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una città n. 234 mensile di interviste ottobre 2016 - euro 8 «Di solito il clima della vita politica non è propizio a chi voglia dare ascolto più ai suggerimenti della propria coscienza che alle direttive del partito. Ma anche la storia si misura con questo metro? Le esigenze morali, fatte valere da cassandre inascoltate che non costituiscono un partito o sono, nei partiti, guardate con diffidenza, non contano proprio nulla nella storia? Le politiche passano, ma vi sono pure dei valori morali che sono buoni per tutti i tempi. Come doveva sembrar “livido” Gobetti agli abili manovratori di quegli anni! E Cattaneo ai patteggiatoridel Governo provvisorio lombardo! Ma quanti oggi non sarebbero disposti a riconoscere: “ne avesse avuti l’Italia di uomini lividi come Gobetti, come Cattaneo! Le cose sarebbero andate diversamente e assai meglio”. Anche la fedeltà ai propri principi è una politica, se pure una politica a più lunga scadenza» Norberto Bobbio, da “Il Ponte”, a. VII, n. 8, agosto 1951 ottobre 2016 La mia biografia mi impedisce di essere pessimista Sulla Polonia, l’Europa e l’uso della memoria Intervista ad Adam Michnik (p. 3) La nostra Hillary Di Stephen Eric Bronner (p. 8) Le ragioni di merito per un no Governabilità vs rappresentatività Intervento di Marco Boato (p. 9) Non ha senso, o, purtroppo, lo ha Sul pericoloso combinato riforma e legge elettorale Intervista a Lorenza Carlassare (p. 11) I trenta gloriosi che non torneranno Sull’esile speranza legata al sì al referendum Intervista a Michele Salvati (p. 14) La classe capovolta Una buona pratica francese Intervista a Marie Camille Coudert (p. 18) Il presente della vecchiaia Un forum sulle inquietudini dell’invecchiamento Intervista a Marina Piazza, Antonella Nappi, Francesca Rossi e Simona Sieve (p. 20) Il genocidio degli Yazidi Nelle centrali Più poveri dei genitori Di Francesco Ciafaloni (p. 26) Aspettando Bruxelles Di Paolo Bergamaschi (p. 27) Una causa per andare a morire Sull’Islam e la sinistra Intervista a Jean Birnbaum (p. 30) Nell’estate del ‘44... Sulle Repubbliche partigiane Intervista a Nunzia Augeri (p. 34) Novecento poetico italiano/14 La poesia di Montale, seconda parte Di Alfonso Berardinelli (p. 38) Lettera dalla Cina. Il porto di Colombo Di Ilaria Maria Sala (p. 40) Lettera dall’Inghilterra. La battaglia di Orgreave Di Belona Greenwood (p. 40) Lettera dal Marocco. Dopo le elezioni Di Emanuele Maspoli (p. 41) Appunti di un mese (p. 42) Discussione sul Titolo V Di Oliviero Zuccarini, 1947 (p. 44) L’elezione del sindaco di Srebrenica Di Hasan Nuhanovic (p. 45) La visita è alla tomba di Silvio Trentin (p. 46) 2 una città La copertina è dedicata alle donne polacche che sono scese in piazza a centinaia di migliaia per protestare contro una legge, portata avanti dal partito al governo, che vuol equiparare l’aborto all’omicidio. Al festival del 900 di Forlì Adam Michnik, presentato dal suo amico Wlodek Goldkorn come uno degli uomini che ha avuto una parte, e non piccola, nella caduta del Muro e nella liberazione della Polonia, ci ha parlato della memoria dell’Europa, a partire dalla particolarità della Polonia, che ha conosciuto due totalitarismi, quello nazista e quello staliniano; della complessità delle storia, ricca di personaggi non univoci come il polacco Pilsudski, autore di un colpo di stato per salvaguardare la Polonia multietnica; ci ha parlato dell’uso politico della memoria storica, che è come un bastone che può aiutare a camminare o che può essere dato in testa agli avversari politici; un uso che, in Polonia, si spinge fino al tentativo dell’attuale governo polacco di infangare Solidarnosc e Walesa; della vergogna che prova per la posizione del suo governo sui profughi e di un’Europa, beneamata, che rischia di perdere la strada e che però vale tutto il nostro impegno per fargliela ritrovare. Torniamo a parlare del referendum, con l’intervento di Marco Boato, per il no, ma un no circostanziato nel merito che nulla deve avere a che fare con il destino del governo; ma per lo stesso motivo è inaccettabile la demagogia di chi è arrivato a dire: “In questo referendum si tratta di ridurre le poltrone. Punto!”. Per Lorenza Carlassare, costituzionalista, il combinato riforma costituzionale-legge elettorale è sicuramente teso ad accentrare il potere sull’esecutivo e a rendere manipolabili gli organi di garanzia, ma il tutto è anche molto pasticciato: un senato non eletto, che non si sa cosa rappresenterà, perché privo di vincolo di mandato rispetto al territorio di appartenenza, nominato per ripartizione partitica, ma che, paradossalmente, avrà voce in capitolo su leggi molto importanti come quelle costituzionali e i trattati europei; infine la legge elettorale: che vuol far diventare maggioranza chi non lo è e che permetterà l’elezione diretta del capo del governo, una legge al cui confronto quella cosiddetta “truffa” del ’53 è niente. All’opposto, Michele Salvati, schierato per il sì, mette in evidenza la modestia della riforma, che non prevede le due cose che rafforzerebbero veramente l’esecutivo: la sfiducia costruttiva e la possibilità del premier di sciogliere le camere, presenti nelle costituzioni tedesca e spagnola; partendo da un’analisi estremamente pessimistica sullo stato dell’economia mondiale e sulle conseguenze devastanti di una globalizzazione inarrestabile, che impoverendo il ceto medio favorisce la crescita di movimenti populisti, Salvati riserva un’esile speranza, legata all’esito positivo del referendum, in un governo che, finalmente dotato di un investitura forte, possa prendere i provvedimenti necessari e, a volte, tutt’altro che popolari. Nelle centrali, ricordiamo gli Yazidi, vittime di genocidio. Gli islamisti dell’Isis, denuncia l’Onu, hanno cercato di distruggere il popolo yazida attraverso l’assassinio, lo sfruttamento sessuale, la riduzione in schiavitù, la tortura e trattamenti inumani e degradanti, trasferimenti forzati... Jean Birnbaum polemizza con una sinistra che per spiegare perché tanti giovani vanno a morire per l’Islam, per paura di risultare islamofobica, cerca spiegazioni esclusivamente “sociali”, facendo l’errore di non dar credito alla forza della religione e non accorgendosi così di essere completamente dentro a un immaginario coloniale, che vede solo l’onnipresenza dell’Occidente e delle sue colpe; in realtà, secondo Birnbaum, questi giovani sono spinti da una speranza radicale che oggi solo l’islam sa offrire loro. Alla fine sarà decisiva la lotta fra l’Islam che interpreta il Corano e quello che lo legge e basta. d’Europa LA MIA BIOGRAFIA MI IMPEDISCE DI ESSERE PESSIMISTA Quello delle donne polacche, il più importante movimento dai tempi di Solidarnosc; la particolarità della Polonia, che ha conosciuto due totalitarismi, quello nazista e quello staliniano; la complessità delle storia, ricca di personaggi non univoci, dal polacco Pilsudski all’ucraino Bandera; l’uso politico della memoria storica, col tentativo dell’attuale governo polacco di infangare Solidarnosc; un’Europa beneamata da ritrovare. A parlare è Adam Michnik intervistato da Wlodek Goldkorn. Sabato 8 ottobre, a Forlì, al festival di storia del 900, si è svolto l’incontro con Adam Michnik, storico, uno degli artefici della caduta del comunismo e dell’avvento della democrazia in Polonia; Michnik era presentato da Wlodek Goldkorn. L’incontro, che è stato introdotto dal saluto del sindacalista della Cisl Romagna Vanis Treossi, si è incentrato sui temi della memoria nella storia dell’Europa. Nel pomeriggio si era svolto un incontro, sul tema della “colpa nella storia”, con Niklas Frank, figlio del criminale nazista governatore della Polonia, Katrin Himmler, nipote del gerarca nazista, e Lorenzo Pavolini, nipote del gerarca fascista. Wlodek Goldkorn. Buona sera, più che un dialogo saranno una serie di domande che porrò a Michnik. Vorrei dire, in primo luogo, per chi non lo sapesse ma anche per chi lo sa, che sentire Michnik è un’occasione eccezionale, per diversi motivi, uno etico, perché è una delle persone più oneste e più combattive nella storia d’Europa degli ultimi 40-50 anni, è stato un oppositore del regime comunista fin dalla metà degli anni Sessanta e non ha mai smesso di essere oppositore di tutti i regimi e i governi ingiusti; l’altro è più tecnico perché è anche un’occasione di sentire una persona che di mestiere e di formazione è storico (anche se ora fa il direttore di “Gazeta Wyborcza”), e che, allo stesso tempo, è anche un protagonista della storia. Perché se la Polonia è libera, se il muro è caduto è anche in qualche parte, e non piccolissima, merito di Michnik. Fatta questa premessa vorrei cominciare dicendo che la Polonia è un caso molto interessante dal punto di vista di elaborazione della storia e del rapporto tra storia, memoria e presente. La Polonia non solo è stata sempre, dalla metà dell’800, al centro di ogni conflitto europeo, e uno dei primi ad averlo capito, insieme a tanti altri, è stato Marx, per il quale la libertà della Polonia significa anche libertà dell’Europa, non esiste un’Europa libera senza Polonia libera. Ma intorno alla Polonia ci sono tantissime leggende: è una storia interpretata in maniera molto immaginifica con sovrapposizioni sorpren- denti. Ne cito una poi comincio con le domande. La più eclatante e divertente è quella, che tutti avranno sentito, della cavalleria polacca che nel 1939 avrebbe caricato i panzer tedeschi. È significativa perché, inventata dai nazisti, si è diffusa in Italia grazie ai giornali di allora e poi è stata ripresa dai sovietici. Molto spesso l’ho sentita ripetere da esponenti del Pci. Il tutto per spiegare l’irrazionalità dei polacchi e il fatto che non meritassero di essere liberi e governarsi da soli, ma dovessero avere sempre la tutela di un grande fratello o di un potere più forte. Anche oggi il partito al potere in Polonia, “Diritto e giustizia”, reinterpreta la storia. Ma prima di parlare di Kaczynski, vorrei partire da una questione più attuale. Lunedì c’è stato lo sciopero delle donne in Polonia, milioni di donne in piazza per protestare contro una legge particolarmente restrittiva sull’aborto. E il governo ha ritirato il suo progetto di legge. Vorrei sentire Michnik se vuole commentare, cos’è successo, se è stata veramente una vittoria delle donne, una vittoria di civiltà elementare. nella politica polacca le donne sono uscite in strada e diventate protagoniste. E non abbandoneranno più la scena Adam Michnik. Buongiorno a tutti. Innanzitutto grazie di questo invito, grazie del sostegno del sindacalista che ha portato il saluto dei tre sindacati italiani; l’attività di Solidarnosc è stata un frammento molto importante della mia trafila. Oggi Solidarnosc cerca la sua collocazione, il suo posto nella nuova realtà, non sa trovarlo, però bisogna credere che ci riuscirà. Perché la democrazia senza i sindacati è una democrazia senza una gamba. Prendiamo la Cina, lì non ci sono i sindacati! Ed è per questo che anche quel modello comunista perderà. Io sono stato in Cina, ho avuto colloqui con dissidenti cinesi, avevano degli occhi cinesi ma erano tali e quali ai dissidenti polacchi. Sono molto repressi, ma questo vuol dire che il regime ha paura di loro. E se il regime ha paura, questo è un buon segnale per i democratici. Ora, per quel che riguarda la domanda di Wlodek, credo che quel che è appena successo in Polonia sia innanzitutto la vittoria dell’opposizione democratica. In secondo luogo, è una sconfitta del regime di Kaczynski. E in terzo luogo, è un grande cambiamento di civiltà. Per la prima volta, si è riusciti a trafiggere, a passare attraverso questo soffitto di vetro della Polonia patriarcale. Nella politica polacca le donne sono uscite in strada e quindi sono diventate protagoniste. E non abbandoneranno più questa scena. Le donne vogliono dire la metà della Polonia. Gli uomini da soli probabilmente non ce la farebbero contro questo regime, ma gli uomini assieme alle donne ci riusciranno. Lo dico in quanto convertito al femminismo! Come la maggior parte della gente del mio paese io sono cresciuto come un “macho”. E come un vero convertito ho capito che ho vissuto nell’errore e nel peccato. E questa è la mia risposta alla domanda di Wlodek. Quel che è successo in Polonia è un cambiamento di civiltà. È un evento importante, il più importante, culturale e intellettuale, dagli scioperi dei cantieri del 1980. Allora, nella grande politica hanno fatto ingresso gli operai, e hanno abbattuto il comunismo, la dittatura del regime comunista. Adesso invece hanno fatto il loro ingresso le donne e abbatteranno la dittatura di Kaczynski, perché è un sistema arcaico, reazionario, che vuol portare indietro la Polonia. Durante i 25 anni dalla caduta del muro di Berlino la Polonia è avanzata, ha progredito, invece adesso stiamo andando indietro. Loro pensano che governeranno per sempre. Ma anche i comunisti la pensavano così, quindi io non gli faccio una prognosi di grande longevità. Goldkorn. Ebbene, allora, un’altra domanda che riguarda invece molto più la questione appunto delle colpe e della storia. Ed è abbastanza semplice. In apparenza, semplice. Sono passati 26 anni, 27 ormai dalla fine del comunismo. E in questi 27 anni si è discusso molto della memoria in Polonia, è stato uno dei temi principali. La domanda più specifica è quali sono i modi in cui la meuna città 3 moria del comunismo è stata elaborata. Lo chiedo sia allo storico che al democratico militante, radicale qual è. Michnik. Oggi ho ascoltato tre testimonianze molto importanti e interessanti sulla resa dei conti con il fascismo. Ma nemmeno una volta è stata pronunciata la parola Stalin. Per un polacco questo è incomprensibile. La specificità dell’esperienza polacca è questa: noi polacchi abbiamo avuto esperienza di due totalitarismi, quello hitleriano e quello staliniano. Il primo settembre la Polonia è stata invasa da Hitler, e il 17 la stessa cosa è stata fatta da Stalin da Est. Risultato del patto Ribbentrop-Molotov. la specificità dell’esperienza polacca è di aver vissuto due totalitarismi, quello hitleriano e quello staliniano La prima reazione, quando è arrivata la libertà, è stata quella di volere la verità, innanzitutto su ciò che fino ad allora era stato una menzogna. Tutti i giornali, tutte le librerie, erano colme di libri sul patto Ribbentrop-Molotov, sui gulag. Questa è stata una prima reazione del tutto comprensibile, e però i gulag non contengono tutta la verità sul comunismo. Il comunismo era una dottrina estremamente complessa, non può essere ridotta a Stalin e ai gulag. Quando all’interno della società polacca hanno cominciato a formarsi delle divisioni, erano delle divisioni fra quelli che volevano giudicare il comunismo e quelli che invece volevano capirlo. I primi erano innanzitutto i procuratori, i secondi gli storici. I comunisti polacchi erano solo degli agenti dell’Urss? Il comunismo polacco aveva anche le sue fonti proprie, oriunde? Il comunismo dava delle risposte false a delle domande vere? Voglio dire che i contesti erano molteplici, e uno certamente importante era che a portare alla liberazione della Polonia da Hitler era stato il comunismo di Stalin. Il che era vero così come era vero, però, che i soldati dell’Armata rossa non potevano portare la libertà, perché non l’avevano loro stessi, la libertà. Era questa la situazione complessa in cui si andava a trovare la Polonia. Quindi anche i conti, la resa dei conti con il comunismo, il bilancio di tutto questo, era molto complesso. Lo dice anche il fatto che molti che erano stati comunisti all’epoca di Stalin erano anche oppositori del comunismo nell’epoca del disgelo. Soprattutto nel ’56, dopo il famoso rapporto di Kruscev. La più radicale critica della dittatura comunista è venuta dagli ex comunisti. Lo scrittore Ignazio Silone, italiano, ha scritto, che il comunismo sarebbe stato distrutto dagli ex comunisti. Ovviamente, come le grandi formule di questo tipo, conteneva un grado di esagerazione ma conteneva anche molta verità. I critici più severi del comunismo erano gli ex comunisti. Gilas, Kolakowsky, Havemann, il generale Grygorenko in Russia, 4 una città Zhelev in Bulgaria. Si può fare un lungo elenco di nomi. In questo senso, il problema politico diventa se insieme col comunismo bisogna anche rigettare quelli che erano comunisti ma poi l’hanno criticato e abbandonato. A questo si sovrapponeva la questione di chi era stato complice. E così gli archivi del Kgb polacco sono diventati uno strumento di lotta politica. Goldkorn. Non so se poi vorremo tornare su questo punto. Da polacco italiano mi vengono spontaneamente alcune associazioni con la storia italiana che ha visto molti fascisti diventare antifascisti, anche fra i più radicali. Il problema dell’uscita dal fascismo, parlo dell’aspetto giuridico, non storiografico, è stato forse risolto con l’amnistia di Togliatti che ha chiuso i conti giuridici, il che, forse, ha permesso poi agli storici di lavorare. Non so se è una sciocchezza, ma penso che senza l’amnistia gli storici avrebbero avuto molte più difficoltà, per non parlare della sfera della politica. Allora la domanda riguarda proprio la storia della Polonia prima del comunismo, una storia che oggi vediamo riemergere nelle divisioni politiche, coi laici che si rifanno a una certa tradizione, a un certo ethos, Kaczynski e i suoi a un altro. Ricordo la discussione molto dura, di cui Michnik è stato uno dei protagonisti, su Jedwabne, un paesino in cui nel ’41 i polacchi chiusero tutta la popolazione ebraica in un granaio e gli diedero fuoco. Ecco, quella fu una discussione fondamentale per la Polonia, che a mio parere cambiò il volto in meglio, perché introdusse un elemento di grande onestà nel discorso pubblico. Ma oggi assistiamo, dal lato opposto, a ragazzi che si rifanno esplicitamente alla tradizione fascista, a una organizzazione nazionalradicale che esisteva prima della guerra che era molto affine al regime fascista, ma ancor più ai franchisti spagnoli, perché erano più cattolici di Mussolini; oggi sono nelle strade, nelle piazze vestiti nelle loro divise e danno a Walesa del traditore della patria. C’è poi stata la questione di Pilsudski, che fece il colpo di stato del ’26, uno degli episodi più contraddittori nella storia della Polonia in Europa. Adam Michnik è stato protagonista di una discussione su Pilsudski, su cui non torno. Ricordo solo che Pilsudski fece un colpo di stato sanguinario nel 1926, prima della guerra, per difendere una Polonia multietnica e multiculturale, che invece le destre “democratiche” al potere, volevano distruggere. Questa è una contraddizione che ci costringe a una riflessione anche oggi. Michnik. Hai mosso tanti argomenti, per poterti rispondere dovrei scrivere una tesi di dottorato. Quindi mi concentrerò su Pilsudski. Pilsudski è una figura storica estremamente ambivalente. Era un cospiratore, un socialista, un militante della rivoluzione, simpatizzante di Rosa Luxemburg. Ma non aveva mai rinunciato alla parola d’ordine di una Polonia indipendente, sovrana. d’Europa Pilsudski era un organizzatore delle forze armate polacche, non era uno statista, ma ripeteva tenacemente che quello cui aspirava era la Polonia indipendente. Divenne capo dello stato nel 1920, nella guerra polacca contro l’Urss dei bolscevichi. Era capo dello stato quando il parlamento approvò una costituzione che all’epoca era la più avanzata di tutta Europa. Subì un grande shock quando nel 1922 un fanatico del campo nazionalista uccise il primo presidente della Polonia libera. Nella Polonia che per 123 anni non era esistita sulle carte geografiche, che aveva riguadagnato libertà e indipendenza e aveva eletto il suo parlamento, un fanatico nazionalista aveva assassinato Gabriel Narutowicz, il primo presidente eletto democraticamente. Per Pilsudski questo fu un fatto sconvolgente. L’argomento addotto dai nazionalisti colpevoli dell’assassinio era che il presidente era stato eletto con i voti ebraici. Secondo loro quei parlamentari eletti come rappresentanti dei partiti ebraici non avevano diritto di votare. Per Pilsudski questo era inaccettabile. Diede le sue dimissioni e si ritirò. Dalla sua prospettiva di ex comandante dimissionario vedeva che la Polonia stava annegando nella corruzione, e, come si addice a un ex cospiratore, a un capo militare, si comportò come un De Gaulle francese, cioè fece un putsch, un colpo di stato militare. E poi, siccome la Polonia non era la Francia, il campo dei vincitori divenne un campo diretto da una logica dittatoriale, con elezioni falsificate, con un parlamento le cui decisioni venivano ignorate, con arresti dei leader dell’opposizione del centrosinistra, che vennero trattati in un modo orrendo, con processi e condanne. se i terroristi non avessero ucciso Stolypin, la Russia non sarebbe entrata in guerra, non ci sarebbe stata la rivoluzione bolscevica Quindi un giudizio storico su Pilsudski non può essere univoco. In Polonia, da un lato Pilsudski è contestato dai democratici, ma lo è anche dall’altra parte dai nazionalisti di destra. Io personalmente lo vedo dal punto di vista dei democratici. È un uomo che ha fatto cose molto buone per la Polonia e molte pessime e oggi non bisogna prenderlo a modello perché Pilsudski ha distrutto la democrazia polacca. Ovviamente non equivale a Mussolini, non ha introdotto un sistema totalitario, era una specie di semidittatura, abbastanza grottesca; non ha aiutato in nulla la Polonia e ha distrutto il rispetto per la democrazia. Quindi dopo il 1945 quando i comunisti, un passo dopo l’altro, distruggevano la democrazia, potevano in qualche modo far riferimento a Pilsudski. Però è sicuro che resterà sempre un personaggio ambivalente, non univoco nella storia polacca. Così è il caso di Stolypin, primo ministro russo. Se i terroristi non Adam Michnik (al centro) in una riunione a Roma nel 1977 nella sede dell’Avanti. Il primo a sinistra è Gino Bianco. avessero ammazzato Stolypin, la Russia non sarebbe entrata in guerra, non ci sarebbe stata la rivoluzione bolscevica, eccetera, eccetera. Ma se leggiamo delle repressioni attuate da Stolypin, dopo il 1907, allora si perde parecchio la simpatia che si potrebbe provare per lui. Se si legge la sua riforma, si riguadagna la simpatia. Anche Stolypin, quindi, non è un personaggio univoco. Ma non è forse questo tutto il fascino della storia? La storia è fatta di situazioni, di personaggi non univoci. Goldkorn. Parlando di Pilsudski, viene fuori il problema delle minoranze nazionali, che è un’invenzione lessicale fantastica che risale all’invenzione degli stati monoetnici. Potrei dire che Pilsudski era molto amato dagli ebrei, si sentivano molto protetti da lui, dittatura o no, rispetto all’antisemitismo, molto forte allora in Polonia. In Polonia, oltre agli ebrei c’erano ucraini, lituani, Leopoli era una città polacca, Vilnus era una città polacca, c’erano tedeschi. Gli ebrei fanno parte della storia della Polonia, così come in qualche modo per gli israeliani è importante la Polonia. Lo stesso vale per il rapporto con gli ucraini, particolarmente difficile anche per vicende storiche molto dure avvenute durante la Seconda guerra mondiale, e così coi lituani e con i tedeschi. Anche questa è una domanda complessa. I polacchi stanno facendo i conti con la propria storia rispetto a questi popoli o no, e come li stanno facendo? Michnik. Ecco un’altra tesi di dottorato. La Polonia dell’anteguerra era un paese multietnico e due uomini l’hanno resa monoetnica: Hitler e Stalin. Hitler sterminando la popolazione ebraica e Stalin modificando i confini orientali della Polonia e autorizzando l’espulsione dei tedeschi della Polonia. Nell’Europa centrale ed orientale non ci sono dei confini giusti. Tutti i confini sono ingiusti. E questo influenza i rapporti tra polacchi e tedeschi, tra polacchi e slovacchi, tra polacchi e lituani, e i rapporti tra la Polonia, la Bielorussia e la Russia. Che conti vengono fatti oggi? Qui bisogna differenziare i conti che vengono fatti dal gruppo al potere oggi e quelli della società polacca tout court. Per quel che riguarda i conti sociali, nessuno dei paesi di quella regione, dell’Europa centrale e orientale, è andato più lontano nel rispettare la Polonia. tutti i confini sono ingiusti e ciò influenza i rapporti tra polacchi e tedeschi, tra polacchi e slovacchi, tra polacchi e lituani e russi Ovviamente, chi invece è avanzato di più su questa strada sono i tedeschi. Non sono d’accordo con Niklas Frank: io ritengo che i tedeschi, nei loro conti, siano andati più avanti di tutti gli altri. Se paragoniamo i tedeschi con gli italiani e i polacchi non c’è alcun dubbio che abbiano lavorato di più, che siano andati più avanti in questa strada della resa dei conti. Per quanto riguarda la Polonia, ci sono due problemi diversi, dentro a questa situazione. C’è l’atteggiamento nei confronti della storia e l’atteggiamento rispetto alla situazione attuale. Nella politica dello stato polacco di oggi non c’è alcun antisemitismo, ma non è un merito perché in Polonia non ci sono più ebrei! Però è vero che non ci sono nemmeno i musulmani, eppure i polacchi sono xenofobi e antimusulmani! Quindi nel ’68 avevamo un antisemitismo in un paese senza ebrei, e adesso abbiamo un’islamofobia in un paese senza musulmani! Invece, certamente c’è una diatriba, una lotta, un dibattito acceso sulla storia. I polacchi e gli ebrei hanno un tratto in comune, entrambi questi popoli si considerano eletti e vittime allo stesso tempo. Quindi, quando si incontrano due popoli che si considerano entrambi eletti dal messia, ovviamente questo non può che creare dei problemi! E questo problema ovviamente esiste. Negli ambienti ebraici funziona molto lo stereotipo che dice che ogni polacco ha succhiato l’antisemitismo con il latte materno. E queste sono le parole di Rabin, ex premier israeliano. Mentre invece i polacchi dicono che in Polonia non ci sarebbe nessun antisemitismo se non ci fosse un antipolonismo ebraico. Sono due idiozie dello stresso livello. Ma la stessa cosa che funziona nei rapporti polacco ebraici, su una scala maggiore funziona anche nei rapporti tra polacchi e lituani, tra polacchi e ucraini, e una città 5 d’Europa anche nei rapporti tra polacchi e russi. Per il nazionalista russo non c’è una colpa russa. Se chiedi: “Chi ha fatto il bolscevismo?”, “Noi russi, no! L’hanno fatto Trotsky, ebreo, Zinoviev, ebreo, Kamenev, ebreo, Mikoyan, armeno, Stalin, georgiano, Dzerzinskij, capo della Ceka, polacco; il bolscevismo è stato imposto ai russi dagli stranieri”. Come ha detto il parlamentare russo Valentin Rasputin: “Il bolscevismo non è colpa nostra, è la nostra sciagura, una disgrazia che ci è stata imposta”. la nostra Europa è la nostra diletta, la beneamata, però la nostra diletta si è innamorata di qualcun altro! Con un ragionamento di questo genere è difficile costruire un dialogo che possa portare da qualche parte. Per questo l’eroe del nazionalismo russo oggi è Putin, perché lui dice: “I russi si alzano, prima stavano in ginocchio, adesso si mettono dritti”. Così la Polonia viene rialzata, dalla posizione inginocchiata, da Kaczynski. Quindi in Russia c’è il grande Putin, e in Polonia c’è un lilliputin. Goldkorn. Avrei ancora alcune domande. Una è a proposito di Putin e dell’uso della storia e della memoria e della somiglianza del vittimismo ebreo con quello polacco. Per il pubblico chiarisco che siamo due polacchi ebrei, quindi parliamo sia da polacchi che da ebrei. Venendo a Varsavia, si ha l’impressione che il governo al potere oggi, col partito di “Diritto e giustizia”, stia costruendo una memoria storica molto simile a quella criticata a suo tempo da un importante storico ebreo americano, Yosef Yerushalmi. Lui aveva avanzato una tesi seconda la quale la memoria ortodossa degli ebrei sovrappone in un insieme senza distinzione tutte le sciagure, la distruzione del primo tempio è come la distruzione del secondo, la cacciata dalla Spagna è come la distruzione del secondo tempio, i pogrom di Bogdan Chmelnickij, il capo della ribellione dei cosacchi del Seicento, sono come la cacciata dalla Spagna, i pogrom sotto lo zar sono come quelli di Chmelnickij, la Shoah è un po’ come… e alla fine gli ebrei sono sempre vittime in cui non si distingue più il contesto, e questo porta all’impossibilità di pensare razionalmente e dà la possibilità di manipolare la storia come si vuole. Ho l’impressione che in Polonia oggi una cosa simile la stia facendo il governo, per cui la guerra contro i bolscevichi del 1920 si sovrappone all’insurrezione di Varsavia del 1944, l’incidente di Smolensk in cui morì il fratello di Kaczynski e tutta l’équipe al governo si sovrappone all’insurrezione di Varsavia… Questa specie di postfattualità ti permette di fare della storia quello che vuoi. Sto esagerando? Michnik. Sia gli ebrei che i polacchi amano essere vittime. Prediligono essere vittime. E rendono solenni, e celebrano le proprie 6 una città sconfitte. Non amano celebrare i propri successi. Isaac Rabin, che ha avuto un grande successo storico, gli accordi di Oslo, è stato punito, assassinato da uno sciovinista israeliano. Il più grande successo polacco, quello di smantellare il comunismo senza rompere un solo vetro, è stato definito recentemente come il più grande tradimento. Oggi io mi trovo a dover giustificare ciò di cui dovremmo andare fieri, a dover spiegare che nessuno mi ha pagato, né il Cremlino, né Tel Aviv. Sono stato in Israele, facevo una passeggiata sul lungomare, e sono entrato in un museo dell’indipendenza, un museo molto interessante, che parla del cammino di Israele verso l’indipendenza. Fatto in modo molto moderno, con film, fotografie, c’era tutto. Però nessuno si è accorto che nell’indipendenza di Israele ha svolto un certo ruolo un signore che si chiamava Ben Gurion, che non era nominato in quel museo. Perché quello era un museo del Likud. Ma questo è il modello di fare storia del partito bolscevico. Gli elementi della storia del bolscevismo sono presenti nelle fotografie, e da quelle fotografie man mano vengono eliminate alcune figure, prima Trotsky, poi Zinoviev, poi Bucharin, eccetera, fino a che, accanto a Lenin, rimane solo Stalin. Ecco, oggi il governo di Kaczynski procede allo stesso modo con la storia polacca. Si butta via Walesa, si butta via Kuron, e altri. In questo senso qui ci sono delle somiglianze fra tre sistemi culturali, apparentemente molto diversi: la destra israeliana, la destra polacca e il bolscevismo. Ma guarda caso la metodologia è uguale. È paradossale, vero? Kaczynski, verbalmente, è un nemico mortale di Putin e della Russia intera. Ma il sistema politico che lui introduce in Polonia è esattamente il sistema putiniano. Abbiamo un vessillo, una bandiera democratica, ma sotto questo vessillo introduciamo un autoritarismo putiniano. È questa più o meno l’essenza del regime di Kaczynski. Goldkorn. Ultima domanda. Mentre noi parliamo, stiamo molto bene, sentiamo cose interessanti, sotto le nostre finestre stanno morendo delle persone. C’è una bellissima poesia di Milosz, “Campo di fiori” dove si parla di una giostra sotto il muro del ghetto di Varsavia: mentre il ghetto bruciava c’era gente normale che andava a divertirsi, che portava i bambini a quella giostra. Milosz paragona questa giostra a Campo dei fiori dove, mentre Giordano Bruno viene arso vivo, il mercato continua e continua anche la bellezza. È una poesia molto ambivalente, la bellezza dei frutti di mare, delle merci esposte dei commercianti. Io ho l’impressione che noi siamo oggi su una giostra e che, come oggi pomeriggio c’era il figlio di Frank che parlava del suo senso di colpa, fra trent’anni i nostri nipoti ci chiederanno cosa abbiamo fatto e sarà difficile rispondere. Credo che in Polonia questo problema sia ancora più difficile, perché è uno dei paesi che non vuole nessun profugo. Vorrei che Michnik ne parlasse. Michnik. Su questa vicenda posso dire solo questo. Io mi vergogno del mio paese. Le dichiarazioni del governo polacco in questa faccenda le ritengo infami, pagine nere nella storia del nostro paese. Io mi rendo conto che il problema non è facile. Non voglio fare del moralismo da dietro la scrivania. Mi rendo conto che per ogni governo implicato in questo gravissimo problema, la faccenda non è semplice, ma per questo io sono un grande sostenitore e simpatizzante di quello che ha detto Angela Merkel: siamo aperti ai migranti perché sono persone che fuggono dalla sofferenza e dalla morte e noi non possiamo voltargli le spalle. Invece il mio governo polacco ha voltato le spalle. Così come il governo ungherese di Orban. Forse Wlodek ha formulato la questione in modo molto duro, radicale, estremo. Perché in fondo questo problema è sempre esistito: oggi come ieri e anche domani, sempre da qualche parte moriva della gente, e noi non siamo stati in grado né capaci di aiutare tutti. Per questo sono cauto a fare del moralismo facile. Io capisco che può essere una situazione problematica, però non si può dire, come ha detto Kaczynski, che non possiamo far entrare i rifugiati perché porteranno malattie, o perché quei musulmani verranno qui a violentare le nostre ragazze cattoliche, cristiane, polacche. La ritengo una cosa scandalosa. E ritengo che la nostra storia non dimenticherà questa infamia. Lo dico qui, ma vi garantisco che la stessa cosa la dico anche in Polonia. Dal pubblico. Michnik ha detto che si vergogna della Polonia. Io mi vergogno dell’Europa intera... però ho sempre visto la differenza tra il regime che mi ha fatto soffrire in quegli anni e il regime stalinista Michnik. Le cose stanno così: ti fidanzi con una donna e poi ne sposi un’altra, completamente diversa. È chiaro che è molto più piacevole vergognarsi dell’Europa che della Polonia; E meglio ancora è vergognarsi dell’umanità intera! Ma io mi vergogno per la Polonia. Perché ritengo che questo governo distrugge, rovina, non solo la Polonia, ma anche l’Europa. Ovviamente, certo, l’Europa ha dei problemi. Ai nostri occhi l’Europa si sta colorando di un marrone, quello delle camicie brune. Brexit, Marine le Pen, Lega nord, l’Afd in Germania, però abbiamo qualcosa di meglio? La nostra Europa è la nostra diletta, la beneamata, però la nostra diletta si è innamorata di qualcun altro! O la abbandoniamo, oppure le proviamo che valiamo di più di quegli altri! Io ritengo che la democrazia vale di più per l’Europa che lo sciovinismo e la xenofobia. E l’Europa tornerà a noi! Io ci devo credere. d’Europa La mia biografia non mi permette di essere pessimista. Poi sai, i pessimisti, in Polonia, sono molti popolari, perché in genere hanno ragione. Però sono noiosi. E poco interessanti per le donne. L’ottimista, l’originale, invece, desta curiosità. Ecco perché sono ottimista! Dal pubblico. La mia impressione è che non si racconti alle nuove generazioni cosa veramente era il comunismo in Polonia, negli anni Sessanta, Settanta, per la vita quotidiana. Il terrore che c’era. Michnik. Innanzitutto bisogna dire la verità. È vero che c’erano i sentieri della salute, c’erano le perquisizioni di notte, ma il terrore era negli anni dell’epoca stalinista, non negli anni Sessanta. E non quando eravamo in prigione noi. La differenza fondamentale consiste in questo: che negli anni staliniani, dalla prigione non si usciva più. Mentre noi, sì, ci passavamo qualche annetto ma poi uscivamo. Poi magari ci rinchiudevano di nuovo, ma poi uscivamo. Era già un totalitarismo con qualche dente mancante. Non era un socialismo dal volto umano, ma un totalitarismo un po’ sdentato. Io non sono gentile nei confronti dei comunisti. Quando scrivevo delle lettere dalla prigione dicevo che erano dei porci e dei dittatori. Però ho sempre visto la differenza tra il regime che mi ha fatto soffrire in quegli anni e il regime stalinista. Così come ogni ragionevole storico italiano vede bene la differenza tra Mussolini e Hitler. Dal pubblico. Vorrei un suo parere su Radio Maria... Michnik. Credo che bisogna avere molta crudeltà nel cuore per prendere sul serio Radio Maria. Perché è veramente un horror. È un emittente che non parla il linguaggio del Vangelo, ma un linguaggio da trogloditi. Antisemita, populista, antidemocratico… Dal pubblico. Ci può dire qualcosa dei rapporti tra Polonia e Ucraina? Michnik. Io in Polonia passo per filoucraino e in Ucraina invece sono proprio una vacca sacra. Ritengo che il dovere di un polacco sia sostenere e aiutare la democrazia ucraina. Io ci sono andato molte volte, ho molti amici lì, ovviamente c’è un problema che riguarda le relazioni fra questi due paesi, fra questi due popoli, durante la Seconda guerra mondiale. In Polonia non capiscono come è nato e cresciuto in Ucraina il culto di Stepan Bandera. I polacchi vedono Bandera soltanto come simbolo del massacro della popolazione polacca in Volinia. Invece per gli ucraini Bandera è simbolo della resistenza antisovietica, e finché i polacchi non lo capiranno il problema rimarrà. I polacchi non vogliono sentire parlare del fatto che lui era stato prigioniero a Sachsenhausen. C’è un nazionalismo polacco molto cieco. Ma un nazionalismo altrettanto cieco lo riscontriamo anche dall’altra parte, cioè in Ucraina. Tuttavia io preferisco parlare del nazionalismo del mio paese, e la critica del nazionalismo ucraino la lascio ai miei colleghi, ai miei compagni ucraini. Molti anni fa ho chiesto a uno dei miei amici russi, un grande scrittore: “Andrei, dov’era la differenza tra te e Solzenicyn?”, e lui: “La differenza sta in una cosa sola. A me mi puzza la merda mia, e a lui gli puzza la merda mia!”