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una città
n. 234
mensile di interviste
ottobre 2016 - euro 8
«Di solito il clima della vita politica non è propizio a chi voglia dare ascolto più ai suggerimenti della propria coscienza
che alle direttive del partito. Ma anche la storia si misura con questo metro? Le esigenze morali, fatte valere
da cassandre inascoltate che non costituiscono un partito o sono, nei partiti, guardate con diffidenza, non contano proprio
nulla nella storia? Le politiche passano, ma vi sono pure dei valori morali che sono buoni per tutti i tempi. Come doveva
sembrar “livido” Gobetti agli abili manovratori di quegli anni! E Cattaneo ai patteggiatoridel Governo provvisorio
lombardo! Ma quanti oggi non sarebbero disposti a riconoscere: “ne avesse avuti l’Italia di uomini lividi come Gobetti,
come Cattaneo! Le cose sarebbero andate diversamente e assai meglio”. Anche la fedeltà ai propri principi è una politica,
se pure una politica a più lunga scadenza» Norberto Bobbio, da “Il Ponte”, a. VII, n. 8, agosto 1951
ottobre 2016
La mia biografia mi impedisce
di essere pessimista
Sulla Polonia, l’Europa e l’uso della memoria
Intervista ad Adam Michnik (p. 3)
La nostra Hillary
Di Stephen Eric Bronner (p. 8)
Le ragioni di merito per un no
Governabilità vs rappresentatività
Intervento di Marco Boato (p. 9)
Non ha senso, o, purtroppo, lo ha
Sul pericoloso combinato riforma e legge elettorale
Intervista a Lorenza Carlassare (p. 11)
I trenta gloriosi che non torneranno
Sull’esile speranza legata al sì al referendum
Intervista a Michele Salvati (p. 14)
La classe capovolta
Una buona pratica francese
Intervista a Marie Camille Coudert (p. 18)
Il presente della vecchiaia
Un forum sulle inquietudini dell’invecchiamento
Intervista a Marina Piazza, Antonella Nappi,
Francesca Rossi e Simona Sieve (p. 20)
Il genocidio degli Yazidi
Nelle centrali
Più poveri dei genitori
Di Francesco Ciafaloni (p. 26)
Aspettando Bruxelles
Di Paolo Bergamaschi (p. 27)
Una causa per andare a morire
Sull’Islam e la sinistra
Intervista a Jean Birnbaum (p. 30)
Nell’estate del ‘44...
Sulle Repubbliche partigiane
Intervista a Nunzia Augeri (p. 34)
Novecento poetico italiano/14
La poesia di Montale, seconda parte
Di Alfonso Berardinelli (p. 38)
Lettera dalla Cina. Il porto di Colombo
Di Ilaria Maria Sala (p. 40)
Lettera dall’Inghilterra. La battaglia di Orgreave
Di Belona Greenwood (p. 40)
Lettera dal Marocco. Dopo le elezioni
Di Emanuele Maspoli (p. 41)
Appunti di un mese (p. 42)
Discussione sul Titolo V
Di Oliviero Zuccarini, 1947 (p. 44)
L’elezione del sindaco di Srebrenica
Di Hasan Nuhanovic (p. 45)
La visita è alla tomba di Silvio Trentin (p. 46)
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una città
La copertina è dedicata alle donne polacche che sono scese in piazza a
centinaia di migliaia per protestare contro una legge, portata avanti dal
partito al governo, che vuol equiparare l’aborto all’omicidio.
Al festival del 900 di Forlì Adam Michnik, presentato dal suo amico Wlodek Goldkorn come uno degli uomini che ha avuto una parte, e non piccola, nella caduta del Muro e nella liberazione della Polonia, ci ha parlato
della memoria dell’Europa, a partire dalla particolarità della Polonia, che
ha conosciuto due totalitarismi, quello nazista e quello staliniano; della
complessità delle storia, ricca di personaggi non univoci come il polacco
Pilsudski, autore di un colpo di stato per salvaguardare la Polonia multietnica; ci ha parlato dell’uso politico della memoria storica, che è come
un bastone che può aiutare a camminare o che può essere dato in testa
agli avversari politici; un uso che, in Polonia, si spinge fino al tentativo
dell’attuale governo polacco di infangare Solidarnosc e Walesa; della vergogna che prova per la posizione del suo governo sui profughi e di un’Europa, beneamata, che rischia di perdere la strada e che però vale tutto il
nostro impegno per fargliela ritrovare.
Torniamo a parlare del referendum, con l’intervento di Marco Boato, per
il no, ma un no circostanziato nel merito che nulla deve avere a che fare
con il destino del governo; ma per lo stesso motivo è inaccettabile la demagogia di chi è arrivato a dire: “In questo referendum si tratta di ridurre
le poltrone. Punto!”. Per Lorenza Carlassare, costituzionalista, il combinato riforma costituzionale-legge elettorale è sicuramente teso ad accentrare il potere sull’esecutivo e a rendere manipolabili gli organi di garanzia, ma il tutto è anche molto pasticciato: un senato non eletto, che non
si sa cosa rappresenterà, perché privo di vincolo di mandato rispetto al
territorio di appartenenza, nominato per ripartizione partitica, ma che, paradossalmente, avrà voce in capitolo su leggi molto importanti come quelle costituzionali e i trattati europei; infine la legge elettorale: che vuol far
diventare maggioranza chi non lo è e che permetterà l’elezione diretta del
capo del governo, una legge al cui confronto quella cosiddetta “truffa” del
’53 è niente. All’opposto, Michele Salvati, schierato per il sì, mette in evidenza la modestia della riforma, che non prevede le due cose che rafforzerebbero veramente l’esecutivo: la sfiducia costruttiva e la possibilità del
premier di sciogliere le camere, presenti nelle costituzioni tedesca e spagnola; partendo da un’analisi estremamente pessimistica sullo stato dell’economia mondiale e sulle conseguenze devastanti di una globalizzazione inarrestabile, che impoverendo il ceto medio favorisce la crescita
di movimenti populisti, Salvati riserva un’esile speranza, legata all’esito
positivo del referendum, in un governo che, finalmente dotato di un investitura forte, possa prendere i provvedimenti necessari e, a volte, tutt’altro
che popolari.
Nelle centrali, ricordiamo gli Yazidi, vittime di genocidio. Gli islamisti dell’Isis, denuncia l’Onu, hanno cercato di distruggere il popolo yazida attraverso l’assassinio, lo sfruttamento sessuale, la riduzione in schiavitù, la
tortura e trattamenti inumani e degradanti, trasferimenti forzati...
Jean Birnbaum polemizza con una sinistra che per spiegare perché tanti
giovani vanno a morire per l’Islam, per paura di risultare islamofobica,
cerca spiegazioni esclusivamente “sociali”, facendo l’errore di non dar
credito alla forza della religione e non accorgendosi così di essere completamente dentro a un immaginario coloniale, che vede solo l’onnipresenza dell’Occidente e delle sue colpe; in realtà, secondo Birnbaum, questi giovani sono spinti da una speranza radicale che oggi solo l’islam sa
offrire loro. Alla fine sarà decisiva la lotta fra l’Islam che interpreta il Corano e quello che lo legge e basta.
d’Europa
LA MIA BIOGRAFIA
MI IMPEDISCE DI ESSERE
PESSIMISTA
Quello delle donne polacche, il più importante movimento dai tempi di Solidarnosc; la particolarità
della Polonia, che ha conosciuto due totalitarismi, quello nazista e quello staliniano; la complessità
delle storia, ricca di personaggi non univoci, dal polacco Pilsudski all’ucraino Bandera; l’uso
politico della memoria storica, col tentativo dell’attuale governo polacco di infangare Solidarnosc;
un’Europa beneamata da ritrovare. A parlare è Adam Michnik intervistato da Wlodek Goldkorn.
Sabato 8 ottobre, a Forlì, al festival di storia
del 900, si è svolto l’incontro con Adam Michnik, storico, uno degli artefici della caduta del comunismo e dell’avvento della democrazia in Polonia; Michnik era presentato
da Wlodek Goldkorn. L’incontro, che è stato
introdotto dal saluto del sindacalista della
Cisl Romagna Vanis Treossi, si è incentrato
sui temi della memoria nella storia dell’Europa. Nel pomeriggio si era svolto un incontro, sul tema della “colpa nella storia”, con
Niklas Frank, figlio del criminale nazista
governatore della Polonia, Katrin Himmler,
nipote del gerarca nazista, e Lorenzo Pavolini, nipote del gerarca fascista.
Wlodek Goldkorn. Buona sera, più che un
dialogo saranno una serie di domande che
porrò a Michnik. Vorrei dire, in primo luogo, per chi non lo sapesse ma anche per chi
lo sa, che sentire Michnik è un’occasione eccezionale, per diversi motivi, uno etico, perché è una delle persone più oneste e più
combattive nella storia d’Europa degli ultimi 40-50 anni, è stato un oppositore del regime comunista fin dalla metà degli anni
Sessanta e non ha mai smesso di essere oppositore di tutti i regimi e i governi ingiusti;
l’altro è più tecnico perché è anche un’occasione di sentire una persona che di mestiere
e di formazione è storico (anche se ora fa il
direttore di “Gazeta Wyborcza”), e che, allo
stesso tempo, è anche un protagonista della
storia. Perché se la Polonia è libera, se il
muro è caduto è anche in qualche parte, e
non piccolissima, merito di Michnik. Fatta
questa premessa vorrei cominciare dicendo
che la Polonia è un caso molto interessante
dal punto di vista di elaborazione della storia e del rapporto tra storia, memoria e presente. La Polonia non solo è stata sempre,
dalla metà dell’800, al centro di ogni conflitto europeo, e uno dei primi ad averlo capito,
insieme a tanti altri, è stato Marx, per il
quale la libertà della Polonia significa anche libertà dell’Europa, non esiste un’Europa libera senza Polonia libera. Ma intorno
alla Polonia ci sono tantissime leggende: è
una storia interpretata in maniera molto
immaginifica con sovrapposizioni sorpren-
denti. Ne cito una poi comincio con le domande. La più eclatante e divertente è
quella, che tutti avranno sentito, della cavalleria polacca che nel 1939 avrebbe caricato i panzer tedeschi. È significativa perché, inventata dai nazisti, si è diffusa in
Italia grazie ai giornali di allora e poi è stata ripresa dai sovietici. Molto spesso l’ho
sentita ripetere da esponenti del Pci. Il tutto per spiegare l’irrazionalità dei polacchi e
il fatto che non meritassero di essere liberi
e governarsi da soli, ma dovessero avere
sempre la tutela di un grande fratello o di
un potere più forte. Anche oggi il partito al
potere in Polonia, “Diritto e giustizia”, reinterpreta la storia. Ma prima di parlare di
Kaczynski, vorrei partire da una questione
più attuale. Lunedì c’è stato lo sciopero delle
donne in Polonia, milioni di donne in piazza
per protestare contro una legge particolarmente restrittiva sull’aborto. E il governo
ha ritirato il suo progetto di legge.
Vorrei sentire Michnik se vuole commentare, cos’è successo, se è stata veramente una
vittoria delle donne, una vittoria di civiltà
elementare.
nella politica polacca le donne
sono uscite in strada e diventate
protagoniste. E non
abbandoneranno più la scena
Adam Michnik. Buongiorno a tutti. Innanzitutto grazie di questo invito, grazie del sostegno del sindacalista che ha portato il saluto dei tre sindacati italiani; l’attività di
Solidarnosc è stata un frammento molto
importante della mia trafila. Oggi Solidarnosc cerca la sua collocazione, il suo posto
nella nuova realtà, non sa trovarlo, però bisogna credere che ci riuscirà. Perché la democrazia senza i sindacati è una democrazia senza una gamba. Prendiamo la Cina, lì
non ci sono i sindacati! Ed è per questo che
anche quel modello comunista perderà. Io
sono stato in Cina, ho avuto colloqui con
dissidenti cinesi, avevano degli occhi cinesi
ma erano tali e quali ai dissidenti polacchi.
Sono molto repressi, ma questo vuol dire
che il regime ha paura di loro. E se il regime ha paura, questo è un buon segnale per
i democratici.
Ora, per quel che riguarda la domanda di
Wlodek, credo che quel che è appena successo in Polonia sia innanzitutto la vittoria
dell’opposizione democratica. In secondo
luogo, è una sconfitta del regime di Kaczynski. E in terzo luogo, è un grande cambiamento di civiltà. Per la prima volta, si è riusciti a trafiggere, a passare attraverso questo soffitto di vetro della Polonia patriarcale. Nella politica polacca le donne sono uscite in strada e quindi sono diventate protagoniste. E non abbandoneranno più questa
scena. Le donne vogliono dire la metà della
Polonia. Gli uomini da soli probabilmente
non ce la farebbero contro questo regime,
ma gli uomini assieme alle donne ci riusciranno. Lo dico in quanto convertito al femminismo! Come la maggior parte della gente del mio paese io sono cresciuto come un
“macho”. E come un vero convertito ho capito che ho vissuto nell’errore e nel peccato.
E questa è la mia risposta alla domanda di
Wlodek. Quel che è successo in Polonia è un
cambiamento di civiltà. È un evento importante, il più importante, culturale e intellettuale, dagli scioperi dei cantieri del 1980.
Allora, nella grande politica hanno fatto ingresso gli operai, e hanno abbattuto il comunismo, la dittatura del regime comunista. Adesso invece hanno fatto il loro ingresso le donne e abbatteranno la dittatura
di Kaczynski, perché è un sistema arcaico,
reazionario, che vuol portare indietro la Polonia. Durante i 25 anni dalla caduta del
muro di Berlino la Polonia è avanzata, ha
progredito, invece adesso stiamo andando
indietro. Loro pensano che governeranno
per sempre. Ma anche i comunisti la pensavano così, quindi io non gli faccio una prognosi di grande longevità.
Goldkorn. Ebbene, allora, un’altra domanda che riguarda invece molto più la questione appunto delle colpe e della storia. Ed è
abbastanza semplice. In apparenza, semplice. Sono passati 26 anni, 27 ormai dalla fine del comunismo. E in questi 27 anni si è
discusso molto della memoria in Polonia, è
stato uno dei temi principali. La domanda
più specifica è quali sono i modi in cui la meuna città
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moria del comunismo è stata elaborata. Lo
chiedo sia allo storico che al democratico militante, radicale qual è.
Michnik. Oggi ho ascoltato tre testimonianze molto importanti e interessanti sulla resa dei conti con il fascismo. Ma nemmeno
una volta è stata pronunciata la parola Stalin. Per un polacco questo è incomprensibile. La specificità dell’esperienza polacca è
questa: noi polacchi abbiamo avuto esperienza di due totalitarismi, quello hitleriano e quello staliniano. Il primo settembre la
Polonia è stata invasa da Hitler, e il 17 la
stessa cosa è stata fatta da Stalin da Est.
Risultato del patto Ribbentrop-Molotov.
la specificità dell’esperienza
polacca è di aver vissuto due
totalitarismi, quello hitleriano
e quello staliniano
La prima reazione, quando è arrivata la libertà, è stata quella di volere la verità, innanzitutto su ciò che fino ad allora era stato una menzogna. Tutti i giornali, tutte le
librerie, erano colme di libri sul patto Ribbentrop-Molotov, sui gulag. Questa è stata
una prima reazione del tutto comprensibile,
e però i gulag non contengono tutta la verità sul comunismo. Il comunismo era una
dottrina estremamente complessa, non può
essere ridotta a Stalin e ai gulag. Quando
all’interno della società polacca hanno cominciato a formarsi delle divisioni, erano
delle divisioni fra quelli che volevano giudicare il comunismo e quelli che invece volevano capirlo. I primi erano innanzitutto i
procuratori, i secondi gli storici. I comunisti
polacchi erano solo degli agenti dell’Urss?
Il comunismo polacco aveva anche le sue
fonti proprie, oriunde? Il comunismo dava
delle risposte false a delle domande vere?
Voglio dire che i contesti erano molteplici,
e uno certamente importante era che a portare alla liberazione della Polonia da Hitler
era stato il comunismo di Stalin. Il che era
vero così come era vero, però, che i soldati
dell’Armata rossa non potevano portare la
libertà, perché non l’avevano loro stessi, la
libertà. Era questa la situazione complessa
in cui si andava a trovare la Polonia. Quindi anche i conti, la resa dei conti con il comunismo, il bilancio di tutto questo, era
molto complesso. Lo dice anche il fatto che
molti che erano stati comunisti all’epoca di
Stalin erano anche oppositori del comunismo nell’epoca del disgelo. Soprattutto nel
’56, dopo il famoso rapporto di Kruscev. La
più radicale critica della dittatura comunista è venuta dagli ex comunisti. Lo scrittore
Ignazio Silone, italiano, ha scritto, che il comunismo sarebbe stato distrutto dagli ex
comunisti. Ovviamente, come le grandi formule di questo tipo, conteneva un grado di
esagerazione ma conteneva anche molta verità. I critici più severi del comunismo erano gli ex comunisti. Gilas, Kolakowsky, Havemann, il generale Grygorenko in Russia,
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una città
Zhelev in Bulgaria. Si può fare un lungo
elenco di nomi. In questo senso, il problema
politico diventa se insieme col comunismo
bisogna anche rigettare quelli che erano comunisti ma poi l’hanno criticato e abbandonato. A questo si sovrapponeva la questione
di chi era stato complice. E così gli archivi
del Kgb polacco sono diventati uno strumento di lotta politica.
Goldkorn. Non so se poi vorremo tornare su
questo punto. Da polacco italiano mi vengono spontaneamente alcune associazioni con
la storia italiana che ha visto molti fascisti
diventare antifascisti, anche fra i più radicali. Il problema dell’uscita dal fascismo,
parlo dell’aspetto giuridico, non storiografico, è stato forse risolto con l’amnistia di Togliatti che ha chiuso i conti giuridici, il che,
forse, ha permesso poi agli storici di lavorare. Non so se è una sciocchezza, ma penso
che senza l’amnistia gli storici avrebbero
avuto molte più difficoltà, per non parlare
della sfera della politica. Allora la domanda
riguarda proprio la storia della Polonia prima del comunismo, una storia che oggi vediamo riemergere nelle divisioni politiche,
coi laici che si rifanno a una certa tradizione, a un certo ethos, Kaczynski e i suoi a un
altro. Ricordo la discussione molto dura, di
cui Michnik è stato uno dei protagonisti, su
Jedwabne, un paesino in cui nel ’41 i polacchi chiusero tutta la popolazione ebraica in
un granaio e gli diedero fuoco. Ecco, quella
fu una discussione fondamentale per la Polonia, che a mio parere cambiò il volto in
meglio, perché introdusse un elemento di
grande onestà nel discorso pubblico. Ma oggi assistiamo, dal lato opposto, a ragazzi
che si rifanno esplicitamente alla tradizione fascista, a una organizzazione nazionalradicale che esisteva prima della guerra
che era molto affine al regime fascista, ma
ancor più ai franchisti spagnoli, perché erano più cattolici di Mussolini; oggi sono nelle
strade, nelle piazze vestiti nelle loro divise
e danno a Walesa del traditore della patria.
C’è poi stata la questione di Pilsudski, che
fece il colpo di stato del ’26, uno degli episodi più contraddittori nella storia della Polonia in Europa. Adam Michnik è stato protagonista di una discussione su Pilsudski, su
cui non torno. Ricordo solo che Pilsudski fece un colpo di stato sanguinario nel 1926,
prima della guerra, per difendere una Polonia multietnica e multiculturale, che invece
le destre “democratiche” al potere, volevano
distruggere. Questa è una contraddizione
che ci costringe a una riflessione anche oggi.
Michnik. Hai mosso tanti argomenti, per
poterti rispondere dovrei scrivere una tesi
di dottorato. Quindi mi concentrerò su Pilsudski. Pilsudski è una figura storica estremamente ambivalente. Era un cospiratore,
un socialista, un militante della rivoluzione, simpatizzante di Rosa Luxemburg. Ma
non aveva mai rinunciato alla parola d’ordine di una Polonia indipendente, sovrana.
d’Europa
Pilsudski era un organizzatore delle forze
armate polacche, non era uno statista, ma
ripeteva tenacemente che quello cui aspirava era la Polonia indipendente. Divenne capo dello stato nel 1920, nella guerra polacca
contro l’Urss dei bolscevichi. Era capo dello
stato quando il parlamento approvò una costituzione che all’epoca era la più avanzata
di tutta Europa. Subì un grande shock
quando nel 1922 un fanatico del campo nazionalista uccise il primo presidente della
Polonia libera. Nella Polonia che per 123
anni non era esistita sulle carte geografiche, che aveva riguadagnato libertà e indipendenza e aveva eletto il suo parlamento,
un fanatico nazionalista aveva assassinato
Gabriel Narutowicz, il primo presidente
eletto democraticamente. Per Pilsudski
questo fu un fatto sconvolgente. L’argomento addotto dai nazionalisti colpevoli dell’assassinio era che il presidente era stato eletto con i voti ebraici. Secondo loro quei parlamentari eletti come rappresentanti dei
partiti ebraici non avevano diritto di votare. Per Pilsudski questo era inaccettabile.
Diede le sue dimissioni e si ritirò. Dalla sua
prospettiva di ex comandante dimissionario
vedeva che la Polonia stava annegando nella corruzione, e, come si addice a un ex cospiratore, a un capo militare, si comportò
come un De Gaulle francese, cioè fece un
putsch, un colpo di stato militare. E poi, siccome la Polonia non era la Francia, il campo dei vincitori divenne un campo diretto
da una logica dittatoriale, con elezioni falsificate, con un parlamento le cui decisioni
venivano ignorate, con arresti dei leader
dell’opposizione del centrosinistra, che vennero trattati in un modo orrendo, con processi e condanne.
se i terroristi non avessero ucciso
Stolypin, la Russia non sarebbe
entrata in guerra, non ci sarebbe
stata la rivoluzione bolscevica
Quindi un giudizio storico su Pilsudski non
può essere univoco. In Polonia, da un lato
Pilsudski è contestato dai democratici, ma
lo è anche dall’altra parte dai nazionalisti
di destra. Io personalmente lo vedo dal
punto di vista dei democratici. È un uomo
che ha fatto cose molto buone per la Polonia
e molte pessime e oggi non bisogna prenderlo a modello perché Pilsudski ha distrutto la democrazia polacca. Ovviamente non
equivale a Mussolini, non ha introdotto un
sistema totalitario, era una specie di semidittatura, abbastanza grottesca; non ha
aiutato in nulla la Polonia e ha distrutto il
rispetto per la democrazia. Quindi dopo il
1945 quando i comunisti, un passo dopo
l’altro, distruggevano la democrazia, potevano in qualche modo far riferimento a Pilsudski. Però è sicuro che resterà sempre un
personaggio ambivalente, non univoco nella
storia polacca. Così è il caso di Stolypin,
primo ministro russo. Se i terroristi non
Adam Michnik (al centro) in una riunione a Roma nel 1977 nella sede dell’Avanti. Il primo a sinistra è Gino Bianco.
avessero ammazzato Stolypin, la Russia
non sarebbe entrata in guerra, non ci sarebbe stata la rivoluzione bolscevica, eccetera, eccetera. Ma se leggiamo delle repressioni attuate da Stolypin, dopo il 1907, allora si perde parecchio la simpatia che si
potrebbe provare per lui. Se si legge la sua
riforma, si riguadagna la simpatia. Anche
Stolypin, quindi, non è un personaggio univoco. Ma non è forse questo tutto il fascino
della storia? La storia è fatta di situazioni,
di personaggi non univoci.
Goldkorn. Parlando di Pilsudski, viene fuori il problema delle minoranze nazionali,
che è un’invenzione lessicale fantastica che
risale all’invenzione degli stati monoetnici.
Potrei dire che Pilsudski era molto amato
dagli ebrei, si sentivano molto protetti da
lui, dittatura o no, rispetto all’antisemitismo, molto forte allora in Polonia. In Polonia, oltre agli ebrei c’erano ucraini, lituani,
Leopoli era una città polacca, Vilnus era
una città polacca, c’erano tedeschi. Gli ebrei
fanno parte della storia della Polonia, così
come in qualche modo per gli israeliani è
importante la Polonia. Lo stesso vale per il
rapporto con gli ucraini, particolarmente
difficile anche per vicende storiche molto
dure avvenute durante la Seconda guerra
mondiale, e così coi lituani e con i tedeschi.
Anche questa è una domanda complessa. I
polacchi stanno facendo i conti con la propria storia rispetto a questi popoli o no, e
come li stanno facendo?
Michnik. Ecco un’altra tesi di dottorato. La
Polonia dell’anteguerra era un paese multietnico e due uomini l’hanno resa monoetnica: Hitler e Stalin. Hitler sterminando la
popolazione ebraica e Stalin modificando i
confini orientali della Polonia e autorizzando l’espulsione dei tedeschi della Polonia.
Nell’Europa centrale ed orientale non ci sono dei confini giusti. Tutti i confini sono ingiusti. E questo influenza i rapporti tra polacchi e tedeschi, tra polacchi e slovacchi,
tra polacchi e lituani, e i rapporti tra la Polonia, la Bielorussia e la Russia. Che conti
vengono fatti oggi? Qui bisogna differenziare i conti che vengono fatti dal gruppo al potere oggi e quelli della società polacca tout
court. Per quel che riguarda i conti sociali,
nessuno dei paesi di quella regione, dell’Europa centrale e orientale, è andato più lontano nel rispettare la Polonia.
tutti i confini sono ingiusti e ciò
influenza i rapporti tra polacchi e
tedeschi, tra polacchi e slovacchi,
tra polacchi e lituani e russi
Ovviamente, chi invece è avanzato di più su
questa strada sono i tedeschi. Non sono
d’accordo con Niklas Frank: io ritengo che i
tedeschi, nei loro conti, siano andati più
avanti di tutti gli altri. Se paragoniamo i
tedeschi con gli italiani e i polacchi non c’è
alcun dubbio che abbiano lavorato di più,
che siano andati più avanti in questa strada della resa dei conti.
Per quanto riguarda la Polonia, ci sono due
problemi diversi, dentro a questa situazione. C’è l’atteggiamento nei confronti della
storia e l’atteggiamento rispetto alla situazione attuale. Nella politica dello stato polacco di oggi non c’è alcun antisemitismo,
ma non è un merito perché in Polonia non
ci sono più ebrei! Però è vero che non ci sono nemmeno i musulmani, eppure i polacchi sono xenofobi e antimusulmani! Quindi
nel ’68 avevamo un antisemitismo in un
paese senza ebrei, e adesso abbiamo un’islamofobia in un paese senza musulmani!
Invece, certamente c’è una diatriba, una
lotta, un dibattito acceso sulla storia. I polacchi e gli ebrei hanno un tratto in comune, entrambi questi popoli si considerano
eletti e vittime allo stesso tempo. Quindi,
quando si incontrano due popoli che si considerano entrambi eletti dal messia, ovviamente questo non può che creare dei problemi! E questo problema ovviamente esiste. Negli ambienti ebraici funziona molto
lo stereotipo che dice che ogni polacco ha
succhiato l’antisemitismo con il latte materno. E queste sono le parole di Rabin, ex
premier israeliano. Mentre invece i polacchi dicono che in Polonia non ci sarebbe
nessun antisemitismo se non ci fosse un antipolonismo ebraico. Sono due idiozie dello
stresso livello. Ma la stessa cosa che funziona nei rapporti polacco ebraici, su una scala
maggiore funziona anche nei rapporti tra
polacchi e lituani, tra polacchi e ucraini, e
una città
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d’Europa
anche nei rapporti tra polacchi e russi. Per
il nazionalista russo non c’è una colpa russa. Se chiedi: “Chi ha fatto il bolscevismo?”,
“Noi russi, no! L’hanno fatto Trotsky, ebreo,
Zinoviev, ebreo, Kamenev, ebreo, Mikoyan,
armeno, Stalin, georgiano, Dzerzinskij, capo della Ceka, polacco; il bolscevismo è stato imposto ai russi dagli stranieri”. Come
ha detto il parlamentare russo Valentin
Rasputin: “Il bolscevismo non è colpa nostra, è la nostra sciagura, una disgrazia che
ci è stata imposta”.
la nostra Europa è la nostra
diletta, la beneamata, però
la nostra diletta si è innamorata
di qualcun altro!
Con un ragionamento di questo genere è difficile costruire un dialogo che possa portare
da qualche parte. Per questo l’eroe del nazionalismo russo oggi è Putin, perché lui dice:
“I russi si alzano, prima stavano in ginocchio, adesso si mettono dritti”. Così la Polonia viene rialzata, dalla posizione inginocchiata, da Kaczynski. Quindi in Russia c’è il
grande Putin, e in Polonia c’è un lilliputin.
Goldkorn. Avrei ancora alcune domande.
Una è a proposito di Putin e dell’uso della
storia e della memoria e della somiglianza
del vittimismo ebreo con quello polacco. Per
il pubblico chiarisco che siamo due polacchi
ebrei, quindi parliamo sia da polacchi che
da ebrei. Venendo a Varsavia, si ha l’impressione che il governo al potere oggi, col
partito di “Diritto e giustizia”, stia costruendo una memoria storica molto simile
a quella criticata a suo tempo da un importante storico ebreo americano, Yosef Yerushalmi. Lui aveva avanzato una tesi seconda la quale la memoria ortodossa degli
ebrei sovrappone in un insieme senza distinzione tutte le sciagure, la distruzione
del primo tempio è come la distruzione del
secondo, la cacciata dalla Spagna è come la
distruzione del secondo tempio, i pogrom di
Bogdan Chmelnickij, il capo della ribellione
dei cosacchi del Seicento, sono come la cacciata dalla Spagna, i pogrom sotto lo zar sono come quelli di Chmelnickij, la Shoah è
un po’ come… e alla fine gli ebrei sono sempre vittime in cui non si distingue più il
contesto, e questo porta all’impossibilità di
pensare razionalmente e dà la possibilità di
manipolare la storia come si vuole. Ho l’impressione che in Polonia oggi una cosa simile la stia facendo il governo, per cui la guerra contro i bolscevichi del 1920 si sovrappone all’insurrezione di Varsavia del 1944,
l’incidente di Smolensk in cui morì il fratello di Kaczynski e tutta l’équipe al governo
si sovrappone all’insurrezione di Varsavia… Questa specie di postfattualità ti permette di fare della storia quello che vuoi.
Sto esagerando?
Michnik. Sia gli ebrei che i polacchi amano
essere vittime. Prediligono essere vittime.
E rendono solenni, e celebrano le proprie
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una città
sconfitte. Non amano celebrare i propri successi. Isaac Rabin, che ha avuto un grande
successo storico, gli accordi di Oslo, è stato
punito, assassinato da uno sciovinista
israeliano. Il più grande successo polacco,
quello di smantellare il comunismo senza
rompere un solo vetro, è stato definito recentemente come il più grande tradimento.
Oggi io mi trovo a dover giustificare ciò di
cui dovremmo andare fieri, a dover spiegare che nessuno mi ha pagato, né il Cremlino, né Tel Aviv. Sono stato in Israele, facevo una passeggiata sul lungomare, e sono
entrato in un museo dell’indipendenza, un
museo molto interessante, che parla del
cammino di Israele verso l’indipendenza.
Fatto in modo molto moderno, con film, fotografie, c’era tutto. Però nessuno si è accorto che nell’indipendenza di Israele ha
svolto un certo ruolo un signore che si chiamava Ben Gurion, che non era nominato in
quel museo. Perché quello era un museo del
Likud. Ma questo è il modello di fare storia
del partito bolscevico. Gli elementi della
storia del bolscevismo sono presenti nelle
fotografie, e da quelle fotografie man mano
vengono eliminate alcune figure, prima
Trotsky, poi Zinoviev, poi Bucharin, eccetera, fino a che, accanto a Lenin, rimane solo
Stalin. Ecco, oggi il governo di Kaczynski
procede allo stesso modo con la storia polacca. Si butta via Walesa, si butta via Kuron,
e altri. In questo senso qui ci sono delle somiglianze fra tre sistemi culturali, apparentemente molto diversi: la destra israeliana, la destra polacca e il bolscevismo. Ma
guarda caso la metodologia è uguale. È paradossale, vero? Kaczynski, verbalmente, è
un nemico mortale di Putin e della Russia
intera. Ma il sistema politico che lui introduce in Polonia è esattamente il sistema
putiniano. Abbiamo un vessillo, una bandiera democratica, ma sotto questo vessillo
introduciamo un autoritarismo putiniano.
È questa più o meno l’essenza del regime di
Kaczynski.
Goldkorn. Ultima domanda. Mentre noi
parliamo, stiamo molto bene, sentiamo cose
interessanti, sotto le nostre finestre stanno
morendo delle persone. C’è una bellissima
poesia di Milosz, “Campo di fiori” dove si
parla di una giostra sotto il muro del ghetto
di Varsavia: mentre il ghetto bruciava c’era
gente normale che andava a divertirsi, che
portava i bambini a quella giostra. Milosz
paragona questa giostra a Campo dei fiori
dove, mentre Giordano Bruno viene arso vivo, il mercato continua e continua anche la
bellezza. È una poesia molto ambivalente,
la bellezza dei frutti di mare, delle merci
esposte dei commercianti. Io ho l’impressione che noi siamo oggi su una giostra e che,
come oggi pomeriggio c’era il figlio di Frank
che parlava del suo senso di colpa, fra
trent’anni i nostri nipoti ci chiederanno cosa
abbiamo fatto e sarà difficile rispondere.
Credo che in Polonia questo problema sia
ancora più difficile, perché è uno dei paesi
che non vuole nessun profugo. Vorrei che
Michnik ne parlasse.
Michnik. Su questa vicenda posso dire solo
questo. Io mi vergogno del mio paese. Le dichiarazioni del governo polacco in questa
faccenda le ritengo infami, pagine nere nella storia del nostro paese. Io mi rendo conto
che il problema non è facile. Non voglio fare
del moralismo da dietro la scrivania. Mi
rendo conto che per ogni governo implicato
in questo gravissimo problema, la faccenda
non è semplice, ma per questo io sono un
grande sostenitore e simpatizzante di quello che ha detto Angela Merkel: siamo aperti
ai migranti perché sono persone che fuggono dalla sofferenza e dalla morte e noi non
possiamo voltargli le spalle. Invece il mio
governo polacco ha voltato le spalle. Così
come il governo ungherese di Orban. Forse
Wlodek ha formulato la questione in modo
molto duro, radicale, estremo. Perché in
fondo questo problema è sempre esistito:
oggi come ieri e anche domani, sempre da
qualche parte moriva della gente, e noi non
siamo stati in grado né capaci di aiutare
tutti. Per questo sono cauto a fare del moralismo facile. Io capisco che può essere una
situazione problematica, però non si può dire, come ha detto Kaczynski, che non possiamo far entrare i rifugiati perché porteranno malattie, o perché quei musulmani
verranno qui a violentare le nostre ragazze
cattoliche, cristiane, polacche. La ritengo
una cosa scandalosa. E ritengo che la nostra storia non dimenticherà questa infamia. Lo dico qui, ma vi garantisco che la
stessa cosa la dico anche in Polonia.
Dal pubblico. Michnik ha detto che si vergogna della Polonia. Io mi vergogno dell’Europa intera...
però ho sempre visto
la differenza tra il regime
che mi ha fatto soffrire in quegli
anni e il regime stalinista
Michnik. Le cose stanno così: ti fidanzi con
una donna e poi ne sposi un’altra, completamente diversa. È chiaro che è molto più
piacevole vergognarsi dell’Europa che della
Polonia; E meglio ancora è vergognarsi
dell’umanità intera! Ma io mi vergogno per
la Polonia. Perché ritengo che questo governo distrugge, rovina, non solo la Polonia,
ma anche l’Europa. Ovviamente, certo,
l’Europa ha dei problemi. Ai nostri occhi
l’Europa si sta colorando di un marrone,
quello delle camicie brune. Brexit, Marine
le Pen, Lega nord, l’Afd in Germania, però
abbiamo qualcosa di meglio? La nostra Europa è la nostra diletta, la beneamata, però
la nostra diletta si è innamorata di qualcun
altro! O la abbandoniamo, oppure le proviamo che valiamo di più di quegli altri! Io ritengo che la democrazia vale di più per
l’Europa che lo sciovinismo e la xenofobia.
E l’Europa tornerà a noi! Io ci devo credere.
d’Europa
La mia biografia non mi permette di essere
pessimista.
Poi sai, i pessimisti, in Polonia, sono molti
popolari, perché in genere hanno ragione.
Però sono noiosi. E poco interessanti per le
donne. L’ottimista, l’originale, invece, desta
curiosità. Ecco perché sono ottimista!
Dal pubblico. La mia impressione è che non
si racconti alle nuove generazioni cosa veramente era il comunismo in Polonia, negli
anni Sessanta, Settanta, per la vita quotidiana. Il terrore che c’era.
Michnik. Innanzitutto bisogna dire la verità. È vero che c’erano i sentieri della salute, c’erano le perquisizioni di notte, ma il
terrore era negli anni dell’epoca stalinista,
non negli anni Sessanta. E non quando eravamo in prigione noi. La differenza fondamentale consiste in questo: che negli anni
staliniani, dalla prigione non si usciva più.
Mentre noi, sì, ci passavamo qualche annetto ma poi uscivamo. Poi magari ci rinchiudevano di nuovo, ma poi uscivamo. Era
già un totalitarismo con qualche dente
mancante. Non era un socialismo dal volto
umano, ma un totalitarismo un po’ sdentato. Io non sono gentile nei confronti dei comunisti. Quando scrivevo delle lettere dalla
prigione dicevo che erano dei porci e dei dittatori. Però ho sempre visto la differenza
tra il regime che mi ha fatto soffrire in quegli anni e il regime stalinista. Così come
ogni ragionevole storico italiano vede bene
la differenza tra Mussolini e Hitler.
Dal pubblico. Vorrei un suo parere su Radio Maria...
Michnik. Credo che bisogna avere molta
crudeltà nel cuore per prendere sul serio
Radio Maria. Perché è veramente un horror. È un emittente che non parla il linguaggio del Vangelo, ma un linguaggio da
trogloditi. Antisemita, populista, antidemocratico…
Dal pubblico. Ci può dire qualcosa dei rapporti tra Polonia e Ucraina?
Michnik. Io in Polonia passo per filoucraino
e in Ucraina invece sono proprio una vacca
sacra. Ritengo che il dovere di un polacco
sia sostenere e aiutare la democrazia ucraina. Io ci sono andato molte volte, ho molti
amici lì, ovviamente c’è un problema che riguarda le relazioni fra questi due paesi, fra
questi due popoli, durante la Seconda guerra mondiale. In Polonia non capiscono come
è nato e cresciuto in Ucraina il culto di Stepan Bandera. I polacchi vedono Bandera
soltanto come simbolo del massacro della
popolazione polacca in Volinia. Invece per
gli ucraini Bandera è simbolo della resistenza antisovietica, e finché i polacchi non
lo capiranno il problema rimarrà. I polacchi
non vogliono sentire parlare del fatto che
lui era stato prigioniero a Sachsenhausen.
C’è un nazionalismo polacco molto cieco.
Ma un nazionalismo altrettanto cieco lo riscontriamo anche dall’altra parte, cioè in
Ucraina. Tuttavia io preferisco parlare del
nazionalismo del mio paese, e la critica del
nazionalismo ucraino la lascio ai miei colleghi, ai miei compagni ucraini. Molti anni fa
ho chiesto a uno dei miei amici russi, un
grande scrittore: “Andrei, dov’era la differenza tra te e Solzenicyn?”, e lui: “La differenza sta in una cosa sola. A me mi puzza la
merda mia, e a lui gli puzza la merda mia!”.
Io ritengo che il mio dovere è fare i conti con
la merda polacca, non con quella ucraina.
Quella ucraina la lascio agli ucraini.
la storia può essere un bastone
che aiuta a camminare
o un bastone per dare mazzate
sulla testa dell’avversario politico
Dal pubblico. Può spiegare chi era Bandera?
