ancora Giove seduto, frontale, fra i Dioscuri; altre numerose statue lo sormontano.
Agli estremi della gradinata di accesso, su alte basi, insistono due figure stanti. Bronzo, mm. 33,50, gr. 22,73. Inv. n. XXIV, 37
[... Roma, come la lasciò Romolo, aveva tre porte o, se si vuole credere a chi tramanda il numero più alto, quattro. Le sue mura,
nell’anno 826 di Roma (73 d.C.), quando erano censori e imperatori i due Vespasiani, abbracciavano una circonferenza di 13 miglia
e 200 passi, includendo sette colli. Oggi, la città si divide in 14 circoscrizioni e 265 crocicchi con l’edicola dei Lari. La sua ampiezza,
misurando dalla pietra miliare posta a un’estremità del Foro romano fino a ciascuna delle porte, che sono oggi in numero di 37, contando una volta sola le «dodici porte» e tralasciando sette delle antiche, le quali non esistono più, raggiunge, in linea retta, 20 miglia e
765 passi. Invece fino alle ultime costruzioni, compreso il campo dei pretoriani, partendo dalla stessa pietra miliare e percorrendo le tra10
PLINIO, Naturalis Historia, III, 65-67; per il testo latino e la traduzione di questo passo cfr. GAIO PLINIO SECONDO, Storia Naturale, I,
Cosmologia e Geografia, libri 1-6, prefazione di I. Calvino, saggio introduttivo di G.B. Conte, nota bibliografica di A. Barchiesi, C. Frugoni,
G. Ranucci. Traduzioni e note di A. Barchiesi, R. Centi, M. Corsaro, A. Marcone, G. Ranucci, Torino 1982, pp. 414-417.
Breve storia urbanistica di Roma da Augusto a Martino V
11
verse di tutte le vie, la misura complessiva supera di poco le 60 miglia. E se si considera anche l’altezza degli edifici, si può giungere a
un’adeguata valutazione delle sue dimensioni, tanto da dover riconoscere che la grandezza di nessuna città nel mondo intero si può paragonare con quella di Roma.]
E nel libro XXXVI, lo stesso Autore così si esprime 11:
“Verum et ad urbis nostrae miracula transire conveniat ...
Nec ut circum maximum a Caesare dictatore exstructum longitudine stadiorum trium, latitudine unius, sed cum
aedificiis iugerum quaternum, ad sedem CCL, inter magna opera dicamus: non inter magnifica basilicam Pauli columnis e Phrygibus mirabilem forumque divi Augusti et templum Pacis Vespasiani Imp. Aug. Pulcherrima operum, quae
umquam vidit orbis? Non et tectum diribitori ab Agrippa facti, cum theatrum ante texerit Romae Valerius Ostiensis
architectus ludis Libonis? ...
Sed tum senes aggeris vastum spatium, substructiones Capitolii mirabantur, praeterea cloacas, opus omnium
dictu maximum, subfossis montibus atque, ut paullo ante retulimus, urbe pensili subterque navigata M. Agrippae in
aedilitate post consulatum ...
Parva sunt cuncta, quae diximus, et omnia uni comparanda miraculo, antequam nova attingam. M. Lepido
Q. Catulo cos., ut constat inter diligentissimos auctores, domus pulchrior non fuit Romae quam Lepidi ipsius, at,
Hercules, intra annos XXXV aedem centensimum locum non optinuit ...
Sed omnes eas duae domus vicerunt. Bis vidimus urbem totam cingi domibus principum Gai et Neronis, huius
quidem, ne quid deesset, aurea... Non patiar istos duos ne hac quidem gloria famae frui, docebimusque etiam insaniam
eorum victam privatis opibus M. Scauri... In aedilitate hic sua fecit opus maximum omnium, quae umquam fuere humana manu facta, non temporaria mora, verum etiam aeternitatis destinatione. Theatrum hoc fuit; scaena ei triplex
in altitudinem CCCLX columnarum... Ima pars scaenae e marmore fuit, media e vitro, inaudito etiam postea genere
luxuriae, summa e tabulis inauratis; columnae, ut diximus, imae duodequadragenum pedum. Signa aerea inter
columnas, ut indicavimus, fuerunt III numero; cavea ipsa cepit hominum LXXX, cum Pompeiani theatri totiens
multiplicata urbe tantoque maiore populo sufficiat large XXXX sedere ...
C. Curio... Theatra iuxta duo fecit amplissima ligno, cardinum singulorum versatili suspensa libramento, in
quibus utrisque antemeridiano ludorum spectaculo edito inter sese aversis, ne invicem obstreperent scaenae, repente circumactis – ut constat, post primos dies etiam sedentibus aliquis –, cornibus in se coeuntibus faciebat amphitheatrum
gladiatorumque proelia edebat ...
Sed dicantur vera aestimatione invicta miracula. Q. Marcius Rex, iussus a senatu aquarum Appiae, Anienis,
Tepulae ductus reficere, novam a nomine suo appellatam cuniculis per montes actis intra praeturae suae tempus adduxit; Agrippa vero in aedilitate adiecta Virgine aqua ceterisque conrivatis atque emendatis lacus DCC fecit, praeterea
salientes D, castella CXXX, complura et cultu magnifica, operibus iis signa CCC aerea aut marmorea inposuit, columnas e marmore CCCC, eaque omnia annuo spatio. Adicit ipse aedilitatis suae conmemoratione et ludos diebus undesexaginta factos et gratuita praebita balinea CLXX, quae nunc Romae ad infinitum auxere numerum. Vicit
antecedentes aquarum ductus novissimum inpendium operis incohati a C. Caesare et peracti a Claudio, quippe a
XXXX lapide ad eam excelsitatem, ut omnes urbis montes lavarentur, influxere Curtius atque Caeruleus fontes et
Anien novus, erogatis in id opus HS MMMD ...”.
[Ma questo è davvero il momento di passare alle meraviglie della nostra città ...
Anche a non voler annoverare fra le grandi opere il Circo Massimo fatto costruire da Cesare quando era dittatore, lungo tre stadi
e largo uno – ma con gli edifici annessi arrivava a coprire quattro iugeri e può ospitare 250.000 spettatori a sedere – potremo non
comprendere fra le meraviglie la basilica di Paolo, stupenda per le sue colonne frigie, il foro del divino Augusto ed il tempio della Pace
dell’imperatore Vespasiano Augusto, le opere più belle che il mondo abbia mai visto? E si potrà non comprendervi anche la tettoia costruita
da Agrippa per lo scrutinio dei voti – anche se precedentemente a Roma l’architetto Valerio Ostiense aveva coperto con un tetto il teatro
per i giochi di Libone? ...
11
PLINIO, Naturalis Historia, XXXVI, 101-122 passim; per il testo latino e la traduzione di questo passo cfr. GAIO PLINIO SECONDO,
Storia Naturale, V, Mineralogia e Storia dell’Arte, libri 33-37, traduzione e note di A. Corso, R. Mugellesi, G. Rosati, Torino 1988, pp. 656-671.
12
Introduzione
Ma a quel tempo gli anziani si meravigliavano ancora dell’imponenza del Bastione, delle costruzioni del Campidoglio e poi anche
delle cloache, l’opera più notevole che si possa menzionare, visto che costrinse a fare gallerie nei colli e Roma divenne una città pensile – nei
termini che si è detto poc’anzi 12 – e, durante l’edilità di Marco Agrippa che fece seguito al suo consolato vi si poteva navigare sotto ...
Ma tutte le opere che abbiamo menzionato sono ben poca cosa e tutte insieme possono essere paragonate a una singola meraviglia,
prima di passare ad ulteriori esempi. Al tempo del consolato di Marco Lepido e di Quinto Catulo, come concordemente affermano gli autori più scrupolosi, non c’era in Roma dimora più bella di quella dello stesso Lepido; eppure, per Ercole, nel giro di trentacinque anni essa
non arrivava ad avere il centesimo posto in graduatoria ...
Ma su tutte le case trionfarono due soprattutto. Per due volte abbiamo visto le case di due principi, Gaio e Nerone, estendersi fino
a circondare la città – e quella di quest’ultimo, perché non mancasse nulla, era aurea... Non accetterò che codesti due imperatori godano
neppure di questo tipo di gloria, e mostrerò che anche la loro follia è stata superata dalle ricchezze private di Marco Scauro... Durante l’edilità costui realizzò l’opera più splendida fra quante sono state attuate da mano umana, e non solo tra gli edifici effimeri, ma anche tra quelli
con destinazione perpetua. Si tratta del suo teatro: aveva una scena con tre piani e 360 colonne – in una città che non aveva
sopportato sei colonne di marmo dell’Imetto senza farne una colpa ad un cittadino del massimo spicco 13; il piano inferiore della scena era
di marmo, quello mezzano di vetro (un tipo di lusso che restò senza seguito anche dopo), il superiore di legno dorato; le colonne del primo
piano, come si è detto, erano alte trentotto piedi; le statue di bronzo fra le colonne erano, come si è ricordato, 3.000, mentre la gradinata
era capace di 80.000 persone – oggi che la città si e moltiplicata, e la popolazione è tanto cresciuta, è ampiamente sufficiente il teatro di
Pompeo con i suoi 40.000 posti a sedere ...
Gaio Curione... Fece costruire, uno vicino all’altro, due grandissimi teatri di legno, sospesi entrambi a cardini ruotanti in ogni direzione: lo spettacolo antimeridiano dei giochi si teneva nei due teatri orientati in direzione opposta, in modo che le due scene non si disturbassero a vicenda con il loro rumore; poi, d’un tratto, i teatri venivano congiunti – risulta che, passati i primi giorni, l’operazione si faceva anche
mentre qualcuno restava seduto – ed una volta accostate le quattro ali si otteneva un anfiteatro che ospitava i giochi gladiatorii ...
Ma passiamo a parlare di opere che risultano miracoli mai superati per il loro valore obiettivo. Quinto Marcio Re, incaricato dal
senato di restaurare i tre acquedotti dell’acqua Appia, Aniene e Tepula, nell’arco di tempo della sua pretura ne costruì uno nuovo a cui
diede il proprio nome, aprendo delle gallerie all’interno dei monti. Agrippa poi, nel corso dell’edilità, aggiunse l’acqua Vergine e raccogliendo
le acque di altri acquedotti e riparandone le strutture fece costruire settecento bacini, inoltre cinquecento fontane, centotrenta serbatoi
(parecchie di queste opere furono anche di grande lusso); su di essi eresse trecento statue di bronzo o di marmo e quattrocento colonne di
marmo. Tutto quanto, nell’ambito di un anno. Per commemorare la sua edilità celebrò infine giochi della durata di cinquantanove giorni
ed aprì centosettanta bagni pubblici gratuiti (oggi, a Roma, il loro numero è cresciuto all’infinito). A superare tutte le spese precedenti per
gli acquedotti fu l’ultimo, iniziato da Gaio Cesare e finito da Claudio: comincia a quaranta miglia da Roma e sale fino ad un’altezza tale
da fornire di acqua tutti i colli della città; vi confluiscono le acque delle sorgenti Curzia e Cerulea e dell’Aniene Nuovo. Per la sua costruzione
furono spesi trecentocinquanta milioni di sesterzi ...]
Nell’80, sotto il regno di Tito, si ebbe purtroppo un nuovo incendio, non meno disastroso di
quello verificatosi al tempo di Nerone, che devastò gran parte del Campo Marzio ed il Campidoglio.
Il compito della ricostruzione o del restauro degli edifici danneggiati spettò a Domiziano (81-96),
la cui età, per l’ampiezza dei programmi edilizi e per lo sviluppo di nuove forme architettoniche,
Tito. Sesterzio (80 - 81 d.C.). Al dritto raffigura Tito seduto, con un ramoscello nella mano destra, tra un cumulo di armi.
Al rovescio, veduta dall’alto dell’anfiteatro Flavio, a tre piani sovrapposti di arcate, ornati di colonne e coronati da un attico con finestroni quadrati.
Il tutto sormontato da un fitto giro di mensole a sostegno del velarium. A sinistra, la Meta sudans.
Bronzo, mm. 33,55, gr. 21,86. Inv. n. XXVI, 21
12
Poche pagine prima Plinio aveva parlato dei labirinti; quindi, era passato a parlare brevemente dei giardini pensili, riportando la
notizia che l’intera cittadella di Tebe d’Egitto era pensile e che i re erano abituati a far passare di sotto l’esercito con l’armamento completo,
senza che nessuno degli abitanti della città lo udisse.
13
Crasso.
Breve storia urbanistica di Roma da Augusto a Martino V
13
costituì uno dei periodi più incisivi nella storia urbanistica di Roma. Domiziano, infatti, intervenne
nell’area tra l’Oppio ed il Celio, completando le strutture annesse al Colosseo, come le quattro caserme
dei gladiatori; mentre sulla parte centrale del Palatino, fino alle sue pendici digradanti verso il Circo
Massimo, costruì un grandioso palazzo imperiale. Tra il Palatino ed il Colosseo fece erigere un arco
in onore del fratello Tito e risistemare la fontana della Meta sudans. Ma soprattutto diede un forte
impulso all’urbanizzazione del Campo Marzio dove, nella depressione paludosa nei pressi dell’ansa del
Tevere, edificò lo stadio Agonale, ricalcato in seguito esattamente dalla forma dell’attuale piazza
Navona, e, non lontano da esso, l’Odeon. Tra il Foro di Augusto e quello della Pace, infine, fece costruire il Foro Transitorio, che sarà dedicato dal successore Nerva (96-98), portato al potere da una
congiura, che determinerà la fine del regno di Domiziano.
Di questo segno indelebile, che Domiziano lasciò nell’urbanistica di Roma, Svetonio dice 14:
“Plurima et amplissima opera incendio absumpta restituit, in quis et Capitolium, quod rursus arserat; sed omnia
sub titulo tantum suo ac sine ulla pristini auctoris memoria. Novam autem excitavit aedem in Capitolio Custodi Iovi,
et forum quod nunc Nervae vocatur, item Flaviae templum gentis et stadium et Odeum et naumachiam, e cuius postea
lapide maximus circus, exustis utrimque lateribus, extructus est.”
[Restaurò moltissimi grandi edifici distrutti da incendii, e fra essi il Campidoglio che di nuovo era andato a fuoco, ma tutti intitolandoli al proprio solo nome e senza nessuna menzione del loro primitivo autore. Innalzò sul Campidoglio un nuovo tempio a Giove
Custode e il Foro che oggi è detto di Nerva. Inoltre: il tempio della Gente Flavia, uno stadio, un odeon e una naumachia, con le pietre della
quale, essendosi arse le due fiancate, fu poi edificato il Circo Massimo.]
E Marziale 15:
“Quantum iam superis, Caesar, caeloque dedisti
Si repetas et si creditor esse velis,
Grandis in aetherio licet auctio fiat Olympo
Coganturque dei vendere quidquid habent,
Conturbabit Atlans, et non erit uncia tota,
Decidat tecum qua pater ipse deum:
Pro Capitolinis quid enim tibi solvere templis,
Quid pro Tarpeiae frondis honore potest?
Quid pro culminibus geminis matrona Tonantis?
Pallada praetereo: res agit illa tuas.
Quid loquar Alciden Phoebumque piosque Laconas?
Addita quid Latio Flavia templa polo?
Expectes et sustineas, Auguste, necesse est:
Nam tibi quod solvat non habet arca Iovis.
[Se richiedessi indietro, se volessi esigere il tuo credito,
o Cesare, per quanto hai dato agli immortali, al cielo,
nell’alto Olimpo ci sarebbe una grande vendita all’asta
e gli dei sarebbero costretti a vendere tutto ciò che hanno.
Atlante farà bancarotta, il padre stesso degli dei
non avrà abbastanza soldi per mettersi d’accordo con te:
cosa può ripagarti del tempio sul Campidoglio,
dell’onore della fronda che premia i giochi tarpei?
14
SVETONIO, Domitianus, 5; per il testo latino di questo passo citato e la relativa traduzione cfr. CAIO SVETONIO TRANQUILLO, Le vite di
dodici Cesari, cit., Domiziano, pp. 252-253.
15
MARZIALE, Epigrammi, IX, 3; per il testo e la traduzione di questo epigramma cfr. MARZIALE, Epigrammi, a cura di S. Beta, Milano
2007, pp. 480-481.
14
Introduzione
La moglie del Tonante, per il suo doppio tempio, cosa
potrebbe darti? Di Pallade non parlo: lei cura i tuoi affari.
E che dire di Ercole, di Apollo dei Dioscuri pii?