. Io ritengo che il mio dovere è fare i conti con la merda polacca, non con quella ucraina. Quella ucraina la lascio agli ucraini. la storia può essere un bastone che aiuta a camminare o un bastone per dare mazzate sulla testa dell’avversario politico Dal pubblico. Può spiegare chi era Bandera? Michnik. Prima della guerra era un grande leader del movimento nazionalista ucraino, che però era attivo principalmente nel territorio polacco, ex polacco, parliamo di quando la Polonia “aveva” una parte dell’Ucraina. Dal punto di vista ucraino, ora metto gli occhiali ucraini: gli ucraini nella Polonia prebellica si sentivano come cittadini di terza categoria. Non avevano pari diritti nell’istruzione, nelle università, e le loro istituzioni venivano regolarmente discriminate. Quindi si è creato un campo, una frazione nazionalista, che diceva: “Fare trattative con i polacchi non porta a nulla, bisogna usare violenza”. E hanno cominciato a sparare. Sia agli ucraini che volevano trovare un’intesa con i polacchi come ai rappresentanti del potere del regime polacco. Ovviamente ai polacchi non piaceva molto. E quindi Bandera è un’icona del fascismo ucraino. Ma il dramma ucraino stava nel fatto che il loro unico alleato possibile erano i tedeschi e invece i tedeschi avevano come duce Hitler. In questo fatto vedo la tragedia ucraina. E secondo me andrebbero aiutati a uscirne. E quindi spiego ai polacchi che ognuno, ogni popolo, ogni nazione ha la sua storia. Nella più grande piazza di Varsavia al centro c’è la statua di Roman Dmowski che era l’ideologo nazionalista della democrazia nazionale e dell’antisemitismo polacco. Questo vuol dire che tutti i polacchi sono antisemiti? Ma Dmowski oltre al fatto che era antisemita, ha svolto anche un ruolo fondamentale nella storia polacca durante il trattato di Varsavia. Abbiamo quindi una storia complessa, noi polacchi, e gli ucraini pure! Il passato non lo possiamo mutare, non possiamo renderlo migliore. Invece il futuro sì! Ma certo non con Kaczynski! Dal pubblico. Può dare un giudizio su Jaruzelski? Bah! Io sono stato prigioniero di Jaruzelski. E poi, dopo la trasformazione del paese siamo diventati dei buoni conoscenti. Ci siamo incontrati più volte, ho parlato con lui spesso. Io credo che Jaruzelski nel ’45-46, quindi nell’immediato dopoguerra, fosse giunto alla conclusione che l’unica forma politica che la Polonia poteva avere, che era possibile in quel periodo, era quella di una Polonia pro-sovietica. È andato nell’esercito, seguendo un ragionamento che diceva: qualsiasi cosa accada, dell’esercito la Polonia avrà sempre bisogno. Però far parte di un esercito comunista, ovviamente, non era una passeggiata sul corso, voleva dire condividere tutte le schifezze comuniste e pagarne le conseguenze. Credo che il suo rapporto, il suo atteggiamento nei confronti della Russia fosse questo: noi abbiamo bisogno della Russia perché garantisce i nostri confini occidentali, ma se cominciamo a ribellarci avremo a Varsavia Budapest o Praga, cioè le truppe del patto di Varsavia. Quindi aveva la consapevolezza che bisognava collaborare con i russi ma aveva anche la consapevolezza che andassero temuti. Nell’89, quando ha visto che l’Urss di Gorbaciov stava allargando i margini delle possibilità di certe autonomie, lui ha subito sfruttato il momento. Senza Jaruzelski non saremmo usciti in un modo così pacifico dal comunismo. La Polonia è stata la prima, gli altri sono arrivati dopo. Quindi quello della tavola rotonda con gli accordi dell’89 è un successo comune, che condividiamo, non solo di Walesa, ma di Walesa e Jaruselski. E sono felice di aver contribuito in parte a questa cosa. Poi più volte mi è successo di difendere Jaruzelski, perché ritenevo che fosse una cosa scandalosa firmare un accordo con qualcuno durante la tavola rotonda, e poi, dopo, metterlo sul banco degli accusati. Ovviamente, invece, l’estrema desta polacca ha fatto di Jaruzelski un bersaglio. Durante il suo funerale ci sono stati degli episodi molto tristi, con fischi e aggressioni. Ho trovato quel comportamento obbrobrioso, indegno. Dal pubblico. La storia spesso è raccontata per screditare gli avversari politici… Michnik. Beh, certo. La storia può esser un bastone che aiuta a muoversi, a camminare, e può invece essere un bastone da baseball per dare mazzate sulla testa dell’avversario politico. Questo uso politico della storia è noto sia nella storiografia nazista che nella storiografia bolscevica e comunista. Proprio per questo gli storici sono portatori di una responsabilità tutta particolare. Hanno il dovere di difendere la verità. Non sempre sanno scoprirla, svelarla, ma sempre possono e devono evitare la menzogna consapevole. Un grande poeta polacco, Antoni Słonimski, per il quale ho lavorato e che chiamavo capo, mi dava un consiglio che va bene anche per gli storici. Mi diceva: “Adam, se in qualche situazione non avrai tutte le informazioni di cui hai bisogno, non avrai la chiarezza assoluta, non saprai tutto, e non saprai come comportarti, vista la situazione, allora, per ogni evenienza, comportati come un uomo dabbene”. (traduzione di Ludmila Ryba) una città 7 hearth and mind La nostra Hillary Con l’implosione della campagna presidenziale di Donald Trump non sono necessarie lunghe argomentazioni circa la scelta tra Hillary Clinton e il suo avversario proto-fascista. Lei è una spietata politica neo-liberal di grande eleganza e raffinatezza mentre Trump è un bullo, un bugiardo e una minaccia per le tradizioni democratiche americane. Hillary è un’erudita ed è sempre ben preparata, Trump invece è inaffidabile e risponde a istinto, senza pensare. Hillary ha servito il suo paese come First Lady, come Senatrice e come Segretario di Stato. Trump è un imbonitore nato e vissuto con la pappa pronta, che ha dichiarato bancarotta sei volte, ha ingannato i piccoli investitori, è a favore del diritto a portare armi senza restrizioni, della deregulation e ha tradito Atlantic City. La scelta del giudice della Corte suprema da parte di Hillary permetterà senz’altro di sostenere la parità negli stipendi tra uomo e donna, il diritto di scelta delle donne, le libertà civili e permetterà un attacco a Citizen United (la sentenza che permette il finanziamento illimitato da parte di privati e società private ai partiti). L’amministrazione Hillary darà fondi a Planned parenthood, limiterà la vendita di armi, e inserirà un po’ di civiltà in un ambiente polarizzato. C’è anche un’importanza simbolica nell’eleggere una donna per la carica più alta in particolare quando un sessista senza ritegno rappresenterà i peggiori elementi del sistema di governo americano all’indomani dell’elezione. Anche solo queste differenze sono sufficienti a fornire una valida ragione a chiunque sia razionale per votare Hillary. Non ci sono dubbi: la sfida alle primarie tra Hillary Clinton e Bernie Sanders era truccata. L’ex dirigente in capo Debbie Wasserman Schultz e il Democratic National Committee non erano imparziali. Hillary è stata anche aiutata da grandi media liberal di importanza come la Cnn e Msnbc e dai commentatori progressisti che, ora pieni di indignazione, adulavano Wasserman Schultz nei suoi apparentemente infiniti interventi come ospite. Aggiungeteci la disparità tra i contributi finanziari da parte dei donatori “d’élite” e i più di 400 delegati che hanno appoggiato Hillary ancora prima di cominciare le primarie e capirete che era come se Bernie avesse dovuto vincere una partita di baseball già in svantaggio 6-0 ancora prima che venisse lanciata la prima palla. Sin dall’inizio Hillary ha beneficiato delle tattiche organizzative anti-democratiche e dello squilibrio strutturale di influenza e di potere che hanno favorito il candidato principale del partito Democratico. La maggior parte dei progressisti sa bene che le elezioni sono sempre una scelta tra “il minore dei due mali”. Ma rimangono abbastanza sostenitori di Bernie arrabbiati, depressi per la sua sconfitta, che sembrano non voler sporcare i loro principi radicali anche se il loro rifiuto di votare può solo dare forza a qualsiasi residua legittimazione Trump e la sua “destra alternativa” possano avere. Cosa farà 8 una città di Stephen Eric Bronner Hillary se vincerà? Rappresenta l’ala di destra dell’amministrazione Obama che ha sostenuto i trattati di libero scambio internazionale come il Nafta (North American Free Trade Agreement) e il Tpp (Trans-Pacific Partnership). Non ci sono ragioni per pensare che cambi marcia. Guadagnare un vantaggio competitivo sul mercato libero internazionale significa abbassare il costo della manodopera e ridurre i programmi di welfare. Hillary ha fatto diverse concessioni ai sostenitori di Bernie e ha stilato con lui il programma di partito. Ma il sospetto è fondato. Dopo tutto, quando era presidente, Bill Clinton dichiarò che avrebbe “eliminato il welfare per come lo conosciamo”. Hillary viene legittimamente rappresentata come un “falco liberal”. L’ossessione per le sue e-mail mentre era Segretario di Stato o gli attacchi oltraggiosi sul suo ruolo nel fallimento di Bengasi distraggono da cose ben più importanti. Hillary è acritica nei confronti della Nato e non sembra aver imparato nulla dalla guerra in Iraq e dal suo “errore” nel sostenerla. L’impegno di Hillary per un cambio di regime in Libia ha portato alla disintegrazione di uno stato sovrano, a conflitti ancora in atto tra tribù guerriere, alla diffusione degli estremisti fuori dal confine e all’aumento dell’instabilità regionale. Ha chiesto un aumento dei bombardamenti a supporto della divisa ed inefficace opposizione Siriana, di aumentare a presenza militare americana in Iraq e sostiene una “no fly zone” che non può funzionare (e potenzialmente esplosiva). La sua posizione nei confronti di Israele è certamente meno critica di quella del Presidente Obama. Sì certo, ha sostenuto e protetto i diritti umani. Ma questo non deve trarre in inganno: i diritti umani servono principalmente ai falchi liberal come copertura per le loro strategie interventiste. Gli entusiasti di Hillary in particolare dovrebbero informarsi sul lato oscuro delle sue politiche piuttosto che proteggerla dogmaticamente dalle critiche. Il presidente Obama ha colto nel segno nel suo discorso alla convention prendendo di mira Trump con la frase: “Non fischiatelo! Votate!”. Ma dovremmo sapere a cosa ci stiamo avviando. E la nostra posizione dovrà cambiare il giorno dopo le elezioni. Quelli che non sono seguaci entusiastici del partito Democratico si troveranno senz’altro estraniati. Presto riconosceranno la necessità di scendere in strada e protestare. Non meno del marito, Hillary tende ad utilizzare una strategia di “triangolazione” che mira a quello che i liberali hanno chiamato “il centro vitale”. La strategia funziona così: Trump è contrario all’aumento dello stipendio minimo; Bernie Sanders propone di portarlo a 15$ l’ora; e poi c’è Hillary che mira ai 12$ dollari per ora. I Repubblicani non hanno molto da dire sull’argomento del debito degli studenti; Bernie porta avanti una battaglia per un’educazione libera nelle università pubbliche; e Hillary propone una educazione “senza debiti”. Hillary ha trasformato il compromesso in un principio e concettualmente rinuncia alla strategia per la tattica. Nel corso dei quattro anni, la volontà di Hillary a sostenere proposte radicali dipenderà molto meno dal fatto di essere una persona di valore o una femminista quanto piuttosto da quanta pressione sapranno esercitare i movimenti sociali e non-governativi per farle fare le riforme. I movimenti americani nascono quando i Democratici sono al governo. Fioriscono più facilmente con amministrazioni liberal piuttosto che con amministrazioni dichiaratamente di destra. Questo si è verificato anche con il Presidente Obama. Le marce di solidarietà agli immigrati hanno avuto un importante impatto politico. Così come è stato per Occupy Wall Street, e per Livable Wage e Black Lives Matter. Visto che lei rappresenta l’ala destra dell’amministrazione Obama e ha meno debiti di riconoscenza con la parte più di sinistra del partito, Hillary sarà probabilmente più difficile da influenzare. Ma questo è solo un motivo ulteriore per sostenere gli insorti di Bernie nel loro tentativo di creare una struttura organizzativa “Our Revolution” (www.ourrevolution.com). Forse potrebbe funzionare come il Poor People Movement della fine degli anni Sessanta con un piede dentro e un piede fuori dal Partito Democratico. Forse invece prenderà una strada completamente diversa. Il tempo ci dirà se “our revolution” saprà sostenersi. Bernie è rimasto relativamente tranquillo nel corso della campagna presidenziale e si è attenuto ai suoi temi più classici. C’è un po’ l’idea che il movimento sia in attesa. Ma ha portato centinaia di migliaia di persone dentro il processo politico e ha dato al Partito Democratico la piattaforma più radicale della sua storia. Chi avrebbe pensato che “Feel the Bern” fosse una cosa possibile? Per decenni ci è stato detto che usare l’etichetta di socialista e parlare di classi era un suicidio politico Come sempre i “pragmatici” non solo avevano torto ma erano anche lontani dalla realtà. Tredici milioni di persone sono state ispirate da un messaggio diverso e radicale. Quando sono cominciate le primarie presidenziali, argomenti come le tasse universitarie gratuite nelle università pubbliche, la riduzione del potere della banche, l’assicurazione sanitaria pubblica, lo stipendio minimo a 15$ e un diverso sistema di tassazione, erano considerati dai media principali come “inapplicabili”, “insostenibili” e “utopistici”. Non più. Le concessioni ai ribelli sono già state fatte dall’establishment democratico e, dopo la vittoria di Hillary, i radicali dovranno tenere alta la pressione. Naturalmente, può sempre succedere qualcosa di drammatico che cambi gli obiettivi (non ultimo, un improbabile trionfo di Trump). I Repubblicani saranno a pezzi ma è sciocco credere che la destra alternativa scomparirà. Esiste un solo modo di porsi dal punto di vista politico che abbia un senso per i progressisti nei confronti del Partito Democratico: solidarietà critica. (traduzione a cura di Andrea Furlanetto) discussioni IL REFERENDUM RAGIONI DI MERITO PER UN NO di Marco Boato A seguire le interviste a Lorenza Carlassare, per il no, e a Michele Salvati, per il sì. Personalmente ritengo sbagliato e inaccettabile che il referendum sulla riforma costituzionale, previsto ormai per il prossimo 4 dicembre 2016, venga tramutato in una sorta di plebiscito a favore o contro il Presidente del consiglio Renzi e il suo Governo. Qualunque sia il giudizio che si abbia nei confronti del Governo Renzi -che può essere positivo o negativo o anche articolato rispetto ai singoli provvedimenti del suo programma- nel referendum deve prevalere esclusivamente il giudizio sull’insieme della riforma costituzionale. Intendo quindi esprimermi soltanto sulla materia costituzionale, e sulla connessa (anche se non sottoposta a referendum) legge elettorale per la Camera dei deputati (il cosiddetto “Italicum”), che ne costituisce il logico completamento. Una riforma costituzionale non deve mai essere legata alle sorti di alcun Governo “pro tempore”, perché la Costituzione, anche se riformabile e riformata (alle riforme precedenti ho partecipato io stesso), è la legge fondamentale che riguarda tutti i cittadini e anche tutte le forze politiche, a prescindere dalle transeunti maggioranze che sostengono di volta in volta uno specifico governo. E deve avere la capacità e possibilità di una lunga durata e validità, al di là delle singole contingenze politiche. Il popolo sovrano si è già pronunciato due volte con un referendum su complesse riforme costituzionali: la prima volta nel 2001 approvando la riforma del Titolo V del centrosinistra (che ora invece si vuole stravolgere) e la seconda nel 2006, bocciando la riforma Berlusconi-Calderoli. Nessuna ripercussione sui governi. Per quanto riguarda la riforma elettorale, entrata in vigore il 1° luglio 2016, essa è strettamente connessa alla riforma costituzionale, pur se attualmente non sottoposta a referendum, mentre successivamente sarà sottoposta al giudizio della Corte costituzionale, anche alla luce della sentenza n. 1 del 2014 sulla incostituzionalità di alcuni aspetti essenziali della precedente legge elettorale (il cosiddetto “Porcellum”). Penso che si tratti di una legge inaccettabile sotto diversi profili. In particolare ritengo sbagliato: 1) che il premio di maggioranza possa essere dato anche a chi non ha raggiunto il 50% dei voti espressi, che permetterà di ottenere il premio di maggioranza anche sulla base del consenso di una ristretta minoranza di elettori (nell’attuale sistema triuna città 9 discussioni polare e con i crescenti tassi di assenteismo, potrebbe realisticamente trattarsi anche solo del 20-25% degli aventi diritto al voto); 2) che sia esclusa la possibilità di formare coalizioni, come invece è previsto sia per le elezioni regionali che per le elezioni comunali, senza che questo abbia comportato problemi di governabilità, permettendo anzi una più ampia rappresentatività e un più ampio pluralismo sia tra le forze di governo che tra quelle di opposizione; 3) che siano previsti i capilista bloccati decisi dalle segreterie dei partiti, senza possibilità per gli elettori di esprimere su di loro il voto di preferenza, e che per di più sia prevista per i capilista la possibilità di candidature plurime (fino a dieci!), mettendo in questo modo esclusivamente nelle mani dei segretari di ciascun partito la scelta verticistica e autocratica degli eletti, espropriando gli elettori di ogni possibilità di scelta e ritornando a realizzare conseguentemente una Camera dei deputati in grande prevalenza di “nominati” e non di eletti; 4) che tutto questo comporti di fatto una modificazione surrettizia della forma di Governo, espropriando sostanzialmente il Presidente della Repubblica del potere effettivo di nominare il Presidente del Consiglio incaricato, come previsto dalla Costituzione, arrivando invece ad una sorta di “democrazia di investitura” obbligata sulla base dei risultati elettorali. Per quanto riguarda la riforma costituzionale, un giudizio analitico può far emergere sia luci che ombre, ma complessivamente si tratta di una riforma non condivisibile per il suo impianto complessivo. Tra gli aspetti positivi possono essere citati, ad esempio, la più rigorosa disciplina della decretazione d’urgenza (inflazionata in modo crescente anno dopo anno e ormai giunta, proprio con Renzi, a livelli inaccettabili) e la soppressione del Cnel, organismo ormai totalmente obsoleto. Tuttavia entrambi gli obiettivi avrebbero potuto essere raggiunti con singole leggi costituzionali “ad hoc”, nella logica dell’art. 138, che avrebbero realisticamente trovato il consenso della quasi totalità del Parlamento. E comunque, in caso di vittoria dei No nel referendum, potranno essere realizzati nel prossimo futuro appunto con singoli provvedimenti di natura costituzionale, anche nell’ambito temporale dell’attuale legislatura. Tuttavia le ombre e gli aspetti critici della riforma prevalgono nettamente sui pochi aspetti positivi. Il superamento del bicameralismo perfetto o paritario, obiettivo pur condivisibile, è stato realizzato in modo confuso e pasticciato, sotto il profilo sia della composizione del futuro Senato, sia delle sue competenze legislative e del suo rapporto con la Camera dei deputati 10 una città e con il Governo. Appaiono inaccettabili e contradditorie tanto le modalità di elezione indiretta, del resto demandate ad una futura legge ordinaria di cui non si conoscono le caratteristiche, quanto la sua ambigua natura politica, priva di effettiva rappresentanza territoriale. Per quanto riguarda l’altro fondamentale aspetto della riforma, e cioè la modifica del Titolo V in materia di autonomie regionali, anziché individuare alcune limitate e specifiche correzioni rispetto alla riforma introdotta nel 2001 e confermata dal referendum popolare -ad esempio in materia di infrastrutture nazionali, di energia e di turismo-, si è scelta la strada di un totale stravolgimento dell’impianto precedente. Anziché arrivare ad una forma di federalismo o di regionalismo ben articolato ed equilibrato, si è arrivati ad una vera “controriforma” con una fortissima ricentralizzazione dei poteri in capo allo Stato, svuotando di poteri, competenze e responsabilità il sistema delle Regio- leggere l’incredibile nuovo art.70), le ripercussioni negative sul sistema delle garanzie costituzionali e dei “pesi e contrappesi”. Garanzie che dovrebbero sempre caratterizzare una autentica democrazia politica e costituzionale, quali erano state delineate dal disegno dei padri (e madri) costituenti nella Costituzione vigente. Qualche settimana fa Renzi ha sentenziato: “In questo referendum si tratta di ridurre le poltrone. Punto!”. Sinceramente mi sono vergognato per lui e anche per i cittadini italiani che sono invitati a votare con questa demagogia. Per tutti questi motivi, ritengo necessario sostenere il No nel referendum costituzionale. D’altra parte, il Presidente del consiglio Renzi, e con lui la Ministra Boschi, sbagliano radicalmente nel mettere sullo stesso piano l’esito del referendum e le sorti del Governo. Se il Governo dovesse dimettersi, sarebbe per sua autonoma e discutibile scelta, non per la volontà degli elettori, che sono chiamati a pro- ni a Statuto ordinario, congelando invece gli effetti della riforma stessa per quanto riguarda le cinque Regioni a Statuto speciale. Inoltre la riforma costituzionale triplica le firme necessarie per le leggi di iniziativa popolare e riduce il quorum di validità per i referendum popolari solo a prezzo di un forte aumento (da 500.000 a 800.000) delle firme necessarie per la loro promozione, a fronte delle enormi difficoltà per la certificazione delle firme dei cittadini. Complessivamente, il combinato disposto della riforma costituzionale e della complementare legge elettorale darebbe vita ad un assetto costituzionale e istituzionale fortemente squilibrato sul lato della presunta “governabilità”, a scapito della altrettanto essenziale -e fondamentale in democrazia- rappresentatività. Non sarà la campagna demagogica e populista sui costi della politica a poter strumentalmente coprire gli squilibri politici e istituzionali, il surrettizio cambiamento della forma di Stato e della forma di Governo, le incoerenze e le numerose complicazioni del procedimento legislativo (basti nunciarsi sul merito della riforma costituzionale e non sulla ipotizzata sconfitta del Governo. In ogni caso, se per propria decisione cadesse il Governo Renzi, non ci sarà alcun obbligo o automatismo di scioglimento delle Camere, essendo questa una esclusiva responsabilità del Presidente della Repubblica. Il quale, per dettato costituzionale, dovrà eventualmente o rinviare l’attuale Governo alle Camere o, dopo opportune consultazioni parlamentari, individuare un altro Presidente del consiglio. Se prevarranno i No, è falso inoltre affermare che si chiuderà il capitolo delle riforme. Un capitolo che si potrà invece tempestivamente riaprire già in questa legislatura, sia per quanto riguarda le leggi elettorali per la Camera e il Senato, sia con singole modifiche costituzionali per le parti più largamente condivise. E, nella prossima legislatura, con un Parlamento più democraticamente legittimato rispetto a quello espresso dal “Porcellum”, con la capacità di elaborare una riforma più equilibrata, più condivisa e più largamente partecipata. discussioni NON HA SENSO? O, PURTROPPO, LO HA Il combinato riforma costituzionale-legge elettorale teso ad accentrare il potere sull’esecutivo e a rendere manipolabili gli organi di garanzia; un senato che non si sa cosa rappresenterà, nominato per ripartizione partitica, ma che avrà funzioni molto importanti; una legge elettorale che vuol far diventare maggioranza chi non lo è e che permetterà l’elezione diretta del capo del governo; l’esempio della legge truffa del ’53, niente in confronto a questa. Intervista a Lorenza Carlassare. Lorenza Carlassare, giurista e costituzionalista, è professoressa emerita di diritto costituzionale all'Università degli Studi di Padova, dove vive. Per molti di coloro che si battono per il no la riforma costituzionale insieme alla riforma elettorale fa parte di un unico disegno. Lei cosa pensa? Certamente sono due cose intrecciate. Tempo fa avevo scritto che il primo, reale obiettivo era la riforma elettorale, tant’è vero che l’hanno voluta approvare per prima perché altrimenti la riforma costituzionale non avrebbe realizzato lo stesso effetto che i suoi proponenti volevano ottenere. È l’intreccio delle due che rivela una filosofia complessiva molto semplice: restringere la sfera di partecipazione. Da molti anni si cerca di verticalizzare il potere e di togliere dalla scena istituzionale le voci minoritarie e quelle che esprimono i bisogni sociali che costano. Non si vuole che queste domande sociali riescano ad arrivare alle istituzioni, che possano avere voce e trovare ascolto sottraendo risorse agli interessi consolidati. Proprio a questo serve un sistema elettorale che artificialmente, attraverso il premio, trasformi in maggioranza assoluta una forza politica, la quale, posta in posizione dominante, renda ininfluenti tutte le altre, soffocando la molteplicità delle voci. La controversia tra la Fiat e la Fiom, dove si è tolta perfino la rappresentanza in fabbrica a una delle più importanti associazioni sindacali è un esempio chiaro! Per fortuna la Fiom ha fatto ricorso alla Corte costituzionale che ha dichiarato illegittima quell’esclusione. Mi chiedo: se in Parlamento ci fosse stata una voce che si fosse levata a difesa di questi operai così vilipesi in una Repubblica che per Costituzione, ricordiamolo, dovrebbe essere fondata sul lavoro (art.1), forse anche la dirigenza Marchionne non avrebbe avuto il coraggio di spingersi così avanti. La verità è che nessuno li ha difesi: in Parlamento quegli interessi erano privi di rappresentanza! Il disegno è togliere rappresentanza agli interessi che confliggono con quelli consolidati, interessi complessi più o meno identifi- cabili da sempre tutelati, che certamente non sono gli interessi della maggioranza delle persone. Ma perché la riforma del bicameralismo andrebbe in questo senso? Perché il Senato sarebbe una camera sottratta al voto popolare, del tutto manipolabile. Nel disegno che vedo io, il senso dell’operazione si capisce benissimo; altrimenti, qualcuno mi sa dire cosa sarà questo Senato? Chi rappresenta? Nel testo della Riforma è scritto che i senatori rappresentano le istituzioni territoriali, ma è un falso. Non rappresentano i cittadini di quei territori, dai quali non sono eletti. Come sono eletti? Vengono scelti dai consiglieri regionali al loro interno, dai consiglieri che si votano fra loro. Dato il numero esiguo di senatori da eleggere in ciascuna Regione (in alcune Regioni saranno solo due) si capisce quale sarà il criterio con cui si eleggeranno: un criterio di ripartizione politica. Oltre ai consiglieri regionali, nel nuovo Senato ci sono anche i sindaci. Al che ci si potrebbe rallegrare: ci sono i sindaci, uno per regione, che bellezza, sono rappresentati anche i comuni! No! Perché non solo questi sindaci non sono eletti dai comuni, né dal popolo dei comuni, ma sempre dai consiglieri regionali. A che titolo? si riprodurrà quindi la logica partitica, con una piccola camera formata da persone fidate perché scelte dalle segreterie dei partiti Quindi il tutto ha anche dei caratteri irrazionali. Ancora più irrazionale il fatto che se rappresentano le istituzioni territoriali, dovrebbero portare in Senato la voce di queste istituzioni, la voce dei vari territori, invece è scritto espressamente nella riforma che anche i senatori eserciteranno le loro funzioni senza vincolo di mandato così come i deputati. Ma questi rappresentano la nazione intera, non delle frazioni come invece i senatori i quali, se rappresentano le istituzioni territoriali dovrebbero parlare con una voce sola, a nome dell’istituzione regionale. Invece no, rimane loro evidentemente libertà di voto. Si riprodurrà quindi la logica partitica, avremo una piccola ca- mera formata da persone fidate perché scelte dalle segreterie dei partiti e a queste, non agli elettori o ai Consigli regionali, i nuovi senatori risponderanno. Ecco allora che il disegno diventa più chiaro: è un disegno di verticalizzazione, di soffocamento delle voci, di manipolazione degli organi costituzionali, in modo da poterli controllare. Ma questo senato avrà poi funzioni molto importanti? Sì, infatti. A un senato così mal costruito hanno attribuito funzioni molto importanti, mentre continuano a dire che il senato farebbe molto poco, e dunque ha poca importanza discutere di come viene eletto. Importa moltissimo invece, perché ha molte importanti funzioni costituzionali. Intanto può intervenire su qualunque legge; ogni legge approvata dalla Camera dev’essere portata al Senato, che può non fare niente, tacere, e allora la legge va, ma può anche proporre modifiche, e allora la legge torna alla Camera e si prevedono una varietà di percorsi, basta leggere due articoli, l’art. 70 e il 72 ( che contiene, fra l’altro vari rinvii ad altri articoli, il che lo rende ancor meno chiaro): alcune volte il testo rinviato dovrà essere riapprovato dalla Camera addirittura con maggioranza assoluta, altre volte, invece, dal Senato: una complicazione a dir poco incredibile. Va sottolineato che alcune materie restano di competenza di entrambe le camere, così come ora: continua il bicameralismo paritario per le leggi di revisione della Costituzione, per le leggi in materia di referendum, sull’elezione degli stessi consiglieri regionali, oltre a leggi che riguardano i rapporti con l’Unione Europea. Ci si rende ben conto dell’importanza della cosa, perché oggi quelle sono norme fondamentali. E su queste avranno voce i senatori nominati in quel modo. Quindi, lei dice, aumenterà molto anche la complicazione… Di certo non è una semplificazione. Prenda il caso che una legge non tratti una materia sola, ma due, una delle quali di competenza pure del Senato. Allora in quei casi, cosa si fa? Potranno sorgere conflitti fra le due camere, con il Senato che rivendicherà il di- una città 11 discussioni ritto di dire la sua, oppure invocherà l’obbligo di un’approvazione a maggioranza assoluta. Attenzione, non è un’eventualità immaginaria: è la stessa riforma a prevedere il sorgere di conflitti fra le due camere. E cosa propone? Che a risolverli siano i due presidenti “d’accordo fra loro”. Il che apre un bel problemino nel caso in cui l’accordo fra i due non ci sia. Cosa si fa? Si va alla Corte costituzionale? Ci rendiamo conto di cosa può succedere nel corso del procedimento? E parliamo di semplificazione? Piuttosto sembra un grande pasticcio! C’è poi un altro interrogativo: chi sarà in maggioranza in un simile senato? Potrebbero essere i senatori della lista che ha la maggioranza nella maggior parte delle regioni, e quindi potrebbe risultare un senato molto omogeneo alla maggioranza parlamentare: di nuovo un doppione inutile. Mettiamo, però, che il Senato risulti diverso, allora i conflitti diventerebbero drammatici e paralizzanti. Insomma, credo che peggio di così non si potesse fare. Lo dicono del resto gli stessi sostenitori del sì. Quindi una riforma confusionaria. Ma lei parla del rischio di manipolazione degli organi di garanzia… Certo. Hanno modificato l’elezione dei giudici della corte costituzionale, che oggi, come sappiamo, sono quindici: cinque eletti dal parlamento in seduta comune, cinque dalle supreme magistrature e cinque nominati dal Presidente della Repubblica che dovrebbe essere super partes, quindi dovrebbe