Michnik. Prima della guerra era un grande
leader del movimento nazionalista ucraino,
che però era attivo principalmente nel territorio polacco, ex polacco, parliamo di
quando la Polonia “aveva” una parte dell’Ucraina. Dal punto di vista ucraino, ora
metto gli occhiali ucraini: gli ucraini nella
Polonia prebellica si sentivano come cittadini di terza categoria. Non avevano pari
diritti nell’istruzione, nelle università, e le
loro istituzioni venivano regolarmente discriminate. Quindi si è creato un campo,
una frazione nazionalista, che diceva: “Fare
trattative con i polacchi non porta a nulla,
bisogna usare violenza”. E hanno cominciato a sparare. Sia agli ucraini che volevano
trovare un’intesa con i polacchi come ai
rappresentanti del potere del regime polacco. Ovviamente ai polacchi non piaceva
molto. E quindi Bandera è un’icona del fascismo ucraino. Ma il dramma ucraino stava nel fatto che il loro unico alleato possibile erano i tedeschi e invece i tedeschi avevano come duce Hitler. In questo fatto vedo
la tragedia ucraina. E secondo me andrebbero aiutati a uscirne. E quindi spiego ai
polacchi che ognuno, ogni popolo, ogni nazione ha la sua storia. Nella più grande
piazza di Varsavia al centro c’è la statua di
Roman Dmowski che era l’ideologo nazionalista della democrazia nazionale e dell’antisemitismo polacco. Questo vuol dire
che tutti i polacchi sono antisemiti? Ma
Dmowski oltre al fatto che era antisemita,
ha svolto anche un ruolo fondamentale nella storia polacca durante il trattato di Varsavia. Abbiamo quindi una storia complessa, noi polacchi, e gli ucraini pure! Il passato non lo possiamo mutare, non possiamo
renderlo migliore. Invece il futuro sì! Ma
certo non con Kaczynski!
Dal pubblico. Può dare un giudizio su Jaruzelski?
Bah! Io sono stato prigioniero di Jaruzelski.
E poi, dopo la trasformazione del paese siamo diventati dei buoni conoscenti. Ci siamo
incontrati più volte, ho parlato con lui spesso. Io credo che Jaruzelski nel ’45-46, quindi nell’immediato dopoguerra, fosse giunto
alla conclusione che l’unica forma politica
che la Polonia poteva avere, che era possibile in quel periodo, era quella di una Polonia pro-sovietica. È andato nell’esercito, seguendo un ragionamento che diceva: qualsiasi cosa accada, dell’esercito la Polonia
avrà sempre bisogno. Però far parte di un
esercito comunista, ovviamente, non era
una passeggiata sul corso, voleva dire condividere tutte le schifezze comuniste e pagarne le conseguenze. Credo che il suo rapporto, il suo atteggiamento nei confronti
della Russia fosse questo: noi abbiamo bisogno della Russia perché garantisce i nostri
confini occidentali, ma se cominciamo a ribellarci avremo a Varsavia Budapest o Praga, cioè le truppe del patto di Varsavia.
Quindi aveva la consapevolezza che bisognava collaborare con i russi ma aveva anche la consapevolezza che andassero temuti. Nell’89, quando ha visto che l’Urss di
Gorbaciov stava allargando i margini delle
possibilità di certe autonomie, lui ha subito
sfruttato il momento. Senza Jaruzelski non
saremmo usciti in un modo così pacifico dal
comunismo. La Polonia è stata la prima, gli
altri sono arrivati dopo. Quindi quello della
tavola rotonda con gli accordi dell’89 è un
successo comune, che condividiamo, non solo di Walesa, ma di Walesa e Jaruselski. E
sono felice di aver contribuito in parte a
questa cosa.
Poi più volte mi è successo di difendere Jaruzelski, perché ritenevo che fosse una cosa
scandalosa firmare un accordo con qualcuno
durante la tavola rotonda, e poi, dopo, metterlo sul banco degli accusati. Ovviamente,
invece, l’estrema desta polacca ha fatto di
Jaruzelski un bersaglio. Durante il suo funerale ci sono stati degli episodi molto tristi,
con fischi e aggressioni. Ho trovato quel
comportamento obbrobrioso, indegno.
Dal pubblico. La storia spesso è raccontata
per screditare gli avversari politici…
Michnik. Beh, certo. La storia può esser un
bastone che aiuta a muoversi, a camminare, e può invece essere un bastone da baseball per dare mazzate sulla testa dell’avversario politico. Questo uso politico della storia è noto sia nella storiografia nazista che
nella storiografia bolscevica e comunista.
Proprio per questo gli storici sono portatori
di una responsabilità tutta particolare.
Hanno il dovere di difendere la verità. Non
sempre sanno scoprirla, svelarla, ma sempre possono e devono evitare la menzogna
consapevole. Un grande poeta polacco, Antoni Słonimski, per il quale ho lavorato e
che chiamavo capo, mi dava un consiglio
che va bene anche per gli storici. Mi diceva:
“Adam, se in qualche situazione non avrai
tutte le informazioni di cui hai bisogno, non
avrai la chiarezza assoluta, non saprai tutto, e non saprai come comportarti, vista la
situazione, allora, per ogni evenienza, comportati come un uomo dabbene”.
(traduzione di Ludmila Ryba)
una città
7
hearth and mind
La nostra Hillary
Con l’implosione della campagna presidenziale di Donald Trump non sono necessarie
lunghe argomentazioni circa la scelta tra Hillary Clinton e il suo avversario proto-fascista.
Lei è una spietata politica neo-liberal di grande eleganza e raffinatezza mentre Trump è
un bullo, un bugiardo e una minaccia per le
tradizioni democratiche americane. Hillary è
un’erudita ed è sempre ben preparata, Trump
invece è inaffidabile e risponde a istinto, senza pensare. Hillary ha servito il suo paese come First Lady, come Senatrice e come Segretario di Stato. Trump è un imbonitore nato
e vissuto con la pappa pronta, che ha dichiarato bancarotta sei volte, ha ingannato i piccoli investitori, è a favore del diritto a portare
armi senza restrizioni, della deregulation e ha
tradito Atlantic City. La scelta del giudice della
Corte suprema da parte di Hillary permetterà
senz’altro di sostenere la parità negli stipendi
tra uomo e donna, il diritto di scelta delle donne, le libertà civili e permetterà un attacco a
Citizen United (la sentenza che permette il finanziamento illimitato da parte di privati e società private ai partiti). L’amministrazione Hillary darà fondi a Planned parenthood, limiterà
la vendita di armi, e inserirà un po’ di civiltà in
un ambiente polarizzato. C’è anche un’importanza simbolica nell’eleggere una donna per
la carica più alta in particolare quando un
sessista senza ritegno rappresenterà i peggiori elementi del sistema di governo americano all’indomani dell’elezione. Anche solo
queste differenze sono sufficienti a fornire
una valida ragione a chiunque sia razionale
per votare Hillary.
Non ci sono dubbi: la sfida alle primarie tra
Hillary Clinton e Bernie Sanders era truccata.
L’ex dirigente in capo Debbie Wasserman
Schultz e il Democratic National Committee
non erano imparziali. Hillary è stata anche
aiutata da grandi media liberal di importanza
come la Cnn e Msnbc e dai commentatori
progressisti che, ora pieni di indignazione,
adulavano Wasserman Schultz nei suoi apparentemente infiniti interventi come ospite.
Aggiungeteci la disparità tra i contributi finanziari da parte dei donatori “d’élite” e i più di
400 delegati che hanno appoggiato Hillary
ancora prima di cominciare le primarie e capirete che era come se Bernie avesse dovuto
vincere una partita di baseball già in svantaggio 6-0 ancora prima che venisse lanciata la
prima palla. Sin dall’inizio Hillary ha beneficiato delle tattiche organizzative anti-democratiche e dello squilibrio strutturale di influenza e
di potere che hanno favorito il candidato principale del partito Democratico.
La maggior parte dei progressisti sa bene che
le elezioni sono sempre una scelta tra “il minore dei due mali”. Ma rimangono abbastanza sostenitori di Bernie arrabbiati, depressi
per la sua sconfitta, che sembrano non voler
sporcare i loro principi radicali anche se il loro
rifiuto di votare può solo dare forza a qualsiasi residua legittimazione Trump e la sua “destra alternativa” possano avere. Cosa farà
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una città
di Stephen Eric Bronner
Hillary se vincerà? Rappresenta l’ala di destra dell’amministrazione Obama che ha sostenuto i trattati di libero scambio internazionale come il Nafta (North American Free Trade Agreement) e il Tpp (Trans-Pacific Partnership). Non ci sono ragioni per pensare
che cambi marcia. Guadagnare un vantaggio
competitivo sul mercato libero internazionale
significa abbassare il costo della manodopera
e ridurre i programmi di welfare. Hillary ha fatto diverse concessioni ai sostenitori di Bernie
e ha stilato con lui il programma di partito. Ma
il sospetto è fondato. Dopo tutto, quando era
presidente, Bill Clinton dichiarò che avrebbe
“eliminato il welfare per come lo conosciamo”.
Hillary viene legittimamente rappresentata
come un “falco liberal”. L’ossessione per le
sue e-mail mentre era Segretario di Stato o
gli attacchi oltraggiosi sul suo ruolo nel fallimento di Bengasi distraggono da cose ben
più importanti. Hillary è acritica nei confronti
della Nato e non sembra aver imparato nulla
dalla guerra in Iraq e dal suo “errore” nel sostenerla. L’impegno di Hillary per un cambio
di regime in Libia ha portato alla disintegrazione di uno stato sovrano, a conflitti ancora
in atto tra tribù guerriere, alla diffusione degli
estremisti fuori dal confine e all’aumento dell’instabilità regionale. Ha chiesto un aumento
dei bombardamenti a supporto della divisa ed
inefficace opposizione Siriana, di aumentare
a presenza militare americana in Iraq e sostiene una “no fly zone” che non può funzionare (e potenzialmente esplosiva). La sua posizione nei confronti di Israele è certamente
meno critica di quella del Presidente Obama.
Sì certo, ha sostenuto e protetto i diritti umani.
Ma questo non deve trarre in inganno: i diritti
umani servono principalmente ai falchi liberal
come copertura per le loro strategie interventiste. Gli entusiasti di Hillary in particolare dovrebbero informarsi sul lato oscuro delle sue
politiche piuttosto che proteggerla dogmaticamente dalle critiche.
Il presidente Obama ha colto nel segno nel
suo discorso alla convention prendendo di
mira Trump con la frase: “Non fischiatelo! Votate!”. Ma dovremmo sapere a cosa ci stiamo
avviando. E la nostra posizione dovrà cambiare il giorno dopo le elezioni. Quelli che non
sono seguaci entusiastici del partito Democratico si troveranno senz’altro estraniati.
Presto riconosceranno la necessità di scendere in strada e protestare. Non meno del
marito, Hillary tende ad utilizzare una strategia di “triangolazione” che mira a quello che i
liberali hanno chiamato “il centro vitale”. La
strategia funziona così: Trump è contrario
all’aumento dello stipendio minimo; Bernie
Sanders propone di portarlo a 15$ l’ora; e poi
c’è Hillary che mira ai 12$ dollari per ora. I
Repubblicani non hanno molto da dire sull’argomento del debito degli studenti; Bernie porta avanti una battaglia per un’educazione libera nelle università pubbliche; e Hillary propone una educazione “senza debiti”. Hillary
ha trasformato il compromesso in un principio
e concettualmente rinuncia alla strategia per
la tattica. Nel corso dei quattro anni, la volontà di Hillary a sostenere proposte radicali dipenderà molto meno dal fatto di essere una
persona di valore o una femminista quanto
piuttosto da quanta pressione sapranno esercitare i movimenti sociali e non-governativi
per farle fare le riforme.
I movimenti americani nascono quando i Democratici sono al governo. Fioriscono più facilmente con amministrazioni liberal piuttosto
che con amministrazioni dichiaratamente di
destra. Questo si è verificato anche con il
Presidente Obama. Le marce di solidarietà
agli immigrati hanno avuto un importante impatto politico. Così come è stato per Occupy
Wall Street, e per Livable Wage e Black Lives
Matter. Visto che lei rappresenta l’ala destra
dell’amministrazione Obama e ha meno debiti di riconoscenza con la parte più di sinistra
del partito, Hillary sarà probabilmente più difficile da influenzare. Ma questo è solo un motivo ulteriore per sostenere gli insorti di Bernie
nel loro tentativo di creare una struttura organizzativa “Our Revolution” (www.ourrevolution.com). Forse potrebbe funzionare come il
Poor People Movement della fine degli anni
Sessanta con un piede dentro e un piede fuori dal Partito Democratico. Forse invece prenderà una strada completamente diversa.
Il tempo ci dirà se “our revolution” saprà sostenersi. Bernie è rimasto relativamente tranquillo nel corso della campagna presidenziale
e si è attenuto ai suoi temi più classici. C’è un
po’ l’idea che il movimento sia in attesa. Ma
ha portato centinaia di migliaia di persone
dentro il processo politico e ha dato al Partito
Democratico la piattaforma più radicale della
sua storia. Chi avrebbe pensato che “Feel the
Bern” fosse una cosa possibile? Per decenni
ci è stato detto che usare l’etichetta di socialista e parlare di classi era un suicidio politico
Come sempre i “pragmatici” non solo avevano torto ma erano anche lontani dalla realtà.
Tredici milioni di persone sono state ispirate
da un messaggio diverso e radicale. Quando
sono cominciate le primarie presidenziali, argomenti come le tasse universitarie gratuite
nelle università pubbliche, la riduzione del potere della banche, l’assicurazione sanitaria
pubblica, lo stipendio minimo a 15$ e un diverso sistema di tassazione, erano considerati dai media principali come “inapplicabili”,
“insostenibili” e “utopistici”. Non più. Le concessioni ai ribelli sono già state fatte dall’establishment democratico e, dopo la vittoria di
Hillary, i radicali dovranno tenere alta la pressione. Naturalmente, può sempre succedere
qualcosa di drammatico che cambi gli obiettivi (non ultimo, un improbabile trionfo di
Trump). I Repubblicani saranno a pezzi ma è
sciocco credere che la destra alternativa
scomparirà. Esiste un solo modo di porsi dal
punto di vista politico che abbia un senso per
i progressisti nei confronti del Partito Democratico: solidarietà critica.
(traduzione a cura di Andrea Furlanetto)
discussioni
IL REFERENDUM
RAGIONI DI MERITO
PER UN NO
di Marco Boato
A seguire le interviste
a Lorenza Carlassare, per il no,
e a Michele Salvati, per il sì.
Personalmente ritengo sbagliato e inaccettabile che il referendum sulla riforma costituzionale, previsto ormai per il prossimo 4
dicembre 2016, venga tramutato in una sorta di plebiscito a favore o contro il Presidente del consiglio Renzi e il suo Governo. Qualunque sia il giudizio che si abbia nei confronti del Governo Renzi -che può essere positivo o negativo o anche articolato rispetto
ai singoli provvedimenti del suo programma- nel referendum deve prevalere esclusivamente il giudizio sull’insieme della riforma costituzionale. Intendo quindi esprimermi soltanto sulla materia costituzionale, e
sulla connessa (anche se non sottoposta a
referendum) legge elettorale per la Camera
dei deputati (il cosiddetto “Italicum”), che
ne costituisce il logico completamento.
Una riforma costituzionale non deve mai essere legata alle sorti di alcun Governo “pro
tempore”, perché la Costituzione, anche se
riformabile e riformata (alle riforme precedenti ho partecipato io stesso), è la legge
fondamentale che riguarda tutti i cittadini
e anche tutte le forze politiche, a prescindere dalle transeunti maggioranze che sostengono di volta in volta uno specifico governo.
E deve avere la capacità e possibilità di una
lunga durata e validità, al di là delle singole
contingenze politiche. Il popolo sovrano si è
già pronunciato due volte con un referendum su complesse riforme costituzionali: la
prima volta nel 2001 approvando la riforma
del Titolo V del centrosinistra (che ora invece si vuole stravolgere) e la seconda nel
2006, bocciando la riforma Berlusconi-Calderoli. Nessuna ripercussione sui governi.
Per quanto riguarda la riforma elettorale,
entrata in vigore il 1° luglio 2016, essa è
strettamente connessa alla riforma costituzionale, pur se attualmente non sottoposta
a referendum, mentre successivamente sarà sottoposta al giudizio della Corte costituzionale, anche alla luce della sentenza n. 1
del 2014 sulla incostituzionalità di alcuni
aspetti essenziali della precedente legge
elettorale (il cosiddetto “Porcellum”). Penso
che si tratti di una legge inaccettabile sotto
diversi profili. In particolare ritengo sbagliato: 1) che il premio di maggioranza possa essere dato anche a chi non ha raggiunto
il 50% dei voti espressi, che permetterà di
ottenere il premio di maggioranza anche
sulla base del consenso di una ristretta minoranza di elettori (nell’attuale sistema triuna città
9
discussioni
polare e con i crescenti tassi di assenteismo, potrebbe realisticamente trattarsi
anche solo del 20-25% degli aventi diritto
al voto); 2) che sia esclusa la possibilità di
formare coalizioni, come invece è previsto
sia per le elezioni regionali che per le elezioni comunali, senza che questo abbia
comportato problemi di governabilità,
permettendo anzi una più ampia rappresentatività e un più ampio pluralismo sia
tra le forze di governo che tra quelle di
opposizione; 3) che siano previsti i capilista bloccati decisi dalle segreterie dei
partiti, senza possibilità per gli elettori di
esprimere su di loro il voto di preferenza,
e che per di più sia prevista per i capilista
la possibilità di candidature plurime (fino
a dieci!), mettendo in questo modo esclusivamente nelle mani dei segretari di ciascun partito la scelta verticistica e autocratica degli eletti, espropriando gli elettori di ogni possibilità di scelta e ritornando a realizzare conseguentemente
una Camera dei deputati in grande prevalenza di “nominati” e non di eletti; 4)
che tutto questo comporti di fatto una
modificazione surrettizia della forma di
Governo, espropriando sostanzialmente
il Presidente della Repubblica del potere
effettivo di nominare il Presidente del
Consiglio incaricato, come previsto dalla
Costituzione, arrivando invece ad una
sorta di “democrazia di investitura” obbligata sulla base dei risultati elettorali.
Per quanto riguarda la riforma costituzionale, un giudizio analitico può far
emergere sia luci che ombre, ma complessivamente si tratta di una riforma non
condivisibile per il suo impianto complessivo. Tra gli aspetti positivi possono essere citati, ad esempio, la più rigorosa disciplina della decretazione d’urgenza (inflazionata in modo crescente anno dopo anno e ormai giunta, proprio con Renzi, a livelli inaccettabili) e la soppressione del
Cnel, organismo ormai totalmente obsoleto. Tuttavia entrambi gli obiettivi
avrebbero potuto essere raggiunti con
singole leggi costituzionali “ad hoc”, nella
logica dell’art. 138, che avrebbero realisticamente trovato il consenso della quasi
totalità del Parlamento. E comunque, in
caso di vittoria dei No nel referendum,
potranno essere realizzati nel prossimo
futuro appunto con singoli provvedimenti
di natura costituzionale, anche nell’ambito temporale dell’attuale legislatura.
Tuttavia le ombre e gli aspetti critici della riforma prevalgono nettamente sui pochi aspetti positivi. Il superamento del bicameralismo perfetto o paritario, obiettivo pur condivisibile, è stato realizzato in
modo confuso e pasticciato, sotto il profilo
sia della composizione del futuro Senato,
sia delle sue competenze legislative e del
suo rapporto con la Camera dei deputati
10
una città
e con il Governo. Appaiono inaccettabili e
contradditorie tanto le modalità di elezione indiretta, del resto demandate ad una
futura legge ordinaria di cui non si conoscono le caratteristiche, quanto la sua
ambigua natura politica, priva di effettiva rappresentanza territoriale.
Per quanto riguarda l’altro fondamentale
aspetto della riforma, e cioè la modifica
del Titolo V in materia di autonomie regionali, anziché individuare alcune limitate e specifiche correzioni rispetto alla
riforma introdotta nel 2001 e confermata
dal referendum popolare -ad esempio in
materia di infrastrutture nazionali, di
energia e di turismo-, si è scelta la strada
di un totale stravolgimento dell’impianto
precedente. Anziché arrivare ad una forma di federalismo o di regionalismo ben
articolato ed equilibrato, si è arrivati ad
una vera “controriforma” con una fortissima ricentralizzazione dei poteri in capo
allo Stato, svuotando di poteri, competenze e responsabilità il sistema delle Regio-
leggere l’incredibile nuovo art.70), le ripercussioni negative sul sistema delle garanzie costituzionali e dei “pesi e contrappesi”. Garanzie che dovrebbero sempre
caratterizzare una autentica democrazia
politica e costituzionale, quali erano state
delineate dal disegno dei padri (e madri)
costituenti nella Costituzione vigente.
Qualche settimana fa Renzi ha sentenziato: “In questo referendum si tratta di
ridurre le poltrone. Punto!”. Sinceramente mi sono vergognato per lui e anche per
i cittadini italiani che sono invitati a votare con questa demagogia.
Per tutti questi motivi, ritengo necessario
sostenere il No nel referendum costituzionale. D’altra parte, il Presidente del
consiglio Renzi, e con lui la Ministra Boschi, sbagliano radicalmente nel mettere
sullo stesso piano l’esito del referendum
e le sorti del Governo. Se il Governo dovesse dimettersi, sarebbe per sua autonoma e discutibile scelta, non per la volontà
degli elettori, che sono chiamati a pro-
ni a Statuto ordinario, congelando invece
gli effetti della riforma stessa per quanto
riguarda le cinque Regioni a Statuto speciale. Inoltre la riforma costituzionale triplica le firme necessarie per le leggi di
iniziativa popolare e riduce il quorum di
validità per i referendum popolari solo a
prezzo di un forte aumento (da 500.000 a
800.000) delle firme necessarie per la loro
promozione, a fronte delle enormi difficoltà per la certificazione delle firme dei cittadini.
Complessivamente, il combinato disposto
della riforma costituzionale e della complementare legge elettorale darebbe vita
ad un assetto costituzionale e istituzionale fortemente squilibrato sul lato della
presunta “governabilità”, a scapito della
altrettanto essenziale -e fondamentale in
democrazia- rappresentatività. Non sarà
la campagna demagogica e populista sui
costi della politica a poter strumentalmente coprire gli squilibri politici e istituzionali, il surrettizio cambiamento della forma di Stato e della forma di Governo, le incoerenze e le numerose complicazioni del procedimento legislativo (basti
nunciarsi sul merito della riforma costituzionale e non sulla ipotizzata sconfitta
del Governo. In ogni caso, se per propria
decisione cadesse il Governo Renzi, non
ci sarà alcun obbligo o automatismo di
scioglimento delle Camere, essendo questa una esclusiva responsabilità del Presidente della Repubblica. Il quale, per
dettato costituzionale, dovrà eventualmente o rinviare l’attuale Governo alle
Camere o, dopo opportune consultazioni
parlamentari, individuare un altro Presidente del consiglio. Se prevarranno i No,
è falso inoltre affermare che si chiuderà
il capitolo delle riforme. Un capitolo che
si potrà invece tempestivamente riaprire
già in questa legislatura, sia per quanto
riguarda le leggi elettorali per la Camera
e il Senato, sia con singole modifiche costituzionali per le parti più largamente
condivise. E, nella prossima legislatura,
con un Parlamento più democraticamente legittimato rispetto a quello espresso
dal “Porcellum”, con la capacità di elaborare una riforma più equilibrata, più condivisa e più largamente partecipata.
discussioni
NON HA SENSO?
O, PURTROPPO, LO HA
Il combinato riforma costituzionale-legge elettorale teso ad accentrare il potere sull’esecutivo e a
rendere manipolabili gli organi di garanzia; un senato che non si sa cosa rappresenterà, nominato
per ripartizione partitica, ma che avrà funzioni molto importanti; una legge elettorale che vuol far
diventare maggioranza chi non lo è e che permetterà l’elezione diretta del capo del governo;
l’esempio della legge truffa del ’53, niente in confronto a questa. Intervista a Lorenza Carlassare.
Lorenza Carlassare, giurista e costituzionalista, è professoressa emerita di diritto costituzionale all'Università degli Studi di Padova, dove vive.
Per molti di coloro che si battono per
il no la riforma costituzionale insieme
alla riforma elettorale fa parte di un
unico disegno. Lei cosa pensa?
Certamente sono due cose intrecciate. Tempo fa avevo scritto che il primo, reale obiettivo era la riforma elettorale, tant’è vero
che l’hanno voluta approvare per prima
perché altrimenti la riforma costituzionale
non avrebbe realizzato lo stesso effetto che
i suoi proponenti volevano ottenere. È l’intreccio delle due che rivela una filosofia
complessiva molto semplice: restringere la
sfera di partecipazione. Da molti anni si
cerca di verticalizzare il potere e di togliere
dalla scena istituzionale le voci minoritarie
e quelle che esprimono i bisogni sociali che
costano. Non si vuole che queste domande
sociali riescano ad arrivare alle istituzioni,
che possano avere voce e trovare ascolto
sottraendo risorse agli interessi consolidati.
Proprio a questo serve un sistema elettorale che artificialmente, attraverso il premio,
trasformi in maggioranza assoluta una forza politica, la quale, posta in posizione dominante, renda ininfluenti tutte le altre,
soffocando la molteplicità delle voci. La controversia tra la Fiat e la Fiom, dove si è tolta perfino la rappresentanza in fabbrica a
una delle più importanti associazioni sindacali è un esempio chiaro! Per fortuna la
Fiom ha fatto ricorso alla Corte costituzionale che ha dichiarato illegittima quell’esclusione. Mi chiedo: se in Parlamento ci
fosse stata una voce che si fosse levata a difesa di questi operai così vilipesi in una Repubblica che per Costituzione, ricordiamolo,
dovrebbe essere fondata sul lavoro (art.1),
forse anche la dirigenza Marchionne non
avrebbe avuto il coraggio di spingersi così
avanti. La verità è che nessuno li ha difesi:
in Parlamento quegli interessi erano privi
di rappresentanza!
Il disegno è togliere rappresentanza agli interessi che confliggono con quelli consolidati, interessi complessi più o meno identifi-
cabili da sempre tutelati, che certamente
non sono gli interessi della maggioranza
delle persone.
Ma perché la riforma del bicameralismo andrebbe in questo senso?
Perché il Senato sarebbe una camera sottratta al voto popolare, del tutto manipolabile. Nel disegno che vedo io, il senso dell’operazione si capisce benissimo; altrimenti, qualcuno mi sa dire cosa sarà questo Senato? Chi rappresenta? Nel testo della Riforma è scritto che i senatori rappresentano
le istituzioni territoriali, ma è un falso. Non
rappresentano i cittadini di quei territori,
dai quali non sono eletti. Come sono eletti?
Vengono scelti dai consiglieri regionali al
loro interno, dai consiglieri che si votano fra
loro. Dato il numero esiguo di senatori da
eleggere in ciascuna Regione (in alcune Regioni saranno solo due) si capisce quale sarà il criterio con cui si eleggeranno: un criterio di ripartizione politica. Oltre ai consiglieri regionali, nel nuovo Senato ci sono
anche i sindaci. Al che ci si potrebbe rallegrare: ci sono i sindaci, uno per regione, che
bellezza, sono rappresentati anche i comuni! No! Perché non solo questi sindaci non
sono eletti dai comuni, né dal popolo dei comuni, ma sempre dai consiglieri regionali.
A che titolo?
si riprodurrà quindi la logica
partitica, con una piccola camera
formata da persone fidate perché
scelte dalle segreterie dei partiti
Quindi il tutto ha anche dei caratteri irrazionali. Ancora più irrazionale il fatto che
se rappresentano le istituzioni territoriali,
dovrebbero portare in Senato la voce di queste istituzioni, la voce dei vari territori, invece è scritto espressamente nella riforma
che anche i senatori eserciteranno le loro
funzioni senza vincolo di mandato così come i deputati. Ma questi rappresentano la
nazione intera, non delle frazioni come invece i senatori i quali, se rappresentano le
istituzioni territoriali dovrebbero parlare
con una voce sola, a nome dell’istituzione
regionale. Invece no, rimane loro evidentemente libertà di voto. Si riprodurrà quindi
la logica partitica, avremo una piccola ca-
mera formata da persone fidate perché scelte dalle segreterie dei partiti e a queste,
non agli elettori o ai Consigli regionali, i
nuovi senatori risponderanno.
Ecco allora che il disegno diventa più chiaro: è un disegno di verticalizzazione, di soffocamento delle voci, di manipolazione degli
organi costituzionali, in modo da poterli
controllare.
Ma questo senato avrà poi funzioni
molto importanti?
Sì, infatti. A un senato così mal costruito
hanno attribuito funzioni molto importanti,
mentre continuano a dire che il senato farebbe molto poco, e dunque ha poca importanza discutere di come viene eletto. Importa moltissimo invece, perché ha molte importanti funzioni costituzionali. Intanto
può intervenire su qualunque legge; ogni
legge approvata dalla Camera dev’essere
portata al Senato, che può non fare niente,
tacere, e allora la legge va, ma può anche
proporre modifiche, e allora la legge torna
alla Camera e si prevedono una varietà di
percorsi, basta leggere due articoli, l’art. 70
e il 72 ( che contiene, fra l’altro vari rinvii
ad altri articoli, il che lo rende ancor meno
chiaro): alcune volte il testo rinviato dovrà
essere riapprovato dalla Camera addirittura con maggioranza assoluta, altre volte, invece, dal Senato: una complicazione a dir
poco incredibile. Va sottolineato che alcune
materie restano di competenza di entrambe
le camere, così come ora: continua il bicameralismo paritario per le leggi di revisione
della Costituzione, per le leggi in materia di
referendum, sull’elezione degli stessi consiglieri regionali, oltre a leggi che riguardano
i rapporti con l’Unione Europea. Ci si rende
ben conto dell’importanza della cosa, perché
oggi quelle sono norme fondamentali. E su
queste avranno voce i senatori nominati in
quel modo.
Quindi, lei dice, aumenterà molto anche la complicazione…
Di certo non è una semplificazione. Prenda
il caso che una legge non tratti una materia
sola, ma due, una delle quali di competenza
pure del Senato. Allora in quei casi, cosa si
fa? Potranno sorgere conflitti fra le due camere, con il Senato che rivendicherà il di-
una città
11
discussioni
ritto di dire la sua, oppure invocherà l’obbligo di un’approvazione a maggioranza assoluta. Attenzione, non è un’eventualità immaginaria: è la stessa riforma a prevedere
il sorgere di conflitti fra le due camere. E
cosa propone? Che a risolverli siano i due
presidenti “d’accordo fra loro”. Il che apre
un bel problemino nel caso in cui l’accordo
fra i due non ci sia. Cosa si fa? Si va alla
Corte costituzionale? Ci rendiamo conto di
cosa può succedere nel corso del procedimento? E parliamo di semplificazione?
Piuttosto sembra un grande pasticcio!
C’è poi un altro interrogativo: chi sarà in
maggioranza in un simile senato? Potrebbero essere i senatori della lista che ha la
maggioranza nella maggior parte delle regioni, e quindi potrebbe risultare un senato
molto omogeneo alla maggioranza parlamentare: di nuovo un doppione inutile.
Mettiamo, però, che il Senato risulti diverso, allora i conflitti diventerebbero drammatici e paralizzanti. Insomma, credo che
peggio di così non si potesse fare. Lo dicono
del resto gli stessi sostenitori del sì.
Quindi una riforma confusionaria. Ma
lei parla del rischio di manipolazione
degli organi di garanzia…
Certo. Hanno modificato l’elezione dei giudici della corte costituzionale, che oggi, come sappiamo, sono quindici: cinque eletti
dal parlamento in seduta comune, cinque
dalle supreme magistrature e cinque nominati dal Presidente della Repubblica che
dovrebbe essere super partes, quindi dovrebbe individuare persone competenti
senza tener conto delle appartenenze politiche. Adesso cosa si fa? I cinque che eleggeva il parlamento in seduta comune, saranno eletti separatamente: tre dalla Camera dei deputati composta da oltre seicento persone, e due dal Senato che conta cento
membri.
un senato nominato eleggerà
due membri della corte
che su quindici non sono pochi
e potranno essere decisivi
È evidente che si accentua il potere del senato; un senato nominato eleggerà due
membri della corte che su quindici non sono
pochi e potranno essere decisivi spostando
gli equilibri delicati esistenti al suo interno.
L’altro organo di garanzia toccato dalla riforma è il Presidente della Repubblica che,
come dicevo, dev’essere superpartes e, dunque, non dev’essere riconducibile ad alcuno;
la Costituzione prevede un procedimento di
elezione concepito in modo da svincolarlo da
ogni parte politica. La sua elezione avviene
a voto segreto perché nessuno sappia chi lo
ha votato; non si possono presentare candidature ufficiali; non c’è dibattito in Parlamento, si vota in silenzio senza dichiarazioni di voto. E soprattutto si richiedono maggioranze elevate affinché l’elezione sia an-
12
una città
che frutto di incontri e, alla fine, dopo diversi tentativi, si trovi una persona su cui i
parlamentari concordano: nelle prime tre
votazioni è necessaria una maggioranza di
due terzi dei componenti dell’assemblea
(Camera e Senato riuniti insieme), dalla
quarta è necessaria la maggioranza assoluta dei componenti ( 50+1 di tutti i parlamentari). Secondo i suoi sostenitori, con la
riforma si aumentano le garanzie perché
dopo la terza votazione viene richiesta non
più la maggioranza assoluta, ma i tre quinti
dei componenti, e, dopo la settima, i tre
quinti dei votanti: il che fa una bella differenza! Gli assenti, o coloro che non votano
per protesta non si contano. È una maggioranza molto bassa, altro che aumento delle
garanzie! Anche tenendo conto del numero
legale minimo di presenze richiesto per la
validità delle delibere, in definitiva basteranno poco più di duecento voti per eleggere
il Capo dello Stato.
Ma c’è qualcosa di positivo in mezzo a
questa marea di articoli?
Certo, ci sono anche delle norme del tutto
accettabili; ad esempio che la mozione di
sfiducia al governo parta solo dalla Camera
dei deputati e non anche dal Senato, una
cosa che trova tutti concordi. Ma bastava
una sola norma che lo dicesse. Vogliamo
abolire il Cnel? Bastava una sola norma per
abolirlo. Queste sono cose comprensibili,
ma è ridicolo che per non voler il bicameralismo paritario e introdurre una differenziazione fra le camere si debbano modificare oltre quaranta articoli cambiando il senso della Costituzione.
Si è detto anche che andiamo verso un
“premierato”...
La preminenza del governo c’è già nella riforma costituzionale: viene introdotta la
possibilità di intervenire sull’agenda parlamentare con la norma dell’approvazione a
data certa; poi con il ruolo del Presidente
della Repubblica che si indebolisce, diventando il presidente della maggioranza, è
chiaro che di converso la figura del Presidente del Consiglio diventa ancora più libera e potente. Già questo è chiaro, ma il vero
problema si sposta sulla legge elettorale,
perché è lì che noi vediamo il rischio autoritario. È davvero una legge pericolosa che
il governo ha voluto fermamente; ha messo
due volte la fiducia per farla approvare,
tanto la considerava essenziale! Si trattava
di sostituire la legge, giustamente chiamata
“Porcellum”, in base alla quale gli attuali
parlamentari sono stati eletti, che la Corte
costituzionale nel 2014 aveva annullato,
una legge che faceva comodo, tanto è vero
che la nuova legge elettorale -denominata
Italicum- sostanzialmente la riproduce.
Non dimentichiamo che la maggioranza che
ha consentito di votare quest’ultima legge è
stata eletta grazie a quel premio di maggioranza elargito da una legge che la Corte ha
dichiarato illegittima anche per il premio
per il quale non era prevista una soglia. Cosa hanno fatto allora? Nell’Italicum hanno
messo una soglia del 40%, per ottenere il
premio. Ma è una falsa soglia. Infatti, se
nessuno ottiene il 40%, le due liste più votate, con il nome del capo, vanno al ballottaggio, qualunque numero di voti abbiano
ottenuto. Non c’è una soglia per il ballottaggio. Anche se una lista avesse raggiunto il
21% e l’altra il 20% andrebbero al ballottaggio: una delle due vincerebbe per forza. Capisce che è illegittimo?
con l’indicazione del capolista,
che sarà poi il presidente
del consiglio, si cambia anche
la forma di governo
Con una percentuale così bassa, una minoranza -trasformata in maggioranza grazie
al premio- avrebbe il totale dominio delle
istituzioni. Va aggiunto che con l’indicazione del capolista, che sarà poi il presidente
del consiglio, si cambia anche la forma di
governo perché oggi è il Presidente della
Repubblica che sceglie il Presidente del
Consiglio, dopo aver consultato le forze politiche. Non solo, ma l’indicazione del “capo”
trasforma l’elezione della Camera nell’elezione del primo ministro, la riduce ad una
competizione a due, personalizzata, il che
rafforza il vincitore che potrà dire di essere
stato eletto direttamente dal popolo. Forte
di una simile legittimazione popolare chi lo
fermerà, non essendo rafforzati gli organi di
garanzia?
Non si sono aggiunte garanzie, anzi si tolgono. Si rinvia al regolamento della Camera lo statuto delle minoranze. Lo si rinvia
ad altre norme che potranno esserci oppure
no: il regolamento lo farà una camera eletta
con questa legge elettorale, quindi sarà la
maggioranza artificialmente prodotta dal
‘premio’ a fare lo statuto della minoranza.
Lei capisce che questo non ha senso?
O piuttosto, purtroppo lo ha.
Si dice che siamo a un passo dal presidenzialismo...
Ma non è così. Qualcuno parla del sistema
presidenziale degli Stati Uniti dimenticando che a fronte dei forti poteri del Presidente stanno i poteri del Congresso, non meno
forti e quelli della Magistratura indipendente. La separazione dei poteri, non l’accentramento, è la regola base di poteri che
si bilanciano e si limitano a vicenda. Il Congresso deve approvargli le spese e deve approvargli le leggi, altrimenti il Presidente è
paralizzato!
Quello è il presidenzialismo, cosa ben diversa dal sistema di concentrazione del potere
che esce dalle nostre riforme!
In America il presidente ha spesso le
mani legate.
Certo. Al nostro premier non ci sarebbe
nessuno che potrebbe legargliele.
Quindi il problema della soglia rimane,
anche per la Corte presumibilmente...
Infatti la Corte costituzionale certamente
l’Italicum l’avrebbe annullato. Adesso ha
rinviato il giudizio, non conosco esattamente le motivazioni, ma l’esito finale è sicuro:
anche in questa legge elettorale la rappresentanza è sacrificata alla governabilità, è
violato il principio di eguaglianza del voto,
manca la soglia di accesso al ballottaggio. Il
punto cruciale più delicato è quello, e val la
pena di ricordare due cose sul premio. La
prima volta che lo si è introdotto è stato con
Mussolini con la legge Acerbo del 1923, ed
è quello che ha consentito al fascismo di
prendere in mano tutto il potere e di sovvertire lo Statuto albertino, la Costituzione
liberale vigente dal 1848. Gli argomenti di
allora, addotti per far approvare la legge
dal Parlamento, erano gli stessi di oggi: la
velocità delle decisioni che il governo doveva assumere senza impacci, senza i contrasti e gli ostacoli delle opinioni diverse che
rallentavano l’azione del governo che non
doveva essere disturbata. E la votarono anche illustri personaggi dell’epoca, dicendo
che era l’unico modo per far funzionar il sistema parlamentare rappresentativo, per
conservarlo: dopo pochi mesi, hanno visto
cosa avevano conservato!
La seconda volta nella nostra storia che entra in ballo il premio è nel 1953, con una
legge, voluta da De Gasperi, che veniva
chiamata, lo voglio ricordare, legge truffa.
Ma in confronto a questa era niente. Le differenze sono due, fortissime: quella legge
stabiliva che il premio l’avrebbe preso la
coalizione che avesse raggiunto il 50%, il
che significa che si dava un premio a chi già
era maggioranza. È per questo che lo si
chiama premio di maggioranza; in parlamento sia De Gasperi che Moro insistettero
su questo punto: noi non facciamo diventare maggioranza chi non lo è, ma diamo un
premio a chi è già maggioranza per consentirgli di governare con maggiore facilità. È
un concetto molto diverso dal far diventare
maggioranza chi non lo è. Seconda cosa,
egualmente importante: in quella legge se
nessuno raggiungeva il 50% il premio non
si dava a nessuno, ognuno prendeva i seggi
a seconda dei voti che aveva avuto. E così
avvenne, perché la coalizione che aveva al
centro la Democrazia cristiana non raggiunse il 50%, il premio non scattò. La legge
fu poi abrogata.