Che dire dei templi flavi regalati al cielo del Lazio?
Ti tocca aspettare, Augusto, ti tocca avere pazienza:
la cassa di Giove non ha i soldi per pagare la differenza.]
Con Traiano (98-117), Roma raggiunse la massima espansione del suo Impero e vide la sua popolazione superare il milione di abitanti. Questo grande Imperatore edificò le Terme sul colle Oppio;
realizzò un acquedotto per alimentare la zona di Trastevere, proveniente dalle sorgenti sui monti Sabatini, nei pressi del lago di Bracciano; aprì, alla foce del Tevere, un canale collegato con il mare per
favorire lo smaltimento delle piene del fiume; costruì una darsena esagonale tutt’ora esistente. Ma fu
soprattutto la realizzazione del Foro, detto appunto di “Traiano”, opera dell’architetto Apollodoro di
Damasco, a segnare una svolta di particolare importanza nella storia dell’urbanistica dell’Urbe per
l’ardito taglio della sella collinare tra il Quirinale ed il Campidoglio, con la conseguente saldatura tra
il vecchio centro politico, il Foro Romano, e la zona che stava diventando la più monumentale della
città, il Campo Marzio.
A completamento del Foro Traiano venne introdotto un elemento monumentale di carattere
celebrativo: la famosa “colonna coclide”, cioè rivestita da una spirale di bassorilievi, che celebravano
le imprese di Traiano nella vittoriosa guerra contro i Daci. L’iscrizione che fu posta sul suo basamento precisava che l’altezza della colonna – circa 40 metri – era pari a quella della sella collinare
preesistente 16:
SENATVS POPVLVSQVE ROMANVS
IMP CAESARI DIVI NERVAE F NERVAE
TRAIANO AVG GERM(anico) DACICO PONTIF(ici)
MAXIMO TRIB(unicia) POT(estate) XVII IMP(eratori) VI
CO(n)S(uli) VI P(atri) P(atriae)
AD DECLARANDVM QVANTAE ALTITVDINIS
MONS ET LOCVS TAN[tis ope]RIBVS SIT EGESTVS
Dopo la dedica, le ultime due righe, infatti, affermano: “... ad declarandum quantae altitudinis mons
et locus... sit egestus ”: “... a dimostrazione di quanto fosse alto il monte ed il terreno portato via”.
Per le numerose opere di restauro e le nuove costruzioni, anche l’età del figlio adottivo di
Traiano, Elio Adriano (117-138), fu un’epoca di intensissima attività edilizia in Roma. Il Pantheon,
per esempio, iniziato da Agrippa al tempo di Augusto a pianta rettangolare e poi devastato
Traiano. Sesterzio (103 - 111 d.C.). Al dritto raffigura la testa laureata di Traiano. Al rovescio, pianta esagonale di un porto,
identificato con il porto di Traiano a Nord di Ostia, sulle cui banchine si elevano arcate e colonnati, e che racchiude nell’interno alcune navi.
Bronzo, mm. 34,50, gr. 26,73. Inv. n. XXIX, 16
16
CIL, 6, 960.
Breve storia urbanistica di Roma da Augusto a Martino V
15
Traiano. Sesterzio (104 - 111 d.C.). Al dritto raffigura la testa laureata di Traiano.
Al rovescio, la colonna Traiana posta tra due aquile su alto basamento e coronata da una statua eroica dell’Imperatore.
Bronzo, mm. 35,30, gr. 26,27. Inv. n. XXX, 34
da un incendio, fu appunto ricostruito da Adriano in forma rotonda, con copertura a calotta,
ornata da lacunari prospetticamente sempre più ristretti fino all’apertura circolare dell’impluvium al
suo apice.
Invece fu del tutto nuova la costruzione del maestoso tempio di “Venere e Roma”, il più grande
dell’Urbe, che l’Imperatore fece innalzare sulla Velia, nelle vicinanze del Colosseo, nell’area occupata
precedentemente dal vestibolo della Domus Aurea di Nerone, dopo aver spostato il Colosso di quest’ultimo che lo decorava.
Ma l’intervento originale più consistente di Adriano, destinato ad influire in modo decisivo sul
futuro urbanistico della zona dell’oltretevere, fu la realizzazione di un nuovo polo di attrazione per futuri insediamenti nell’Ager Vaticanus con la costruzione, affidata all’architetto Demetriano, della “Mole
Adriana” (oggi nota come “Castel Sant’Angelo”), sul modello del mausoleo di Augusto nel Campo
Marzio, come tomba dove verranno sepolti, oltre ad Adriano e sua moglie Sabina, anche Antonino
Pio, Marco Aurelio e Commodo. Quindi, per collegare questo suo grande mausoleo sulla destra del
Tevere con il Campo Marzio, Adriano fece costruire anche un nuovo ponte (ponte Elio, oggi ponte
Sant’Angelo), che ben presto diventerà il passaggio obbligato per il pellegrinaggio medievale verso la
basilica di San Pietro. Così leggiamo nella Historia Augusta a proposito dei più importanti interventi
edilizi a Roma di Adriano 17:
“(Hadrianus) cum opera ubique infinita fecisset, numquam ipse nisi in Traiani patris templo nomen suum
scripsit. Romae instauravit Pantheum, Saepta, basilicam Neptuni, sacras aedes plurimas, forum Augusti, lavacrum
Agrippae; eaque omnia propriis auctorum nominibus consecravit. Fecit et sui nominis pontem et sepulchrum iuxta
Tiberim et aedem Bonae Deae. Transtulit et Colossum stantem atque suspensum per Decrianum architectum de eo loco,
in quo nunc templum Urbis est, ingenti molimine, ita ut operi etiam elephantos viginti quattuor exhiberet. Et cum hoc
simulacrum post Neronis vultum deletum, cui antea dicatum fuerat, Soli consecrasset, aliud tale Apollodoro architecto
auctore facere Lunae molitus est.”
[(Adriano) pur avendo fatto erigere dappertutto innumerevoli opere pubbliche, tuttavia non consentì mai vi fosse apposto il suo
nome, tranne che sul tempio dedicato al padre Traiano. A Roma curò il restauro del Pantheon, i Recinti, la basilica di Nettuno, moltissimi edifici sacri, il Foro di Augusto, le terme di Agrippa, e dedicò tutte quante tali opere esclusivamente col nome dei loro
fondatori. Volle pure edificare, intitolandoli al proprio nome, un ponte, un monumento sepolcrale sulle sponde del Tevere e il tempio
della Dea Bona. Grazie alla tecnica dell’architetto Decriano, che riuscì a sollevarlo da terra pur mantenendogli la posizione eretta, fece
anche spostare il Colosso dal luogo in cui oggi sorge il tempio della dea Roma: impresa talmente straordinaria da richiedere persino
l’impiego di ventiquattro elefanti. E non contento di aver consacrato questa statua al Sole – una volta alterati i lineamenti del volto
di Nerone, cui originariamente essa era stata dedicata – progettò di costruirne un’altra simile per la Luna, e la commissionò
all’architetto Apollodoro.]
17
Historia Augusta, Hadrianus, 19, 9-13; per il testo e la traduzione di questo passo cfr. Scrittori della Storia Augusta, introduzione, testo
latino traduzione e note a cura di G. Porta, Bologna 1990, vol. I, pp. 54-55.
16
Introduzione
Traiano. Sesterzio (104 - 111 d.C.). Al dritto raffigura la testa laureata di Traiano.
Al rovescio, un tempio corinzio ottastilo di incerta identificazione, posto su podio di tre gradini, con statua centrale maschile stante,
che tiene nella destra uno scettro e nella sinistra, forse, una cornucopia, variamente identificata col Genius, la Virtus o l’Honos.
Il frontone triangolare è ornato da una figura simile, stante presso un’ara fra due figure sdraiate; al di sopra si ergono cinque statue maschili
con asta e scudo. Bronzo, mm. 34,00, gr. 26,89. Inv. n. XXX, 39
Al tempo di Adriano, Roma era ormai una grande metropoli internazionale, con una popolazione
che si avvicinava al milione e mezzo di abitanti, e il suo Impero controllava tutto il mondo allora conosciuto; ed in questa immensa città, anche gli immediati successori di Adriano vollero edificare opere
monumentali. Così Antonino Pio (138-161), iniziatore della dinastia degli Antonini, fece costruire il
tempio in onore della propria moglie divinizzata, morta nel 141, Faustina, nel Foro Romano 18 e il
“... templum Hadriani, honori patris dicatum ...”, 19 cioè quello del divo Adriano nel Campo Marzio, le cui
colonne ancora oggi, in piazza di Pietra, giganteggiano tra intercolunni di infiniti riusi 20. Mentre
in onore del successore, l’Imperatore Marco Aurelio (161-180), venne innalzata, nel 176, la seconda
colonna istoriata, conosciuta come “colonna Antonina”, destinata a celebrare le imprese militari
dell’Imperatore filosofo contro i Sarmati ed i Marcomanni.
Dopo un rallentamento dell’attività urbanistica durante il regno di Commodo (180-192), funestato, tra l’altro, nel 191, da un grave incendio, che investì soprattutto la via Sacra ed il Palatino, sotto
i Severi ripresero restauri e nuove costruzioni, principalmente nell’area del Palatino, dove furono ampliati i palazzi imperiali e venne edificato il Septizonium, un colossale ninfeo tra il Palatino ed il Celio
come sfondo scenografico della via Appia, che sarà demolito da Sisto V per trarne statue e marmi.
In onore di Settimio Severo (193-211) fu eretto pure un arco di trionfo nel Foro Romano, sotto il Campidoglio, mentre un altro arco, detto degli “Argentari”, in onore dell’Imperatore, di Giulia Domna e
dei figli Caracalla e Geta, fu innalzato nel Foro Boario.
Lo stesso Settimio Severo iniziò nell’anno 206 le gigantesche “Terme Antoniniane”, fuori di
porta Capena, che furono terminate nel 216 da Caracalla (211-217), del quale presero il nome;
mentre ad Alessandro Severo (222-235), che chiuse la dinastia dei Severi, toccò il compito di realizzare l’undicesimo ed ultimo degli acquedotti di Roma, quello dell’Aqua Alexandrina, che incanalava
l’acqua dalle sorgenti dei colli Albani.
Nel 272, l’Imperatore Aureliano (270-275), temendo un’invasione dei Barbari, degli Alamanni in
particolare, che premevano ai confini dell’Impero, dette avvio alla costruzione di una nuova cinta muraria intorno a Roma che, con i suoi 19.000 metri circa di lunghezza, recingeva i 1.400 ettari della città
più grande del mondo allora conosciuto ed era dotata di 383 torri, di 17 porte e di 5 posterulae.
Erano trascorsi circa 650 anni da quando erano state costruite le mura Serviane, e da quei
tempi ormai lontanissimi, Roma, padrona del mondo, non aveva più sentito il bisogno di circondarsi di mura difensive! Ma ora l’Urbe sembrava non essere più in grado di difendere non
Dopo la morte dell’Imperatore Antonino nel 161, questo tempio sarà dedicato anche a lui.
Historia Augusta, Antoninus Pius, 8, 2.
20
Nella prima metà del Seicento, l’edificio accoglierà al suo interno la prima sede dell’ospedale del “Fatebenefratelli”, poi trasferito
sull’isola Tiberina; quindi ospiterà la “Dogana di terra”; infine, nel 1879, sarà occupato dal palazzo della “Borsa Valori” e dagli uffici della
“Camera di Commercio”.
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Breve storia urbanistica di Roma da Augusto a Martino V
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Antonino Pio. Sesterzio (158 - 159 d.C.). Al dritto raffigura la testa laureata di Antonino Pio.
Al rovescio, veduta frontale del tempio del Divo Augusto, ricostruito per la seconda volta dopo il restauro dell’88 d.C. compiuto da Domiziano.
Si presenta come una nuova costruzione ad otto colonne e con le due statue sedute nell’intercolumnio centrale dei divi Augusto e Livia.
Bronzo, mm. 32,50, gr. 23,45. Inv. n. XXXVIII, 8
solo i confini del suo immenso Impero, bensì neppure la sua stessa esistenza! E questo generale,
tragico declino della sua secolare supremazia sul mondo cominciò a manifestarsi anche con la stasi
delle opere pubbliche all’interno delle sue nuove mura, completate in tutta fretta dall’Imperatore
Probo (276-282).
Un momento di ripresa dell’attività edilizia a Roma si ebbe con Diocleziano (284-305), che instaurò un nuovo ordinamento amministrativo dell’Impero, dividendolo in due: Impero d’Occidente
ed Impero d’Oriente. Diocleziano non visse molto a Roma, ma ebbe il tempo comunque di riparare
gli ingenti danni provocati dal vasto incendio del 283 e, soprattutto, di dotare la città del più grandioso
dei suoi monumenti dopo il Colosseo: le gigantesche Terme che da lui presero il nome e che, edificate all’estremità del Quirinale, coprivano un’area di oltre 11 ettari.
Dopo Diocleziano e dopo la divisione dell’Impero, per la parte occidentale di quest’ultimo in generale e per Roma in particolare cominciò il declino. Massenzio (307-312) iniziò nel 308 la costruzione
dell’ultimo grandioso monumento di Roma antica: la Basilica Nova, sulla collina Velia, presso il Foro
Romano, che fu completata da Costantino (306-337) dopo che questi ebbe sconfitto Massenzio ai
Saxa Rubra nel 312. Proprio a questa vittoria si deve la più famosa realizzazione artistico-architettonica, che il Senato nel 315 dedicò al figlio di Elena: un arco trionfale, detto appunto di “Costantino”,
nei pressi del Colosseo, con la costruzione del quale iniziò, tra l’altro, l’uso di riutilizzare parti e decorazioni di vecchi monumenti per crearne o adornarne nuovi; uso, che diventerà tipico della storia
architettonica della Roma dei secoli successivi.
Intanto, con l’editto di Milano del febbraio del 313, Costantino aveva legalizzato il Cristianesimo, favorendo, proprio con questo celebre atto, anche un profondo mutamento del volto di Roma,
sul cui paesaggio urbano da quel momento cominciarono a riflettersi elementi architettonici di culto
della religione cristiana. A Costantino, infatti, e comunque alla sua epoca si fa risalire la costruzione
delle basiliche paleocristiane di San Pietro in Vaticano, di San Giovanni in Laterano e di San Paolo
fuori le Mura.
Antonino Pio. Sesterzio (140 - 143 d.C.). Al dritto raffigura la testa laureata di Antonino Pio.
Al rovescio, il tempio di Venere e Roma a dieci colonne corinzie su podio e con frontone triangolare ricco di ornamentazioni.
Bronzo, mm. 33,15, gr. 29,72. Inv. n. XL, 41
18
Introduzione
Così Costantino, legittimando il Cristianesimo con l’editto di Milano, aveva segnato la grande
svolta della storia di Roma antica, che da pagana si avviava ora a diventare cristiana; e ciò proprio
negli anni del suo maggiore sviluppo urbanistico e demografico. Ma lo stesso Costantino, con il trasferimento, nel 330, della capitale dell’Impero a Costantinopoli, sarà pure, di lì a qualche anno, la
causa non ultima dell’inizio della decadenza e del declino dell’Urbe!
Per il momento, comunque, l’Imperatore Costanzo II (337-361), figlio e successore di Costantino, quando nel 356 visitò Roma, trovò una città ancora piena di meraviglie, che incantavano il visitatore, secondo il pur retorico racconto di questo avvenimento, che ci ha lasciato Ammiano
Marcellino 21:
“... Proinde Romam ingressus imperii virtutumque omnium larem, cum venisset ad rostra, perspectissimum
priscae potentiae forum, obstipuit, perque omne latus quo se oculi contulissent, miraculorum densitate praestrictus,
allocutus nobilitatem in curia, populumque e tribunali, in palatium receptus favore multiplici, laetitia fruebatur
optata, et saepe, cum equestres ederet ludos, dicacitate plebis oblectabatur, nec superbae nec a libertate coalita
desciscentis, reverenter modum ipse quoque debitum servans. Non enim (ut per civitates alias) ad arbitrium suum
certamina finiri patiebatur, sed (ut mos est) variis casibus permittebat. Deinde intra septem montium culmina, per
acclivitates planitiemque posita urbis membra collustrans et suburbana, quicquid viderat primum, id eminere inter
alia cuncta sperabat: Iovis Tarpei delubra, quantum terrenis divina praecellunt; lavacra in modum provinciarum
exstructa; amphitheatri molem solidatam lapidis Tiburtini compage, ad cuius summitatem aegre visio humana
conscendit; Pantheum velut regionem teretem speciosa celsitudine fornicatam; elatosque vertices qui scansili suggestu
consurgunt, priorum principum imitamenta portantes, et Urbis templum forumque Pacis, et Pompei theatrum et
Odeum et Stadium, aliaque inter haec decora urbis aeternae. Verum cum ad Traiani forum venisset, singularem
sub omni caelo structuram, ut opinamur, etiam numinum assensione mirabilem, haerebat attonitus, per giganteos
contextus circumferens mentem, nec relatu effabiles, nec rursus mortalibus appetendos. Omni itaque spe huius modi
quicquam conandi depulsa, Traiani equum solum, locatum in atrii medio, qui ipsum principem vehit, imitari se velle
dicebat et posse. Cui prope adstans regalis Ormisda, cuius e Perside discessum supra monstravimus, respondit astu
gentili: «Ante» inquit «imperator, stabulum tale condi iubeto, si vales; equus quem fabricare disponis, ita late
succedat, ut iste quem videmus». Is ipse interrogatus quid de Roma sentiret, id tantum sibi placuisse aiebat, quod
didicisset ibi quoque homines mori.”
