Coco Chanel - Giulia Ottaviano

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Coco Chanel - Giulia Ottaviano
Proprietà letteraria riservata © 2012 RCS Libri S.p.A., Milano Testo elaborato in occasione delle Prove d’Autore di Esor-­‐dire, edizione 2009, progetto di scouting a cura della Scuola Holden ISBN 978-­‐88-­‐58-­‐63294-­‐9 Prima edizione digitale 2012 In copertina: elaborazione da una foto di © Take A Pix Media / age fotostock Art Director: Francesca Leoneschi Graphic Designer: Mauro De Toffol / theWorldofDOT Foto dell’autrice: © Laura Rodari www.rizzoli.eu Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata. Mi hanno chiesto di portare al piano di sopra tutte le sedie della cucina e del salotto. In totale, in camera della nonna, ci sono dodici sedie più una poltroncina in pelle, che però è lì da un pezzo. Cerco di darmi
da fare più che posso, anche quando non c’è bisogno che io faccia nulla. Ordino le pizze, le vado a prendere,
fumo una sigaretta sul muretto di cemento mentre aspetto, impilo i cartoni sul sedile facendo attenzione a
non sgocciolare l’olio sulla tappezzeria e torno a casa. Senza mai alzare troppo la voce dico «Funghi?», «Quattro stagioni?», «Doppia mozzarella?». Tutti mi rispondono solo con dei cenni, al massimo dei sorrisi. Le
distribuisco a parenti e amici. Come fosse Natale.
Faccio qualsiasi cosa pur di non stare in camera della nonna; ho persino convinto la mamma a mandare
in ferie i domestici. Per una questione di privacy, le ho spiegato. Di intimità, ho ribadito. «Mami, non vorrai
mica che quando sarà il momento ci siano estranei in casa, vero?»
In questo modo sono riuscita a farmi carico della pulizia dell’intero appartamento e quindi a tenermi alla
larga dalla sala d’aspetto: la sua stanza.
La chiamo così fin da bambina. Quando la mamma mi lasciava dalla nonna Betty ero costretta a passare ore,
seduta sul suo letto, ad attendere che si preparasse. Osservavo da lontano i vestiti sugli ometti, senza poterli
toccare perché non mi era permesso, i profumi e i gioielli sulla toletta, le scarpe lungo la parete, ordinate per
colore. Ipotizzavo gli accoppiamenti che avrebbe scelto quella mattina e sognavo il giorno in cui la sua collezione d’abiti sarebbe stata mia. Vederla prepararsi era come assistere a una cerimonia di cui lei al termine,
di fronte allo specchio, era officiante e spettatrice allo stesso tempo; cercava di valutare se avesse onorato o
meno il sacro giuramento del buon gusto. Io da devota ero tenuta a rispettare alcune regole. Tanto per cominciare, per essere ammessa in camera, dovevo comunicare sull’uscio una parola d’ordine che di anno in anno
cambiava in base ai suoi gusti.
Solo “Coco Chanel” rimase in carica per tre stagioni consecutive.
All’interno della stanza, poi, dovevo tacere a meno che non fosse lei a chiedermi un parere esplicito. Se in
qualche modo la mia opinione la colpiva, mi premiava lasciandosi acconciare i capelli. Apriva il cassetto della
toletta e ne estraeva una spazzola d’argento con i dentini bianchi. Io con lentezza alternavo una carezza a un
colpo di spazzola, come fosse stata la mia bambola preferita. Poi dalle tasche tirava fuori un paio di forcine
che mi sarebbero servite per fissare in cima al capo uno chignon tondo e bombato come lo scheletro di un
riccio. Se lo sarebbe sciolta solo prima di andare a dormire.
Qualche inverno fa, io e lei eravamo in salotto a guardare il telegiornale delle venti. Nei titoli di apertura era
stata annunciata, fra le primissime notizie, la morte di alcuni sciatori nei pressi di Saint Moritz, a causa di una
slavina. La nonna si era illuminata, mi aveva raccontato piena d’entusiasmo le sue permanenze a Saint Moritz,
ospite del King’s, ribadendo quanto lei fosse bella e corteggiata, come le sue tutine fossero le più raffinate,
come venisse costantemente invidiata da tutte le amiche per la ricchezza (di suo marito), la notorietà (sempre
di suo marito) e il fascino (dell’amante).