Anche le modalità, per entrambe le riforme, sono state molto discutibili?
Direi che il modo in cui sono state approvata è stato orribile. Non mi dilungo ma sono
state approvate con delle forzature della
procedura parlamentare fortissime, continue, tagliando i tempi, bloccando i dibattiti,
con una serie di meccanismi tirati fino al
massimo che in un dibattito, in particolare
su una legge costituzionale, non sono ammissibili.
il problema più grave è
che le decisioni sono prese da
parlamentari che non conoscono
niente, neanche la Costituzione
La Costituzione, art.138, non vuole accelerazioni, ma riflessione, e ciò richiede tempi
lunghi. Infatti sono necessarie due delibere
di ciascuna Camera proprio per consentire
un pensiero meditato, una convinzione maturata dopo un dibattito serio e partecipato.
Se poi pensiamo che la riforma costituzionale è stata varata da un parlamento illegittimo, da una maggioranza artificiale che
è tale soltanto grazie al premio dichiarato
illegittimo, senza il quale la riforma non
sarebbe mai passata, il quadro è davvero
desolante.
Appare chiaro che sia una riforma totalmente da respingere.
Torniamo un attimo, per concludere, a
quelle che potremmo chiamare le parole chiave di questo periodo, velocità,
decisione…
Sì, la velocità. Abbiamo anche troppe leggi,
come è stato detto da tutti. Non è che ne
dobbiamo approvare ancora. Ci vorrebbe un
po’ più di riflessione sulle leggi che approviamo, perché le approvano in velocità e poi
si accorgono che sbagliano. Come adesso:
l’Italicum è sbagliato? Ma se l’hai appena
approvato! Non potevano pensarci meglio,
invece di andare veloci, forzando il dibattito
parlamentare? Democrazia vuol dire riflessione, ponderazione degli interessi in gioco
-necessariamente divergenti perché la realtà sociale è complessa e frammentata- sforzo per comporli fra loro mediando fra le diverse posizioni. Si chiama parlamento perché si parla. C’è una discussione. E questa
certamente rallenta i tempi. Ma allora cosa
facciamo? Facciamo prendere le decisioni a
uno solo? Ma allora siamo fuori dalla democrazia, entriamo in un diverso regime.
A parte poi che se vogliono le leggi le approvano con una velocità fulminea. Quando
c’era Berlusconi, tutte le leggi che servivano
al suo interesse sono state approvate in
men che non si dica: il falso in bilancio, l’abbreviazione dei termini di prescrizione dei
reati, la legge sulle rogatorie internazionale. Tutto in pochissimi giorni.
Al fondo, però, credo che il problema più
grave riguardi la cultura politica. Spesso le
decisioni sono assunte da parlamentari che
non conoscono niente, in primo luogo non
conoscono la Costituzione. Come si possono
fare leggi che devono essere in armonia con
la Costituzione se non la si conosce? Non conoscono la storia e spesso ignorano persino
la realtà in cui operano, il momento attuale,
i bisogni della società! Una volta i partiti
preparavano la futura classe politica, c’erano serie scuole di formazione. Adesso imbarcano nelle liste -accanto a politici seri
che per fortuna esistono ancora- anche persone impreparate che vedono la politica come mestiere e restano abbarbicati alla sedia non avendo sbocchi professionali migliori. Alla fine questo è il punto: le leggi non
sono pensate, non sono ragionate, sono fatte affrettatamente da persone poco competenti e senza riflessione. Insomma, la velocità col pensiero ha poco a che vedere.
Si cita spesso la complessità odierna. Ma
una realtà complessa non può prestarsi a
semplificazioni pericolose che alla fine portano a decisioni autoritarie perché assunte
senza contraddittorio efficace, senza tener
conto delle posizioni diverse e degli interessi sacrificati, imposte agli altri grazie alla
forza di numeri magari dovuti a premi illegittimi.
(a cura di Gianni Saporetti)
una città
13
discussioni
I TRENTA GLORIOSI
CHE NON TORNERANNO
Una riforma modesta, che non prevede le due cose che rafforzerebbero veramente l’esecutivo: la
sfiducia costruttiva e la possibilità del premier di sciogliere le camere, presenti nelle costituzioni
tedesca e spagnola; una globalizzazione devastante e una situazione economica senza precedenti
che impoverisce il ceto medio favorendo la crescita di movimenti populisti; il declino probabile
dell’Italia e un’esile speranza, legata all’esito positivo del referendum. Intervista a Michele Salvati.
Michele Salvati è un economista, politico e
politologo italiano, deputato dal 1996 al
2001 e primo teorizzatore del Partito democratico. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo
Tre pezzi facili sull’Italia. Democrazia, crisi
economica, Berlusconi (Il Mulino, 2011) e
Capitalismo, mercato e democrazia (Il Mulino, 2009).
Il combinato riforma costituzionale e
riforma elettorale ha suscitato tanti
sospetti. Lei cosa ne pensa?
Il punto dolente, dove c’è uno strappo, un
atto di fiducia eccessivo nel sistema politico
italiano, è quello della legge elettorale, non
quello della riforma costituzionale, che è
una cosa modesta, diciamolo molto francamente. Le modificazioni importanti che fa
questa riforma sono fondamentalmente
due: l’eliminazione del potere di fiducia del
senato e la sua trasformazione in camera
delle regioni, o delle autonomie, e in secondo luogo la modifica delle prerogative delle
regioni eliminando i casi di sovrapposizione
netta tra regioni e stato dovute alla riforma
del Titolo V, che assegnava poteri importanti alle regioni anche seguendo una moda
allora prevalente di andar dietro alla Lega.
Quindi la riforma costituzionale di per sé è
relativamente modesta: una riforma che
avesse voluto accrescere sul serio i poteri
del premier e del governo, a mio avviso anche abbastanza saggiamente, avrebbe introdotto la fiducia costruttiva e la capacità
di scioglimento del parlamento in capo al
premier; condizioni presenti entrambe in
due costituzioni sicuramente eccellenti come la tedesca e, a seguito di quella, la spagnola.
i Cinque stelle si sono tirati
indietro, quando in realtà
sarebbero i favoriti da una legge
elettorale come l’Italicum
Dopo la repubblica di Weimar, di scioglimento in scioglimento del parlamento (dovuti alla congiunzione delle opposizioni entrambe contrarie al governo, però impossibilitate a mettersi d’accordo tra loro), si arrivò a Hitler. Di qui la sfiducia costruttiva:
non puoi sfiduciare il premier se non hai
14
una città
già pronta un’altra coalizione che è un po’ il
problema che avremmo noi se dovessimo ritornare a un sistema puramente parlamentare nel quale bisognerà, nella buona sostanza, mettere insieme tutti quelli che sono contro i Cinque stelle. Il che naturalmente non farebbe altro che dare ulteriore
fiato ai Cinque stelle, per nulla pronti a governare ma prontissimi ad approfittare dell’insoddisfazione dei cittadini di fronte alle
performance molto modeste sia di questo
governo che dei precedenti.
È questa la prospettiva che lei intravede nel caso che vinca il no?
Beh, in una situazione di incapacità di crescita dell’economia, che poi è il guaio grosso
che abbiamo, un’incapacità che dura ormai
da una ventina d’anni e non dà segni di finire, molto probabilmente se salta il referendum e con esso quasi necessariamente
l’Italicum, la nuova legge elettorale che si
farà sarà giocoforza una legge più di tipo
proporzionale. Il rischio, quindi, della formazione di uno schieramento abbastanza
raffazzonato di personaggi che vogliono
continuare a governare, sarà molto forte.
Saggiamente, dal loro punto di vista, i Cinque stelle si sono tirati indietro, quando in
realtà sarebbero i favoriti da una legge elettorale come quella approvata dalla Camera
in luglio, sia perché sono avanti nei pronostici, sia soprattutto perché nel probabile
ballottaggio le destre voterebbero per loro;
lo si è già visto. Ma stranamente preferiscono ancora un periodo, diciamo, di macerazione dell’assetto tradizionale in modo da
aver più tempo per prendere contatti con
persone che diano almeno l’apparenza di
saper governare un sistema complesso come l’Italia. Al momento loro non hanno nessuno, però stante la predisposizione di molti tecnici e intellettuali italiani a correre in
soccorso del vincitore, anche i Cinque stelle
potrebbero mettere in piedi un’apparenza
di governo. Ma questo non adesso, donde loro continuano una sorta di aventino, votano
contro l’attuale legge elettorale e aspettano
di vedere che tipo di governo potrà formarsi
con una legge elettorale diversa di tipo proporzionale. Questa è un poco la situazione
come la vedo adesso. Di qui la mia predispo-
sizione per il sì.
Ma la sua analisi parte dall’economia
e, se si può dire, dallo stato del mondo
globalizzato, un’analisi niente affatto
ottimistica…
Sì, nel saggio cui lei, credo, fa riferimento,
espongo la mia idea su un programma che
sia democratico quanto è possibile nella situazione attuale. E l’ho scritto proprio per
reazione a tante pubblicazioni recenti che
parlano di crisi della democrazia, o comunque di una situazione attuale senza via
d’uscita da un punto di vista democratico.
Ora, che la situazione sia più sgradevole
per la gran parte dei cittadini, meno vicina
alle loro esigenze materiali, di quanto lo sia
stata nel periodo tra la fine della Seconda
guerra mondiale e gli anni Ottanta, il periodo del nostro grande sviluppo, su questo
non c’è il minimo dubbio.
la stessa persistenza dei grandi
partiti va ricondotta alle
condizioni molto favorevoli della
situazione internazionale
Ma questo non era merito della democrazia,
c’erano i grandi partiti naturalmente, ma la
stessa spiegazione della persistenza di questi grandi partiti va ricondotta semplicemente alle condizioni estremamente favorevoli della situazione internazionale. Era
una situazione in cui il grande gruppo dei
paesi capitalistici avanzati cresceva al 4, 5,
6 per cento. La pattuglia era guidata da
una leadership liberal americana che aveva
ben presente i guasti fatti tra le due guerre
e aveva ben presente che la cruciale competizione con il mondo comunista, con l’Unione sovietica, si decideva sulla dimostrazione che un sistema liberale era altrettanto
in grado di creare benessere e piena occupazione di quanto lo fosse l’Urss. Ricordiamoci che la situazione non era così chiara
alla fine della Seconda guerra mondiale. La
competizione dell’Urss era molto forte, perché lì non c’era disoccupazione, c’era un modestissimo benessere che però stava crescendo, c’era una crescita economica incredibile che si manifestava soprattutto in
campo militare ma non solo in quello. Tutto
questo preoccupava gli occidentali e i libe-
discussioni
rali. Di qui il governo da parte di una elite
liberal che aveva fatto proprio il grande insegnamento di Keynes, la possibilità di sviluppare un’economia di mercato ma in condizioni di piena occupazione, da cui il ruolo
dello stato, il ruolo del welfare, eccetera.
Marx sarebbe felice di questa
situazione, la sua idea era che
quando il capitalismo fosse
diventato un sistema mondiale...
Allora, gran parte del rimpianto per i grandi partiti di massa di allora aveva più a che
fare con questa particolare situazione economica, e gran parte dell’esecrazione che c’è
adesso nei confronti dei partiti al governo,
siano essi socialisti o conservatori è dovuto
a una situazione economica molto diversa
che è venuta ad attuarsi a livello internazionale a partire dalle vittorie di Thatcher
e Reagan nel ’79 e sempre più chiaramente
negli anni Ottanta e dopo: lo sbrigliamento
delle capacità del capitalismo e della finanza sull’intero quadro mondiale.
Se fosse vivo, Marx sarebbe felice di questa
situazione, la sua idea, infatti, era che
quando il capitalismo fosse diventato un sistema mondiale, allora sarebbe diventato
mondiale anche il numero dei suoi potenziali becchini, cioè gli operai. Le cose non
sono andate propriamente così, però grossomodo la previsione di Marx sulla capacità
espansiva del capitalismo si è avverata.
Prima questa era rimasta frenata perché
un sistema di controllo della finanza, dell’esportazione dei capitali, come imposto a
Bretton Woods nei grandi accordi del ’44, la
impedivano; gli stati erano liberi di chiudere le frontiere all’esportazione di capitali,
sia a breve che lungo periodo. Adesso non
più, si è data mano libera, la deregolazione
è stata completata sia a livello interno sia
internazionale e i suoi effetti si vedono.
Si sono messi in concorrenza tra loro i lavoratori dei paesi poveri ma con grandi capacità tecnologiche potenziali, cinesi soprattutto, con i lavoratori dei paesi ricchi, in
particolare quelli dello strato intermedio,
con grado di istruzione modesto. Mentre invece chi è stato favorito sono stati i ceti alti,
sia a livello tecnico sia, soprattutto, a livello
finanziario e manageriale. E questo ha
creato una situazione di disagio in tutti i
paesi a cominciare dagli Stati Uniti.
Il fatto che negli Stati Uniti sia candidato
un personaggio dell’estrema destra come
Trump, e dall’altro lato lo sarebbe potuto
diventare Bernie Sanders, uno che praticamente porta avanti un programma quasi
socialista, cosa inaudita negli Stati Uniti!,
è il segnale di una profonda instabilità; una
grave spaccatura si è aperta fra i lavoratori
intermedi (la chiamano middle class ma
stanno tra i primi livelli operai e impiegatizi) spazzati via dalla rivoluzione informatica e un’insieme di ceti relativamente bene-
stanti. Se persino negli Usa è avvenuto
questo, che è il paese che più ha beneficiato
dall’ultima rivoluzione tecnologica, quella
informatica e delle telecomunicazioni, immaginiamoci in tutti gli altri paesi. Allora,
in una situazione come questa, con tassi di
disoccupazione molto alti e con poche chance per i giovani, se i partiti, lo metto tra
molte virgolette, ragionevoli, sia del centrodestra che del centrosinistra, non si scagliano contro questa situazione, sono destinati
ad avere grossi problemi con i movimenti
populisti che inevitabilmente sorgono
quando la gente sta male. Quando la gente
sente minacciata l’occupazione dei propri figli, è ovvio che tende a credere in una serie
di sbruffoni che dicono di voler cambiare
tutto, ma evitando accuratamente di dare
un’idea ragionevole e funzionante del possibile diverso sistema economico e politico
che metterebbero al posto di questo che vogliono scassare.
L’Europa?
L’Europa fa dei tentativi maldestri. Semplicemente non ha il coraggio, e non può averlo, di venire direttamente in aiuto dei suoi
paesi più deboli perché questo comporterebbe una sanzione immediata da parte dei
paesi più ricchi: “Sperperate i soldi che noi
industriosi tedeschi”… Non è possibile in
Europa la cosiddetta transfer union, l’unione dei trasferimenti per cui una parte del
paese dà soldi a un’altra parte. Immaginiamoci, non funziona nemmeno in un paese
unificato come l’Italia.
Le obiezioni che ha fatto la Lega ai soldi per
il Mezzogiorno sono altrettanto virulente e
forti di quelle che fa la Germania nei confronti dei soldi all’Italia. E se neanche noi,
dopo più di un secolo e mezzo di unità, siamo riusciti a risolvere questo problema, a
spegnere la potenziale incompatibilità tra
nord e sud, immagini se lo si può fare a livello internazionale, dove non c’è quantomeno un ceto politico, intellettuale, di opinione pubblica che legga gli stessi giornali,
che voti per gli stessi partiti, ecc. In Europa
ogni paese deve cavarsela per conto proprio.
Alcuni paesi ce la fanno meno di altri, l’Italia per una serie di ragioni idiosincratiche
su cui non entro adesso ce la fa meno di altri paesi, quindi è fortemente a rischio.
Uscire dall’Europa aiuterebbe o aggraverebbe la situazione?
Intanto va detto che l’uscita dall’Europa è
un rischio che c’è. Il problema è che se noi
uscissimo dall’Europa, o per qualche cataclisma internazionale, per un attacco della
finanza internazionale o per altri motivi,
dalla padella salteremmo nella brace. Perché le regole che valgono a livello internazionale sono quelle che l’Europa cerca di
imporci. L’Europa cerca di imporci le regole
il cui rispetto taciterebbe la finanza internazionale, che poi, essendo ormai unificata,
non dimentichiamolo, è fatta, anche, certo,
da finanzieri d’assalto, ma per la gran parte
dai fondi pensioni e d’investimento dove abbiamo messo i nostri risparmi, fondi che decidono a livello internazionale dove è meglio investire.
Ma c’è un altro aspetto della globalizzazione divenuto preoccupante per la gente normale: l’immigrazione. Che l’immigrazione,
specialmente da paesi musulmani o comunque molto lontani dai nostri costumi, crei
problemi allo stato di benessere della gente
e non solo a quello, è un fatto ovvio, inutile
nasconderselo. Che quindi movimenti populisti contro l’immigrazione o contro la finanza internazionale emergano è altrettanto
ovvio.
Quel che non vedo sono i rimedi proposti da
chi ha invece una posizione più di classe,
come si diceva una volta. Noi non ritorniamo a una situazione come quella dei Trenta
gloriosi, degli anni subito dopo la guerra.
Non possiamo ritornarci. O, se ci ritorneremo, sarà per qualche cataclisma internazionale come quelli che hanno determinato i
grandi spostamenti, i grandi riorientamenti
del mondo capitalistico.
Io mi rendo conto che la situazione è drammatica e molto pesante per i ceti più poveri
e meno colti e meno attrezzati. Lo è negli
Usa, lo è da noi, ma anche in Francia.
Sono i poveri che combattono contro i poveri. Bisognerebbe bloccare la globalizzazione,
pesantemente, ma questo l’Europa non lo
farà mai.
la concorrenza tra i lavoratori
dei paesi poveri ma con grandi
capacità tecnologiche
e i lavoratori dei paesi ricchi
Detto questo chiedo: se l’Europa fosse uno
stato veramente democratico, e potesse votare, lei crede che la situazione cambierebbe molto? Se i cittadini europei nel loro insieme fossero in grado di scegliere un vero
governo europeo, invece di lasciarlo semplicemente al Consiglio europeo fatto dai capi
di governo; se avessimo un vero parlamento
europeo, in cui competessero partiti europei
come avviene negli stati nazionali; se all’improvviso questi fenomeni di insufficiente fiducia di un paese nei confronti dell’altro, di insufficiente grado di fraternità (è la
terza parola del famoso trittico francese,
ma enormemente importante, una democrazia c’è soltanto quando ci sono dei livelli
di fraternità tali per cui una decisione del
governo anche se danneggia una serie di ceti interni è accettata da tutti); ebbene, se ci
fosse tutto questo, lei si immagina che una
decisione a livello europeo che danneggia lo
stato italiano, o quello francese, o quello tedesco sarebbe accettata da tutti?
Ma anche se arrivassimo a un grado di democrazia europea di questo genere, cosa del
tutto implausibile, lei pensa che il governo
eletto sarebbe un governo di sinistra? Mah!
una città
15
discussioni
Ho grandi dubbi. Sarebbe un governo come
quello italiano che risponde in parte dando
delle mance al Mezzogiorno, e poi fa gli interessi degli industriali del Nord e comunque dei finanzieri, e sarebbe un governo dominato dalla Germania, che è di gran lunga
il potere più forte.
Alla luce di tutto questo a me questo gran
parlare, fissarsi su una democrazia che non
funziona, ecc., cosa vuole che le dica, io la
vedo più da economista politologo e sociologo: guardo ai fatti grossi e i fatti grossi non
mi convincono che questo sia il problema
principale. Ma anche se fosse, gli americani
direbbero: “So what?”, e allora? Quali sarebbero le conseguenze? Crediamo veramente che riusciremmo a fermare l’impatto
distruttivo della globalizzazione, del progresso tecnico scatenato su scala mondiale?
Con una concorrenza con lavoratori che rimangono con bassi salari anche se ormai le
loro capacità tecnologiche sono diventate
altissime? Basta vedere chi fa i migliori telefonini oggi: sono i cinesi, con Huawei.
il rischio è che i senatori non
rappresentino le loro realtà
territoriali e si allineino
a spaccature politiche pregresse
Ormai questi hanno raggiunto livelli tecnologici talmente alti che noi non saremo più
in grado di imitare! E hanno salari bassi.
Quindi possono consentirsi un’accumulazione formidabile. Ti sfornano un milione di
ingegneri all’anno. Noi abbiamo una forza
lavoro di una qualità bassissima se la confrontiamo con quella tedesca, inglese o
francese. Insomma, pur da innamorati, come un po’ tutti siamo, della socialdemocrazia com’è stata nei trenta, quarant’anni del
dopoguerra, dobbiamo convincerci che i famosi Trenta gloriosi non ritornano e non
possono ritornare.
E quindi di fronte a uno scenario del
genere il referendum?
Per quanto riguarda il referendum, io sono
costernato dal livello di irritazione, spaccatura nel paese, da questo clima da guelfi e
ghibellini che divide tra loro anche persone
ragionevoli. Me ne rendo conto, in parte è
stata colpa di Renzi, però non è che perché
è colpa sua adesso dobbiamo votare sbagliato per punirlo. Certo che è stata colpa sua!
So what? La colpa è già maturata, ha esagerato, ma quand’anche lui fosse stato il
più possibile tranquillizzante e moderato,
ma fermo sulle sue decisioni sia di riforma
costituzionale che di legge elettorale, la canea contro di lui sarebbe stata diversa?
Non attacchiamoci a quello, lui ha sbagliato, l’ha riconosciuto e amen. Però adesso come la mettiamo?
Io le ragioni del mio moderato e non entusiasta sì le ho scritte da tutte le parti. Penso che la riforma costituzionale, e torno agli
inizi, sia modesta, ma vada nella direzione
16
una città
giusta e che molte delle continue critiche
che le vengono rivolte, siano, se non del tutto speciose, rimediabili nel periodo di rodaggio che una riforma importante deve necessariamente avere. Se c’è la buona volontà potrebbero essere fatti opportuni ritocchi
costituzionali in seguito. Il rischio vero che
corriamo è che i senatori che avremo non
rappresentino in modo efficace le loro realtà territoriali e si allineino a spaccature politiche pregresse. Ma dipende molto da come viene presa l’intera cosa: c’è anche la
possibilità che si crei una dialettica positiva
in cui, per darle l’idea, un lombardo dica,
prima di far lega con una regione scialacquatrice: “Scusa un secondo, non faccio lega
con te. Noi andiamo insieme per rivendicare i nostri poteri, però fammi il piacere, tu
metti a posto i tuoi conti”.
Essendo casomai dello stesso partito…
Casomai dello stesso partito…
Ma la mancanza del vincolo di mandato allora non è un errore?
Ma non potevi darlo. L’unica cosa che si sarebbe potuta fare sarebbe stato che non
erano i consigli che dovevano mandare in
proporzione ai partiti rappresentati nei
consigli, ma i governi regionali, gli esecutivi
regionali, però è una cosa che non si poteva
fare perché su 20 esecutivi regionali 18 sono del Pd e allora immaginiamoci cosa sarebbe successo. Questo sarebbe stato l’ideale. Potevamo prendere tutta l’esperienza
del Bundesrat tedesco, ivi incluse tutte le
modificazioni che ha avuto in seguito, perché poi anche quella non è stata un’esperienza senza contraddizioni; i dissensi di
partito hanno operato eccome, e si è dovuta
rimettere a posto con grandi riforme, però
adesso è una cosa che funziona. Però questo
non lo si poteva fare, semplicemente. Quindi rimane una speranza, che questi si comportino da rappresentanti veri degli interessi della loro regione.
Poi ci sono altri rilievi, ma alcuni di questi
sono piccolezze su cui la gente si accapiglia
per niente. Non hanno il tempo necessario
per andare a Roma? Ma facitemi ‘o piacere,
come avrebbe detto Totò. Questi sono consiglieri regionali, adesso vedremo come è
fatta la loro elezione ma ce ne saranno un
paio, o tre, o quattro, a seconda delle regioni, che si specializzeranno su Roma e faranno fondamentalmente quello; il loro lavoro
in consiglio regionale sarà minore, daranno
il voto ma saranno in pratica distaccati. La
riforma è piena di sfridi, come si dice dalle
nostre parti, ma è stata fatta in grande
fretta per una serie di ragioni politiche e di
consenso che Renzi pensava di avere, questo sì, non lo nego. È talmente evidente che
è così. Però, oggettivamente, qual era un’alternativa?
Di riforma costituzionale si è discusso fino
all’infinito nelle più diverse sedi. Dalla bicamerale, ai vari incarichi che sia l’ex pre-
sidente della repubblica, Napolitano, aveva
affidato ai saggi, sia quelli della commissione istituita da Letta. Si sono registrati dei
punti di dissenso, però su alcuni punti il
consenso c’era. Io sono stato nella bicamerale di D’Alema, ero parlamentare allora e
le garantisco che un’esperienza più disastrosa e mortificante di quella raramente
l’ho vista.
ricordiamoci il detto famoso
di Nenni: “Se fai il puro a un
certo punto nella tua vita trovi
uno più puro che ti epura”
In realtà una cosa del genere fatta su base
parlamentare, politica, non funziona. A meno che noi non vogliamo rifare la costituzione, ma potrebbe riprodursi quel consenso
che un grande trauma come la guerra aveva indotto tra ceti politici di altissimo livello che sapevano che dovevano salvare l’Italia? No, certo. Se si voleva fare una riforma
la strada era questa. Questa tutto considerato va nella direzione giusta, è abbastanza
modesta, avrà dei problemi, nel senso che
non rafforza sufficientemente l’esecutivo,
su questo sono del parere di Berlusconi, o
dei costituenti tedeschi e spagnoli.
Ma un esecutivo fatto con il ballottaggio eviterà i problemi?
Intendiamoci, non ho alcun dubbio sulla democraticità. A mio avviso le seconde preferenze valgono come le prime. Ma perché
non ci siano problemi dovrebbero essere
“vere” seconde preferenze, che vuol dire motivate da un’analisi accurata dei programmi dei partiti, per dar modo ai votanti al
ballottaggio di scegliere a ragion veduta.
Diamo il caso concreto che una buona parte
dei votanti berlusconiani dica: “Toh, guarda, il programma del Pd ha molti punti di
contatto con il nostro, voto per lui”, e che
questa considerazione prevalga sulla voglia
di prendersi una rivincita e fare i Brunetta.
Il rischio del ballottaggio è quello: che facciano tutti i Brunetta, e votino contro qualsiasi programma. Qui sta il problema della
seconda preferenza.
Sì, questo può valere quando la scelta
è fra due programmi, ma delle volte si
può essere costretti a votare per chi ci
piace poco per evitare che vada su chi
non ci piace per nulla e addirittura ci
fa paura. Anche in quel caso il mio voto
al ballottaggio mi rappresenterebbe?
Accetto l’obiezione, però io ho una concezione della politica come il meno peggio. Ripeto che la situazione migliore è quella in cui
le seconde preferenze sono una scelta meditata tra due grandi partiti, tutti e due ragionevoli, e le cui ricette, tutto considerato,
non sono troppo diverse l’una dall’altra.
L’esempio tedesco è illuminante: tra il programma socialdemocratico tedesco e quello
della Cdu le differenze non erano molto forti, e hanno potuto fare un grande accordo, e
discussioni
sensato, mettendo per iscritto su 130 pagine
tutte le possibili leggi che avrebbero votato
insieme e pure i punti ammessi di dissenso
o i punti in cui un partito cedeva all’altro.
Ma il paese si ritrova i cittadini e i politici
che ha. E se i cittadini credono in massa a
un programma populista, che grida: “Tutti
a casa, mandiamoli via, fan tutti schifo, sono tutti disonesti”; se nel paese sembra sia
diventata una categoria politica l’onestà e la
disonestà quando non lo sono mai state -ricordiamoci il detto famoso di Nenni: “Se fai
il puro a un certo punto nella tua vita trovi
uno più puro che ti epura”- allora potresti
essere costretto a votare il meno peggio. Ma
anche in questo caso se al partito che va al
ballottaggio attribuiamo una percentuale di
“convinti” ragionevolmente sull’ordine del
28, 30 per cento, con un un’aggiunta di un
altro 20 per cento di mugugnanti e menopeggisti, arriviamo al 51 per cento. Beh, però a quel punto chi avesse vinto avrebbe un
parlamento dietro di lui.
Stiamo parlando di Renzi. Per lei quindi varrebbe come investitura piena?
Certo, e a quel punto si potrebbe vedere se
veramente ha la stoffa. Adesso lui ha cercato di sopravvivere dando un’idea di quel che
farebbe, ma in una condizione di estrema
debolezza. Dovendo contrattare tutto, con
quelli del centrodestra, dell’Ncd, e non dovendo scontentare però del tutto un’anima
del partito che c’è. Io, per dire, amo molto
Cuperlo, per quei suoi modi garbati e ai modi corrisponde anche un animus e, se devo
dirlo, Renzi personalmente mi risulta un
personaggio troppo arrogante e devo spegnere la tv quando parla perché se no mi
arrabbio, però sulla sua linea politica io ci
sono e ci sono in pieno. Ma non escludo affatto che possano esserci delle moderate
aperture a sinistra da parte sua. Non lo
escludo affatto.
allora però il mio giudizio
sarebbe che l’Italia, come diceva
Mussolini o Giolitti, non è difficile
da governare, è impossibile
Nelle circostanze attuali, in cui lui non ha
un’investitura elettorale sufficiente, deve
sopravvivere. E da qui quelle scelte un poco
demagogiche che gli rimprovera Monti. Ma
un politico per sopravvivere in queste situazioni cosa deve fare?
Ecco, io non gliele scuserei per nulla domani quando lui avesse una buona investitura.
Allora no. E allora però il mio giudizio sarebbe che l’Italia, come diceva Mussolini o
Giolitti, non è difficile da governare, è impossibile. Un paese di questo genere è destinata al declino. Io penso sia destinato al declino comunque, ho scritto vari libri sul declino, parlavo di declino quando tutti gli altri economisti non ne parlavano, quando
era un errore parlarne.
Oggi però dico che una piccola speranza ce
l’ho ancora: che quando Renzi si sentisse
sufficientemente forte, sarebbe forse in grado di prendere anche misure dure.
Se vince il no?
Se vince il no, si entra in uno stato di difficile governabilità, i nostri problemi veri,
quelli di cui fa menzione Monti, rimarranno
irrisolti. Se Monti spera che col proporzionale che verrà con la sconfitta del sì, potremo andare in direzione delle sue terribili
misure di razionalizzazione, si sbaglia di
grosso. In realtà penso che sappia benissimo che non avverrà così. Avverrà ancora
peggio, ci sarà maggiore confusione.
Probabilmente non ci saranno rischi a breve di un’uscita dall’Ue, ma si farà una coalizione appiccicaticcia fra Pd, pezzi di Forza
italia che non accettano il viaggio comune
con la Lega e con i Fratelli d’Italia, e Ncd.
Forse riusciranno a silenziare un po’ Brunetta, chi lo sa, ma certamente sarà una cosa ancora più corriva nei confronti delle
aspettative popolari e anche più debole di
quanto non sia stato Renzi fino ad adesso.
Di certo non sarà una cosa che potrà usare
il pugno di ferro di un Monti, per intenderci, cosa di cui credo anch’io, in parte, ci sarebbe bisogno. Tutto qui. Ho dato l’idea?
(a cura di Gianni Saporetti)
Le foto: a pagina 9, un seggio per le elezioni della
Costituente; a pagina 10, Aldo Moro tra La Pira
e Dossetti durante i lavori per la Costituente; a
pagina 13: un graffito a Roma contro la legge
truffa del 1953; in questa pagina: risultati delle
elezioni per la Costituente nel seggio di Osio Sopra (Bg).
una città
17
problemi di scuola
LA CLASSE CAPOVOLTA
Fare i compiti la mattina in classe e ascoltare la lezione al pomeriggio: la casse capovolta, sistema
adottato negli Stati Uniti e ora in Francia, per favorire un accompagnamento personalizzato che
incoraggia la curiosità, l’autonomia e la responsabilità. Intervista a Marie Camille Coudert.
Marie Camille Coudert, insegnante di fisica
e chimica, da quest’anno è impegnata nel
progetto Les Savanturiers del Cri (Centre
Recherche Interdisciplinaires) di Parigi.
Cosa sono le classi “inversé”?
La classe “invertita”, capovolta, è una pratica pedagogica che cerca di affidare all’autonomia dello studente una parte dell’attività di trasmissione del sapere ponendola
fuori dalla classe (di solito sotto forma di video da guardare a casa), così da dedicare il
tempo trascorso in classe ad attività di
gruppo e a un sostegno individualizzato. Le
classi capovolte sono nate negli Stati Uniti.
In Francia la prima volta che ne ho sentito
parlare è stato tre anni fa. Mi sono incuriosita e ho cercato di saperne di più. Siccome
da tempo sentivo il bisogno di avere tempo
in classe per fare altre cose mi sono detta:
proviamo. Ne ho prima discusso con il direttore della scuola. Dopodiché, all’incontro
di inizio anno ho spiegato ai genitori come
avrebbe funzionato. In Francia quando ho
cominciato ero veramente fra i primi. Nella
mia materia, fisica, eravamo in tre, poi il
numero è cresciuto. Da due anni esiste anche un’associazione che si chiama “Inversons la classe” che ha messo gli insegnanti
in rete. Nel 2015 hanno organizzato il primo congresso che ha visto partecipare circa
duecento insegnanti; quest’anno c’erano circa ottocento persone. C’erano anche insegnanti italiani.
Si stima che oggi in Francia siano più di un
migliaio gli insegnanti che adottano la classe capovolta almeno una volta all’anno. È
difficile avere delle stime precise perché
molti lo fanno da soli nella loro classe.
Devo dire che il mio non è stato l’approccio
classico. I professori spesso sperimentano
questa modalità per stimolare la motivazione degli studenti. L’approccio tradizionale,
la lezione frontale infatti rischia di non andare in profondità: il ragazzo sta in classe,
ascolta ma non apprende. Per alcuni insegnanti si tratta anche di andare incontro a
un problema di uguaglianza. I compiti per
casa infatti rischiano di aumentare le differenze. In questi pochi anni abbiamo potuto
constatare che con le classi capovolte gli allievi dal rendimento meno soddisfacente
progrediscono di più. Fare gli esercizi per
uno studente che non ha una famiglia che
lo segue, può essere complicato, perché magari non ha capito la lezione, non sa applicarla, stabilire dei nessi. Paradossalmente
quello che si fa in classe è più facile. L’idea
allora è di fare l’inverso: a casa gli si chiede
18
una città
di fare cose semplici, vedere un video, ricopiare una definizione, mentre in classe si
fanno le cose complicate. In questo modo i
ragazzini che al pomeriggio sono a casa da
soli non vengono penalizzati.
Tu come organizzi le lezioni?
Io ho un rapporto particolare con la scuola.
Sono molto lontana dallo schema classico.
Per me gli allievi devono poter fare quello
che vogliono quando vogliono. Se desiderano procedere più speditamente propongo
del lavoro ulteriore da fare a casa, se non
vogliono, non sono obbligati. Anche in classe il tempo è libero, non sono costretti a lavorare se non vogliono. Bisogna anche mettere gli allievi in condizione di apprendere
quando sono più efficaci. Per esempio quando ho un’ora di scuola dalle 13 alle 14, in cui
praticamente dormono, è inutile cercare di
fargli fare cose impegnative, invece a metà
mattina è il momento ideale per lavorare.
gli allievi devono poter fare
quello che vogliono. Se vogliono
procedere più veloci do
del lavoro in più da fare a casa
Il mio approccio è molto libero. Anche rispetto ai telefonini: esistono regolamenti
scolastici molto rigidi che ne consentono
l’uso solo durante la ricreazione. La maggior parte dei prof confisca gli smartphone.
Nella comunità delle classi invertite i telefoni invece sono molto utilizzati, sono uno
strumento di lavoro e devo dire che, a parte
qualche caso molto raro, non abbiamo mai
avuto problemi. Ormai dai quattordici anni
hanno tutti un telefono cellulare, allora io
dico: usiamolo! Per esempio, se un ragazzino non ha capito un concetto, posso dirgli:
“Prova a guardare il video che ho caricato
su youtube, vedi se ti aiuta...”.
Per me la cosa più importante è responsabilizzarli. Io, per esempio, gli chiedo che cosa
vogliono fare nei successivi quindici giorni:
“Decidete su quale nozione volete lavorare e
poi vi organizzate come preferite”, dopodiché possono vedere dei video, approfondire
su internet, sui libri, l’importante è che il lavoro sia fatto. È un modo per dargli fiducia.
Io sono lì per vegliare che scelgano degli
obiettivi che non siano né troppo ambiziosi
né troppo banali. Non solo lì per organizzargli il lavoro, questo lo debbono fare loro.
Il lavoro in classe come funziona?
Io ho due stanze: sta a loro scegliere dove
andare. Gli studenti che sentono la necessità o il desiderio di lavorare in gruppi di due
o tre ragazzi hanno la possibilità di stare
soli in una stanza, dove possono stare tran-
quilli e concentrarsi. Io sto nell’altra stanza, la classe tradizionale, dove rimangono
quelli che vogliono lavorare con il professore. Parlo degli anni della secondaria. I più
piccoli, fino ai 14 anni, stanno tutti nella
stessa classe.
In questi anni ho insegnato sempre a Parigi, prima nell’VIII arrondissement in una
scuola molto favorita dal punto di vista culturale, con una certa élite sociale, e poi nel
XX arrondissement che è un quartiere molto più misto socialmente. Ho sperimentato
le classi capovolte in entrambi i contesti con
risultati diversi. Gli studenti favoriti sul
piano socio-culturale, anche quelli che avevano problemi di metodo, hanno compreso
il principio della scuola. Parliamo di ragazzini che sanno segnarsi sul diario le cose da
fare e sanno mettersi al lavoro. Nel XX già
questo succede con più difficoltà: gli allievi
scrivono nel diario, ma poi non lo aprono
nemmeno! Non sono autonomi, ma non
sanno nemmeno chiedere aiuto.
Nella VIII ho registrato proprio un altro approccio: un ragazzo che non capisce qualcosa non esita a chiedere spiegazioni; in un
contesto più critico, gli studenti non chiedono aiuto, sono molto passivi, rassegnati.
Molto del tempo viene investito proprio per
insegnargli a essere studenti.
Dicevi che le classi capovolte permettono un approccio personalizzato.
È soprattutto per questo che ho scelto la
classe capovolta, per avere il tempo di personalizzare l’apprendimento, di fare un accompagnamento individuale. Quando hai
trentacinque allievi, ti trovi ad aver a che
fare con persone che apprendono in maniera diversa e con tempi diversi. Offrire lo
stesso corso a tutti non funziona. Con la lezione tradizionale io mi sono accorta che a
seguirmi davvero erano tre o quattro allievi, e tutti gli altri?
Di qui l’idea di sperimentare un altro modo.
Come dicevo, nelle mie classi sono gli studenti a decidere su cosa lavorare all’interno
di un ventaglio di opzioni. Una volta che
hanno deciso, io controllo i risultati e li faccio lavorare in funzione degli errori che
hanno fatto. Ogni volta che si può faccio sì
che si aiutino tra di loro “Guarda, hai fatto
lo stesso errore che aveva fatto tizio, fattelo
spiegare da lui”. Lavorare sugli errori è fondamentale, già questo costringe a personalizzare. In questo modo seguo passo passo
quello che hanno compreso i miei allievi rispettando il loro ritmo di apprendimento.
Attenzione, il lavoro è modulato sui loro deficit, ma anche sulle loro ambizioni. Gli al-
problemi di scuola
lievi che vogliono fare i “prépa”, le classi
preparatorie che conducono dalla maturità
alle Grandes Écoles, hanno bisogno di avere
una formazione diversa da chi intende fermarsi al Bac, il Baccalauréat, il diploma.