[Entrato quindi a Roma, centro dell’Impero e di tutte le virtù, rimase meravigliato alla vista dei rostri, il famosissimo foro dell’antica
potenza, e, dovunque volgesse lo sguardo, era colpito dalla bellezza delle numerose opere d’arte. Parlò ai nobili in Senato, al popolo dal
tribunale del pretore ed accolto nel Palatino con varie manifestazioni di simpatia, godeva d’una gioia desiderata. Spesso, in occasione dei
giochi equestri da lui organizzati, provava piacere ai motteggi della plebe, che né era superba, né abbandonava l’innata libertà, ed egli stesso
s’attenne dignitosamente ad una giusta misura. Infatti non permetteva, come nelle altre città, che le gare terminassero a suo arbitrio, ma,
com’è abitudine, con vario esito. Di poi, visitando le diverse parti della città, poste sulle cime, sui pendii dei sette colli o in pianura, ed i
quartieri suburbani, tutto ciò che vedeva per la prima volta, riteneva insuperabile per magnificenza. Così il tempio di Giove Tarpeo gli sembrava più bello degli altri monumenti, quanto le opere divine delle umane; le terme gli apparivano grandi come province; ammirava la mole
dell’Anfiteatro, salda nella struttura di travertino, alla cui sommità a fatica sale lo sguardo umano, il Pantheon, simile ad una rotonda
zona di una città sollevata per mezzo di volte ad una splendida altezza, le alte colonne che si elevano da una piattaforma su cui si può
salire ed alla cui sommità sorgono le statue di antichi imperatori, il tempio dell’Urbe, il foro della Pace, il teatro di Pompeo, l’Odeum, lo
Stadio ed altri insigni monumenti della città eterna. Ma quando giunse al foro di Traiano, costruzione, a nostro avviso, unica nel suo
genere ed ammirabile anche a giudizio degli dei, rimase attonito e volse gli sguardi a quel gigantesco complesso di edifici, che non può essere
descritto con parole umane né imitato da un mortale. Pertanto, poiché disperava di poter tentare qualcosa di simile, diceva di voler e di poter
imitare solo il cavallo di Traiano, che, posto al centro dell’atrio, porta sul dorso l’imperatore stesso. A lui rispose con l’innata arguzia
il principe Ormisda, che gli stava accanto e di cui precedentemente abbiamo narrato la partenza dalla Persia: «Imperatore, fa’ erigere
prima una stalla simile a questa, se sei capace; il cavallo, poi, che ti proponi di realizzare, vi entri con maestà pari a questo che vediamo».
Ormisda stesso, richiesto del suo parere su Roma, rispose d’aver provato piacere solo per il fatto che aveva imparato che anche in questa
città gli uomini muoiono.]
21
Da Le Storie di AMMIANO MARCELLINO, a cura di A. Selesu, Torino 1965, l. XVI, 10, 13-16, pp. 210-213.
Breve storia urbanistica di Roma da Augusto a Martino V
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Ed ancora intorno al 403, il poeta Claudiano, dall’alto dei palazzi imperiali, indicò ad Onorio,
appena entrato in città, gli stessi templi che, quando era fanciullo, il padre Teodosio gli aveva
additato 22:
“Attollens apicem subjectis Regina Rostris,
Tot circum delubra videt, tantisque Deorum
Cingitur excubiis! juvat infra tecta Tonantis
Cernere Tarpeia pendentes rupe Gigantas,
Caelatasque fores, mediisque volantia signa
Nubibus, et densum stipantibus aethera templis,
Aeraque vestitis numerosa puppe columnis
Consita, subnixasque jugis immanibus aedes,
Naturam cumulante manu; spoliisque micantes
Innumeros arcus: acies stupet igne metalli,
Et circumfuso trepidans obtunditur auro.”
[Sollevando la sua cima, sovrastando i Rostri,
la Regina vede intorno a sé mille sacrari, è cinta da mille
vigili dèi. È bello distinguere sotto il tetto
del Tonante i Giganti abbarbicati alla rupe Tarpea,
le porte cesellate, le statue che sembrano volare
tra le nubi, il cielo affollato di fitti templi,
i bronzi che adornano le colonne rostrate,
i palazzi sorretti da fondamenta immani,
dove all’effetto della mano si aggiunge quello della natura, e gli archi senza numero,
splendenti di trofei. L’occhio stupisce al fiammeggiare del bronzo,
è accecato dalla profusione dell’oro che brilla dappertutto.] 23
Ma appena sette anni dopo, Roma subì, il 24 agosto del 410, l’occupazione ed il saccheggio da
parte di Alarico, re dei Visigoti, che sgomentò tutto il mondo: da otto secoli, infatti, precisamente dal
390 a.C., da quando, cioè, i Galli comandati da Brenno avevano vinto l’esercito romano presso il
fiume Allia ed avevano espugnato la stessa Roma, la maestà dell’Urbe non era più stata violata, creando un’aureola di invulnerabilità intorno alla Città Eterna e nutrendo illusioni che ora, con l’audace
e quasi “sacrilego” gesto di Alarico, si rivelarono del tutto caduche.
Marco Aurelio e Lucio Vero. Denario (161 d.C.). Al dritto raffigura la testa nuda di Antonino Pio divinizzato.
Al rovescio, la colonna elevata alla memoria di Antonino Pio, posta su piedistallo e sormontata dalla statua eroica del Divus.
Argento, mm. 18,20, gr. 3,36. Inv. n. XXV, 11
M. NISARD (sous la direction de), Lucain, Silius Italicus, Claudien, oeuvres complètes avec la traduction en français, Paris 1857, coll. 663 - 664.
Per questa traduzione cfr. F. GREGOROVIUS, Storia della città di Roma nel Medioevo, introduzione di W. Kampf, traduzione di
A. Casalegno, Torino 1973, vol. I, pp. 35-36.
22
23
20
Introduzione
Caracalla. Sesterzio (213 d.C.). Al dritto raffigura la testa laureata di Caracalla. Al rovescio, il Circo Massimo.
Bronzo, mm. 33,40, gr. 25,59. Inv. n. XV, 42
“Quando il mondo civile apprese le circostanze della caduta di Roma, – scrive Gregorovius 24 – esagerate da
mille dicerie, proruppe in un grido di orrore e di angoscia. Le province dell’Impero, abituate da secoli a considerare Roma
come l’acropoli della civiltà e la garanzia storica dell’esistenza di ogni legge civile, anzi, del mondo stesso, videro improvvisamente profanato e distrutto quel santuario: e la fede nella durata delle cose umane ne fu scossa, parve venuto il
tempo dell’universale rovina, secondo le profezie dei profeti e delle sibille.
La caduta di Roma turbò perfino le solitarie contemplazioni di Gerolamo, che, nella lontana Betlemme, era immerso nella lettura dei profeti d’Israele; commosso egli scrive ad Eustochio: «Avevo appena terminato i diciotto libri del
commento a Isaia, e mi accingevo ad iniziare quello a Ezechiele, che tanto spesso ho raccomandato a te e alla tua beata
madre Paola, per dare finalmente l’ultima mano all’opera sui profeti, quando mi giunse, improvvisa, la notizia della
morte di Pammachio e di Marcella, della presa di Roma e della scomparsa di tanti fratelli e sorelle. Allora persi la voce
e ogni sentimento... La luce più fulgida di tutto l’orbe si era spenta, il capo dell’Impero romano era stato reciso dal suo
tronco; anzi, diciamo pure che il mondo intero era caduto insieme a quella sola città; e io rimasi attonito e pieno di sconforto. Non avevo più voce per il bene, il mio tormento si rinnovava senza posa, il cuore mi bruciava nel petto e i miei
pensieri era come se fossero avvolti dalle fiamme»”.
In effetti, i barbari dilagarono per ogni quartiere di Roma e con furia bestiale si diedero a saccheggiare la città. Seguendo il loro impulso più forte, la bramosia dell’oro, si gettarono sui palazzi, sulle
terme, sui templi, e li svuotarono di tutte le ricchezze, di tutti gli oggetti preziosi che riuscirono ad afferrare. Ed in questa devastazione generale, gli edifici e i monumenti della città, immersi per tre giorni
– tanto i Visigoti si fermarono in Roma – nel frastuono dei barbari intenti al saccheggio, subirono
danni, pure a causa dei numerosi incendi, che in quelle razzie senza freni trovarono origine ed alimento
un po’ dovunque. Ma non furono danni particolarmente gravi, anche perché Alarico, se aveva concesso ai suoi guerrieri piena libertà di preda, aveva contemporaneamente ordinato loro di risparmiare
sia le vite degli abitanti sia gli edifici, le chiese in particolare, e tra queste soprattutto le basiliche
dei due Apostoli Pietro e Paolo. Nella misura in cui la frenesia di bottino lo permetteva, i Visigoti obbedirono, tanto che quando, intorno al 415, il prefetto e poeta Rutilio Namaziano dovette lasciare
Roma, nei versi della sua celebre opera De reditu suo, in cui prese congedo dalla città, quest’ultima non
appare certo devastata dalle fiamme e ridotta ad un cumulo di macerie; anzi, il poeta non solo non fa
parola di un eventuale suo aspetto desolato, ma, volgendosi indietro per l’ultima volta, dall’imbarcazione che si allontana sulle acque del Tevere, consacra ad un ricordo pieno di nostalgia la vista della
“... più bella regina del mondo... accolta fra le celesti volte stellate ...” 25:
“... Exaudi, regina tui pulcherrima mundi,
inter sideros Roma recepta polos!
F. GREGOROVIUS, Storia della città di Roma nel Medioevo, op. cit., vol. I, pp. 88 seg.
Per il testo latino e la traduzione dei versi qui proposti del De reditu suo di RUTILIO NAMAZIANO, cfr.: RUTILIO NAMAZIANO, Il Ritorno,
a cura di A. Fo, Torino 1992, libro I, vv. 47-154, pp. 4 -13.
24
25
Cesare Augusto. Denario (19 - 15 a.C). Raffigura la testa nuda di Augusto.
Argento, mm. 19,35, gr. 3,82. Inv. n. 3507
Breve storia urbanistica di Roma da Augusto a Martino V
Exaudi, genitrix hominum genitrixque deorum;
non procul a caelo per tua templa sumus.
Te canimus semperque, sinent dum fata, canemus:
sospes nemo potest immemor esse tui.
Obruerint citius scelerata oblivia solem
quam tuus ex nostro corde recedat honos:
nam solis radiis aequalia munera tendis,
qua circumfusus fluctuat Oceanus.
Volvitur ipse tibi, qui continet omnia, Phoebus
eque tuis ortos in tua condit equos:
te non flammigeris Libye tardavit harenis,
non armata suo reppulit Ursa gelu;
quantum vitalis natura tetendit in axes,
tantum virtuti pervia terra tuae.
Fecisti patriam diversis gentibus unam,
profuit iniustis te dominante capi;
dumque offers victis proprii consortia iuris,
urbem fecisti quod prius orbis erat.
Auctores generis Venerem Martemque fatemur,
Aeneadum matrem Romulidumque patrem.
Mitigat armatas victrix clementia vires,
convenit in mores nomem utrumque tuos.
Hinc tibi certandi bona parcendique voluptas:
quos timuit superat, quos superavit amat.
Inventrix oleae colitur vinique repertor
et qui primus humo pressit aratra puer;
aras Paeoniam meruit medicina per artem,
fretus et Alcides nobilitate deus:
tu quoque, legiferis mundum complexa triumphis
foedere communi vivere cuncta facis,
te, dea, te celebrat Romanus ubique recessus
pacificoque gerit libera colla iugo.
Omnia perpetuos quae servant sidera motus
nullum viderunt pulchrius imperium.
Quid simile Assyriis conectere contigit armis
Medi finitimos cum domuere suos?
Magni Parthorum reges Macetumque tyranni
mutua per varias iura dedere vices.
Nec tibi nascenti plures animaeque manusque,
sed plus consilii iudiciique fuit:
iustis bellorum causis nec pace superba
nobilis ad summas gloria venit opes.
Quod regnas minus est quam quod regnare mereris;
excedis factis grandia facta tuis.
Percensere labor densis decora alta trophaeis,
ut si quis stellas pernumerare veli,
confunduntque vagos delubra micantia visus:
ipsos crediderim sic habitare deos.
Quid loquar aerio pendentes fornice rivos,
qua vix imbriferas tolleret Iris aquas?
21
22
Introduzione
Hos potius dicas crevisse in sidera montes:
tale Giganteum Graecia laudat opus?
Intercepta tuis conduntur flumina muris,
consumunt totos celsa lavacra lacus,
nec minus et propriis celebrantur roscida venis
totaque nativo moenia fonte sonant;
frigidus aestivas hinc temperat halitus auras
innocuamque levat purior unda sitim.
Nempe tibi subitus calidarum gurges aquarum
rupit Tarpeias hoste premente vias;
si foret aeternus, casum fortasse putarem:
auxilio fluxit, qui rediturus erat.
Quid loquar inclusas inter laquearia silvas,
vernula qua vario carmine ludat avis?
Vere tuo numquam mulceri desinit annus
deliciasque tuas victa tuetur hiems.
Erige crinales lauros seniumque sacrati
verticis in virides, Roma, recinge comas;
aurea turrigero radient diademata cono
perpetuosque ignes aureus umbo vomat.
Abscondat tristem deleta iniuria casum,
contemptus solidet vulnera clausa dolor.
Adversis solemne tuis sperare secunda,
exemplo caeli ditia damna subis:
astrorum flammae renovant occasibus ortus;
lunam finiri cernis, ut incipiat.
Victoris Brenni non distulit Allia poenam,
Samnis servitio foedera saeva luit,
post multas Pyrrhum clades superata fugasti,
flevit successus Hannibal ipse suos.
Quae mergi nequeunt, nixu maiore resurgunt
exiliuntque imis altius acta vadis;
utque novas vires fax inclinata resumit,
clarior ex humili sorte superna petis.
Porrige victuras Romana in saecula leges
solaque fatales non vereare colos,
quamvis sedecies denis et mille peractis
annus praeterea iam tibi nonus eat.
Filippo Padre. Antoniniano (247 d.C.). Al dritto raffigura la testa di Filippo con corona radiata. Al rovescio, tempio esastilo su podio,
con la statua di Roma seduta, posta nell’intercolumnio centrale. Questo tipo monetale rappresenta due templi contemporaneamente:
l’ottastilo Saeculum Novum e quello di Roma Aeterna. Argento, mm. 22,80, gr. 3,78. Inv. n. LVIII, 36
Breve storia urbanistica di Roma da Augusto a Martino V
Quae restant, nullis obnoxia tempora metis,
dum stabunt terrae, dum polus astra feret;
illud te reparat, quod cetera regna resolvit:
ordo renascendi est crescere posse malis.
Ergo age sacrilegae tandem cadat hostia gentis,
submittant trepidi perfida colla Getae.
Ditia pacatae dent vectigalia terrae,
impleat augustos barbara praeda sinus;
aeternum tibi Rhenus aret, tibi Nilus inundet
altricemque suam fertilis orbis alat,
quin et fecundas tibi conferat Africa messes,
sole suo dives, sed magis imbre tuo.
Interea et Latiis consurgant horrea sulcis
pinguiaque Hesperio nectare prela fluant.