individuare persone competenti senza tener conto delle appartenenze politiche. Adesso cosa si fa? I cinque che eleggeva il parlamento in seduta comune, saranno eletti separatamente: tre dalla Camera dei deputati composta da oltre seicento persone, e due dal Senato che conta cento membri. un senato nominato eleggerà due membri della corte che su quindici non sono pochi e potranno essere decisivi È evidente che si accentua il potere del senato; un senato nominato eleggerà due membri della corte che su quindici non sono pochi e potranno essere decisivi spostando gli equilibri delicati esistenti al suo interno. L’altro organo di garanzia toccato dalla riforma è il Presidente della Repubblica che, come dicevo, dev’essere superpartes e, dunque, non dev’essere riconducibile ad alcuno; la Costituzione prevede un procedimento di elezione concepito in modo da svincolarlo da ogni parte politica. La sua elezione avviene a voto segreto perché nessuno sappia chi lo ha votato; non si possono presentare candidature ufficiali; non c’è dibattito in Parlamento, si vota in silenzio senza dichiarazioni di voto. E soprattutto si richiedono maggioranze elevate affinché l’elezione sia an- 12 una città che frutto di incontri e, alla fine, dopo diversi tentativi, si trovi una persona su cui i parlamentari concordano: nelle prime tre votazioni è necessaria una maggioranza di due terzi dei componenti dell’assemblea (Camera e Senato riuniti insieme), dalla quarta è necessaria la maggioranza assoluta dei componenti ( 50+1 di tutti i parlamentari). Secondo i suoi sostenitori, con la riforma si aumentano le garanzie perché dopo la terza votazione viene richiesta non più la maggioranza assoluta, ma i tre quinti dei componenti, e, dopo la settima, i tre quinti dei votanti: il che fa una bella differenza! Gli assenti, o coloro che non votano per protesta non si contano. È una maggioranza molto bassa, altro che aumento delle garanzie! Anche tenendo conto del numero legale minimo di presenze richiesto per la validità delle delibere, in definitiva basteranno poco più di duecento voti per eleggere il Capo dello Stato. Ma c’è qualcosa di positivo in mezzo a questa marea di articoli? Certo, ci sono anche delle norme del tutto accettabili; ad esempio che la mozione di sfiducia al governo parta solo dalla Camera dei deputati e non anche dal Senato, una cosa che trova tutti concordi. Ma bastava una sola norma che lo dicesse. Vogliamo abolire il Cnel? Bastava una sola norma per abolirlo. Queste sono cose comprensibili, ma è ridicolo che per non voler il bicameralismo paritario e introdurre una differenziazione fra le camere si debbano modificare oltre quaranta articoli cambiando il senso della Costituzione. Si è detto anche che andiamo verso un “premierato”... La preminenza del governo c’è già nella riforma costituzionale: viene introdotta la possibilità di intervenire sull’agenda parlamentare con la norma dell’approvazione a data certa; poi con il ruolo del Presidente della Repubblica che si indebolisce, diventando il presidente della maggioranza, è chiaro che di converso la figura del Presidente del Consiglio diventa ancora più libera e potente. Già questo è chiaro, ma il vero problema si sposta sulla legge elettorale, perché è lì che noi vediamo il rischio autoritario. È davvero una legge pericolosa che il governo ha voluto fermamente; ha messo due volte la fiducia per farla approvare, tanto la considerava essenziale! Si trattava di sostituire la legge, giustamente chiamata “Porcellum”, in base alla quale gli attuali parlamentari sono stati eletti, che la Corte costituzionale nel 2014 aveva annullato, una legge che faceva comodo, tanto è vero che la nuova legge elettorale -denominata Italicum- sostanzialmente la riproduce. Non dimentichiamo che la maggioranza che ha consentito di votare quest’ultima legge è stata eletta grazie a quel premio di maggioranza elargito da una legge che la Corte ha dichiarato illegittima anche per il premio per il quale non era prevista una soglia. Cosa hanno fatto allora? Nell’Italicum hanno messo una soglia del 40%, per ottenere il premio. Ma è una falsa soglia. Infatti, se nessuno ottiene il 40%, le due liste più votate, con il nome del capo, vanno al ballottaggio, qualunque numero di voti abbiano ottenuto. Non c’è una soglia per il ballottaggio. Anche se una lista avesse raggiunto il 21% e l’altra il 20% andrebbero al ballottaggio: una delle due vincerebbe per forza. Capisce che è illegittimo? con l’indicazione del capolista, che sarà poi il presidente del consiglio, si cambia anche la forma di governo Con una percentuale così bassa, una minoranza -trasformata in maggioranza grazie al premio- avrebbe il totale dominio delle istituzioni. Va aggiunto che con l’indicazione del capolista, che sarà poi il presidente del consiglio, si cambia anche la forma di governo perché oggi è il Presidente della Repubblica che sceglie il Presidente del Consiglio, dopo aver consultato le forze politiche. Non solo, ma l’indicazione del “capo” trasforma l’elezione della Camera nell’elezione del primo ministro, la riduce ad una competizione a due, personalizzata, il che rafforza il vincitore che potrà dire di essere stato eletto direttamente dal popolo. Forte di una simile legittimazione popolare chi lo fermerà, non essendo rafforzati gli organi di garanzia? Non si sono aggiunte garanzie, anzi si tolgono. Si rinvia al regolamento della Camera lo statuto delle minoranze. Lo si rinvia ad altre norme che potranno esserci oppure no: il regolamento lo farà una camera eletta con questa legge elettorale, quindi sarà la maggioranza artificialmente prodotta dal ‘premio’ a fare lo statuto della minoranza. Lei capisce che questo non ha senso? O piuttosto, purtroppo lo ha. Si dice che siamo a un passo dal presidenzialismo... Ma non è così. Qualcuno parla del sistema presidenziale degli Stati Uniti dimenticando che a fronte dei forti poteri del Presidente stanno i poteri del Congresso, non meno forti e quelli della Magistratura indipendente. La separazione dei poteri, non l’accentramento, è la regola base di poteri che si bilanciano e si limitano a vicenda. Il Congresso deve approvargli le spese e deve approvargli le leggi, altrimenti il Presidente è paralizzato! Quello è il presidenzialismo, cosa ben diversa dal sistema di concentrazione del potere che esce dalle nostre riforme! In America il presidente ha spesso le mani legate. Certo. Al nostro premier non ci sarebbe nessuno che potrebbe legargliele. Quindi il problema della soglia rimane, anche per la Corte presumibilmente... Infatti la Corte costituzionale certamente l’Italicum l’avrebbe annullato. Adesso ha rinviato il giudizio, non conosco esattamente le motivazioni, ma l’esito finale è sicuro: anche in questa legge elettorale la rappresentanza è sacrificata alla governabilità, è violato il principio di eguaglianza del voto, manca la soglia di accesso al ballottaggio. Il punto cruciale più delicato è quello, e val la pena di ricordare due cose sul premio. La prima volta che lo si è introdotto è stato con Mussolini con la legge Acerbo del 1923, ed è quello che ha consentito al fascismo di prendere in mano tutto il potere e di sovvertire lo Statuto albertino, la Costituzione liberale vigente dal 1848. Gli argomenti di allora, addotti per far approvare la legge dal Parlamento, erano gli stessi di oggi: la velocità delle decisioni che il governo doveva assumere senza impacci, senza i contrasti e gli ostacoli delle opinioni diverse che rallentavano l’azione del governo che non doveva essere disturbata. E la votarono anche illustri personaggi dell’epoca, dicendo che era l’unico modo per far funzionar il sistema parlamentare rappresentativo, per conservarlo: dopo pochi mesi, hanno visto cosa avevano conservato! La seconda volta nella nostra storia che entra in ballo il premio è nel 1953, con una legge, voluta da De Gasperi, che veniva chiamata, lo voglio ricordare, legge truffa. Ma in confronto a questa era niente. Le differenze sono due, fortissime: quella legge stabiliva che il premio l’avrebbe preso la coalizione che avesse raggiunto il 50%, il che significa che si dava un premio a chi già era maggioranza. È per questo che lo si chiama premio di maggioranza; in parlamento sia De Gasperi che Moro insistettero su questo punto: noi non facciamo diventare maggioranza chi non lo è, ma diamo un premio a chi è già maggioranza per consentirgli di governare con maggiore facilità. È un concetto molto diverso dal far diventare maggioranza chi non lo è. Seconda cosa, egualmente importante: in quella legge se nessuno raggiungeva il 50% il premio non si dava a nessuno, ognuno prendeva i seggi a seconda dei voti che aveva avuto. E così avvenne, perché la coalizione che aveva al centro la Democrazia cristiana non raggiunse il 50%, il premio non scattò. La legge fu poi abrogata. Anche le modalità, per entrambe le riforme, sono state molto discutibili? Direi che il modo in cui sono state approvata è stato orribile. Non mi dilungo ma sono state approvate con delle forzature della procedura parlamentare fortissime, continue, tagliando i tempi, bloccando i dibattiti, con una serie di meccanismi tirati fino al massimo che in un dibattito, in particolare su una legge costituzionale, non sono ammissibili. il problema più grave è che le decisioni sono prese da parlamentari che non conoscono niente, neanche la Costituzione La Costituzione, art.138, non vuole accelerazioni, ma riflessione, e ciò richiede tempi lunghi. Infatti sono necessarie due delibere di ciascuna Camera proprio per consentire un pensiero meditato, una convinzione maturata dopo un dibattito serio e partecipato. Se poi pensiamo che la riforma costituzionale è stata varata da un parlamento illegittimo, da una maggioranza artificiale che è tale soltanto grazie al premio dichiarato illegittimo, senza il quale la riforma non sarebbe mai passata, il quadro è davvero desolante. Appare chiaro che sia una riforma totalmente da respingere. Torniamo un attimo, per concludere, a quelle che potremmo chiamare le parole chiave di questo periodo, velocità, decisione… Sì, la velocità. Abbiamo anche troppe leggi, come è stato detto da tutti. Non è che ne dobbiamo approvare ancora. Ci vorrebbe un po’ più di riflessione sulle leggi che approviamo, perché le approvano in velocità e poi si accorgono che sbagliano. Come adesso: l’Italicum è sbagliato? Ma se l’hai appena approvato! Non potevano pensarci meglio, invece di andare veloci, forzando il dibattito parlamentare? Democrazia vuol dire riflessione, ponderazione degli interessi in gioco -necessariamente divergenti perché la realtà sociale è complessa e frammentata- sforzo per comporli fra loro mediando fra le diverse posizioni. Si chiama parlamento perché si parla. C’è una discussione. E questa certamente rallenta i tempi. Ma allora cosa facciamo? Facciamo prendere le decisioni a uno solo? Ma allora siamo fuori dalla democrazia, entriamo in un diverso regime. A parte poi che se vogliono le leggi le approvano con una velocità fulminea. Quando c’era Berlusconi, tutte le leggi che servivano al suo interesse sono state approvate in men che non si dica: il falso in bilancio, l’abbreviazione dei termini di prescrizione dei reati, la legge sulle rogatorie internazionale. Tutto in pochissimi giorni. Al fondo, però, credo che il problema più grave riguardi la cultura politica. Spesso le decisioni sono assunte da parlamentari che non conoscono niente, in primo luogo non conoscono la Costituzione. Come si possono fare leggi che devono essere in armonia con la Costituzione se non la si conosce? Non conoscono la storia e spesso ignorano persino la realtà in cui operano, il momento attuale, i bisogni della società! Una volta i partiti preparavano la futura classe politica, c’erano serie scuole di formazione. Adesso imbarcano nelle liste -accanto a politici seri che per fortuna esistono ancora- anche persone impreparate che vedono la politica come mestiere e restano abbarbicati alla sedia non avendo sbocchi professionali migliori. Alla fine questo è il punto: le leggi non sono pensate, non sono ragionate, sono fatte affrettatamente da persone poco competenti e senza riflessione. Insomma, la velocità col pensiero ha poco a che vedere. Si cita spesso la complessità odierna. Ma una realtà complessa non può prestarsi a semplificazioni pericolose che alla fine portano a decisioni autoritarie perché assunte senza contraddittorio efficace, senza tener conto delle posizioni diverse e degli interessi sacrificati, imposte agli altri grazie alla forza di numeri magari dovuti a premi illegittimi. (a cura di Gianni Saporetti) una città 13 discussioni I TRENTA GLORIOSI CHE NON TORNERANNO Una riforma modesta, che non prevede le due cose che rafforzerebbero veramente l’esecutivo: la sfiducia costruttiva e la possibilità del premier di sciogliere le camere, presenti nelle costituzioni tedesca e spagnola; una globalizzazione devastante e una situazione economica senza precedenti che impoverisce il ceto medio favorendo la crescita di movimenti populisti; il declino probabile dell’Italia e un’esile speranza, legata all’esito positivo del referendum. Intervista a Michele Salvati. Michele Salvati è un economista, politico e politologo italiano, deputato dal 1996 al 2001 e primo teorizzatore del Partito democratico. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo Tre pezzi facili sull’Italia. Democrazia, crisi economica, Berlusconi (Il Mulino, 2011) e Capitalismo, mercato e democrazia (Il Mulino, 2009). Il combinato riforma costituzionale e riforma elettorale ha suscitato tanti sospetti. Lei cosa ne pensa? Il punto dolente, dove c’è uno strappo, un atto di fiducia eccessivo nel sistema politico italiano, è quello della legge elettorale, non quello della riforma costituzionale, che è una cosa modesta, diciamolo molto francamente. Le modificazioni importanti che fa questa riforma sono fondamentalmente due: l’eliminazione del potere di fiducia del senato e la sua trasformazione in camera delle regioni, o delle autonomie, e in secondo luogo la modifica delle prerogative delle regioni eliminando i casi di sovrapposizione netta tra regioni e stato dovute alla riforma del Titolo V, che assegnava poteri importanti alle regioni anche seguendo una moda allora prevalente di andar dietro alla Lega. Quindi la riforma costituzionale di per sé è relativamente modesta: una riforma che avesse voluto accrescere sul serio i poteri del premier e del governo, a mio avviso anche abbastanza saggiamente, avrebbe introdotto la fiducia costruttiva e la capacità di scioglimento del parlamento in capo al premier; condizioni presenti entrambe in due costituzioni sicuramente eccellenti come la tedesca e, a seguito di quella, la spagnola. i Cinque stelle si sono tirati indietro, quando in realtà sarebbero i favoriti da una legge elettorale come l’Italicum Dopo la repubblica di Weimar, di scioglimento in scioglimento del parlamento (dovuti alla congiunzione delle opposizioni entrambe contrarie al governo, però impossibilitate a mettersi d’accordo tra loro), si arrivò a Hitler. Di qui la sfiducia costruttiva: non puoi sfiduciare il premier se non hai 14 una città già pronta un’altra coalizione che è un po’ il problema che avremmo noi se dovessimo ritornare a un sistema puramente parlamentare nel quale bisognerà, nella buona sostanza, mettere insieme tutti quelli che sono contro i Cinque stelle. Il che naturalmente non farebbe altro che dare ulteriore fiato ai Cinque stelle, per nulla pronti a governare ma prontissimi ad approfittare dell’insoddisfazione dei cittadini di fronte alle performance molto modeste sia di questo governo che dei precedenti. È questa la prospettiva che lei intravede nel caso che vinca il no? Beh, in una situazione di incapacità di crescita dell’economia, che poi è il guaio grosso che abbiamo, un’incapacità che dura ormai da una ventina d’anni e non dà segni di finire, molto probabilmente se salta il referendum e con esso quasi necessariamente l’Italicum, la nuova legge elettorale che si farà sarà giocoforza una legge più di tipo proporzionale. Il rischio, quindi, della formazione di uno schieramento abbastanza raffazzonato di personaggi che vogliono continuare a governare, sarà molto forte. Saggiamente, dal loro punto di vista, i Cinque stelle si sono tirati indietro, quando in realtà sarebbero i favoriti da una legge elettorale come quella approvata dalla Camera in luglio, sia perché sono avanti nei pronostici, sia soprattutto perché nel probabile ballottaggio le destre voterebbero per loro; lo si è già visto. Ma stranamente preferiscono ancora un periodo, diciamo, di macerazione dell’assetto tradizionale in modo da aver più tempo per prendere contatti con persone che diano almeno l’apparenza di saper governare un sistema complesso come l’Italia. Al momento loro non hanno nessuno, però stante la predisposizione di molti tecnici e intellettuali italiani a correre in soccorso del vincitore, anche i Cinque stelle potrebbero mettere in piedi un’apparenza di governo. Ma questo non adesso, donde loro continuano una sorta di aventino, votano contro l’attuale legge elettorale e aspettano di vedere che tipo di governo potrà formarsi con una legge elettorale diversa di tipo proporzionale. Questa è un poco la situazione come la vedo adesso. Di qui la mia predispo- sizione per il sì. Ma la sua analisi parte dall’economia e, se si può dire, dallo stato del mondo globalizzato, un’analisi niente affatto ottimistica… Sì, nel saggio cui lei, credo, fa riferimento, espongo la mia idea su un programma che sia democratico quanto è possibile nella situazione attuale. E l’ho scritto proprio per reazione a tante pubblicazioni recenti che parlano di crisi della democrazia, o comunque di una situazione attuale senza via d’uscita da un punto di vista democratico. Ora, che la situazione sia più sgradevole per la gran parte dei cittadini, meno vicina alle loro esigenze materiali, di quanto lo sia stata nel periodo tra la fine della Seconda guerra mondiale e gli anni Ottanta, il periodo del nostro grande sviluppo, su questo non c’è il minimo dubbio. la stessa persistenza dei grandi partiti va ricondotta alle condizioni molto favorevoli della situazione internazionale Ma questo non era merito della democrazia, c’erano i grandi partiti naturalmente, ma la stessa spiegazione della persistenza di questi grandi partiti va ricondotta semplicemente alle condizioni estremamente favorevoli della situazione internazionale. Era una situazione in cui il grande gruppo dei paesi capitalistici avanzati cresceva al 4, 5, 6 per cento. La pattuglia era guidata da una leadership liberal americana che aveva ben presente i guasti fatti tra le due guerre e aveva ben presente che la cruciale competizione con il mondo comunista, con l’Unione sovietica, si decideva sulla dimostrazione che un sistema liberale era altrettanto in grado di creare benessere e piena occupazione di quanto lo fosse l’Urss. Ricordiamoci che la situazione non era così chiara alla fine della Seconda guerra mondiale. La competizione dell’Urss era molto forte, perché lì non c’era disoccupazione, c’era un modestissimo benessere che però stava crescendo, c’era una crescita economica incredibile che si manifestava soprattutto in campo militare ma non solo in quello. Tutto questo preoccupava gli occidentali e i libe- discussioni rali. Di qui il governo da parte di una elite liberal che aveva fatto proprio il grande insegnamento di Keynes, la possibilità di sviluppare un’economia di mercato ma in condizioni di piena occupazione, da cui il ruolo dello stato, il ruolo del welfare, eccetera. Marx sarebbe felice di questa situazione, la sua idea era che quando il capitalismo fosse diventato un sistema mondiale... Allora, gran parte del rimpianto per i grandi partiti di massa di allora aveva più a che fare con questa particolare situazione economica, e gran parte dell’esecrazione che c’è adesso nei confronti dei partiti al governo, siano essi socialisti o conservatori è dovuto a una situazione economica molto diversa che è venuta ad attuarsi a livello internazionale a partire dalle vittorie di Thatcher e Reagan nel ’79 e sempre più chiaramente negli anni Ottanta e dopo: lo sbrigliamento delle capacità del capitalismo e della finanza sull’intero quadro mondiale. Se fosse vivo, Marx sarebbe felice di questa situazione, la sua idea, infatti, era che quando il capitalismo fosse diventato un sistema mondiale, allora sarebbe diventato mondiale anche il numero dei suoi potenziali becchini, cioè gli operai. Le cose non sono andate propriamente così, però grossomodo la previsione di Marx sulla capacità espansiva del capitalismo si è avverata. Prima questa era rimasta frenata perché un sistema di controllo della finanza, dell’esportazione dei capitali, come imposto a Bretton Woods nei grandi accordi del ’44, la impedivano; gli stati erano liberi di chiudere le frontiere all’esportazione di capitali, sia a breve che lungo periodo. Adesso non più, si è data mano libera, la deregolazione è stata completata sia a livello interno sia internazionale e i suoi effetti si vedono. Si sono messi in concorrenza tra loro i lavoratori dei paesi poveri ma con grandi capacità tecnologiche potenziali, cinesi soprattutto, con i lavoratori dei paesi ricchi, in particolare quelli dello strato intermedio, con grado di istruzione modesto. Mentre invece chi è stato favorito sono stati i ceti alti, sia a livello tecnico sia, soprattutto, a livello finanziario e manageriale. E questo ha creato una situazione di disagio in tutti i paesi a cominciare dagli Stati Uniti. Il fatto che negli Stati Uniti sia candidato un personaggio dell’estrema destra come Trump, e dall’altro lato lo sarebbe potuto diventare Bernie Sanders, uno che praticamente porta avanti un programma quasi socialista, cosa inaudita negli Stati Uniti!, è il segnale di una profonda instabilità; una grave spaccatura si è aperta fra i lavoratori intermedi (la chiamano middle class ma stanno tra i primi livelli operai e impiegatizi) spazzati via dalla rivoluzione informatica e un’insieme di ceti relativamente bene- stanti. Se persino negli Usa è avvenuto questo, che è il paese che più ha beneficiato dall’ultima rivoluzione tecnologica, quella informatica e delle telecomunicazioni, immaginiamoci in tutti gli altri paesi. Allora, in una situazione come questa, con tassi di disoccupazione molto alti e con poche chance per i giovani, se i partiti, lo metto tra molte virgolette, ragionevoli, sia del centrodestra che del centrosinistra, non si scagliano contro questa situazione, sono destinati ad avere grossi problemi con i movimenti populisti che inevitabilmente sorgono quando la gente sta male. Quando la gente sente minacciata l’occupazione dei propri figli, è ovvio che tende a credere in una serie di sbruffoni che dicono di voler cambiare tutto, ma evitando accuratamente di dare un’idea ragionevole e funzionante del possibile diverso sistema economico e politico che metterebbero al posto di questo che vogliono scassare. L’Europa? L’Europa fa dei tentativi maldestri. Semplicemente non ha il coraggio, e non può averlo, di venire direttamente in aiuto dei suoi paesi più deboli perché questo comporterebbe una sanzione immediata da parte dei paesi più ricchi: “Sperperate i soldi che noi industriosi tedeschi”… Non è possibile in Europa la cosiddetta transfer union, l’unione dei trasferimenti per cui una parte del paese dà soldi a un’altra parte. Immaginiamoci, non funziona nemmeno in un paese unificato come l’Italia. Le obiezioni che ha fatto la Lega ai soldi per il Mezzogiorno sono altrettanto virulente e forti di quelle che fa la Germania nei confronti dei soldi all’Italia. E se neanche noi, dopo più di un secolo e mezzo di unità, siamo riusciti a risolvere questo problema, a spegnere la potenziale incompatibilità tra nord e sud, immagini se lo si può fare a livello internazionale, dove non c’è quantomeno un ceto politico, intellettuale, di opinione pubblica che legga gli stessi giornali, che voti per gli stessi partiti, ecc. In Europa ogni paese deve cavarsela per conto proprio. Alcuni paesi ce la fanno meno di altri, l’Italia per una serie di ragioni idiosincratiche su cui non entro adesso ce la fa meno di altri paesi, quindi è fortemente a rischio. Uscire dall’Europa aiuterebbe o aggraverebbe la situazione? Intanto va detto che l’uscita dall’Europa è un rischio che c’è. Il problema è che se noi uscissimo dall’Europa, o per qualche cataclisma internazionale, per un attacco della finanza internazionale o per altri motivi, dalla padella salteremmo nella brace. Perché le regole che valgono a livello internazionale sono quelle che l’Europa cerca di imporci. L’Europa cerca di imporci le regole il cui rispetto taciterebbe la finanza internazionale, che poi, essendo ormai unificata, non dimentichiamolo, è fatta, anche, certo, da finanzieri d’assalto, ma per la gran parte dai fondi pensioni e d’investimento dove abbiamo messo i nostri risparmi, fondi che decidono a livello internazionale dove è meglio investire. Ma c’è un altro aspetto della globalizzazione divenuto preoccupante per la gente normale: l’immigrazione. Che l’immigrazione, specialmente da paesi musulmani o comunque molto lontani dai nostri costumi, crei problemi allo stato di benessere della gente e non solo a quello, è un fatto ovvio, inutile nasconderselo. Che quindi movimenti populisti contro l’immigrazione o contro la finanza internazionale emergano è altrettanto ovvio. Quel che non vedo sono i rimedi proposti da chi ha invece una posizione più di classe, come si diceva una volta. Noi non ritorniamo a una situazione come quella dei Trenta gloriosi, degli anni subito dopo la guerra. Non possiamo ritornarci. O, se ci ritorneremo, sarà per qualche cataclisma internazionale come quelli che hanno determinato i grandi spostamenti, i grandi riorientamenti del mondo capitalistico. Io mi rendo conto che la situazione è drammatica e molto pesante per i ceti più poveri e meno colti e meno attrezzati. Lo è negli Usa, lo è da noi, ma anche in Francia. Sono i poveri che combattono contro i poveri. Bisognerebbe bloccare la globalizzazione, pesantemente, ma questo l’Europa non lo farà mai. la concorrenza tra i lavoratori dei paesi poveri ma con grandi capacità tecnologiche e i lavoratori dei paesi ricchi Detto questo chiedo: se l’Europa fosse uno stato veramente democratico, e potesse votare, lei crede che la situazione cambierebbe molto? Se i cittadini europei nel loro insieme fossero in grado di scegliere un vero governo europeo, invece di lasciarlo semplicemente al Consiglio europeo fatto dai capi di governo; se avessimo un vero parlamento europeo, in cui competessero partiti europei come avviene negli stati nazionali; se all’improvviso questi fenomeni di insufficiente fiducia di un paese nei confronti dell’altro, di insufficiente grado di fraternità (è la terza parola del famoso trittico francese, ma enormemente importante, una democrazia c’è soltanto quando ci sono dei livelli di fraternità tali per cui una decisione del governo anche se danneggia una serie di ceti interni è accettata da tutti); ebbene, se ci fosse tutto questo, lei si immagina che una decisione a livello europeo che danneggia lo stato italiano, o quello francese, o quello tedesco sarebbe accettata da tutti? Ma anche se arrivassimo a un grado di democrazia europea di questo genere, cosa del tutto implausibile, lei pensa che il governo eletto sarebbe un governo di sinistra? Mah! una città 15 discussioni Ho grandi dubbi. Sarebbe un governo come quello italiano che risponde in parte dando delle mance al Mezzogiorno, e poi fa gli interessi degli industriali del Nord e comunque dei finanzieri, e sarebbe un governo dominato dalla Germania, che è di gran lunga il potere più forte. Alla luce di tutto questo a me questo gran parlare, fissarsi su una democrazia che non funziona, ecc., cosa vuole che le dica, io la vedo più da economista politologo e sociologo: guardo ai fatti grossi e i fatti grossi non mi convincono che questo sia il problema principale. Ma anche se fosse, gli americani direbbero: “So what?”, e allora? Quali sarebbero le conseguenze? Crediamo veramente che riusciremmo a fermare l’impatto distruttivo della globalizzazione, del progresso tecnico scatenato su scala mondiale? Con una concorrenza con lavoratori che rimangono con bassi salari anche se ormai le loro capacità tecnologiche sono diventate altissime? Basta vedere chi fa i migliori telefonini oggi: sono i cinesi, con Huawei. il rischio è che i senatori non rappresentino le loro realtà territoriali e si allineino a spaccature politiche pregresse Ormai questi hanno raggiunto livelli tecnologici talmente alti che noi non saremo più in grado di imitare! E hanno salari bassi. Quindi possono consentirsi un’accumulazione formidabile. Ti sfornano un milione di ingegneri all’anno. Noi abbiamo una forza lavoro di una qualità bassissima se la confrontiamo con quella tedesca, inglese o francese. Insomma, pur da innamorati, come un po’ tutti siamo, della socialdemocrazia com’è stata nei trenta, quarant’anni del dopoguerra, dobbiamo convincerci che i famosi Trenta gloriosi non ritornano e non possono ritornare. E quindi di fronte a uno scenario del genere il referendum? Per quanto riguarda il referendum, io sono costernato dal livello di irritazione, spaccatura nel paese, da questo clima da guelfi e ghibellini che divide tra loro anche persone ragionevoli. Me ne rendo conto, in parte è stata colpa di Renzi, però non è che perché è colpa sua adesso dobbiamo votare sbagliato per punirlo. Certo che è stata colpa sua! So what? La colpa è già maturata, ha esagerato, ma quand’anche lui fosse stato il più possibile tranquillizzante e moderato, ma fermo sulle sue decisioni sia di riforma costituzionale che di legge elettorale, la canea contro di lui sarebbe stata diversa? Non attacchiamoci a quello, lui ha sbagliato, l’ha riconosciuto e amen. Però adesso come la mettiamo? Io le ragioni del mio moderato e non entusiasta sì le ho scritte da tutte le parti. Penso che la riforma costituzionale, e torno agli inizi, sia modesta, ma vada nella direzione 16 una città giusta e che molte delle continue critiche che le vengono rivolte, siano, se non del tutto speciose, rimediabili nel periodo di rodaggio che una riforma importante deve necessariamente avere. Se c’è la buona volontà potrebbero essere fatti opportuni ritocchi costituzionali in seguito. Il rischio vero che corriamo è che i senatori che avremo non rappresentino in modo efficace le loro realtà territoriali e si allineino a spaccature politiche pregresse. Ma dipende molto da come viene presa l’intera cosa: c’è anche la possibilità che si crei una dialettica positiva in cui, per darle l’idea, un lombardo dica, prima di far lega con una regione scialacquatrice: “Scusa un secondo, non faccio lega con te. Noi andiamo insieme per rivendicare i nostri poteri, però fammi il piacere, tu metti a posto i tuoi conti”. Essendo casomai dello stesso partito… Casomai dello stesso partito… Ma la mancanza del vincolo di mandato allora non è un errore? Ma non potevi darlo. L’unica cosa che si sarebbe potuta fare sarebbe stato che non erano i consigli che dovevano mandare in proporzione ai partiti rappresentati nei consigli, ma i governi regionali, gli esecutivi regionali, però è una cosa che non si poteva fare perché su 20 esecutivi regionali 18 sono del Pd e allora immaginiamoci cosa sarebbe successo. Questo sarebbe stato l’ideale. Potevamo prendere tutta l’esperienza del Bundesrat tedesco, ivi incluse tutte le modificazioni che ha avuto in seguito, perché poi anche quella non è stata un’esperienza senza contraddizioni; i dissensi di partito hanno operato eccome, e si è dovuta rimettere a posto con grandi riforme, però adesso è una cosa che funziona. Però questo non lo si poteva fare, semplicemente. Quindi rimane una speranza, che questi si comportino da rappresentanti veri degli interessi della loro regione. Poi ci sono altri rilievi, ma alcuni di questi sono piccolezze su cui la gente si accapiglia per niente. Non hanno il tempo necessario per andare a Roma? Ma facitemi ‘o piacere, come avrebbe detto Totò. Questi sono consiglieri regionali, adesso vedremo come è fatta la loro elezione ma ce ne saranno un paio, o tre, o quattro, a seconda delle regioni, che si specializzeranno su Roma e faranno fondamentalmente quello; il loro lavoro in consiglio regionale sarà minore, daranno il voto ma saranno in pratica distaccati. La riforma è piena di sfridi, come si dice dalle nostre parti, ma è stata fatta in grande fretta per una serie di ragioni politiche e di consenso che Renzi pensava di avere, questo sì, non lo nego. È talmente evidente che è così. Però, oggettivamente, qual era un’alternativa? Di riforma costituzionale si è discusso fino all’infinito nelle più diverse sedi. Dalla bicamerale, ai vari incarichi che sia l’ex pre- sidente della repubblica, Napolitano, aveva affidato ai saggi, sia quelli della commissione istituita da Letta. Si sono registrati dei punti di dissenso, però su alcuni punti il consenso c’era. Io sono stato nella bicamerale di D’Alema, ero parlamentare allora e le garantisco che un’esperienza più disastrosa e mortificante di quella raramente l’ho vista. ricordiamoci il detto famoso di Nenni: “Se fai il puro a un certo punto nella tua vita trovi uno più puro che ti epura” In realtà una cosa del genere fatta su base parlamentare, politica, non funziona. A meno che noi non vogliamo rifare la costituzione, ma potrebbe riprodursi quel consenso che un grande trauma come la guerra aveva indotto tra ceti politici di altissimo livello che sapevano che dovevano salvare l’Italia? No, certo. Se si voleva fare una riforma la strada era questa. Questa tutto considerato va nella direzione giusta, è abbastanza modesta, avrà dei problemi, nel senso che non rafforza sufficientemente l’esecutivo, su questo sono del parere di Berlusconi, o dei costituenti tedeschi e spagnoli. Ma un esecutivo fatto con il ballottaggio eviterà i problemi? Intendiamoci, non ho alcun dubbio sulla democraticità. A mio avviso le seconde preferenze valgono come le prime. Ma perché non ci siano problemi dovrebbero essere “vere” seconde preferenze, che vuol dire motivate da un’analisi accurata dei programmi dei partiti, per dar modo ai votanti al ballottaggio di scegliere a ragion veduta. Diamo il caso concreto che una buona parte dei votanti berlusconiani dica: “Toh, guarda, il programma del Pd ha molti punti di contatto con il nostro, voto per lui”, e che questa considerazione prevalga sulla voglia di prendersi una rivincita e fare i Brunetta. Il rischio del ballottaggio è quello: che facciano tutti i Brunetta, e votino contro qualsiasi