Ricordava la Seconda guerra mondiale come l’epoca più felice della sua vita: un periodo trascorso in Svizzera, in una villa in riva al lago di Lugano, quando «anche i poveri si vestivano bene». Il ’45 era per lei l’anno in
cui il blu navy passava di moda. Il ’68 l’anno della Rive Gauche di Yves Saint Laurent. Il 2001 eternato grazie
al lancio definitivo della moda etno-chic per mano di Egon Furstenberg. In mezzo a questi punti cardine
inseriva matrimoni, nascite, divorzi, lutti e i pochi successi della sua casa di moda: la Rose Garden.
Quella sera, davanti alla televisione, avevo provato una pietà triste e distaccata. Mentre lei continuava a
parlare le avevo detto piano, senza che potesse davvero sentirmi: «Saranno morti perché indegni di vivere
così malvestiti com’erano, eh nonna?» e poi avevo preso a ignorarla, trattandola come una compagna di banco
antipatica da non aiutare durante le verifiche.
Fino a quel momento ero sempre stata convinta che la massima espressione della solitudine coincidesse con
il silenzio successivo a una battuta che non viene colta, ma da allora alla parola solitudine cominciai ad affiancare la sensazione che mi provocava la sua compagnia. Una sensazione di sottrazione e mancanza. Di vuoto,
anche. Come lasciar cadere per sbaglio un anello dentro lo scarico del lavandino.
Il disagio era aggravato dall’indifferenza che provavo nei confronti della sua vecchiaia. Avevo ignorato,
fin dal loro primo manifestarsi, sia alcune nuove stranezze (più strane del solito, intendo) che dapprincipio
catalogammo come normali momenti di défaillance senile, sia gli acciacchi fisici che avevano cominciato ad
assillarla da qualche tempo. Ci vedeva meno, spesso perdeva l’equilibrio e, passando da una stanza all’altra, le
capitava di sbattere contro gli stipiti delle porte. Faceva degli sforzi enormi per non cadere o chiedermi aiuto.
Io facevo finta di nulla, le sorridevo quando si girava a guardarmi e continuavo a camminarle dietro come se
niente fosse.
Un mese dopo l’episodio del telegiornale mi trovavo di nuovo da lei per una colazione. Ad accogliermi era
stato, come sempre, Patmeenij, il cameriere, recentemente ribattezzato dalla nonna John John, senza alcuna
ragione apparente. In salotto avevo trovato invece Ninin, la cuoca, carponi sul tappeto d’orso bianco. Appena ero entrata aveva girato la testa di novanta gradi, fino a toccarsi la spalla con il mento: «Salve signorini
Lodovica» mi aveva salutato, ed era tornata a spazzolare i denti dell’orso. Accanto alle sue ginocchia c’era un
tubetto di dentifricio da viaggio e una bacinella di vetro colorato piena d’acqua fino a metà. Ninin sciacquava
lo spazzolino con una frequenza eccessiva, considerato che l’orso non mangiava da almeno una ventina d’anni. Anche lo spazzolino era da viaggio, uno di quelli da hotel, due pezzi chiusi dentro una scatolina di plastica
bianca rettangolare, lo stemma “Ritz” dorato, la chiusura a incastro. Proveniva sicuramente da una vacanza
all’estero di nonna di chissà quanti anni prima. Ho chiesto di lei. «Signora Elisabetti sta truccando.»
L’ho ringraziata e mi sono allontanata verso la camera da letto, pronta ad aspettare quei quaranta-cinquanta
minuti previsti dalla cerimonia. Ho attraversato il corridoio, stretto e lungo, alla maniera dei palazzi d’epoca
di Milano: il pavimento a quadri bianchi e neri coperto da un tappeto rosso, come una passerella, e le pareti
zeppe di foto. Ce n’erano di lei da giovane, a Parigi, a Londra, in Giappone addirittura. Nonna Betty abbracciata a modelle e stilisti, nonna Betty circondata da uomini eleganti e fascinosi: arrivisti, amanti, nobili,
giovani modelli. Ma non era affissa neanche una foto di famiglia. Non una singola immagine con le sue figlie
o il marito, non c’ero io dentro a un girello, o un seppia dei suoi genitori da fidanzati in una cornice di legno
scuro. Ho salito le scale, anche loro ricoperte da una corsia in velluto rosso, e ho bussato.
Nessuna risposta.
Ho chiesto permesso e senza aspettare ho abbassato la maniglia ma era chiuso a chiave. Ho appoggiato
l’orecchio al legno smaltato della porta, si sentiva solo una ballata per violini di Dvoràk. Ho bussato ancora,
battendo con più insistenza. Fino a urlarle «Nonna!» dallo spioncino.