Ipse triumphali redimitus arundine Thybris
Romuleis famulas usibus aptet aquas
atque opulenta tibi placidis commercia ripis
devehat hinc ruris, subvehat inde maris.”
[Prestami ascolto, bellissima regina del mondo interamente tuo,
accolta fra le celesti, Roma, volte stellate.
Prestami ascolto, tu madre degli uomini, madre degli dei:
grazie ai tuoi templi non siamo lontani dal cielo.
Te cantiamo e canteremo, sempre, finché lo concedano i fati,
nessuno può essere in vita e dimentico di te.
Potrà piuttosto scellerato oblio affondare il sole
prima che il tuo splendore svanisca dal nostro cuore,
perché diffondi grazie pari ai raggi del sole
per ogni terra, fino all’Oceano che ci fluttua intorno.
Per te si volge lo stesso Febo che tutto abbraccia
e i suoi cavalli, sorti da te, in te ripone;
non ti fermò, sabbia di fuoco, la Libia,
né ti respinse, armata del suo gelo, l’Orsa:
quanto si estese fra i poli, propizia alla vita, la natura
tanto si aprì la terra al tuo valore.
Hai fatto di genti diverse una sola patria,
la tua conquista ha giovato a chi viveva senza leggi:
offrendo ai vinti l’unione nel tuo diritto
hai reso l’orbe diviso unica Urbe.
Riconosciamo tuoi capostipiti Venere e Marte,
la madre degli Eneadi e dei Romulidi il padre,
la violenza delle armi è raddolcita dalla clemenza usata nella vittoria,
entrambi i nomi esprimono il tuo cuore;
di qui la tua buona gioia dello scontro come del perdono,
vincere chi si è temuto, amare chi si è vinto.
Colei che inventò l’olio, colui che scoprì il vino
sono adorati, e il ragazzo che primo premé al suolo l’aratro;
ottenne altari con l’arte di Peone la medicina
e, forte della sua nobiltà, è dio l’Alcide:
così anche tu, che abbracci il mondo con trionfi che portano leggi
e fai che tutto viva sotto un comune patto.
Te, dea, celebra te, romano, ogni angolo della terra
portando sul libero collo un pacifico giogo.
Tutte le stelle nelle loro orbite eterne
non hanno visto mai impero più bello.
23
24
Introduzione
Ne avevano congiunto uno simile gli Assiri
quando i Medi piegarono i loro confinanti?
I grandi re dei Parti e i tiranni Macedoni
si conquistarono gli uni gli altri con sorti alterne.
Né tu, nascendo, avevi più animi e braccia
ma più saggezza e più discernimento:
per guerre giuste e una pace non superba
la tua nobile gloria ha attinto la più alta potenza.
Tu regni e, ciò che vale ancor di più, meriti il regno:
tutte le grandi imprese superi con le tue.
Enumerare i tuoi monumenti elevati e ricchi di trofei
sarebbe come voler contare ogni singola stella.
I templi splendono e, a cercare di ammirarli, confondono gli occhi,
sono così, a quanto credo, le stesse dimore degli dei.
E come dire dei rivi sospesi su volte così alte nell’aria
che a stento Iride potrebbe levarne l’arco d’acqua?
Queste piuttosto diresti montagne cresciute fino agli astri:
vanta la Grecia una tale fabbrica da Giganti?
Fiumi son catturati e rinchiusi dai tuoi edifici,
superbe terme sfruttano interi laghi,
né mancano vene tue proprie a frequentare
le mura roride: risuonano di fonti native,
così che un fresco soffio tempera l’aria in estate
e una sorgente più pura lenisce la sete inoffensiva.
E certo per te un improvviso fiotto di acque calde
ruppe la via della rupe Tarpea mentre avanzava il nemico:
fosse durato per sempre potrei forse crederlo un caso,
fluì in tuo aiuto invece, per poi riscomparire.
E come dire dei boschi racchiusi fra i tetti a riquadri di portici
dove, di casa, gli uccelletti scherzano con vari canti?
Senza venire mai meno, la tua primavera addolcisce l’anno
così che, vinto, tutela le tue delizie l’inverno.
Solleva il volto e i suoi allori, e torna a cingere
il bianco del tuo sacro capo in chiome, Roma, verdi.
Splenda dalla corona turrita il diadema d’oro,
fuochi perenni irraggi l’aureo scudo:
aver cancellato l’affronto cancelli la triste caduta,
saldi lo spregio del dolore solidamente per sempre la ferita.
È tua tradizione sperare dalle sventure fortune
e affronti danni che ti arricchiscono, a modello del cielo:
tornano a nascere, ad ogni tramonto, le fiamme degli astri,
vedi la luna calare per ricrescere.
Brenno vinceva, ma l’Allia non differì il castigo,
servi, i duri Sanniti hanno scontato i vergognosi patti;
dopo molte sconfitte, vinta, hai saputo scacciare Pirro,
lo stesso Annibale ha pianto i suoi trionfi.
Ciò che non può affondare riemerge con forza maggiore
balzando su dalle profondità ancora più in alto,
e come quando inclinata assume nuove forze la torcia,
più risplendente, già volta a terra, ora tendi alle altezze.
Protendi leggi immortali nei secoli futuri e romani
e non temere, tu sola, i destini filati dalle Parche
benché, compiuti sedici volte dieci, e mille anni,
ancora il nono per te già volga alla fine:
né gli altri prossimi potranno mai mettere capo a un termine
finché saranno salde le terre e in cielo gli astri.
È ciò che guasta gli altri regni a rinforzarti:
rinasci perché dai tuoi danni sai trarre forza e crescita.
Breve storia urbanistica di Roma da Augusto a Martino V
25
Massimiano Ercole. Follis (306 - 310 d.C.). Al dritto raffigura la testa laureata di Massimiano. Al rovescio, un tempio esastilo
con frontone triangolare e nell’intercolunnio centrale la statua di Cartagine stante, frontale, con lungo vestito e mantello,
che sorregge nelle mani allargate due grappoli o spighe. Bronzo, mm. 28,35, gr. 6,72. Inv. n. II. 42
Pertanto su, cadano alfine in sacrificio i nemici sacrileghi:
i Goti perfidi pieghino tremando il collo.
Pacificate, le terre ti diano ricchi tributi,
barbara preda ricolmi il tuo nobile seno.
Per te in eterno ari il Reno, per te il Nilo inondi
e il mondo fertile nutra la sua nutrice;
e del suo sole, ma più della tua pioggia, ricca
l’Africa ammassi per te feconde messi.
Sorgano intanto granai per i solchi del Lazio
e largo scorra dai torchi il nettare di Esperia.
Lo stesso Tevere trionfalmente coronato di canne
pieghi le docili acque alla vita di Roma
e a te porti fra le placide sponde opulenti traffici
qui, giù dalla campagna; là, su dal mare.]
Fu il “canto del cigno” per l’«Urbs aeterna» o almeno così sembrò, dal momento che nello spazio dei sessanta anni successivi all’oltraggio dei Visigoti, sebbene Papa Leone I (440-461) fosse riuscito a fermare l’assalto degli Unni di Attila, Roma fu di nuovo vittima di almeno altri due terribili
saccheggi barbarici: nel 455, per mano dei Vandali di Genserico e nel 472 dei Germani di Ricimiero.
Ed ogni volta gli abitanti inermi venivano massacrati, i monumenti superstiti danneggiati o distrutti,
i tesori, sempre più scarsi, saccheggiati. Quattro anni dopo, nel 476, Odoacre, re degli Eruli, depose
l’ultimo Imperatore, Romolo Augustolo (475-476), sancendo così la fine dell’Impero Romano
d’Occidente e facendo scendere su Roma un buio, che almeno fino all’XI - XII secolo si sarebbe fatto
sempre più fitto.
Eppure, per molto tempo ancora, dopo la fatidica data del 476, nonostante il sacco dei Visigoti
di Alarico, dei Vandali di Genserico, dei Germani di Ricimiero, nonostante la perdita del suo rango
di capitale del più grande Impero della terra e, da ultimo, nonostante la fine del “suo” stesso Impero,
Roma, sebbene ormai decrepita e coperta in più parti di macerie, continuava pur sempre ad esercitare un’impressione ed un fascino irresistibili sull’animo umano!
Roma conquistata dai Goti,
disegno acquarellato, 1330-1340,
da Paolino da Venezia, Satyrica Historia.
Biblioteca Apostolica Vaticana,
Vat. lat. 1960, f. 200v.
(Particolare)
26
Introduzione
Roma conquistata dai Goti, disegno acquarellato, 1330-1340, da Paolino da Venezia, Satyrica Historia. Biblioteca Apostolica Vaticana,
Vat. lat. 1960, f. 200v.
Breve storia urbanistica di Roma da Augusto a Martino V
27
Un giorno dell’anno 500, il monaco africano Fulgenzio era giunto a Roma dopo aver attraversato, vivendo di elemosine, la Sicilia e l’Italia Meridionale, per sfuggire alle persecuzioni dei Vandali
dell’Africa Settentrionale. Il povero profugo aveva certamente letto i poeti e i prosatori, i loro
panegirici di questa città, elevata ad idea divina e come tale venerata nel mondo intero. Ma ciò nonostante quello che vide lo lasciò sbalordito e, rivolto lo sguardo al cielo, non poté fare a meno
di commentare:
“Quam speciosa potest esse Hierusalem coelestis, si sic fulget Roma terrestris!” 26
[Quanto deve essere meravigliosa la Gerusalemme celeste, se già la Roma terrena rifulge di una così sconfinata maestà !]
Iacopo da Fabriano, Roma Gerusalemme celeste,
lettera d’incipit miniata, 1456.
Biblioteca Apostolica Vaticana,
Reg. lat. 1882, f. 2r. (Particolare)
L’arrivo a Roma di Fulgenzio cadde in un momento particolare: tutta la città era in festa per salutare il suo nuovo dominatore di turno. Ma questo dominatore, che nell’anno 500 veniva accolto con
onori imperiali dal Senato, dai magistrati e dal popolo senza distinzione, non era un Imperatore
romano, bensì il re degli Ostrogoti; un barbaro, dunque, re di barbari, un illetterato e per di più un
assassino, poiché aveva ucciso con un inganno anche Odoacre: era Teodorico.
Eppure, per la sincera venerazione, che fin da subito manifestò per Roma, Teodorico non tardò
a dimostrarsi ben più degno di molti Imperatori che lo avevano preceduto, di essere signore di
questa città 27:
“Nulli... ingrata... quae dici non potest aliena, illa eloquentiae feconda mater, illa virtutum omnium latissimum
templum sentiatur plane, quod clarum est: non sine gratia esse creditur, cui habitatio tanta praestatur”.
[... a nessuno ingrata perché a nessuno straniera, feconda madre dell’eloquenza, tempio sconfinato di ogni virtù, asilo di tutte le
meraviglie del mondo, tanto che può dirsi che tutta Roma sia un solo grande prodigio.]
FERRANDUS, Vie de Saint Fulgente de Ruspe, edizione e traduzione francese di G. C. Lapeyre, 1929.
Per il testo latino del passo citato cfr.: CASSIODORI SENATORIS, Variae, recensuit T. MOMMSEN, in Monumenta Germaniae Historica,
Berlino 1894, Variarum, IV, 6, p. 117. Per la traduzione italiana cfr. F. GREGOROVIUS, Storia della città di Roma nel Medioevo, cit., vol. I, p. 158.
26
27
28
Introduzione
Iacopo da Fabriano, Roma Gerusalemme celeste, lettera d’incipit miniata, 1456. Biblioteca Apostolica Vaticana, Reg. lat. 1882, f. 2r.
Breve storia urbanistica di Roma da Augusto a Martino V
29
In effetti, molti passi dei rescritti di Teodorico, raccolti dal suo ministro e senatore romano Cassiodoro, ci ragguagliano sia sulle condizioni di Roma in quel tempo sia sugli sforzi appassionati, compiuti da questo re per preservarla da ulteriori e più gravi sciagure. E la dettagliata descrizione di tali
interventi di restauro e di conservazione dell’antico splendore dell’Urbe offre a Cassiodoro anche la
possibilità di manifestare tutto il suo amore sincero per quella pur sempre straordinaria città, tutta la
sua ammirazione per quei monumenti antichi che, nonostante lo scorrere inesorabile del tempo e l’oltraggio degli uomini, resistevano in piedi e gli riempivano il cuore di meraviglia. Così, egli ci parla del
fitto popolo di sculture e dello sterminato esercito di statue equestri, che ancora ornavano le piazze;
ci parla del Circo Massimo e, soprattutto, del Colosseo che, sebbene avesse sofferto a causa di un
violento terremoto, che nel 422 aveva danneggiato pure molti altri monumenti, si manteneva pressoché intatto. Più splendido di ogni altro monumento gli appariva però il Foro Traiano che, mentre gli
altri antichi edifici romani uno dopo l’altro stavano rovinando, rimaneva il complesso monumentale
più superbo della città. Esclama con entusiasmo Cassiodoro 28:
“Traiani forum vel sub assiduitate videre miraculum est: Capitolia celsa conscendere hoc est humana ingenia
superata vidisse”.
[Il Foro Traiano più lo si contempla, più sembra un miracolo: chi sale all’augusto Campidoglio vede un’opera che è al di sopra
del genio umano.]
Una commossa ammirazione manifesta il ministro di Teodorico perfino per una realizzazione
all’apparenza poco monumentale, ma pur sempre un capolavoro dell’ingegneria idraulica romana: le
cloache, di cui nessun altro popolo era riuscito a raggiungere la perfezione, e che ora il re degli Ostrogoti si accingeva a restaurare. Cassiodoro ne descrive stupito i canali che 29:
“... fluvios quasi montibus concavis clausos per ingentia signina decurrere... hinc Roma singularis quanta in
te sit potest colligi magnitudo. Quae enim urbium audeat tuis culminibus contendere, quando nec ima tua possunt
similitudinem reperire? ”
[... defluivano attraverso immensi stagni, racchiusi come all’interno di un grande monte cavo... anche soltanto da esse (le cloache)
si può capire, o Roma unica al mondo, quale sia la tua grandezza! Che città può sperare di raggiungere le tue vette, se neppure delle tue
profondità sotterranee esiste altrove l’uguale?]
Ma Cassiodoro, Fulgenzio e, prima di questi, Rutilio Namaziano e tanti altri, il cui profondo
amore per Roma e per ciò che essa aveva rappresentato nel mondo scaldava le loro parole, quando la
esaltavano con espressioni così entusiastiche, avevano certamente davanti agli occhi della mente ancora le immagini dell’antica, splendida Urbe dei Cesari, assai più che non quelle della città degli inizi
del VI secolo. Già al tempo di Teodorico, infatti, se gli antichi monumenti rimanevano ancora pressoché tutti in piedi, essi comunque apparivano nella maggior parte dei casi più o meno danneggiati
dai saccheggi, dagli incendi, dai terremoti, dall’incuria e dall’abbandono. La popolazione si era notevolmente ridotta di numero e vaste aree della città, ormai spopolate, erano diventate campi seminati
e pascoli per bestiame.
Nel 537, nel’ambito della guerra “greco-gotica” (537-553), voluta dall’Imperatore Giustiniano
per sottrarre l’Italia al dominio degli Ostrogoti, una calamità ancora più rovinosa delle precedenti
colpì Roma, ripetutamente assediata e riconquistata dalle due forze opposte: gli Ostrogoti di Vitige,
che stavano assediando la città difesa da Belisario, oltre a devastare l’Agro romano, tagliarono tutti
28
Per il testo latino del passo citato cfr.: CASSIODORI SENATORIS, Variae, cit., Variarum, VII, 6, p. 205. Per la traduzione italiana cfr.
F. GREGOROVIUS, Storia della città di Roma nel Medioevo, cit., vol. I, p. 160.
29
Per il testo latino del passo citato cfr.: CASSIODORI SENATORIS, Variae, cit., Variarum, III, 30, pp. 94-95. Per la traduzione italiana cfr.
F. GREGOROVIUS, Storia della città di Roma nel Medioevo, cit., vol. I, pp. 158-159.
30
Introduzione
gli acquedotti, che per la prima volta da tempo immemorabile cessarono allora di dissetare la città,
cessarono di alimentare le terme che, dunque, furono abbandonate e andarono in rovina. Ed erano
gli stessi acquedotti, che ancora pochi anni prima avevano suscitato ammirazione e stupore in
Cassiodoro: 30
“In formis autem Romanis utrumque praecipuum est, ut fabrica sit mirabilis et aquarum salubritas singularis.