programma. Qui sta il problema della seconda preferenza. Sì, questo può valere quando la scelta è fra due programmi, ma delle volte si può essere costretti a votare per chi ci piace poco per evitare che vada su chi non ci piace per nulla e addirittura ci fa paura. Anche in quel caso il mio voto al ballottaggio mi rappresenterebbe? Accetto l’obiezione, però io ho una concezione della politica come il meno peggio. Ripeto che la situazione migliore è quella in cui le seconde preferenze sono una scelta meditata tra due grandi partiti, tutti e due ragionevoli, e le cui ricette, tutto considerato, non sono troppo diverse l’una dall’altra. L’esempio tedesco è illuminante: tra il programma socialdemocratico tedesco e quello della Cdu le differenze non erano molto forti, e hanno potuto fare un grande accordo, e discussioni sensato, mettendo per iscritto su 130 pagine tutte le possibili leggi che avrebbero votato insieme e pure i punti ammessi di dissenso o i punti in cui un partito cedeva all’altro. Ma il paese si ritrova i cittadini e i politici che ha. E se i cittadini credono in massa a un programma populista, che grida: “Tutti a casa, mandiamoli via, fan tutti schifo, sono tutti disonesti”; se nel paese sembra sia diventata una categoria politica l’onestà e la disonestà quando non lo sono mai state -ricordiamoci il detto famoso di Nenni: “Se fai il puro a un certo punto nella tua vita trovi uno più puro che ti epura”- allora potresti essere costretto a votare il meno peggio. Ma anche in questo caso se al partito che va al ballottaggio attribuiamo una percentuale di “convinti” ragionevolmente sull’ordine del 28, 30 per cento, con un un’aggiunta di un altro 20 per cento di mugugnanti e menopeggisti, arriviamo al 51 per cento. Beh, però a quel punto chi avesse vinto avrebbe un parlamento dietro di lui. Stiamo parlando di Renzi. Per lei quindi varrebbe come investitura piena? Certo, e a quel punto si potrebbe vedere se veramente ha la stoffa. Adesso lui ha cercato di sopravvivere dando un’idea di quel che farebbe, ma in una condizione di estrema debolezza. Dovendo contrattare tutto, con quelli del centrodestra, dell’Ncd, e non dovendo scontentare però del tutto un’anima del partito che c’è. Io, per dire, amo molto Cuperlo, per quei suoi modi garbati e ai modi corrisponde anche un animus e, se devo dirlo, Renzi personalmente mi risulta un personaggio troppo arrogante e devo spegnere la tv quando parla perché se no mi arrabbio, però sulla sua linea politica io ci sono e ci sono in pieno. Ma non escludo affatto che possano esserci delle moderate aperture a sinistra da parte sua. Non lo escludo affatto. allora però il mio giudizio sarebbe che l’Italia, come diceva Mussolini o Giolitti, non è difficile da governare, è impossibile Nelle circostanze attuali, in cui lui non ha un’investitura elettorale sufficiente, deve sopravvivere. E da qui quelle scelte un poco demagogiche che gli rimprovera Monti. Ma un politico per sopravvivere in queste situazioni cosa deve fare? Ecco, io non gliele scuserei per nulla domani quando lui avesse una buona investitura. Allora no. E allora però il mio giudizio sarebbe che l’Italia, come diceva Mussolini o Giolitti, non è difficile da governare, è impossibile. Un paese di questo genere è destinata al declino. Io penso sia destinato al declino comunque, ho scritto vari libri sul declino, parlavo di declino quando tutti gli altri economisti non ne parlavano, quando era un errore parlarne. Oggi però dico che una piccola speranza ce l’ho ancora: che quando Renzi si sentisse sufficientemente forte, sarebbe forse in grado di prendere anche misure dure. Se vince il no? Se vince il no, si entra in uno stato di difficile governabilità, i nostri problemi veri, quelli di cui fa menzione Monti, rimarranno irrisolti. Se Monti spera che col proporzionale che verrà con la sconfitta del sì, potremo andare in direzione delle sue terribili misure di razionalizzazione, si sbaglia di grosso. In realtà penso che sappia benissimo che non avverrà così. Avverrà ancora peggio, ci sarà maggiore confusione. Probabilmente non ci saranno rischi a breve di un’uscita dall’Ue, ma si farà una coalizione appiccicaticcia fra Pd, pezzi di Forza italia che non accettano il viaggio comune con la Lega e con i Fratelli d’Italia, e Ncd. Forse riusciranno a silenziare un po’ Brunetta, chi lo sa, ma certamente sarà una cosa ancora più corriva nei confronti delle aspettative popolari e anche più debole di quanto non sia stato Renzi fino ad adesso. Di certo non sarà una cosa che potrà usare il pugno di ferro di un Monti, per intenderci, cosa di cui credo anch’io, in parte, ci sarebbe bisogno. Tutto qui. Ho dato l’idea? (a cura di Gianni Saporetti) Le foto: a pagina 9, un seggio per le elezioni della Costituente; a pagina 10, Aldo Moro tra La Pira e Dossetti durante i lavori per la Costituente; a pagina 13: un graffito a Roma contro la legge truffa del 1953; in questa pagina: risultati delle elezioni per la Costituente nel seggio di Osio Sopra (Bg). una città 17 problemi di scuola LA CLASSE CAPOVOLTA Fare i compiti la mattina in classe e ascoltare la lezione al pomeriggio: la casse capovolta, sistema adottato negli Stati Uniti e ora in Francia, per favorire un accompagnamento personalizzato che incoraggia la curiosità, l’autonomia e la responsabilità. Intervista a Marie Camille Coudert. Marie Camille Coudert, insegnante di fisica e chimica, da quest’anno è impegnata nel progetto Les Savanturiers del Cri (Centre Recherche Interdisciplinaires) di Parigi. Cosa sono le classi “inversé”? La classe “invertita”, capovolta, è una pratica pedagogica che cerca di affidare all’autonomia dello studente una parte dell’attività di trasmissione del sapere ponendola fuori dalla classe (di solito sotto forma di video da guardare a casa), così da dedicare il tempo trascorso in classe ad attività di gruppo e a un sostegno individualizzato. Le classi capovolte sono nate negli Stati Uniti. In Francia la prima volta che ne ho sentito parlare è stato tre anni fa. Mi sono incuriosita e ho cercato di saperne di più. Siccome da tempo sentivo il bisogno di avere tempo in classe per fare altre cose mi sono detta: proviamo. Ne ho prima discusso con il direttore della scuola. Dopodiché, all’incontro di inizio anno ho spiegato ai genitori come avrebbe funzionato. In Francia quando ho cominciato ero veramente fra i primi. Nella mia materia, fisica, eravamo in tre, poi il numero è cresciuto. Da due anni esiste anche un’associazione che si chiama “Inversons la classe” che ha messo gli insegnanti in rete. Nel 2015 hanno organizzato il primo congresso che ha visto partecipare circa duecento insegnanti; quest’anno c’erano circa ottocento persone. C’erano anche insegnanti italiani. Si stima che oggi in Francia siano più di un migliaio gli insegnanti che adottano la classe capovolta almeno una volta all’anno. È difficile avere delle stime precise perché molti lo fanno da soli nella loro classe. Devo dire che il mio non è stato l’approccio classico. I professori spesso sperimentano questa modalità per stimolare la motivazione degli studenti. L’approccio tradizionale, la lezione frontale infatti rischia di non andare in profondità: il ragazzo sta in classe, ascolta ma non apprende. Per alcuni insegnanti si tratta anche di andare incontro a un problema di uguaglianza. I compiti per casa infatti rischiano di aumentare le differenze. In questi pochi anni abbiamo potuto constatare che con le classi capovolte gli allievi dal rendimento meno soddisfacente progrediscono di più. Fare gli esercizi per uno studente che non ha una famiglia che lo segue, può essere complicato, perché magari non ha capito la lezione, non sa applicarla, stabilire dei nessi. Paradossalmente quello che si fa in classe è più facile. L’idea allora è di fare l’inverso: a casa gli si chiede 18 una città di fare cose semplici, vedere un video, ricopiare una definizione, mentre in classe si fanno le cose complicate. In questo modo i ragazzini che al pomeriggio sono a casa da soli non vengono penalizzati. Tu come organizzi le lezioni? Io ho un rapporto particolare con la scuola. Sono molto lontana dallo schema classico. Per me gli allievi devono poter fare quello che vogliono quando vogliono. Se desiderano procedere più speditamente propongo del lavoro ulteriore da fare a casa, se non vogliono, non sono obbligati. Anche in classe il tempo è libero, non sono costretti a lavorare se non vogliono. Bisogna anche mettere gli allievi in condizione di apprendere quando sono più efficaci. Per esempio quando ho un’ora di scuola dalle 13 alle 14, in cui praticamente dormono, è inutile cercare di fargli fare cose impegnative, invece a metà mattina è il momento ideale per lavorare. gli allievi devono poter fare quello che vogliono. Se vogliono procedere più veloci do del lavoro in più da fare a casa Il mio approccio è molto libero. Anche rispetto ai telefonini: esistono regolamenti scolastici molto rigidi che ne consentono l’uso solo durante la ricreazione. La maggior parte dei prof confisca gli smartphone. Nella comunità delle classi invertite i telefoni invece sono molto utilizzati, sono uno strumento di lavoro e devo dire che, a parte qualche caso molto raro, non abbiamo mai avuto problemi. Ormai dai quattordici anni hanno tutti un telefono cellulare, allora io dico: usiamolo! Per esempio, se un ragazzino non ha capito un concetto, posso dirgli: “Prova a guardare il video che ho caricato su youtube, vedi se ti aiuta...”. Per me la cosa più importante è responsabilizzarli. Io, per esempio, gli chiedo che cosa vogliono fare nei successivi quindici giorni: “Decidete su quale nozione volete lavorare e poi vi organizzate come preferite”, dopodiché possono vedere dei video, approfondire su internet, sui libri, l’importante è che il lavoro sia fatto. È un modo per dargli fiducia. Io sono lì per vegliare che scelgano degli obiettivi che non siano né troppo ambiziosi né troppo banali. Non solo lì per organizzargli il lavoro, questo lo debbono fare loro. Il lavoro in classe come funziona? Io ho due stanze: sta a loro scegliere dove andare. Gli studenti che sentono la necessità o il desiderio di lavorare in gruppi di due o tre ragazzi hanno la possibilità di stare soli in una stanza, dove possono stare tran- quilli e concentrarsi. Io sto nell’altra stanza, la classe tradizionale, dove rimangono quelli che vogliono lavorare con il professore. Parlo degli anni della secondaria. I più piccoli, fino ai 14 anni, stanno tutti nella stessa classe. In questi anni ho insegnato sempre a Parigi, prima nell’VIII arrondissement in una scuola molto favorita dal punto di vista culturale, con una certa élite sociale, e poi nel XX arrondissement che è un quartiere molto più misto socialmente. Ho sperimentato le classi capovolte in entrambi i contesti con risultati diversi. Gli studenti favoriti sul piano socio-culturale, anche quelli che avevano problemi di metodo, hanno compreso il principio della scuola. Parliamo di ragazzini che sanno segnarsi sul diario le cose da fare e sanno mettersi al lavoro. Nel XX già questo succede con più difficoltà: gli allievi scrivono nel diario, ma poi non lo aprono nemmeno! Non sono autonomi, ma non sanno nemmeno chiedere aiuto. Nella VIII ho registrato proprio un altro approccio: un ragazzo che non capisce qualcosa non esita a chiedere spiegazioni; in un contesto più critico, gli studenti non chiedono aiuto, sono molto passivi, rassegnati. Molto del tempo viene investito proprio per insegnargli a essere studenti. Dicevi che le classi capovolte permettono un approccio personalizzato. È soprattutto per questo che ho scelto la classe capovolta, per avere il tempo di personalizzare l’apprendimento, di fare un accompagnamento individuale. Quando hai trentacinque allievi, ti trovi ad aver a che fare con persone che apprendono in maniera diversa e con tempi diversi. Offrire lo stesso corso a tutti non funziona. Con la lezione tradizionale io mi sono accorta che a seguirmi davvero erano tre o quattro allievi, e tutti gli altri? Di qui l’idea di sperimentare un altro modo. Come dicevo, nelle mie classi sono gli studenti a decidere su cosa lavorare all’interno di un ventaglio di opzioni. Una volta che hanno deciso, io controllo i risultati e li faccio lavorare in funzione degli errori che hanno fatto. Ogni volta che si può faccio sì che si aiutino tra di loro “Guarda, hai fatto lo stesso errore che aveva fatto tizio, fattelo spiegare da lui”. Lavorare sugli errori è fondamentale, già questo costringe a personalizzare. In questo modo seguo passo passo quello che hanno compreso i miei allievi rispettando il loro ritmo di apprendimento. Attenzione, il lavoro è modulato sui loro deficit, ma anche sulle loro ambizioni. Gli al- problemi di scuola lievi che vogliono fare i “prépa”, le classi preparatorie che conducono dalla maturità alle Grandes Écoles, hanno bisogno di avere una formazione diversa da chi intende fermarsi al Bac, il Baccalauréat, il diploma. Questi gruppi di tre, quattro studenti, formati mettendo assieme livelli di apprendimento compatibili, fanno sì che nessuno sia penalizzato: chi ambisce ai prépa viene aiutato ad andare più lontano; chi ha altri programmi e magari più difficoltà può a sua volta andare a un ritmo più lento ed essere seguito. È un metodo molto radicale, quanto è diffuso? Siamo pochissimi. Il mio metodo è molto diverso da quello adottato normalmente. Io sono andata molto avanti nell’autonomia degli allievi e nella loro responsabilizzazione. Teniamo presente che anche all’interno del movimento delle classi capovolte c’è una gamma di possibilità molto ampia, si va dal professore che semplicemente indica quale video guardare al pomeriggio a chi, come me, punta alla massima autonomia. In genere i professori che scelgono la strada della classe capovolta lo fanno concedendo un’autonomia che cresce gradualmente. Quello che tutti verificano è che gli allievi avanzano di più se responsabilizzati. Quali sono i risultati e i problemi? I risultati sono difficili da misurare, anche perché non esistono valutazioni esterne. Personalmente, ho l’impressione che i miei allievi siano complessivamente migliori, e che quelli più bravi siano nettamente migliori. I mediocri sono più o meno nella media, mentre i peggiori sono meno peggiori degli altri. Quindi direi che di questo metodo trae vantaggio chi va molto bene e chi va male; gli altri restano nella media. Quando ho iniziato a insegnare avevo mediamente una decina di allievi per classe a cui proprio non riuscivo ad arrivare, oggi sono uno o due: con la classe capovolta è nettamente diminuita la quota di allievi che non sono attivi, che non si sentono protagonisti. con la classe capovolta è nettamente diminuita la quota di allievi che non sono attivi, che non si sentono protagonisti È per questo che non tornerei indietro. Inoltre migliora moltissimo il clima in classe: gli studenti sono contenti di venire a scuola e c’è molto aiuto reciproco fra di loro. Alla fine dell’anno tutti gli studenti mi hanno detto di non aver mai avuto un ambiente di studio migliore. Nella classe capovolta, si sperimenta un grande aiuto reciproco non solo all’interno dei gruppi, ma anche fra i gruppi più avanti e quelli meno. Così il sapere circola e c’è un apprendimento reciproco. Veniamo ai problemi. Questo metodo richiede un cambiamento di attitudine da parte dell’allievo. Lo studente classico, se può, si mette in fondo alla classe, vicino al termo- sifone, ascolta un po’ e poi si distrae; l’insegnante classico, durante la sua lezione, lo richiama, cerca di attrarne l’attenzione. Ecco, qui c’è un problema perché con il mio sistema se si mettono in fondo alla classe e non fanno niente, semplicemente l’apprendimento è nullo. Questo è difficile da far comprendere agli alunni: loro tendono a essere passivi, aspettano che sia il professore a offrirgli le conoscenze. Io invece voglio che siano loro a chiedere, a diventare attori della loro formazione. È molto difficile per certi allievi e per alcuni è quasi impossibile. Quei due o tre che non si lasciano coinvolgere ottengono un risultato peggiore che nel sistema tradizionale. Questo va detto. D’altra parte io credo molto nell’apprendimento attraverso la ricerca. Il progetto Les Savanturiers (un gioco di parole fra savant e aventure) in cui oggi sono impegnata è volto proprio ad aiutare le istituzioni e i professori a costruire una scuola più ambiziosa fondata sulla ricerca e la cooperazione. Il lavoro dell’insegnante cambia completamente. Sì, il nostro mestiere cambia molto e all’inizio può essere faticoso. Anche per questo i colleghi iniziano offrendo poca autonomia e poi la aumentano. Anch’io ho impiegato un po’ di tempo, però i risultati sono stati molto incoraggianti, si valorizza proprio la classe. In quest’ottica di un accompagnamento quasi individuale, la relazione umana insegnante-allievo diventa veramente il cuore del mestiere, molto di più che non la preparazione delle lezioni. Il tempo trascorso con gli allievi diventa molto appassionante e stimolante. I genitori? Anche in Francia non è più come un tempo quando la scuola era sacralizzata. I genitori sono molto critici con gli insegnanti. Soprattutto nell’VIII arrondissement c’era un’enorme aspettativa da parte dei genitori rispetto ai figli e quando arrivava un brutto voto a volte nascevano dei conflitti. Davanti ai cambiamenti, a volte i genitori fanno resistenza anche perché temono di non sapere aiutare i loro figli. Attraverso il dialogo, credo di essere riuscita a spiegare in modo concreto che cosa l’allievo dovesse fare e come potevano aiutarlo, ad esempio assicurandosi che vedessero i video, che guardassero le le loro agende, cose molto semplici e precise. Una volta superato l’ostacolo iniziale, anche i colleghi mi confermano un ritorno positivo fra i genitori della classe capovolta. Anzi direi che i genitori sono piuttosto contenti perché capiscono che così c’è la possibilità di una personalizzazione. Questo aspetto è molto apprezzato: finalmente si inizia a lavorare a una scuola su misura per loro figlio. Direi che abbiamo più problemi con le istituzioni. L’istituzione considera molto positiva la classe invertita, a parole dice di volerla valorizzare, ma poi magari ti chiede di ral- lentare per non mettere in difficoltà i colleghi che non sono in grado di adottare questo metodo. Così però gli insegnanti più intraprendenti rischiano di essere lasciati soli... Inoltre non tutti hanno gli strumenti e le capacità. C’è anche un problema di qualità degli insegnanti. Sarkozy nel 2012 ha soppresso la nostra formazione. Hollande ha reinserito la formazione pedagogica, ma dopo tre anni non siamo ancora a regime. direi che i genitori sono piuttosto contenti perché capiscono che così c’è la possibilità di una personalizzazione Oggi, dopo aver vinto il concorso, gli insegnanti per un anno passano metà del tempo a scuola e l’altra metà seguendo dei corsi di livello universitario per apprendere la pedagogia. Dopodiché si entra in un percorso di formazione continua. Io ero entusiasta di quest’idea, la delusione è arrivata quando abbiamo scoperto che questi formatori spesso non avevano mai insegnato. Insomma il problema resta ed è grave perché una formazione di cattiva qualità finisce per demotivare gli insegnanti: quando ti chiedono di trascorrere una giornata ad ascoltare qualcuno che non parla dei tuoi problemi quotidiani, ti passa proprio la voglia di andarci! In una società sempre più composita, la scuola riveste una ruolo cruciale... Credo che abbia un grande ruolo, ma anche che si pretenda troppo. L’ultima scuola in cui ho insegnato era privata e tuttavia c’era un documento-guida per la salvaguardia dell’eterogeneità sociale. Un’attenzione rara nel privato. In quella scuola le cose funzionavano molto bene, c’erano allievi di tutti i colori e di tutte le confessioni. L’ultimo anno, gli attentati hanno messo a dura prova la comunità scolastica e direi l’intero quartiere: la presenza in classe di allievi musulmani ha messo in crisi tutti, loro compresi. Io avevo scelto quella scuola proprio per queste caratteristiche, perché c’era l’intera società. Però davvero, è stata dura. In Francia abbiamo un grave problema di segregazione geografica e purtroppo le scuole ghetto rischiano di essere le più penalizzate, perché gli insegnanti cambiano ogni anno, nessuno vuole rimanerci a lungo. Nella prima banlieue parigina, Créteil, Versaille, dove c’è una situazione sociale disagiata, e dove quindi ci sarebbe un gran bisogno di professori bravi, oggi ci finiscono soprattutto stagisti e insegnanti all’inizio della loro carriera. Gli insegnanti più anziani o più esperti chiedono di andare nelle scuole più socialmente favorite: vorrebbero andare tutti a Nizza, Montpellier e nessuno a Saint-Denis! Dopodiché si chiede alla scuola di fare l’integrazione: non è facile! (a cura di Bettina Foa e Barbara Bertoncin. Traduzione di Cesare Panizza) una città 19 buone pratiche IL PRESENTE DELLA VECCHIAIA L’avvicinamento alla vecchiaia, un passaggio segnato da paure e inquietudini, ma anche dalla conquista di un inedito senso di liberazione: dai tempi coatti, dal giudizio degli altri e anche, a volte, dagli oggetti del passato; l’importanza di un gruppo in cui condividere preoccupazioni anche molto materiali, ma anche la messa a fuoco di cosa vogliamo farne di questi anni comunque pieni di vita. Intervista a Marina Piazza, Antonella Nappi, Francesca Rossi e Simona Sieve. Marina Piazza, Sisa Arrighi, Laura Aveta, Chiara Baratti, Anna Bertola, Ornella Bolzani, Gabriella Buora, Caterina Casula, Lia C., Nicoletta Chizzoli, Cecè Damiani, Franca Fabbri, Tina Ferrari, Foberta Fioroni, Maria Grazia Longhi, Simonetta Jucker, Marisa L., Clara Mantica, Lia Miniutti, Antonella Nappi, Marilena Quarello, Daniela Ravasi, Francesca Rossi, Carla Sanguineti, Simona Sieve, Sonia Tsvrenis hanno partecipato a un ciclo di incontri e confronti tra donne sulla vecchiaia. La trascrizione “riveduta” di questi incontri ha dato vita al volume Incontrare la vecchiaia. Guadagni e perdite, a cura di Marina Piazza, edito da Lud, Libera Università delle Donne 2016. Marina Piazza, Antonella Nappi, Francesca Rossi e Simona Sieve ne hanno discusso con noi. Per un paio d’anni, alla Libera Università delle Donne di Milano, un gruppo di donne si è incontrato per parlare della vecchiaia. Potete raccontare? Marina. Il gruppo è nato su sollecitazione di Lea Melandri; dopo l’uscita del mio libro L’età in più è stata lei a propormi di organizzare un gruppo sulla vecchiaia. All’inizio io, che consideravo quel libro come un fatto molto personale e il processo di invecchiamento un processo individuale e singolare, ero un po’ incerta, ma poi mi sono convinta che poteva essere bello e utile mettere in comune i pensieri. Così ho fatto girare un po’ di mail e nel giro di poco tempo si è costituito questo gruppo di una ventina di donne. Ci siamo riunite da novembre 2013 a maggio 2015 con una presenza costante e anche puntuale. Devo dire che fin da subito c’è stata un’adesione molto forte. Molte donne hanno subito riconosciuto la necessità di uno scambio, di un confronto. Dall’altra parte è emersa fin da subito anche una specie di paura, di resistenza di fronte alla parola “vecchiaia”. Anche l’altro giorno durante una presentazione una signora ha detto: “Per carità, questo termine è terribile, perché avete usato quella parola?”. C’è una specie di pregiudizio verso questo termine; allora se ne inventano altri, come appunto “senior” al posto di anziano, o, come 20 una città propone Laura Balbo, “post-adulto”. Io invece ho molto rivendicato l’uso di questa parola perché ho l’impressione che una certa intolleranza per la propria vecchiaia, questa difficoltà a definirsi vecchi, segnali un’intolleranza verso la vecchiaia degli altri. Qual è stato il vostro percorso? Marina. Parliamo di venti donne dai 60 ai 78 anni. Abbiamo intanto preso consapevolezza dell’esistenza di fasi molto diverse: i sociologi oggi parlano di “giovane vecchiaia”, “media vecchiaia”, e “grande vecchiaia”. Noi ci siamo concentrate sul periodo dell’invecchiamento, cioè dell’incontro con la vecchiaia, che, a mio parere, è il periodo forse più forte, più inquieto, perché vai incontro a qualcosa che non conosci, e questo genera molto turbamento. Il nostro percorso è stato proprio sul filo dell’indagine su questa inquietudine, che abbiamo cercato di guardare da vicino. Perché tu passi da una fase in cui pensi di essere padrona di te stessa, della tua autonomia, della tua indipendenza, eccetera, a una fase in cui intravedi la minaccia di caduta nell’impotenza, magari reale o magari immaginata. Ecco, potrei dire: ci siamo messe in ascolto, non solo con le orecchie ma con l’anima, sperimentando una modalità che potrei chiamare di com-passione, e cioè di condividere la passione. il tema delle relazioni: i figli, le amiche, gli amici, e ovviamente la solitudine e anche la sessualità È stata un’indagine per capire quali potessero essere gli strumenti per affrontare l’inquietudine che si prova quando ci si inoltra in un territorio sconosciuto, inabitato e all’apparenza inabitabile perché spesso ci viene rimandato dall’esterno come un tabù (la vecchiaia come negazione della giovinezza, come “negativo”). Questo all’interno di uno scenario basato sull’idea che l’esistenza alla fine sia caratterizzata da un’incessante metamorfosi per gestire la quale non ci sono modelli. Ma in un certo senso la nostra generazione è caratterizzata dall’essere senza modelli, senza modelli nella nostra vita adulta, senza modelli anche ora. Siamo donne in ricerca. I primi incontri li abbiamo dedicati a capire chi eravamo: l’età, il lavoro, il non-lavoro, le aspettative... Dopodiché abbiamo cominciato a lavorare sulle perdite, ma anche sui piccoli guadagni, quelli che abbiamo chiamato, riprendendo il titolo del libro di Françoise Héritier, “il sale della vita”. Abbiamo affrontato anche il tema delle relazioni in famiglia: i figli, le amiche, gli amici, e ovviamente il tema della solitudine e anche quello della sessualità. Abbiamo lavorato molto sulla capacità di ricevere e di dare, di chiedere, di farsi aiutare. Infine ci siamo interrogate sul senso politico dell’invecchiare, sul posto dei vecchi nella nostra società: “che cosa ne facciamo di quest’ultima parte della nostra vita?”. Francesca. Io sono stata subito molto attirata da quest’opportunità. All’epoca avevo passato i sessant’anni ed ero in pensione da un paio d’anni. Ho lavorato per quarant’anni; facevo l’impiegata, ma ho fatto anche la delegata sindacale e già allora mi chiedevo: “Che cosa farò dopo? Chi sono io dopo?”. Ero quindi in una fase un po’ così: mi buttavo su quello che trovavo in città. Devo dire che al cinema, a teatro non esitavo a dire: “Ho la riduzione vecchiaia!”. So che alcune donne si vergognano, piuttosto pagano la tariffa intera. Qualche esercizio sta alzando la soglia ai settant’anni: è un segno dei tempi. Quello che fin da subito mi ha colpito è che ai vari eventi cui mi trovavo a partecipare, erano tutti della mia età o più vecchi! Io partecipo a dei gruppi di lettura in biblioteca, ecco, le persone giovani sono rare, vuoi perché lavorano oppure non hanno tempo. Questo mi dispiace. Antonella. Io sono molto interessata alla vecchiaia, soprattutto alla cosiddetta “grande vecchiaia”. Mi verrebbe infatti da dire che dai sessanta ai settantacinque anni si tratta semplicemente di adulti: lasciali faticare. Dopo gli ottanta, gli ottantacinque, gli acciacchi invece ci sono e possono essere gravi… Purtroppo nel nostro paese sembra che nessuno voglia vedere la vera vecchiaia, quella in cui si torna bisognosi come bambini. Ecco, cosa ne fai di queste persone? Ecco, tutte queste cose messe assieme vanno a scalfire un po’ quella che è la percezione che hai di te stessa, la tua relazione con gli altri. Dicevi che siete partite dalla percezione delle mancanze, delle perdite... Marina. Soprattutto Sonia, la più vecchia tra noi (adesso ha ottant’anni) ha messo sul tavolo questa percezione delle perdite: diventi un po’ sorda, ci vedi peggio, magari devi subire un intervento (a me è capitato all’anca), insomma tanti piccoli malanni, a volte anche grandi: una di noi ha avuto un ictus. diventi un po' sorda, ci vedi peggio, magari devi subire un intervento (a me all’anca), insomma tanti piccoli malanni Questo dato di realtà ti interroga e ti mette in crisi rispetto a una percezione di vitalità, di energia, di autonomia. Il corpo nella nostra generazione è sempre stato vissuto come qualcosa di molto forte, che si poteva anche trascurare. Ecco a quest’età il corpo invece reclama la sua presenza, diventa quasi uno stregone con cui devi fare i conti. Personalmente ho trovato interessante anche il fatto che la questione dell’estetica praticamente non sia stata quasi tirata fuori, probabilmente è più un problema delle cinquantenni, quando cominci a registrare i primi cambiamenti esteriori. Abbiamo comunque cercato di far venir fuori questo intreccio delle perdite e dei guada- Giancarlo Gallo/Flickr Perché o gli permetti di morire molto bene, quando lo desiderano, o progetti un’assistenza civile, relazionale e umana, che però comporta un lavoro immenso. Da molto rifletto su quest’idea che quando non sei più competitivo, la società ti mette da parte. Per me l’obiettivo è anche affrontare e sgretolare tutta questa ideologia, come si è fatto con il femminismo. Simona. Le motivazioni delle persone che hanno partecipato al gruppo erano le più diverse. Ognuna di noi ha ritrovato una traccia, un senso. Personalmente io sono stata molto colpita dal nome, ma positivamente. Anch’io ero appena andata in pensione e un’amica, anche provocatoriamente, mi ha girato l’invito, che ho accolto con curiosità. Io tendo ad avere un approccio anticipatorio verso le cose, mi piace andare a vederle un po’ prima, così anche se non mi sentivo ancora “arrivata” ho voluto entrare nel gruppo. Ecco, poter confrontarmi con donne che avevano dieci o anche quindici anni più di me è stato fondamentale e anche incoraggiante: c’è ancora tanta vita! Da qualche anno, io sento in atto un cambiamento: si tratta di riposizionarsi, di riprendere le misure, anche rispetto all’immagine fisica che gli altri hanno di te. Purtroppo la saggezza non è più un valore; come dicevano alcune del gruppo, quando parli con i figli, in famiglia, a volte ti accorgi che fai fatica: “Per favore rallentate, perché non vi seguo!” e la reazione spesso è un gesto significativo come dire “Che palle!”… gni, forti della convinzione che l’anziano è anche una risorsa, non solo un carico assistenziale. Il percorso è stato segnato da un continuo mettere a confronto punti di vista diversi, senza contrapposizione, riprendendo un po’, se vuoi, il discorso dell’autocoscienza. Questo ritrovarsi è stato molto stimolante: magari tu partivi da un’immagine molto dura, molto pessimistica dopodiché ti dovevi confrontare con chi invece ti offriva uno sguardo diverso, opposto. Abbiamo parlato molto del rapporto con i figli, spesso riconoscendo di non essere d’accordo su alcune cose, anche con il senso liberatorio di poter dire: “Vabbé, diciamocelo che persino i nostri figli a volte non ci piacciono!”. Io certo ho imparato molto da questa esperienza. Da sempre, quando sono malata, tendo a rintanarmi, a fare un po’ cuccia, ho difficoltà a chiedere. Qualche tempo fa, come dicevo, ho dovuto sottopormi a un intervento all’anca. Ebbene, dopo tutte queste nostre discussioni sul saper dare, ma anche ricevere, al momento di entrare in ospedale, per la prima volta, ho chiesto aiuto. Anche al ritorno a casa, sono stata accompagnata da tante persone che mi aiutavano, mi preparavano la cena; una cara amica è stata qui un mese con me. Insomma alla fine mi sono trovata a riconoscere che avevo davvero ricevuto tantissimo, ma perché finalmente avevo saputo chiedere! Francesca. Quando ho cominciato a partecipare a questi incontri, avevo un po’ di tituuna città 21 buone pratiche banza a dirlo alle amiche, la buttavo lì così e regolarmente nessuno mi chiedeva nulla, come se ci fosse il timore… Io sono sempre stata molto diffidente verso i centri anziani, non mi piacciono i ghetti: perché inibirmi la possibilità di fare cose insieme a chi ha venti, trenta o quarant’anni? Ecco, mi spaventa un po’ l’idea di fare spazio a una cosa specifica per gli anziani. Marina. Ma non è certo quello il nostro proposito! sono diffidente verso i centri anziani, non mi piacciono i ghetti: perché inibirmi la possibilità di fare cose con chi ha trent'anni? Simona. Noi siamo la generazione che ha cercato sempre di autodeterminarsi, di autodefinirsi, è normale che ci interroghiamo: se guardiamo i centri anziani, le Rsa, la fine con la badante, ti viene da dire: “No, non posso finire così!”. Io questa cosa la sento proprio come un dovere di coerenza! Non tanto nel senso di finire così, ma nel senso di non averci pensato, perché invaliderei il percorso precedente. Avete dedicato del tempo al tema del cohousing. Marina. Abbiamo affrontato anche il tema della vita materiale: il lavoro, il non lavoro, e ci siamo molto soffermate sulla situazione abitativa: dove andrò? Starò da sola, con una badante, in istituti protetti, in un cohousing? Qualcuno aveva già fatto delle esperienze: alcune pure andate male, altre solo pensate, altre ancora in fieri. Personalmente non ho mai pensato al cohousing come a un luogo di tutte vecchiette, mi piacerebbe un cohousing che mettesse assieme diverse generazioni. In Italia purtroppo siamo molto arretrati da questo punto di vista. In Francia, in Germania ci sono situazioni molto più avanzate, in cui non devi necessariamente comprare il tuo pezzo di casa, puoi anche stare in affitto. Però la cosa interessante, a mio parere, è che finalmente ci siamo andate dentro a questa cosa, chiedendoci seriamente: “Ma io, che da vent’anni parlo di cohousing con le mie amiche, lo vorrei davvero?”. Abbiamo tentato di capire meglio. Sicuramente alla base di questa scelta c’è la paura della solitudine, ma anche la voglia di condividere; e poi ci sono le questioni pratiche: “Come faccio a vendere la mia casa, con il rischio che dopo tre mesi mi accorgo che quella situazione non fa per me?”. Insomma, abbiamo fatto uscire anche gli aspetti problematici, abbiamo messo assieme i vari tasselli. Se mai dovessimo passare a un’esperienza più “politica”, nel senso di coinvolgere la polis, ecco oggi siamo consapevoli degli aspetti positivi, ma anche delle difficoltà, delle inquietudini, delle contraddizioni di una simile opzione. 