«Parola d’ordine!» ha gridato da dentro.
Senza pensarci ho detto: «Coco Chanel». La porta si è aperta immediatamente.
«Oh, Sally, sei tu, menomale.»
«No, nonna, sono la Ludo.»
«Oh, Sally, sei tu, menomale» ha ripetuto abbracciandomi, «entra pure, ti mostro i nuovi modelli!»
Piena di entusiasmo come non l’avevo mai vista mi aveva fatta accomodare sul letto, e poi mi aveva passato
dei disegni che teneva in fondo al cassetto dell’intimo, e alcuni abiti che stava finendo di cucire, indosso al
manichino nero. I vestiti appoggiati sulla poltroncina di pelle avevano delle etichette attaccate con fili bianchi
di cotone. Erano cartoncini sui quali scriveva a matita il nome e il modello: “Gonna Elisabetta, prima versione”, “Pantaloni Capri Elisabetta, seconda versione”, “Scaldacuore seta Elisabetta, prima versione”.
«Quest’anno la nostra collezione è migliore di quella della Forrester Creations, Sally. Siamo più bravi.» Poi
sussurrando aveva aggiunto: «I più originali». E infine era scattata quasi correndo fuori dalla porta, a questo
punto gridando: «Nessuno quest’anno userà il macramè! Ninin, la colazione!».
Dopo pochi minuti ci eravamo spostate in salotto a spalmare il burro sul pane ai cinque cereali, in silenzio.
La nonna a interrogare la sua memoria a breve termine, io a far finta di niente.
Tornata a casa avevo cenato con mia madre e, prima di andare a dormire, mi ero seduta sul letto mentre
finiva di struccarsi davanti allo specchio. A ogni passaggio del cotone imbevuto di struccante, le affioravano
sul volto le lentiggini che tutte le mattine copriva con il fondotinta e che lasciava ricomparire solo alla sera,
nell’intimità della sua stanza. Aspettavo il momento giusto per parlarle, il momento in cui avrei avuto il coraggio di intraprendere il discorso, come quando avevo bisogno di un permesso per stare fuori la sera.
«Mamma.»
«Dimmi tesoro.»
«La nonna è partita di testa.»
«Suvvia Ludovica, lo sai che è sempre stata un po’ eccentrica.»
«No mamma, ascoltami, è partita di testa. È proprio fuori. È convinta di vivere in Beautiful o qualcosa del
genere.»
Alla prima visita, le venne diagnosticato il morbo di Alzheimer già in fase intermedia. I suoi gesti stravaganti, che avevamo ignorato per anni – come ordinare una pulizia dei denti per il tappeto d’orso o aggirarsi per
la casa in pieno inverno indossando tre-quattro vestiti estivi l’uno sull’altro, abbinati a un colbacco russo – si
erano d’improvviso rivelati sintomi tipici della malattia.
Ho appena addentato la mia margherita quando, alzando le sopracciglia, la zia Eugenia attira la mia attenzione. Riesco a capire, talmente parla piano, solo seguendo il labiale: vuole che vada a chiamare mamma, che
in effetti non è ancora scesa a mangiare. Salgo le scale, entro in camera mentre sto ancora masticando, ma
non appena vedo mia madre che ai piedi del letto accarezza i due rami che si sono sostituiti alle gambe della
nonna; smetto. La masticazione mi sembra un rumore orribile, imbarazzante. È come se qualcuno avesse
alzato il volume del silenzio dentro la stanza.
Mi siedo: per la prima volta decido di restare un po’, mi premuro però di mettermi accanto alla porta.
Mi ritrovo a comunicare come tutti gli altri, un cenno, un sorriso. Sussurro: «Mamma, ho portato le pizze».
Lei non risponde, forse mi sorride. Torna subito a curarsi dello stecco disteso fra le lenzuola: la pelle sottile,
rosa cipria, ricoperta da un nuovo strato giallo itterico, ruvido, che la nasconde. I peli sul viso, il toupet schiuso e i capelli radi appoggiati sul cuscino sono gli effetti più drammatici della nostra negligenza. Come a una
bambola, davvero, la mamma le pettina i capelli con la spazzola d’argento.
«Mamma» ripeto, «c’è la pizza.»
Lei tace.
«Resto io con la nonna, vai un po’ giù, dài.»
Quando mia madre si decide a scendere al piano di sotto trovo il coraggio per avvicinarmi alla nonna ma
non dico niente, le carezzo un po’ una caviglia e cerco di non guardarla in faccia per paura di scoprire che
anche così le somiglio.