Quot enim illuc flumina quasi constructis montibus perducuntur, naturales credas alveos soliditate saxorum, quando
tantus impetus fluminis tot saeculis firmiter potuit sustineri. Cavati montes plerumque subruunt, meatus torrentium
dissipantur: et opus illud veterum non destruitur, si industria suffragante servetur. Respiciamus certe aquarum copia
quantum Romanis moenibus praestat ornatum. Nam thermarum illa pulchritudo quid esset, si dulcissima quaedam
aequora non haberet ? Currit aqua Virgo sub delectatione purissima, quae ideo sic appellata creditur, quod nullis
sordibus polluatur. Nam cum aliae pluviarum nimietate terrena commixtione violentur, haec aerem perpetue serenum
purissime labens unda mentitur. Quis possit talia sermonibus idoneis explicare? Claudiam per tantam fastigii molem
sic ad Aventini caput esse perductam, ut cum ibi ex alto lapsa ceciderit, cacumen illud excelsum quasi imam vallem
irrigare videatur.”
[Negli acquedotti romani, la costruzione è ammirevole quanto è unica la bontà dell’acqua. Vi scorrono fiumi, come su montagne
artificiali; i canali di pietra hanno sopportato per tanti anni l’urto impetuoso delle acque, che si potrebbero quasi credere letti naturali di
fiumi. Anzi, mentre le montagne cave per lo più rovinano e i letti dei fiumi si sfaldano, queste opere degli antichi invece durano eterne, se
sono mantenute con cura. Pensiamo quale ornamento sia per la città di Roma l’abbondanza di acque! Inoltre, dove sarebbe lo splendore
delle terme, senza la bontà dell’acqua? L’Acqua Vergine fluisce pura, deliziosa, degna in tutto del suo nome per la sua limpidezza; infatti, se altri acquedotti s’inquinano di terra, dopo una pioggia violenta, l’Acqua Vergine rispecchia con le sue onde sempre pure un cielo
eternamente sereno. E chi sarà capace di spiegare il prodigio, grazie a cui l’Acqua Claudia è convogliata da un gigantesco acquedotto fino
sulla vetta dell’Aventino, sì che, cadendo dall’alto, sommerge l’alta cima come fosse una valle profonda?]
Così, anche Cassiodoro, nei momenti in cui la realtà lo risvegliava dai suoi sogni, comprendeva
con profondo dolore che Roma non sarebbe più tornata all’antico splendore; anzi, si rendeva amaramente conto che l’era delle tenebre per quella che era stata la città più grande del mondo, l’Urbs, si avvicinava inesorabile. Parecchi edifici, infatti, cominciavano a rovinare, schiacciati dal loro stesso peso;
tra questi il Teatro di Pompeo, la celebre, magnifica costruzione, che per la sua imponenza veniva
chiamata semplicemente theatrum, il “teatro”. Ed è proprio parlando di questo monumento, che
Cassiodoro non poté fare a meno di esclamare 31:
“Quid non solvas, senectus, quae tam robusta quassasti? ”
[Che cosa non riesci a distruggere, o tempo, se hai potuto scuotere mole così imponente?]
Carta dell’Italia centrale, disegno acquarellato, 1330-1340, da Paolino da Venezia,
Satyrica Historia. Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 1960, f. 268r. (Particolare)
30
Per il testo latino del passo citato cfr.: CASSIODORI SENATORIS, Variae, cit., Variarum, VII, 6, p. 205. Per la traduzione italiana cfr.
F. GREGOROVIUS, Storia della città di Roma nel Medioevo, cit., vol. I, p. 159.
31
Per il testo latino del passo citato cfr.: CASSIODORI SENATORIS, Variae, cit., Variarum, IV, 51, p. 138. Per la traduzione italiana cfr.
F. GREGOROVIUS, Storia della città di Roma nel Medioevo, cit., vol. I, p. 160.
Breve storia urbanistica di Roma da Augusto a Martino V
Carta dell’Italia centrale, disegno acquarellato, 1330-1340, da Paolino da Venezia, Satyrica Historia.
Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 1960, f. 268r.
31
32
Introduzione
Su questa Roma ridotta quasi l’ombra di se stessa, si abbatté, quindi, l’invasione longobarda, iniziata nel 568. La città non venne conquistata dai Longobardi che, comunque, si avvicinarono ad essa,
stringendola anche d’assedio per ben due volte, nel 579 e nel 593, e la isolarono dal resto dell’Italia.
La frontiera tra il territorio romano e quello occupato dai Longobardi si stabilì nella Toscana meridionale e, più a sud, lungo il Garigliano, trasformandosi, almeno per qualche decennio, in un terreno
di scontri e di devastazioni. Così per Roma divennero difficili e saltuari i contatti con il resto dell’Italia, ed ancora più difficili i rifornimenti di prodotti che giungevano dalle proprietà laiche ed ecclesiastiche dei Romani, che si trovavano nelle regioni occupate dai Longobardi. Questa drammatica
situazione, in cui ora versava l’antica capitale dell’Impero, contribuì ad accentuarne il ripiegamento su
se stessa e sulle rovine della sua antica grandezza.
E come se tutto ciò non bastasse, le cronache dell’epoca, laconiche e cupe, ci hanno tramandato pure calamità e catastrofi naturali, pestilenze. Alla fine del 589, il Tevere inondò parte della
città, completando la distruzione tra l’altro di molti monumenti antichi. Ma molto più atroci furono
i disastri ed i lutti causati dalla peste, che ai primi del 590 scoppiò in molte località già funestate,
come Roma, dalle inondazioni. Una descrizione cruda, ma efficace e sicuramente molto vicina al reale
aspetto della Roma degli ultimi decenni del VI secolo, la possiamo leggere in una celebre pagina del
Gregorovius 32:
“Col tramonto del regno gotico ha inizio la dissoluzione della fisionomia che Roma e l’Italia avevano assunto
in età classica. Leggi, monumenti, perfino i ricordi storici vengono sepolti dall’oblio. Sul Campidoglio, vetta desolata, rimane un mondo prodigioso di monumenti sfarzosi e vuoti, retaggio dello Stato più grande che l’umanità
abbia creato nel corso della sua storia. Il Palazzo dei Cesari, ancora intatto nelle parti principali, quel labirinto di
cortili, di saloni, di templi, di migliaia di stupende sale, scintillanti di marmi e ancora qua e là rivestite di tappezzerie trapunte d’oro, va in pezzi, riducendosi a un mucchio di spettrali rovine; in una piccola ala abita il «duce» bizantino, un cortigiano eunuco o un generale mezzo asiatico, coi suoi scrivani, i suoi servi, la sua guardia. I magnifici
fori inselvatichiscono, e ne sopravvive soltanto il ricordo fiabesco. Macerie e sterpi invadono i teatri e il grande Circo
Massimo, dove le corse, ultimo e prediletto svago dei Romani, sono cessate. L’Anfiteatro di Tito si erge incrollabile
ma spoglio dei suoi splendidi ornamenti. Le sconfinate terme dei Cesari, non più alimentate dagli acquedotti e
cadute in disuso, offrono lo spettacolo selvaggio di città in rovina seminascoste dall’edera che comincia ad avvolgerle;
il prezioso rivestimento marmoreo delle pareti crolla o è strappato a viva forza; i mosaici si sgretolano; le sale
leggiadramente dipinte serbano le antiche vasche a sedile, di pietra chiara o scura, e le magnifiche vasche di porfido
o di alabastro orientale; ma i preti romani le staccano una dopo l’altra, per farne seggi episcopali nel presbiterio
delle chiese, urne per le reliquie dei santi nelle cripte, o fonti nelle cappelle battesimali. Molti di questi arredi e
delle statue ornamentali rimarranno però al loro posto, fino a che i muri, crollando, li seppelliranno per secoli sotto
le loro macerie”.
Verso la metà del VII secolo, sembrò farsi strada, tra le fosche nubi del cielo di Roma, un raggio di sole a riportare un po’ di luce alla città ed alla sua popolazione, ridotta ormai a meno di 30.000
abitanti: cominciarono ora a riprendere vigore ed a diventare sempre più frequenti da tutta l’Europa
i pellegrinaggi alla città dei Papi. Un fenomeno, questo, giustificato fondamentalmente da due motivazioni: venerare le tombe degli Apostoli Pietro e Paolo e le numerose reliquie dei Santi martiri, delle
quali continuava senza interruzione la traslazione dentro le mura cittadine dai sepolcri periferici, dal
momento che la campagna intorno all’Urbe versava continuamente sotto la minaccia degli Arabi;
lucrare le indulgenze, sempre più generose per chi veniva personalmente a Roma, affrontando un
viaggio quasi sempre pieno di disagi e di pericoli. Infatti, per chi seguiva la via di terra, c’erano le Alpi
da attraversare ed i predoni da evitare; per chi quella del mare, c’erano le tempeste da affrontare ed i
pirati barbareschi da eludere o da combattere.
32
F. GREGOROVIUS, Storia della città di Roma nel Medioevo, cit., vol. I, pp. 271-272.
Breve storia urbanistica di Roma da Augusto a Martino V
33
Sulle ceneri dell’Urbe dei Cesari, dunque, si impose e man mano si consolidò il mito della Roma
cristiana, della città santificata dal sangue dei martiri:
“Sedes Roma Petri; quae pastoralis honoris
facta caput mundo, quidquid non possidet armis
religione tenet...”
[Roma sede di Pietro; per la missione pastorale
divenuta signora del mondo, ciò che non può ottenere con le armi
mantiene con la forza della religione...]
Così scriveva, per esempio, Prospero d’Aquitania 33 nella seconda metà del V secolo; ma prima
di lui, diversi altri scrittori cristiani, come pure i più autorevoli Pontefici, avevano sottolineato il carattere sacro di Roma, città santa del Cristianesimo, titolo che nessun’altra città, neanche Costantinopoli, poteva contestarle. Su questo piano, la sola a poter concorrere con Roma era Gerusalemme; ma
dal IV secolo quest’ultima era caduta nelle mani dei Persiani e poi dei Musulmani, e per i Cristiani
pertanto era solo un luogo della memoria ed una speranza escatologica. Ed ancora alla metà del XIV
secolo, Santa Brigida di Svezia, in una delle sue prime visioni, sentirà la voce di Dio dirle: «Va’ a Roma
dove le piazze sono rosse del sangue dei martiri»; frase, questa, che probabilmente riecheggiava la prima
strofa 34 del canto intonato dai pellegrini del Medioevo, quando, al termine del loro cammino, nella
solitudine della campagna romana, cominciavano ad intravedere l’immensa mole della basilica del
Principe degli Apostoli:
“O Roma nobilis orbis et domina
cunctarum urbium excellentissima,
roseo martyrum sanguine rubea,
albis et liliis virginum candida:
salutem dicimus tibi per omnia,
te benedicimus, salve, per saecula.”
[O Roma nobile, sovrana del mondo,
eccellentissima tra tutte le città,
rossa per il roseo sangue dei martiri,
candida per i bianchi gigli delle vergini,
salute a te diciamo per ogni cosa,
te benediciamo, salve, nei secoli.]
Così i pellegrini di tutta Europa giungevano nell’
“Urbs potens, Urbs orbis domina, Urbs apostolici voce laudata” 35
[Città potente, città signora del mondo, città lodata dalle parole degli Apostoli ],
portando nel cuore l’eco dei racconti leggendari di coloro che li avevano preceduti, ed avendo davanti
agli occhi della mente l’immagine imponente e suggestiva della Roma imperiale assai più che non
quella della Roma di quei secoli bui. Ed era proprio lo spettacolo insolito di questa Roma sognata
33
Prosperi Aquilani Carmen de ingratis, in Migne, PL, 51, col. 97; cit. in F. PASCHOUD, Roma Aeterna, Neuchâtel 1967, p. 321; cfr. S. MADIn Figura Romae, Immagini di Roma nel libro medioevale, Roma 1990, p. 4, nota 16.
34
In A. GRAF, Roma nella memoria e nelle immaginazioni del Medio Evo, Torino 1923, p. 44.
35
HIERONYMUS, Adversum Jovinianum, 2, 38, in Migne, P L, 23, 2/3, col. 351; cit. in C. PIETRI, Roma Christiana: Recherches sur l’Église de
Rome, son organisation, sa politique, son idéologie de Miltiade à Sixte III (311-440), Paris 1976 (Bibliotèque des Écoles Françaises d’Athènes et de Rome,
224), p. 1643; cfr. S. MADDALO, In Figura Romae ... cit., p. 4, nota 15.
DALO,
34
Introduzione
splendida, sovrapposta a quella concreta, e più reale di quest’ultima agli occhi incantati dell’immaginario collettivo, era proprio questo spettacolo, che i pellegrini, provenienti dal Nord dopo aver percorso la via Francigena, una volta giunti sull’attuale Monte Mario (Mons Gaudii o Monte della gioia, nel
Medioevo), immaginavano di vedere con il cuore stracolmo di emozione, mentre abbracciavano con
lo sguardo tutta la città stesa ai loro piedi, racchiusa all’interno di una cinta muraria che per estensione
non aveva nulla di paragonabile nel mondo occidentale. Nella suggestiva luce dei tramonti infuocati
di Roma, il loro sguardo si perdeva nell’insieme indistinto dei monumenti, da cui emergevano i campanili di modeste dimensioni delle piccole chiese, quelli imponenti delle chiese maggiori o le torri
svettanti accanto ai palazzi delle famiglie nobili: “... Così numerose sono le torri da sembrare spighe di grano,
tante le costruzioni dei palazzi che a nessun uomo riuscì mai di contarle ...” scriverà nella sua opera Narrazione
delle meraviglie della città di Roma “Magister Gregorius”, che – sembra – visiterà l’Urbe tra la fine del XII
e l’inizio del XIII secolo 36:
“Vehemencius igitur admirandam censeo tocius urbis inspectionem, ubi tanta seges turrium, tot edificia palatiorum, quot nulli hominum contigit enumerare ...
Cuius incomprehensibilem decorem diu admirans deo apud me gratias egi, qui magnus in universa terra ibi opera
hominum inestimabili decore mirificavit ...”
[Credo proprio che si debba ammirare con straordinario entusiasmo il panorama di tutta la città in cui così numerose sono le torri
da sembrare spighe di grano, tante le costruzioni dei palazzi che a nessun uomo riuscì mai di contarle ...
Dopo avere a lungo ammirato questa infinita bellezza resi in cuor mio grazie a Dio che, grande in tutta la terra, proprio qui volle
rendere magnifiche le opere degli uomini con questo inarrivabile splendore ...]
Placchetta dei pellegrini del XII-XIII secolo (quadrangula), con San Pietro e San Paolo
individuati dalla legenda in alto: S PE(trus) S PA(ulus). Piombo, mm. 30x24.
La Roma cristiana, dunque, santificata dalla presenza, entro le sue antiche mura, delle tombe
degli Apostoli Pietro e Paolo e delle reliquie di tanti altri martiri, come pure della Cattedra del Vicario di Cristo, aveva riscattato, anzi “rigenerato”, la Roma pagana, che da “caput gentium ” era diventata
“caput fidei ”! E questa rigenerazione aveva ben presto favorito un’interpretazione addirittura provvidenzialistica del ruolo dell’Impero romano, chiamato da Dio a preparare la strada all’evangelizzazione, unificando sotto la sua autorità la maggior parte del mondo allora conosciuto. Non solo; questa
stessa rigenerazione aveva infuso nuova vita al concetto dell’eternità di Roma, già evocato da Virgilio nel famoso verso dell’Eneide 37: “His... imperium sine fine dedi ” [A questi (ai Romani) ... ho concesso un
36
MAESTRO GREGORIO, Narracio de mirabilibus urbis Romae, I, edizione e traduzione, in C. NARDELLA, Il fascino di Roma nel Medioevo, Le
«Meraviglie di Roma» di maestro Gregorio, Roma 1997, pp. 144 -147.
37
VIRGILIO, Eneide, I, 279.
Breve storia urbanistica di Roma da Augusto a Martino V
35
impero senza fine] e che dall’alto Medioevo aveva trovato quasi una conferma nel destino di alcuni
monumenti della città, che sembravano inalterabili nel tempo, come indicava un poema anonimo
citato nel VII secolo da Beda il Venerabile 38:
“Quamdiu stat Colisaeus
Stat et Roma
Quando cadet Colisaeus
Cadet Roma
Quando cadet Roma
Cadet et mundus.”
[Fin quando il Colosseo rimarrà in piedi,
lo sarà anche Roma.
Quando il Colosseo crollerà,
Roma crollerà.