22 una città La soluzione abitativa è indubbiamente uno dei crucci maggiori. Anche questo è segno dei tempi. L’altro giorno ho visto un’amica che abita in Spagna: lei ha settantaquattro anni, il marito ha passato gli ottanta; il figlio ha quarantacinque anni e vive in Sud America. Ebbene, lei diceva: “Ma se io dovessi restare vedova, dove vado? Madrid non è la mia città, a Milano ci sono stata un po’: tornare a Carpi non mi dice più niente, a Lima, se mio figlio avesse un figlio, ci andrei subito, ma diversamente cosa vado lì a fare?”. Questo dilemma le donne della generazione precedente non se lo ponevano; adesso fra le nostre amiche sono abbastanza numerose quelle che hanno i figli dall’altra parte del mondo. Avete parlato di un senso di liberazione. Marina. Tra i guadagni c’è anche questo senso di liberazione da impegni coatti: non hai più i figli piccoli, non hai più scadenze lavorative... Simona. Io vivo anche un’inedita libertà dai giudizi. Molte di noi hanno registrato, nel rapporto con gli altri, una maggiore leggerezza. Questa è una cosa bella. Marina. Questa liberazione dall’approvazione degli altri alla fine curiosamente porta a un maggior riconoscimento perché ti viene riconosciuta proprio questa libertà e dignità. Agli incontri abbiamo ricordato quella citazione di Brecht sulla “vecchia signora indegna”: quella che fa tutto quello che le piace. Lo stesso concetto di liberazione è stato interpretato in modo diverso. C’era chi voleva disfarsi delle cose che appartenevano al passato, gli oggetti, le lettere, i mobili. Chiara, ad esempio, diceva: “Faccio il vuoto, ho voglia di pulizia!”. E poi c’era l’altra fazione che invece si ribellava: “Ma no, è bello!”. Una raccontava: “Ho scoperto la tazzina della mia mamma e adesso mi piace berci il caffè alla mattina”; oppure piccole cose di lessico familiare. una raccontava: “Ho scoperto la tazzina della mia mamma e adesso mi piace berci il caffè alla mattina” Alla fine siamo arrivate a dire che la cosa importante è non farsi sommergere dai rimpianti; una di noi ha confessato: “Mi sento come se avessi vissuto la vita a mia insaputa”. Insomma, non rimpianti, ma ricordi buoni. Simona. Personalmente ho apprezzato che non ci fosse, nell’ascolto dell’esperienza degli altri, una cosa giusta e una sbagliata. Io, per esempio, prima di frequentare il gruppo, appena andata in pensione avevo fatto una grande pulizia nella mia stanza, buttando via tante cose. Mi dicevo: “Un pezzo di vita finisce e ne comincia un’altra: via tutta questa zavorra, bisogna liberarsi, se- pararsi da queste cose” e così buttavo, buttavo… poi sono arrivata lì e mi è piaciuto sentire che invece c’era chi teneva; perché non è che privarsi di alcuni oggetti non provocasse un dispiacere. Oltre certi livelli rischia di essere una scelta un po’ ideologica, tant’è che alla fine mi trovavo a guardarmi intorno e a chiedermi: “Mamma mia, non l’avrò mica buttata quella cosa lì?”. Alla fine mi sono identificata di più nel far pulizia, però scoprire che per altri era bello anche trovare il senso del tenere, mi ha dato una sensazione di avvolgimento, cioè che nulla è sbagliato. Marina. Abbiamo affrontato anche questo concetto del “tempo liberato”: della grande liberazione dal lavoro, dagli impegni di cura, eccetera. Negli anni passati, mentre si lavorava, si erano accumulati anche molti desideri repressi; il fatto è che se tu li hai lasciati perdere, non è facilissimo riprenderli in mano. Abbiamo parlato della questione del volontariato: dove si faceva, chi lo faceva, chi non lo voleva fare… oppure del godere dei piaceri della vita, che va benissimo, ma va contemperato con questa necessità di avere un nodo di senso, un centro. Un’amica scherzando suggeriva: “Avere un centrino, almeno!”. Alla fine la domanda fondamentale è: che ce ne facciamo di quest’ultima parte della nostra vita? Rispetto al passato possiamo dire che comunque sia andata è stata la nostra vita, ma adesso? Ecco, adesso mi piacerebbe avere qualche strumento in più per capire che cosa ne faccio di questi anni, dove punto. E non è facile perché nessuna ti può dare la sua vita, la sua ricetta. Non puoi dire: “Guarda quella com’è brava, faccio anch’io così!”. Avete parlato anche della malattia e della morte. Simona. L’incontro sulla morte lo abbiamo fatto con l’aiuto e la conduzione di una sociologa, Grazia Colombo, che ha lavorato tanto sulla formazione degli operatori in ospedale, sulle perdite legate soprattutto al percorso della nascita pretermine. Io sono ostetrica e il mio lavoro mi ha insegnato a fare i conti con queste situazioni. Certo è stato un incontro faticoso... Marina. Infatti, la volta dopo, prima di riprendere il discorso, abbiamo fatto il “party della resurrezione”, abbiamo portato la grappa, il formaggio, il pane, per tirarci su! Simona. Complessivamente, l’esperienza del gruppo mi ha riportato un po’ al mio lavoro, nel senso che mi è sembrato anch’esso un percorso di preparazione alla nascita. I temi sono gli stessi perché anche in un percorso di nascita affronti il tema del cambiamento, dell’adattamento a una nuova immagine, dell’accettazione di te, della sessualità, della paura, del dolore, della solitudine, della possibilità di condivisione, dell’ansia di controllo e del lasciar andare. Marina prima parlava del chiedere, del dare e del ricevere. Quanto è difficile, nel momento del parto, stare accanto a donne che non sanno chiedere, che non sanno cosa chiedere! È una questione anche di umiltà riconoscere: “Ho bisogno che tu mi stia vicino e che tu mi dia una mano”. Non ne siamo più capaci. Non riusciamo più nemmeno ad andare a chiedere l’uovo per fare la frittata o il prezzemolo alla vicina di casa,… quand’ero piccola ricordo che mia mamma mi diceva: “Vai dalla vicina a chiedere il burro!”. Oggi se ci manca un ingrediente piuttosto cambiamo ricetta! Francesca. Rispetto al tema della morte, devo dire che nel periodo della partecipazione al gruppo, io ho perso un’amica e un’altra si è aggravata, così nel giro di qualche anno mi sono trovata senza due persone molto vicine. Questo mi ha dato molto da pensare, anche rispetto alla capacità di fare delle nuove amicizie in età adulta. Poi io sento molto la minaccia della perdita di autonomia. Dico sempre che sono stata molto fortunata come salute. In questi ultimi anni però qualche acciacco si è presentato. Davanti a certi dolori è venuta fuori la “caduta del metatarso” (a sessant’anni non sapevo neppure cosa fosse il metatarso!). Quest’inverno mi sono trovata a zoppicare per una settimana, era la prima volta. Sono cose che mi spaventano, proprio perché vado verso una certa età, ho 68 anni, e vivo sola. A volte mi scopro a pensare: “E se poi non riesco più a camminare, come faccio?”. Per ora sto bene, però ci penso, se c’è un dolore, cerco subito di capire da che cosa dipende e di recuperare. Marina. La malattia terribile e improvvisa che ha colpito Vita Cosentino ci ha molto turbato, ma di più ci ha impressionato l’incredibile mobilitazione delle amiche di cui ha parlato nel suo libro e in un’intervista a “Una città”. Mi ricordo che quando ne abbiamo discusso qualcuna ha fatto notare: “Ma una rete così non è che si improvvisa!”. È proprio così: le reti, le amicizie bisogna guadagnarsele in qualche modo. Anche su questo il nostro lavoro di gruppo è stato utile. Si tende a pensare che alcuni gesti “straordinari” arrivino come un dono, invece abbiamo capito che la rete o te la costruisci oppure non c’è! Purtroppo è molto vero quello che dice Francesca: in questa fase della vita le amicizie sono un po’ più complicate rispetto alla fase precedente. Noi siamo state abituate ad avere le amiche con cui andavamo in viaggio, con cui condividevamo i bambini o i lavori; adesso ognuna, in qualche modo, prende la sua strada: una è ancora nel pieno del lavoro, l’altra fa solo la nonna, l’altra si è trasferita, per cui c’è questa percezione di una dispersione. quest'inverno mi sono trovata a zoppicare, era la prima volta e mi ha spaventano, perché vado per i 68 anni e vivo sola Qualche anno fa, la mia ipotesi di spostarmi da Milano a Roma, dove vive mio figlio, è stata considerata dalle mie amiche una vera offesa! All’inizio non avevo capito… Invece la stessa cosa è successa qualche tempo fa quando un’amica che si trova con la figlia da una parte, la sorella dall’altra, ha cominciato a interrogarsi su dove andare a vivere e anche lei ha detto la stessa frase che avevo detto io: “Vado dove sono i miei parenti!”; ecco, questa volta io stavo dall’altra parte e assieme alle altre donne presenti le abbiamo risposto: “Ma come, e le tue amiche?!”. Della sessualità avete parlato? Marina. È un tema che abbiamo affrontato, anche se non posso dire che siamo andate regalate una città Modalità di pagamento: -Cc. postale n. 12405478 - Una Città Soc. Coop., via Duca Valentino 11, 47121 Forlì Bonifico bancario intestato a Una Città Soc. Coop. IBAN IT36O0601013208074000000048 -tramite internet (www.unacitta.it) aprendo la pagina: http://www.unacitta.it/abbonamenti.asp buone pratiche molto a fondo. Mi sembra che siano venute fuori due percezioni molto diverse tra chi è in coppia e chi (tra l’altro la maggioranza) è single. Antonella. Va detto che anche chi ha un compagno spesso rinuncia alla sessualità; in ogni caso pesa il venir meno della capacità di attrarre. Simona. Abbiamo parlato anche della trasformazione dell’approccio alla sessualità con la prevalenza di una ricerca di abbracci, di affettuosità, piuttosto che di una sessualità genitale. Questa cosa mi è sembrata abbastanza comune. Marina. Alcune donne in coppia segnalavano una diversità dalla sessualità maschile: “Io mi sono tirata fuori, voglio una sessualità diversa, voglio un abbraccio, voglio stare insieme, mentre lui invece...”. Ugualmente complicata è, d’altra parte, la situazione di chi è single, che ancora più difficilmente riesce a riempire la mancanza di sessualità con un’affettuosità, una vicinanza diversa. C’è quella bella poesia di Davide Maria Turoldo che dice: “Non ho mani che mi accarezzino il volto”… Sul desiderio poi il discorso si è fatto più ampio. Nell’età adulta la tua identità è molto connotata dall’esterno: perché hai dei compiti, un lavoro, un ruolo; a quest’età succede che la legittimazione la devi cercare dentro di te: una bella sfida! Forse, uno dei guadagni del gruppo alla fine sta anche nell’aver sviluppato questa pazienza, questa apertura verso ciò che è ignoto, questa capacità perfino di disimparare quello che sei stato per accogliere le possibilità, anche impreviste, che ti offre la vita. La vecchiaia non è, insomma, un insieme di passato e di possibile futuro, è un presente. Come dire: adesso sei quello che sei e sta a te decidere: che vita vuoi vivere? (a cura di Joan Haim e Barbara Bertoncin) Abbonamenti “primo ingresso”: 30 euro Rinnovo ordinario: 60 euro Rinnovo studenti: 30 euro Abbonamento regalo: 30 euro estero (Europa): 100 euro (resto del mondo): 120 euro In alternativa “al cartaceo” è possibile, al costo di 30 euro, sottoscrivere l’abbonamento al pdf della rivista una città 23 Adam Ferguson - The New York Times/contrasto “L’Isis ha commesso il crimine di genocidio, nonché molteplici crimini contro l'umanità e crimini di guerra pensabili”. Il rapporto della Commissione internazionale indipendente d’inchiesta sulla Siria dell’Onu, pu attivisti, avvocati, giornalisti e personale medico. L’Isis, denuncia l’Onu, ha cercato di distruggere il popolo inumani e degradanti, trasferimenti forzati che hanno causato gravi danni all'integrità fisica e psicologica; tra donne e uomini, la sottrazione di bambini yazidi dalle loro famiglie da parte dei combattenti Isis… Nell a contro gli yazidi, migliaia dei quali sono tenuti prigionieri in Siria, dove sono sottoposti agli orrori più imubblicato il 16 giugno scorso, si basa su 45 interviste con sopravvissuti, leader religiosi, contrabbandieri, o yazida attraverso: l’assassinio, lo sfruttamento sessuale, la riduzione in schiavitù, la tortura e trattamenti l’imposizione di condizioni di vita che determinano una lenta morte; la conversione forzata, la separazione a foto: rifugiate yazide in fuga dall’Isis, Faysh Khabur, 9 agosto 2014. interventi Più poveri dei genitori Un rapporto del McKinsey General Institute del luglio scorso (vedi link), citato da Federico Rampini su “Repubblica” del 13 agosto, confronta il reddito lordo e il reddito disponibile (dopo le tasse e i sussidi) nel decennio 2005-2014 con quello del decennio precedente in 6 Paesi: Italia, Stati Uniti, Regno Unito, Olanda, Francia e Belgio. Non sorprende che, dopo la crisi, ci sia un declino dei redditi in quasi tutti i paesi. Sorprende l’entità e la pervasività del declino, la distribuzione per decili di reddito della popolazione (le persone nello stesso decile di reddito, a distanza di dieci anni, non le stesse persone più vecchie di dieci anni). Sorprendono le differenze tra paesi e tra reddito lordo e reddito disponibile nei vari paesi, che sono una sorta di indicatore complessivo delle politiche sociali. Si commentano più di frequente gli andamenti del Pil e della produttività, o le clamorose e crescenti differenze di reddito e di ricchezza, sulla strada aperta da Piketty. Gli andamenti del reddito disponibile ci sono meno familiari. Il McKinsey General Institute ha scelto di misurare le differenze di reddito dello stesso decile a distanza di dieci anni perché ritiene che le differenze tra le varie classi sociali possano anche non sconvolgere la società se il reddito di chi sta più in basso cresce, ma che la caduta permanente del reddito della stessa classe sociale nel tempo difficilmente possa essere tollerata senza scosse. Ma veniamo ai dati essenziali. In Italia la caduta del reddito lordo ha riguardato il 97% della popolazione; negli Stati Uniti l’81%; nel Regno Unito il 70%; in Olanda il 70%; in Francia il 63%; in Svezia il 20%. Per il reddito disponibile, dopo le tasse e i sussidi, in Italia il declino riguarda il 100% (3 punti in più che per il lordo); negli Stati Uniti meno del 2% (80 punti in meno); nel Regno Unito il 60% (dieci punti in meno); in Olanda il 70% (livello immutato); in Francia il 10% (53 punti in meno); in Svezia meno del 2% (18 punti in meno). In sostanza Stati Uniti, Francia, Svezia, in misura minore Regno Unito, hanno una politica sociale di sostegno al reddito. Italia e Olanda non ce l’hanno. Come hanno fatto Stati Uniti, Francia, Svezia, Gran Bretagna, a sostenere il reddito? Gli Stati Uniti, secondo il Rapporto, hanno sostenuto il reddito delle famiglie con 350 miliardi di dollari che, insieme con le cifre ancora maggiori usate per sostenere le banche, hanno portato il loro debito pubblico vi- di Francesco Ciafaloni cino al 100% del Pil. In misura minore hanno fatto la stessa cosa la Francia e la Gran Bretagna. L’Olanda non ha fatto nulla. La Svezia, con una situazione assai più equilibrata, ha accresciuto il debito pubblico nell’immediato, ma poi lo ha riportato vicino al 40% precedente. L’Italia, con un debito pubblico molto alto e lo spread in crescita rispetto ai bond tedeschi, come ricordiamo, ha preso misure restrittive che hanno peggiorato la situazione. Le differenze in dettaglio Se si guardano i mutamenti del reddito lordo e di quello disponibile paese per paese e decile per decile (o quintile per quintile) si trovano varie conferme e qualche novità. L’Italia ha una situazione peggiore, e un effetto negativo delle tasse e sussidi, anche prima della crisi. La Francia tampona (non del tutto) il peggioramento del quintile più basso. La Svezia annulla in media il peggioramento, ma lascia immutati i maggiori aumenti dei quintili più alti. In tutti i paesi il tasso di occupazione dei molto qualificati è maggiore di quello dei meno qualificati (ma con dieci punti, o venti per le qualifiche medie) di differenza tra Svezia e Italia. La precarietà è aumentata per tutti, ma con grandi differenze tra paesi. In genere il quintile più basso ha avuto una caduta maggiore del reddito lordo, compensata dall’intervento pubblico. In Olanda il quintile più basso ha resistito alla crisi passando al lavoro autonomo. In generale si può osservare che non c’è un’importanza magica dei settori di punta. Non c’è stato l’aumento di produttività atteso dall’automazione, che inoltre distrugge posti di lavoro senza crearne altrettanti di nuovi. Conta di più l’intreccio e l’equilibrio tra settori. Dove stiamo andando Il Rapporto è solo uno di moltissimi contributi, ricerche e libri, che mettono in guardia dal considerare la crescita continua come un dato permanente. di natura (vedi anche secondo link). Ricchi per sempre?, si è chiesto Pierluigi Ciocca degli italiani. Robert J. Gordon ha scritto The Rise and Fall of American Growth: The US Standard of Living since the Civil War: storia, non profezia. Non si tratta di una ripresa dell’ideologia del declino dell’Occidente, ma di un declino dell’ideolo- gia della crescita continua, dei modelli onnicomprensivi ed espansivi in eterno. Non solo Europa e Stati Uniti, per ragioni strutturali, fanno fatica a mantenere il reddito dei loro poveri e del loro ceto medio ma anche i Brics non sembrano in buona salute. Il Rapporto si limita al passato, ma non si astiene dall’esprimere, prudentemente, timori sulla tenuta sociale. “Un periodo lungo di redditi piatti o declinanti potrebbe avere effetti importanti sulla crescita economica e sui bilanci degli Stati. Se si rompe la connessione tra crescita del Pil e crescita dei redditi e si crea la possibilità che la prossima generazione sia più povera di quella dei genitori, si distrugge anche la diffusa aspettativa di progresso. Ne può derivare una insoddisfazione sociale e politica e un senso di alienazione, di ostilità verso alcuni aspetti del sistema economico globale.” È quello che è accaduto negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, in Italia. Un po’ dappertutto. La ricetta che sembra aver funzionato meglio è la vecchia ricetta socialdemocratica: “Il Governo svedese si è concentrato sulla conservazione e la creazione di posti di lavoro, aggiungendo lavori temporanei al settore pubblico, riducendo le tasse sui salari per le aziende e dando incentivi fiscali per l’assunzione di giovani e di disoccupati di lungo periodo. Il Governo americano ha puntato di più alla stabilizzazione dei settori come quello bancario e quello automobilistico e stimolando la domanda nell’economia.” Il Governo italiano, ha seguito, a parole, la strada svedese, ma in pratica, al contrario, ha applicato l’austerità per i cittadini, temperata da qualche regalo, e gli sgravi per le aziende, senza l’autonomia e la stabilità delle economie forti e perciò senza ottenerne i risultati. Nei commenti del Rapporto sembra interamente sparita l’illusione della crescita e dell’equilibrio determinati dal mercato. Senza regole e interventi pubblici resteremo con l’acqua alla gola. Fino alla prossima crisi. http://www.mckinsey.com/global-themes/employment-and-growth/poorer-than-their-parents-a-new-perspective-on-income-inequality http://www.mckinsey.com/industries/privateequity-and-principal-investors/ourinsights/why-investors-may-need-to-lowertheir-sights Redazione: Barbara Bertoncin, Giorgio Calderoni, Stefano Ignone, Silvana Massetti, Giovanni Pasini, Paola Sabbatani, Gianni Saporetti (direttore responsabile). Collaboratori: Isabella Albanese, Katia Alesiano, Rosanna Ambrogetti, Giorgio Bacchin, Luca Baranelli, Alfonso Berardinelli, Sergio Bevilacqua, Guia Biscàro, Marzia Bisognin, Stephen Eric Bronner, Thomas Casadei, Alessandro Cavalli, Francesco Ciafaloni, Luciano Coluccia, Francesca De Carolis, Carlo De Maria, Ildico Dornbach, Bruno Ducci, Fausto Fabbri, Enzo Ferrara, Bettina Foa, Andrea Furlanetto, Bel Greenwood, Joan Haim, Massimo Livi Bacci, Giovanni Maragno, Emanuele Maspoli, Franco Melandri, Annibale Osti, Cristina Palozzi, Cesare Panizza, Andrea Pase, Edi Rabini, Alberto Saibene, Ilaria Maria Sala, Massimo Saviotti, Sulamit Schneider, Alessandro Siclari, Massimo Tirelli, Franco Travaglini, Alessandra Zendron. Hanno collaborato: Antonio Fedele, Andrea Furlanetto, Andrea Rizza Goldstein, Marie-Anne Matard-Bonucci. In copertina: foto di Iga Lubczanska. Proprietà ed editore: Una Città società cooperativa. Cda: Rosanna Ambrogetti, Barbara Bertoncin, Giorgio Calderoni, Enrica Casanova, Francesco Ciafaloni, Stefano Ignone, Silvana Massetti, Paola Sabbatani, Gianni Saporetti, Franco Travaglini. Questo numero è stato chiuso il 5 novembre 2016. UNA CITTA’ 26 una città appunti di viaggio ASPETTANDO BRUXELLES L’adesione dell’Ucraina all’Europa incagliata in un referendum olandese, senza valore vincolante, ma in cui la maggioranza, circa due milioni e mezzo, si sono pronunciati contro la candidatura ucraina; la situazione nel Donbass, la Crimea e la decisione della Finlandia. Di Paolo Bergamaschi. Ottobre 2016 Cielo imbronciato sul Majdan. Nubi compatte strozzano i timidi raggi del sole acerbo del mattino che non ha ancora la forza di riscaldare gli incerti passanti che tagliano la piazza. Qualche piccione arruffato saltella sul selciato danzando attorno ad un presidio di testimoni di Jehova pronti ad intercettare gli incauti avventori dei locali del centro distribuendo loro bibbie che certificano la parola di Dio. Nel mezzo si staglia un grande poster con le foto delle vittime dell’eccidio del febbraio di due anni fa, perite in quello stesso luogo sotto il fuoco dei cecchini dei famigerati corpi speciali della polizia di Yanukovich. Di fianco la sede dei sindacati che ospitava il quartier generale dei manifestanti è impacchettata dalle impalcature sulle quali muratori e carpentieri provvedono alle laboriose opere di restauro dopo l’incendio scoppiato durante gli scontri di allora. Lungo il corso Kreshatik il traffico procede a strappi scanditi dal ritmo dei semafori. Fatico ad orientarmi in questa piazza dove ritorno dopo una lunga assenza. Mi guardo intorno spaesato nello spazio vuoto mentre nella mia testa scorrono e si sovrappongono alla rinfusa immagini e ricordi di angoli famigliari che stento a riconoscere adesso che hanno riacquistato le grigie sembianze della routine quotidiana. La normalità annoia e uccide la fantasia ma non cancella il passato recente, un passato che a tratti riappare e continua a ingombrare i sogni e le ambizioni dell’Ucraina. Il referendum olandese Tutto era cominciato nell’ottobre del 2013 quando l’allora presidente Yanukovich si era improvvisamente rifiutato di sottoscrivere l’Accordo di Associazione con l’Unione Europea da lui stesso negoziato e concluso. Sono trascorsi tre anni nei quali in Ucraina è accaduto di tutto, fra dimostrazioni spontanee, proteste più o meno pacifiche, sommosse e rivoluzioni, occupazioni di spazi pubblici, azioni di resistenza attiva, scontri violenti con la polizia, esecuzioni di massa, cambio di regime, invasioni camuffate, guerre di secessione, conflitti congelati con migliaia di vittime e milioni di profughi, e quell’accordo non ha ancora trovato attuazione. Questa volta, tuttavia, non è colpa di Kiev, è la controparte europea che non è in grado di far fronte agli impegni presi . Basta poco per inceppare i contorti e farraginosi meccanismi decisionali dell’Unione a testimonianza di quanto fragile, delicata e complicata sia la macchina comunitaria. Ogni accordo internazionale sottoscritto dall’Ue per entrare in vigore deve essere ratificato secondo le procedure previste dai trattati e in conformità con le norme stabilite dall’ordinamento giuridico di ciascuno dei paesi membri. In parole povere occorre il consenso del Consiglio e del Parlamento Europeo, da un lato, e quello dei governi e dei parlamenti nazionali dei paesi membri, oltre che del paese terzo, dall’altro. Se manca anche uno solo di questi passaggi l’accordo resta lettera morta, buono solo per la tesi di laurea di qualche studente di scienze politiche o di qualche saggio o dissertazione accademica. In genere il tempo tecnico che intercorre fra la firma ufficiale del documento e la conclusione della procedura di ratifica è di circa un paio di anni. nelle urne si è sfogata la rabbia di coloro che reputano l’Unione responsabile di tutti i mali che affliggono l’Olanda Non era mai successo, in precedenza, che un paese membro bloccasse l’iter procedurale dopo la firma ufficiale delle parti, avvenuta, in questo caso, il 27 giugno del 2014. Il 6 aprile scorso, però, i cittadini olandesi sono stati chiamati a pronunciarsi tramite referendum sull’approvazione dell’accordo fra Unione Europea e Ucraina e una schiacciante maggioranza, il 61% dei votanti, ha espresso parere contrario. Poco importa se il risultato non è vincolante trattandosi di una consultazione priva di valore giuridico; di fatto il governo dell’Aja si è sentito nell’obbligo di sospendere la notifica a Bruxelles, ultimo passaggio tecnico, della ratifica parlamentare approvata a stragrande maggioranza pochi mesi prima gettando nel panico le autorità europee. L’iniziativa referendaria era stata promossa da gruppi euroscettici decisi ad interrompere il processo di integrazione del vecchio continente. Più che dell’accordo in sé, nel corso della campagna si è discusso di politiche comunitarie e nelle urne si è sfogata la rabbia di coloro che reputano l’Unione responsabile di tutti i mali che affliggono l’Olanda. Con il risultato che poco più di due milioni e mezzo di elettori olandesi hanno dato scacco alla diplomazia europea, ai ventotto governi dei paesi membri e ai rispettivi ventotto parlamenti nazionali, con l’Ucraina vittima innocente e impotente delle contorsioni epilettiche dell’opinione pubblica dei Paesi Bassi. Si tratta di capire, ora, se e come è possibile andare avanti. L’accordo di associazione, infatti, è di natura mista cioè in parte di competenza esclusiva dell’Unione, che non ha bisogno quindi della ratifica dei parlamenti nazionali, e in parte di competenza condivisa che richiede, invece, il consenso di questi ultimi. Così dal primo gennaio 2016 i capitoli di prerogativa comunitaria, che riguardano gli scambi commerciali e le misure economiche relative, vengono applicati in via provvisoria mentre per quanto riguarda il resto, che ha valenza soprattutto politica, il giudizio è sospeso in attesa di attento esame degli azzeccagarbugli di Bruxelles chiamati dalle autorità olandesi a sbrogliare la matassa. In questa paradossale situazione una cosa è sicura: il pasticcio non si risolverà, per ovvie ragioni, prima delle elezioni legislative che si terranno nei Paesi Bassi nella primavera del prossimo anno con i populisti anti-europei che viaggiano con il vento in poppa. Povera Europa, bistrattata, sbeffeggiata e avvitata su se stessa in un turbine vertiginoso, e povera Ucraina impantanata e aggrovigliata in problemi che esulano in buona parte dal contesto nazionale proiettandosi sullo scenario della nuova guerra fredda che vede ancora una volta contrapposti i paesi occidentali e la Russia. Lotta alla corruzione Hugues Mingarelli è un funzionario di lungo corso passato al servizio diplomatico dell’Unione quando questo corpo fu creato nel gennaio del 2011. Sempre incaricato di occuparsi di aree di crisi, dai Balcani al Caucaso e, negli ultimi anni, ai paesi della sponda meridionale del Mediterraneo, l’ho spesso incrociato nelle aule parlamentari dove gli eurodeputati lo interpellavano, spesso con domande fuori tema, sull’uso dei fondi comunitari e l’efficacia delle politiche di assistenza. Da qualche mese è stato nominato ambasciatore europeo in Ucraina. Spetta a lui, quindi, il coordinamento dei diplomatici che rappresentano a Kiev i 28 paesi membri. Ed è sempre lui che funge da moderatore all’incontro che apre la visita di questa nuova delegazione dell’eurocamera nella ex-repubblica sovietica. Il primo a prendere la parola, lupus in fabula, è l’ambasciatore olandese che, non senza un certo imbarazzo, fa il punto della situazione sulla messa in atto dell’accordo di associazione, seguito da quello danese che sposta subito il discorso sull’altra grande malattia che affligge l’Ucraina, la corruzione. Era stato proprio il rifiuto nei confronti della corruzione dilagante una della cause predominanti che aveva spinto la gente nelle piazze una città 27 appunti di viaggio durante i giorni della “rivoluzione della dignità”. Tangenti e mazzette erano la norma ai tempi di Yanukovich come, peraltro, lo erano ai tempi dei governi filo-occidentali precedenti ai quali, però, Bruxelles guardava con strabica indulgenza. Il nuovo corso ucraino poggia sulla lotta alla corruzione ma risulta difficile estirpare con le sole risorse umane autoctone un male radicato e ormai cronicizzato a tutti i livelli nelle strutture dello stato. Nel quadro della variegata assistenza offerta a Kiev, l’Unione Europea ha, così, messo a punto un programma specifico per combattere questa piaga ed ha incaricato la Danimarca, ai vertici nelle classifiche mondiali dei paesi meno corrotti, di attuarlo. “La corruzione è il cancro della società di questo paese -sottolinea l’ambasciatore danese- ma non si tratta di un tumore circoscritto rimovibile con un semplice intervento chirurgico, è qualcosa di sistemico, più simile a una leucemia che richiede una terapia totale a dosi massicce”. paradossalmente oggi l’Ucraina è diventata, così, il paese più corrotto e, allo stesso tempo, più trasparente d’Europa Uno dei primi provvedimenti del nuovo governo è stato l’istituzione dell’Agenzia Nazionale per la Lotta alla Corruzione che, però, manca ancora dei mezzi necessari per operare a pieno regime. Dal primo settembre, inoltre, è entrato in vigore per 40.000 funzionari statali l’obbligo della dichiarazione elettronica dello stato patrimoniale che impone ogni anno e per i tre anni successivi alla fine del mandato anche ai politici che occupano cariche pubbliche di rendere noti redditi e proprietà. Fonti ufficiose del ministero della giustizia parlano di 500 giudici che per evitare la gogna mediatica di patrimoni sospetti abbiano preferito il pensionamento anticipato. Secondo alcune organizzazioni non governative paradossalmente oggi l’Ucraina è diventata, così, il paese più corrotto e, allo stesso tempo, più trasparente d’Europa. Non c’è pace nel Donbass Nel Donbass si continua a morire. Sono rari i giorni in cui i bollettini che arrivano dalla linea del cessate-il-fuoco non riportano vittime. Dal primo settembre è entrata in vigore l’ennesima tregua già violata dalle parti in numerose occasioni con scambi di accuse e attribuzioni reciproche di responsabilità. Nonostante Mosca insista nel negare ostinatamente ogni coinvolgimento diretto nel conflitto, si spara e ci si ammazza da ambo le parti con armi russe. Con gli insorti, però, operano anche 6000 soldati dell’ex armata rossa intruppati in battaglioni più o meno regolari. Il quartetto incaricato di portare avanti il processo di pace, composto da Ucraina, Russia, Francia e 28 una città Germania, si incontra regolarmente così come frequenti sono i colloqui telefonici fra Merkel, Putin e Hollande ma agli impegni presi a parole non corrispondono i fatti. Difficile rimettere assieme i pezzi del mosaico dopo feroci e prolungati combattimenti che hanno lasciato sul terreno quasi 10.000 morti e provocato la fuga di tre milioni di persone fra sfollati interni e rifugiati riparati in Russia. L’accordo negoziato a Minsk a febbraio prevedeva la cessazione delle ostilità, il ritiro dell’artiglieria pesante dalla linea di contatto, l’attribuzione di uno statuto speciale alle regioni orientali, il ritorno delle guardie regolari ucraine alla frontiera con la Federazione Russa, la liberazione dei prigionieri, l’amnistia per i secessionisti e le elezioni locali nel Donbass per definire il nuovo assetto istituzionale. Tutti concordi sui contenuti ma profondamente divisi sui tempi di attuazione. Per Kiev prevale la sequenzialità delle misure previste dagli accordi, per Mosca la sincronizzazione. Come è possibile tenere libere elezioni senza il pieno controllo dei confini? Sostengono gli ucraini. Mentre i separatisti, spalleggiati dai russi, ribadiscono di non fidarsi della controparte volendo prima vedere fatti concreti. Più che un piede in territorio ucraino, a Mosca interessa un piede nello stato ucraino per controllarne, condizionarne o influenzarne le scelte. D’altronde un pezzo di Ucraina strategicamente più importante, la Crimea, è già saldamente in mano russa, annessa alla federazione dopo l’invasione strisciante del 2014. La penisola del Mar Nero è stata, oggi, trasformata in un’immensa base militare proiettata verso il Medio Oriente in appoggio all’intervento delle forze russe in Siria, con buona pace delle strutture turistiche locali, quasi deserte, e dell’unica minoranza autoctona, quella tartara, messa a tacere con la forza. Le sanzioni occidentali mordono, ma Mosca non demorde, nonostante barcolli sotto il peso di una situazione economica preoccupante. E all’opinione pubblica russa sembra interessare più la proiezione esterna del paese, con lo status riacquisito di superpotenza, che la situazione interna, come sottolineato dalla vittoria schiacciante del partito di Putin alle elezioni di settembre per il rinnovo della Duma. “La Russia non mi spaventa”, mi dice Rune Glasberg, un collega finlandese, nella hall dell’hotel mentre sorseggiamo con lucida calma due dita di brandy ucraino. “Si può discutere di tutto ma una cosa è certa”, aggiunge ironico, “non è possibile cambiare la posizione geografica dell’Ucraina come non è possibile cambiare quella della Finlandia”. “A Helsinki da tempo si dibatte se aderire o meno alla Nato -sottolinea- ma la discussione è pacata e, pur con opinioni contrastanti, nessuno si azzarda ad accusare l’altro di tradire il proprio paese come avviene invece a Kiev”. Rune, probabilmente, ha ragione, ma è difficile applicare la ricetta finlandese a un paese in guerra come è l’Ucraina odierna. Anche perché la stessa Finlandia, contravvenendo in parte alla propria storica neutralità, il 7 ottobre scorso ha sottoscritto un accordo bilaterale con gli Stati Uniti che ha molto irritato Mosca. I frequenti sconfinamenti russi nei paesi baltici, che spesso hanno il sapore di provocazione, sono visti con preoccupazione anche da chi, come la Finlandia, ha saputo costruire nel tempo una solida relazione di buon vicinato con l’ingombrante vicino subendone, in parte, l’irruenza fino ad autolimitare nel passato, più per timore che per scelta, l’orizzonte della propria politica estera. “Stiamo facendo la Russia più forte e l’Europa più debole di quanto non siano in realtà”, afferma Rune, ma non sembra convinto di quello che dice. Incontrare le vittime di guerra è sempre un’esperienza toccante che lascia un segno profondo. Storie vissute e testimonianze dirette si intrecciano con emozione e dolore riattizzando lutti che, invece, bisognerebbe avere la forza, col tempo, di riassorbire e metabolizzare. Quella