Questi gruppi di tre, quattro studenti, formati mettendo assieme livelli di apprendimento compatibili, fanno sì che nessuno sia
penalizzato: chi ambisce ai prépa viene aiutato ad andare più lontano; chi ha altri programmi e magari più difficoltà può a sua
volta andare a un ritmo più lento ed essere
seguito.
È un metodo molto radicale, quanto è
diffuso?
Siamo pochissimi. Il mio metodo è molto diverso da quello adottato normalmente. Io
sono andata molto avanti nell’autonomia
degli allievi e nella loro responsabilizzazione. Teniamo presente che anche all’interno
del movimento delle classi capovolte c’è una
gamma di possibilità molto ampia, si va dal
professore che semplicemente indica quale
video guardare al pomeriggio a chi, come
me, punta alla massima autonomia.
In genere i professori che scelgono la strada
della classe capovolta lo fanno concedendo
un’autonomia che cresce gradualmente.
Quello che tutti verificano è che gli allievi
avanzano di più se responsabilizzati.
Quali sono i risultati e i problemi?
I risultati sono difficili da misurare, anche
perché non esistono valutazioni esterne.
Personalmente, ho l’impressione che i miei
allievi siano complessivamente migliori, e
che quelli più bravi siano nettamente migliori. I mediocri sono più o meno nella media, mentre i peggiori sono meno peggiori
degli altri. Quindi direi che di questo metodo trae vantaggio chi va molto bene e chi va
male; gli altri restano nella media. Quando
ho iniziato a insegnare avevo mediamente
una decina di allievi per classe a cui proprio
non riuscivo ad arrivare, oggi sono uno o
due: con la classe capovolta è nettamente
diminuita la quota di allievi che non sono
attivi, che non si sentono protagonisti.
con la classe capovolta
è nettamente diminuita la quota
di allievi che non sono attivi,
che non si sentono protagonisti
È per questo che non tornerei indietro. Inoltre migliora moltissimo il clima in classe: gli
studenti sono contenti di venire a scuola e
c’è molto aiuto reciproco fra di loro. Alla fine
dell’anno tutti gli studenti mi hanno detto
di non aver mai avuto un ambiente di studio
migliore. Nella classe capovolta, si sperimenta un grande aiuto reciproco non solo
all’interno dei gruppi, ma anche fra i gruppi
più avanti e quelli meno. Così il sapere circola e c’è un apprendimento reciproco.
Veniamo ai problemi. Questo metodo richiede un cambiamento di attitudine da parte
dell’allievo. Lo studente classico, se può, si
mette in fondo alla classe, vicino al termo-
sifone, ascolta un po’ e poi si distrae; l’insegnante classico, durante la sua lezione, lo
richiama, cerca di attrarne l’attenzione.
Ecco, qui c’è un problema perché con il mio
sistema se si mettono in fondo alla classe e
non fanno niente, semplicemente l’apprendimento è nullo. Questo è difficile da far
comprendere agli alunni: loro tendono a essere passivi, aspettano che sia il professore
a offrirgli le conoscenze. Io invece voglio che
siano loro a chiedere, a diventare attori della loro formazione. È molto difficile per certi
allievi e per alcuni è quasi impossibile. Quei
due o tre che non si lasciano coinvolgere ottengono un risultato peggiore che nel sistema tradizionale. Questo va detto.
D’altra parte io credo molto nell’apprendimento attraverso la ricerca. Il progetto Les
Savanturiers (un gioco di parole fra savant
e aventure) in cui oggi sono impegnata è volto proprio ad aiutare le istituzioni e i professori a costruire una scuola più ambiziosa
fondata sulla ricerca e la cooperazione.
Il lavoro dell’insegnante cambia completamente.
Sì, il nostro mestiere cambia molto e all’inizio può essere faticoso. Anche per questo i
colleghi iniziano offrendo poca autonomia e
poi la aumentano. Anch’io ho impiegato un
po’ di tempo, però i risultati sono stati molto incoraggianti, si valorizza proprio la classe. In quest’ottica di un accompagnamento
quasi individuale, la relazione umana insegnante-allievo diventa veramente il cuore
del mestiere, molto di più che non la preparazione delle lezioni. Il tempo trascorso con
gli allievi diventa molto appassionante e
stimolante.
I genitori?
Anche in Francia non è più come un tempo
quando la scuola era sacralizzata. I genitori
sono molto critici con gli insegnanti. Soprattutto nell’VIII arrondissement c’era
un’enorme aspettativa da parte dei genitori
rispetto ai figli e quando arrivava un brutto
voto a volte nascevano dei conflitti. Davanti
ai cambiamenti, a volte i genitori fanno resistenza anche perché temono di non sapere
aiutare i loro figli. Attraverso il dialogo, credo di essere riuscita a spiegare in modo concreto che cosa l’allievo dovesse fare e come
potevano aiutarlo, ad esempio assicurandosi che vedessero i video, che guardassero le
le loro agende, cose molto semplici e precise. Una volta superato l’ostacolo iniziale,
anche i colleghi mi confermano un ritorno
positivo fra i genitori della classe capovolta.
Anzi direi che i genitori sono piuttosto contenti perché capiscono che così c’è la possibilità di una personalizzazione. Questo
aspetto è molto apprezzato: finalmente si
inizia a lavorare a una scuola su misura per
loro figlio.
Direi che abbiamo più problemi con le istituzioni. L’istituzione considera molto positiva la classe invertita, a parole dice di volerla
valorizzare, ma poi magari ti chiede di ral-
lentare per non mettere in difficoltà i colleghi che non sono in grado di adottare questo
metodo. Così però gli insegnanti più intraprendenti rischiano di essere lasciati soli...
Inoltre non tutti hanno gli strumenti e le
capacità. C’è anche un problema di qualità
degli insegnanti. Sarkozy nel 2012 ha soppresso la nostra formazione. Hollande ha
reinserito la formazione pedagogica, ma dopo tre anni non siamo ancora a regime.
direi che i genitori sono piuttosto
contenti perché capiscono
che così c’è la possibilità
di una personalizzazione
Oggi, dopo aver vinto il concorso, gli insegnanti per un anno passano metà del tempo
a scuola e l’altra metà seguendo dei corsi di
livello universitario per apprendere la pedagogia. Dopodiché si entra in un percorso
di formazione continua. Io ero entusiasta di
quest’idea, la delusione è arrivata quando
abbiamo scoperto che questi formatori spesso non avevano mai insegnato. Insomma il
problema resta ed è grave perché una formazione di cattiva qualità finisce per demotivare gli insegnanti: quando ti chiedono di
trascorrere una giornata ad ascoltare qualcuno che non parla dei tuoi problemi quotidiani, ti passa proprio la voglia di andarci!
In una società sempre più composita,
la scuola riveste una ruolo cruciale...
Credo che abbia un grande ruolo, ma anche
che si pretenda troppo. L’ultima scuola in
cui ho insegnato era privata e tuttavia c’era
un documento-guida per la salvaguardia
dell’eterogeneità sociale. Un’attenzione rara nel privato. In quella scuola le cose funzionavano molto bene, c’erano allievi di tutti i colori e di tutte le confessioni. L’ultimo
anno, gli attentati hanno messo a dura prova la comunità scolastica e direi l’intero
quartiere: la presenza in classe di allievi
musulmani ha messo in crisi tutti, loro
compresi. Io avevo scelto quella scuola proprio per queste caratteristiche, perché c’era
l’intera società. Però davvero, è stata dura.
In Francia abbiamo un grave problema di
segregazione geografica e purtroppo le
scuole ghetto rischiano di essere le più penalizzate, perché gli insegnanti cambiano
ogni anno, nessuno vuole rimanerci a lungo. Nella prima banlieue parigina, Créteil,
Versaille, dove c’è una situazione sociale disagiata, e dove quindi ci sarebbe un gran
bisogno di professori bravi, oggi ci finiscono
soprattutto stagisti e insegnanti all’inizio
della loro carriera. Gli insegnanti più anziani o più esperti chiedono di andare nelle
scuole più socialmente favorite: vorrebbero
andare tutti a Nizza, Montpellier e nessuno
a Saint-Denis! Dopodiché si chiede alla
scuola di fare l’integrazione: non è facile!
(a cura di Bettina Foa e Barbara Bertoncin.
Traduzione di Cesare Panizza)
una città
19
buone pratiche
IL PRESENTE
DELLA VECCHIAIA
L’avvicinamento alla vecchiaia, un passaggio segnato da paure e inquietudini, ma anche dalla
conquista di un inedito senso di liberazione: dai tempi coatti, dal giudizio degli altri e anche,
a volte, dagli oggetti del passato; l’importanza di un gruppo in cui condividere preoccupazioni
anche molto materiali, ma anche la messa a fuoco di cosa vogliamo farne di questi anni comunque
pieni di vita. Intervista a Marina Piazza, Antonella Nappi, Francesca Rossi e Simona Sieve.
Marina Piazza, Sisa Arrighi, Laura Aveta,
Chiara Baratti, Anna Bertola, Ornella Bolzani, Gabriella Buora, Caterina Casula,
Lia C., Nicoletta Chizzoli, Cecè Damiani,
Franca Fabbri, Tina Ferrari, Foberta Fioroni, Maria Grazia Longhi, Simonetta Jucker, Marisa L., Clara Mantica, Lia Miniutti, Antonella Nappi, Marilena Quarello, Daniela Ravasi, Francesca Rossi, Carla Sanguineti, Simona Sieve, Sonia Tsvrenis hanno partecipato a un ciclo di incontri e confronti tra donne sulla vecchiaia. La trascrizione “riveduta” di questi incontri ha dato
vita al volume Incontrare la vecchiaia. Guadagni e perdite, a cura di Marina Piazza,
edito da Lud, Libera Università delle Donne
2016. Marina Piazza, Antonella Nappi,
Francesca Rossi e Simona Sieve ne hanno
discusso con noi.
Per un paio d’anni, alla Libera Università delle Donne di Milano, un gruppo
di donne si è incontrato per parlare
della vecchiaia. Potete raccontare?
Marina. Il gruppo è nato su sollecitazione
di Lea Melandri; dopo l’uscita del mio libro
L’età in più è stata lei a propormi di organizzare un gruppo sulla vecchiaia. All’inizio
io, che consideravo quel libro come un fatto
molto personale e il processo di invecchiamento un processo individuale e singolare,
ero un po’ incerta, ma poi mi sono convinta
che poteva essere bello e utile mettere in comune i pensieri. Così ho fatto girare un po’
di mail e nel giro di poco tempo si è costituito questo gruppo di una ventina di donne.
Ci siamo riunite da novembre 2013 a maggio 2015 con una presenza costante e anche
puntuale. Devo dire che fin da subito c’è
stata un’adesione molto forte. Molte donne
hanno subito riconosciuto la necessità di
uno scambio, di un confronto. Dall’altra
parte è emersa fin da subito anche una specie di paura, di resistenza di fronte alla parola “vecchiaia”. Anche l’altro giorno durante una presentazione una signora ha detto:
“Per carità, questo termine è terribile, perché avete usato quella parola?”.
C’è una specie di pregiudizio verso questo
termine; allora se ne inventano altri, come
appunto “senior” al posto di anziano, o, come
20
una città
propone Laura Balbo, “post-adulto”. Io invece ho molto rivendicato l’uso di questa parola
perché ho l’impressione che una certa intolleranza per la propria vecchiaia, questa difficoltà a definirsi vecchi, segnali un’intolleranza verso la vecchiaia degli altri.
Qual è stato il vostro percorso?
Marina. Parliamo di venti donne dai 60 ai
78 anni. Abbiamo intanto preso consapevolezza dell’esistenza di fasi molto diverse: i
sociologi oggi parlano di “giovane vecchiaia”, “media vecchiaia”, e “grande vecchiaia”.
Noi ci siamo concentrate sul periodo dell’invecchiamento, cioè dell’incontro con la vecchiaia, che, a mio parere, è il periodo forse
più forte, più inquieto, perché vai incontro
a qualcosa che non conosci, e questo genera
molto turbamento. Il nostro percorso è stato
proprio sul filo dell’indagine su questa inquietudine, che abbiamo cercato di guardare da vicino. Perché tu passi da una fase in
cui pensi di essere padrona di te stessa, della tua autonomia, della tua indipendenza,
eccetera, a una fase in cui intravedi la minaccia di caduta nell’impotenza, magari
reale o magari immaginata.
Ecco, potrei dire: ci siamo messe in ascolto,
non solo con le orecchie ma con l’anima,
sperimentando una modalità che potrei
chiamare di com-passione, e cioè di condividere la passione.
il tema delle relazioni: i figli,
le amiche, gli amici,
e ovviamente la solitudine
e anche la sessualità
È stata un’indagine per capire quali potessero essere gli strumenti per affrontare l’inquietudine che si prova quando ci si inoltra
in un territorio sconosciuto, inabitato e all’apparenza inabitabile perché spesso ci viene rimandato dall’esterno come un tabù (la
vecchiaia come negazione della giovinezza,
come “negativo”). Questo all’interno di uno
scenario basato sull’idea che l’esistenza alla
fine sia caratterizzata da un’incessante metamorfosi per gestire la quale non ci sono
modelli. Ma in un certo senso la nostra generazione è caratterizzata dall’essere senza
modelli, senza modelli nella nostra vita
adulta, senza modelli anche ora. Siamo
donne in ricerca.
I primi incontri li abbiamo dedicati a capire
chi eravamo: l’età, il lavoro, il non-lavoro, le
aspettative... Dopodiché abbiamo cominciato a lavorare sulle perdite, ma anche sui
piccoli guadagni, quelli che abbiamo chiamato, riprendendo il titolo del libro di Françoise Héritier, “il sale della vita”.
Abbiamo affrontato anche il tema delle relazioni in famiglia: i figli, le amiche, gli
amici, e ovviamente il tema della solitudine
e anche quello della sessualità. Abbiamo lavorato molto sulla capacità di ricevere e di
dare, di chiedere, di farsi aiutare. Infine ci
siamo interrogate sul senso politico dell’invecchiare, sul posto dei vecchi nella nostra
società: “che cosa ne facciamo di quest’ultima parte della nostra vita?”.
Francesca. Io sono stata subito molto attirata da quest’opportunità. All’epoca avevo
passato i sessant’anni ed ero in pensione da
un paio d’anni. Ho lavorato per quarant’anni; facevo l’impiegata, ma ho fatto anche la
delegata sindacale e già allora mi chiedevo:
“Che cosa farò dopo? Chi sono io dopo?”.
Ero quindi in una fase un po’ così: mi buttavo su quello che trovavo in città. Devo dire che al cinema, a teatro non esitavo a dire: “Ho la riduzione vecchiaia!”. So che alcune donne si vergognano, piuttosto pagano
la tariffa intera. Qualche esercizio sta alzando la soglia ai settant’anni: è un segno
dei tempi.
Quello che fin da subito mi ha colpito è che
ai vari eventi cui mi trovavo a partecipare,
erano tutti della mia età o più vecchi! Io
partecipo a dei gruppi di lettura in biblioteca, ecco, le persone giovani sono rare, vuoi
perché lavorano oppure non hanno tempo.
Questo mi dispiace.
Antonella. Io sono molto interessata alla
vecchiaia, soprattutto alla cosiddetta “grande vecchiaia”. Mi verrebbe infatti da dire
che dai sessanta ai settantacinque anni si
tratta semplicemente di adulti: lasciali faticare. Dopo gli ottanta, gli ottantacinque,
gli acciacchi invece ci sono e possono essere
gravi… Purtroppo nel nostro paese sembra
che nessuno voglia vedere la vera vecchiaia,
quella in cui si torna bisognosi come bambini. Ecco, cosa ne fai di queste persone?
Ecco, tutte queste cose messe assieme vanno a scalfire un po’ quella che è la percezione che hai di te stessa, la tua relazione con
gli altri.
Dicevi che siete partite dalla percezione delle mancanze, delle perdite...
Marina. Soprattutto Sonia, la più vecchia
tra noi (adesso ha ottant’anni) ha messo sul
tavolo questa percezione delle perdite: diventi un po’ sorda, ci vedi peggio, magari
devi subire un intervento (a me è capitato
all’anca), insomma tanti piccoli malanni, a
volte anche grandi: una di noi ha avuto un
ictus.
diventi un po' sorda, ci vedi
peggio, magari devi subire
un intervento (a me all’anca),
insomma tanti piccoli malanni
Questo dato di realtà ti interroga e ti mette
in crisi rispetto a una percezione di vitalità,
di energia, di autonomia. Il corpo nella nostra generazione è sempre stato vissuto come qualcosa di molto forte, che si poteva anche trascurare. Ecco a quest’età il corpo invece reclama la sua presenza, diventa quasi
uno stregone con cui devi fare i conti.
Personalmente ho trovato interessante anche il fatto che la questione dell’estetica
praticamente non sia stata quasi tirata fuori, probabilmente è più un problema delle
cinquantenni, quando cominci a registrare
i primi cambiamenti esteriori.
Abbiamo comunque cercato di far venir fuori questo intreccio delle perdite e dei guada-
Giancarlo Gallo/Flickr
Perché o gli permetti di morire molto bene,
quando lo desiderano, o progetti un’assistenza civile, relazionale e umana, che però
comporta un lavoro immenso. Da molto rifletto su quest’idea che quando non sei più
competitivo, la società ti mette da parte.
Per me l’obiettivo è anche affrontare e sgretolare tutta questa ideologia, come si è fatto
con il femminismo.
Simona. Le motivazioni delle persone che
hanno partecipato al gruppo erano le più diverse. Ognuna di noi ha ritrovato una traccia, un senso. Personalmente io sono stata
molto colpita dal nome, ma positivamente.
Anch’io ero appena andata in pensione e
un’amica, anche provocatoriamente, mi ha
girato l’invito, che ho accolto con curiosità.
Io tendo ad avere un approccio anticipatorio
verso le cose, mi piace andare a vederle un
po’ prima, così anche se non mi sentivo ancora “arrivata” ho voluto entrare nel gruppo. Ecco, poter confrontarmi con donne che
avevano dieci o anche quindici anni più di
me è stato fondamentale e anche incoraggiante: c’è ancora tanta vita!
Da qualche anno, io sento in atto un cambiamento: si tratta di riposizionarsi, di riprendere le misure, anche rispetto all’immagine fisica che gli altri hanno di te. Purtroppo la saggezza non è più un valore; come dicevano alcune del gruppo, quando
parli con i figli, in famiglia, a volte ti accorgi
che fai fatica: “Per favore rallentate, perché
non vi seguo!” e la reazione spesso è un gesto significativo come dire “Che palle!”…
gni, forti della convinzione che l’anziano è
anche una risorsa, non solo un carico assistenziale.
Il percorso è stato segnato da un continuo
mettere a confronto punti di vista diversi,
senza contrapposizione, riprendendo un po’,
se vuoi, il discorso dell’autocoscienza. Questo ritrovarsi è stato molto stimolante: magari tu partivi da un’immagine molto dura,
molto pessimistica dopodiché ti dovevi confrontare con chi invece ti offriva uno sguardo diverso, opposto. Abbiamo parlato molto
del rapporto con i figli, spesso riconoscendo
di non essere d’accordo su alcune cose, anche con il senso liberatorio di poter dire:
“Vabbé, diciamocelo che persino i nostri figli a volte non ci piacciono!”.
Io certo ho imparato molto da questa esperienza. Da sempre, quando sono malata,
tendo a rintanarmi, a fare un po’ cuccia, ho
difficoltà a chiedere. Qualche tempo fa, come dicevo, ho dovuto sottopormi a un intervento all’anca. Ebbene, dopo tutte queste
nostre discussioni sul saper dare, ma anche
ricevere, al momento di entrare in ospedale,
per la prima volta, ho chiesto aiuto. Anche
al ritorno a casa, sono stata accompagnata
da tante persone che mi aiutavano, mi preparavano la cena; una cara amica è stata
qui un mese con me. Insomma alla fine mi
sono trovata a riconoscere che avevo davvero ricevuto tantissimo, ma perché finalmente avevo saputo chiedere!
Francesca. Quando ho cominciato a partecipare a questi incontri, avevo un po’ di tituuna città
21
buone pratiche
banza a dirlo alle amiche, la buttavo lì così
e regolarmente nessuno mi chiedeva nulla,
come se ci fosse il timore…
Io sono sempre stata molto diffidente verso
i centri anziani, non mi piacciono i ghetti:
perché inibirmi la possibilità di fare cose insieme a chi ha venti, trenta o quarant’anni?
Ecco, mi spaventa un po’ l’idea di fare spazio a una cosa specifica per gli anziani.
Marina. Ma non è certo quello il nostro proposito!
sono diffidente verso i centri
anziani, non mi piacciono i ghetti:
perché inibirmi la possibilità
di fare cose con chi ha trent'anni?
Simona. Noi siamo la generazione che ha
cercato sempre di autodeterminarsi, di autodefinirsi, è normale che ci interroghiamo:
se guardiamo i centri anziani, le Rsa, la fine con la badante, ti viene da dire: “No, non
posso finire così!”. Io questa cosa la sento
proprio come un dovere di coerenza! Non
tanto nel senso di finire così, ma nel senso
di non averci pensato, perché invaliderei il
percorso precedente.
Avete dedicato del tempo al tema del
cohousing.
Marina. Abbiamo affrontato anche il tema
della vita materiale: il lavoro, il non lavoro,
e ci siamo molto soffermate sulla situazione
abitativa: dove andrò? Starò da sola, con
una badante, in istituti protetti, in un cohousing? Qualcuno aveva già fatto delle
esperienze: alcune pure andate male, altre
solo pensate, altre ancora in fieri. Personalmente non ho mai pensato al cohousing come a un luogo di tutte vecchiette, mi piacerebbe un cohousing che mettesse assieme
diverse generazioni.
In Italia purtroppo siamo molto arretrati
da questo punto di vista. In Francia, in
Germania ci sono situazioni molto più
avanzate, in cui non devi necessariamente
comprare il tuo pezzo di casa, puoi anche
stare in affitto. Però la cosa interessante, a
mio parere, è che finalmente ci siamo andate dentro a questa cosa, chiedendoci seriamente: “Ma io, che da vent’anni parlo di cohousing con le mie amiche, lo vorrei davvero?”. Abbiamo tentato di capire meglio. Sicuramente alla base di questa scelta c’è la
paura della solitudine, ma anche la voglia
di condividere; e poi ci sono le questioni
pratiche: “Come faccio a vendere la mia casa, con il rischio che dopo tre mesi mi accorgo che quella situazione non fa per me?”.
Insomma, abbiamo fatto uscire anche gli
aspetti problematici, abbiamo messo assieme i vari tasselli.
Se mai dovessimo passare a un’esperienza
più “politica”, nel senso di coinvolgere la polis, ecco oggi siamo consapevoli degli aspetti positivi, ma anche delle difficoltà, delle
inquietudini, delle contraddizioni di una simile opzione.
22
una città
La soluzione abitativa è indubbiamente
uno dei crucci maggiori. Anche questo è segno dei tempi. L’altro giorno ho visto
un’amica che abita in Spagna: lei ha settantaquattro anni, il marito ha passato gli ottanta; il figlio ha quarantacinque anni e vive in Sud America. Ebbene, lei diceva: “Ma
se io dovessi restare vedova, dove vado?
Madrid non è la mia città, a Milano ci sono
stata un po’: tornare a Carpi non mi dice
più niente, a Lima, se mio figlio avesse un
figlio, ci andrei subito, ma diversamente cosa vado lì a fare?”. Questo dilemma le donne della generazione precedente non se lo
ponevano; adesso fra le nostre amiche sono
abbastanza numerose quelle che hanno i figli dall’altra parte del mondo.
Avete parlato di un senso di liberazione.
Marina. Tra i guadagni c’è anche questo
senso di liberazione da impegni coatti: non
hai più i figli piccoli, non hai più scadenze
lavorative...
Simona. Io vivo anche un’inedita libertà dai
giudizi. Molte di noi hanno registrato, nel
rapporto con gli altri, una maggiore leggerezza. Questa è una cosa bella.
Marina. Questa liberazione dall’approvazione degli altri alla fine curiosamente porta a un maggior riconoscimento perché ti
viene riconosciuta proprio questa libertà e
dignità. Agli incontri abbiamo ricordato
quella citazione di Brecht sulla “vecchia signora indegna”: quella che fa tutto quello
che le piace.
Lo stesso concetto di liberazione è stato interpretato in modo diverso. C’era chi voleva
disfarsi delle cose che appartenevano al
passato, gli oggetti, le lettere, i mobili.
Chiara, ad esempio, diceva: “Faccio il vuoto,
ho voglia di pulizia!”. E poi c’era l’altra fazione che invece si ribellava: “Ma no, è bello!”. Una raccontava: “Ho scoperto la tazzina della mia mamma e adesso mi piace berci il caffè alla mattina”; oppure piccole cose
di lessico familiare.
una raccontava: “Ho scoperto
la tazzina della mia mamma
e adesso mi piace berci
il caffè alla mattina”
Alla fine siamo arrivate a dire che la cosa
importante è non farsi sommergere dai
rimpianti; una di noi ha confessato: “Mi
sento come se avessi vissuto la vita a mia
insaputa”. Insomma, non rimpianti, ma ricordi buoni.
Simona. Personalmente ho apprezzato che
non ci fosse, nell’ascolto dell’esperienza degli altri, una cosa giusta e una sbagliata. Io,
per esempio, prima di frequentare il gruppo, appena andata in pensione avevo fatto
una grande pulizia nella mia stanza, buttando via tante cose. Mi dicevo: “Un pezzo
di vita finisce e ne comincia un’altra: via
tutta questa zavorra, bisogna liberarsi, se-
pararsi da queste cose” e così buttavo, buttavo… poi sono arrivata lì e mi è piaciuto
sentire che invece c’era chi teneva; perché
non è che privarsi di alcuni oggetti non provocasse un dispiacere. Oltre certi livelli rischia di essere una scelta un po’ ideologica,
tant’è che alla fine mi trovavo a guardarmi
intorno e a chiedermi: “Mamma mia, non
l’avrò mica buttata quella cosa lì?”.
Alla fine mi sono identificata di più nel far
pulizia, però scoprire che per altri era bello
anche trovare il senso del tenere, mi ha dato una sensazione di avvolgimento, cioè che
nulla è sbagliato.
Marina. Abbiamo affrontato anche questo
concetto del “tempo liberato”: della grande
liberazione dal lavoro, dagli impegni di cura, eccetera. Negli anni passati, mentre si
lavorava, si erano accumulati anche molti
desideri repressi; il fatto è che se tu li hai
lasciati perdere, non è facilissimo riprenderli in mano. Abbiamo parlato della questione del volontariato: dove si faceva, chi
lo faceva, chi non lo voleva fare… oppure
del godere dei piaceri della vita, che va benissimo, ma va contemperato con questa
necessità di avere un nodo di senso, un centro. Un’amica scherzando suggeriva: “Avere
un centrino, almeno!”.
Alla fine la domanda fondamentale è: che
ce ne facciamo di quest’ultima parte della
nostra vita? Rispetto al passato possiamo
dire che comunque sia andata è stata la nostra vita, ma adesso? Ecco, adesso mi piacerebbe avere qualche strumento in più per
capire che cosa ne faccio di questi anni, dove punto. E non è facile perché nessuna ti
può dare la sua vita, la sua ricetta. Non
puoi dire: “Guarda quella com’è brava, faccio anch’io così!”.
Avete parlato anche della malattia e
della morte.
Simona. L’incontro sulla morte lo abbiamo
fatto con l’aiuto e la conduzione di una sociologa, Grazia Colombo, che ha lavorato
tanto sulla formazione degli operatori in
ospedale, sulle perdite legate soprattutto al
percorso della nascita pretermine. Io sono
ostetrica e il mio lavoro mi ha insegnato a
fare i conti con queste situazioni. Certo è
stato un incontro faticoso...
Marina. Infatti, la volta dopo, prima di riprendere il discorso, abbiamo fatto il “party
della resurrezione”, abbiamo portato la
grappa, il formaggio, il pane, per tirarci su!
Simona. Complessivamente, l’esperienza
del gruppo mi ha riportato un po’ al mio lavoro, nel senso che mi è sembrato anch’esso
un percorso di preparazione alla nascita. I
temi sono gli stessi perché anche in un percorso di nascita affronti il tema del cambiamento, dell’adattamento a una nuova immagine, dell’accettazione di te, della sessualità, della paura, del dolore, della solitudine, della possibilità di condivisione, dell’ansia di controllo e del lasciar andare.
Marina prima parlava del chiedere, del dare e del ricevere. Quanto è difficile, nel momento del parto, stare accanto a donne che
non sanno chiedere, che non sanno cosa
chiedere! È una questione anche di umiltà
riconoscere: “Ho bisogno che tu mi stia vicino e che tu mi dia una mano”.
Non ne siamo più capaci. Non riusciamo
più nemmeno ad andare a chiedere l’uovo
per fare la frittata o il prezzemolo alla vicina di casa,… quand’ero piccola ricordo che
mia mamma mi diceva: “Vai dalla vicina a
chiedere il burro!”. Oggi se ci manca un ingrediente piuttosto cambiamo ricetta!
Francesca. Rispetto al tema della morte,
devo dire che nel periodo della partecipazione al gruppo, io ho perso un’amica e un’altra si è aggravata, così nel giro di qualche
anno mi sono trovata senza due persone
molto vicine. Questo mi ha dato molto da
pensare, anche rispetto alla capacità di fare
delle nuove amicizie in età adulta.
Poi io sento molto la minaccia della perdita
di autonomia. Dico sempre che sono stata
molto fortunata come salute. In questi ultimi anni però qualche acciacco si è presentato. Davanti a certi dolori è venuta fuori la
“caduta del metatarso” (a sessant’anni non
sapevo neppure cosa fosse il metatarso!).
Quest’inverno mi sono trovata a zoppicare
per una settimana, era la prima volta. Sono
cose che mi spaventano, proprio perché vado verso una certa età, ho 68 anni, e vivo
sola. A volte mi scopro a pensare: “E se poi
non riesco più a camminare, come faccio?”.
Per ora sto bene, però ci penso, se c’è un dolore, cerco subito di capire da che cosa dipende e di recuperare.
Marina. La malattia terribile e improvvisa
che ha colpito Vita Cosentino ci ha molto
turbato, ma di più ci ha impressionato l’incredibile mobilitazione delle amiche di cui
ha parlato nel suo libro e in un’intervista a
“Una città”. Mi ricordo che quando ne abbiamo discusso qualcuna ha fatto notare:
“Ma una rete così non è che si improvvisa!”.
È proprio così: le reti, le amicizie bisogna
guadagnarsele in qualche modo.
Anche su questo il nostro lavoro di gruppo
è stato utile. Si tende a pensare che alcuni
gesti “straordinari” arrivino come un dono,
invece abbiamo capito che la rete o te la costruisci oppure non c’è!
Purtroppo è molto vero quello che dice
Francesca: in questa fase della vita le amicizie sono un po’ più complicate rispetto alla fase precedente. Noi siamo state abituate
ad avere le amiche con cui andavamo in
viaggio, con cui condividevamo i bambini o
i lavori; adesso ognuna, in qualche modo,
prende la sua strada: una è ancora nel pieno del lavoro, l’altra fa solo la nonna, l’altra
si è trasferita, per cui c’è questa percezione
di una dispersione.
quest'inverno mi sono trovata
a zoppicare, era la prima volta
e mi ha spaventano, perché vado
per i 68 anni e vivo sola
Qualche anno fa, la mia ipotesi di spostarmi da Milano a Roma, dove vive mio figlio,
è stata considerata dalle mie amiche una
vera offesa! All’inizio non avevo capito… Invece la stessa cosa è successa qualche tempo fa quando un’amica che si trova con la figlia da una parte, la sorella dall’altra, ha
cominciato a interrogarsi su dove andare a
vivere e anche lei ha detto la stessa frase
che avevo detto io: “Vado dove sono i miei
parenti!”; ecco, questa volta io stavo dall’altra parte e assieme alle altre donne presenti le abbiamo risposto: “Ma come, e le tue
amiche?!”.
Della sessualità avete parlato?
Marina. È un tema che abbiamo affrontato,
anche se non posso dire che siamo andate
regalate
una città
Modalità di pagamento:
-Cc. postale n. 12405478 - Una Città Soc. Coop.,
via Duca Valentino 11, 47121 Forlì
Bonifico bancario intestato a Una Città Soc. Coop.
IBAN IT36O0601013208074000000048
-tramite internet (www.unacitta.it) aprendo la pagina:
http://www.unacitta.it/abbonamenti.asp
buone pratiche
molto a fondo. Mi sembra che siano venute
fuori due percezioni molto diverse tra chi è
in coppia e chi (tra l’altro la maggioranza)
è single.
Antonella. Va detto che anche chi ha un
compagno spesso rinuncia alla sessualità;
in ogni caso pesa il venir meno della capacità di attrarre.
Simona. Abbiamo parlato anche della trasformazione dell’approccio alla sessualità
con la prevalenza di una ricerca di abbracci, di affettuosità, piuttosto che di una sessualità genitale. Questa cosa mi è sembrata
abbastanza comune.
Marina. Alcune donne in coppia segnalavano una diversità dalla sessualità maschile:
“Io mi sono tirata fuori, voglio una sessualità diversa, voglio un abbraccio, voglio stare insieme, mentre lui invece...”.
Ugualmente complicata è, d’altra parte, la
situazione di chi è single, che ancora più
difficilmente riesce a riempire la mancanza
di sessualità con un’affettuosità, una vicinanza diversa. C’è quella bella poesia di
Davide Maria Turoldo che dice: “Non ho
mani che mi accarezzino il volto”…
Sul desiderio poi il discorso si è fatto più
ampio. Nell’età adulta la tua identità è molto connotata dall’esterno: perché hai dei
compiti, un lavoro, un ruolo; a quest’età
succede che la legittimazione la devi cercare dentro di te: una bella sfida!
Forse, uno dei guadagni del gruppo alla fine sta anche nell’aver sviluppato questa
pazienza, questa apertura verso ciò che è
ignoto, questa capacità perfino di disimparare quello che sei stato per accogliere le
possibilità, anche impreviste, che ti offre la
vita. La vecchiaia non è, insomma, un insieme di passato e di possibile futuro, è un
presente. Come dire: adesso sei quello che
sei e sta a te decidere: che vita vuoi vivere?
(a cura di Joan Haim e Barbara Bertoncin)
Abbonamenti
“primo ingresso”: 30 euro
Rinnovo ordinario: 60 euro
Rinnovo studenti: 30 euro
Abbonamento regalo: 30 euro
estero (Europa): 100 euro
(resto del mondo): 120 euro
In alternativa “al cartaceo” è possibile,
al costo di 30 euro, sottoscrivere
l’abbonamento al pdf della rivista
una città
23
Adam Ferguson - The New York Times/contrasto
“L’Isis ha commesso il crimine di genocidio, nonché molteplici crimini contro l'umanità e crimini di guerra
pensabili”. Il rapporto della Commissione internazionale indipendente d’inchiesta sulla Siria dell’Onu, pu
attivisti, avvocati, giornalisti e personale medico. L’Isis, denuncia l’Onu, ha cercato di distruggere il popolo
inumani e degradanti, trasferimenti forzati che hanno causato gravi danni all'integrità fisica e psicologica;
tra donne e uomini, la sottrazione di bambini yazidi dalle loro famiglie da parte dei combattenti Isis… Nell
a contro gli yazidi, migliaia dei quali sono tenuti prigionieri in Siria, dove sono sottoposti agli orrori più imubblicato il 16 giugno scorso, si basa su 45 interviste con sopravvissuti, leader religiosi, contrabbandieri,
o yazida attraverso: l’assassinio, lo sfruttamento sessuale, la riduzione in schiavitù, la tortura e trattamenti
l’imposizione di condizioni di vita che determinano una lenta morte; la conversione forzata, la separazione
a foto: rifugiate yazide in fuga dall’Isis, Faysh Khabur, 9 agosto 2014.
interventi
Più poveri dei genitori
Un rapporto del McKinsey General Institute
del luglio scorso (vedi link), citato da Federico Rampini su “Repubblica” del 13 agosto,
confronta il reddito lordo e il reddito disponibile (dopo le tasse e i sussidi) nel decennio
2005-2014 con quello del decennio precedente in 6 Paesi: Italia, Stati Uniti, Regno
Unito, Olanda, Francia e Belgio.
Non sorprende che, dopo la crisi, ci sia un
declino dei redditi in quasi tutti i paesi. Sorprende l’entità e la pervasività del declino, la
distribuzione per decili di reddito della popolazione (le persone nello stesso decile di
reddito, a distanza di dieci anni, non le stesse persone più vecchie di dieci anni). Sorprendono le differenze tra paesi e tra reddito
lordo e reddito disponibile nei vari paesi, che
sono una sorta di indicatore complessivo
delle politiche sociali. Si commentano più di
frequente gli andamenti del Pil e della produttività, o le clamorose e crescenti differenze di reddito e di ricchezza, sulla strada
aperta da Piketty. Gli andamenti del reddito
disponibile ci sono meno familiari.
Il McKinsey General Institute ha scelto di misurare le differenze di reddito dello stesso
decile a distanza di dieci anni perché ritiene
che le differenze tra le varie classi sociali
possano anche non sconvolgere la società
se il reddito di chi sta più in basso cresce,
ma che la caduta permanente del reddito
della stessa classe sociale nel tempo difficilmente possa essere tollerata senza scosse.
Ma veniamo ai dati essenziali. In Italia la caduta del reddito lordo ha riguardato il 97%
della popolazione; negli Stati Uniti l’81%; nel
Regno Unito il 70%; in Olanda il 70%; in
Francia il 63%; in Svezia il 20%.
Per il reddito disponibile, dopo le tasse e i
sussidi, in Italia il declino riguarda il 100% (3
punti in più che per il lordo); negli Stati Uniti
meno del 2% (80 punti in meno); nel Regno
Unito il 60% (dieci punti in meno); in Olanda
il 70% (livello immutato); in Francia il 10%
(53 punti in meno); in Svezia meno del 2%
(18 punti in meno). In sostanza Stati Uniti,
Francia, Svezia, in misura minore Regno
Unito, hanno una politica sociale di sostegno
al reddito. Italia e Olanda non ce l’hanno.
Come hanno fatto Stati Uniti, Francia, Svezia, Gran Bretagna, a sostenere il reddito?
Gli Stati Uniti, secondo il Rapporto, hanno
sostenuto il reddito delle famiglie con 350
miliardi di dollari che, insieme con le cifre ancora maggiori usate per sostenere le banche, hanno portato il loro debito pubblico vi-
di Francesco Ciafaloni
cino al 100% del Pil. In misura minore hanno
fatto la stessa cosa la Francia e la Gran Bretagna. L’Olanda non ha fatto nulla. La Svezia, con una situazione assai più equilibrata,
ha accresciuto il debito pubblico nell’immediato, ma poi lo ha riportato vicino al 40%
precedente.
L’Italia, con un debito pubblico molto alto e
lo spread in crescita rispetto ai bond tedeschi, come ricordiamo, ha preso misure restrittive che hanno peggiorato la situazione.
Le differenze in dettaglio
Se si guardano i mutamenti del reddito lordo
e di quello disponibile paese per paese e decile per decile (o quintile per quintile) si trovano varie conferme e qualche novità.
L’Italia ha una situazione peggiore, e un effetto negativo delle tasse e sussidi, anche
prima della crisi. La Francia tampona (non
del tutto) il peggioramento del quintile più
basso. La Svezia annulla in media il peggioramento, ma lascia immutati i maggiori aumenti dei quintili più alti.
In tutti i paesi il tasso di occupazione dei
molto qualificati è maggiore di quello dei meno qualificati (ma con dieci punti, o venti per
le qualifiche medie) di differenza tra Svezia
e Italia.
La precarietà è aumentata per tutti, ma con
grandi differenze tra paesi.
In genere il quintile più basso ha avuto una
caduta maggiore del reddito lordo, compensata dall’intervento pubblico.
In Olanda il quintile più basso ha resistito alla crisi passando al lavoro autonomo.
In generale si può osservare che non c’è
un’importanza magica dei settori di punta.
Non c’è stato l’aumento di produttività atteso dall’automazione, che inoltre distrugge
posti di lavoro senza crearne altrettanti di
nuovi. Conta di più l’intreccio e l’equilibrio
tra settori.