Quando crollerà Roma,
crollerà anche il mondo.]
La necessità, poi, dei pellegrini di spostarsi all’interno di Roma attraverso gli itinerari della fede
ed i percorsi della città monumentale portò, verso la fine dell’VIII secolo, pure alla compilazione di
guide con la descrizione delle chiese e dei monumenti da visitare, come, ad esempio: l’Itinerario di
Einsiedeln (così chiamato dal monastero svizzero in cui si è conservato il manoscritto), scritto da un
anonimo tra l’VIII ed il IX secolo; la Graphia aurea urbis Romae, del XIII secolo; oppure, e principalmente, i Mirabilia urbis Romae, di cui il primo manoscritto conosciuto, contenuto nel Liber politicus redatto da Benedetto, canonico della basilica di San Pietro, fu realizzato nel XII secolo, anche se il testo
originale risaliva probabilmente al X secolo.
Ma se il ricordo di racconti ascoltati nella patria d’origine e le guide, i Mirabilia in modo particolare 39, alimentavano nei pellegrini illusorie speranze di essere accolti da una Roma meravigliosa, sospesa tra idealità e realtà, quella che invece, al termine del viaggio appariva ai loro occhi nella sua
concretezza, con il suo degrado, il suo abbandono, le sue distruzioni, i suoi monumenti più celebri in
rovina, era una città ormai stravolta. Molti edifici, che un tempo risplendevano di marmo e sfolgoravano d’ornamenti aurei, si erano ridotti a scheletri di pietra annerita o di mattoni rosso cupo, dai cui
soffitti scoperchiati si scorgevano brandelli di cielo. Quelle che una volta erano state le aule dei signori
della terra, erano diventate ormai tane per le volpi o rifugi per le greggi dei pastori, che pascevano le
loro bestie sull’erba cresciuta tra i Fori gloriosi. Di quanto in quanto, dal suolo tormentato della città
emergevano i monconi di colonne di ciò che era stato un tempio o la statua abbattuta di un antico dio;
mentre molte antiche strade non erano più percorribili perché ingombre delle macerie degli edifici crollati. E più volte, come riportato sopra, orde di barbari avevano spazzato quelle rovine, avevano rovistato tra le loro pietre, avevano asportato quanto ancora sembrasse loro d’un qualche residuo valore.
Non era rimasto più nulla dell’antica gloria, dell’antico splendore, delle antiche meraviglie. Non c’era
più la Meta sudans, dove i gladiatori, sopravvissuti alla morte, lavavano le proprie ferite; non c’era più
l’Umbilicus Urbis, il cippo ricoperto di lastre d’oro, che indicava il punto esatto dal quale si irradiavano
tutte le strade dell’Impero; non c’era più il Colosso del dio Sole presso l’anfiteatro Flavio, che proprio
da quella gigantesca statua aveva preso il nome “Colosseo” e che la famiglia dei Frangipane aveva ridotto a fortezza, usando l’arco di trionfo di Costantino come portone d’ingresso! Perfino la Via Sacra,
che re, principi, generali di tanti popoli stranieri avevano percorso carichi di catene dietro il carro
trionfale del vincitore romano, quella via, che per secoli era stata fiancheggiata da templi di marmo e
38
39
Cit. da J. GARMS, Mito e realtà di Roma nella cultura europea, in Storia d’Italia, Annali, vol. V, Torino 1985, p. 586.
I Mirabilia avranno un enorme successo, testimoniato dalle numerose versioni che ne saranno redatte fino al Rinascimento inoltrato.
36
Introduzione
da statue d’oro, ora, ricoperta e dissestata dalle erbacce, si distendeva tra macerie e rovine, che erano
diventate dimore – raccontavano fantasiose leggende – di osceni demoni e che la luna illuminava di
sinistra luce, avvolgendole in un alone di mistero.
Certo, qualcosa era stato fatto e si continuava a fare per sanare o almeno tamponare le situazioni
più drammatiche. Nell’estate dell’anno 846, per esempio, poiché un’incursione di Saraceni era arrivata
fino a saccheggiare la basilica di San Pietro in Vaticano, Papa Leone IV (847-855) fece costruire,
nell’852, una cinta muraria dotata di 24 torri e di tre porte. Nacque così la Civitas Leonina, che costituì il primo nucleo dei Borghi Vaticani.
Se questo fu il più notevole intervento urbanistico altomedioevale a Roma, molti altri ce ne furono di continuo, meno eclatanti certamente, ma più capillari, per cercare di porre un freno al degrado
e, di conseguenza, pure per rendere il meno disagevole possibile il soggiorno dei pellegrini. Proprio
per assicurare l’assistenza a questi ultimi, come anche per amministrare le proprietà ormai abbandonate, fu favorita, per esempio, la diffusione di monasteri nelle zone più abbandonate della città, in maggioranza in quelle orientali e meridionali; furono restaurate chiese, in modo particolare quelle più
importanti che erano le famose sette chiese: San Pietro, San Paolo fuori le Mura, San Lorenzo, San
Sebastiano, San Giovanni in Laterano, Santa Croce in Gerusalemme e Santa Maria Maggiore; furono
risistemate e riaperte molte strade, principalmente quelle di collegamento tra i più frequentati luoghi
di culto e quelle coincidenti con i percorsi della Roma monumentale.
Ma spesso questi stessi interventi di risanamento e di restauro non solo di chiese e di opere pubbliche, ma anche di edifici privati, provocarono ulteriori e a volte definitivi danni ai monumenti, già
più o meno distrutti, dell’Urbe dei Cesari: ai templi, ai teatri, alle terme, agli archi ed agli edifici per
metà interrati, alle statue mutilate, alle colonne mozze ed abbattute. Rovine, tutte queste, che infatti,
a partire dalla metà dell’VIII secolo, cominciarono ad essere trasformate in modo sistematico dagli
stessi Romani in cave di pietra, in polvere da calce oppure in “depositi” di lastre di marmo, di tegole,
di mattoni, di bronzo, di piombo, di pilastri, di colonne per erigere le nuove strutture, le chiese come
le torri di difesa, perfino le miserabili casupole incastrate tra le cadenti, antiche mura. Nelle fumose e
buie botteghe artigiane, ricavate negli archi degli acquedotti o addossate alle pareti dei ruderi, si potevano vedere, di tanto in tanto, calcarii e marmorari di grande perizia al lavoro, intenti a realizzare,
proprio da questo materiale di recupero, colonne per chiostri monastici o a decorare pavimenti policromi e geometrici, amboni e pulpiti con tarsie minutissime di pasta vitrea o di marmi colorati 40.
Veduta di Roma, miniatura della metà del secolo XIV,
da Giovanni da Udine, Compilatio totius Bibliae.
Biblioteca Apostolica Vaticana, Ott. lat. 479, f. 3r. (Particolare)
40
Come ancora alla metà del XIV secolo noterà il Petrarca, i Romani erano forse i meno capaci di comprendere il proprio passato e
i meno sensibili alla sua grandezza.
Breve storia urbanistica di Roma da Augusto a Martino V
37
Veduta di Roma, miniatura della metà del secolo XIV, da Giovanni da Udine, Compilatio totius Bibliae. Biblioteca Apostolica Vaticana,
Ott. lat. 479, f. 3r.
Non era raro il caso, poi, che intere parti di monumenti, colonnati e marmi soprattutto, fossero
esportati da Roma e venduti per costruire edifici in altre città 41. Del resto, si raccontava che già dal
tempo di Costantino, per anni ed anni grandi imbarcazioni avessero solcato il Tevere fino al porto di
Ostia, e di lì pesanti navi da carico, piene di statue, di colonne, di ornamenti di rame e di bronzo dorato, di marmi e di avori, avessero navigato verso le rive che davano accesso al Ponto Eusino, quasi
vi si dovesse riprodurre in tutto, con la nuova, l’antica capitale dell’Impero!
Alla fine dell’XI secolo, questa Roma, che sembrava, dunque, versare in uno stato di prostrazione
mai conosciuto in precedenza, dovette subire pure le tragiche conseguenze della “lotta per le investiture” tra il papato e gli Imperatori tedeschi. Nel 1084, infatti, i Normanni di Roberto il Guiscardo, venuti in soccorso di Papa Gregorio VII (1073-1085) contro l’Imperatore Enrico IV, misero nuovamente
a ferro e fuoco una parte della città nei pressi di San Silvestro, San Lorenzo in Lucina e lungo la via
Maggiore che collegava San Giovanni in Laterano al Colosseo, come è riportato nel Liber Pontificalis 42:
“... Robertus Guiscardus Rome approprinquans his diebus ad deliberandum domnum papam penitus non
intravit, sed tamdiu stetit donec intravit: aditum namque per portam Flammineam habuit. Romani audito eum
intrasse bellum erexerunt, sed nichil ei facere potuerunt. Immo ipse cum suis totam regionem illam in qua aecclesiae
sancti Silvestri et sancti Laurentii in Lucina site sunt penitus destruxit et fere ad nichilum redegit; dehinc ivit ad
castrum sancti Angeli, domnum papam de eo abstraxit secumque Lateranum deduxit, omnesque Romanos depraedari coepit et exspoliare, atque, quod iniuriosum est nuntiare, mulieres dehonestare, regiones illas circa Lateranum
et Coloseum positas igne comburere ...”
41
42
Così avvenne, ad esempio, per le cattedrali di Pisa e di Lucca.
L. DUCHESNE, Le Liber Pontificalis, 3 voll., Paris 1955-1957, t. 2, p. 290.
38
Introduzione
[... Roberto il Guiscardo in quei giorni si avvicinò a Roma per liberare il Papa prigioniero. Prima di entrare in città, attese un po’
di tempo; quindi entrò per porta Flaminia. I Romani, quando si accorsero che era penetrato in città, si scagliarono contro il nemico, ma
non poterono fare nulla contro di lui. Quindi Roberto con i suoi distrusse e rase al suolo tutta quell’area della città in cui si trovavano le
chiese di San Silvestro e di San Lorenzo in Lucina; quindi, si aprì la strada fino a Castel Sant’Angelo, dove liberò il Papa prigioniero e
lo condusse al Laterano. Contemporaneamente ridusse a mal partito i Romani, disonorò – vergognoso addirittura a dirsi – le donne e diede
alle fiamme le zone intorno al Laterano ed al Colosseo ...]
Nemmeno uno dei contemporanei testimonia che Papa Gregorio VII abbia versato una lacrima
su Roma ridotta ad un mucchio di rovine fumanti tra cumuli di cadaveri. Quella lacrima fu versata,
invece, qualche anno dopo da Ildeberto di Lavardin, un chierico letterato vissuto tra l’XI ed il XII secolo, che visitò appunto la città intorno al 1106, dopo gli incendi ed il saccheggio di Roberto il Guiscardo, e dedicò ad essa questo commovente pianto 43:
“Par tibi, Roma, nihil, cum sis prope tota ruina;
quam magna fueris integra, fracta doces.
Longa tuos fastos aetas destruxit, et arces
Caesaris et superum templa palude jacent.
Ille labor, labor ille ruit quem dirus Araxes
et stantem tremuit et cecidisse dolet;
quem gladii regum, quem provida cura senatus,
quem superi rerum constituere caput;
quem magis optavit cum crimine solus habere
Caesar, quam socius et pius esse socer,
qui crescens, studiis tribus, hostes, crimen, amicos
vi domuit, secuit legibus, emit ope;
in quem, dum fieret, vigilavit cura priorum:
juvit opus pietas hospitis, nuda, locus.
Materiem, fabros, expensas axis uterque
misit, se muris obtulit ipse locus.
Expendere duces thesauros, fata favorem,
artifices studium, totus et orbi opes.
Urbs cecidit de qua si quicquam dicere dignum
moliar, hoc potero dicere: Roma fuit.
Non tamen annorum series, non flamma, non ensis
ad plenum potuit hoc abolere decus.
Cura hominum potuit tantam componere Romam
quantam non potuit solvere cura deum.
Confer opes marmorque novum superumque favorem,
artificum vigilent in nova facta manus,
non tamen aut fieri par stanti machina muro,
aut restaurari sola ruina potest.
Tantum restat adhuc, tantum ruit, ut neque pars stans
aequari possit, diruta nec refici.
Hic superum formas superi mirantur et ipsi,
et cupiunt fictis vultibus esse pares.
Non potuit natura deos hoc ore creare
quo miranda deum signa creavit homo.
43
Hildeberti Cenomanensis Carmina minora, a cura di A. Brian Scott, Leipzig 1969, n. 36. Per la traduzione italiana cfr. F. GREGOROVIUS,
Storia della città di Roma nel Medioevo, cit., vol. II, pp. 924-925.
Breve storia urbanistica di Roma da Augusto a Martino V
Vultus adest his numinibus, potiusque coluntur
artificum studio quam deitate sua.
Urbs felix, si vel dominis urbs illa careret;
vel dominis esset turpe carere fide.
[Nulla è pari a te, Roma, sebbene tu sia quasi tutta rovine;
quanto fosti grande intatta, ora spezzata, lo insegni.
La lunga età ha distrutto i tuoi splendidi giorni, giacciono
nel fango le rocche di Cesare e i templi dei celesti.
La potenza, la potenza è caduta che fece tremare il feroce
Arasse quando fu salda, che lo fece piangere quando l’ebbe distrutta.
Colei che le spade dei re, che le provvide sentenze del Senato,
che i celesti posero a capo di tutte le cose,
che Cesare preferì possedere da solo con infamia
che insieme ad altri come buon padre;
colei che, eccellendo in tre arti, domò con le armi il nemico,
recise con le leggi il delitto, comprò amici con le sue ricchezze;
colei che mentre cresceva fu vegliata dallo sguardo attento degli avi,
e in cui la religione aiutò le imprese e fiorì l’ospitalità;
la città dove i capi profusero tesori, il fato favori,
gli artisti appassionato lavoro, tutto il mondo le sue ricchezze:
ah, dolore! questa città è caduta, di cui ora vedo le rovine,
e, ripensando al passato, ripeto a me stesso: Roma fu.
E tuttavia non la serie degli anni, non il fuoco, non il ferro
poterono spegnere interamente questo splendore.
Tanto resta ancora e tanto è in rovina, che il primo non ha l’eguale,
il secondo non può essere rifatto.
Metti all’opera ricchezze di avorio e di marmo, e le mani di
artefici divini veglino alle nuove costruzioni:
il loro lavoro non potrà eguagliare un muro superstite,
né restaurare una sola delle rovine di Roma.
Tanto grande ha potuto fare Roma l’amorosa fatica degli uomini,
quanto non ha potuto distruggere la fatica degli dei.
Qui persino i celesti contemplano le immagini dedicate ai celesti
e vorrebbero esser eguali ai volti di quei simulacri:
la natura non poté dare agli dei viso così bello né così nobile,
come quello che creò l’uomo in quei meravigliosi ritratti divini.
Tale è il volto di quei numi, che sono adorati piuttosto
per il talento degli artisti che per la propria divinità.
O città felice, se solo mancassi di padroni,
o se i tuoi padroni si vergognassero di mancare alla parola data!]
Giuliano Amedei, Roma e Gerusalemme, fregio miniato, 1462, da Agostino, De Civitate Dei. Biblioteca Apostolica Vaticana,
Borgh. 366, f. 1r. (Particolare)
39
40
Introduzione
Giuliano Amedei, Roma e Gerusalemme, fregio miniato, 1462, da Agostino, De Civitate Dei. Biblioteca Apostolica Vaticana, Borgh. 366, f. 1r.
Breve storia urbanistica di Roma da Augusto a Martino V
41
La Roma che Ildeberto vide, sebbene quasi tutta in rovina, era ancora in grado, dunque, di
suscitare il senso della sua eternità; anzi, proprio le sue maestose rovine rappresentavano la prova che
nulla al mondo avrebbe mai potuto eclissarla. Così, la sfida di quei monumenti all’urto dei secoli e allo
sventramento degli uomini affascinava i visitatori che, di fronte a ciò che concretamente ancora
esisteva, riuscivano sempre a scorgere ciò che si aspettavano di vedere: guardavano il presente, ma continuavano a vedere il passato! E per questo sovrapporsi dei sogni alla realtà, chiamavano Roma ancora
eterna, nobile, felice!