che racconta Volodymyr è un’esperienza terrificante. Nato nel Donbass e, come la maggior parte della popolazione della regione, di madre lingua ed etnia russa, allo scoppio della crisi era ritornato a casa dal luogo dove era emigrato per portare in salvo la famiglia. “C’erano soldati con uniformi senza mostrine per le strade che parlavano russo con un accento diverso, provenienti da chissà quale parte della federazione”, narra. “Nessuno spiegava quello che stava succedendo, nessuno rispondeva alle mie domande”, insiste con voce sommessa. “Volevo ripartire, ma non me l’hanno permesso così nella fuga sono saltato accidentalmente su una mina perdendo le braccia”, racconta mostrando gli arti amputati. Ferito e catturato dai separatisti, volevano obbligarlo ad una confessione pubblica alla televisione ma lui si è rifiutato finendo in carcere da cui è uscito grazie a uno scambio di prigionieri. è netta l’impressione che senza lo mano di Mosca la guerra non sarebbe mai scoppiata “I russi vogliono un’Ucraina debole da annettere pezzo per pezzo -dichiara sconfortato- mentre io mi batto perché il mio paese si integri al resto d’Europa”. Volodymyr contraddice e sconfessa la narrativa di Putin secondo la quale i russi del Donbass erano discriminati da Kiev. È netta l’impressione che senza lo mano di Mosca la guerra non sarebbe mai scoppiata. Adesso, però, occorre voltare pagina e provare a costruire una pace che appare impossibile. Ho incontrato vittime di tante guerre e ho imparato che il dolore è un’esperienza che non appar- appunti di viaggio membri che fino all’ultimo resistono, recalcitrano e si contorcono prima di dare l’agognato semaforo verde. All’Ucraina ci sono voluti otto anni per concludere l’iter e anche dopo avere ottemperato a tutte le clausole previste non ha ancora ottenuto il sospirato ok. La questione della liberalizzazione dei visti continua ad essere al primo posto nell’agenda delle relazioni bilaterali fra Kiev e Bruxelles, ma i vertici dell’Unione nicchiano trovando sempre nuovi pretesti per rimandare la decisione definitiva che le autorità ucraine sperano possa avvenire prima della fine dell’anno. D’altronde, in piena emergenza migranti, nessun ministro europeo ha il coraggio di prendersi la responsabilità di aprire ulteriormente le porte dell’Unione ad altri potenziali ospiti indesiderati. Non importa se si tratta solo di visti brevi che non contemplano il permesso di lavoro; l’ossessione dell’immigrato è talmente forte da spaventare qualsiasi politico con il risultato che, da una parte, l’Unione Europea è incapace di mantenere le promesse fatte e dall’altra, nei paesi partner, aumenta il senso di frustrazione e la rabbia di chi si sente preso in giro. nessun ministro europeo ha il coraggio di prendersi la responsabilità di aprire ulteriormente le porte dell’Ue Paolo Bergamaschi Cinque per cento. A tanto ammonta la percentuale di bilancio che anche quest’anno il governo di Kiev ha destinato alla difesa. Si tratta di una spesa enorme per un paese che era sull’orlo del tracollo economico. Eppure negli ultimi mesi si sono registrati segnali incoraggianti. Dopo la caduta rovinosa del prodotto interno lordo nel 2014, il paese è lentamente tornato a crescere e ha raggiunto la stabilità macro-finanziaria. In due anni le riserve di valuta straniera sono aumentate di cinque volte con il deficit che è sceso dal 10% a poco più del 3%. La nuova Ucraina guarda a Occidente. La maggioranza degli scambi commerciali è con l’Unione Europea mentre diminuiscono verticalmente quelli con la Russia. Già, la Grande Madre Russia che affonda le radici storiche in Ucraina e che non vuole rassegnarsi al fatto che i figli prima o poi possano recidere il cordone ombelicale. Le famiglie allargate hanno il pregio di offrire più stimoli e opportunità di crescita. L’Ucraina di oggi non rinnega o disconosce le origini, ma ha deciso di liberarsi di un abbraccio soffocante che rischiava di diventare mortale. C’è ancora tempo e spazio per una rappacificazione a condizione che le madri riconoscano i diritti dei figli e non pretendano di avere l’ultima parola sulle loro scelte. Compresa quella di cercarsi una nuova casa e progettare un futuro diverso. Nell’attesa che a Bruxelles si diano una mossa. tiene esclusivamente ad una parte. È giusto e doveroso individuare torti e ragioni ma chi soffre ha il bisogno intimo di condividere e il primo passo verso la riconciliazione sarebbe quello di farlo con chi ha vissuto esperienze analoghe nel fronte opposto. Senza visto Uno dei capisaldi del Partenariato Orientale è la mobilità agevolata. Nel quadro dell’assistenza offerta, Bruxelles mette a disposizione dei cittadini dei paesi che ne fanno parte la possibilità di entrare nell’Unione senza l’obbligo del visto, il cui ottenimento è, attualmente, costoso, complicato e, per certi versi, umiliante. Per avere questa concessione, però, occorre soddisfare una lunga lista di requisiti che richiedono l’adeguamento di tutti gli organi dello stato, degli apparati, delle normative e dei sistemi coinvolti. Sono estremamente elaborate e minuziose le procedure tecniche e burocratiche che bisogna aggiornare o creare ex novo, dall’introduzione dei passaporti biometrici allo scambio elettronico dei dati, per ottenere il via libera degli inflessibili ispettori della Commissione europea inviati periodicamente in loco a verificare l’applicazione degli accordi. E anche quando, poi, tutto sembra a posto dal punto di vista tecnico e amministrativo, l’ultima parola spetta, comunque, sempre a Bruxelles, in particolare ai ministri degli interni dei paesi una città 29 -internazionalismo UNA CAUSA PER ANDARE A MORIRE Una sinistra che per spiegare perché tanti giovani vanno a morire per l’Islam, cerca spiegazioni “sociali” per non risultare islamofobica; l’errore di non dar credito all’influenza della religione non accorgendosi così di restare dentro a un immaginario coloniale; la forza della speranza che oggi solo l’islamismo sembra saper offrire; la potenza dei simboli che da noi non ci sono più; la decisiva lotta fra l’Islam che interpreta e quello che legge e basta. Intervista a Jean Birnbaum. Jean Birnbaum è responsabile del supplemento libri di "Le Monde". Il libro di cui si parla nell’intervista è Un silence religieux. La gauche face au djihadisme, Seuil 2016. Nel tuo ultimo libro accusi la sinistra di non capire il fondamentalismo islamico, anche per la paura di essere accusata di islamofobia. Nel mio libro c’è un capitolo intitolato “Rien à voir avec l’Islam?” (Niente a che vedere con l’islam?). Questo capitolo l’ho scritto per evitare che ci fossero fraintendimenti: il mio non è un libro ostile all’Islam come religione, non è un libro contro l’Islam. Il mio obiettivo era quello di cercare di tracciare una frontiera tra l’islam come spiritualità e l’islamismo come ideologia politica, il jihadismo come violenza terrorista. L’ho fatto a partire dalla tradizione di pensiero di Christian Jambet, di Henry Corbin, studiosi che hanno sempre fatto una chiara distinzione tra l’Islam come esegesi spirituale di un testo, e un Islam politico e dottrinale che irrigidisce e falsa il senso di quello stesso testo. Il punto è che ogni volta che cerchiamo di tracciare una linea semplice tra islam e islamismo ci rendiamo conto che non ci sono dei criteri chiari, né per quanto riguarda l’interpretazione dei testi, né rispetto al rapporto con la politica. La rivista “Les Temps Modernes”, fondata da Sartre, ha pubblicato un numero molto interessante sull’Islam, la teologia e lo Stato, in cui denuncia appunto come sia difficile distinguere, separare questi aspetti. Io ho voluto comunque fare un tentativo per uscire da possibili equivoci. È infatti innegabile che oggi c’è un’ostilità verso l’islam proprio come religione. D’altra parte, in Francia la sinistra si è costruita sulla guerra alle religioni, sulla guerra alla Chiesa, sulla rimozione e la negazione del religioso. Per la sinistra occidentale, ma soprattutto francese, l’emancipazione sociale è prima di tutto l’emancipazione dal religioso. Il progresso in qualche modo coincide con il crollo delle religioni. La religione, o meglio la sua assenza, è un indice del livello di modernizzazione e civilizzazione di un Paese. Di qui l’idea che se delle persone uccidono 30 una città in nome di Dio vengono dal Medioevo, fanno parte del passato. In realtà oggi sappiamo che queste persone sono spesso istruite e usano le tecnologie più moderne, in Algeria si parla di ‘islam degli ingegneri’. Quindi è possibile che la religione possa essere il nostro presente e, forse, anche il nostro futuro. Una certa forma di religione. Questo evidentemente per noi è un problema. Io vedo innanzitutto un problema di incomprensione quando si riduce la religione a una sorta di arcaismo, a un’illusione da dissipare, a qualcosa che appartiene al passato. A sinistra, la religione in quanto tale è sempre stata percepita come qualcosa che non ha autonomia, il sintomo di qualcos’altro: la crisi sociale, la disoccupazione, la geopolitica, per cui se un ragazzo fa appello alla religione, bisogna indagare cosa questa nasconda. un rapper, Booba, grande star in Francia, in una canzone dice “per fortuna abbiamo l’aldilà per andare avanti” Questa è la cultura politica in cui sono cresciuto. All’indomani degli attentati di gennaio abbiamo sentito dire che questi giovani “sono disagiati, sono delle vittime sociali, giocano troppo ai videogame, usano troppo facebook”. Sono state prese in considerazione tutte le possibili motivazioni, salvo una: la religione. Cosa trovano i giovani nella religione musulmana? Molti ci trovano semplicemente la loro religione, si ritrovano in essa. Un giovane musulmano mi ha raccontato: “Cercavo qualcosa: sono andato alla moschea dove ho trovato dei notabili, dei borghesi, che non erano interessanti. Dopo aver sentito parlare dei salafiti, ho capito che loro erano meglio, ma erano legati a dei paesi che non mi piacevano. Infine ho sentito parlare dell’Islam radicale, e allora mi sono convertito, ma non all’islam radicale, all’Islam e basta”. Per loro l’islam è l’islam. D’altra parte questa volontà di distinguere tra islam e islamismo quasi li fa ridere i jihadisti. Cosa cercano nella religione? È una domanda difficile: sicuramente un senso di speranza radicale che non trovano altrove. La sinistra, anche quella riformista, ha lottato contro un mondo pieno di ingiustizie, per un futuro migliore. Lo slancio rivoluzionario si è alimentato di questa speranza. Ebbene, dov’è oggi una sinistra che propone un’idea di mondo futuro credibile? Gli islamisti appaiono così i soli depositari della speranza in un mondo diverso. Dopodiché ci sono ovviamente differenze radicali tra l’islamismo e la sinistra. Perché i jihadisti pensano a un aldilà in cui viene reinstaurato il mondo di Dio, mentre la sinistra voleva abbandonare il capitalismo, le iniquità e rientrare nella vera storia umana. C’è un rapper francese di origini colombiane, Rocca, che in una delle sue canzoni più famose dice che “la speranza è vitale, come l’ossigeno che respiriamo”. Ecco, è un po’ questo. Un altro rapper, Booba, grande star in Francia, in una delle sue canzoni dice “per fortuna abbiamo l’aldilà per andare avanti”. C’è tutta una tradizione politica, una tradizione della speranza, dove è proprio l’orizzonte di un altro mondo possibile ciò che permette di resistere. Ora che è venuto meno un’orizzonte profano, secolare, politico, di speranza, la gioventù torna a guardare all’aldilà; un aldilà che per di più è internazionale, come lo sono sempre stati gli aldilà autentici. Pensiamo ai movimenti internazionalisti, rivoluzionari, alla guerra di Spagna, a quest’idea di una speranza senza frontiere, solidale. Ebbene, questi stessi elementi li ritroviamo nel jihadismo. Non è un caso se nei video vengono mostrati continuamente questi combattenti che arrivano da tutto il mondo. Si può parlare di una spinta universalista? Assolutamente. Si tratta di universalismi rivali. Purtroppo in un momento in cui la stessa Europa è profondamente in crisi, le risposte sono tutte nazionali. In Francia abbiamo un movimento fondato da persone vicine a Valls, la "Primavera francese”, che pretende di salvaguardare la laicità francese. Nonostante la sinistra vanti una tradizione fortemente internazionalista, oggi quando si analizzano l’islamismo e il jihadismo si ragiona in modo ultranazionale, locale. Si pensa siano problemi nazionali, riferiti alle banlieue, alla società francese, internazionalismo non capendo che appartengono al mondo intero. Certo, le persone vengono reclutate anche a partire dai disagi vissuti in un determinato paese, ma la forza di questo movimento sta nel fatto che oltrepassa le frontiere. La gioventù nella religione trova anche questo: una forza di mobilitazione enorme che le permette di dire: “Non appartengo alla mia piccola banlieue, non appartengo nemmeno alla Francia, io appartengo alla Umma, una comunità mondiale di fratelli e sorelle. E affronto un male che è altrettanto mondiale, cioè la miscredenza”. È incredibile come siano riusciti a creare uno scenario mondiale in un’epoca in cui non ci sono più cause politiche in grado di mobilitare le persone oltre le proprie frontiere. Hai citato la Spagna, però i combattenti delle Brigate internazionali avevano una grande spinta vitale. I jihadisti invece sembrano affascinati da un mondo di morte. È vero. Tutte le canzoni rivoluzionarie in Spagna parlano di vita: “la vita sarà bella, il mondo sarà giusto...”. I jihadisti invece hanno il culto della morte e la volontà di Francesca Pintus abolire la storia. E tuttavia ci sono delle assonanze nelle testimonianze di chi parte oggi e di chi partiva allora. Io vengo da una cultura e da una famiglia di sinistra, in cui la memoria della guerra di Spagna è centrale: quando si pensa ad una causa che ha attirato migliaia di giovani in solidarietà ai fratelli oppressi si pensa alla Spagna. È il modello assoluto. È anche forse una mia ossessione: se penso che oggi l’unica causa per la quale migliaia di giovani europei sono pronti ad andare a morire dall’altra parte del mondo è il jihadismo… è qualcosa che non mi fa dormire. Possiamo dire che è colpa della società, della crisi, della disoccupazione e così via, ma ci sarebbero tantissimi altri motivi per andare a combattere: per i ceceni, per i tibetani, per l’ambiente… Invece, il fatto che la sola causa per la quale le persone sono pronte a rischiare la propria vita sia il jihadismo è una questione enorme. Sono stato criticato per queste considerazioni, ma davvero penso che non possiamo capire e affrontare questo problema senza porci la questione della speranza. Bernanos, a pro- posito della Spagna, diceva: “Bisogna vagliare questi avvenimenti attraverso il setaccio della speranza”. Ecco, il jihadismo oggi dice qualcosa sullo stato della speranza nel nostro mondo. È la grande questione dell’Illuminismo: “cosa mi è permesso di sperare?”. È la questione di Kant, che Foucault ha ripreso in seguito. C’è una scena mitica dove si vedono dei giovani maoisti insieme a Foucault che dicono: “Andremo a riprendere la questione di Kant: cosa ci è concesso sperare”. se uno dice: “Sono un nazista e ucciderò perché sono nazista”, non puoi rispondergli: “No, non sei nazista” Oggi la speranza è che il meno peggiore tra i candidati riesca a gestire in qualche modo la società affinché il peggiore tra i candidati non arrivi al potere. È tutto quello che speriamo. Ebbene, io volevo porre innanzitutto questa questione: perché una giovane, di ceto medio, ben integrata in un liceo parigino, da un giorno all’altro decide di partire per la una città 31 internazionalismo Siria? Non credo che la sua valutazione sia: “sono cattiva e voglio tagliare la testa alle persone”. Non è questo. Prima di tutto lei è motivata da quella che vive come un’ingiustizia di fondo, e quindi da una volontà di lottare al fianco dei propri fratelli e sorelle musulmani, che sono oppressi. Dopodiché, lungo il suo percorso, è possibile che commetta delle azioni orribili, ma, ripeto, la spinta iniziale è un’altra e noi non possiamo sottrarci. Bernard-Henri Lévy mi ha accusato di fare un “regalo” ai jihadisti parlando di speranza, perché si tratta solo di bastardi. Intendiamoci, io penso che il jihadismo rappresenti una minaccia assoluta. Proprio per questo è fondamentale distinguere i nemici principali da quelli un po’ meno principali, diciamo, nel senso che per reagire a questa minaccia bisogna comunque ascoltare ciò che dicono questi giovani. Tu parli di un inconsapevole approccio “coloniale” in certa sinistra nell’affrontare l’islamismo radicale. Puoi spiegare? Chi sostiene che dietro il jihadismo non c’è alcuna questione religiosa manca l’obiettivo. Una certa sinistra, con questo atteggiamento, pensa di prendere posizione contro l’egemonia occidentale, contro il colonialismo. Per me invece, paradossalmente, proprio questo è un ragionamento coloniale! Perché parte dal principio che questi giovani jihadisti non sappiano quello che dicono. Davanti a un giovane jihadista che afferma: “Faccio quello che dico e dico quello che faccio. E uccido in nome di Dio per salvare un’immagine di Dio che è quella in cui credo”, ci viene spiegato che lui non ha capito, non pensa quello che dice, che in realtà ha dei problemi, perché non è integrato, è disoccupato... Io la trovo una reazione incredibile! Se uno dice: “Sono un nazista e ucciderò perché sono nazista”, non puoi rispondergli: “No, non sei nazista”. C’è un passaggio fondamentale di Derrida in cui parla della fede e spiega: “Non bisogna fare confusione: l’islamismo non è l’Islam, ma l’islamismo si esercita in nome dell’Islam”. in nome di cosa diciamo al giovane che sì, fa riferimento al Corano, ma in realtà non lo ha capito? È la questione formidabile del “nome”. Quando qualcosa viene esercitato “in nome” di qualcos’altro, non si può non approfondire la questione. Insomma, bisogna prendere seriamente la “grave questione del nome”. Oggi, a mio parere, di tali questioni ne abbiamo due. La prima è che queste persone uccidono in nome di Dio. La seconda è una domanda, se vuoi provocatoria: in nome di che cosa un dirigente socialista o un intellettuale di sinistra occidentale affermano 32 una città che il giovane che si richiama al jihadismo non ha nessun rapporto con la religione? In nome di che cosa diciamo a quel giovane che non sa quello che dice, che sì, fa riferimento al Corano, ma in realtà non lo ha capito? Io invece dico che fanno quello che fanno e dicono quello che dicono. E dobbiamo ascoltarli. Il giovane jihadista che ha ucciso due poliziotti a Magnanville ha pubblicato un video di rivendicazione terribile, in cui cita il Corano dicendo: “Il credente è lo specchio del credente”. L’ho trovata un’affermazione molto forte: il credo jihadista riflette e ci restituisce il nostro credere che la religione e la fede non siano nulla. Perché anche questo è un credo. Torniamo così alla questione iniziale. Noi crediamo di avere delle buone intenzioni quando diciamo che l’islamismo non ha niente a che fare con la religione, che non c’è alcun legame, e invece così tradiamo e boicottiamo la battaglia di tanti intellettuali musulmani, che sanno benissimo che l’islamismo è una avatar dell’Islam, che il jihadismo è un prodotto criminale dell’Islam, che tutte le religioni portano con sé il pericolo di una deriva violenta. Non possiamo fingere di non vedere che è in atto una specie di guerra civile mondiale all’interno del mondo musulmano. Un filosofo marxista molto importante, Étienne Balibar, dopo gli attentati di gennaio ha scritto su Libération: “La nostra sorte è nelle mani dei musulmani”. Io ho interpretato questa frase nel senso che c’è questa guerra mondiale interna all’Islam, e che la nostra sorte dipenderà da chi la vincerà. La vinceranno coloro che vogliono leggere e contestualizzare i testi o quelli che li vogliono cristallizzare in una dottrina violenta e sanguinaria? Dopodiché noi possiamo anche continuare a dirci che tutto questo non ha niente a che vedere con la religione e però... In questi mesi si è parlato della crisi del modello di laicità francese. La laicità è prima di tutto una cornice di garanzia della libertà di coscienza e di culto per tutte le religioni. Quindi è fondamentale. Va tuttavia riconosciuto che il contesto storico in cui la laicità alla francese si è costruita è stato segnato da toni aspri e violenti; questo fa sì che spesso la laicità venga vista come un’arma contro le religioni, anzi contro una religione in particolare. Si tratta di un altro modo di non prendere seriamente la dimensione religiosa. Perché la religione è un rapporto con il mondo, con i testi, con i riti, con il mangiare e il digiunare, con il corpo… non può essere ridotta a un’ideologia. Le prese di posizione di Manuel Valls contro il velo ridotto a mero simbolo politico rivelano proprio quest’incapacità di considerare la religione come un’esperienza intima ed esistenziale. Io poi registro proprio un equivoco nella pratica della laicità. Ripeto, l’obiettivo della laicità non è di eliminare la religione dalla sfera pubblica. Purtroppo il livello di rimozione, amnesia, cattiva fede e ignoranza rende tutto molto complicato. Le donne che portano il velo, lo fanno per mille ragioni diverse; non si può trattare chi indossa il velo in nome della sua relazione con Dio come se fosse l’aderente ad un partito. Detto questo, sono stati alcuni intellettuali arabi a dire che il burkini è un’invenzione recente del wahabismo, e nient’affatto una questione di spiritualità. Insomma, è tutto molto complicato, però se eliminiamo la dimensione religiosa, io dubito fortemente che possiamo capire cosa sta succedendo. Gli attentati che hanno colpito la Francia hanno cambiato il clima nel paese. Questo libro ha avuto un’ottima accoglienza a sinistra. Chiaramente anche delle critiche, ma costruttive, non aggressive. Credo che gli attentati di novembre abbiano cambiato tutto. ciò che definisce l’umanità sono proprio i simboli. Jean-Pierre Vernant, grande storico delle religioni ce lo ha insegnato Gli attacchi di gennaio 2015 a Charlie Hebdo erano stati letti come un’aggressione a dei giornalisti che avevano commesso degli errori, che avevano provocato; anche i morti all’Hyper Cacher… beh, erano ebrei e poi c’è la situazione in Medio Oriente... Il 13 novembre è stato deflagrante perché si è capito che possono uccidere chiunque, che tutti possono essere colpiti, anche dei ragazzi che vanno ad un concerto. La “giustificazione” della provocazione per la vignetta di Charlie Hebdo o della situazione in Medio Oriente non erano più ammesse. Poi c’è stata Nizza. Si è detto che a Nizza le vittime più numerose erano musulmane. Io lo trovo un argomento discutibile perché per i jihadisti loro non sono musulmani. È come ricordare che le vittime dello stalinismo erano in maggioranza dei comunisti. In realtà i loro obiettivi non erano affatto i comunisti, ma quelli che non lo erano abbastanza. Qui avviene lo stesso. Non stanno uccidendo dei musulmani, ma dei traditori dell’Islam: se quelle persone il 14 luglio erano in strada a festeggiare, allora non sono dei musulmani e quindi possono essere uccisi. Cioè mentre il cristiano lo uccidono in quanto cristiano, tant’è che lo vanno a cercare in chiesa, gli altri li uccidono perché non sono davvero musulmani. Quindi i musulmani non sono mai veramente degli obiettivi. Qui parliamo di persone che pretendono di incarnare il vero Islam e che uccidono dei cristiani, degli ebrei, e a volte anche dei musulmani se appunto li considerano dei traditori dell’Islam. Ne abbiamo discusso molto anche alle riunioni in redazione. Io ho posto la domanda: “Quando è sta- internazionalismo ta l’ultima volta che un prete è stato sgozzato durante la funzione nella sua chiesa in Francia?”. Io non ne ho idea, forse durante la Rivoluzione francese. Dovremmo rifletterci. Di nuovo, se non prendiamo la religione seriamente, non riusciremo nemmeno a capire cosa può far scattare nella memoria collettiva l’uccisione di un prete nella sua chiesa durante la messa. È un fatto enorme, eppure nessuno ha parlato del valore simbolico di questo gesto. Quand’è che abbiamo iniziato a pensare che la dimensione simbolica fosse irrilevante? In realtà ciò che definisce l’umanità sono proprio i simboli. Jean-Pierre Vernant, grande storico delle religioni e dell’antica Grecia, ci ha insegnato che il simbolismo è tutto. E così Derrida e Foucault. Non capisco perché oggi la maggior parte degli intellettuali neghi questa realtà. In questi mesi di dibattito, alcuni hanno chiesto per quale motivo si polemizzasse tanto sul velo quando lo “string”, il tanga non dà alcun fastidio. Ma come si fa a non vedere la differenza tra un abito che ha una dimensione simbolica di portata spirituale e uno slip sensuale? Lo stesso vale per il cibo. Il fast food belga Quick ha deciso che avrebbe servito solo prodotti “halal” ed è scoppiata una polemica. Ebbene, molti hanno detto che non capivano il perché di queste reazioni e che non sarebbe successo niente se la carne fosse stata bio: di nuovo come fai a non vedere la differenza tra halal e biologico? Mangiare halal è un qualcosa che implica un rapporto con la religione, quindi con la condotta, l’abbigliamento, il corpo, ecc. Non stiamo parlando solo di cibo. La questione del simbolismo è stata completamente accantonata, rimossa, dimenticata, ma oggi non possiamo capire cosa sta succedendo se non analizziamo a fondo questa dimensione. Tornando a chi partiva per la Spagna, oggi sembra che nessuna democrazia sia realmente disposta a combattere per i propri valori. Forse per il senso di colpa coloniale, forse perché ci manca il coraggio... Quella del senso di colpa è una grande questione. Molti mi hanno detto che nel capitolo dedicato alla Spagna sembra che io dica che un’idea degna di essere difesa è un’idea per la quale dobbiamo essere pronti a morire. Ammetto che un po’ è così. Chamayou, filosofo di estrema sinistra sostiene che ormai l’Occidente è così vigliacco da ridursi a uccidere con i droni L’Occidente sta assistendo a una specie di riflusso da qualsiasi prospettiva di emancipazione, oggi gli eserciti sono professionalizzati... Gramsci parlava di questa dialettica tra la speranza di redenzione, di rivoluzione e il suo venir meno: quando non c’è più alcuna speranza di emancipazione profana e quindi di idee per le quali si è pronti a morire (che sono idee politiche in effetti), c’è quasi un rovesciamento automatico per cui tornano in primo piano le fonti religiose o messianiche. A questo si aggiunge la questione della debolezza. I jihadisti ripetono che loro sono pronti a morire, mentre noi non lo siamo. Bin Laden in un’intervista disse: “Il vostro problema è che noi amiamo la morte quanto voi amate la vita”. Questo pone una questione enorme. Nella Teoria del drone, Chamayou, filosofo di estrema sinistra sostiene che ormai l’Occidente è talmente vigliacco da essersi ridotto a uccidere con i droni, mentre dall’altra parte ci sono delle persone pronte a sacrificare la propria vita. Venendo dalla cultura politica di una sinistra occidentale piena di sensi di colpa, per lui chi è oppresso è un eroe pronto a sacrificarsi e coloro che dominano sono dei pavidi. Insomma, secondo il suo ragionamento, il drone è l’arma dei dominatori, quindi l’arma dei codardi. Non si pone mai il problema di come dovremmo comportarci di fronte a qualcuno che non solo è pronto a morire, ma vuole anche morire. Un esercito composto da persone che tengono alla vita è un esercito debole. L’altro aspetto interessante è che tutti i ragionamenti sul senso di colpa partono dal principio che l’Occidente, l’Europa siano ancora dominanti. Anche se sappiamo che il jihadismo è finanziato dal Qatar, dall’Arabia Saudita, ecc. continuiamo a pensare che l’islam sia la religione dei poveri. In parte è vero, perché è la religione degli immigrati, di coloro che fuggono da condizioni di povertà e sfruttamento e tuttavia non possiamo dire che oggi a livello mondiale i paesi musulmani siano deboli. Anche per il filosofo Badiou tutto ciò che succede avviene obbligatoriamente per colpa dell’Occidente. Gli altri non esistono. La trovo una visione politica molto banale, quasi infantile. Si resta fermi al XIX e XX secolo, a una visione dell’Occidente come unico protagonista. Prendiamo la Siria: oggi la Russia sta mostrando una capacità di intervenire e manipolare la situazione molto maggiore degli Stati Uniti o dell’Europa. I russi hanno agenti ovunque, hanno formato l’esercito di Assad, hanno bombardato senza problemi. Eppure della Russia nessuno vuole parlare. Sono andato alla Festa dell’Umanità, la festa del Partito comunista francese: tutti a discutere della colpa degli americani, dell’Europa, della Francia, dell’interventismo, e nessuno che facesse cenno alla Russia. E ancora meno si parla del ruolo dell’Arabia saudita o del Qatar. Il mondo della sinistra crede di lottare contro l’egemonia imperialista dell’Occidente quando questo Occidente è sempre meno al centro del mondo. Si può parlare di una sorta di riflesso paternalistico? Qui c’è proprio un paradosso. Credono di lottare contro l’egemonia occidentale, mentre perpetuano un’eredità coloniale. Qualche anno fa Sarkozy a Dakar fece un discorso che scandalizzò tutti, perché se ne uscì dicendo: “L’uomo africano non è entrato nella storia”. Ecco, l’impressione è che per la sinistra francese, europea, il jihadista o il musulmano non siano mai entrati nella storia. forse sono gli intellettuali arabi o musulmani quelli che possono aiutarci. Penso a Rachid Benzine, intellettuale musulmano... Quindi tutto ciò che fanno non è che una reazione all’Occidente. Non sono mai delle persone che agiscono storicamente. La storia è l’Occidente, l’Occidente è la storia e gli altri si agitano. Francamente io trovo che questo approccio rilanci e perpetua un immaginario assolutamente coloniale. Come uscire da questa trappola? Il problema è che in questo periodo le posizioni si stanno radicalizzando e purtroppo le persone più colte e fini, che sarebbero capaci di fare un discorso diverso e di uscire da queste logiche sbagliate, preferiscono stare zitte o si irrigidiscono anch’esse. Io sono molto pessimista al riguardo. Forse sono gli intellettuali arabi o musulmani quelli che possono aiutarci. Penso a Rachid Benzine, intellettuale musulmano, che non ha alcun problema a dire che i principali centri di trasmissione e di insegnamento dell’Islam nel mondo oggi sono più vicini a Daesh che alla moschea di Parigi. In Francia si pensa che, sì, ci sono degli estremisti, ma globalmente prevalgono gli altri. Invece a dominare sempre più il mondo musulmano è un islam che non è particolarmente moderno o riformista. Benzine lo denuncia da un po’, ma pochi sono disposti ad ascoltarlo e chi lo fa spesso è sul versante opposto, quello che liquida l’islam come religione orribile. Teniamo presente che l’islamismo è anche una reazione a un movimento di riforma interno all’Islam. Nel corso del dibattito sul burkini si sono sentite persone dire che “bisogna rispettare le loro tradizioni”, come se si trattasse di condotte che vengono dalla notte dei tempi, quando invece sono invenzioni ultramoderne. Identificare l’islamismo con l’islam delle origini o al contrario non prenderlo sul serio dicendo che non c’entra niente con la religione non rende un buon servizio al lavoro coraggioso dei pensatori musulmani impegnati in un tentativo di riforma e di lotta al fanatismo. (a cura di Bettina Foa e Barbara Bertoncin. Traduzione di Joana Fresu de Azevedo) una città 33 pagine di storia NELL’ESTATE DEL ‘44... Alcune zone liberate dall’occupazione nazi-fascista sperimentarono forme di autogoverno molto avanzate: la Carnia diede il voto alle donne e adottò un sistema fiscale progressivo, nell’Ossola si progettò perfino una scuola media modernissima, a Montefiorino si introdusse l’assistenza medica gratuita; l’incredibile vicenda di un paesino della Basilicata dove dei contadini analfabeti fondarono la Repubblica antifascista di Maschito. Intervista a Nunzia Augeri. Nunzia Augeri, saggista e traduttrice di testi di diritto, economia, scienze politiche per vari editori, da giovanissima ha collaborato con Lelio Basso nella redazione della rivista “Problemi del Socialismo”. Il libro di cui si parla è L’estate delle libertà. Repubbliche Partigiane e Zone Libere, Carocci editore 2014. Nell’estate del ’44 in Italia settentrionale e lungo l’Appennino in alcune zone liberate si sperimentarono forme originali di autogoverno democratico. Puoi raccontare? Nel libro cito in tutto ventotto zone libere, più una ventinovesima, quella di Maschito, che è particolare. Le ventotto zone sono quanto di più eterogeneo, e talvolta folclorico, si possa immaginare, ma erano vere amministrazioni; non parliamo quindi di partigianato combattente. Certo c’era il commissario politico partigiano che faceva da trait d’union, ma poi le amministrazioni erano davvero civili e dentro c’erano anche i contadini, spesso semianalfabeti, o, come nel caso di Maschito, analfabeti del tutto, che per la prima volta si rendevano protagonisti della storia di questo Paese. Direi che le Repubbliche partigiane principali sono state tre. L’Ossola è sicuramente la più importante, anche per la sua posizione al confine con la Svizzera, dove si erano rifugiati molti intellettuali italiani che, appena seppero della liberazione di quel territorio, scesero per partecipare. C’erano Umberto Terracini, che qualche anno dopo firmò la Costituzione italiana, e curava il bollettino della Repubblica dell’Ossola; Franco Fortini, allora giovane sottufficiale, che di quell’esperienza ci ha lasciato lo splendido libro “Sere in val d’Ossola”; c’era Concetto Marchesi, che da Rettore dell’Università di Padova si era rifugiato in montagna con i suoi allievi; e ancora Gianfranco Contini, Massimo Bonfantini e tanti altri. Durante il periodo della repubblica dell’Ossola Gisella Floreanini fu la prima donna a conquistare di fatto la carica di Ministra in Italia (con delega all’Assistenza e ai Rapporti con le organizzazioni popolari). Teniamo pre- 34 una città sente che all’epoca alle donne non era neppure riconosciuto il diritto di voto. Sempre per via del confine, all’Ossola arrivarono i giornalisti stranieri, e così tutto il mondo seppe che gli italiani erano in grado di governarsi da soli, che c’era una classe dirigente democratica pronta a prendere in mano il paese. Le altre due repubbliche importanti sono quella della Carnia, in Friuli, che durò tre mesi, e quella di Montefiorino, a ridosso della linea gotica. La Carnia riuscì a emettere una legislazione delle più avanzate; tanto per