Dove stiamo andando
Il Rapporto è solo uno di moltissimi contributi, ricerche e libri, che mettono in guardia dal
considerare la crescita continua come un
dato permanente. di natura (vedi anche secondo link). Ricchi per sempre?, si è chiesto
Pierluigi Ciocca degli italiani. Robert J. Gordon ha scritto The Rise and Fall of American
Growth: The US Standard of Living since the
Civil War: storia, non profezia. Non si tratta
di una ripresa dell’ideologia del declino
dell’Occidente, ma di un declino dell’ideolo-
gia della crescita continua, dei modelli onnicomprensivi ed espansivi in eterno. Non solo
Europa e Stati Uniti, per ragioni strutturali,
fanno fatica a mantenere il reddito dei loro
poveri e del loro ceto medio ma anche i
Brics non sembrano in buona salute.
Il Rapporto si limita al passato, ma non si
astiene dall’esprimere, prudentemente, timori sulla tenuta sociale.
“Un periodo lungo di redditi piatti o declinanti
potrebbe avere effetti importanti sulla crescita economica e sui bilanci degli Stati. Se si
rompe la connessione tra crescita del Pil e
crescita dei redditi e si crea la possibilità che
la prossima generazione sia più povera di
quella dei genitori, si distrugge anche la diffusa aspettativa di progresso. Ne può derivare una insoddisfazione sociale e politica e
un senso di alienazione, di ostilità verso alcuni aspetti del sistema economico globale.”
È quello che è accaduto negli Stati Uniti, in
Gran Bretagna, in Italia. Un po’ dappertutto.
La ricetta che sembra aver funzionato meglio è la vecchia ricetta socialdemocratica: “Il
Governo svedese si è concentrato sulla conservazione e la creazione di posti di lavoro,
aggiungendo lavori temporanei al settore
pubblico, riducendo le tasse sui salari per le
aziende e dando incentivi fiscali per l’assunzione di giovani e di disoccupati di lungo periodo. Il Governo americano ha puntato di
più alla stabilizzazione dei settori come quello bancario e quello automobilistico e stimolando la domanda nell’economia.”
Il Governo italiano, ha seguito, a parole, la
strada svedese, ma in pratica, al contrario,
ha applicato l’austerità per i cittadini, temperata da qualche regalo, e gli sgravi per le
aziende, senza l’autonomia e la stabilità delle economie forti e perciò senza ottenerne i
risultati.
Nei commenti del Rapporto sembra interamente sparita l’illusione della crescita e
dell’equilibrio determinati dal mercato. Senza regole e interventi pubblici resteremo con
l’acqua alla gola. Fino alla prossima crisi.
http://www.mckinsey.com/global-themes/employment-and-growth/poorer-than-their-parents-a-new-perspective-on-income-inequality
http://www.mckinsey.com/industries/privateequity-and-principal-investors/ourinsights/why-investors-may-need-to-lowertheir-sights
Redazione: Barbara Bertoncin, Giorgio Calderoni, Stefano Ignone, Silvana Massetti, Giovanni Pasini, Paola Sabbatani, Gianni Saporetti (direttore
responsabile). Collaboratori: Isabella Albanese, Katia Alesiano, Rosanna Ambrogetti, Giorgio Bacchin, Luca Baranelli, Alfonso Berardinelli, Sergio
Bevilacqua, Guia Biscàro, Marzia Bisognin, Stephen Eric Bronner, Thomas Casadei, Alessandro Cavalli, Francesco Ciafaloni, Luciano Coluccia,
Francesca De Carolis, Carlo De Maria, Ildico Dornbach, Bruno Ducci, Fausto Fabbri, Enzo Ferrara, Bettina Foa, Andrea Furlanetto, Bel Greenwood,
Joan Haim, Massimo Livi Bacci, Giovanni Maragno, Emanuele Maspoli, Franco Melandri, Annibale Osti, Cristina Palozzi, Cesare Panizza, Andrea
Pase, Edi Rabini, Alberto Saibene, Ilaria Maria Sala, Massimo Saviotti, Sulamit Schneider, Alessandro Siclari, Massimo Tirelli, Franco Travaglini,
Alessandra Zendron. Hanno collaborato: Antonio Fedele, Andrea Furlanetto, Andrea Rizza Goldstein, Marie-Anne Matard-Bonucci. In copertina:
foto di Iga Lubczanska. Proprietà ed editore: Una Città società cooperativa. Cda: Rosanna Ambrogetti, Barbara Bertoncin, Giorgio Calderoni, Enrica
Casanova, Francesco Ciafaloni, Stefano Ignone, Silvana Massetti, Paola Sabbatani, Gianni Saporetti, Franco Travaglini. Questo numero è stato
chiuso il 5 novembre 2016.
UNA CITTA’
26
una città
appunti di viaggio
ASPETTANDO BRUXELLES
L’adesione dell’Ucraina all’Europa incagliata in un referendum olandese, senza valore vincolante,
ma in cui la maggioranza, circa due milioni e mezzo, si sono pronunciati contro la candidatura
ucraina; la situazione nel Donbass, la Crimea e la decisione della Finlandia. Di Paolo Bergamaschi.
Ottobre 2016
Cielo imbronciato sul Majdan. Nubi compatte strozzano i timidi raggi del sole acerbo del mattino che non ha ancora la forza di
riscaldare gli incerti passanti che tagliano
la piazza. Qualche piccione arruffato saltella sul selciato danzando attorno ad un presidio di testimoni di Jehova pronti ad intercettare gli incauti avventori dei locali del
centro distribuendo loro bibbie che certificano la parola di Dio. Nel mezzo si staglia
un grande poster con le foto delle vittime
dell’eccidio del febbraio di due anni fa, perite in quello stesso luogo sotto il fuoco dei
cecchini dei famigerati corpi speciali della
polizia di Yanukovich. Di fianco la sede dei
sindacati che ospitava il quartier generale
dei manifestanti è impacchettata dalle impalcature sulle quali muratori e carpentieri
provvedono alle laboriose opere di restauro
dopo l’incendio scoppiato durante gli scontri
di allora. Lungo il corso Kreshatik il traffico
procede a strappi scanditi dal ritmo dei semafori. Fatico ad orientarmi in questa piazza dove ritorno dopo una lunga assenza. Mi
guardo intorno spaesato nello spazio vuoto
mentre nella mia testa scorrono e si sovrappongono alla rinfusa immagini e ricordi di
angoli famigliari che stento a riconoscere
adesso che hanno riacquistato le grigie
sembianze della routine quotidiana. La normalità annoia e uccide la fantasia ma non
cancella il passato recente, un passato che
a tratti riappare e continua a ingombrare i
sogni e le ambizioni dell’Ucraina.
Il referendum olandese
Tutto era cominciato nell’ottobre del 2013
quando l’allora presidente Yanukovich si
era improvvisamente rifiutato di sottoscrivere l’Accordo di Associazione con l’Unione
Europea da lui stesso negoziato e concluso.
Sono trascorsi tre anni nei quali in Ucraina
è accaduto di tutto, fra dimostrazioni spontanee, proteste più o meno pacifiche, sommosse e rivoluzioni, occupazioni di spazi
pubblici, azioni di resistenza attiva, scontri
violenti con la polizia, esecuzioni di massa,
cambio di regime, invasioni camuffate,
guerre di secessione, conflitti congelati con
migliaia di vittime e milioni di profughi, e
quell’accordo non ha ancora trovato attuazione. Questa volta, tuttavia, non è colpa di
Kiev, è la controparte europea che non è in
grado di far fronte agli impegni presi . Basta poco per inceppare i contorti e farraginosi meccanismi decisionali dell’Unione a
testimonianza di quanto fragile, delicata e
complicata sia la macchina comunitaria.
Ogni accordo internazionale sottoscritto
dall’Ue per entrare in vigore deve essere ratificato secondo le procedure previste dai
trattati e in conformità con le norme stabilite dall’ordinamento giuridico di ciascuno
dei paesi membri. In parole povere occorre
il consenso del Consiglio e del Parlamento
Europeo, da un lato, e quello dei governi e
dei parlamenti nazionali dei paesi membri,
oltre che del paese terzo, dall’altro. Se manca anche uno solo di questi passaggi l’accordo resta lettera morta, buono solo per la tesi di laurea di qualche studente di scienze
politiche o di qualche saggio o dissertazione
accademica. In genere il tempo tecnico che
intercorre fra la firma ufficiale del documento e la conclusione della procedura di
ratifica è di circa un paio di anni.
nelle urne si è sfogata la rabbia
di coloro che reputano l’Unione
responsabile di tutti
i mali che affliggono l’Olanda
Non era mai successo, in precedenza, che
un paese membro bloccasse l’iter procedurale dopo la firma ufficiale delle parti, avvenuta, in questo caso, il 27 giugno del
2014. Il 6 aprile scorso, però, i cittadini
olandesi sono stati chiamati a pronunciarsi
tramite referendum sull’approvazione dell’accordo fra Unione Europea e Ucraina e
una schiacciante maggioranza, il 61% dei
votanti, ha espresso parere contrario. Poco
importa se il risultato non è vincolante trattandosi di una consultazione priva di valore
giuridico; di fatto il governo dell’Aja si è
sentito nell’obbligo di sospendere la notifica
a Bruxelles, ultimo passaggio tecnico, della
ratifica parlamentare approvata a stragrande maggioranza pochi mesi prima gettando nel panico le autorità europee. L’iniziativa referendaria era stata promossa da
gruppi euroscettici decisi ad interrompere
il processo di integrazione del vecchio continente. Più che dell’accordo in sé, nel corso
della campagna si è discusso di politiche comunitarie e nelle urne si è sfogata la rabbia
di coloro che reputano l’Unione responsabile di tutti i mali che affliggono l’Olanda.
Con il risultato che poco più di due milioni
e mezzo di elettori olandesi hanno dato
scacco alla diplomazia europea, ai ventotto
governi dei paesi membri e ai rispettivi
ventotto parlamenti nazionali, con l’Ucraina vittima innocente e impotente delle contorsioni epilettiche dell’opinione pubblica
dei Paesi Bassi. Si tratta di capire, ora, se e
come è possibile andare avanti. L’accordo di
associazione, infatti, è di natura mista cioè
in parte di competenza esclusiva dell’Unione, che non ha bisogno quindi della ratifica
dei parlamenti nazionali, e in parte di competenza condivisa che richiede, invece, il
consenso di questi ultimi. Così dal primo
gennaio 2016 i capitoli di prerogativa comunitaria, che riguardano gli scambi commerciali e le misure economiche relative, vengono applicati in via provvisoria mentre per
quanto riguarda il resto, che ha valenza soprattutto politica, il giudizio è sospeso in attesa di attento esame degli azzeccagarbugli
di Bruxelles chiamati dalle autorità olandesi a sbrogliare la matassa. In questa paradossale situazione una cosa è sicura: il pasticcio non si risolverà, per ovvie ragioni,
prima delle elezioni legislative che si terranno nei Paesi Bassi nella primavera del
prossimo anno con i populisti anti-europei
che viaggiano con il vento in poppa. Povera
Europa, bistrattata, sbeffeggiata e avvitata
su se stessa in un turbine vertiginoso, e povera Ucraina impantanata e aggrovigliata
in problemi che esulano in buona parte dal
contesto nazionale proiettandosi sullo scenario della nuova guerra fredda che vede
ancora una volta contrapposti i paesi occidentali e la Russia.
Lotta alla corruzione
Hugues Mingarelli è un funzionario di lungo corso passato al servizio diplomatico
dell’Unione quando questo corpo fu creato
nel gennaio del 2011. Sempre incaricato di
occuparsi di aree di crisi, dai Balcani al
Caucaso e, negli ultimi anni, ai paesi della
sponda meridionale del Mediterraneo, l’ho
spesso incrociato nelle aule parlamentari
dove gli eurodeputati lo interpellavano,
spesso con domande fuori tema, sull’uso dei
fondi comunitari e l’efficacia delle politiche
di assistenza. Da qualche mese è stato nominato ambasciatore europeo in Ucraina.
Spetta a lui, quindi, il coordinamento dei
diplomatici che rappresentano a Kiev i 28
paesi membri. Ed è sempre lui che funge da
moderatore all’incontro che apre la visita di
questa nuova delegazione dell’eurocamera
nella ex-repubblica sovietica. Il primo a
prendere la parola, lupus in fabula, è l’ambasciatore olandese che, non senza un certo
imbarazzo, fa il punto della situazione sulla
messa in atto dell’accordo di associazione,
seguito da quello danese che sposta subito
il discorso sull’altra grande malattia che affligge l’Ucraina, la corruzione. Era stato
proprio il rifiuto nei confronti della corruzione dilagante una della cause predominanti che aveva spinto la gente nelle piazze
una città
27
appunti di viaggio
durante i giorni della “rivoluzione della dignità”. Tangenti e mazzette erano la norma
ai tempi di Yanukovich come, peraltro, lo
erano ai tempi dei governi filo-occidentali
precedenti ai quali, però, Bruxelles guardava con strabica indulgenza. Il nuovo corso
ucraino poggia sulla lotta alla corruzione
ma risulta difficile estirpare con le sole risorse umane autoctone un male radicato e
ormai cronicizzato a tutti i livelli nelle
strutture dello stato. Nel quadro della variegata assistenza offerta a Kiev, l’Unione
Europea ha, così, messo a punto un programma specifico per combattere questa
piaga ed ha incaricato la Danimarca, ai vertici nelle classifiche mondiali dei paesi meno corrotti, di attuarlo. “La corruzione è il
cancro della società di questo paese -sottolinea l’ambasciatore danese- ma non si tratta di un tumore circoscritto rimovibile con
un semplice intervento chirurgico, è qualcosa di sistemico, più simile a una leucemia
che richiede una terapia totale a dosi massicce”.
paradossalmente oggi l’Ucraina
è diventata, così, il paese
più corrotto e, allo stesso tempo,
più trasparente d’Europa
Uno dei primi provvedimenti del nuovo governo è stato l’istituzione dell’Agenzia Nazionale per la Lotta alla Corruzione che, però, manca ancora dei mezzi necessari per
operare a pieno regime. Dal primo settembre, inoltre, è entrato in vigore per 40.000
funzionari statali l’obbligo della dichiarazione elettronica dello stato patrimoniale
che impone ogni anno e per i tre anni successivi alla fine del mandato anche ai politici che occupano cariche pubbliche di rendere noti redditi e proprietà. Fonti ufficiose
del ministero della giustizia parlano di 500
giudici che per evitare la gogna mediatica
di patrimoni sospetti abbiano preferito il
pensionamento anticipato. Secondo alcune
organizzazioni non governative paradossalmente oggi l’Ucraina è diventata, così, il
paese più corrotto e, allo stesso tempo, più
trasparente d’Europa.
Non c’è pace nel Donbass
Nel Donbass si continua a morire. Sono rari
i giorni in cui i bollettini che arrivano dalla
linea del cessate-il-fuoco non riportano vittime. Dal primo settembre è entrata in vigore l’ennesima tregua già violata dalle
parti in numerose occasioni con scambi di
accuse e attribuzioni reciproche di responsabilità. Nonostante Mosca insista nel negare ostinatamente ogni coinvolgimento diretto nel conflitto, si spara e ci si ammazza
da ambo le parti con armi russe. Con gli insorti, però, operano anche 6000 soldati
dell’ex armata rossa intruppati in battaglioni più o meno regolari. Il quartetto incaricato di portare avanti il processo di pace, composto da Ucraina, Russia, Francia e
28
una città
Germania, si incontra regolarmente così come frequenti sono i colloqui telefonici fra
Merkel, Putin e Hollande ma agli impegni
presi a parole non corrispondono i fatti. Difficile rimettere assieme i pezzi del mosaico
dopo feroci e prolungati combattimenti che
hanno lasciato sul terreno quasi 10.000
morti e provocato la fuga di tre milioni di
persone fra sfollati interni e rifugiati riparati in Russia. L’accordo negoziato a Minsk
a febbraio prevedeva la cessazione delle
ostilità, il ritiro dell’artiglieria pesante dalla linea di contatto, l’attribuzione di uno
statuto speciale alle regioni orientali, il ritorno delle guardie regolari ucraine alla
frontiera con la Federazione Russa, la liberazione dei prigionieri, l’amnistia per i secessionisti e le elezioni locali nel Donbass
per definire il nuovo assetto istituzionale.
Tutti concordi sui contenuti ma profondamente divisi sui tempi di attuazione. Per
Kiev prevale la sequenzialità delle misure
previste dagli accordi, per Mosca la sincronizzazione. Come è possibile tenere libere
elezioni senza il pieno controllo dei confini?
Sostengono gli ucraini. Mentre i separatisti, spalleggiati dai russi, ribadiscono di
non fidarsi della controparte volendo prima
vedere fatti concreti. Più che un piede in
territorio ucraino, a Mosca interessa un
piede nello stato ucraino per controllarne,
condizionarne o influenzarne le scelte. D’altronde un pezzo di Ucraina strategicamente più importante, la Crimea, è già saldamente in mano russa, annessa alla federazione dopo l’invasione strisciante del 2014.
La penisola del Mar Nero è stata, oggi, trasformata in un’immensa base militare proiettata verso il Medio Oriente in appoggio
all’intervento delle forze russe in Siria, con
buona pace delle strutture turistiche locali,
quasi deserte, e dell’unica minoranza autoctona, quella tartara, messa a tacere con
la forza. Le sanzioni occidentali mordono,
ma Mosca non demorde, nonostante barcolli sotto il peso di una situazione economica
preoccupante. E all’opinione pubblica russa
sembra interessare più la proiezione esterna del paese, con lo status riacquisito di superpotenza, che la situazione interna, come
sottolineato dalla vittoria schiacciante del
partito di Putin alle elezioni di settembre
per il rinnovo della Duma.
“La Russia non mi spaventa”, mi dice Rune
Glasberg, un collega finlandese, nella hall
dell’hotel mentre sorseggiamo con lucida
calma due dita di brandy ucraino. “Si può
discutere di tutto ma una cosa è certa”, aggiunge ironico, “non è possibile cambiare la
posizione geografica dell’Ucraina come non
è possibile cambiare quella della Finlandia”. “A Helsinki da tempo si dibatte se
aderire o meno alla Nato -sottolinea- ma la
discussione è pacata e, pur con opinioni
contrastanti, nessuno si azzarda ad accusare l’altro di tradire il proprio paese come avviene invece a Kiev”. Rune, probabilmente,
ha ragione, ma è difficile applicare la ricetta finlandese a un paese in guerra come è
l’Ucraina odierna. Anche perché la stessa
Finlandia, contravvenendo in parte alla
propria storica neutralità, il 7 ottobre scorso ha sottoscritto un accordo bilaterale con
gli Stati Uniti che ha molto irritato Mosca.
I frequenti sconfinamenti russi nei paesi
baltici, che spesso hanno il sapore di provocazione, sono visti con preoccupazione anche da chi, come la Finlandia, ha saputo costruire nel tempo una solida relazione di
buon vicinato con l’ingombrante vicino subendone, in parte, l’irruenza fino ad autolimitare nel passato, più per timore che per
scelta, l’orizzonte della propria politica
estera. “Stiamo facendo la Russia più forte
e l’Europa più debole di quanto non siano in
realtà”, afferma Rune, ma non sembra convinto di quello che dice.
Incontrare le vittime di guerra è sempre
un’esperienza toccante che lascia un segno
profondo. Storie vissute e testimonianze dirette si intrecciano con emozione e dolore
riattizzando lutti che, invece, bisognerebbe
avere la forza, col tempo, di riassorbire e
metabolizzare. Quella che racconta Volodymyr è un’esperienza terrificante. Nato nel
Donbass e, come la maggior parte della popolazione della regione, di madre lingua ed
etnia russa, allo scoppio della crisi era ritornato a casa dal luogo dove era emigrato
per portare in salvo la famiglia. “C’erano
soldati con uniformi senza mostrine per le
strade che parlavano russo con un accento
diverso, provenienti da chissà quale parte
della federazione”, narra. “Nessuno spiegava quello che stava succedendo, nessuno rispondeva alle mie domande”, insiste con voce sommessa. “Volevo ripartire, ma non me
l’hanno permesso così nella fuga sono saltato accidentalmente su una mina perdendo
le braccia”, racconta mostrando gli arti amputati. Ferito e catturato dai separatisti,
volevano obbligarlo ad una confessione
pubblica alla televisione ma lui si è rifiutato finendo in carcere da cui è uscito grazie
a uno scambio di prigionieri.
è netta l’impressione
che senza lo mano di Mosca
la guerra non sarebbe
mai scoppiata
“I russi vogliono un’Ucraina debole da annettere pezzo per pezzo -dichiara sconfortato- mentre io mi batto perché il mio paese
si integri al resto d’Europa”. Volodymyr
contraddice e sconfessa la narrativa di Putin secondo la quale i russi del Donbass erano discriminati da Kiev. È netta l’impressione che senza lo mano di Mosca la guerra
non sarebbe mai scoppiata. Adesso, però,
occorre voltare pagina e provare a costruire
una pace che appare impossibile. Ho incontrato vittime di tante guerre e ho imparato
che il dolore è un’esperienza che non appar-
appunti di viaggio
membri che fino all’ultimo resistono, recalcitrano e si contorcono prima di dare l’agognato semaforo verde. All’Ucraina ci sono
voluti otto anni per concludere l’iter e anche
dopo avere ottemperato a tutte le clausole
previste non ha ancora ottenuto il sospirato
ok. La questione della liberalizzazione dei
visti continua ad essere al primo posto
nell’agenda delle relazioni bilaterali fra
Kiev e Bruxelles, ma i vertici dell’Unione
nicchiano trovando sempre nuovi pretesti
per rimandare la decisione definitiva che le
autorità ucraine sperano possa avvenire
prima della fine dell’anno. D’altronde, in
piena emergenza migranti, nessun ministro
europeo ha il coraggio di prendersi la responsabilità di aprire ulteriormente le porte dell’Unione ad altri potenziali ospiti indesiderati. Non importa se si tratta solo di
visti brevi che non contemplano il permesso
di lavoro; l’ossessione dell’immigrato è talmente forte da spaventare qualsiasi politico
con il risultato che, da una parte, l’Unione
Europea è incapace di mantenere le promesse fatte e dall’altra, nei paesi partner,
aumenta il senso di frustrazione e la rabbia
di chi si sente preso in giro.
nessun ministro europeo
ha il coraggio di prendersi
la responsabilità di aprire
ulteriormente le porte dell’Ue
Paolo Bergamaschi
Cinque per cento. A tanto ammonta la percentuale di bilancio che anche quest’anno il
governo di Kiev ha destinato alla difesa. Si
tratta di una spesa enorme per un paese
che era sull’orlo del tracollo economico. Eppure negli ultimi mesi si sono registrati segnali incoraggianti. Dopo la caduta rovinosa del prodotto interno lordo nel 2014, il
paese è lentamente tornato a crescere e ha
raggiunto la stabilità macro-finanziaria. In
due anni le riserve di valuta straniera sono
aumentate di cinque volte con il deficit che
è sceso dal 10% a poco più del 3%. La nuova
Ucraina guarda a Occidente. La maggioranza degli scambi commerciali è con
l’Unione Europea mentre diminuiscono verticalmente quelli con la Russia. Già, la
Grande Madre Russia che affonda le radici
storiche in Ucraina e che non vuole rassegnarsi al fatto che i figli prima o poi possano recidere il cordone ombelicale. Le famiglie allargate hanno il pregio di offrire più
stimoli e opportunità di crescita. L’Ucraina
di oggi non rinnega o disconosce le origini,
ma ha deciso di liberarsi di un abbraccio
soffocante che rischiava di diventare mortale. C’è ancora tempo e spazio per una rappacificazione a condizione che le madri riconoscano i diritti dei figli e non pretendano
di avere l’ultima parola sulle loro scelte.
Compresa quella di cercarsi una nuova casa
e progettare un futuro diverso. Nell’attesa
che a Bruxelles si diano una mossa.
tiene esclusivamente ad una parte. È giusto
e doveroso individuare torti e ragioni ma
chi soffre ha il bisogno intimo di condividere e il primo passo verso la riconciliazione
sarebbe quello di farlo con chi ha vissuto
esperienze analoghe nel fronte opposto.
Senza visto
Uno dei capisaldi del Partenariato Orientale è la mobilità agevolata. Nel quadro dell’assistenza offerta, Bruxelles mette a disposizione dei cittadini dei paesi che ne fanno parte la possibilità di entrare nell’Unione senza l’obbligo del visto, il cui ottenimento è, attualmente, costoso, complicato e,
per certi versi, umiliante. Per avere questa
concessione, però, occorre soddisfare una
lunga lista di requisiti che richiedono l’adeguamento di tutti gli organi dello stato, degli apparati, delle normative e dei sistemi
coinvolti. Sono estremamente elaborate e
minuziose le procedure tecniche e burocratiche che bisogna aggiornare o creare ex novo, dall’introduzione dei passaporti biometrici allo scambio elettronico dei dati, per
ottenere il via libera degli inflessibili ispettori della Commissione europea inviati periodicamente in loco a verificare l’applicazione degli accordi. E anche quando, poi,
tutto sembra a posto dal punto di vista tecnico e amministrativo, l’ultima parola spetta, comunque, sempre a Bruxelles, in particolare ai ministri degli interni dei paesi
una città
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-internazionalismo
UNA CAUSA PER
ANDARE A MORIRE
Una sinistra che per spiegare perché tanti giovani vanno a morire per l’Islam, cerca spiegazioni
“sociali” per non risultare islamofobica; l’errore di non dar credito all’influenza della religione non
accorgendosi così di restare dentro a un immaginario coloniale; la forza della speranza che oggi
solo l’islamismo sembra saper offrire; la potenza dei simboli che da noi non ci sono più;
la decisiva lotta fra l’Islam che interpreta e quello che legge e basta. Intervista a Jean Birnbaum.
Jean Birnbaum è responsabile del supplemento libri di "Le Monde". Il libro di cui si
parla nell’intervista è Un silence religieux.
La gauche face au djihadisme, Seuil 2016.
Nel tuo ultimo libro accusi la sinistra
di non capire il fondamentalismo islamico, anche per la paura di essere accusata di islamofobia.
Nel mio libro c’è un capitolo intitolato “Rien
à voir avec l’Islam?” (Niente a che vedere
con l’islam?). Questo capitolo l’ho scritto per
evitare che ci fossero fraintendimenti: il
mio non è un libro ostile all’Islam come religione, non è un libro contro l’Islam. Il mio
obiettivo era quello di cercare di tracciare
una frontiera tra l’islam come spiritualità e
l’islamismo come ideologia politica, il jihadismo come violenza terrorista. L’ho fatto a
partire dalla tradizione di pensiero di Christian Jambet, di Henry Corbin, studiosi che
hanno sempre fatto una chiara distinzione
tra l’Islam come esegesi spirituale di un testo, e un Islam politico e dottrinale che irrigidisce e falsa il senso di quello stesso testo.
Il punto è che ogni volta che cerchiamo di
tracciare una linea semplice tra islam e
islamismo ci rendiamo conto che non ci sono dei criteri chiari, né per quanto riguarda
l’interpretazione dei testi, né rispetto al
rapporto con la politica. La rivista “Les
Temps Modernes”, fondata da Sartre, ha
pubblicato un numero molto interessante
sull’Islam, la teologia e lo Stato, in cui denuncia appunto come sia difficile distinguere, separare questi aspetti.
Io ho voluto comunque fare un tentativo
per uscire da possibili equivoci. È infatti innegabile che oggi c’è un’ostilità verso
l’islam proprio come religione. D’altra parte, in Francia la sinistra si è costruita sulla
guerra alle religioni, sulla guerra alla Chiesa, sulla rimozione e la negazione del religioso. Per la sinistra occidentale, ma soprattutto francese, l’emancipazione sociale
è prima di tutto l’emancipazione dal religioso. Il progresso in qualche modo coincide
con il crollo delle religioni. La religione, o
meglio la sua assenza, è un indice del livello di modernizzazione e civilizzazione di un
Paese.
Di qui l’idea che se delle persone uccidono
30
una città
in nome di Dio vengono dal Medioevo, fanno parte del passato. In realtà oggi sappiamo che queste persone sono spesso istruite
e usano le tecnologie più moderne, in Algeria si parla di ‘islam degli ingegneri’. Quindi è possibile che la religione possa essere il
nostro presente e, forse, anche il nostro futuro. Una certa forma di religione. Questo
evidentemente per noi è un problema. Io
vedo innanzitutto un problema di incomprensione quando si riduce la religione a
una sorta di arcaismo, a un’illusione da dissipare, a qualcosa che appartiene al passato. A sinistra, la religione in quanto tale è
sempre stata percepita come qualcosa che
non ha autonomia, il sintomo di qualcos’altro: la crisi sociale, la disoccupazione, la
geopolitica, per cui se un ragazzo fa appello
alla religione, bisogna indagare cosa questa
nasconda.
un rapper, Booba, grande star
in Francia, in una canzone dice
“per fortuna abbiamo l’aldilà
per andare avanti”
Questa è la cultura politica in cui sono cresciuto. All’indomani degli attentati di gennaio abbiamo sentito dire che questi giovani “sono disagiati, sono delle vittime sociali,
giocano troppo ai videogame, usano troppo
facebook”. Sono state prese in considerazione tutte le possibili motivazioni, salvo una:
la religione.
Cosa trovano i giovani nella religione
musulmana?
Molti ci trovano semplicemente la loro religione, si ritrovano in essa. Un giovane musulmano mi ha raccontato: “Cercavo qualcosa: sono andato alla moschea dove ho trovato dei notabili, dei borghesi, che non erano
interessanti. Dopo aver sentito parlare dei
salafiti, ho capito che loro erano meglio, ma
erano legati a dei paesi che non mi piacevano. Infine ho sentito parlare dell’Islam radicale, e allora mi sono convertito, ma non
all’islam radicale, all’Islam e basta”. Per loro l’islam è l’islam. D’altra parte questa volontà di distinguere tra islam e islamismo
quasi li fa ridere i jihadisti.
Cosa cercano nella religione? È una domanda difficile: sicuramente un senso di speranza radicale che non trovano altrove. La
sinistra, anche quella riformista, ha lottato
contro un mondo pieno di ingiustizie, per
un futuro migliore. Lo slancio rivoluzionario si è alimentato di questa speranza. Ebbene, dov’è oggi una sinistra che propone
un’idea di mondo futuro credibile? Gli islamisti appaiono così i soli depositari della
speranza in un mondo diverso. Dopodiché ci
sono ovviamente differenze radicali tra
l’islamismo e la sinistra. Perché i jihadisti
pensano a un aldilà in cui viene reinstaurato il mondo di Dio, mentre la sinistra voleva
abbandonare il capitalismo, le iniquità e
rientrare nella vera storia umana. C’è un
rapper francese di origini colombiane, Rocca, che in una delle sue canzoni più famose
dice che “la speranza è vitale, come l’ossigeno che respiriamo”. Ecco, è un po’ questo.
Un altro rapper, Booba, grande star in
Francia, in una delle sue canzoni dice “per
fortuna abbiamo l’aldilà per andare avanti”. C’è tutta una tradizione politica, una
tradizione della speranza, dove è proprio
l’orizzonte di un altro mondo possibile ciò
che permette di resistere. Ora che è venuto
meno un’orizzonte profano, secolare, politico, di speranza, la gioventù torna a guardare all’aldilà; un aldilà che per di più è internazionale, come lo sono sempre stati gli aldilà autentici. Pensiamo ai movimenti internazionalisti, rivoluzionari, alla guerra di
Spagna, a quest’idea di una speranza senza
frontiere, solidale. Ebbene, questi stessi
elementi li ritroviamo nel jihadismo. Non è
un caso se nei video vengono mostrati continuamente questi combattenti che arrivano da tutto il mondo.
Si può parlare di una spinta universalista?
Assolutamente. Si tratta di universalismi
rivali. Purtroppo in un momento in cui la
stessa Europa è profondamente in crisi, le
risposte sono tutte nazionali. In Francia abbiamo un movimento fondato da persone vicine a Valls, la "Primavera francese”, che
pretende di salvaguardare la laicità francese. Nonostante la sinistra vanti una tradizione fortemente internazionalista, oggi
quando si analizzano l’islamismo e il jihadismo si ragiona in modo ultranazionale, locale. Si pensa siano problemi nazionali, riferiti alle banlieue, alla società francese,
internazionalismo
non capendo che appartengono al mondo intero. Certo, le persone vengono reclutate
anche a partire dai disagi vissuti in un determinato paese, ma la forza di questo movimento sta nel fatto che oltrepassa le frontiere. La gioventù nella religione trova anche questo: una forza di mobilitazione enorme che le permette di dire: “Non appartengo alla mia piccola banlieue, non appartengo nemmeno alla Francia, io appartengo alla Umma, una comunità mondiale di fratelli e sorelle. E affronto un male che è altrettanto mondiale, cioè la miscredenza”. È incredibile come siano riusciti a creare uno
scenario mondiale in un’epoca in cui non ci
sono più cause politiche in grado di mobilitare le persone oltre le proprie frontiere.
Hai citato la Spagna, però i combattenti delle Brigate internazionali avevano
una grande spinta vitale. I jihadisti invece sembrano affascinati da un mondo di morte.
È vero. Tutte le canzoni rivoluzionarie in
Spagna parlano di vita: “la vita sarà bella,
il mondo sarà giusto...”. I jihadisti invece
hanno il culto della morte e la volontà di
Francesca Pintus
abolire la storia. E tuttavia ci sono delle assonanze nelle testimonianze di chi parte oggi e di chi partiva allora. Io vengo da una
cultura e da una famiglia di sinistra, in cui
la memoria della guerra di Spagna è centrale: quando si pensa ad una causa che ha
attirato migliaia di giovani in solidarietà ai
fratelli oppressi si pensa alla Spagna. È il
modello assoluto. È anche forse una mia ossessione: se penso che oggi l’unica causa per
la quale migliaia di giovani europei sono
pronti ad andare a morire dall’altra parte
del mondo è il jihadismo… è qualcosa che
non mi fa dormire.
Possiamo dire che è colpa della società, della crisi, della disoccupazione e così via, ma
ci sarebbero tantissimi altri motivi per andare a combattere: per i ceceni, per i tibetani, per l’ambiente… Invece, il fatto che la
sola causa per la quale le persone sono
pronte a rischiare la propria vita sia il jihadismo è una questione enorme. Sono stato
criticato per queste considerazioni, ma davvero penso che non possiamo capire e affrontare questo problema senza porci la
questione della speranza. Bernanos, a pro-
posito della Spagna, diceva: “Bisogna vagliare questi avvenimenti attraverso il setaccio della speranza”. Ecco, il jihadismo
oggi dice qualcosa sullo stato della speranza nel nostro mondo. È la grande questione
dell’Illuminismo: “cosa mi è permesso di
sperare?”. È la questione di Kant, che Foucault ha ripreso in seguito. C’è una scena
mitica dove si vedono dei giovani maoisti
insieme a Foucault che dicono: “Andremo a
riprendere la questione di Kant: cosa ci è
concesso sperare”.
se uno dice: “Sono un nazista
e ucciderò perché sono nazista”,
non puoi rispondergli:
“No, non sei nazista”
Oggi la speranza è che il meno peggiore tra
i candidati riesca a gestire in qualche modo
la società affinché il peggiore tra i candidati
non arrivi al potere. È tutto quello che speriamo.
Ebbene, io volevo porre innanzitutto questa
questione: perché una giovane, di ceto medio, ben integrata in un liceo parigino, da
un giorno all’altro decide di partire per la
una città
31
internazionalismo
Siria? Non credo che la sua valutazione sia:
“sono cattiva e voglio tagliare la testa alle
persone”. Non è questo. Prima di tutto lei è
motivata da quella che vive come un’ingiustizia di fondo, e quindi da una volontà di
lottare al fianco dei propri fratelli e sorelle
musulmani, che sono oppressi. Dopodiché,
lungo il suo percorso, è possibile che commetta delle azioni orribili, ma, ripeto, la
spinta iniziale è un’altra e noi non possiamo sottrarci.
Bernard-Henri Lévy mi ha accusato di fare
un “regalo” ai jihadisti parlando di speranza, perché si tratta solo di bastardi. Intendiamoci, io penso che il jihadismo rappresenti una minaccia assoluta. Proprio per
questo è fondamentale distinguere i nemici
principali da quelli un po’ meno principali,
diciamo, nel senso che per reagire a questa
minaccia bisogna comunque ascoltare ciò
che dicono questi giovani.
Tu parli di un inconsapevole approccio “coloniale” in certa sinistra nell’affrontare l’islamismo radicale. Puoi
spiegare?
Chi sostiene che dietro il jihadismo non c’è
alcuna questione religiosa manca l’obiettivo. Una certa sinistra, con questo atteggiamento, pensa di prendere posizione contro
l’egemonia occidentale, contro il colonialismo. Per me invece, paradossalmente, proprio questo è un ragionamento coloniale!
Perché parte dal principio che questi giovani jihadisti non sappiano quello che dicono.
Davanti a un giovane jihadista che afferma: “Faccio quello che dico e dico quello che
faccio. E uccido in nome di Dio per salvare
un’immagine di Dio che è quella in cui credo”, ci viene spiegato che lui non ha capito,
non pensa quello che dice, che in realtà ha
dei problemi, perché non è integrato, è disoccupato... Io la trovo una reazione incredibile! Se uno dice: “Sono un nazista e ucciderò perché sono nazista”, non puoi rispondergli: “No, non sei nazista”.
C’è un passaggio fondamentale di Derrida
in cui parla della fede e spiega: “Non bisogna fare confusione: l’islamismo non è
l’Islam, ma l’islamismo si esercita in nome
dell’Islam”.
in nome di cosa diciamo
al giovane che sì, fa riferimento
al Corano, ma in realtà non
lo ha capito?
È la questione formidabile del “nome”.
Quando qualcosa viene esercitato “in nome”
di qualcos’altro, non si può non approfondire la questione. Insomma, bisogna prendere
seriamente la “grave questione del nome”.
Oggi, a mio parere, di tali questioni ne abbiamo due. La prima è che queste persone
uccidono in nome di Dio. La seconda è una
domanda, se vuoi provocatoria: in nome di
che cosa un dirigente socialista o un intellettuale di sinistra occidentale affermano
32
una città
che il giovane che si richiama al jihadismo
non ha nessun rapporto con la religione? In
nome di che cosa diciamo a quel giovane
che non sa quello che dice, che sì, fa riferimento al Corano, ma in realtà non lo ha capito? Io invece dico che fanno quello che
fanno e dicono quello che dicono. E dobbiamo ascoltarli.
Il giovane jihadista che ha ucciso due poliziotti a Magnanville ha pubblicato un video
di rivendicazione terribile, in cui cita il Corano dicendo: “Il credente è lo specchio del
credente”. L’ho trovata un’affermazione
molto forte: il credo jihadista riflette e ci restituisce il nostro credere che la religione e
la fede non siano nulla. Perché anche questo è un credo.
Torniamo così alla questione iniziale. Noi
crediamo di avere delle buone intenzioni
quando diciamo che l’islamismo non ha
niente a che fare con la religione, che non
c’è alcun legame, e invece così tradiamo e
boicottiamo la battaglia di tanti intellettuali musulmani, che sanno benissimo che
l’islamismo è una avatar dell’Islam, che il
jihadismo è un prodotto criminale dell’Islam, che tutte le religioni portano con sé
il pericolo di una deriva violenta.
Non possiamo fingere di non vedere che è in
atto una specie di guerra civile mondiale
all’interno del mondo musulmano. Un filosofo marxista molto importante, Étienne
Balibar, dopo gli attentati di gennaio ha
scritto su Libération: “La nostra sorte è nelle mani dei musulmani”. Io ho interpretato
questa frase nel senso che c’è questa guerra
mondiale interna all’Islam, e che la nostra
sorte dipenderà da chi la vincerà. La vinceranno coloro che vogliono leggere e contestualizzare i testi o quelli che li vogliono cristallizzare in una dottrina violenta e sanguinaria? Dopodiché noi possiamo anche
continuare a dirci che tutto questo non ha
niente a che vedere con la religione e però...
In questi mesi si è parlato della crisi
del modello di laicità francese.