Ma il vero volto della Roma medioevale era tutt’altra cosa! Sebbene la città continuasse, contro
tutto e tutti, ad identificarsi nell’area compresa entro le antiche mura Aureliane, quest’immenso territorio urbano, di circa 1.500 ettari, in realtà era occupato a pelle di leopardo. Infatti la popolazione,
ridotta nel periodo di maggior degrado a meno di 20.000 anime, era concentrata essenzialmente nella
zona di Trastevere, in quella della Città Leonina e, soprattutto, nella pianura del Campo Marzio, entro
la grande ansa del Tevere. Qui era rimasto in piedi l’unico ponte, il ponte Elio, poi Sant’Angelo, oltre
ai due dell’isola Tiberina, Cestio e Fabricio; qui ancora funzionava, ma soltanto in parte, l’acquedotto
dell’acqua Vergine, che scorreva sotterraneo, mentre il resto della città era servito esclusivamente da
pozzi e da cisterne, essendo tutti gli altri antichi acquedotti interrotti; qui il Tevere acquistava ogni
giorno di più importanza nella vita economica di Roma, alimentando varie attività come quelle dei barcaroli, dei pescatori, dei traghettatori, dei mulinari, ecc. Al di fuori di queste aree, andavano crescendo
altri più o meno consistenti nuclei abitati, specialmente attorno al Laterano e a Santa Maria Maggiore;
contemporaneamente, le aree collinari entro le mura Aureliane si andavano disseminando di chiese,
di monasteri, di conventi e di cascinali.
Intanto, se da una parte la Santa Sede era intenta a rafforzare sempre di più il suo potere politico e la sua autonomia sul piano temporale, anche nei confronti dell’Imperatore, che anzi cercava di
ridurre al ruolo di braccio secolare della Chiesa romana, non senza incontrare violente resistenze, dall’altra si andava affermando nel Lazio il nuovo potere delle famiglie baronali. Queste, intervenendo
nella lotta tra Papato ed Impero e sostenendo o l’uno o l’altro, costruivano castelli, si arrogavano diritti e poteri sul territorio, mentre in città, in particolare, occupavano i monumenti romani abbandonati facendone roccaforti turrite. All’inizio dell’XI secolo, erano già presenti in Roma i Conti di
Tuscolo, i Crescenzi, i Frangipane, i Pierleoni, i Savelli, gli Annibaldi; successivamente comparvero i
Corsi, i Caetani, gli Orsini, i Colonna. Tutti possedevano “turri, palazzi, case et ruine”, che trasformavano in “case-torre” e munite fortezze, modificando le strutture urbanistiche ereditate da Roma antica in un coacervo di borghi fortificati, dispersi in un tessuto di aree disabitate ed abbandonate. “Così
numerose sono le torri da sembrare spighe di grano! ”: è la testimonianza, come abbiamo detto sopra, dello
stupito “Magister Gregorius”, di fronte al panorama dell’Urbe dall’altura di Monte Mario.
Durante il XII secolo, i vuoti presenti tra le sacche fortificate baronali si riempirono con nuova
edilizia, costituendo a mano a mano un tessuto urbano sempre più compatto e consolidato, anche se
la zona più popolata rimaneva ancora la pianura del Campo Marzio. E mentre si stava ricostituendo,
dunque, nell’urbanistica della città un certo ordine funzionale, nel 1144, si costituì il Comune di
Roma con la proclamazione della Renovatio Senatus. Il nuovo organismo municipale si installò sul
Campidoglio, dove poi sarà edificato il palazzo Senatorio, e tentò di rinnovare i perduti fasti, ma
con un’esistenza abbastanza agitata, essendo stretto all’esterno tra l’Impero ed il Papato ed essendo
travagliato all’interno da sommosse popolari, da lotte baronali e da continui tentativi di restaurazione
dell’assolutismo papale.
Comunque, con l’abbattimento progressivo e quasi totale di oltre un centinaio di torri, la fosca
Roma turrita medioevale sembrò lasciare il posto ad una rinascita non solo dal punto di vista urbanistico ed architettonico, ma anche artistico e culturale, se solo si pensa che nel 1285 giunse in città
anche Arnolfo di Cambio per realizzare il ciborio di San Paolo fuori le Mura e che circa dieci anni
dopo, nel 1295, Bonifacio VIII (1294-1303) istituì lo Studium Urbis, la prima Università con le facoltà
di medicina e diritto, che inizialmente ebbe sede in Trastevere; solo nel 1432 verrà trasferita da
Eugenio IV (1431-1447) nel palazzo della Sapienza, nell’attuale corso Rinascimento.
42
Introduzione
Nel 1300, poi, il primo Giubileo promulgato da Bonifacio VIII, oltre a favorire alcuni interventi
urgenti di restauro di chiese e strade, soprattutto per una migliore accoglienza dei pellegrini, dette un
po’ di ossigeno anche all’economia.
Ma nel 1309, Clemente V (1305-1314) trasferì la Corte Pontificia ad Avignone, sulle rive del Rodano, causando, alla Città Eterna un nuovo lungo periodo caratterizzato da una profonda crisi economica e, di conseguenza, pure dal rallentamento, se non addirittura dall’arresto, dell’attività edilizia.
In effetti, nel 1341, ricordando le sue passeggiate romane, il Petrarca colse con esattezza la particolarità dell’Urbs, dove più di due terzi dello spazio circondato dalle mura Aureliane erano ancora disabitati, sebbene la popolazione romana sembrasse al grande poeta veramente tanta 44:
“... vagabamur pariter in illa urbe tam magna que cum propter spatium vacua videatur populum habet
immensum ...”.
[... passeggiavamo insieme per quella città così grande che, pur sembrando deserta per la vastità, ha una popolazione immensa ...]
La “Cattività avignonese”, dunque, sprofondò Roma in una grave e lunga depressione, da cui non
si risollevò neppure durante la breve, utopistica avventura del tribuno romano Cola di Rienzo, che nel
1347, approfittando del fatto che il Papa risiedeva ormai ad Avignone, tentò di istituire una Signoria
personale a Roma per promuovere una rivoluzione antinobiliare, vagheggiando l’unità dei Comuni
italiani. Ma dopo pochi anni, nel 1354, fu linciato dal popolo.
Come se questa generale recessione, che ormai durava da decenni, non bastasse, nel 1348, la
città fu devastata dalla peste. Si ignora l’ampiezza dei danni provocati dalla “crudele mortalitate”, la cui
fase più acuta durò dal maggio al settembre di quell’anno. Ma l’aumento, per esempio, del numero dei
testamenti redatti in quel periodo non lascia dubbi sulla gravità dell’epidemia, la cui fine fu salutata
dai Romani con la costruzione della scalinata votiva di Santa Maria in Aracoeli, iniziata il 25 ottobre
1348. L’anno seguente, poi, il 9 ed il 10 settembre, la città fu scossa da un terremoto, la cui violenza
distrusse una parte del Colosseo e la sommità della Torre dei Conti. Nuovamente colpita dal ritorno
della peste nel 1363, la popolazione di Roma non era certamente più quel “populum immensum” del
Petrarca: il fondo della china era stato toccato!
Nel gennaio del 1377, Papa Gregorio XI (1370-1378), spinto anche dalle preghiere di Santa Caterina da Siena, ritornò a Roma. Ma già l’anno successivo, con l’elezione dell’anti-papa Clemente VII,
si aprì il grande “Scisma d’Occidente”, che terminò soltanto con l’elezione di Martino V Colonna
(1417-1431), che ristabilì definitivamente la Sede papale a Roma.
Pertanto, nella seconda decade del Quattrocento, ristabilita l’autorità pontificia su Roma, anche
le rivalità tra i potentati familiari, che avevano attraversato buona parte dell’epoca medioevale con riflessi pure sull’urbanistica e l’architettura della città, sembravano essersi sopite con l’elezione di Papa
Colonna. Così il Pontefice poté cominciare a dedicarsi anche al risanamento della città, dove non
solo i monumenti apparivano ormai in completa rovina, dal momento che o erano stati trasformati
in cave di materiali da costruzione o erano stati inglobati nelle fortificazioni baronali, ma anche l’edilizia pubblica e privata, come pure la rete viaria avevano raggiunto un decadimento senza precedenti.
In questa situazione, Martino V si rese subito conto dell’importanza di poter disporre di
strumenti operativi validi e reintegrò, pertanto, nel 1425, un’antica magistratura romana: quella dei
“Magistri aedificiorum et viarum ”, istituita nel lontano 1233 e preposta al controllo dell’edilizia e della
viabilità di Roma; magistratura, questa, che gli permise appunto di dare almeno inizio ad un vasto e
radicale piano di ammodernamento del sistema viario.
Intanto, mentre gli immediati successori di Papa Colonna cercavano tra mille difficoltà di portare avanti il programma di riqualificazione della città, nel 1438 l’Imperatore bizantino Giovanni VIII
Paleologo era venuto in Italia per ottenere aiuti contro l’espansione ottomana; per questo motivo, nel
44
PETRARCA, Le familiari - Epistolae familiares, ed. a cura di U. Dotti, Urbino 1974, VI, 2, t. II, p. 617.
Breve storia urbanistica di Roma da Augusto a Martino V
43
Concilio di Ferrara e, successivamente, di Firenze, svoltosi negli anni 1438-1439, aveva manifestato
il suo consenso alla riunione della Chiesa Ortodossa con quella Romana. La presenza in Italia del
Paleologo, accompagnato da un seguito di circa settecento persone fu, in quel particolare momento
storico, un avvenimento straordinario, che il grande artista italiano Pisanello volle immortalare per
mezzo di una nuova, originale espressione artistica. Egli, infatti, ispirandosi alle monete romane, ai sesterzi ed ai medaglioni in particolare, e alla loro funzione anche propagandistica e celebrativa, creò la
prima medaglia, che simile per la forma e per il materiale alle monete, non era, come queste ultime,
“misura del valore” e “mezzo di scambio”, ma ne ereditava le funzioni propagandistiche e celebrative; funzioni, queste, che anzi divennero la sua essenza, per la possibilità che aveva di poter essere
emessa non solo dall’autorità statale, ma anche dai privati. Fusa in bronzo, il Pisanello vi raffigurò, al
dritto, il busto dell’Imperatore; al rovescio, lo stesso Imperatore a cavallo accompagnato da un paggio, anch’egli a cavallo, in una prospettiva del tutto particolare.
Da quel momento, proprio a questa nuova forma d’arte tutta italiana, più che alle monete, fu
affidato il compito di celebrare sia i Papi, gli Imperatori, i re, i principi, i condottieri e tutti coloro,
ecclesiastici e laici, che di volta in volta si erano distinti nei compiti più diversi, sia le loro imprese.
I Pontefici soprattutto mostrarono un interesse quasi immediato per questa creazione pisanelliana, intuendone il suo eccezionale potere propagandistico, e su di essa cominciarono subito ad eternare i loro atti sia come supremi Pastori della Chiesa Universale sia come sovrani del loro Stato,
soprattutto durante i secoli del “Potere Temporale”. Iniziò così, dalla seconda metà del Quattrocento,
la serie delle medaglie dei Romani Pontefici, serie che sia per l’alta Autorità che le emette – il Papa –
sia per la continuità nel tempo – praticamente la loro emissione dura da circa sei secoli – sia, infine,
per la fama degli artisti che normalmente le realizzano, è sicuramente la più importante tra le serie di
medaglie di tutto il mondo.
In questa secolare serie, poi, si sono sempre distinte per un certo loro fascino, oltre che per la
loro importanza, le cosiddette medaglie “architettoniche”, le medaglie, cioè, emesse per commemorare la costruzione o il restauro soprattutto a Roma, ma anche nelle altre località dello Stato Pontificio, di chiese, monumenti, edifici pubblici, ponti, acquedotti ecc. Il loro uso inizia sostanzialmente con
il pontificato di Papa Paolo II Barbo (1464-1471): da quel momento in poi, tali medaglie hanno fermato sul metallo, oro, argento o bronzo che fosse, le realizzazioni più significative nel campo dell’urbanistica e dell’architettura, per mezzo delle quali i Pontefici nel corso dei secoli hanno riportato
la “Città di Pietro” agli splendori dell’Urbe dei Cesari, restituendo pieno valore a quella visione ideale,
che anche di fronte al drammatico degrado della città nei secoli più bui del Medioevo, i pellegrini di
tutta l’Europa avevano sempre custodito nel loro cuore: l’Aurea Roma!
78
Capitolo I
La Città Leonina (particolare della “Pianta di Roma” di P. del Massaio)
Così ci racconta il Platina17, il quale aggiunge con ammirazione:
... Aggressus sane opus, ut cernere licet; principe dignum, quod certe nulli pontificum antea contigit umquam...18
Si trattava effettivamente di un’opera principesca, che nessun Pontefice aveva tentato, tanto che
l’unico ponte, tra tutti quelli antichi, ancora efficiente a Roma e, pertanto, l’unico collegamento tra il
Vaticano ed il resto della città era rimasto, fino a quel tempo, il ponte Sant’Angelo, che, proprio per questo, durante l’ultimo Giubileo del 1450 era stato teatro di una spaventosa tragedia, per la massa dei pellegrini che si erano trovati a transitare tutti insieme su di esso, come ci tramanda un testimone oculare:
... Et essendo a dii 18 de dicembre, uno sabato alle 23, acade la maiure fortuna che mai fosse udita numinare,
che tornanno la gente da S. Pietro, che lo papa aveva fatto mostrare lo Volto Santo, per la molte gente che v’era, acciocché la domenica seguente fatta la benedittione se potessero annare con Dio, alla tornata del S.to Pietro fu tamanta
la infrontaglia a mezo la salita dello ponte, che ce moriero cento settantadue anime, che tutti furno affocati dalla folla,
e morieroce quattro cavalli et una mula, e tutti stavano a terra muorti, e tuttavia ce ne cascava più ...19
Il ricordo di quella maiure fortuna che mai fosse udita nominare era certamente ancora ben vivo 25 anni
dopo, al tempo di Sisto IV, e fu causa non ultima della decisione del Pontefice di ricostruire, in occasione del nuovo Giubileo, il “Ponte Rotto”, incaricando della realizzazione dell’impresa il fiorentino
Baccio Pontelli, uno dei più famosi architetti del tempo:
... Hoc ideo potissimum ab eo factum exsistimo, ne peregrini euntium ac redeuntium multitudine obtriti perirent;
quemadmodum Nicolai Quinti tempore, ut diximus, in Hadriani ponte contigit ...20
B. PLATINA, Liber de vita ..., cit., p. 417.
B. PLATINA, loc. cit.
19
P. DELLO MASTRO, Memoriale di Paolo di Benedetto di Cola dello Mastro dello Rione di Ponte, in Cronache Romane inedite del Medioevo, ed.
A. De Antonis, Roma 1875, p. 20.
20
B. PLATINA, Liber de vita ... cit., p. 418.
17
18
80
Capitolo I
Quella sul parapetto di sinistra contiene, invece, un’esortazione a pregare il Signore, perché mantenga a lungo in vita il Pontefice.
Lapide posta all’inizio del lato sinistro di ponte Sisto
Sebbene l’Infessura si mostri così attento e preciso nel descrivere questa solenne cerimonia, è
problematica, ed alquanto dubbia, la sua notizia secondo la quale il Papa avrebbe deposto nelle fondamenta del ponte certe medaglie d’oro, dal momento che non si conosce, almeno fino ad oggi, alcun
esemplare in oro delle medaglie relative al ponte; evidentemente, se alcune di esse furono realizzate
in oro, queste furono deposte tutte nelle fondamenta.
Molto diffusi sono, al contrario, gli esemplari in bronzo, meno costosi e, quindi, tali da potersi
distribuire con una certa generosità, a testimonianza della grande risonanza, che si volle dare alla
ricostruzione del ponte stesso.
Questa medaglia, una delle più belle del XV secolo, è anonima; ma diversi studiosi la reputano
opera di un misterioso, quanto fantomatico, “Lisippo il Giovane”, che sarebbe stato attivo a Roma
tra il 1473 e il 1485, e a cui si attribuiscono anche alcune medaglie rappresentanti personaggi di Curia
Lisippo il Giovane (attribuita). Medaglia fusa, eseguita in occasione della costruzione di ponte Sisto (1473).
Al dritto presenta il busto di Sisto IV con capo nudo e piviale.