cominciare, diedero il voto alle donne, ma in quanto capifamiglia. Inoltre introdusse una prima forma di democrazia diretta, che si rifaceva al comune rustico, che è appunto l’assemblea dei capifamiglia. I capofamiglia erano anziani o donne -gli uomini erano dispersi sui fronti di tutta Europa, o sulle montagne. il partigianato combattente a volte si fa carico delle necessità civili e all’occorrenza scende anche a patti La Repubblica della Carnia introdusse perfino un proprio sistema di fiscalità, stabilita con criteri che poi verranno accolti nell’art. 53 della Costituzione. I redditi venivano divisi in otto scaglioni, tassati con criterio progressivo. Da Montefiorino invece passò in Costituzione l’art. 54, tale e quale come l’aveva scritto il sindaco della Repubblica partigiana: “I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina e onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge”. Le repubbliche di cui parliamo nascono tutte nell’estate del ’44, per ovvie ragioni. I tedeschi, in grossa difficoltà, si limitano ormai a tenere le aree più importanti, le grandi vie di comunicazione, le grandi città e i luoghi dove c’erano aziende che ancora potessero servire. Devono invece abbandonare le montagne. Ci sarebbe la repubblica di Salò, però in montagna il fascismo aveva attecchito poco. Teniamo conto che il fascismo “passava” soprattutto attraverso la scuola, ma da quelle parti a otto anni i ra- gazzini erano già a lavorare! Inoltre, nelle Alpi c’era una tradizione secolare di emigrazioni stagionali. Queste persone andavano e venivano dalla Svizzera, dalla Germania, dalla Francia, dove avevano contatti con i movimenti socialisti e cooperativi; lavoratori magari semianalfabeti, che però qualcosa avevano orecchiato. Per esempio, in Carnia e a Varzi il bestiame viene dato ai contadini che si associano in cooperativa non in proprietà privata. Queste repubbliche si trovano a fronteggiare il problema della povertà, ma anche della gestione delle attività economiche... Non tutte le zone sono in condizioni disperate: l’astigiano è ricco, ha già una grande tradizione di produzione di vini pregiati; negli ultimi anni del conflitto i vini non si possono vendere, perché con l’alcol si facevano andare le macchine e quindi era un prodotto strategico. E allora, non potendo certo buttarlo, costruiscono dei serbatoi. Poi c’è il caso del biellese, che fin dall’Ottocento ha una forte industria tessile. Anche lì ci si pone il problema di cosa fare: continuare a vendere i tessuti rischia di costituire un aiuto per il nemico; d’altra parte, non vendere vuol dire mettere a rischio la produzione e il salario per gli operai. Vengono stabiliti dei modus vivendi, per cui i camion tedeschi in determinati momenti possono passare per caricare i tessuti; insomma, il partigianato combattente talvolta si fa carico delle necessità civili e all’occorrenza scende anche a patti. Intanto le amministrazioni civili sono impegnate ciascuna con i propri problemi. Il primo indizio, e una delle cause più importanti del fallimento della Repubblica di Salò è che non era riuscita a riorganizzare il mercato interno. Noi stavamo a Milano e devo dire che per fortuna c’era la cascina dei nonni! Mio padre la domenica si faceva 160 chilometri in bicicletta per andare lì a prendere qualcosa da mangiare. Avevano il maiale e si faceva il salame, che sul mercato milanese valeva oro. In Carnia si faceva proprio la fame... Questo dappertutto. In Carnia però ci sono 90.000 persone e 42 comuni, nella zona li- Repubblica dell’Ossola: confezione di uniformi per i partigiani di una divisione garibaldina bera. Fai conto che allora gli italiani erano 36 milioni. Questi 42 comuni vengono isolati da una cintura di nazifascisti che non lasciano passare i cereali, che in alta montagna non ci sono. Risorge così la tradizione delle portatrici del Carso: 150 donne, organizzate dal Partito comunista, vanno a piedi in Emilia, caricano in spalla i cereali, e tornano a casa attraverso l’unico passo rimasto aperto, a piedi. Queste donne salvano 90.000 persone dalla fame, portando su qualcosa come cinque tonnellate di cereali… Il Pci aveva organizzato tutto, dall’acquisto nelle regioni ricche della pianura padana da Mantova in giù, ai posti di tappa dove queste donne potevano mangiare e dormire. Fortunatamente non tutti sono così disperati; Montefiorino, che è in Emilia, ha bisogno soltanto di organizzare le squadre per aiutare i contadini per la trebbiatura. Anche lì c’è un afflato politico di tipo socialistico, collettivo. In generale gli amministratori delle zone libere cercano di venire a patti con le situazioni che si ritrovano. I contadini devono pur guadagnare qualcosa, e però i prezzi del mercato nero sono ormai folli; dove è possibile si calmierano i prezzi di alcuni generi, oppure viene imposto un prezzo politico. Nelle zone ricche la razione giornaliera ammontava a seicento grammi di pane -un pane immangiabile- e duecento di carne. La razione del pane per gli operai di Milano era di centocinquanta grammi al giorno... A un certo punto le fabbriche non possono più produrre perché gli operai proprio non ce la fanno fisicamente. Le amministrazioni dovevano occuparsi anche dei servizi sanitari, della scuola… La Repubblica di Montefiorino istituisce l’assistenza medica gratuita per tutti, e organizza un ospedale con le attrezzature di un albergo ormai chiuso, mettendoci medici sempre a disposizione. Provvede anche al servizio ostetrico: all’epoca si partoriva in casa, ma con l’assistenza di un’ostetrica. nelle zone ricche la razione giornaliera era seicento grammi di pane -un pane immangiabilee duecento di carne Tutte le zone libere, per quanto piccole, affrontano anche il problema della scuola: bisogna riaprirla. La repubblica dell’Ossola, con un comitato composto da intellettuali, stabilisce un nuovo ordinamento scolastico, una scuola media unica per tutti con un approccio molto moderno, che dà ampio spazio allo studio delle scienze e delle lingue straniere. Pensiamo che la scuola media unica vedrà la luce in Italia solo vent’anni dopo! In quegli anni “la scuola per tutti” erano le elementari, la media era roba da signori, esisteva solo nelle città. Purtroppo l’anno scolastico non comincerà nemmeno, perché alla fine di settembre tornano i tedeschi. Fortunatamente circa duemila bambini hanno già trovato riparo in Svizzera, assieme a molti partigiani (altri sono fuggiti per organizzarsi altrove). Ventitré patrioti, rimasti a proteggere la ritirata, vengono catturati e impiccati. Domodossola è ormai una città fantasma. L’esperienza della repubblica dell’Ossola è conclusa. Dicevi che la repubblica di Maschito fa caso a sé. È l’unica del Sud. Maschito non c’entra coi partigiani: è un paese della Basilicata, a cinquanta chilometri da Potenza. Dopo l’8 settembre, i soldati tedeschi ammazzano venti persone a Rionero in Vulture, lì vicino. A Maschito sono già tutti ferocemente antifascisti: intanto, perché per colpa del fascismo i giovani dei paesi sono tutti spariti, chi in Africa, chi in Egitto, chi in Russia, chi in Grecia; le famiglie sono state distrutte e sono venute a mancare le braccia. In secondo luogo, i contadini dal ‘36 erano obbligati a portare i loro prodotti all’ammasso, che all’inizio pagava decentemente, ma nel ’44 per niente. Non solo: Maschito è il territorio di origine del vino Aglianico, e già allora i contadini erano molto orgogliosi delle vigne, che rendevano bene. Il fascismo li aveva invece obbligati a coltivare grano, che peraltro rendeva pochissimo. Per tutti questi motivi erano furiosi! Così decidono di costituire una repubblica libera, indipendente e antifascista, e procedono a un’assemblea. Il capo è un contadino che si chiama Domenico Bochicchio. Il fatto è che sono tutti analfabeti, non sono in grado nemmeno di stendere il verbale, figuriamoci di oc- una città 35 Scambio di prigionieri tra partigiani ossolani e fascisti a Traffiume di Cannobio, settembre 1944. Al centro, un giornalista olandese con la moglie cuparsi dell’amministrazione del consorzio agrario, delle bolle, delle operazioni di vendita... Alla fine decidono di andare a chiedere aiuto a un proprietario terriero che non aveva mai taglieggiato i contadini, Giuseppe Guglielmucci, che apparteneva a una famiglia di socialisti pre-fascisti. Sarà lui il sindaco-notaio, l’unico in grado di redigere i verbali e firmare gli atti. C’è poi la necessità di amministrare la giustizia, di garantire l’ordine pubblico... Sì, perché intanto di reati se ne compivano dappertutto, quindi servivano i tribunali. Ma nelle repubbliche ci si occupa anche del diritto di famiglia: in Carnia, ad esempio, quando una donna con dei figli viene abbandonata dal marito, quest’ultimo viene ritrovato e obbligato a occuparsi della famiglia. Nel cuneese una ragazza rimane incinta, il ragazzo sparisce e viene ripescato anche lui... Gorrieri, che ha dedicato un libro alla repubblica di Montefiorino, parla di “feste, balli e gozzoviglie”! Viene affrontato anche il problema dei prigionieri. L’Ossola sistema i fascisti catturati in un ex collegio, a Druogno, su in montagna. In alcuni posti ho ritrovato i conti degli osti che fornivano i pasti ai detenuti! A Domodossola a un certo punto arriva un comandante partigiano che si mette a inveire col mitra in mano perché ha scoperto che i prigionieri fascisti avevano due coperte a testa, mentre i suoi uomini in montagna ne avevano una sola. Sono racconti molto interessanti. Nel cuneese, il partito d’Azione redige una specie di codice civile in cui viene 36 una città proibito persino di denudare il prigioniero per non offendere la sua dignità umana. Questo in un contesto di assassinii, stupri e torture inenarrabili... È impressionante quante cose riescano a fare in così poco tempo. Queste repubbliche durano infatti molto poco... La repubblica dell’Ossola dura quaranta giorni! Altre anche meno, due, tre settimane… Eppure in quel poco tempo fanno di tutto: riescono perfino a emettere francobolli e buoni finanziari, acquistano bestiame... E poi c’è l’attività editoriale: tutti hanno il loro bollettino, i loro foglietti, i loro manifesti... Nella zona libera della Val Maira, valle alpina in provincia di Cuneo, instaurano addirittura una tipografia, recuperando una macchina per stampa, una “pedalina” affidata a un tipografo che si fa aiutare da alcuni volontari e dai partigiani in convalescenza. Vengono pubblicati i giornali partigiani “ufficiali”, quelli dei partiti, e poi i bollettini ufficiali con le ordinanze, le decisioni, la legislazione delle amministrazioni civili; i giornali delle brigate, ognuna ha il suo. C’è un bellissimo documentario sulla Repubblica dell’Ossola in cui mi sembra Concetto Marchesi racconta di alcuni giovani di Domodossola che erano andati a chiedere di poter pubblicare il loro giornalino. E lui gli aveva spiegato: “Guardate che qui c’è la libertà di stampa. Non dovete chiedere il permesso a nessuno!”. Questi restano stupitissimi! Libertà di stampa, di associazione, di riunione, tutte cose inaudite. Sto lavorando a un libro sulle scuole partigiane, quelle che vengono fuori dalla repubblica dell’Ossola, e che fondò mio marito, Luciano Raimondi, i convitti scuola della Rinascita. C’è uno statuto e poi c’è un codi- ce lunghissimo, quattordici cartelle. Appena l’ho visto mi sono chiesta: perché è così dettagliato? Quella normativa oggi fa ridere, è pleonastica, inutile, ma allora era necessaria, perché non c’erano precedenti. Quel codice è il risultato delle assemblee di ogni convitto, è stato discusso dagli allievi, tutto fatto ex-novo. Non c’erano tradizioni, anche perché nemmeno l’Italia liberale aveva inserito il popolo italiano nelle sue strutture. Alle elezioni votava meno del 2% e da quando era stato introdotto l’allargamento al suffragio universale maschile, di votazioni praticamente non ce n’erano più state. In queste repubbliche c’è spazio anche per lo svago e si assiste a dei cambiamenti sul piano dei costumi. Gorrieri, che ha dedicato un libro alla repubblica di Montefiorino, parla di “feste, balli e gozzoviglie”! Per qualcuno era uno scandalo. Le donne sono le grandi protagoniste, insieme ai contadini e al clero, delle zone libere. E tuttavia le donne più anziane temono che in queste Repubbliche si stiano diffondendo dei costumi pericolosi. Teniamo presente che in queste aree era pieno di giovani, di adolescenti, molti partigiani avevano 16 anni, i più maturi erano tutti in guerra. Ebbene, questi ragazzini rimasti nei paesi partecipavano con estremo entusiasmo e ballavano tutte le sere. In Val Sesia si lanciò persino un concorso musicale. In quelle settimane rifiorisce tutta una vita civile che era stata soffocata dalla dittatura fascista e poi dalla guerra. In una delle repubbliche vengono perfino proiettati film e documentari sulla guerra, inediti in Italia. Si portava il cinema in paesi dove non era mai esistito! Come dicevo, questa rivoluzione dei costu- mi viene molto ben accolta dalle donne giovani, e fortemente disapprovata dalle anziane e dai preti. Soprattutto le anziane si pongono come freno a questi costumi ritenuti licenziosi. Alcuni preti, più progressisti, si vedono costretti a prenderne atto, ma ci sono anche i reazionari, come il vescovo di Udine che nel bel mezzo della tragedia invia una lettera in cui deplora “che le ragazze mostrino le ascelle nude”! In questi esperimenti di giunte amministrative erano presenti ispirazioni diverse. Obbligatoriamente dovevano essere presenti tutti i partiti del Cln, quindi comunisti, socialisti, Partito d’Azione. Il problema è che nei paesini non c’erano tutti, al che capitava che si prendesse qualcuno da parte e gli si assegnasse il ruolo: “Tu sei il Partito d’Azione”. Quello magari non sapeva neanche cosa fosse! In altre no, i partiti erano presenti eccome! In Carnia gli appartenenti alle brigate Osoppo e i comunisti stavano per cominciare a spararsi addosso. Nel cuneese non si sono sparati addosso, ma c’è mancato poco. Per fortuna fu destituito il capo dei partigiani e arrivò Nuto Revelli che riuscì a tenerli buoni, se no era un massacro: da una parte i partigiani antifascisti e repubblicani convinti, dall’altra non solo i democristiani, ma anche le bande partigiane comandate e in parte costituite da ufficiali dell’esercito che tendevano a mantenere il modello militare e si ricordavano molto bene del giuramento di fedeltà al Re. Questi avevano comportamenti molto diversi, anche di fronte ai nazisti, erano più attendisti, più disposti a patteggiare. I partigiani no, patteggiavano solo in condizioni disperate. pagine di storia Qual è l’epilogo di queste repubbliche? Tutte finiscono cadendo reinvase dai nazifascisti. La Carnia era una delle porte verso l’Austria e la Germania, quindi lì i nazifascisti dovevano tenersi aperti i varchi per tornare a casa. Sopra Sondrio, una delle repubbliche dura solo tre giorni. Lì c’erano le centrali elettriche che davano elettricità all’industria milanese e padana, e i fascisti l’avevano individuato come loro via di fuga. Infatti da dove sarebbe scappato Mussolini? Dal lago di Como. Quindi quella era una zona controllatissima. Per fortuna i partigiani riescono a salvare tutte le centrali elettriche che i nazifascisti avevano programmato di distruggere. Poi c’è il Piemonte alto e basso, dalla Val d’Aosta al cuneese, fino a saldarsi con la zona appenninica della Liguria. In un primo momento era stato tutto abbandonato. Qui le zone libere erano sette; succede che gli alleati minacciano un altro sbarco fra Genova e Savona. E invece, mentre a Savona si erano organizzati e li aspettavano da un giorno all’altro, sbarcano in Provenza. Quindi i nazifascisti sono costretti a spostarsi su quel territorio per difendersi dall’eventuale sbarco. ai Cosacchi del Don, feroci avversari dei soviet e alleati di Hitler, i nazisti promisero una “Kosakenland” in Carnia Ciò che queste repubbliche elaborarono in quelle poche settimane però non andò perduto. Non a caso nel mio libro l’ultimo capitolo è dedicato a quanto delle conquiste delle zone libere è passato nella nostra Costituzione. Tantissimo! Dalle libertà fonda- Un accordo per uno scambio di prigionieri a Gravellona durante la Repubblica Ossolana mentali, la libertà di riunione, di associazione, di partito, di stampa, ai sindacati... In quel periodo nascono i primi sindacati; nel biellese e nell’astigiano si redigono i primi contratti collettivi di lavoro. Il primo contratto nazionale del tessile prenderà pari pari quello della zona libera del biellese. Del sistema sanitario e fiscale ho già accennato, ma soprattutto vengono introdotte libere elezioni. Ci sono le istruzioni del Cln dell’Alta Italia che dicono di costruire queste giunte amministrative con la presenza dei partiti, e con gruppi locali che siano rispettabili -cioè non compromessi col fascismo. Quindi giunte aperte a gruppi di cittadini, quella che oggi chiamiamo “società civile”. In Carnia e nel cuneese viene abolita la pena di morte; sempre in Carnia si recupera la tradizione cooperativa del socialismo: anch’essa entrata nella nostra Costituzione. Per concludere, puoi raccontare la storia della Carnia e dei Cosacchi? Ai Cosacchi del Don, feroci avversari dei soviet, che al tempo dell’invasione tedesca si erano alleati con Hitler, i nazisti avevano promesso una “Kosakenland” in Carnia. Nel 1942 ci fu quindi questa transumanza biblica: non soltanto i soldati, ma anche le famiglie e i loro pochi beni; una carovana di quarantamila uomini, seimila cavalli, trenta cammelli. Arrivarono in Carnia. Quando i nazisti riconquistarono queste zone, obbligarono la metà degli abitanti ad abbandonare le loro case, lasciando tutto, piatti, pentole, biancheria, tutto, per farvi insediare i cosacchi. I quali fecero una strage. Il bilancio parla di 150 assassinati, mille deportati e poi stupri, incendi… fino a che a un certo punto i cosacchi si resero conto che se volevano vivere lì dovevano cambiare atteggiamento. Qualcuno cominciò ad aprire gli occhi e andò coi partigiani. Qualcuno gli occhi li mise sulle ragazze e si sposò… Ho incluso nel libro il racconto di una famiglia presso cui si insedia un cosacco. Dapprima fa il prepotente, poi la mamma lo “mette a posto”, e questo da bravo ragazzo china il capo e si mette in riga. Alla fine gli vogliono bene! In seguito i tedeschi promisero un’altra Kosakenlanden in Carinzia, per cui dovettero andarsene tutti. Il fatto è che in Carinzia è inverno, siamo già al febbraio del ’45. Nasce così la leggenda secondo cui i cosacchi si sarebbero suicidati in massa nelle acque gelide della Drava. In realtà non è vero; sì, qualcuno si è suicidato, ma il grosso alla fine è rimasto in Carinzia, o a Lienz, a ridosso del confine italiano, dove finirono sotto il controllo degli inglesi. Alla fine verranno consegnati ai sovietici, i generali condannati a morte, gli altri deportati in Siberia, e il loro capo verrà impiccato pubblicamente sulla Piazza Rossa. (a cura di Bettina Foa e Barbara Bertoncin) una città 37 di poesia Novecento poetico italiano/14 di Alfonso Berardinelli Le poesie memorabili, antologizzabili e antologizzate che si leggono negli Ossi di seppia di Montale sono effettivamente molte. Dopo “Meriggiare pallido e assorto” e “Spesso il male di vivere” (commentate nella puntata precedente) vengono “Esterina”, “Non chiederci la parola”, “Portami il girasole”, “Gloria del disteso mezzogiorno”, “Forse un mattino andando”: tutti testi che contengono alcune di quelle icastiche formule autoesplicative che fanno sempre comodo quando si legge un poeta così suggestivo ma anche avaramente comunicativo, nei suoi primi tre libri, come Montale: usato e abusato scolasticamente per spiegare in breve come è fatta e che sapore ha la lirica moderna nella sua variante italiana. Quando poi si ha veramente poco spazio, sembra proprio che non si possa parlare né degli Ossi né di tutto Montale senza rileggere due poesie come I limoni e Arsenio. Due poesie che con il loro svolgimento e la loro più distesa articolazione strofica tendono al poemetto, al monologo raziocinante o alla micronarrazione. Autoritratto trasposto (in Arsenio) e monologo raziocinante (nei Limoni) segnalano subito che Montale sentiva di esordire, all’inizio degli anni Venti del Novecento, in un momento non facile per la poesia. Bisognava dare subito un’idea forte di se stessi e del proprio stile. Lo spiegò più tardi nella sua famosa “intervista immaginaria” del 1946: “Non ci fu mai in me una infatuazione poetica, né alcun desiderio di ‘specializzarmi’ in quel senso. In quegli anni quasi nessuno si occupava di poesia. L’ultimo successo di cui abbia ricordo in quei tempi fu Gozzano, ma gli spiriti forti dicevano male di lui, e anche io (a torto) ero di quel parere. I letterati migliori, che presto si riunirono intorno alla Ronda, pensavano che la poesia dovesse scriversi, da allora in poi, in prosa. Ricordo che pubblicati i primi versi, nel Primo Tempo di Giacomo Debenedetti, fui accolto con ironia dai miei pochi amici (ch’erano già immersi nella politica e antifascisti dal più al meno, verso il ’22-’23)”. Dunque, difficoltà di situazione e mancanza di fede nell’autoidentificazione “specializzata” di poeta. Senza escludere, anzi includendo quella che gli psicologi hanno chiamato “identificazione con l’aggressore”: se gli altri tendono a fare dell’ironia sul fatto che scrivo poesie, sarò io stesso a scriverle in modo da far sentire sfiducia e ironia su me stesso e anche sui poeti e sulla poesia in generale, almeno per come è comunemente, volgarmente intesa: 38 una città I limoni Ascoltami, i poeti laureati si muovono soltanto fra le piante dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti. Io, per me, amo le strade che riescono agli erbosi fossi dove in pozzanghere mezzo seccate agguantano i ragazzi qualche sparuta anguilla; le viuzze che seguono i ciglioni, discendono tra i ciuffi delle canne e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni Meglio se le gazzarre degli uccelli si spengono inghiottite dall’azzurro; più chiaro si ascolta il susurro dei rami amici nell’aria che quasi non si muove, e i sensi di questo odore che non sa staccarsi da terra e piove in petto una dolcezza inquieta. Qui delle divertite passioni per miracolo tace la guerra, qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza ed è l’odore dei limoni. Vedi, in questi silenzi in cui le cose s’abbandonano e sembrano vicine a tradire il loro ultimo segreto, talora ci si aspetta di scoprire uno sbaglio di Natura, il punto morto del mondo, l’anello che non tiene, il filo da disbrogliare che finalmente ci metta nel mezzo di una verità. Lo sguardo fruga d’intorno, la mente indaga accorda disunisce nel profumo che dilaga quando il giorno più languisce. Sono i silenzi in cui si vede in ogni ombra umana che si allontana qualche disturbata Divinità. Ma l’illusione manca e ci riporta il tempo nelle città rumorose dove l’azzurro si mostra soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase. La pioggia stanca la terra, di poi; s’affolta il tedio dell’inverno sulle case, la luce si fa avara - amara l’anima. Quando un giorno da un malchiuso portone tra gli alberi di una corte ci si mostrano i gialli dei limoni; e il gelo del cuore si sfa, e in petto ci scrosciano le loro canzoni le trombe d’oro della solarità. Come si vede è un monologo in scena, che però tenta il dialogo (“Ascoltami”, “Vedi”). L’autore dei versi si illustra, si rappresenta, si spiega e in parte si giustifica. I suoi versi esistono perché hanno quel particolare contenuto, un contenuto che si definisce anzitutto per differenza e opposizione rispetto al tradizionale idolo-poesia. La polemica antidannunziana e autodifensiva è implicita ma evidente. Il poeta “laureato”, chiunque fosse, era, voleva essere, era stato considerato un uomo speciale, la cui vita speciale non somiglia e non deve somigliare alla vita “di tutti”. Se si ha presente quanto era già accaduto nella poesia italiana con gli autori nati negli anni ottanta dell’Ottocento, da Gozzano a Ungaretti, a Moretti, a Saba o Sbarbaro, la novità portata da Montale è in questo senso piuttosto scarsa. L’aureola estetica indossata da D’Annunzio era andata da tempo fuori uso e di “perdita dell’aureola” aveva già parlato Baudelaire più di mezzo secolo prima in uno dei suoi poemetti in prosa. Come in molte altre cose, Montale più che scoprire e innovare, sistema, arricchisce, costruisce, solidifica. In verità, almeno tecnicamente, si mostra subito, benché lo neghi, più professionale dei suoi fratelli maggiori. Non è un poeta investito, squassato e travolto né dalla poesia né dalla sua impossibilità. I suoi dubbi storici di autore non sono radicali, neppure quando sono radicalmente espressi. Il suo è uno scetticismo temperato e compensato da una forte e decisa vocazione vocale e da una passione tecnica per gli artefatti verbali che supera quella dei suoi predecessori maggiori e minori: certo non supera la perizia di Pascoli, ma quella di D’Annunzio sì. Anche senza espansività, lo stile di Montale esibisce una “bravura”, un’incisività lessicale, metrica e anche retorica che sorprendono e vogliono sorprendere. Se dopo i primi dubbi Montale apprezzerà molto Gozzano in uno dei suoi saggi critici più tempestivi e acuti sul poeta torinese, è perché Gozzano sapeva costruire, era dotato di una sua teatrale e narrativa eloquenza di tipo nuovo, che negava se stessa anche nell’atto di prodursi senza pudore. La poesia sui limoni oppone botanicamente l’umile al sublime. Si nota in questo anche una tipica tendenza ligure alla concretezza, al risparmio, al poco. Comunque non c’è dubbio che il gusto di Montale per la precisione e la rarità lessicale viene subito fuori nei primi versi, quando dice che no, lui non di poesia vuole parlare di “bossi ligustri o acanti”, ma intanto li nomina, si diverte a farli risuonare quei “nomi poco usati”, facendo in modo che restino, anche se ironicamente, nella memoria del lettore. Segue poi uno dei versi più lunghi della poesia, quello che fissa il gesto della differenza, dell’opposizione: “Io, per me, amo le strade che riescono agli erbosi”, un verso che si inarca in un efficacissimo enjambement aperto su una pioggia di versi fonicamente insistiti, gremiti di consonanti doppie e di evidenze fisiche tali da provocare in chi li legge (e in chi li ha scritti...) una specie di ebbrezza iperpercettiva. È una scenografia che contiene già un movimento, un dinamismo narrativo. Inizia così la passeggiata, il vagabondare del solitario osservatore e meditante inquieto. È la prima fase di una progressione visionaria verso l’incontro che ha qualcosa della rivelazione. L’odore dei limoni che chiude la seconda strofa segnala che le percezioni fisiche, in un crescendo parossistico, hanno provocato quella piccola estasi che dà “a noi poveri la nostra parte di ricchezza”. Da questo punto in poi, attraverso ciò che era fisico si entra nel metafisico. Del resto, è stato Debenedetti a ricordare nelle pagine della sua Poesia italiana del Novecento dedicate a Montale che “tutta la grande poesia lirica, forse, è anche metafisica”. Nelle due strofe che seguono, prima si offre l’enunciazione più chiara di una filosofia poetica nel momento in cui si rivela (“Vedi, in questi silenzi in cui le cose/ s’abbandonano e sembrano vicine/ a tradire il loro ultimo segreto”) e poi si torna all’opacità e al confuso torpore in cui la luce estiva, il silenzio rivelatore, lo splendore solare dei limoni, sono sopraffatti, sottratti alla coscenza e quasi dimenticati (“Ma l’illusione manca e ci riporta il tempo/ nelle città rumorose dove l’azzurro si mostra/ soltanto a pezzi”). I momenti della visione, dell’intuizione o premonizione conoscitiva sono rari e transitori. La vita quotidiana (urbana, piovosa, invernale) non è altro che uno stato di atonia dei sensi, “gelo del cuore”, offuscamento. Il giallo dei limoni è un’apparizione estiva, meridiana: un vero sapere e un vero sentire che forse è solo una momentanea illusione di aver sentito e capito che cosa tiene insieme il mondo, il suo senso o il suo sostanziale vuoto. Questa conoscenza resta una mezza conoscenza, uno stato sospeso fra la certezza momentanea della comprensione e l’impossibilità di raggiungerla davvero e di farla durare. Resta l’emblema, la presenza fisica (colore e odore) dei limoni. Anche nella costruzione e nello stile, che è eccezionalmente denso, ramificato, labirintico, una poesia come Arsenio va oltre la semplicità del dualismo (bene e male, pieno e vuoto, luminosità e opacità) su cui poggia Ossi di seppia. Scritto nel 1927, due anni dopo la prima edizione del libro, il poemetto viene aggiunto nell’edizione del 1928. Secondo lo stesso Montale, Arsenio è un ponte verso il libro successivo, Le occasioni, uscito nel 1939, documento tipico e classico dell’ermetismo anni trenta. Nella traduzione di Mario Praz, Arsenio uscì nella rivista “Criterion” di T.S.Eliot e resta uno dei capolavori di Montale. Il nome Arsenio consuona con Eugenio, il nome dell’autore. Ma il pudore, il ritegno, lo scetticismo di Montale sulla consistenza biografica dell’Io, fanno del personaggio un correlativo narrativo che scivola fuori dalla soggettività dell’autore sottraendosi all’autobiografismo esplicito. L’io perciò diventa un “tu” e chi legge viene tirato dentro un oscuro viluppo di descrizioni e di allusioni. Quella certa scioltezza che è sembrata perfino eloquente, diretta, lapidaria in molti testi del libro, ora è oscuramente bloccata e inibita. Arsenio si muove, cammina, ma i suoi passi sono faticosi, intralciati. Si parla di “viaggio” ma l’esito è un’ “immobilità”: I turbini sollevano la polvere sui tetti, a mulinelli, e sugli spiazzi deserti, ove i cavalli incappucciati annusano la terra, fermi innanzi ai vetri luccicanti degli alberghi. Sul corso, in faccia al mare, tu discendi in questo giorno or piovorno ora acceso, in cui par scatti a sconvolgerne l’ore uguali, strette in trama, un ritornello di castagnette. È il segno d’un’altra orbita: tu seguilo. Discendi all’orizzonte che sovrasta una tromba di piombo, alta sui gorghi, più d’essi vagabonda: salso nembo vorticante, soffiato dal ribelle elemento alle nubi; fa che il passo su la ghiaia ti scricchioli e t’inciampi il viluppo dell’alghe: quell’istante è forse, molto atteso, che ti scampi dal finire il tuo viaggio, anello d’una catena, immoto andare, oh troppo noto delirio, Arsenio, d’immobilità… Ascolta tra i palmizi il getto tremulo dei violini, spento quando rotola il tuono con un fremer di lamiera percossa; la tempesta è dolce quando sgorga bianca la stella di Canicola nel cielo azzurro e lunge par la sera ch’è prossima: se il fulmine la incide dirama come un albero prezioso entro la luce che s’arrosa: e il timpano degli tzigani è il rombo silenzioso. Discendi in mezzo al buio che precipita e muta il mezzogiorno in una notte di globi accesi, dondolanti a riva, – e fuori, dove un’ombra sola tiene mare e cielo, dai gozzi sparsi palpita l’acetilene – finché goccia trepido il cielo, fuma il suolo che s’abbevera, tutto d’accanto ti sciaborda, sbattono le tende molli, un frùscio immenso rade la terra, giù s’afflosciano stridendo le lanterne di carta sulle strade. Così sperso tra i vimini e le stuoie grondanti, giunco tu che le radici con sé trascina, viscide, non mai svelte, tremi di vita e ti protendi a un vuoto risonante di lamenti soffocati, la tesa ti ringhiotte dell’onda antica che ti volge; e ancora tutto che ti riprende, strada portico mura specchi ti figge in una sola ghiacciata moltitudine di morti, e se un gesto ti sfiora, una parola ti cade accanto, quello è forse, Arsenio, nell’ora che si scioglie, il cenno d’una vita strozzata per te sorta, e il vento la porta con la cenere degli astri. Oltre che un virtuoso della descrizione scorciata, quasi una strozzata “prosa d’arte” lampeggiante, compressa in endecasillabi, Montale si mostra efficiente anche nell’invenzione di formule concettuali e morali. Qui abbiamo quel “delirio d’immobilità” così potentemente allusivo da poter diventare l’emblema diagnostico di una situazione della vita (degli scrittori, degli individui) negli anni del fascismo. Ma come sempre, in Montale la storia è mascherata da metastoria, o tradotta in termini di substoria esistenziale. Arsenio vive e si muove in un incubo a occhi aperti. Ogni percezione è nitida ma nasconde o annuncia non si sa che cos’altro. Si riesce a malapena a capire che siamo in una cittadina sul mare, che è in corso uno di quei temporali estivi tempestosi, con tuoni e lampi, che provocano trombe d’acqua, mentre intanto un’orchestra in un albergo continua a suonare sotto i palmizi. Di Arsenio si dice che discende sul lungomare. Abbondano le sequenze enumerative, le specificazioni, gli incisi. La sintassi è rallentata e come inceppata da un eccesso di oggetti, sensazioni, presentimenti. Finché nell’ultima strofa, la più ampia, in un crescendo conclusivo di visioni disperate e agghiaccianti, piovono le formule morali che hanno fatto di Montale il più intellettualmente, allegoricamente novecentesco poeta del Novecento italiano: colui che è riuscito a fare dell’incomunicabile biografico una microepica dell’attesa metafisica e il codice emblematico di un destino storico. Montale ha certo avuto letterariamente successo, ma è anche finito in cattive mani, proprio lui nelle mani di tutti, senza che quasi nessuno potesse davvero capire e accettare i suoi messaggi. Ma questo è stato il destino di quasi tutta la poesia moderna. una città 39 lettere dalla Cina Il porto di Colombo Cari amici, sono stata per un paio di settimane in Sri Lanka. Come vi ho già raccontato, rispetto a Hong Kong, Taiwan o al Giappone, anche lì è pieno di turisti cinesi che fanno shopping con serietà e dedizione. Trattandosi di una località per loro più esotica di quanto non lo siano Hong Kong o Taiwan, capita, come in Giappone, di vederli “mascherati” da locali mentre brandiscono il bastone per fare i selfie: ragazze in sari che camminano spedite verso i luoghi “pittoreschi”, e poi si fotografano l’un l’altra con una totale mancanza di imbarazzo, lasciando sventolare all’aria un lembo del sari, per fare foto romantiche. E pazienza. La parte più interessante però non sono tanto i turisti, che appunto sono ovunque. No, quello che è impressionante sono gli investimenti cinesi: in particolare a Colombo, la capitale, sono davvero vistosi, dato che si concentrano sull’impressionante lungomare, quel Galle Green dove le bellissime onde dell’Oceano Indiano si infrangono sul muretto di guardia con forza. Proprio oltre il Green sono in costruzione dei grandi edifici –grattacieli che diventeranno alberghi e palazzi di uffici, fatti dalla Cina e per la Cina. Alle sei di sera, mentre la luce si fa rosa per il tramonto, ecco che escono dai cantieri gruppi di muratori cinesi un po’ spaesati, che aspettano l’autobus che li accompagna in dormitorio. Ho camminato lungo tutto il lungomare, per vedere cosa stesse succedendo al porto di Colombo, della cui costruzione si sta occupando un’azienda cinese, la China Harbour Engineering Company Ltd. La storia del porto di Colombo è un po’ travagliata: sotto il presidente precedente, Mahinda Rajapaksa, un grande amico della Cina, il porto era stato trasformato da deposito per container a niente meno che una “port city”, a spese dei cinesi. Si trattava di costruire grattacieli, alberghi di lusso, shopping malls e per l’appunto il porto, per un valore di 1.4 miliardi di dollari Usa, tutti cinesi. Per la Cina si trattava di aggiungere perle alla sua collana (la chiamano proprio così: “collana di perle”) che porta dalla Cina all’Europa con una serie di punti scalo per favorire i trasporti di cose e persone, via terra e via mare. Ma l’abbraccio che Rajapaksa ha voluto estendere a Pechino è stato così stretto che pare gli sia costato la rielezione. Pechino infatti stava mettendo su bottega un po’ dappertutto, anche nell’altro porto, quello a sud di Hambantota, e visto che tutti i lavoratori che sono impegnati nei grandi lavori cinesi sono per l’appunto cinesi, ai singalesi la cosa non è piaciuta tantissimo. Nuove elezioni, ed è andato al potere Maithripala Sirisena, che ha prontamente affernato che tutti i grandi investimenti cinesi andavano rivisti, dal momento che non erano stati approvati con le dovute cautele, soprattutto rispetto all’impatto ambientale. Pechino, come era prevedibile, è andata su tutte le furie, e ha fatto pressione là dove Colombo è più vulnerabile: chiedendo, cioè, il rimborso dei prestiti. Subito. Impossibile. Così, senza tante fanfare, Sirisena ha fatto ricominciare i lavori al porto, anzi, alla Port City. Dunque sul fare del tramonto mi sono messa a passeggiare intorno al cantiere, guardando quanto tutto fosse cinese: gli stessi slogan sul- dall’Inghilterra La battaglia di Orgreave Cari amici, il crowdfunding viene usato per diverse cose: veicoli a tre ruote, nuovi smartwatch, film, progetti artistici e perfino design e sistemi gestionali innovativi per il carcere, ma azzarderei l’ipotesi che una revisione giudiziaria sostenuta dal crowdfunding non si sia mai vista. Chissà cosa verrebbe offerto agli investitori: un posto nella commissione? Un senso di giustizia? Una bandiera ricamata del sindacato dei minatori? Una banda di operai di miniera che suonano “Jerusalem”? È proprio perché il governo non ha saputo esercitare il potere di revisione giudiziaria sulle inaudite violenze della polizia in una delle giornate dello sciopero dei minatori a Orgreave, nel 1984, che la campagna per la giustizia e la verità ha annunciato l’intenzione di finanziare la propria ricerca su come andarono le cose con il crowdfunding. Orgreave è uno di quegli episodi che compongono l’album della nostra esistenza. Non importa se eravate lì, ma che eravate in vita all’epoca dei fatti. Non è un’esagerazione affermare che quel lunedì 18 giugno del 1984 la percezione che la gente aveva del governo, della polizia e del Paese cambiò per sempre. 