La laicità è prima di tutto una cornice di
garanzia della libertà di coscienza e di culto
per tutte le religioni. Quindi è fondamentale. Va tuttavia riconosciuto che il contesto
storico in cui la laicità alla francese si è costruita è stato segnato da toni aspri e violenti; questo fa sì che spesso la laicità venga
vista come un’arma contro le religioni, anzi
contro una religione in particolare. Si tratta
di un altro modo di non prendere seriamente la dimensione religiosa. Perché la religione è un rapporto con il mondo, con i testi,
con i riti, con il mangiare e il digiunare, con
il corpo… non può essere ridotta a un’ideologia. Le prese di posizione di Manuel Valls
contro il velo ridotto a mero simbolo politico
rivelano proprio quest’incapacità di considerare la religione come un’esperienza intima ed esistenziale.
Io poi registro proprio un equivoco nella
pratica della laicità. Ripeto, l’obiettivo della
laicità non è di eliminare la religione dalla
sfera pubblica. Purtroppo il livello di rimozione, amnesia, cattiva fede e ignoranza
rende tutto molto complicato. Le donne che
portano il velo, lo fanno per mille ragioni diverse; non si può trattare chi indossa il velo
in nome della sua relazione con Dio come se
fosse l’aderente ad un partito.
Detto questo, sono stati alcuni intellettuali
arabi a dire che il burkini è un’invenzione
recente del wahabismo, e nient’affatto una
questione di spiritualità. Insomma, è tutto
molto complicato, però se eliminiamo la dimensione religiosa, io dubito fortemente
che possiamo capire cosa sta succedendo.
Gli attentati che hanno colpito la Francia
hanno cambiato il clima nel paese.
Questo libro ha avuto un’ottima accoglienza
a sinistra. Chiaramente anche delle critiche, ma costruttive, non aggressive. Credo
che gli attentati di novembre abbiano cambiato tutto.
ciò che definisce l’umanità sono
proprio i simboli. Jean-Pierre
Vernant, grande storico
delle religioni ce lo ha insegnato
Gli attacchi di gennaio 2015 a Charlie Hebdo erano stati letti come un’aggressione a
dei giornalisti che avevano commesso degli
errori, che avevano provocato; anche i morti
all’Hyper Cacher… beh, erano ebrei e poi
c’è la situazione in Medio Oriente...
Il 13 novembre è stato deflagrante perché si
è capito che possono uccidere chiunque, che
tutti possono essere colpiti, anche dei ragazzi che vanno ad un concerto. La “giustificazione” della provocazione per la vignetta di Charlie Hebdo o della situazione in
Medio Oriente non erano più ammesse. Poi
c’è stata Nizza. Si è detto che a Nizza le vittime più numerose erano musulmane. Io lo
trovo un argomento discutibile perché per i
jihadisti loro non sono musulmani. È come
ricordare che le vittime dello stalinismo
erano in maggioranza dei comunisti. In realtà i loro obiettivi non erano affatto i comunisti, ma quelli che non lo erano abbastanza. Qui avviene lo stesso. Non stanno
uccidendo dei musulmani, ma dei traditori
dell’Islam: se quelle persone il 14 luglio erano in strada a festeggiare, allora non sono
dei musulmani e quindi possono essere uccisi. Cioè mentre il cristiano lo uccidono in
quanto cristiano, tant’è che lo vanno a cercare in chiesa, gli altri li uccidono perché
non sono davvero musulmani. Quindi i musulmani non sono mai veramente degli
obiettivi. Qui parliamo di persone che pretendono di incarnare il vero Islam e che uccidono dei cristiani, degli ebrei, e a volte anche dei musulmani se appunto li considerano dei traditori dell’Islam. Ne abbiamo discusso molto anche alle riunioni in redazione. Io ho posto la domanda: “Quando è sta-
internazionalismo
ta l’ultima volta che un prete è stato sgozzato durante la funzione nella sua chiesa in
Francia?”. Io non ne ho idea, forse durante
la Rivoluzione francese.
Dovremmo rifletterci. Di nuovo, se non
prendiamo la religione seriamente, non riusciremo nemmeno a capire cosa può far
scattare nella memoria collettiva l’uccisione
di un prete nella sua chiesa durante la messa. È un fatto enorme, eppure nessuno ha
parlato del valore simbolico di questo gesto.
Quand’è che abbiamo iniziato a pensare che
la dimensione simbolica fosse irrilevante?
In realtà ciò che definisce l’umanità sono
proprio i simboli. Jean-Pierre Vernant,
grande storico delle religioni e dell’antica
Grecia, ci ha insegnato che il simbolismo è
tutto. E così Derrida e Foucault. Non capisco perché oggi la maggior parte degli intellettuali neghi questa realtà.
In questi mesi di dibattito, alcuni hanno
chiesto per quale motivo si polemizzasse
tanto sul velo quando lo “string”, il tanga
non dà alcun fastidio. Ma come si fa a non
vedere la differenza tra un abito che ha una
dimensione simbolica di portata spirituale
e uno slip sensuale? Lo stesso vale per il cibo. Il fast food belga Quick ha deciso che
avrebbe servito solo prodotti “halal” ed è
scoppiata una polemica. Ebbene, molti hanno detto che non capivano il perché di queste reazioni e che non sarebbe successo
niente se la carne fosse stata bio: di nuovo
come fai a non vedere la differenza tra halal e biologico? Mangiare halal è un qualcosa che implica un rapporto con la religione,
quindi con la condotta, l’abbigliamento, il
corpo, ecc. Non stiamo parlando solo di cibo.
La questione del simbolismo è stata completamente accantonata, rimossa, dimenticata, ma oggi non possiamo capire cosa sta
succedendo se non analizziamo a fondo questa dimensione.
Tornando a chi partiva per la Spagna,
oggi sembra che nessuna democrazia
sia realmente disposta a combattere
per i propri valori. Forse per il senso
di colpa coloniale, forse perché ci
manca il coraggio...
Quella del senso di colpa è una grande questione. Molti mi hanno detto che nel capitolo dedicato alla Spagna sembra che io dica
che un’idea degna di essere difesa è un’idea
per la quale dobbiamo essere pronti a morire. Ammetto che un po’ è così.
Chamayou, filosofo di estrema
sinistra sostiene che ormai
l’Occidente è così vigliacco
da ridursi a uccidere con i droni
L’Occidente sta assistendo a una specie di
riflusso da qualsiasi prospettiva di emancipazione, oggi gli eserciti sono professionalizzati... Gramsci parlava di questa dialettica tra la speranza di redenzione, di rivoluzione e il suo venir meno: quando non c’è
più alcuna speranza di emancipazione profana e quindi di idee per le quali si è pronti
a morire (che sono idee politiche in effetti),
c’è quasi un rovesciamento automatico per
cui tornano in primo piano le fonti religiose
o messianiche.
A questo si aggiunge la questione della debolezza. I jihadisti ripetono che loro sono
pronti a morire, mentre noi non lo siamo.
Bin Laden in un’intervista disse: “Il vostro
problema è che noi amiamo la morte quanto voi amate la vita”. Questo pone una questione enorme.
Nella Teoria del drone, Chamayou, filosofo
di estrema sinistra sostiene che ormai l’Occidente è talmente vigliacco da essersi ridotto a uccidere con i droni, mentre dall’altra
parte ci sono delle persone pronte a sacrificare la propria vita. Venendo dalla cultura
politica di una sinistra occidentale piena di
sensi di colpa, per lui chi è oppresso è un
eroe pronto a sacrificarsi e coloro che dominano sono dei pavidi. Insomma, secondo il
suo ragionamento, il drone è l’arma dei dominatori, quindi l’arma dei codardi. Non si
pone mai il problema di come dovremmo
comportarci di fronte a qualcuno che non solo è pronto a morire, ma vuole anche morire.
Un esercito composto da persone che tengono alla vita è un esercito debole.
L’altro aspetto interessante è che tutti i ragionamenti sul senso di colpa partono dal
principio che l’Occidente, l’Europa siano ancora dominanti. Anche se sappiamo che il
jihadismo è finanziato dal Qatar, dall’Arabia Saudita, ecc. continuiamo a pensare che
l’islam sia la religione dei poveri. In parte è
vero, perché è la religione degli immigrati,
di coloro che fuggono da condizioni di povertà e sfruttamento e tuttavia non possiamo
dire che oggi a livello mondiale i paesi musulmani siano deboli.
Anche per il filosofo Badiou tutto ciò che
succede avviene obbligatoriamente per colpa dell’Occidente. Gli altri non esistono. La
trovo una visione politica molto banale,
quasi infantile. Si resta fermi al XIX e XX
secolo, a una visione dell’Occidente come
unico protagonista. Prendiamo la Siria: oggi la Russia sta mostrando una capacità di
intervenire e manipolare la situazione molto maggiore degli Stati Uniti o dell’Europa.
I russi hanno agenti ovunque, hanno formato l’esercito di Assad, hanno bombardato
senza problemi. Eppure della Russia nessuno vuole parlare. Sono andato alla Festa
dell’Umanità, la festa del Partito comunista
francese: tutti a discutere della colpa degli
americani, dell’Europa, della Francia, dell’interventismo, e nessuno che facesse cenno alla Russia. E ancora meno si parla del
ruolo dell’Arabia saudita o del Qatar. Il
mondo della sinistra crede di lottare contro
l’egemonia imperialista dell’Occidente
quando questo Occidente è sempre meno al
centro del mondo.
Si può parlare di una sorta di riflesso
paternalistico?
Qui c’è proprio un paradosso. Credono di
lottare contro l’egemonia occidentale, mentre perpetuano un’eredità coloniale. Qualche anno fa Sarkozy a Dakar fece un discorso che scandalizzò tutti, perché se ne uscì
dicendo: “L’uomo africano non è entrato
nella storia”. Ecco, l’impressione è che per
la sinistra francese, europea, il jihadista o
il musulmano non siano mai entrati nella
storia.
forse sono gli intellettuali arabi
o musulmani quelli che possono
aiutarci. Penso a Rachid Benzine,
intellettuale musulmano...
Quindi tutto ciò che fanno non è che una
reazione all’Occidente. Non sono mai delle
persone che agiscono storicamente. La storia è l’Occidente, l’Occidente è la storia e gli
altri si agitano. Francamente io trovo che
questo approccio rilanci e perpetua un immaginario assolutamente coloniale.
Come uscire da questa trappola?
Il problema è che in questo periodo le posizioni si stanno radicalizzando e purtroppo
le persone più colte e fini, che sarebbero capaci di fare un discorso diverso e di uscire
da queste logiche sbagliate, preferiscono
stare zitte o si irrigidiscono anch’esse. Io sono molto pessimista al riguardo.
Forse sono gli intellettuali arabi o musulmani quelli che possono aiutarci. Penso a
Rachid Benzine, intellettuale musulmano,
che non ha alcun problema a dire che i
principali centri di trasmissione e di insegnamento dell’Islam nel mondo oggi sono
più vicini a Daesh che alla moschea di Parigi. In Francia si pensa che, sì, ci sono degli estremisti, ma globalmente prevalgono
gli altri. Invece a dominare sempre più il
mondo musulmano è un islam che non è
particolarmente moderno o riformista. Benzine lo denuncia da un po’, ma pochi sono
disposti ad ascoltarlo e chi lo fa spesso è sul
versante opposto, quello che liquida l’islam
come religione orribile.
Teniamo presente che l’islamismo è anche
una reazione a un movimento di riforma interno all’Islam. Nel corso del dibattito sul
burkini si sono sentite persone dire che “bisogna rispettare le loro tradizioni”, come se
si trattasse di condotte che vengono dalla
notte dei tempi, quando invece sono invenzioni ultramoderne. Identificare l’islamismo con l’islam delle origini o al contrario
non prenderlo sul serio dicendo che non
c’entra niente con la religione non rende un
buon servizio al lavoro coraggioso dei pensatori musulmani impegnati in un tentativo di riforma e di lotta al fanatismo.
(a cura di Bettina Foa e Barbara Bertoncin.
Traduzione di Joana Fresu de Azevedo)
una città
33
pagine di storia
NELL’ESTATE
DEL ‘44...
Alcune zone liberate dall’occupazione nazi-fascista sperimentarono forme di autogoverno molto
avanzate: la Carnia diede il voto alle donne e adottò un sistema fiscale progressivo, nell’Ossola
si progettò perfino una scuola media modernissima, a Montefiorino si introdusse l’assistenza
medica gratuita; l’incredibile vicenda di un paesino della Basilicata dove dei contadini
analfabeti fondarono la Repubblica antifascista di Maschito. Intervista a Nunzia Augeri.
Nunzia Augeri, saggista e traduttrice di testi di diritto, economia, scienze politiche per
vari editori, da giovanissima ha collaborato
con Lelio Basso nella redazione della rivista
“Problemi del Socialismo”. Il libro di cui si
parla è L’estate delle libertà. Repubbliche
Partigiane e Zone Libere, Carocci editore
2014.
Nell’estate del ’44 in Italia settentrionale e lungo l’Appennino in alcune zone liberate si sperimentarono forme
originali di autogoverno democratico.
Puoi raccontare?
Nel libro cito in tutto ventotto zone libere,
più una ventinovesima, quella di Maschito,
che è particolare. Le ventotto zone sono
quanto di più eterogeneo, e talvolta folclorico, si possa immaginare, ma erano vere amministrazioni; non parliamo quindi di partigianato combattente. Certo c’era il commissario politico partigiano che faceva da
trait d’union, ma poi le amministrazioni
erano davvero civili e dentro c’erano anche
i contadini, spesso semianalfabeti, o, come
nel caso di Maschito, analfabeti del tutto,
che per la prima volta si rendevano protagonisti della storia di questo Paese.
Direi che le Repubbliche partigiane principali sono state tre. L’Ossola è sicuramente
la più importante, anche per la sua posizione al confine con la Svizzera, dove si erano
rifugiati molti intellettuali italiani che, appena seppero della liberazione di quel territorio, scesero per partecipare. C’erano Umberto Terracini, che qualche anno dopo firmò la Costituzione italiana, e curava il bollettino della Repubblica dell’Ossola; Franco
Fortini, allora giovane sottufficiale, che di
quell’esperienza ci ha lasciato lo splendido
libro “Sere in val d’Ossola”; c’era Concetto
Marchesi, che da Rettore dell’Università di
Padova si era rifugiato in montagna con i
suoi allievi; e ancora Gianfranco Contini,
Massimo Bonfantini e tanti altri. Durante
il periodo della repubblica dell’Ossola Gisella Floreanini fu la prima donna a conquistare di fatto la carica di Ministra in Italia
(con delega all’Assistenza e ai Rapporti con
le organizzazioni popolari). Teniamo pre-
34
una città
sente che all’epoca alle donne non era neppure riconosciuto il diritto di voto.
Sempre per via del confine, all’Ossola arrivarono i giornalisti stranieri, e così tutto il
mondo seppe che gli italiani erano in grado
di governarsi da soli, che c’era una classe
dirigente democratica pronta a prendere in
mano il paese.
Le altre due repubbliche importanti sono
quella della Carnia, in Friuli, che durò tre
mesi, e quella di Montefiorino, a ridosso
della linea gotica.
La Carnia riuscì a emettere una legislazione delle più avanzate; tanto per cominciare,
diedero il voto alle donne, ma in quanto capifamiglia. Inoltre introdusse una prima
forma di democrazia diretta, che si rifaceva
al comune rustico, che è appunto l’assemblea dei capifamiglia. I capofamiglia erano
anziani o donne -gli uomini erano dispersi
sui fronti di tutta Europa, o sulle montagne.
il partigianato combattente
a volte si fa carico delle necessità
civili e all’occorrenza scende
anche a patti
La Repubblica della Carnia introdusse perfino un proprio sistema di fiscalità, stabilita
con criteri che poi verranno accolti nell’art.
53 della Costituzione. I redditi venivano divisi in otto scaglioni, tassati con criterio
progressivo. Da Montefiorino invece passò
in Costituzione l’art. 54, tale e quale come
l’aveva scritto il sindaco della Repubblica
partigiana: “I cittadini cui sono affidate
funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina e onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge”.
Le repubbliche di cui parliamo nascono tutte nell’estate del ’44, per ovvie ragioni. I tedeschi, in grossa difficoltà, si limitano ormai a tenere le aree più importanti, le
grandi vie di comunicazione, le grandi città
e i luoghi dove c’erano aziende che ancora
potessero servire. Devono invece abbandonare le montagne. Ci sarebbe la repubblica
di Salò, però in montagna il fascismo aveva
attecchito poco. Teniamo conto che il fascismo “passava” soprattutto attraverso la
scuola, ma da quelle parti a otto anni i ra-
gazzini erano già a lavorare! Inoltre, nelle
Alpi c’era una tradizione secolare di emigrazioni stagionali. Queste persone andavano e venivano dalla Svizzera, dalla Germania, dalla Francia, dove avevano contatti con i movimenti socialisti e cooperativi;
lavoratori magari semianalfabeti, che però
qualcosa avevano orecchiato. Per esempio,
in Carnia e a Varzi il bestiame viene dato
ai contadini che si associano in cooperativa
non in proprietà privata.
Queste repubbliche si trovano a fronteggiare il problema della povertà, ma anche della gestione delle attività economiche...
Non tutte le zone sono in condizioni disperate: l’astigiano è ricco, ha già una grande
tradizione di produzione di vini pregiati;
negli ultimi anni del conflitto i vini non si
possono vendere, perché con l’alcol si facevano andare le macchine e quindi era un
prodotto strategico. E allora, non potendo
certo buttarlo, costruiscono dei serbatoi. Poi
c’è il caso del biellese, che fin dall’Ottocento
ha una forte industria tessile. Anche lì ci si
pone il problema di cosa fare: continuare a
vendere i tessuti rischia di costituire un
aiuto per il nemico; d’altra parte, non vendere vuol dire mettere a rischio la produzione e il salario per gli operai. Vengono stabiliti dei modus vivendi, per cui i camion tedeschi in determinati momenti possono
passare per caricare i tessuti; insomma, il
partigianato combattente talvolta si fa carico delle necessità civili e all’occorrenza
scende anche a patti. Intanto le amministrazioni civili sono impegnate ciascuna con
i propri problemi.
Il primo indizio, e una delle cause più importanti del fallimento della Repubblica di
Salò è che non era riuscita a riorganizzare
il mercato interno. Noi stavamo a Milano e
devo dire che per fortuna c’era la cascina
dei nonni! Mio padre la domenica si faceva
160 chilometri in bicicletta per andare lì a
prendere qualcosa da mangiare. Avevano il
maiale e si faceva il salame, che sul mercato milanese valeva oro.
In Carnia si faceva proprio la fame...
Questo dappertutto. In Carnia però ci sono
90.000 persone e 42 comuni, nella zona li-
Repubblica dell’Ossola: confezione di uniformi per i partigiani di una divisione garibaldina
bera. Fai conto che allora gli italiani erano
36 milioni. Questi 42 comuni vengono isolati da una cintura di nazifascisti che non lasciano passare i cereali, che in alta montagna non ci sono. Risorge così la tradizione
delle portatrici del Carso: 150 donne, organizzate dal Partito comunista, vanno a piedi in Emilia, caricano in spalla i cereali, e
tornano a casa attraverso l’unico passo rimasto aperto, a piedi. Queste donne salvano 90.000 persone dalla fame, portando su
qualcosa come cinque tonnellate di cereali… Il Pci aveva organizzato tutto, dall’acquisto nelle regioni ricche della pianura padana da Mantova in giù, ai posti di tappa
dove queste donne potevano mangiare e
dormire.
Fortunatamente non tutti sono così disperati; Montefiorino, che è in Emilia, ha bisogno soltanto di organizzare le squadre per
aiutare i contadini per la trebbiatura. Anche lì c’è un afflato politico di tipo socialistico, collettivo. In generale gli amministratori delle zone libere cercano di venire a patti
con le situazioni che si ritrovano. I contadini devono pur guadagnare qualcosa, e però
i prezzi del mercato nero sono ormai folli;
dove è possibile si calmierano i prezzi di alcuni generi, oppure viene imposto un prezzo politico.
Nelle zone ricche la razione giornaliera ammontava a seicento grammi di pane -un pane immangiabile- e duecento di carne. La
razione del pane per gli operai di Milano
era di centocinquanta grammi al giorno... A
un certo punto le fabbriche non possono più
produrre perché gli operai proprio non ce la
fanno fisicamente.
Le amministrazioni dovevano occuparsi anche dei servizi sanitari, della
scuola…
La Repubblica di Montefiorino istituisce
l’assistenza medica gratuita per tutti, e organizza un ospedale con le attrezzature di
un albergo ormai chiuso, mettendoci medici
sempre a disposizione. Provvede anche al
servizio ostetrico: all’epoca si partoriva in
casa, ma con l’assistenza di un’ostetrica.
nelle zone ricche la razione
giornaliera era seicento grammi
di pane -un pane immangiabilee duecento di carne
Tutte le zone libere, per quanto piccole, affrontano anche il problema della scuola: bisogna riaprirla. La repubblica dell’Ossola,
con un comitato composto da intellettuali,
stabilisce un nuovo ordinamento scolastico,
una scuola media unica per tutti con un approccio molto moderno, che dà ampio spazio
allo studio delle scienze e delle lingue straniere. Pensiamo che la scuola media unica
vedrà la luce in Italia solo vent’anni dopo!
In quegli anni “la scuola per tutti” erano le
elementari, la media era roba da signori,
esisteva solo nelle città.
Purtroppo l’anno scolastico non comincerà
nemmeno, perché alla fine di settembre tornano i tedeschi. Fortunatamente circa duemila bambini hanno già trovato riparo in
Svizzera, assieme a molti partigiani (altri
sono fuggiti per organizzarsi altrove). Ventitré patrioti, rimasti a proteggere la ritirata, vengono catturati e impiccati. Domodossola è ormai una città fantasma. L’esperienza della repubblica dell’Ossola è conclusa.
Dicevi che la repubblica di Maschito fa
caso a sé.
È l’unica del Sud. Maschito non c’entra coi
partigiani: è un paese della Basilicata, a
cinquanta chilometri da Potenza. Dopo l’8
settembre, i soldati tedeschi ammazzano
venti persone a Rionero in Vulture, lì vicino. A Maschito sono già tutti ferocemente
antifascisti: intanto, perché per colpa del
fascismo i giovani dei paesi sono tutti spariti, chi in Africa, chi in Egitto, chi in Russia, chi in Grecia; le famiglie sono state distrutte e sono venute a mancare le braccia.
In secondo luogo, i contadini dal ‘36 erano
obbligati a portare i loro prodotti all’ammasso, che all’inizio pagava decentemente,
ma nel ’44 per niente. Non solo: Maschito è
il territorio di origine del vino Aglianico, e
già allora i contadini erano molto orgogliosi
delle vigne, che rendevano bene. Il fascismo
li aveva invece obbligati a coltivare grano,
che peraltro rendeva pochissimo. Per tutti
questi motivi erano furiosi! Così decidono di
costituire una repubblica libera, indipendente e antifascista, e procedono a un’assemblea. Il capo è un contadino che si chiama Domenico Bochicchio. Il fatto è che sono
tutti analfabeti, non sono in grado nemmeno di stendere il verbale, figuriamoci di oc-
una città
35
Scambio di prigionieri tra partigiani ossolani e fascisti a Traffiume di Cannobio, settembre 1944. Al centro, un giornalista olandese con la moglie
cuparsi dell’amministrazione del consorzio
agrario, delle bolle, delle operazioni di vendita... Alla fine decidono di andare a chiedere aiuto a un proprietario terriero che non
aveva mai taglieggiato i contadini, Giuseppe Guglielmucci, che apparteneva a una famiglia di socialisti pre-fascisti. Sarà lui il
sindaco-notaio, l’unico in grado di redigere
i verbali e firmare gli atti.
C’è poi la necessità di amministrare la
giustizia, di garantire l’ordine pubblico...
Sì, perché intanto di reati se ne compivano
dappertutto, quindi servivano i tribunali.
Ma nelle repubbliche ci si occupa anche del
diritto di famiglia: in Carnia, ad esempio,
quando una donna con dei figli viene abbandonata dal marito, quest’ultimo viene
ritrovato e obbligato a occuparsi della famiglia. Nel cuneese una ragazza rimane incinta, il ragazzo sparisce e viene ripescato anche lui...
Gorrieri, che ha dedicato
un libro alla repubblica
di Montefiorino, parla di “feste,
balli e gozzoviglie”!
Viene affrontato anche il problema dei prigionieri. L’Ossola sistema i fascisti catturati in un ex collegio, a Druogno, su in montagna. In alcuni posti ho ritrovato i conti degli
osti che fornivano i pasti ai detenuti! A Domodossola a un certo punto arriva un comandante partigiano che si mette a inveire
col mitra in mano perché ha scoperto che i
prigionieri fascisti avevano due coperte a
testa, mentre i suoi uomini in montagna ne
avevano una sola. Sono racconti molto interessanti. Nel cuneese, il partito d’Azione redige una specie di codice civile in cui viene
36
una città
proibito persino di denudare il prigioniero
per non offendere la sua dignità umana.
Questo in un contesto di assassinii, stupri e
torture inenarrabili...
È impressionante quante cose riescano
a fare in così poco tempo. Queste repubbliche durano infatti molto poco...
La repubblica dell’Ossola dura quaranta
giorni! Altre anche meno, due, tre settimane… Eppure in quel poco tempo fanno di
tutto: riescono perfino a emettere francobolli e buoni finanziari, acquistano bestiame...
E poi c’è l’attività editoriale: tutti hanno il
loro bollettino, i loro foglietti, i loro manifesti... Nella zona libera della Val Maira, valle alpina in provincia di Cuneo, instaurano
addirittura una tipografia, recuperando
una macchina per stampa, una “pedalina”
affidata a un tipografo che si fa aiutare da
alcuni volontari e dai partigiani in convalescenza. Vengono pubblicati i giornali partigiani “ufficiali”, quelli dei partiti, e poi i bollettini ufficiali con le ordinanze, le decisioni, la legislazione delle amministrazioni civili; i giornali delle brigate, ognuna ha il
suo. C’è un bellissimo documentario sulla
Repubblica dell’Ossola in cui mi sembra
Concetto Marchesi racconta di alcuni giovani di Domodossola che erano andati a chiedere di poter pubblicare il loro giornalino. E
lui gli aveva spiegato: “Guardate che qui c’è
la libertà di stampa. Non dovete chiedere il
permesso a nessuno!”. Questi restano stupitissimi! Libertà di stampa, di associazione,
di riunione, tutte cose inaudite.
Sto lavorando a un libro sulle scuole partigiane, quelle che vengono fuori dalla repubblica dell’Ossola, e che fondò mio marito,
Luciano Raimondi, i convitti scuola della
Rinascita. C’è uno statuto e poi c’è un codi-
ce lunghissimo, quattordici cartelle. Appena l’ho visto mi sono chiesta: perché è così
dettagliato? Quella normativa oggi fa ridere, è pleonastica, inutile, ma allora era necessaria, perché non c’erano precedenti.
Quel codice è il risultato delle assemblee di
ogni convitto, è stato discusso dagli allievi,
tutto fatto ex-novo. Non c’erano tradizioni,
anche perché nemmeno l’Italia liberale aveva inserito il popolo italiano nelle sue strutture. Alle elezioni votava meno del 2% e da
quando era stato introdotto l’allargamento
al suffragio universale maschile, di votazioni praticamente non ce n’erano più state.
In queste repubbliche c’è spazio anche per
lo svago e si assiste a dei cambiamenti sul
piano dei costumi.
Gorrieri, che ha dedicato un libro alla repubblica di Montefiorino, parla di “feste,
balli e gozzoviglie”! Per qualcuno era uno
scandalo. Le donne sono le grandi protagoniste, insieme ai contadini e al clero, delle
zone libere. E tuttavia le donne più anziane
temono che in queste Repubbliche si stiano
diffondendo dei costumi pericolosi. Teniamo
presente che in queste aree era pieno di giovani, di adolescenti, molti partigiani avevano 16 anni, i più maturi erano tutti in guerra. Ebbene, questi ragazzini rimasti nei
paesi partecipavano con estremo entusiasmo e ballavano tutte le sere. In Val Sesia
si lanciò persino un concorso musicale. In
quelle settimane rifiorisce tutta una vita civile che era stata soffocata dalla dittatura
fascista e poi dalla guerra. In una delle repubbliche vengono perfino proiettati film e
documentari sulla guerra, inediti in Italia.
Si portava il cinema in paesi dove non era
mai esistito!
Come dicevo, questa rivoluzione dei costu-
mi viene molto ben accolta dalle donne giovani, e fortemente disapprovata dalle anziane e dai preti. Soprattutto le anziane si
pongono come freno a questi costumi ritenuti licenziosi. Alcuni preti, più progressisti, si vedono costretti a prenderne atto, ma
ci sono anche i reazionari, come il vescovo
di Udine che nel bel mezzo della tragedia
invia una lettera in cui deplora “che le ragazze mostrino le ascelle nude”!
In questi esperimenti di giunte amministrative erano presenti ispirazioni diverse.
Obbligatoriamente dovevano essere presenti tutti i partiti del Cln, quindi comunisti,
socialisti, Partito d’Azione. Il problema è
che nei paesini non c’erano tutti, al che capitava che si prendesse qualcuno da parte e
gli si assegnasse il ruolo: “Tu sei il Partito
d’Azione”. Quello magari non sapeva neanche cosa fosse! In altre no, i partiti erano
presenti eccome! In Carnia gli appartenenti
alle brigate Osoppo e i comunisti stavano
per cominciare a spararsi addosso.
Nel cuneese non si sono sparati addosso, ma
c’è mancato poco. Per fortuna fu destituito il
capo dei partigiani e arrivò Nuto Revelli che
riuscì a tenerli buoni, se no era un massacro: da una parte i partigiani antifascisti e
repubblicani convinti, dall’altra non solo i
democristiani, ma anche le bande partigiane comandate e in parte costituite da ufficiali dell’esercito che tendevano a mantenere il modello militare e si ricordavano molto
bene del giuramento di fedeltà al Re.
Questi avevano comportamenti molto diversi, anche di fronte ai nazisti, erano più
attendisti, più disposti a patteggiare. I partigiani no, patteggiavano solo in condizioni
disperate.
pagine di storia
Qual è l’epilogo di queste repubbliche?
Tutte finiscono cadendo reinvase dai nazifascisti. La Carnia era una delle porte verso
l’Austria e la Germania, quindi lì i nazifascisti dovevano tenersi aperti i varchi per
tornare a casa. Sopra Sondrio, una delle repubbliche dura solo tre giorni. Lì c’erano le
centrali elettriche che davano elettricità
all’industria milanese e padana, e i fascisti
l’avevano individuato come loro via di fuga.
Infatti da dove sarebbe scappato Mussolini?
Dal lago di Como. Quindi quella era una zona controllatissima. Per fortuna i partigiani riescono a salvare tutte le centrali elettriche che i nazifascisti avevano programmato di distruggere.
Poi c’è il Piemonte alto e basso, dalla Val
d’Aosta al cuneese, fino a saldarsi con la zona appenninica della Liguria. In un primo
momento era stato tutto abbandonato. Qui
le zone libere erano sette; succede che gli
alleati minacciano un altro sbarco fra Genova e Savona. E invece, mentre a Savona
si erano organizzati e li aspettavano da un
giorno all’altro, sbarcano in Provenza.
Quindi i nazifascisti sono costretti a spostarsi su quel territorio per difendersi dall’eventuale sbarco.
ai Cosacchi del Don, feroci
avversari dei soviet e alleati
di Hitler, i nazisti promisero
una “Kosakenland” in Carnia
Ciò che queste repubbliche elaborarono in
quelle poche settimane però non andò perduto. Non a caso nel mio libro l’ultimo capitolo è dedicato a quanto delle conquiste delle zone libere è passato nella nostra Costituzione. Tantissimo! Dalle libertà fonda-
Un accordo per uno scambio di prigionieri a Gravellona durante la Repubblica Ossolana
mentali, la libertà di riunione, di associazione, di partito, di stampa, ai sindacati...
In quel periodo nascono i primi sindacati;
nel biellese e nell’astigiano si redigono i primi contratti collettivi di lavoro. Il primo
contratto nazionale del tessile prenderà pari pari quello della zona libera del biellese.
Del sistema sanitario e fiscale ho già accennato, ma soprattutto vengono introdotte libere elezioni. Ci sono le istruzioni del Cln
dell’Alta Italia che dicono di costruire queste giunte amministrative con la presenza
dei partiti, e con gruppi locali che siano rispettabili -cioè non compromessi col fascismo. Quindi giunte aperte a gruppi di cittadini, quella che oggi chiamiamo “società civile”. In Carnia e nel cuneese viene abolita
la pena di morte; sempre in Carnia si recupera la tradizione cooperativa del socialismo: anch’essa entrata nella nostra Costituzione.
Per concludere, puoi raccontare la storia della Carnia e dei Cosacchi?
Ai Cosacchi del Don, feroci avversari dei soviet, che al tempo dell’invasione tedesca si
erano alleati con Hitler, i nazisti avevano
promesso una “Kosakenland” in Carnia.
Nel 1942 ci fu quindi questa transumanza
biblica: non soltanto i soldati, ma anche le
famiglie e i loro pochi beni; una carovana di
quarantamila uomini, seimila cavalli, trenta cammelli. Arrivarono in Carnia. Quando
i nazisti riconquistarono queste zone, obbligarono la metà degli abitanti ad abbandonare le loro case, lasciando tutto, piatti,
pentole, biancheria, tutto, per farvi insediare i cosacchi. I quali fecero una strage. Il bilancio parla di 150 assassinati, mille deportati e poi stupri, incendi… fino a che a un
certo punto i cosacchi si resero conto che se
volevano vivere lì dovevano cambiare atteggiamento. Qualcuno cominciò ad aprire gli
occhi e andò coi partigiani. Qualcuno gli occhi li mise sulle ragazze e si sposò… Ho incluso nel libro il racconto di una famiglia
presso cui si insedia un cosacco. Dapprima
fa il prepotente, poi la mamma lo “mette a
posto”, e questo da bravo ragazzo china il
capo e si mette in riga. Alla fine gli vogliono
bene!
In seguito i tedeschi promisero un’altra Kosakenlanden in Carinzia, per cui dovettero
andarsene tutti. Il fatto è che in Carinzia è
inverno, siamo già al febbraio del ’45. Nasce
così la leggenda secondo cui i cosacchi si sarebbero suicidati in massa nelle acque gelide della Drava. In realtà non è vero; sì,
qualcuno si è suicidato, ma il grosso alla fine è rimasto in Carinzia, o a Lienz, a ridosso del confine italiano, dove finirono sotto il
controllo degli inglesi. Alla fine verranno
consegnati ai sovietici, i generali condannati a morte, gli altri deportati in Siberia, e il
loro capo verrà impiccato pubblicamente
sulla Piazza Rossa.
(a cura di Bettina Foa e Barbara Bertoncin)
una città
37
di poesia
Novecento poetico italiano/14
di Alfonso Berardinelli
Le poesie memorabili, antologizzabili e antologizzate che si leggono negli Ossi di seppia di Montale sono effettivamente molte.
Dopo “Meriggiare pallido e assorto” e “Spesso il male di vivere” (commentate nella
puntata precedente) vengono “Esterina”,
“Non chiederci la parola”, “Portami il girasole”, “Gloria del disteso mezzogiorno”,
“Forse un mattino andando”: tutti testi che
contengono alcune di quelle icastiche formule autoesplicative che fanno sempre comodo quando si legge un poeta così suggestivo ma anche avaramente comunicativo,
nei suoi primi tre libri, come Montale: usato e abusato scolasticamente per spiegare
in breve come è fatta e che sapore ha la lirica moderna nella sua variante italiana.
Quando poi si ha veramente poco spazio,
sembra proprio che non si possa parlare né
degli Ossi né di tutto Montale senza rileggere due poesie come I limoni e Arsenio.
Due poesie che con il loro svolgimento e la
loro più distesa articolazione strofica tendono al poemetto, al monologo raziocinante o
alla micronarrazione.
Autoritratto trasposto (in Arsenio) e monologo raziocinante (nei Limoni) segnalano
subito che Montale sentiva di esordire, all’inizio degli anni Venti del Novecento, in
un momento non facile per la poesia. Bisognava dare subito un’idea forte di se stessi
e del proprio stile. Lo spiegò più tardi nella
sua famosa “intervista immaginaria” del
1946: “Non ci fu mai in me una infatuazione poetica, né alcun desiderio di ‘specializzarmi’ in quel senso. In quegli anni quasi
nessuno si occupava di poesia. L’ultimo successo di cui abbia ricordo in quei tempi fu
Gozzano, ma gli spiriti forti dicevano male
di lui, e anche io (a torto) ero di quel parere.
I letterati migliori, che presto si riunirono
intorno alla Ronda, pensavano che la poesia dovesse scriversi, da allora in poi, in
prosa. Ricordo che pubblicati i primi versi,
nel Primo Tempo di Giacomo Debenedetti,
fui accolto con ironia dai miei pochi amici
(ch’erano già immersi nella politica e antifascisti dal più al meno, verso il ’22-’23)”.
Dunque, difficoltà di situazione e mancanza di fede nell’autoidentificazione “specializzata” di poeta. Senza escludere, anzi includendo quella che gli psicologi hanno
chiamato “identificazione con l’aggressore”:
se gli altri tendono a fare dell’ironia sul fatto che scrivo poesie, sarò io stesso a scriverle in modo da far sentire sfiducia e ironia su
me stesso e anche sui poeti e sulla poesia in
generale, almeno per come è comunemente,
volgarmente intesa:
38
una città
I limoni
Ascoltami, i poeti laureati
si muovono soltanto fra le piante
dai nomi poco usati: bossi ligustri
o acanti.
Io, per me, amo le strade che riescono
agli erbosi
fossi dove in pozzanghere
mezzo seccate agguantano i ragazzi
qualche sparuta anguilla;
le viuzze che seguono i ciglioni,
discendono tra i ciuffi delle canne
e mettono negli orti, tra gli alberi
dei limoni
Meglio se le gazzarre degli uccelli
si spengono inghiottite dall’azzurro;
più chiaro si ascolta il susurro
dei rami amici nell’aria che quasi non si
muove,
e i sensi di questo odore
che non sa staccarsi da terra
e piove in petto una dolcezza inquieta.
Qui delle divertite passioni
per miracolo tace la guerra,
qui tocca anche a noi poveri la nostra
parte di ricchezza
ed è l’odore dei limoni.
Vedi, in questi silenzi in cui le cose
s’abbandonano e sembrano vicine
a tradire il loro ultimo segreto,
talora ci si aspetta
di scoprire uno sbaglio di Natura,
il punto morto del mondo, l’anello che
non tiene,
il filo da disbrogliare che finalmente
ci metta
nel mezzo di una verità.
Lo sguardo fruga d’intorno,
la mente indaga accorda disunisce
nel profumo che dilaga
quando il giorno più languisce.
Sono i silenzi in cui si vede
in ogni ombra umana che si allontana
qualche disturbata Divinità.
Ma l’illusione manca e ci riporta il tempo
nelle città rumorose dove l’azzurro
si mostra
soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase.
La pioggia stanca la terra, di poi;
s’affolta
il tedio dell’inverno sulle case,
la luce si fa avara - amara l’anima.
Quando un giorno da un malchiuso
portone
tra gli alberi di una corte
ci si mostrano i gialli dei limoni;
e il gelo del cuore si sfa,
e in petto ci scrosciano
le loro canzoni
le trombe d’oro della solarità.
Come si vede è un monologo in scena, che
però tenta il dialogo (“Ascoltami”, “Vedi”).
L’autore dei versi si illustra, si rappresenta, si spiega e in parte si giustifica. I suoi
versi esistono perché hanno quel particolare contenuto, un contenuto che si definisce
anzitutto per differenza e opposizione rispetto al tradizionale idolo-poesia. La polemica antidannunziana e autodifensiva è
implicita ma evidente. Il poeta “laureato”,
chiunque fosse, era, voleva essere, era stato
considerato un uomo speciale, la cui vita
speciale non somiglia e non deve somigliare
alla vita “di tutti”. Se si ha presente quanto
era già accaduto nella poesia italiana con
gli autori nati negli anni ottanta dell’Ottocento, da Gozzano a Ungaretti, a Moretti, a
Saba o Sbarbaro, la novità portata da Montale è in questo senso piuttosto scarsa.