Al rovescio, veduta di ponte Sisto, le cui arcate sono attraversate dall’impetuosa corrente del Tevere. Bronzo, mm. 40,20. Inv. n. 811
Le medaglie architettoniche del 1400
81
del tempo. Alcuni lo ritengono anche nipote di Cristoforo di Geremia, secondo la testimonianza
riportata da Raffaele da Volterra nella sua Anthropologia:
... Christophorus autem Mantuanus Paulum II... numismate expressit... Lysippus vero ejus nepos adolescens Xistum IIII. Mirum in ea domo vel foeminas nullo praeceptore picturas omnes ab ipsa natura diliniare edoctas cera etiam
fingere solitas fuisse...23
Sisto IV nomina Bartolomeo Platina primo custode della Biblioteca Vaticana (affresco di Melozzo da Forlì, 1475). Musei Vaticani, Pinacoteca
23
Citato in J. DE FOVILLE, Cristoforo Geremia. Un médailleur du XV siècle, in Revue de l’Art ancient et moderne, vol. XXXII (1912), p. 439.
96
Capitolo II
pontificato: la ricostruzione dalle fondamenta dell’ormai fatiscente basilica Costantiniana di San Pietro,
dal momento che gli interventi dei Pontefici precedenti, tra l’altro molto parziali e neppure portati a
compimento, non erano valsi a restituire stabilità al venerato monumento.
Una nebbia a tratti veramente fitta avvolge, ancora ai nostri giorni, le vicende della fase aurorale
della nuova basilica di San Pietro. Infatti, non è stato possibile fino ad oggi, nonostante i tantissimi
studi sull’argomento, determinarne con esattezza il complicato percorso, il tortuoso sviluppo e, il più
delle volte, anche la paternità dei molti progetti, che l’idea del nuovo San Pietro determinò, e le priorità temporali degli uni sugli altri.
Ma soprattutto non è dato tuttora di sapere con certezza come sia stato impostato all’inizio
tutto il problema; come mai Giulio II, dopo aver ripreso, in un primo momento, semplicemente il
programma di Niccolò V di ampliare il braccio occidentale del Coro di San Pietro, per collocarvi il
proprio sepolcro progettato da Michelangelo, sia arrivato alla fine alla decisione di una riedificazione
a fundamentis dell’intera basilica!
L’interno dell’antica basilica Vaticana in un disegno dei primi del XVII secolo (da G. Grimaldi)
La storia relativa ai vari progetti elaborati per la ricostruzione del massimo tempio della Cristianità, dunque, è molto complessa e, in diversi punti, ancora non del tutto chiara. È certo, comunque,
che il Bramante, una volta ricevuto l’incarico di iniziare la gigantesca impresa, sognò di sovrapporre
la cupola del Pantheon agli archi immani della basilica di Costantino nel Foro Romano, nell’assoluto
rispetto della centralità della “Memoria ”, o tomba, di San Pietro, e concepì, quindi, il nuovo, grandioso
tempio su pianta a croce greca iscritta in un quadrato, con un’abside all’estremità di ogni lato, e quattro cappelle quadrate a cupola tra i bracci della croce. Sulla congiunzione di questi ultimi, al centro,
Le medaglie architettoniche del 1500
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si doveva innalzare una cupola gigantesca, dominante l’intero complesso, sorretta da un tamburo a
galleria di colonne. La facciata era prevista con un’altra piccola cupola sopra l’ingresso del portico,
mentre ai quattro angoli del quadrato, altrettante torri campanarie a pianta quadrata, a ordini sovrapposti di logge, avrebbero quasi racchiuso l’imponente costruzione, dandole compattezza e stabilità:
tale appare l’alzato della basilica sul rovescio della più famosa, forse, di tutte le medaglie pontificie, fusa
per celebrare l’inizio dei lavori. Essa mostra, al dritto, il Pontefice con camauro e mozzetta, circondato dalla legenda IVLIVS LIGVR PAPA SECVNDVS MCCCCCVI; al rovescio, il primitivo progetto
del Bramante, con la legenda TEMPLI PETRI INSTAVRACIO, nel giro superiore, VATICANVS M,
nel giro inferiore.
Cristoforo Foppa detto il Caradosso. Medaglia fusa, eseguita in occasione dell’inizio dei lavori di costruzione
della nuova basilica di San Pietro (1506). Al dritto presenta il busto di Giulio II con camauro e mozzetta. Al rovescio, la basilica di San Pietro
secondo il primitivo progetto dell’architetto Donato Bramante. Bronzo dorato, mm. 58,00, con foro di sospensione di epoca successiva. Inv. n. 833
È una medaglia non firmata, ma il Vasari, nel passo della vita del Bramante già citato sopra 2, l’attribuisce, senza ombra di dubbio, al grande medaglista Cristoforo Foppa, detto il “Caradosso” 3, che
dalla fine del 1505 o, al massimo, dagli inizi dell’anno successivo, sicuramente si trovava a Roma, proveniente da Milano:
... [Bramante] sentendolo [Giulio II] avere la volontà di buttare in terra la chiesa di Santo Pietro per rifarla
di nuovo, gli fece infiniti disegni; ma fra gli altri ne fece uno che fu molto mirabile, dove egli mostrò quella intelligenza
che si poteva maggiore, con dua campanili che mettono in mezzo la facciata, come si vede nelle monete che battè poi Giulio II e Leone X, fatte da Carradosso eccellentissimo orefice, che nel far conj non ebbe pari ...
Giulio II non ha alcuna moneta raffigurante la nuova basilica di San Pietro con dua campanili che
mettono in mezzo la facciata, bensì solo medaglie!
Non solo; che questa medaglia sia opera del Caradosso lo conferma anche il suo stile, molto simile ad un’altra medaglia, che sempre il Caradosso aveva fatto in onore del Bramante. Ed anche in questo caso ci è di fondamentale importanza la testimonianza del Vasari, che nel passo appena citato
continua:
... come ancora si vede la medaglia di Bramante fatta da lui molto bella ...
G. VASARI, op. cit., p. 161.
Sull’origine di questo soprannome ci offre una divertente spiegazione Benvenuto Cellini: ...e questo sopranome gliene mise un certo spagnuolo
per dispregio...guardandolo un tratto in viso con quel loro altiero modo subito gli disse “Hai cara d’osso”, che vuol dire “aspetto di culo”. Ora questo suon di voce
piacque tanto al Caradosso ch’egli non voleva mai rispondere per altro nome...e non voleva esser chiamato altramente...: B. CELLINI, Trattato dell’oreficeria, a cura
di P. Scarpellini, Roma 1967, cap. III, p. 431.
2
3
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Capitolo II
Miniatura rappresentante Giulio II, dalla quale è stato tratto il modello per il dritto della medaglia del Belvedere, anno 1506.
Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 1682, f. 9r
Giovanni de’ Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico, venne eletto, col nome di Leone X,
l’11 marzo 1513 e varò un programma di governo nuovo, che metteva da parte i titanici disegni di Papa
della Rovere, ma, in compenso, favoriva un periodo di eleganza e di lusso nel Rinascimento romano.
Membro di una famiglia tra le più ricche e colte d’Italia, uomo di raffinata cultura egli stesso, favorì
la presenza a Roma di numerosi intellettuali, letterati e artisti, come il Bembo, l’Aretino, il Bibbiena,
ma anche Bramante, Raffaello, Michelangelo, Antonio da Sangallo, Giulio Romano, Jacopo Sansovino
e, per qualche tempo, lo stesso Leonardo da Vinci: mai tante personalità così eccezionali si erano viste
tutte insieme alla corte di un Papa, mai come allora la Chiesa si era fatta interprete attiva e totale della
civiltà di un’epoca, anche se nella Roma “solare” di Leone X, negli splendori delle costruzioni, nella
raffinatissima cultura, nell’appariscente formalismo, si annidavano i germi dell’imminente, inesorabile
decadimento.
Papa Medici era più portato alle lettere, alla musica, che non all’architettura; tuttavia, pur non promuovendo direttamente grandi opere architettoniche, arricchì Roma di significative realizzazioni. A
Raffaello diede l’incarico di completare ed affrescare le Logge del Bramante, come pure, alla morte
di quest’ultimo, di dirigere il proseguimento dei lavori della Fabbrica di San Pietro, lavori che, comunque, in questo periodo procedettero molto a rilento.
All’architetto e scultore fiorentino Jacopo Tatti, detto il Sansovino, invece, commissionò il progetto per la chiesa di San Giovanni dei Fiorentini, opera, questa, che avrà poi tante vicende, e alla cui
realizzazione contribuiranno insigni architetti, quali Antonio da Sangallo, Giacomo Della Porta, fino
al Maderno, che nel 1620 innalzerà la cupola, e ad Alessandro Galilei, che solo nel 1734 costruirà
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Capitolo IV
Chiesa dei Santi Ambrogio e Carlo al Corso (incisione di G. Vasi, 1752)
Anonimo. Medaglia fusa, eseguita per l’inizio dei lavori di costruzione della chiesa di San Carlo ai Catinari (1612).
Al dritto presenta la facciata della chiesa di San Carlo ai Catinari, secondo il primitivo progetto. Al rovescio, un’iscrizione su dieci righe.
Bronzo, mm. 64,10. Inv. n. XVIII, 47
Questa medaglia non ci offre un’immagine dell’opera, come sarà alla fine effettivamente realizzata; né può dirsi una medaglia pontificia in senso stretto, dal momento che manca sul dritto qualsiasi
riferimento al Papa, come il busto o lo stemma. Ma nel rovescio è sottolineato l’intervento decisivo
per la costruzione della chiesa di Paolo V, che anzi delegò l’arciprete di San Pietro per la cerimonia
della posa della prima pietra.
Comunque i lavori ben presto subiranno un nuovo arresto, questa volta soprattutto per mancanza
di fondi. Soltanto intorno al 1627, grazie alla munificenza del cardinale Giovan Battista Leni, si potrà
riprendere la costruzione, la cui conclusione sarà affidata all’architetto Giovanni Battista Soria, il quale
tra il 1635 e il 1638 ne innalzerà la facciata.
Le medaglie architettoniche del 1800
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Fu emessa per l’elezione al pontificato, come chiarisce la legenda sul dritto: ELECT D XVI
IVNII, ma anche per celebrare l’amnistia, che il Pontefice concesse un mese dopo, il 16 luglio.
Sebbene un tale atto di clemenza fosse una consuetudine dell’inizio di ogni pontificato, questa volta
esso apparve di particolare rilevanza, perché fu esteso pure ai detenuti politici, ed il popolo romano
lo accolse con scene di tripudio, che mai si erano viste almeno negli ultimi cinquanta anni.
Comunque, il rovescio di questa medaglia non era nuovo: era già apparso nel 1845 su una medaglia coniata per Gregorio XVI, quando questi aveva concesso udienza ad un gruppo di pellegrini
austriaci.
Originale, invece, anche se non proprio architettonica, la medaglia annuale del 1847, II di pontificato, di Giuseppe Girometti, con la raffigurazione delle statue dei due Apostoli Pietro e Paolo.
Erano state scolpite rispettivamente da Giuseppe Fabris e da Adamo Tadolini, per la ricostruenda
basilica di San Paolo, e lì erano rimaste fin dal 1838, conservate in un magazzino perché l’architetto
Luigi Poletti, incaricato dei restauri, non sapeva letteralmente dove sistemarle. Forse Pio IX fu informato dell’esistenza di queste statue da qualcuno della sua Corte e ne decise il trasporto da San Paolo
al Vaticano affinché fossero collocate sul sagrato di San Pietro, al posto delle analoghe statue, raffiguranti sempre i due Apostoli, che vi aveva sistemato a suo tempo Pio II. Queste ultime, realizzate
forse tra il 1461 ed il 1462 da Paolo di Mariano, soprannominato “Il Taccone”, erano state spostate
più volte nel corso dei secoli, a causa dei continui lavori che avevano interessato la basilica e la Platea
Sancti Petri, ma fondamentalmente erano rimaste sempre sul sagrato.
Il trasporto delle nuove statue dalla basilica Ostiense ed i lavori per la loro nuova sistemazione
durarono appena cinque giorni, dal 24 al 29 marzo 1847, tanto che il 4 aprile, domenica di Pasqua, il
Pontefice, affacciandosi dalla Loggia delle Benedizioni, poté ammirarle al loro posto, ma sui giganteschi basamenti ancora grezzi; infatti le decorazioni, con lo stemma di Pio IX e le iscrizioni, saranno
completate solo nel 1849, poco prima della proclamazione della Repubblica Romana.
Giuseppe Girometti. Medaglia coniata, annuale, celebrativa della collocazione delle statue di San Pietro e San Paolo
sul sagrato della basilica Vaticana (1847). Al dritto presenta il busto di Pio IX con berrettino, mozzetta e stola.
Al rovescio, le statue poste sui rispettivi basamenti. Oro, mm. 43,40, gr. 51,88. Inv. n. 3393
La prima, originale medaglia architettonica di Pio IX, e per di più di grande modulo, fu quella
dedicata, nel 1851, a San Giovanni in Laterano, in occasione dei lavori, affidati all’architetto Filippo
Martinucci, per il restauro sia dell’antico ciborio con struttura a baldacchino a cuspide sia dell’altare
papale. Quest’ultimo era stato già rinnovato sul finire del secolo XIII dal marmoraro Cinzio de
Salvati e completato, nel 1293, da Giovanni dell’Aventino e da Giovanni di Cosma con l’aiuto del
figlio Lucantonio.
Il magnifico ciborio ogivale medioevale era stato commissionato nel 1367 da Urbano V, con
il concorso finanziario di Carlo V re di Francia, a Giovanni di Stefano, in sostituzione di quello
d’argento di Sergio III (904-911), che si era liquefatto in un terribile incendio divampato nel 1308 2.
2
G. VILLANI, Storia, Firenze 1587, p. 372.
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Capitolo X
La statua raffigurante San Pietro sul sagrato della basilica Vaticana (dipinto di G. Cretoni, 1855 circa).
Musei Vaticani (ex Musei della Biblioteca Apostolica Vaticana), Galleria di Urbano VIII, “Armadi di Pio IX”
Il Martinucci, tra gli altri interventi, eliminò la grata dorata dell’epoca di Innocenzo X, fece scomparire le ridipinture sui marmi trecenteschi eseguite in diversi tempi, mentre lasciò le pitture della piccola volta sopra l’altare ed inserì lo stemma di Pio IX al centro del paliotto dell’altare, tra quelli di
Gregorio IX, a destra, e di Urbano V, a sinistra.
La celebrazione di questi lavori fu, dunque, affidata alla suddetta medaglia, richiesta espressamente dal Cardinale Segretario di Stato Giacomo Antonelli all’incisore Giuseppe Bianchi, il quale sul
rovescio raffigurò, in primo piano, l’altare papale sormontato dal maestoso ciborio e, sullo sfondo, l’abside ricca di ornamenti, sul cui arco il medaglista riuscì a trascrivere perfino l’iscrizione: ALEXANDER VII P M = LABENTEM APSIDEM = REPARAVIT ORNAVIT = AN D MDCLXIII.
Invece la legenda che corre lungo il giro dice: PIVS IX P M BASILICAE LATERAN ALTARE
MAX AD VETEREM FORMAM RESTIT AC SPLENDIDIORI CVLTV INSTAVR, mentre
all’esergo è posta la data AN D MDCCCLI.
Per il dritto si riadoperò quello, magnifico, realizzato da Nicola Cerbara per la medaglia conosciuta come “medaglia di Gaeta”, di cui il Pontefice aveva fatto dono a tutti i diplomatici, che lo avevano accompagnato nel suo momentaneo esilio a Gaeta, e che avevano contribuito in modo
determinante alla restaurazione del suo potere.
Le medaglie architettoniche del 1800
La statua raffigurante San Paolo sul sagrato della basilica Vaticana (dipinto di G. Cretoni, 1855 circa).
Musei Vaticani (ex Musei della Biblioteca Apostolica Vaticana), Galleria di Urbano VIII, “Armadi di Pio IX”
Nicola Cerbara. Medaglia coniata, commemorativa dell’esilio di Pio IX a Gaeta (1852).
Al dritto presenta il busto del Pontefice con berrettino, mozzetta e stola.
Al rovescio, veduta della città e del porto di Gaeta. Bronzo, mm. 82,00. Inv. n. 3942
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380
Capitolo X
Giuseppe Bianchi. Rovescio della medaglia coniata,
celebrativa dei lavori di restauro del ciborio e dell’altare papale
nella basilica di San Giovanni in Laterano (1851).
Presenta in primo piano l’altare papale sormontato dal ciborio
con baldacchino a cuspide e, sullo sfondo, l’abside.
Bronzo, mm. 82,00. Inv. n. 3946
L’altare
di San Giovanni
in Laterano
prima dei restauri
(dipinto su legno del
1830 circa).
Musei Vaticani
(ex Musei della
Biblioteca Apostolica
Vaticana), Galleria
di Urbano VIII,
“Armadi di Pio IX”