Lei raccoglie tutte le forze per portare la mano alla gola, come per sistemarsi un collier, solleva di poco la
fronte come per dirmi “bella”, riferendosi alla collana che indosso, ma le esce solo la prima sillaba. Sono io
che decido di interpretare quel piagnucolio come un complimento. È l’ultima cosa che mi dice.
La nonna muore tre giorni dopo, mentre di sotto abbiamo finito di mangiare cibo cinese da neanche cinque minuti. È la mamma, ancora una volta, l’unica ad assisterla, anche in quegli ultimi istanti. La sentiamo
scoppiare a piangere dal piano di sopra: attraverso le stanze, lungo le scale. Alcuni si precipitano in corridoio.
Ascolto i loro passi pesanti sul velluto mentre zia Eugenia mi abbraccia e piange sulla mia spalla. Allora non
riesco a sentire più niente, è come se tutti fossero a poco a poco liberi da un gioco del silenzio protrattosi oltre l’intervallo scolastico. È un pianto femminile che si modula dal lamento all’isteria, si sposta da una spalla
all’altra, si privatizza negli abbracci. Molti signori, amici della nonna, preferiscono avvicinarsi a me, darmi
una pacca ancora unta d’olio sulle scapole. Forse perché io non piango sembra più semplice consolarmi. Non
metto a disagio.
«È una liberazione, soffriva così tanto» è la frase canonica che mi rivolgono, io annuisco e mi do da fare
come sempre, porto bicchieri d’acqua e kleenex; faccio una telefonata dopo l’altra. Ripeto a tutti che la sua
ultima volontà è stata una bottiglietta d’acqua Perrier. «Noi gliel’abbiamo procurata» racconto, «ma poi non
è neanche riuscita a berne un sorso» e dall’altro capo del telefono ridono, con compostezza, e poi subito si
mettono a piangere.
Un paio d’ore dopo se ne sono andati quasi tutti e restiamo solo io, mamma e zia Eugenia. È allora che
decido di salire al piano di sopra per salutare nonna. Mamma ha commentato: «È morta tranquilla, serena in
volto». Non appena la vedo capisco esattamente cosa intende camuffare la gente quando dice così. Le si sono
rilassati tutti i muscoli della faccia e ora c’è pelle in eccedenza dappertutto, come sul gomito di un braccio
disteso. “Serena” non è l’aggettivo adatto, penso. È morta vecchia.
Dopo è successo questo. Ci sono stati i funerali (sabato, alle nove del mattino), le condoglianze e i fiori, ci
sono stati nuovi abbracci con gli amici e altri abbracci con i parenti che avevano aspettato insieme a noi che
morisse la nonna Betty. Sono venuti anche Ninin e Patmeenij a salutarla. Un’amica di mamma, fuori dalla
chiesa, ha assicurato che cercherà di pubblicare su «Vanity Fair» del prossimo mese un articolo sulla nonna e
la Rose Garden.
Dopo il funerale io e mamma siamo andate nell’appartamento a sistemare le sue cose e, mentre gettavo via
mutande e reggiseni, ho trovato in fondo al cassetto un paio di collant color castoro che non le avevo mai
visto addosso, e un fazzoletto di seta beige chiuso come un fagottino, gli angoli a formare delle piccole orecchie da coniglio. Dentro c’erano alcune caramelle colorate mezze mangiucchiate, dei fichi secchi e un foglio
ripiegato fino a farlo diventare un minuscolo quadrato di carta. L’ho aperto: era il disegno di un abito molto
elaborato, e bellissimo.
C’era scritto: “Collezione Ludovica, Rose Garden 2009”. Era dedicato a me, era per me. Non l’ho fatto vedere
alla mamma, le ho solo spiegato che pensavo di tenere io gli abiti di nonna e il tappeto d’orso. Poi le ho detto
di andare a casa nostra, a riposarsi, e non appena sono rimasta sola mi sono seduta davanti allo specchio
della toletta, ho aperto il cassetto e tirato fuori la spazzola d’argento. Tra i denti c’erano alcuni fili di capelli attorcigliati. Piccole scaglie di cute ricoprivano il cuscinetto bianco della spazzola. Ho srotolato qualche capello
dai dentini e ho sbattuto la spazzola sul palmo della mia mano per far cadere quello che era rimasto di lei:
lustrini di pelle trasparente. Ho messo tutto dentro il foulard, che ho richiuso alla sua maniera, a coniglietto.
L’ho infilato nella tasca destra dei jeans e sono uscita dalla stanza, stringendo con la mano il mio bottino.