L’aureola estetica indossata da D’Annunzio
era andata da tempo fuori uso e di “perdita
dell’aureola” aveva già parlato Baudelaire
più di mezzo secolo prima in uno dei suoi
poemetti in prosa. Come in molte altre cose,
Montale più che scoprire e innovare, sistema, arricchisce, costruisce, solidifica. In verità, almeno tecnicamente, si mostra subito, benché lo neghi, più professionale dei
suoi fratelli maggiori. Non è un poeta investito, squassato e travolto né dalla poesia
né dalla sua impossibilità. I suoi dubbi storici di autore non sono radicali, neppure
quando sono radicalmente espressi. Il suo è
uno scetticismo temperato e compensato da
una forte e decisa vocazione vocale e da una
passione tecnica per gli artefatti verbali che
supera quella dei suoi predecessori maggiori e minori: certo non supera la perizia di
Pascoli, ma quella di D’Annunzio sì. Anche
senza espansività, lo stile di Montale esibisce una “bravura”, un’incisività lessicale,
metrica e anche retorica che sorprendono e
vogliono sorprendere.
Se dopo i primi dubbi Montale apprezzerà
molto Gozzano in uno dei suoi saggi critici
più tempestivi e acuti sul poeta torinese, è
perché Gozzano sapeva costruire, era dotato di una sua teatrale e narrativa eloquenza di tipo nuovo, che negava se stessa anche nell’atto di prodursi senza pudore.
La poesia sui limoni oppone botanicamente
l’umile al sublime. Si nota in questo anche
una tipica tendenza ligure alla concretezza,
al risparmio, al poco. Comunque non c’è
dubbio che il gusto di Montale per la precisione e la rarità lessicale viene subito fuori
nei primi versi, quando dice che no, lui non
di poesia
vuole parlare di “bossi ligustri o acanti”, ma
intanto li nomina, si diverte a farli risuonare quei “nomi poco usati”, facendo in modo
che restino, anche se ironicamente, nella
memoria del lettore. Segue poi uno dei versi
più lunghi della poesia, quello che fissa il
gesto della differenza, dell’opposizione: “Io,
per me, amo le strade che riescono agli erbosi”, un verso che si inarca in un efficacissimo enjambement aperto su una pioggia di
versi fonicamente insistiti, gremiti di consonanti doppie e di evidenze fisiche tali da
provocare in chi li legge (e in chi li ha scritti...) una specie di ebbrezza iperpercettiva.
È una scenografia che contiene già un movimento, un dinamismo narrativo. Inizia
così la passeggiata, il vagabondare del solitario osservatore e meditante inquieto. È la
prima fase di una progressione visionaria
verso l’incontro che ha qualcosa della rivelazione. L’odore dei limoni che chiude la seconda strofa segnala che le percezioni fisiche, in un crescendo parossistico, hanno
provocato quella piccola estasi che dà “a noi
poveri la nostra parte di ricchezza”. Da questo punto in poi, attraverso ciò che era fisico
si entra nel metafisico. Del resto, è stato
Debenedetti a ricordare nelle pagine della
sua Poesia italiana del Novecento dedicate
a Montale che “tutta la grande poesia lirica,
forse, è anche metafisica”.
Nelle due strofe che seguono, prima si offre
l’enunciazione più chiara di una filosofia
poetica nel momento in cui si rivela (“Vedi,
in questi silenzi in cui le cose/ s’abbandonano e sembrano vicine/ a tradire il loro ultimo segreto”) e poi si torna all’opacità e al
confuso torpore in cui la luce estiva, il silenzio rivelatore, lo splendore solare dei limoni, sono sopraffatti, sottratti alla coscenza e
quasi dimenticati (“Ma l’illusione manca e
ci riporta il tempo/ nelle città rumorose dove l’azzurro si mostra/ soltanto a pezzi”). I
momenti della visione, dell’intuizione o premonizione conoscitiva sono rari e transitori.
La vita quotidiana (urbana, piovosa, invernale) non è altro che uno stato di atonia dei
sensi, “gelo del cuore”, offuscamento. Il giallo dei limoni è un’apparizione estiva, meridiana: un vero sapere e un vero sentire che
forse è solo una momentanea illusione di
aver sentito e capito che cosa tiene insieme
il mondo, il suo senso o il suo sostanziale
vuoto. Questa conoscenza resta una mezza
conoscenza, uno stato sospeso fra la certezza momentanea della comprensione e l’impossibilità di raggiungerla davvero e di farla durare. Resta l’emblema, la presenza fisica (colore e odore) dei limoni.
Anche nella costruzione e nello stile, che è
eccezionalmente denso, ramificato, labirintico, una poesia come Arsenio va oltre la
semplicità del dualismo (bene e male, pieno
e vuoto, luminosità e opacità) su cui poggia
Ossi di seppia. Scritto nel 1927, due anni
dopo la prima edizione del libro, il poemetto
viene aggiunto nell’edizione del 1928. Secondo lo stesso Montale, Arsenio è un ponte
verso il libro successivo, Le occasioni, uscito
nel 1939, documento tipico e classico dell’ermetismo anni trenta.
Nella traduzione di Mario Praz, Arsenio
uscì nella rivista “Criterion” di T.S.Eliot e
resta uno dei capolavori di Montale. Il nome Arsenio consuona con Eugenio, il nome
dell’autore. Ma il pudore, il ritegno, lo scetticismo di Montale sulla consistenza biografica dell’Io, fanno del personaggio un correlativo narrativo che scivola fuori dalla soggettività dell’autore sottraendosi all’autobiografismo esplicito. L’io perciò diventa un
“tu” e chi legge viene tirato dentro un oscuro viluppo di descrizioni e di allusioni.
Quella certa scioltezza che è sembrata perfino eloquente, diretta, lapidaria in molti
testi del libro, ora è oscuramente bloccata e
inibita. Arsenio si muove, cammina, ma i
suoi passi sono faticosi, intralciati. Si parla
di “viaggio” ma l’esito è un’ “immobilità”:
I turbini sollevano la polvere
sui tetti, a mulinelli, e sugli spiazzi
deserti, ove i cavalli incappucciati
annusano la terra, fermi innanzi
ai vetri luccicanti degli alberghi.
Sul corso, in faccia al mare, tu discendi
in questo giorno
or piovorno ora acceso, in cui par scatti
a sconvolgerne l’ore
uguali, strette in trama, un ritornello
di castagnette.
È il segno d’un’altra orbita: tu seguilo.
Discendi all’orizzonte che sovrasta
una tromba di piombo, alta sui gorghi,
più d’essi vagabonda: salso nembo
vorticante, soffiato dal ribelle
elemento alle nubi; fa che il passo
su la ghiaia ti scricchioli e t’inciampi
il viluppo dell’alghe: quell’istante
è forse, molto atteso, che ti scampi
dal finire il tuo viaggio, anello d’una
catena, immoto andare, oh troppo noto
delirio, Arsenio, d’immobilità…
Ascolta tra i palmizi il getto tremulo
dei violini, spento quando rotola
il tuono con un fremer di lamiera
percossa; la tempesta è dolce quando
sgorga bianca la stella di Canicola
nel cielo azzurro e lunge par la sera
ch’è prossima: se il fulmine la incide
dirama come un albero prezioso
entro la luce che s’arrosa: e il timpano
degli tzigani è il rombo silenzioso.
Discendi in mezzo al buio che precipita
e muta il mezzogiorno in una notte
di globi accesi, dondolanti a riva, –
e fuori, dove un’ombra sola tiene
mare e cielo, dai gozzi sparsi palpita
l’acetilene –
finché goccia trepido
il cielo, fuma il suolo che s’abbevera,
tutto d’accanto ti sciaborda, sbattono
le tende molli, un frùscio immenso rade
la terra, giù s’afflosciano stridendo
le lanterne di carta sulle strade.
Così sperso tra i vimini e le stuoie
grondanti, giunco tu che le radici
con sé trascina, viscide, non mai
svelte, tremi di vita e ti protendi
a un vuoto risonante di lamenti
soffocati, la tesa ti ringhiotte
dell’onda antica che ti volge; e ancora
tutto che ti riprende, strada portico
mura specchi ti figge in una sola
ghiacciata moltitudine di morti,
e se un gesto ti sfiora, una parola
ti cade accanto, quello è forse, Arsenio,
nell’ora che si scioglie, il cenno d’una
vita strozzata per te sorta, e il vento
la porta con la cenere degli astri.
Oltre che un virtuoso della descrizione scorciata, quasi una strozzata “prosa d’arte”
lampeggiante, compressa in endecasillabi,
Montale si mostra efficiente anche nell’invenzione di formule concettuali e morali.
Qui abbiamo quel “delirio d’immobilità” così potentemente allusivo da poter diventare
l’emblema diagnostico di una situazione
della vita (degli scrittori, degli individui)
negli anni del fascismo. Ma come sempre,
in Montale la storia è mascherata da metastoria, o tradotta in termini di substoria
esistenziale. Arsenio vive e si muove in un
incubo a occhi aperti. Ogni percezione è nitida ma nasconde o annuncia non si sa che
cos’altro. Si riesce a malapena a capire che
siamo in una cittadina sul mare, che è in
corso uno di quei temporali estivi tempestosi, con tuoni e lampi, che provocano trombe
d’acqua, mentre intanto un’orchestra in un
albergo continua a suonare sotto i palmizi.
Di Arsenio si dice che discende sul lungomare. Abbondano le sequenze enumerative,
le specificazioni, gli incisi. La sintassi è rallentata e come inceppata da un eccesso di
oggetti, sensazioni, presentimenti. Finché
nell’ultima strofa, la più ampia, in un crescendo conclusivo di visioni disperate e agghiaccianti, piovono le formule morali che
hanno fatto di Montale il più intellettualmente, allegoricamente novecentesco poeta
del Novecento italiano: colui che è riuscito
a fare dell’incomunicabile biografico una
microepica dell’attesa metafisica e il codice
emblematico di un destino storico. Montale
ha certo avuto letterariamente successo,
ma è anche finito in cattive mani, proprio
lui nelle mani di tutti, senza che quasi nessuno potesse davvero capire e accettare i
suoi messaggi. Ma questo è stato il destino
di quasi tutta la poesia moderna.
una città
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lettere
dalla Cina
Il porto di Colombo
Cari amici,
sono stata per un paio di settimane in Sri Lanka. Come vi ho già raccontato, rispetto a Hong
Kong, Taiwan o al Giappone, anche lì è pieno
di turisti cinesi che fanno shopping con serietà
e dedizione. Trattandosi di una località per loro
più esotica di quanto non lo siano Hong Kong
o Taiwan, capita, come in Giappone, di vederli
“mascherati” da locali mentre brandiscono il
bastone per fare i selfie: ragazze in sari che
camminano spedite verso i luoghi “pittoreschi”,
e poi si fotografano l’un l’altra con una totale
mancanza di imbarazzo, lasciando sventolare
all’aria un lembo del sari, per fare foto romantiche. E pazienza.
La parte più interessante però non sono tanto
i turisti, che appunto sono ovunque. No, quello
che è impressionante sono gli investimenti cinesi: in particolare a Colombo, la capitale, sono davvero vistosi, dato che si concentrano
sull’impressionante lungomare, quel Galle
Green dove le bellissime onde dell’Oceano Indiano si infrangono sul muretto di guardia con
forza. Proprio oltre il Green sono in costruzione dei grandi edifici –grattacieli che diventeranno alberghi e palazzi di uffici, fatti dalla Cina e per la Cina. Alle sei di sera, mentre la luce si fa rosa per il tramonto, ecco che escono
dai cantieri gruppi di muratori cinesi un po’
spaesati, che aspettano l’autobus che li accompagna in dormitorio.
Ho camminato lungo tutto il lungomare, per
vedere cosa stesse succedendo al porto di
Colombo, della cui costruzione si sta occupando un’azienda cinese, la China Harbour Engineering Company Ltd. La storia del porto di
Colombo è un po’ travagliata: sotto il presidente precedente, Mahinda Rajapaksa, un grande
amico della Cina, il porto era stato trasformato
da deposito per container a niente meno che
una “port city”, a spese dei cinesi. Si trattava di
costruire grattacieli, alberghi di lusso, shopping malls e per l’appunto il porto, per un valore di 1.4 miliardi di dollari Usa, tutti cinesi. Per
la Cina si trattava di aggiungere perle alla sua
collana (la chiamano proprio così: “collana di
perle”) che porta dalla Cina all’Europa con una
serie di punti scalo per favorire i trasporti di cose e persone, via terra e via mare. Ma l’abbraccio che Rajapaksa ha voluto estendere a
Pechino è stato così stretto che pare gli sia costato la rielezione. Pechino infatti stava mettendo su bottega un po’ dappertutto, anche
nell’altro porto, quello a sud di Hambantota, e
visto che tutti i lavoratori che sono impegnati
nei grandi lavori cinesi sono per l’appunto cinesi, ai singalesi la cosa non è piaciuta tantissimo. Nuove elezioni, ed è andato al potere
Maithripala Sirisena, che ha prontamente affernato che tutti i grandi investimenti cinesi andavano rivisti, dal momento che non erano
stati approvati con le dovute cautele, soprattutto rispetto all’impatto ambientale. Pechino, come era prevedibile, è andata su tutte le furie, e
ha fatto pressione là dove Colombo è più vulnerabile: chiedendo, cioè, il rimborso dei prestiti. Subito. Impossibile. Così, senza tante fanfare, Sirisena ha fatto ricominciare i lavori al
porto, anzi, alla Port City.
Dunque sul fare del tramonto mi sono messa
a passeggiare intorno al cantiere, guardando
quanto tutto fosse cinese: gli stessi slogan sul-
dall’Inghilterra
La battaglia di Orgreave
Cari amici,
il crowdfunding viene usato per diverse cose:
veicoli a tre ruote, nuovi smartwatch, film, progetti artistici e perfino design e sistemi gestionali innovativi per il carcere, ma azzarderei
l’ipotesi che una revisione giudiziaria sostenuta dal crowdfunding non si sia mai vista. Chissà cosa verrebbe offerto agli investitori: un posto nella commissione? Un senso di giustizia?
Una bandiera ricamata del sindacato dei minatori? Una banda di operai di miniera che suonano “Jerusalem”? È proprio perché il governo
non ha saputo esercitare il potere di revisione
giudiziaria sulle inaudite violenze della polizia
in una delle giornate dello sciopero dei minatori a Orgreave, nel 1984, che la campagna per
la giustizia e la verità ha annunciato l’intenzione di finanziare la propria ricerca su come andarono le cose con il crowdfunding.
Orgreave è uno di quegli episodi che compongono l’album della nostra esistenza. Non importa se eravate lì, ma che eravate in vita all’epoca dei fatti. Non è un’esagerazione affermare che quel lunedì 18 giugno del 1984 la
percezione che la gente aveva del governo,
della polizia e del Paese cambiò per sempre.
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una città
Fu una battaglia, parte di una guerra che sembrava mossa dal governo contro il suo stesso
popolo. Ci furono violenze da ambo le parti,
ma il picchetto aveva esordito in modo decisamente pacifico. Era un bel giorno d’estate e i
minatori, che erano arrivati a cessare la fornitura di carbone raffinato alla cokerie, si stavano godendo il sole in un campo non lontano
dal posto di lavoro, quando migliaia di poliziotti
arrivarono convergendo da tutte le parti della
nazione. La cavalleria fu spedita alla carica e
fece irruzione nel campo a gran galoppo. Le
foto delle violenze scioccarono il Paese. Il numero di poliziotti non aveva precedenti, come
anche quello dei cani e dei cavalli impiegati
nell’azione. Gli arresti furono moltissimi, ma
non un singolo minatore fu incarcerato per alcun crimine, dal momento che i tribunali respinsero le prove delle forze dell’ordine: troppe
versioni identiche, tutte dettate dalla polizia del
South Yorkshire. La testimonianza anonima di
un poliziotto di Orgreave rivelò che gli ufficiali
avevano ricevuto l’ordine di usare la massima
forza e confermò che i minatori non avevano
fatto niente. Un minatore, Stefan Wyzocki, raccontò alla Bbc di essere stato arrestato e quin-
la sicurezza e le meraviglie della progettistica,
lo stesso faccione un po’ sovietico del lavoratore con l’elmetto che guarda al futuro, con a
fianco i caratteri che dicono “Prima di tutto sicurezza!”, e poi, naturalmente, gli stessi lavoratori con la pelle ispessita dalle intemperie,
ma qui un po’ spaesati.
Camminando, ho iniziato a chiacchierare con
uno di loro, che mi ha solo detto che si chiamava Zhang -nome talmente comune che magari se l’è inventato perché ero troppo ficcanaso. Mi ha detto che è lì da due anni, e per sei
mesi, quando ci sono state le elezioni, non
hanno fatto nulla. Ma visto che la decisione di
tornare in Cina non è sua, ma dell’azienda, e
che ha il permesso di rientrare solo per il Capodanno cinese, se n’è rimasto lì, ad aspettare
insieme agli altri. Lavorano dieci ore al giorno,
a volte fanno gli straordinari e mangiano nel
capannone cinese (“Cibo locale? Mai provato.
Non siamo abituati a mangiare cose non cinesi”, mi spiega), dormono in un altro capannone; escono solo per chiamare casa con i cellulari, per avere un po’ di privacy. Sono in ventiseimila. Gli ho chiesto quanto sarebbe rimasto
a Colombo in queste condizioni e mi ha detto,
come niente fosse: “Vent’anni. È il contratto
che abbiamo con il governo, e l’azienda ha deciso che restiamo tutti, per costruire e gestire il
porto”.
Poi siamo stati interrotti da una guardia, cinese
anche quella, insospettita dalle mie chiacchiere, e così ho tolto il disturbo. Tornando verso il
Green, non riuscivo a credere alle dimensioni
del progetto, e mi chiedevo davvero quanto la
popolazione di Colombo sappia, ed apprezzi,
questo sviluppo: dato che il porto, una volta finito, sarà tutto cinese anche quello.
Ilaria Maria Sala
di fatto passare tra file di poliziotti che lo ricoprirono di pugni e calci fino al punto che bisognò portarlo via di peso.
Eppure è stato ritenuto che un’inchiesta non
sarebbe di “interesse pubblico”. Parte delle
motivazioni per cui Amber Rudd ritiene che
una revisione giudiziaria sia inutile dipendono
dall’assenza di “decessi” o “arresti illegali” legati alle azioni della polizia del South Yorkshire. Ah, beh. Caso risolto.
Esistono fin troppi documenti ufficiali sullo
sciopero dei minatori ma ancora oggi sono
troppo sensibili per poter essere resi noti al
pubblico, come solitamente accade passati
trent’anni. Si sa ancora fin troppo poco delle
direttive governative sul mantenimento dell’ordine durante lo sciopero, ma si sospetta molto.
Persino l’attuale capo della polizia e dell’anticrimine, il dr. Alan Billings, che si aspettava
che il governo annunciasse un’inchiesta, è rimasto scioccato nell’apprendere la decisione
di Amber Rudd.
Grazie all’inchiesta, la polizia del South Yorkshire avrebbe potuto esorcizzare i fantasmi
del suo passato a Hillsborough e Rotherham.
Parlando alla Bbc, Billings ha dichiarato: “Non
sappiamo con precisione cosa sia accaduto a
Orgreave, perché sia stato necessario un simile dispiegamento di forze armate, né se fu coordinato dal governo”. Ha poi aggiunto la seguente riflessione: “Uno di quei momenti, a
mio avviso, in cui la polizia diviene quasi interamente uno strumento di Stato; uno di quei
momenti che è meglio evitare”.
Michael Mansfield, l’avvocato della Corona
che difese i minatori, ha spiegato chiaramente
il motivo per cui ritiene di grande importanza
l’apertura di un’inchiesta: non si tratta di ciò
che è successo ma di come sia stato possibile
arrivarvi, e perché.
Centro! Questa è una campagna di crowdfunding a cui parteciperò e che consiglierò a
chiunque io conosca. È uno di quei casi in cui
il governo non riesce a guidare e ad assicurare
verità e giustizia, finché non sono le persone e
la vita di tutti i giorni a prendere il sopravvento.
Intanto tutti i giorni ci sono ragazze e giovani
donne affette da problemi mentali come mai
prima d’ora. Il 37% delle ragazzine soffre di
depressione e ansia. Le richieste scolastiche,
il futuro incerto, i problemi estetici, la sessualizzazione precoce e il bullismo su internet e
per strada creano stress; aggiungiamolo ai social e alla tensione per mantenere un’immagine pubblica impossibile e sarà davvero troppo.
L’estetica è stata uno degli stimoli che hanno
portato alla creazione dello “Spare Rib Magazine”, una rivista femminista iconica creata da
Rosie Boycott e Marsha Rowe, tra le altre. Il
primo numero apparve nel 1972, come sfida
alla situazione delle donne dopo la rivoluzione
degli anni Sessanta, nell’inebriante e illuminante seconda ondata del femminismo. Le
pubblicazioni cessarono nel 1993. Sembra impossibile che dopo tutti quei nostri presunti
dal Marocco
Dopo le elezioni
Cari amici,
vi scrivo a pochi giorni dalle elezioni legislative
in Marocco, che hanno visto la conferma del
Partito Giustizia e Sviluppo (Pjd) di Abdelilah
Benkirane, primo ministro dal 2011. In Marocco di politica si parla poco, in quanto la partecipazione al voto è talmente bassa da rendere
l’effetto delle elezioni poco rilevante. La gente
è toccata dall’aumento del costo della vita o
dalle difficoltà legate a un sistema largamente
corrotto, nonostante i proclamati tentativi di
pulizia da parte di re e partiti politici. Pochi
condividono l’interesse per il confronto tra islamisti moderati del Pjd e Partito Autenticità e
Modernità, ovvero del presunto scontro tra
partiti della Koutla o di movimento e quelli del
regime o Makhzen (cosiddetti partiti dell’amministrazione).
Scrive Tahar Lamri, intellettuale algerino di Ravenna: “Marocco, gli islamisti vincono le elezioni, così titolano, unanimi, i giornali da ieri. In
qualsiasi altro contesto i titoli sarebbero stati:
Voto in Marocco. Il Partito Giustizia e Sviluppo
riconfermato; oppure: Marocco, il Partito ecc.
vince le elezioni. Nei contesti arabo-islamici,
pare, qualsiasi partito in odore di islam è islamista: sottinteso oscurantista, jihadista, antidemocratico, ecc. Nessuno dice che il Pjd (Partito Giustizia e Sviluppo), che si definisce ‘partito politico nazionale’ e nulla più, già al governo
dal 2011, ha governato assieme agli ex comunisti del Partito del Progresso e del Socialismo, al partito di centro-destra Rni (Raggruppamento Nazionale degli Indipendenti), ai liberali del Mp (Movimento Popolare)”.
Anche oggi il Pjd dovrà formare un governo di
coalizione. Sono cominciate le trattative e, come già nel 2011, non si tratterà quasi certamente di un governo esclusivamente della
Koutla, bensì di una coalizione di partiti molto
diversi tra loro, come sempre amalgamati formalmente sotto l’egida reale. Potrebbe tornare
al governo il partito degli indipendenti, che deciderà del suo ingresso con una diversa leadership. Altri partiti amministrativi stanno attendendo la decisione. Ma la vera novità è l’ormai
data per certa partecipazione del partito conservatore Istiklal, quello nazionalista dell’indipendenza. Dalle fila dell’Istiklal era uscita la
frangia socialista, oggi Unfp, che, dopo le ulti-
me elezioni, sembra propensa all’avvicinamento al Pjd, con l’affermazione del quale già
dal 2002 l’Unione Nazionale delle Forze Popolari aveva visto un calo costante e impietoso di
consensi: oggi questo partito dalla storia gloriosa supera di pochi punti la soglia del 3%,
portando in Parlamento 20 deputati soltanto. A
partire dalla fine degli anni Novanta del secolo
scorso, forte dei consensi che lo facevano prima forza politica del paese, la Unfp fu cooptata al governo e incominciarono a spegnersi le
speranze per un orizzonte monarchico costituzionale con una possibile vera democrazia; fu
la stessa sinistra di potere a tradirle. Oggi le
speranze dei democratici marocchini sembrano nelle mani del Pjd, che con più del 30% dei
voti si è riconfermato prima forza politica del
paese, ottenendo 125 deputati, 23 in più del
Pam. L’Istiklal è la terza forza, ma con l’11%
ha meno della metà dei parlamentari del Pam;
seguono Rni e Movimento Popolare, partiti
moderati amministrativi.
Le istanze della sinistra sono oggi lasciate a
una debole federazione di partiti che sembra
riscuotere consensi soprattutto tra i giovani
della nuova borghesia urbana; questi non paiono confidare nella democrazia rappresentativa e non si iscrivono neppure nelle liste elettorali. Di conseguenza la Federazione della sinistra democratica (Fgd) non ha raggiunto il
quorum del 3%, perdendo la rappresentanza
nazionale femminile e giovanile delle liste
create ad hoc per un maggiore equilibrio generazionale e di genere in Parlamento. Neppure
la combattiva leader Nabila Mounib è diventata deputata e la Federazione ha due soli eletti,
a Rabat e Casablanca.
È forse una sinistra troppo elitaria; già all’interno del Movimento 20 febbraio e in seguito alla
crisi dell’alleanza con gli islamisti ne era emersa la fragilità. Sono quindi i movimenti a ispirazione religiosa a prevalere nel favore dell’opinione pubblica perché in grado di portare la
bandiera delle questioni socio economiche, la
lotta alla povertà e alla corruzione (su quest’ultimo tema lo stesso primo ministro Benkirane
aveva per altro ammesso il fallimento del governo). Permane una corruzione molto diffusa,
forse senza soluzione: lo stesso re che si dichiara paladino dell’onestà governa un siste-
lettere
progressi una mia giovane amica si ritrovi a
essere intimidita sulla metropolitana da un uomo di mezza età che le si spinge contro, sentendosi in pieno diritto di invadere il suo spazio
personale, respirare la sua aria e succhiarle
via la dignità. Che un giovane possa urlare alla
sua ragazza di “chiudere quella cazzo di bocca” non una, non due ma tre volte, e che la ragazza rimanga zittita, senza voce. Sembra impossibile che le nostre giovani siano talmente
preoccupate del loro aspetto da procurarsi dei
tagli per alleviare il dolore della loro infelicità.
Non si tratta di cosa è successo, come diceva
Michael Mansfield riguardo a Orgreave, ma di
come ci siamo arrivati. E perché.
© Belona Greenwood
(traduzione di Antonio Fedele)
ma, il Makhzen, diffusamente corrotto. E i partiti politici galleggiano per spartirsi il potere che
resta, e con esso il denaro.
A Sidi Bibi, una cittadina a sud di Agadir, dopo
le elezioni ci sono stati grandi problemi di gestione della sicurezza per il fatto che alcuni cittadini avevano costruito abusivamente le loro
case. Li si era lasciati liberi di agire prima del
voto, per poi punirli duramente con la distruzione di quanto costruito non appena le urne sono state chiuse: forse questo fatto potrebbe
ben rappresentare che opinione possano farsi
i marocchini della democrazia elettorale...
D’altronde il Marocco resta un paese di grandi
disparità: tra classi sociali, tra quartieri di una
stessa città, fra regioni. Che importanza possono avere le elezioni per un pastore d’un villaggio montano dell’Alto Atlante che parla soltanto in berbero e vive a fatica in un’economia
di sussistenza?
Un amico di Tata m’ha raccontato con passione del suo fallito tentativo di diventare rappresentante cittadino per l’Istiklal. Le differenze
ideologiche tra i partiti, già pallide a livello nazionale, quasi spariscono a livello locale: qui la
scelta di una parte politica dipende prevalentemente dalle persone che la rappresentano:
per Hassan conta soprattutto la capacità di farsi carico dei bisogni del suo villaggio e dei cittadini, nel tentativo di vincere la radicata abitudine della compravendita del voto che favorisce personaggi corrotti.
Oggi siamo rimasti bloccati a Tata dalle piogge
insistenti: dalle montagne è arrivata una grande ondata d’acqua che ha invaso queste aride
terre impedendo qualunque collegamento
stradale per la città. Non ci sono ponti: Benkirane passando di qui li aveva promessi, ma
forse Tata è troppo lontana da Rabat o è mancato da parte degli eletti un reale interesse per
il miglioramento delle condizioni di vita dei loro
elettori. Hassan non è stato eletto, ma almeno
è soddisfatto per l’invio in Parlamento del rappresentante del suo partito, piccolo segnale di
cambiamento politico in questa provincia.
Continuerà pertanto e, nonostante tutto, a impegnarsi per la sua gente confidando che in
tanta indifferenza, di colpo possa scoppiare un
temporale delle coscienze, in grado di riempire
i fiumi come l’acqua che oggi scorreva impetuosa, unica protagonista di questa giornata
nel sud Marocco.
Emanuele Maspoli
una città
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2 ottobre. Il populismo non è fascismo,
ma…
Marine Le Pen è fascista? Un tribunale francese ha sentenziato che i suoi oppositori hanno il diritto di definirla così. E Norbert Hofer, il
leader del Partito della libertà austriaca? E
Donald Trump?
Sheri Berman, nel suo intervento sull’ultimo
numero del “Foreign Affairs”, interamente dedicato al populismo, solleva qualche dubbio.
Sicuramente il contesto di crisi economica e
inadeguatezza delle élites politiche ricorda
molto quello degli anni Venti e Trenta. Proprio
per questo varrebbe la pena capire perché la
crisi economica comune a Germania e Stati
Uniti portò a esiti così diversi. Berman ricorda
ad esempio come mentre la Germania si intestardiva in una politica di austerità, Roosevelt
poneva le fondamenta del futuro stato sociale. Non a caso, la forza del fascismo stava
anche nella promessa di uno Stato che si sarebbe occupato dei suoi cittadini, difendendoli
dagli effetti del capitalismo.
Ovviamente al successo del fascismo contribuirono molti altri elementi, la frustrazione dei
reduci, la connivenza delle forze conservatrici, l’appeal nazionalistico…
E oggi? Berman intanto fa notare che i populisti non parlano mai di abbattere la democrazia, bensì di migliorarla. Sono antiliberali, ma
non antidemocratici. Una differenza tutt’altro
che banale. E poi c’è il contesto: nonostante
tutti i limiti, attraverso le istituzioni democratiche, i partiti e le organizzazioni della società
civile, i cittadini possono esprimere le proprie
preoccupazioni, influenzare la politica e, attraverso il welfare, trovare risposta ai loro bisogni. Tutto bene dunque? Beh, se è vero quello che dice Theda Skocpol, e cioè che i movimenti rivoluzionari non creano le crisi, bensì
le usano, allora è invece il caso di preoccuparsi. Ma delle cose giuste. Il passato ci insegna che più che dei populisti dobbiamo preoccuparci dei problemi che affliggono la nostra democrazia e che sono la crescente disuguaglianza, i bassi salari, la disgregazione
delle comunità, eccetera eccetera.
(foreignaffairs.com)
10 ottobre. Morire di carcere
Un detenuto di 23 anni ha provato a impiccarsi nella propria cella della Casa Circondariale
di Fuorni. Le guardie carcerarie, accortesi del
tentativo, hanno dato subito l’allarme. Intubato e stabilizzato, il ragazzo è stato trasferito
con urgenza all’ospedale di Salerno del Ruggi, dove è stato ricoverato in rianimazione in
coma. (Ristretti Orizzonti)
12 ottobre. Il Gaokao
Ogni anno, ai primi di giugno, gli studenti cinesi che stanno per conseguire il diploma si
cimentano nei test d’ammissione alle università: i Gaokao (letteralmente “esami superiori”) sono considerati un evento nazionale, al
punto che nelle prossimità delle sale d’esame
si interrompono i lavori nei cantieri, viene deviato il traffico e le forze di polizia verificano
che nelle strade adiacenti non si faccia chiasso. In più, per evitare gli imbrogli, le aule ven-
gono sorvolate da apparecchi che rilevano
onde radio “anomale”. Fuori, intanto, si assiepano i genitori degli esaminandi, che si preparano per quel momento sin dalle elementari. Già, perché i posti disponibili sono circa
uno ogni 50.000 candidati, e dal risultato del
Gaokao può dipendere il resto della vita: dalla
carriera alle prospettive di matrimonio. Certo
un sistema tanto competitivo attira diverse critiche anche in Cina; d’altra parte, l’opinione
condivisa è che non ci sia alternativa a un
esame tanto duro. “Abbiamo troppa gente”.
(theguardian.com)
16 ottobre. Dove sono finiti i lavoratori?
Nel mercato del lavoro statunitense mancano
all’appello milioni di uomini. Dove sono finiti?
Questa è domanda che guida la ricerca da
poco pubblicata di Alan B. Krueger, professore di economia a Princeton. Gli economisti da
tempo si scervellano per capire perché una
crescente quota di giovani uomini non solo
non lavora, ma nemmeno cerca un impiego.
Gli ultimi dati ci dicono che a settembre 2016
negli Stati Uniti l’11,4% degli uomini tra i 25 e
i 54 anni (sette milioni di persone) non fa parte della “forza lavoro”. Com’è possibile? Al di
là delle tendenze demografiche, che ovviamente incidono, la preoccupante scoperta di
Krueger è che il 40% di chi sta “fuori” soffre,
nel senso proprio di dolore fisico, anche di intensità elevata; un terzo ha delle disabilità di
vario tipo; il 44% prende antidolorifici tutti i
giorni e, ciò che è peggio, continua a provare
dolore. (nytimes.com)
20 ottobre. Tutti programmatori?
Negli Stati Uniti si è aperto un dibattito attorno
all’idea che saper programmare è diventato
un aspetto dell’alfabetizzazione di importanza
pari al saper leggere e far di conto e quindi va
insegnato a tutti. Ne parla Annie Murphy Paul
sull’ultimo numero de “Le Scienze”. L’amministrazione Obama si sta muovendo su questa
strada. Nel Regno Unito, già nel 2014 per gli
studenti è diventato obbligatorio saper programmare. Sheena Vaidyanathan, che insegna alla scuola elementare di Palo Alto, è
convinta che tutti, maschi, femmine, ragazzini
apparentemente poco dotati per la matematica, possano imparare a programmare. Ovviamente la sfida è molto ambiziosa, soprattutto
perché per ora mancano gli insegnanti di informatica. I più diffidenti mettono anche in
guardia dal rischio che lungo questa strada si
inseriscano le grandi imprese interessate solo
ai loro profitti. I più fiduciosi sostengono invece che “saper programmare” nel senso di
scrivere codici, è troppo poco. Quello che bisogna insegnare, partendo dai bambini, è ciò
che sta “sotto”, diciamo così, la programmazione, e cioè il pensiero computazionale, vale
a dire “la capacità di saper prendere un grosso problema e scomporlo in tanti problemi più
piccoli”, un’abilità che in effetti non serve solo
a chi usa il computer. (Le Scienze)
28 ottobre. L’imama
La moschea Mariam, la prima a conduzione
femminile, ha aperto in marzo a Copenaghen.
appunti di un mese
Al primo incontro si è parlato di diritto delle
donne. Sherin Khankan, 42 anni e quattro figli, una delle imam che guida la preghiera, è
nata in Danimarca. Nel 2001 ha fondato “Critical Muslims” un gruppo che promuove un
islam democratico e pluralista.
Sherin porta il velo solo quando prega e nei
suoi sermoni rilegge il Corano “secondo i nostri tempi e la nostra società”.La sua moschea trova ispirazione nel sufismo, ma tutti
sono i benvenuti. Nella moschea di Sherin si
sono celebrati già cinque matrimoni (due dei
quali tra persone di fede diversa). Uomini e
donne sono invitati a partecipare alle varie attività della moschea, ma il venerdì è riservato
alle donne. (wsj.com)
31 ottobre. Mr Hussain
Sharakat Hussain, ventiseienne di Birmingham, aveva acquistato un iPhone7 da 799
sterline per la sorella, dopodiché aveva deciso di restituirlo. Gli era stato comunicato che
sarebbe arrivato un rimborso, ma dopo qualche settimana gli è arrivata un’email di Apple
in cui gli si chiedeva di dimostrare di non essere il defunto dittatore iracheno. Ovviamente
ha subito pensato fosse spam, ma si sbagliava. Il suo cognome era finito dentro la “black
list”. A quel punto Hussain, che fa l’autista, si
è infuriato, oltre che indignato per l’associazione. Apple si è scusata dell’errore umano e
ha garantito che i soldi sarebbero stati riaccreditati quanto prima. (independent.co.uk)
31 ottobre. Effetti Brexit
Sulla prima pagina del “Guardian” oggi si parla di un effetto della Brexit piuttosto curioso:
alcuni discendenti delle decine di migliaia di
ebrei tedeschi che trovarono rifugio in Gran
Bretagna in fuga dal nazismo, oggi rivendicano il loro diritto alla cittadinanza tedesca. Le
autorità tedesche parlano di circa quattrocento domande arrivate dal Regno Unito.
Michael Newman, dell’associazione dei rifugiati ebrei, parla di una sfida psicologica considerevole: dopo aver aiutato gli ebrei a diventare cittadini britannici, oggi gli viene chiesto di assistere chi vuole riacquistare la cittadinanza tedesca.
In base all’art. 116, infatti, qualsiasi discendente di persone perseguitate dai nazisti ha
diritto a chiedere la cittadinanza tedesca.
Ovviamente non tutti sono pronti a una simile
scelta. Harry Heber, 85 anni, nato in Austria e
arrivato in Gran Bretagna all’età di sette anni
nel dicembre del 1938, dice che l’idea di tornare nel luogo dove i suoi parenti sono stati
assassinati semplicemente gli provoca orrore.
(theguardian.com)
1 novembre. Poverofobia
In francese si dice “pauvrophobie” ed è la parola scelta dopo un sondaggio condotto da
Atd Quart Monde (movimento di lotta contro
la miseria presente in 34 paesi) in occasione
della giornata mondiale contro la povertà.
Sembra che questa fobia della povertà in
Francia (ma non solo) stia colpendo comunità
locali e amministrazioni in un modo inedito.
Non ci sono solo gli episodi eclatanti degli at-
blog: redazioneunacitta.wordpress.com facebook: goo.gl/ezEWLL twitter: @Una_Citta
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una città
tacchi ai centri per i poveri e gli immigrati, racconta Isabelle Rey-Lefebvre su “Le Monde”,
ora ci si mettono anche gli arredi urbani a ribadire il concetto: come le gabbie metalliche
anti-clochard installate intorno alle panchine
di Angoulême. I poveri ormai non sono più
tollerati neanche sui marciapiedi. D’estate a
Cannes, Nizza, Fréjus, si ripetono i decreti
anti-accattonaggio. A Lione sono arrivati a
chiudere le fontane in piena canicola.
“Le Monde” ha dedicato un lungo reportage
alla fobia per la povertà. Ciò che colpisce è
anche proprio il senso di fastidio che si sta
diffondendo verso chi non ce la fa: se nel
1995 era il 25% delle persone a pensare che
“i poveri non fanno abbastanza per uscire
dalla loro situazione”, oggi, a parità di indice
di povertà, a pensarla così è il 36%.
(lemonde.fr)
3 novembre. Il grande fratello e l’Rc auto
Agli ideatori doveva essere sembrata una
bella trovata. “Firstcarquote” il nuovo prodotto
della compagnia assicurativa inglese Admiral
si rivolge esplicitamente alla “generazione digitale” alle prese con l’acquisto della prima
auto facendo un’offerta allettante. Permettimi
di “quotarti”, cioè di capire quante possibilità
ci sono che tu faccia un incidente, e ti farò un
bello sconto. Quotarti come? Beh, studiandoti
attraverso il tuo account su un social network.
Facebook ha bloccato sul nascere l’iniziativa
perché viola gli elementari principi di privacy.
Admiral si è giustificata spiegando che c’è un
legame comprovato tra la personalità e il modo di guidare e che il loro servizio era pensato per aiutare i giovani neoguidatori spesso
molto penalizzati dai premi assicurativi. Sarà.
Certo la prospettiva che un’assicurazione usi
degli algoritmi per sapere, per esempio, in
che orari e dove incontri le persone, quali parole usi nei post e quanto lunghe sono le tue
frasi fa, a dir poco, una certa impressione.
(dailymail.co.uk)
4 novembre. Ivan il terribile
Il primo leader russo a rivalutare la figura di
Ivan il Terribile, sanguinario zar del sedicesimo secolo, era stato Stalin; in un celebre
aneddoto, il povero Eisenstein, reo di aver girato un film non proprio agiografico sulla sua
figura, era stato duramente ripreso dal dittatore, che stimava Ivan come “grande e saggio governante”.
Con la fine dello stalinismo, anche il Terribile
era tornato a essere considerato una figura
cupa della storia di Russia. Così fino a oggi,
perché la città di Oryol, nella Russia sud-occidentale, ha appena inaugurato nella piazza
principale una statua equestre in suo onore.
All’inaugurazione, alla presenza di alte autorità, il governatore cittadino ha affermato:
“Anche ora abbiamo un presidente potente,
che ha costretto il mondo intero alla deferenza verso la Russia. Proprio come aveva fatto
Ivan il Terribile”. Non tutti ci stanno, e in città
si è animato un piccolo gruppo di attivisti anti-statua. Una di loro è già stata aggredita, e
per la paura ha lasciato il paese.
(politico.eu)
appunti di un mese
Il dovere
La catastrofe non potrebbe essere la grande
occasione per una rinascita dell’Italia, in nome
del bene comune? Perché non chiamare tutti i
cittadini alla solidarietà non solo verso chi soffre adesso, ma verso chi potrà soffrire domani
e verso figli e nipoti il cui futuro non deve essere gravato da ancora più debiti? In che modo?
Varando una grande patrimoniale una tantum,
su beni immobili e mobili, pesantemente progressiva, per ricostruire, per mettere in sicurezza buona parte del paese, per dare un forte
impulso alla ripresa economica; ma che possa, soprattutto, darci ciò che rasserena gli animi e unisce: la consapevolezza di aver fatto il
proprio dovere.
Cosa succede in fabbrica?
Confessiamo che non avevamo capito, ed è
grave, che i cinque operai Fca, licenziati per
motivi disciplinari avendo inscenato una discutibile sceneggiata su un Marchionne suicida
(per ricordare il suicidio, quello vero, di alcuni
cassintegrati Fca), sono stati reintegrati dal
giudice solo perché il loro contratto era antecedente al jobs act. Se fossero stati assunti dopo
sarebbero fuori con qualche mensilità in tasca
(poche).
Beh, intanto fa impressione la disparità con cui
due operai, fianco a fianco sul lavoro, ma assunti in tempi diversi, verrebbero trattati per la
stessa infrazione disciplinare: uno licenziato
l’altro no. (Ma la Corte avrà da ridire? Speriamo, visto che è così puntuale a revocare, in nome dell’uguaglianza, i contributi di solidarietà a
chi guadagna molte migliaia di euro al mese).
Ancora più impressione, però, fa l’eventualità
che in fabbrica torni la paura del padrone.
Il voto sballottato
A chi gli fa notare che con la sua legge elettorale anche un partito del 25% potrebbe avere
la maggioranza assoluta in Parlamento, uno
degli architetti della legge elettorale ribatte che
il voto al ballottaggio è pienamente rappresentativo, e lì, per forza, ma questo non c’era bisogno che ce lo dicesse lui, ci sarà chi avrà più
del 50%. Quindi io dovrei sentirmi rappresentato in Parlamento dal voto che ho espresso in
un ballottaggio? Se fossi in Francia, per esempio, e fossi costretto a votare Sarkozy per
sbarrare la strada alla Le Pen, dovrei poi sentirmi rappresentato da una persona e da una
destra che detesto? E poi in Francia fra il primo turno e il ballottaggio ci si può coalizzare,
quindi si può trattare, fare patti e ottenere qualcosa. Qui no, assolutamente: che non sia mai
che si arrivi a un “inciucio” (ma chi è stato che
ha introdotto nel linguaggio politico questa parola? La più antipolitica e volgare che sia mai
stata usata!). Ma facciamo pure il caso italiano, in una delle ipotesi neanche poi tanto campate per aria: la minoranza Pd se ne va ed è
una separazione con astio che impedisce, almeno all’inizio, una ricomposizione in una lista
comune; al ballottaggio ci vanno i Cinquestelle
e la destra a quel punto riunita, con un Salvini
in prima fila. Cosa voteranno gli altri? E comunque votino, si sentiranno rappresentati?
Finora, per anni, ha funzionato un ricatto (a
cui, però, a rigore, ci si poteva anche ribellare):
“Se voti i piccoli, disperdi”, “Se non voti, voti
Berlusconi”, eccetera. Cosicché, in tanti, per
tante volte, a malincuore abbiamo votato Pd.
Adesso siamo alla costrizione. E quella, non
so se se ne stiano accorgendo gli ingegneri
della governabilità e i loro committenti, a tanti
non va proprio giù.
La parola maggioranza
Qualcuno ha definito “la democrazia come
l’espressione della volontà della maggioranza
temperata dalle garanzie della minoranza”. La
definizione non sembra entusiasmante, suona
un pochino prosaica, ma per questo chiederemo a chi di dovere. Su una cosa però ci sentiamo di dire la nostra: maggioranza vuol dire
maggioranza, non “chi arriva primo”. Giusto?
IL 25 e il 55
Ma siete proprio sicuri che un grande premio
assicuri stabilità, governabilità e soprattutto dia
la forza per cambiare? Se si ottiene la maggioranza dei seggi con una percentuale del 25%,
siete convinti che questo non condizioni poi
l’azione di un governo? Il paese non sparisce
il giorno dopo le elezioni, tant’è che, per fare
un esempio, non c’è stato un solo governo, dei
“maggioritari” che si sono succeduti, che l’abbia spuntata su 700 tassisti.
Non può succedere che un premier del 55% in
parlamento e del 25% nel paese sia portato a
conquistare dopo, il consenso che non ha conquistato prima? In che modo? Varando leggi e
provvedimenti “popolari” piuttosto che necessari ma “impopolari” e i cui benefici si vedrebbero
solo nel tempo. E così saremmo alle solite.
Da Lenin a Renzi
Si discuteva alla Lewin, accapigliandosi anche
qui, sul sì e il no. Ma poi si è andati a parlare
dei vecchi amici e lontani conoscenti del ’68, in
gran parte schierati con il sì. Un amico presente, a suo tempo militante a tempo pieno, s’è
messo a raccontare che dovendo andare a dare un esame di storia contemporanea (se ne
dava uno all’anno per rimandare il militare) con
un assistente che era un compagno, portò
nientemeno che “Proletari senza rivoluzione”,
di Del Carria, uno dei testi canonici del tempo.
Con il professore ordinario, invece, esperto di
costituzioni, si sarebbe dovuto preparare sulle
costituzioni scandinave. Mentre andò benissimo sul Del Carria, quando si trovò di fronte al
costituzionalista fece scena muta. Le sue dispense non le aveva neanche aperte e la materia era comunque arabo per lui. Il professore,
dopo aver chiesto al suo assistente com’era
andata con lui e che questi aveva risposto:
“Benissimo”, guardò fisso lo studente per qualche secondo, e poi disse: “Ho capito, le do 30
con disprezzo”. Il nostro amico ha aggiunto
che, malgrado la supponenza rivoluzionaria di
allora e tutto il nostro, di disprezzo, per l’accademia e quant’altro, non era riuscito a rimuovere con un’alzata di spalle l’episodio, che gli
era rimasto impresso come uno di quei ricordi
sgradevoli, di “peccati commessi”, che ci accompagnano per tutta la vita. Dopodiché ci si
è messi a ricordare di quanto disprezzassimo
la democrazia (qualcuno ha sfidato a contare
le volte che la parola appare nei giornali rivoluzionari), di quali fossero le nostre parole
chiave: “potere”, “forza” (e non solo per “i rapporti”), “masse”, “avanguardia”, di quanto dipendessimo da un capo, di quanto ammirassimo Lenin e la sua arte sublime dell’insurrezione (da solo, contro tutti: né il 6 né l’8, ma il 7!).
Poi, ritornando all’oggi dei vecchi compagni,
qualcuno ha detto: “Il giacobinismo è duro a
morire”. E l’amico: “Se qualcuno facesse loro
la domanda della professoressa Carlassare:
‘Ma un senato così chi rappresenta?’, farebbero scena muta”. Poi, andandosene, ha dichiarato: “Per disprezzo della mia ignoranza e arroganza di allora voterò no”.
Gianni Saporetti
una città
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reprint
DISCUSSIONE SUL TITOLO V
Discussione generale sul Titolo V relativamente alla Regione. Seduta pomeridiana di
venerdì 16 giugno 1947, intervento di Oliviero Zuccarini.
Sulla Regione e il fascismo
… Della Regione si è Parlato in tutti i tempi, e non già per creare qualche cosa di artificioso, ma in relazione alla necessità di migliorare, modificandola, la costituzione politica, amministrativa, dello Stato italiano, la
quale, se non sembrava fosse la costituzione
ideale 60 anni fa, tanto meno sembra -almeno a noi- che possa essere la costituzione da
mantenere e da stabilizzare oggi, dopo il fascismo. Il problema fu sentito anche da
Mazzini il quale, dopo il 1860 ed anche prima, si ribellò contro il sistema accentratore
piemontese che si voleva imporre, e s’impose infatti, a tutta l’Italia, e ne vide fin da allora tutte le conseguenze. «Non è questa
l’Italia che io sognavo» -egli disse- e pensò
alla Regione e al Comune; anzi, al Comune
prima della Regione.
[…] il problema della Regione diventò vivo,
vivissimo, e fu agitato subito dopo l’avvento
del fascismo: allora si capì veramente che
cosa poteva rappresentare per la libertà nella vita politica di uno Stato un ordinamento
a base regionale. Si vide quello di cui non s’è
accorto, nemmeno oggi, l’onorevole Nitti: cosa rappresenti cioè Roma nella vita politica
italiana, Roma, la capitale dello Stato, la capitale in cui sono concentrati tutti gli uffici
e tutti i poteri e dove bastò che Mussolini
arrivasse con le sue camicie nere. C’è stata
la marcia su Roma, onorevoli colleghi, non
su Palermo o su Napoli o su altre città, nelle quali non avrebbe avuto conseguenze politiche. La marcia su Roma invece, sì, poteva averle e le ebbe, appunto perché, quando
c’è l’accentramento statale come c’era e c’è
in Italia, è molto facile mettere la mano sulle leve di comando e assoggettare tutto il
Paese.
È un vecchio avvertimento della democrazia
ed è una vecchia esperienza. Quando in un
solo punto stanno concentrati tutti i poteri e
tutte le forze è assai facile -e lo avvertì un
giorno Cattaneo- a chi riesce a mettere le
mani sul potere stabilire la dittatura.
Ed infatti l’antifascismo si orientò istintivamente verso la soluzione regionale; e vi si
orientò valutandola sotto l’aspetto di una
soluzione di democrazia e di libertà nello
Stato. Nessuno fra di noi, che ne facemmo
argomento della nostra battaglia, pensò alla
Regione di per se stessa, come ad un organismo separato e indipendente dalla vita della
Nazione. La vedemmo invece, proprio nel
periodo del fascismo, come una soluzione
democratica. E alla Regione non si pensava
di arrivare, come si pensa di arrivare oggi,
per una concessione dall’alto: si pensava di
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una città
arrivarci, invece, attraverso le autonomie
comunali e con un sistema di collegamento
tra comune e comune, che facesse della Regione non già un organismo per sé stante,
ma un mezzo, una specie di ponte di passaggio fra le autonomie locali e l’autorità dello
Stato.
Quest’idea della Regione, intesa non già come un organismo indipendente e separato
da tutti gli altri ma come un organo di collegamento, di trasferimento della sovranità
dal basso verso l’alto, fu compresa e accettata da tutti. Io ricordo, avendo stampato un
libro in quel tempo, che «Critica Sociale»
diede, almeno da parte di qualcuno dei suoi
collaboratori, ampio riconoscimento a questa concezione nuova e democratica della
struttura dello Stato; e ricordo altresì che
quelle mie tesi furono apertamente sostenute anche da un altro giornale socialista che
era allora diretto, oltre che dal Rosselli,
dall’onorevole Nenni, «Il Quarto Stato», e
molto esplicitamente.
Anche dopo, durante il fuoruscitismo, il programma di agitazione e di lotta che s’intendeva svolgere contro il fascismo e contro la
dittatura fu impostato da tutti partiti -dico
da tutti i partiti- sul terreno delle autonomie. Dirò di più: spaventatevi pure, fu impostato sul terreno del federalismo. Persino
dai comunisti, come ha ricordato del resto
l’onorevole Lussu!
Sul regionalismo, inteso come problema di
sovranità che si diffonde dal basso verso
l’alto, si manifestarono concordi pure altri
uomini politici di varia provenienza: potrei
citare il Gobetti, che aderì completamente
alle nostre idee; potrei ricordarvi Guido
Dorso, rievocato e celebrato anche oggi, che
sulla base della esigenza autonomista e anticentralista, impostò quella che egli chiamò
la rivoluzione meridionale. [...]
Se il fascismo fosse caduto per una rivoluzione, per una insurrezione cioè, anziché
per il risultato di una guerra perduta, noi
non staremmo certo a discutere di queste
cose.
Saremmo già sul terreno delle attuazioni.
Abbiamo invece atteso ad arrivarvi e abbiamo dimenticato e dimentichiamo -e credo
che facciamo male- che usciamo dal fascismo e che il fascismo ci ha posto inequivocabilmente il problema della organizzazione
dello Stato, e che la organizzazione dello
Stato è sempre, adesso mentre discutiamo,
quella che abbiamo trovato. E non è solo
quella organizzazione centralistica e parassitaria di venti anni addietro che ha reso
possibile il fascismo e che ci sembrava già
allora insopportabile; è quella invece che il
fascismo nei suoi venti anni ha sviluppato
con tutti i suoi organi, con tutte le sue organizzazioni, con tutte le sue conseguenze.
Volete mantenerla in piedi? Volete lasciar lo
di Oliviero Zuccarini
Stato così com’è? Credete che in questo Stato la democrazia possa comunque esercitarsi? Oppure non si presenta anche a voi, come si presenta, e non soltanto in Italia, ma
in Europa, nel mondo, un problema nuovo,
che del resto venne sempre sentito, ma che
non si era presentato mai nelle condizioni
attuali e nella gravità attuale, il problema
cioè dello Stato egocentrico e monolitico, di
troppe funzioni, dello Stato burocratico, dello Stato senza organi rappresentativi capaci
di funzionare e soprattutto senza alcuna,
aderenza alla realtà e ai bisogni della popolazione? Ma non vi accorgete che, attraverso
la disfunzione dello Stato, c’è la incapacità
degli attuali organismi burocratici e amministrativi, come il fascismo li ha sviluppati,
a funzionare efficacemente?
Non vi accorgete che abbiamo una organizzazione, anzi uno Stato, che è una prigione
per tutti; per cui, se non provvederemo ad
una sua diversa organizzazione interna, se
non andremo verso una profonda trasformazione non solamente dell’organismo dello
Stato, ma anche dei compiti e delle funzioni
stesse dello Stato, verso una diversa distribuzione, cioè degli organi rappresentativi,
verso una più larga ed effettiva partecipazione dei cittadini alla vita pubblica per la
difesa dei propri interessi, noi non risolveremo il problema della democrazia? [...]
L’indifferenza dei cittadini, sempre più manifesta per l’opera di questo Parlamento e
per l’opera dello Stato, non vi dice dunque
nulla? Cresce il malcontento; e cresce con
esso il sentimento, anzi il desiderio di autonomia. Ne avete la dimostrazione nella tendenza stessa dei nostri comuni a riacquistare la loro autonomia, e della popolazione a
crearne di nuovi ancora più piccoli. Non vi
sembra anche ciò una manifestazione evidente di questo bisogno che è nel popolo, e
nelle campagne, e cioè nell’Italia rurale che
è la vera Italia, di liberarsi dall’oppressione
dello Stato, di essere più liberi e sopratutto
di imprimere la propria volontà nella vita
pubblica per la tutela dei propri interessi ?
Signori, qui è il problema della democrazia
nello Stato, la quale non si è mai positivamente ed effettivamente realizzata. È nostro compito realizzarla. Infatti, se andiamo
a vedere, tutti gli Stati, così come sono oggi
organizzati, riproducono esattamente l’organizzazione dei vecchi Stati autoritari, per
grazia divina. Domandatevi perché la rivoluzione francese sia finita così rapidamente
in una dittatura, anzi in una serie di dittature.
La risposta è che la rivoluzione ebbe questo
torto: di proclamare i diritti dell’uomo, ma
di mantenere in piedi, dei vecchi organismi,
il sistema amministrativo; e il vecchio sistema naturalmente, dopo pochi anni, diede
Napoleone e le altre dittature. È il sistema
reprint
stesso che vige anche oggi in Francia, nonostante la Repubblica. È il centralismo e cioè
il potere che viene dall’alto e che vuole governare dall’alto tutte le cose. Finché rimarremo su questo piano, finché vorrete fare
dal centro il Governo di tutte le cose, voi
non realizzerete la democrazia ma preparerete il terreno a nuove dittature. Il problema è in Italia più grave che altrove. E lo è
perché usciamo dal fascismo. E proprio il
fatto che il fascismo ha rappresentato per
noi una grande esperienza ci dovrebbe rendere più sensibili ai problemi dell’organizzazione dello Stato.
Domandiamoci adesso che cosa dovrebbe essere la Regione nella organizzazione dello
Stato. Ho sempre pensato -e credo che lo
pensino tutti, anche se il progetto di Costituzione non ha risolto la questione nel modo
migliore- che la democrazia dello Stato possa realizzarsi solamente così: con una larga
autonomia ai comuni, con comuni collegati
quindi fra di loro in circoscrizioni relativamente più grandi, per passare all’ente Regione e da questo allo Stato. Non si tratta
dunque solamente di un problema di decentramento e di snellimento, si tratta di articolare meglio le membra dello Stato. Ed è
problema di democrazia. […]
Sul Comune e la Provincia
È stato, nel progetto, dimenticato il Comune. Il Comune non vi ha avuto quella trattazione particolareggiata che gli doveva essere data. Ed è stato un altro motivo di critica
che poteva essere evitato. Sono stato il solo
che, col mio progetto, abbia sostenuto la necessità di dare al Comune determinate garanzie di autonomia. Il Comune doveva, secondo me, avere nella Costituzione una considerazione speciale. Si è avuto il torto di
non dargliela. Non si è poi parlato della Provincia in modo sufficientemente preciso. La
Provincia è, si è detto qua dentro, un consorzio di Comuni. Effettivamente non lo è.
La Provincia, così come fu costituita ed e rimasta, non rappresenta nulla. È un organismo arbitrario, determinato dalla volontà
del potere esecutivo che l’ha creata come ha
voluto. Attraverso il tempo, naturalmente,
nel capoluogo di Provincia si sono venuti a
stabilire determinati interessi; quindi, in un
certo senso, la Provincia è diventata un organo quasi naturale di collegamento; è però
sempre un organo artificioso, la cui costruzione, essendo venuta dall’alto, risponde anche oggi, in molte parti, a tale criterio arbitrario, senza tener conto delle esigenze e
delle preferenze dei comuni che vi appartengono. Ora che si tratta di fare la Regione, si
reclama anche il mantenimento della Provincia. E per la Provincia ci si è mossi da diverse parti. Ed allora dico: conserviamo pure il nome, perché la sostanza non c’è stata,
e diamo pure alle Provincie quell’autonomia
che chiedono. Anzi direi di più: se fosse possibile, se servisse a rendere più facile l’organizzazione della Regione, facciamo pure del-
la Regione una federazione di Province.
Diamo però alle Province anche la facoltà di
delimitarsi come vogliono. Quello che è artificioso nella Provincia di oggi è infatti che
molti comuni sono incorporati a Provincie a
cui non hanno interesse né desiderio di appartenere. Le Province poi che sono una costruzione del tutto artificiosa, e il fascismo
molte ne creò per motivi puramente politici
e con criteri politici, bisogna abolirle.
Passo subito alle altre cose essenziali e che
più mi premeva di prospettare. Debbo farlo
di volo.
Sulla burocrazia e l’autonomia
La Regione, pure così incompleta, nonostante tutte le critiche, anzi approfittando di
tutte le critiche che sono state fatte, può essere tuttavia perfezionata, migliorata in ciò
che nel progetto ha di difettoso, e potrà rappresentare un elemento rinnovatore nella
vita politica italiana.
La creazione della Regione porrà, intanto,
sul tappeto, ed imporrà, una immediata risoluzione del problema della burocrazia in
Italia, problema che non si è mai risolto, che
non si è mai potuto risolvere. Non serviranno a risolverlo ora gli studi, le commissioni,
i progetti, tutte le iniziative e le buonintenzioni che volete; solamente la costituzione
della Regione può imporre la riforma burocratica. Non se ne potrà fare a meno. Solo in
vista di tale risultato, che altrimenti non si
otterrebbe, io dico che dovremmo votare per
la creazione della Regione. Dobbiamo esigere, che con la creazione della Regione, si attui immediatamente la trasformazione del
sistema burocratico dello Stato. Si tratta,
badate bene, del problema più imponente e
più grave della nostra vita politica, e che si
presenta sotto una infinità di aspetti. Dirò
che è il problema stesso dello Stato. Per valutarne l’importanza basta tener conto solo
del numero degli impiegati dello Stato che
oggi costituiscono la burocrazia. Tra i molti
e gravi, esso è il più urgente problema che si
sia posto fra quelli della nostra vita politica.
C’è un altro problema che solo la Regione
può risolvere: quello della funzionalità del
Parlamento nazionale. Ma francamente crede l’assemblea parlamentare, con l’esperienza che ne ha fatto in questo periodo, di essere in condizioni di affrontare e risolvere convenientemente tutti i problemi della vita
dello Stato? Crede veramente, prendendo
nota di tutte le leggi che vengono sfornate
giorno per giorno e di cui ci dà notizia la
Gazzetta Ufficiale, di poter assolvere alla
sua funzione legislativa? O pensa invece,
appunto per lo svilupparsi dei compiti dello
Stato, appunto perché lo Stato si occupa oggi di troppe cose, di troppe minuzie, che non
sia indispensabile ridurre la sua funzione
legislativa a pochi compiti essenziali di carattere veramente nazionale, demandando
tutti gli altri compiti più minuti alle Assemblee delle Regioni, le quali su certe materie,
oserei dire in tutte le materie, potranno con
maggior competenza, con maggiore interessamento, con maggiore capacità risolvere ed
affrontare i problemi che direttamente ci riguardano e che sono i quattro quinti almeno
di tutta la legislazione? Non si tratta con
ciò, badate, di distruggere l’unità della legge, non significa creare nuovi particolarismi, non significa nemmeno impedire che
certe grandi riforme si applichino in un terreno più vasto della Regione. Nulla impedisce che alcune Regioni si uniscano per affrontare insieme certi problemi, che ugualmente le interessino. Opere di bonifica, di
distribuzione idrica, di irrigazione, di comunicazioni possono interessare più Regioni finitime, che per esse possono benissimo intendersi e collegarsi. È molto diverso che
certi problemi vengano risolti a Roma, o che
invece siano risolti nel luogo dove sono sentiti! Altri benefici possono derivare dall’istituzione della Regione: benefici politici che
oggi devono essere tenuti in particolare considerazione, e oggi per oggi, non fra due, tre,
o quattro anni! Sappiamo, infatti, come vanno a finire le riforme che non si attuano subito. Non si fanno più. Noi abbiamo invece
urgente bisogno di uscire dalla presente situazione. [...]
Il problema dell’autonomia non può finire
così. O voi date ad esso una soluzione o altrimenti voi avrete l’agitazione autonomista
in tutta Italia. Non sarà più l’agitazione per
le Regioni. Sarà l’agitazione contro lo Stato,
la lotta contro lo Stato. Non crediate, dunque, di aver superato il problema. Questa
lotta contro lo Stato si manifesterà; si accentuerà, s’inasprirà, ed allora noi, che abbiamo voluto veramente contribuire con
questo progetto della Regione a creare in
Italia un ambiente nuovo di vita e di tranquillità, portando il cittadino all’assolvimento delle sue funzioni e all’esercizio dei
suoi diritti, noi pure ci schiereremo contro lo
Stato, in questa nuova lotta per la libertà.
La lotta può finire qui: ma di qui può anche
incominciare. E allora si potranno veramente temere per l’Italia giorni peggiori di
quanto oggi non si possa nemmeno sospettare.
Ho assolto più o meno bene, e più male che
bene, il compito che mi ero proposto.
Volevo soprattutto richiamare la vostra attenzione sull’importanza delle decisioni che
state per prendere. Non seppellite, vi prego,
quello che è stato il risultato del lavoro della
vostra Commissione. Perfezionatelo, miglioratelo e date all’Italia la sicurezza di uscire
da l’attuale situazione e di creare a se stessa un ambiente di libertà e di democrazia,
un ambiente in cui non siano più possibili,
in avvenire, né le dittature né i governi dispotici dall’alto. Questo è il mio augurio,
questa è la speranza con cui noi tutti partecipiamo ai lavori di questi giorni e per la
quale vogliamo sentirci riconfortati in questo grande amore che abbiamo per il nostro
Paese, l’Italia!
(Vivi applausi - Molte congratulazioni).
una città
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L’ELEZIONE DEL SINDACO
DI SREBRENICA
Di Hasan Nuhanovic *
“Srebrenica, oh Srebrenica”, sono le parole
che risuonano nella Valle dei šehid (martiri) l’11 luglio di ogni anno. Così i giornalisti
hanno soprannominato questa conca al confine tra la municipalità di Srebrenica e
quella di Bratunac, delimitata da un lato
dal monte Čauš e dall’altro dalle alture sulle quali si trovano i villaggi di Budak, Pale
e Gornji Potočari.
Quest’anno, durante l’intervista televisiva
nella diretta dal Memoriale di Potočari, ho
dimenticato di ringraziare tutte le persone
comuni che, sfidando il caldo torrido, forse
per la decima o quindicesima volta, sono ritornate in autobus a rendere omaggio alle
vittime del genocidio. Sventurati quelli che
non sono arrivati a Potočari in automobile
con l’aria condizionata e quelli che hanno
dovuto aspettare ore -dopo la cerimoniaper risalire in pullman trasformati in forni,
per ritornare a casa da qualche parte in Federazione, in Croazia, nel Sangiaccato o in
qualche altro luogo da cui hanno viaggiato
per molte ore per essere qui, alla ricorrenza
dell’11, anniversario del genocidio di Srebrenica, per stare vicino alle madri di Srebrenica e al loro dolore.
Mentre se ne vanno tutti guardo, in piedi,
verso l’ex base olandese dell’Unprofor: cercano dell’acqua per riempire le bottiglie o
per rinfrescarsi, cercano un bagno prima di
risalire sugli autobus e attraversare la Republika Srpska per arrivare in Federazione. L’autista ha aperto tutte le porte dell’autobus e qualcuno si è seduto sugli scalini con le gambe a penzoloni vicino alle ruote. Fa caldo, sono tutti sudati… “Eh, facci
arrivare a casa”, sembrano pensare queste
persone, e io le osservo e penso: “Grazie,
gente, per essere venuti anche questa volta.
Non siamo soli”. Lasciano Srebrenica ai
suoi abitanti; passati altri 364 giorni, ritorneranno, se dio vuole, per commemorare
questo giorno importante per la Bosnia, per
i bosgnacchi, per i bosniaco-erzegovesi e per
tutti coloro che conoscono il significato di
questo giorno.
Nella Srebrenica deserta
Attraverso il cimitero, la vista è offuscata
dalla polvere che non è ancora calata dopo
che le ossa dei martiri sono state sepolte
nella terra inaridita. Madri, sorelle, vedove
e sopravvissuti rimangono accanto alle
tombe, pronunciano la Fatiha -la liturgia
del lutto- piangono, esitano, non sanno se
andare o rimanere ancora qualche minuto
prima della partenza. I giornalisti ripongono l’attrezzatura, sistemano i cavi, smontano le antenne… se ne vanno a Sarajevo, a
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una città
Tuzla, Zagabria, Belgrado…
Non vedo i vip: le loro limousine nere hanno attraversato la folla prima che le persone con i badili iniziassero a interrare le bare. Gli abitanti di Srebrenica invece rimangono nella città deserta. La città è di nuovo
vuota. Domani ci sarà ancora un po’ di traffico, principalmente giornalisti che negli ultimi anni hanno ricevuto l’incarico dai loro
capi di rimanere anche il 12 luglio per documentare un altro evento -la parata dei četnici a Srebrenica. C’è anche questo sui media e poi arriva il 13 luglio e di Srebrenica
non si parla e non si scrive più.
Cominciano quegli altri 364 giorni, quando
per gli abitanti di Srebrenica la vita dovrebbe trascorrere come in ogni altra città della
Bosnia-Erzegovina. Ma non è così. Come
non lo è per i bosgnacchi che sono tornati
nelle municipalità di Bratunac, Vlasenica,
Han-Pijesak, Zvornik, Rogatica, Višegrad.
Le cittadine da cui, a causa del genocidio, i
bosgnacchi, a partire dall’aprile 1992, fuggirono verso Srebrenica; circa metà delle vittime del massacro commesso a luglio del
1995 era originaria di questi luoghi.
Non voglio entrare nei dettagli di questa
storia, ma voglio sottolineare che quello che
noi chiamiamo il genocidio di Srebrenica
non è riferito solo a Srebrenica, non è un
genocidio circoscritto a un Comune, agli
abitanti di solo una municipalità, perché il
“genocidio di una municipalità” non esiste
come concetto teorico, e comunque gli assassini di Mladić non si sono fatti fermare
dai confini municipali. La stessa sentenza
della giustizia internazionale del 27 febbraio 2007, nel processo contro la Serbia e il
Montenegro parla di: “… genocidio commesso nei confronti dei musulmani di Bosnia-Erzegovina da parte dell’Esercito e
della Polizia della Republika Srpska”.
E tuttavia l’unica municipalità tra quelle
colpite dal genocidio nella regione intorno
alla Drina (e sono state colpite tutte, anche
se ci soffermiamo solo sugli eventi del luglio
1995, senza considerare quello che è successo a partire dall’aprile 1992) che dopo la
guerra ha avuto un sindaco bosgnacco è
quella di Srebrenica. Di fatto nel 2012 Srebrenica era l’unica cittadina della Republika Srpska dove non fosse stato eletto un
sindaco serbo.
Nel 2012 è stato possibile anche perché gli
americani e forse pure l’Unione europea,
con le loro pressioni hanno permesso che
potesse votare anche chi risiedeva a Srebrenica prima della guerra. Tra l’altro questo
non sarebbe bastato se quell’anno non fosse
stato creato un gruppo intorno alla Ong
“Primo marzo”, capace di mobilitare l’opinione pubblica così da garantire un numero
sufficiente di voti. Ćamil Duraković (il sindaco bosgnacco uscente) all’epoca è stato
eletto con una maggioranza risicata. Non
sono abbastanza abile da spiegare le procedure legali che nel frattempo sono entrate
in vigore, con il semaforo verde dei partiti
nazionali, in base alle quali la possibilità di
votare per corrispondenza e in absentia è
stata notevolmente ridotta.
Un dato inconfutabile è che il numero dei
potenziali elettori bosgnacchi per le amministrative del 2016, con queste nuove procedure, si è ridotto significativamente rispetto al 2012.
Molto più di un’elezione
Considerando che il mio lavoro non è quello
di occuparmi di elezioni o di politica in generale, non avevo intenzione di scrivere
questo articolo. Però sono stato sollecitato
da una telefonata ricevuta qualche giorno
fa da un giornalista di Parigi, che stava
scrivendo un articolo sulle elezioni amministrative a Srebrenica per il maggior quotidiano francese “Le Monde”. Tra le altre cose, mi ha chiesto se ho avuto la possibilità
di votare a Srebrenica e ho colto l’occasione
per spiegargli che io a Srebrenica ci sono
arrivato durante la guerra come profugo, in
fuga dalla municipalità di Vlasenica, nella
quale, come a Srebrenica e in tutte le altre
municipalità della valle della Drina, è stato
commesso un genocidio. Normalmente
quindi io dovrei votare per l’elezione del
sindaco di Vlasenica.
Considerando il fatto che la maggior parte
delle vittime del massacro di luglio del 1995
proveniva dalla municipalità di Srebrenica,
che l’Onu aveva dichiarato Srebrenica zona
protetta, che a Srebrenica si trova il Memoriale dedicato alle vittime del genocidio, è
ovvio che l’attenzione internazionale sia
concentrata su Srebrenica e non sulle altre
municipalità in questione.
Il giornalista mi ha chiesto perché è così
importante se il sindaco sarà bosgnacco o
serbo; a quel punto gli ho chiesto a mia volta perché volesse scrivere proprio delle elezioni a Srebrenica e non di qualche altra
municipalità. La risposta è: il genocidio. Mi
ha chiesto anche se il prossimo anno sarà
possibile svolgere le commemorazioni a Potočari per l’11 luglio nel caso in cui venisse
eletto il candidato serbo. Gli ho risposto che
l’11 luglio è solo un giorno dell’anno e che
quel giorno si può fare la commemorazione
anche senza la presenza del sindaco. È molto più importante, per le persone che sono
ricordarsi
ritornate là nonostante il genocidio, chi sarà il loro sindaco negli altri 364 giorni dell’anno. Questa è la domanda cruciale, non
certo chi rappresenterà il Comune di Srebrenica l’11 luglio a Potočari.
Gli ho anche detto che i bosgnacchi rientrati nelle altre municipalità della valle della
Drina in qualche modo vedevano in Ćamil
Duraković anche il loro sindaco, visto che è
stata creata una situazione per cui è molto
difficile che nelle loro municipalità venga
mai eletto un bosgnacco. La questione del
sindaco di Srebrenica, ovvero delle elezioni
in questa municipalità, dovrebbe essere
fuori dalla logica aritmetica. Si tratta ormai di un simbolo per questa nazione e per
il mondo intero, perché il mondo, ovvero
l’Onu, non ha impedito il genocidio.
Un sindaco bosgnacco a Srebrenica è allora
il minimo, qualcosa che l’opinione pubblica
in Bosnia-Erzegovina ha accettato come dovuto. Penso che anche la maggior parte dei
serbi consideri la questione allo stesso modo.
Non c’è niente di garantito.
Il problema è che per questo minimo, i bosgnacchi devono combattere ogni quattro
anni. Se è così significa che nulla è dovuto,
nulla è garantito. Questo dato di fatto, se
non altro, ha svegliato l’opinione pubblica
bosniaca che solo quest’anno ha realizzato
che questo minimo ragionevole non è garantito né agli abitanti di Srebrenica né ai
bosniaco-erzegovesi in generale. Mi ricordo
bene un’intervista dell’ottobre 2012 in cui
Milorad Dodik (presidente della Republika
Srpska) disse: “Che sia pure questa volta,
ma la prossima volta, nel 2016, il sindaco di
Srebrenica sarà serbo”.
Le elezioni a Srebrenica non sono una questione di programma o di orientamento politico, tutto ruota intorno alla domanda se il
sindaco sarà bosgnacco o serbo.
Perché i serbi, in così grande numero, per
non dire in blocco, hanno votato per Grujičić? Ho visto alcune sue apparizioni sui
media in questi giorni e ho concluso che il
suo vocabolario e il suo livello di istruzione
rasentano quelli di un bambino delle elementari, per non dire di peggio. I serbi votano per Grujičič perché è serbo. I bosgnacchi votano per Duraković per lo stesso motivo, ma anche perché ha dimostrato di saper affrontare le sfide che la sua funzione
pubblica comporta. Grujičič sembra capace
solo di postare su facebook delle foto in cui
indossa la šajkača e la kokarda (tipico copricapo četnico).
Potrei dilungarmi, ma preferisco fermarmi
qui provando a trarre qualche conclusione:
l’unica cosa positiva che succederebbe se
Ćamil Duraković non venisse confermato
sindaco, è che l’opinione pubblica bosniaca,
innanzitutto i bosgnacchi, si sveglierebbe,
uscirebbe dal sonno (diciamo pure dal miraggio federale) e forse si renderebbe conto
che, nonostante sia stato commesso un ge-
la visita
“Sotto questo rispetto, lo spettacolo offerto dalla colonna italiana che occupa gli
estremi avamposti del fronte di Huesca è singolarmente istruttivo, ineffabilmente
confortante. Sotto le sue insegne fraternizzano da tre mesi volontari appartenenti a
tutte le regioni del nostro paese, seguaci di tutte le tendenze della dottrina e della
milizia antifascista, uomini di tutte le età. Non che essi abbiano abdicato, per la circostanza, alle loro particolari concezioni, o rallentato i vincoli che li collegano ai loro
rispettivi gruppi. Nelle ore di riposo, nelle giornate di forzata inazione, le discussioni
si accendono vivaci attorno alle trincee, frazionando, d’un tratto, l’unità militare in
una policroma varietà politica. Il visitatore inesperto che arrivasse in linea durante
una di queste parentesi… potrebbe forse esser tentato di scandalizzarsi…
Mai gli italiani d’Italia hanno guardato a noi con più ansiosa trepidazione e con più
ardenti e audaci speranze. Bisogna non deluderle”.
Silvio Trentin
Da “Impressioni sulla lotta in Catalogna. La funzione e il prestigio della Colonna italiana”
in “Giustizia e Libertà”, n. 43, 23 ottobre 1936
Cimitero di San Donà di Piave
nocidio, non c’è niente di acquisito per giustizia divina, non c’è niente di scontato e
non otterremo niente senza lottare e senza
consapevolezza -né riguardo le elezioni comunali di Srebrenica, né riguardo la sopravvivenza della Bosnia-Erzegovina come
Stato unitario, e nemmeno riguardo il confronto con il passato e il riconoscimento da
parte dei serbi che è stato commesso un genocidio ai danni dei bosgnacchi. È sempre
più evidente che l’idea della “Grande Serbia” non è mai stata abbandonata. Nella
Republika Srpska tutto è srpsko, serbo -le
strade sono srpske, i boschi sono srpski, e
così le acque, le ferrovie- solo il genocidio
non è srpsko!
Il giorno in cui quello che chiamiamo genocidio di Srebrenica verrà definito genocidio
Republičko-srpski, per il motivo per cui è
stato commesso (realizzare la Grande Serbia), per il luogo in cui sono state compiute
le esecuzioni di massa e dislocate le fosse
comuni, e perché proprio lì vivono ancora
centinaia di criminali di guerra, cioè nella
Republika Srpska; ecco, a quel punto non
avrà più importanza la nazionalità del sindaco di Srebrenica.
Per questi stessi motivi, anche se il nuovo
conteggio determinasse la vittoria di Grujičič, il risultato non andrebbe validato.
Personalmente credo che, proprio a causa
del genocidio, i serbi di Srebrenica dovrebbero votare un bosgnacco, anche se questi
fosse l’ultimo bosgnacco rimasto nella loro
città.
(Traduzione di Andrea Rizza Goldstein)
http://balkans.aljazeera.net/vijesti/izbor-nacelnika-srebrenice-je-simbol-za-cijeli-svijet
*Hasan Nuhanovic, all’epoca traduttore per i caschi blu olandesi, a Srebrenica ha perso l'intera
famiglia. Il 5 luglio 2011 il tribunale dell'Aja ha
riconosciuto che le truppe olandesi del Dutchbat
sono state responsabili della morte del padre e
del fratello di Hasan avendoli consegnati deliberatamente alle truppe serbo-bosniache che li uccisero a sangue freddo.
una città
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n. 234 VIII/2016
Rotocalco culturale. Anno XXVI, Dir. resp. Gianni Saporetti. Aut. Trib. di Forlì n. 3/91 del 18/2/91. Stampa: Galeati (Imola). Redaz. e amministraz.: via Duca Valentino n.11, Forlì. Poste Italiane SpA - Sped. in A. P. D.L. 353/2003 (conv. in L.27/02/04 n.46) Art. 1 c.1 CN/FC, n. 234/2016 - Tassa pagata