40 una città Fu una battaglia, parte di una guerra che sembrava mossa dal governo contro il suo stesso popolo. Ci furono violenze da ambo le parti, ma il picchetto aveva esordito in modo decisamente pacifico. Era un bel giorno d’estate e i minatori, che erano arrivati a cessare la fornitura di carbone raffinato alla cokerie, si stavano godendo il sole in un campo non lontano dal posto di lavoro, quando migliaia di poliziotti arrivarono convergendo da tutte le parti della nazione. La cavalleria fu spedita alla carica e fece irruzione nel campo a gran galoppo. Le foto delle violenze scioccarono il Paese. Il numero di poliziotti non aveva precedenti, come anche quello dei cani e dei cavalli impiegati nell’azione. Gli arresti furono moltissimi, ma non un singolo minatore fu incarcerato per alcun crimine, dal momento che i tribunali respinsero le prove delle forze dell’ordine: troppe versioni identiche, tutte dettate dalla polizia del South Yorkshire. La testimonianza anonima di un poliziotto di Orgreave rivelò che gli ufficiali avevano ricevuto l’ordine di usare la massima forza e confermò che i minatori non avevano fatto niente. Un minatore, Stefan Wyzocki, raccontò alla Bbc di essere stato arrestato e quin- la sicurezza e le meraviglie della progettistica, lo stesso faccione un po’ sovietico del lavoratore con l’elmetto che guarda al futuro, con a fianco i caratteri che dicono “Prima di tutto sicurezza!”, e poi, naturalmente, gli stessi lavoratori con la pelle ispessita dalle intemperie, ma qui un po’ spaesati. Camminando, ho iniziato a chiacchierare con uno di loro, che mi ha solo detto che si chiamava Zhang -nome talmente comune che magari se l’è inventato perché ero troppo ficcanaso. Mi ha detto che è lì da due anni, e per sei mesi, quando ci sono state le elezioni, non hanno fatto nulla. Ma visto che la decisione di tornare in Cina non è sua, ma dell’azienda, e che ha il permesso di rientrare solo per il Capodanno cinese, se n’è rimasto lì, ad aspettare insieme agli altri. Lavorano dieci ore al giorno, a volte fanno gli straordinari e mangiano nel capannone cinese (“Cibo locale? Mai provato. Non siamo abituati a mangiare cose non cinesi”, mi spiega), dormono in un altro capannone; escono solo per chiamare casa con i cellulari, per avere un po’ di privacy. Sono in ventiseimila. Gli ho chiesto quanto sarebbe rimasto a Colombo in queste condizioni e mi ha detto, come niente fosse: “Vent’anni. È il contratto che abbiamo con il governo, e l’azienda ha deciso che restiamo tutti, per costruire e gestire il porto”. Poi siamo stati interrotti da una guardia, cinese anche quella, insospettita dalle mie chiacchiere, e così ho tolto il disturbo. Tornando verso il Green, non riuscivo a credere alle dimensioni del progetto, e mi chiedevo davvero quanto la popolazione di Colombo sappia, ed apprezzi, questo sviluppo: dato che il porto, una volta finito, sarà tutto cinese anche quello. Ilaria Maria Sala di fatto passare tra file di poliziotti che lo ricoprirono di pugni e calci fino al punto che bisognò portarlo via di peso. Eppure è stato ritenuto che un’inchiesta non sarebbe di “interesse pubblico”. Parte delle motivazioni per cui Amber Rudd ritiene che una revisione giudiziaria sia inutile dipendono dall’assenza di “decessi” o “arresti illegali” legati alle azioni della polizia del South Yorkshire. Ah, beh. Caso risolto. Esistono fin troppi documenti ufficiali sullo sciopero dei minatori ma ancora oggi sono troppo sensibili per poter essere resi noti al pubblico, come solitamente accade passati trent’anni. Si sa ancora fin troppo poco delle direttive governative sul mantenimento dell’ordine durante lo sciopero, ma si sospetta molto. Persino l’attuale capo della polizia e dell’anticrimine, il dr. Alan Billings, che si aspettava che il governo annunciasse un’inchiesta, è rimasto scioccato nell’apprendere la decisione di Amber Rudd. Grazie all’inchiesta, la polizia del South Yorkshire avrebbe potuto esorcizzare i fantasmi del suo passato a Hillsborough e Rotherham. Parlando alla Bbc, Billings ha dichiarato: “Non sappiamo con precisione cosa sia accaduto a Orgreave, perché sia stato necessario un simile dispiegamento di forze armate, né se fu coordinato dal governo”. Ha poi aggiunto la seguente riflessione: “Uno di quei momenti, a mio avviso, in cui la polizia diviene quasi interamente uno strumento di Stato; uno di quei momenti che è meglio evitare”. Michael Mansfield, l’avvocato della Corona che difese i minatori, ha spiegato chiaramente il motivo per cui ritiene di grande importanza l’apertura di un’inchiesta: non si tratta di ciò che è successo ma di come sia stato possibile arrivarvi, e perché. Centro! Questa è una campagna di crowdfunding a cui parteciperò e che consiglierò a chiunque io conosca. È uno di quei casi in cui il governo non riesce a guidare e ad assicurare verità e giustizia, finché non sono le persone e la vita di tutti i giorni a prendere il sopravvento. Intanto tutti i giorni ci sono ragazze e giovani donne affette da problemi mentali come mai prima d’ora. Il 37% delle ragazzine soffre di depressione e ansia. Le richieste scolastiche, il futuro incerto, i problemi estetici, la sessualizzazione precoce e il bullismo su internet e per strada creano stress; aggiungiamolo ai social e alla tensione per mantenere un’immagine pubblica impossibile e sarà davvero troppo. L’estetica è stata uno degli stimoli che hanno portato alla creazione dello “Spare Rib Magazine”, una rivista femminista iconica creata da Rosie Boycott e Marsha Rowe, tra le altre. Il primo numero apparve nel 1972, come sfida alla situazione delle donne dopo la rivoluzione degli anni Sessanta, nell’inebriante e illuminante seconda ondata del femminismo. Le pubblicazioni cessarono nel 1993. Sembra impossibile che dopo tutti quei nostri presunti dal Marocco Dopo le elezioni Cari amici, vi scrivo a pochi giorni dalle elezioni legislative in Marocco, che hanno visto la conferma del Partito Giustizia e Sviluppo (Pjd) di Abdelilah Benkirane, primo ministro dal 2011. In Marocco di politica si parla poco, in quanto la partecipazione al voto è talmente bassa da rendere l’effetto delle elezioni poco rilevante. La gente è toccata dall’aumento del costo della vita o dalle difficoltà legate a un sistema largamente corrotto, nonostante i proclamati tentativi di pulizia da parte di re e partiti politici. Pochi condividono l’interesse per il confronto tra islamisti moderati del Pjd e Partito Autenticità e Modernità, ovvero del presunto scontro tra partiti della Koutla o di movimento e quelli del regime o Makhzen (cosiddetti partiti dell’amministrazione). Scrive Tahar Lamri, intellettuale algerino di Ravenna: “Marocco, gli islamisti vincono le elezioni, così titolano, unanimi, i giornali da ieri. In qualsiasi altro contesto i titoli sarebbero stati: Voto in Marocco. Il Partito Giustizia e Sviluppo riconfermato; oppure: Marocco, il Partito ecc. vince le elezioni. Nei contesti arabo-islamici, pare, qualsiasi partito in odore di islam è islamista: sottinteso oscurantista, jihadista, antidemocratico, ecc. Nessuno dice che il Pjd (Partito Giustizia e Sviluppo), che si definisce ‘partito politico nazionale’ e nulla più, già al governo dal 2011, ha governato assieme agli ex comunisti del Partito del Progresso e del Socialismo, al partito di centro-destra Rni (Raggruppamento Nazionale degli Indipendenti), ai liberali del Mp (Movimento Popolare)”. Anche oggi il Pjd dovrà formare un governo di coalizione. Sono cominciate le trattative e, come già nel 2011, non si tratterà quasi certamente di un governo esclusivamente della Koutla, bensì di una coalizione di partiti molto diversi tra loro, come sempre amalgamati formalmente sotto l’egida reale. Potrebbe tornare al governo il partito degli indipendenti, che deciderà del suo ingresso con una diversa leadership. Altri partiti amministrativi stanno attendendo la decisione. Ma la vera novità è l’ormai data per certa partecipazione del partito conservatore Istiklal, quello nazionalista dell’indipendenza. Dalle fila dell’Istiklal era uscita la frangia socialista, oggi Unfp, che, dopo le ulti- me elezioni, sembra propensa all’avvicinamento al Pjd, con l’affermazione del quale già dal 2002 l’Unione Nazionale delle Forze Popolari aveva visto un calo costante e impietoso di consensi: oggi questo partito dalla storia gloriosa supera di pochi punti la soglia del 3%, portando in Parlamento 20 deputati soltanto. A partire dalla fine degli anni Novanta del secolo scorso, forte dei consensi che lo facevano prima forza politica del paese, la Unfp fu cooptata al governo e incominciarono a spegnersi le speranze per un orizzonte monarchico costituzionale con una possibile vera democrazia; fu la stessa sinistra di potere a tradirle. Oggi le speranze dei democratici marocchini sembrano nelle mani del Pjd, che con più del 30% dei voti si è riconfermato prima forza politica del paese, ottenendo 125 deputati, 23 in più del Pam. L’Istiklal è la terza forza, ma con l’11% ha meno della metà dei parlamentari del Pam; seguono Rni e Movimento Popolare, partiti moderati amministrativi. Le istanze della sinistra sono oggi lasciate a una debole federazione di partiti che sembra riscuotere consensi soprattutto tra i giovani della nuova borghesia urbana; questi non paiono confidare nella democrazia rappresentativa e non si iscrivono neppure nelle liste elettorali. Di conseguenza la Federazione della sinistra democratica (Fgd) non ha raggiunto il quorum del 3%, perdendo la rappresentanza nazionale femminile e giovanile delle liste create ad hoc per un maggiore equilibrio generazionale e di genere in Parlamento. Neppure la combattiva leader Nabila Mounib è diventata deputata e la Federazione ha due soli eletti, a Rabat e Casablanca. È forse una sinistra troppo elitaria; già all’interno del Movimento 20 febbraio e in seguito alla crisi dell’alleanza con gli islamisti ne era emersa la fragilità. Sono quindi i movimenti a ispirazione religiosa a prevalere nel favore dell’opinione pubblica perché in grado di portare la bandiera delle questioni socio economiche, la lotta alla povertà e alla corruzione (su quest’ultimo tema lo stesso primo ministro Benkirane aveva per altro ammesso il fallimento del governo). Permane una corruzione molto diffusa, forse senza soluzione: lo stesso re che si dichiara paladino dell’onestà governa un siste- lettere progressi una mia giovane amica si ritrovi a essere intimidita sulla metropolitana da un uomo di mezza età che le si spinge contro, sentendosi in pieno diritto di invadere il suo spazio personale, respirare la sua aria e succhiarle via la dignità. Che un giovane possa urlare alla sua ragazza di “chiudere quella cazzo di bocca” non una, non due ma tre volte, e che la ragazza rimanga zittita, senza voce. Sembra impossibile che le nostre giovani siano talmente preoccupate del loro aspetto da procurarsi dei tagli per alleviare il dolore della loro infelicità. Non si tratta di cosa è successo, come diceva Michael Mansfield riguardo a Orgreave, ma di come ci siamo arrivati. E perché. © Belona Greenwood (traduzione di Antonio Fedele) ma, il Makhzen, diffusamente corrotto. E i partiti politici galleggiano per spartirsi il potere che resta, e con esso il denaro. A Sidi Bibi, una cittadina a sud di Agadir, dopo le elezioni ci sono stati grandi problemi di gestione della sicurezza per il fatto che alcuni cittadini avevano costruito abusivamente le loro case. Li si era lasciati liberi di agire prima del voto, per poi punirli duramente con la distruzione di quanto costruito non appena le urne sono state chiuse: forse questo fatto potrebbe ben rappresentare che opinione possano farsi i marocchini della democrazia elettorale... D’altronde il Marocco resta un paese di grandi disparità: tra classi sociali, tra quartieri di una stessa città, fra regioni. Che importanza possono avere le elezioni per un pastore d’un villaggio montano dell’Alto Atlante che parla soltanto in berbero e vive a fatica in un’economia di sussistenza? Un amico di Tata m’ha raccontato con passione del suo fallito tentativo di diventare rappresentante cittadino per l’Istiklal. Le differenze ideologiche tra i partiti, già pallide a livello nazionale, quasi spariscono a livello locale: qui la scelta di una parte politica dipende prevalentemente dalle persone che la rappresentano: per Hassan conta soprattutto la capacità di farsi carico dei bisogni del suo villaggio e dei cittadini, nel tentativo di vincere la radicata abitudine della compravendita del voto che favorisce personaggi corrotti. Oggi siamo rimasti bloccati a Tata dalle piogge insistenti: dalle montagne è arrivata una grande ondata d’acqua che ha invaso queste aride terre impedendo qualunque collegamento stradale per la città. Non ci sono ponti: Benkirane passando di qui li aveva promessi, ma forse Tata è troppo lontana da Rabat o è mancato da parte degli eletti un reale interesse per il miglioramento delle condizioni di vita dei loro elettori. Hassan non è stato eletto, ma almeno è soddisfatto per l’invio in Parlamento del rappresentante del suo partito, piccolo segnale di cambiamento politico in questa provincia. Continuerà pertanto e, nonostante tutto, a impegnarsi per la sua gente confidando che in tanta indifferenza, di colpo possa scoppiare un temporale delle coscienze, in grado di riempire i fiumi come l’acqua che oggi scorreva impetuosa, unica protagonista di questa giornata nel sud Marocco. Emanuele Maspoli una città 41 2 ottobre. Il populismo non è fascismo, ma… Marine Le Pen è fascista? Un tribunale francese ha sentenziato che i suoi oppositori hanno il diritto di definirla così. E Norbert Hofer, il leader del Partito della libertà austriaca? E Donald Trump? Sheri Berman, nel suo intervento sull’ultimo numero del “Foreign Affairs”, interamente dedicato al populismo, solleva qualche dubbio. Sicuramente il contesto di crisi economica e inadeguatezza delle élites politiche ricorda molto quello degli anni Venti e Trenta. Proprio per questo varrebbe la pena capire perché la crisi economica comune a Germania e Stati Uniti portò a esiti così diversi. Berman ricorda ad esempio come mentre la Germania si intestardiva in una politica di austerità, Roosevelt poneva le fondamenta del futuro stato sociale. Non a caso, la forza del fascismo stava anche nella promessa di uno Stato che si sarebbe occupato dei suoi cittadini, difendendoli dagli effetti del capitalismo. Ovviamente al successo del fascismo contribuirono molti altri elementi, la frustrazione dei reduci, la connivenza delle forze conservatrici, l’appeal nazionalistico… E oggi? Berman intanto fa notare che i populisti non parlano mai di abbattere la democrazia, bensì di migliorarla. Sono antiliberali, ma non antidemocratici. Una differenza tutt’altro che banale. E poi c’è il contesto: nonostante tutti i limiti, attraverso le istituzioni democratiche, i partiti e le organizzazioni della società civile, i cittadini possono esprimere le proprie preoccupazioni, influenzare la politica e, attraverso il welfare, trovare risposta ai loro bisogni. Tutto bene dunque? Beh, se è vero quello che dice Theda Skocpol, e cioè che i movimenti rivoluzionari non creano le crisi, bensì le usano, allora è invece il caso di preoccuparsi. Ma delle cose giuste. Il passato ci insegna che più che dei populisti dobbiamo preoccuparci dei problemi che affliggono la nostra democrazia e che sono la crescente disuguaglianza, i bassi salari, la disgregazione delle comunità, eccetera eccetera. (foreignaffairs.com) 10 ottobre. Morire di carcere Un detenuto di 23 anni ha provato a impiccarsi nella propria cella della Casa Circondariale di Fuorni. Le guardie carcerarie, accortesi del tentativo, hanno dato subito l’allarme. Intubato e stabilizzato, il ragazzo è stato trasferito con urgenza all’ospedale di Salerno del Ruggi, dove è stato ricoverato in rianimazione in coma. (Ristretti Orizzonti) 12 ottobre. Il Gaokao Ogni anno, ai primi di giugno, gli studenti cinesi che stanno per conseguire il diploma si cimentano nei test d’ammissione alle università: i Gaokao (letteralmente “esami superiori”) sono considerati un evento nazionale, al punto che nelle prossimità delle sale d’esame si interrompono i lavori nei cantieri, viene deviato il traffico e le forze di polizia verificano che nelle strade adiacenti non si faccia chiasso. In più, per evitare gli imbrogli, le aule ven- gono sorvolate da apparecchi che rilevano onde radio “anomale”. Fuori, intanto, si assiepano i genitori degli esaminandi, che si preparano per quel momento sin dalle elementari. Già, perché i posti disponibili sono circa uno ogni 50.000 candidati, e dal risultato del Gaokao può dipendere il resto della vita: dalla carriera alle prospettive di matrimonio. Certo un sistema tanto competitivo attira diverse critiche anche in Cina; d’altra parte, l’opinione condivisa è che non ci sia alternativa a un esame tanto duro. “Abbiamo troppa gente”. (theguardian.com) 16 ottobre. Dove sono finiti i lavoratori? Nel mercato del lavoro statunitense mancano all’appello milioni di uomini. Dove sono finiti? Questa è domanda che guida la ricerca da poco pubblicata di Alan B. Krueger, professore di economia a Princeton. Gli economisti da tempo si scervellano per capire perché una crescente quota di giovani uomini non solo non lavora, ma nemmeno cerca un impiego. Gli ultimi dati ci dicono che a settembre 2016 negli Stati Uniti l’11,4% degli uomini tra i 25 e i 54 anni (sette milioni di persone) non fa parte della “forza lavoro”. Com’è possibile? Al di là delle tendenze demografiche, che ovviamente incidono, la preoccupante scoperta di Krueger è che il 40% di chi sta “fuori” soffre, nel senso proprio di dolore fisico, anche di intensità elevata; un terzo ha delle disabilità di vario tipo; il 44% prende antidolorifici tutti i giorni e, ciò che è peggio, continua a provare dolore. (nytimes.com) 20 ottobre. Tutti programmatori? Negli Stati Uniti si è aperto un dibattito attorno all’idea che saper programmare è diventato un aspetto dell’alfabetizzazione di importanza pari al saper leggere e far di conto e quindi va insegnato a tutti. Ne parla Annie Murphy Paul sull’ultimo numero de “Le Scienze”. L’amministrazione Obama si sta muovendo su questa strada. Nel Regno Unito, già nel 2014 per gli studenti è diventato obbligatorio saper programmare. Sheena Vaidyanathan, che insegna alla scuola elementare di Palo Alto, è convinta che tutti, maschi, femmine, ragazzini apparentemente poco dotati per la matematica, possano imparare a programmare. Ovviamente la sfida è molto ambiziosa, soprattutto perché per ora mancano gli insegnanti di informatica. I più diffidenti mettono anche in guardia dal rischio che lungo questa strada si inseriscano le grandi imprese interessate solo ai loro profitti. I più fiduciosi sostengono invece che “saper programmare” nel senso di scrivere codici, è troppo poco. Quello che bisogna insegnare, partendo dai bambini, è ciò che sta “sotto”, diciamo così, la programmazione, e cioè il pensiero computazionale, vale a dire “la capacità di saper prendere un grosso problema e scomporlo in tanti problemi più piccoli”, un’abilità che in effetti non serve solo a chi usa il computer. (Le Scienze) 28 ottobre. L’imama La moschea Mariam, la prima a conduzione femminile, ha aperto in marzo a Copenaghen. appunti di un mese Al primo incontro si è parlato di diritto delle donne. Sherin Khankan, 42 anni e quattro figli, una delle imam che guida la preghiera, è nata in Danimarca. Nel 2001 ha fondato “Critical Muslims” un gruppo che promuove un islam democratico e pluralista. Sherin porta il velo solo quando prega e nei suoi sermoni rilegge il Corano “secondo i nostri tempi e la nostra società”.La sua moschea trova ispirazione nel sufismo, ma tutti sono i benvenuti. Nella moschea di Sherin si sono celebrati già cinque matrimoni (due dei quali tra persone di fede diversa). Uomini e donne sono invitati a partecipare alle varie attività della moschea, ma il venerdì è riservato alle donne. (wsj.com) 31 ottobre. Mr Hussain Sharakat Hussain, ventiseienne di Birmingham, aveva acquistato un iPhone7 da 799 sterline per la sorella, dopodiché aveva deciso di restituirlo. Gli era stato comunicato che sarebbe arrivato un rimborso, ma dopo qualche settimana gli è arrivata un’email di Apple in cui gli si chiedeva di dimostrare di non essere il defunto dittatore iracheno. Ovviamente ha subito pensato fosse spam, ma si sbagliava. Il suo cognome era finito dentro la “black list”. A quel punto Hussain, che fa l’autista, si è infuriato, oltre che indignato per l’associazione. Apple si è scusata dell’errore umano e ha garantito che i soldi sarebbero stati riaccreditati quanto prima. (independent.co.uk) 31 ottobre. Effetti Brexit Sulla prima pagina del “Guardian” oggi si parla di un effetto della Brexit piuttosto curioso: alcuni discendenti delle decine di migliaia di ebrei tedeschi che trovarono rifugio in Gran Bretagna in fuga dal nazismo, oggi rivendicano il loro diritto alla cittadinanza tedesca. Le autorità tedesche parlano di circa quattrocento domande arrivate dal Regno Unito. Michael Newman, dell’associazione dei rifugiati ebrei, parla di una sfida psicologica considerevole: dopo aver aiutato gli ebrei a diventare cittadini britannici, oggi gli viene chiesto di assistere chi vuole riacquistare la cittadinanza tedesca. In base all’art. 116, infatti, qualsiasi discendente di persone perseguitate dai nazisti ha diritto a chiedere la cittadinanza tedesca. Ovviamente non tutti sono pronti a una simile scelta. Harry Heber, 85 anni, nato in Austria e arrivato in Gran Bretagna all’età di sette anni nel dicembre del 1938, dice che l’idea di tornare nel luogo dove i suoi parenti sono stati assassinati semplicemente gli provoca orrore. (theguardian.com) 1 novembre. Poverofobia In francese si dice “pauvrophobie” ed è la parola scelta dopo un sondaggio condotto da Atd Quart Monde (movimento di lotta contro la miseria presente in 34 paesi) in occasione della giornata mondiale contro la povertà. Sembra che questa fobia della povertà in Francia (ma non solo) stia colpendo comunità locali e amministrazioni in un modo inedito. Non ci sono solo gli episodi eclatanti degli at- blog: redazioneunacitta.wordpress.com facebook: goo.gl/ezEWLL twitter: @Una_Citta 42 una città tacchi ai centri per i poveri e gli immigrati, racconta Isabelle Rey-Lefebvre su “Le Monde”, ora ci si mettono anche gli arredi urbani a ribadire il concetto: come le gabbie metalliche anti-clochard installate intorno alle panchine di Angoulême. I poveri ormai non sono più tollerati neanche sui marciapiedi. D’estate a Cannes, Nizza, Fréjus, si ripetono i decreti anti-accattonaggio. A Lione sono arrivati a chiudere le fontane in piena canicola. “Le Monde” ha dedicato un lungo reportage alla fobia per la povertà. Ciò che colpisce è anche proprio il senso di fastidio che si sta diffondendo verso chi non ce la fa: se nel 1995 era il 25% delle persone a pensare che “i poveri non fanno abbastanza per uscire dalla loro situazione”, oggi, a parità di indice di povertà, a pensarla così è il 36%. (lemonde.fr) 3 novembre. Il grande fratello e l’Rc auto Agli ideatori doveva essere sembrata una bella trovata. “Firstcarquote” il nuovo prodotto della compagnia assicurativa inglese Admiral si rivolge esplicitamente alla “generazione digitale” alle prese con l’acquisto della prima auto facendo un’offerta allettante. Permettimi di “quotarti”, cioè di capire quante possibilità ci sono che tu faccia un incidente, e ti farò un bello sconto. Quotarti come? Beh, studiandoti attraverso il tuo account su un social network. Facebook ha bloccato sul nascere l’iniziativa perché viola gli elementari principi di privacy. Admiral si è giustificata spiegando che c’è un legame comprovato tra la personalità e il modo di guidare e che il loro servizio era pensato per aiutare i giovani neoguidatori spesso molto penalizzati dai premi assicurativi. Sarà. Certo la prospettiva che un’assicurazione usi degli algoritmi per sapere, per esempio, in che orari e dove incontri le persone, quali parole usi nei post e quanto lunghe sono le tue frasi fa, a dir poco, una certa impressione. (dailymail.co.uk) 4 novembre. Ivan il terribile Il primo leader russo a rivalutare la figura di Ivan il Terribile, sanguinario zar del sedicesimo secolo, era stato Stalin; in un celebre aneddoto, il povero Eisenstein, reo di aver girato un film non proprio agiografico sulla sua figura, era stato duramente ripreso dal dittatore, che stimava Ivan come “grande e saggio governante”. Con la fine dello stalinismo, anche il Terribile era tornato a essere considerato una figura cupa della storia di Russia. Così fino a oggi, perché la città di Oryol, nella Russia sud-occidentale, ha appena inaugurato nella piazza principale una statua equestre in suo onore. All’inaugurazione, alla presenza di alte autorità, il governatore cittadino ha affermato: “Anche ora abbiamo un presidente potente, che ha costretto il mondo intero alla deferenza verso la Russia. Proprio come aveva fatto Ivan il Terribile”. Non tutti ci stanno, e in città si è animato un piccolo gruppo di attivisti anti-statua. Una di loro è già stata aggredita, e per la paura ha lasciato il paese. (politico.eu) appunti di un mese Il dovere La catastrofe non potrebbe essere la grande occasione per una rinascita dell’Italia, in nome del bene comune? Perché non chiamare tutti i cittadini alla solidarietà non solo verso chi soffre adesso, ma verso chi potrà soffrire domani e verso figli e nipoti il cui futuro non deve essere gravato da ancora più debiti? In che modo? Varando una grande patrimoniale una tantum, su beni immobili e mobili, pesantemente progressiva, per ricostruire, per mettere in sicurezza buona parte del paese, per dare un forte impulso alla ripresa economica; ma che possa, soprattutto, darci ciò che rasserena gli animi e unisce: la consapevolezza di aver fatto il proprio dovere. Cosa succede in fabbrica? Confessiamo che non avevamo capito, ed è grave, che i cinque operai Fca, licenziati per motivi disciplinari avendo inscenato una discutibile sceneggiata su un Marchionne suicida (per ricordare il suicidio, quello vero, di alcuni cassintegrati Fca), sono stati reintegrati dal giudice solo perché il loro contratto era antecedente al jobs act. Se fossero stati assunti dopo sarebbero fuori con qualche mensilità in tasca (poche). Beh, intanto fa impressione la disparità con cui due operai, fianco a fianco sul lavoro, ma assunti in tempi diversi, verrebbero trattati per la stessa infrazione disciplinare: uno licenziato l’altro no. (Ma la Corte avrà da ridire? Speriamo, visto che è così puntuale a revocare, in nome dell’uguaglianza, i contributi di solidarietà a chi guadagna molte migliaia di euro al mese). Ancora più impressione, però, fa l’eventualità che in fabbrica torni la paura del padrone. Il voto sballottato A chi gli fa notare che con la sua legge elettorale anche un partito del 25% potrebbe avere la maggioranza assoluta in Parlamento, uno degli architetti della legge elettorale ribatte che il voto al ballottaggio è pienamente rappresentativo, e lì, per forza, ma questo non c’era bisogno che ce lo dicesse lui, ci sarà chi avrà più del 50%. Quindi io dovrei sentirmi rappresentato in Parlamento dal voto che ho espresso in un ballottaggio? Se fossi in Francia, per esempio, e fossi costretto a votare Sarkozy per sbarrare la strada alla Le Pen, dovrei poi sentirmi rappresentato da una persona e da una destra che detesto? E poi in Francia fra il primo turno e il ballottaggio ci si può coalizzare, quindi si può trattare, fare patti e ottenere qualcosa. Qui no, assolutamente: che non sia mai che si arrivi a un “inciucio” (ma chi è stato che ha introdotto nel linguaggio politico questa parola? La più antipolitica e volgare che sia mai stata usata!). Ma facciamo pure il caso italiano, in una delle ipotesi neanche poi tanto campate per aria: la minoranza Pd se ne va ed è una separazione con astio che impedisce, almeno all’inizio, una ricomposizione in una lista comune; al ballottaggio ci vanno i Cinquestelle e la destra a quel punto riunita, con un Salvini in prima fila. Cosa voteranno gli altri? E comunque votino, si sentiranno rappresentati? Finora, per anni, ha funzionato un ricatto (a cui, però, a rigore, ci si poteva anche ribellare): “Se voti i piccoli, disperdi”, “Se non voti, voti Berlusconi”, eccetera. Cosicché, in tanti, per tante volte, a malincuore abbiamo votato Pd. Adesso siamo alla costrizione. E quella, non so se se ne stiano accorgendo gli ingegneri della governabilità e i loro committenti, a tanti non va proprio giù. La parola maggioranza Qualcuno ha definito “la democrazia come l’espressione della volontà della maggioranza temperata dalle garanzie della minoranza”. La definizione non sembra entusiasmante, suona un pochino prosaica, ma per questo chiederemo a chi di dovere. Su una cosa però ci sentiamo di dire la nostra: maggioranza vuol dire maggioranza, non “chi arriva primo”. Giusto? IL 25 e il 55 Ma siete proprio sicuri che un grande premio assicuri stabilità, governabilità e soprattutto dia la forza per cambiare? Se si ottiene la maggioranza dei seggi con una percentuale del 25%, siete convinti che questo non condizioni poi l’azione di un governo? Il paese non sparisce il giorno dopo le elezioni, tant’è che, per fare un esempio, non c’è stato un solo governo, dei “maggioritari” che si sono succeduti, che l’abbia spuntata su 700 tassisti. Non può succedere che un premier del 55% in parlamento e del 25% nel paese sia portato a conquistare dopo, il consenso che non ha conquistato prima? In che modo? Varando leggi e provvedimenti “popolari” piuttosto che necessari ma “impopolari” e i cui benefici si vedrebbero solo nel tempo. E così saremmo alle solite. Da Lenin a Renzi Si discuteva alla Lewin, accapigliandosi anche qui, sul sì e il no. Ma poi si è andati a parlare dei vecchi amici e lontani conoscenti del ’68, in gran parte schierati con il sì. Un amico presente, a suo tempo militante a tempo pieno, s’è messo a raccontare che dovendo andare a dare un esame di storia contemporanea (se ne dava uno all’anno per rimandare il militare) con un assistente che era un compagno, portò nientemeno che “Proletari senza rivoluzione”, di Del Carria, uno dei testi canonici del tempo. Con il professore ordinario, invece, esperto di costituzioni, si sarebbe dovuto preparare sulle costituzioni scandinave. Mentre andò benissimo sul Del Carria, quando si trovò di fronte al costituzionalista fece scena muta. Le sue dispense non le aveva neanche aperte e la materia era comunque arabo per lui. Il professore, dopo aver chiesto al suo assistente com’era andata con lui e che questi aveva risposto: “Benissimo”, guardò fisso lo studente per qualche secondo, e poi disse: “Ho capito, le do 30 con disprezzo”. Il nostro amico ha aggiunto che, malgrado la supponenza rivoluzionaria di allora e tutto il nostro, di disprezzo, per l’accademia e quant’altro, non era riuscito a rimuovere con un’alzata di spalle l’episodio, che gli era rimasto impresso come uno di quei ricordi sgradevoli, di “peccati commessi”, che ci accompagnano per tutta la vita. Dopodiché ci si è messi a ricordare di quanto disprezzassimo la democrazia (qualcuno ha sfidato a contare le volte che la parola appare nei giornali rivoluzionari), di quali fossero le nostre parole chiave: “potere”, “forza” (e non solo per “i rapporti”), “masse”, “avanguardia”, di quanto dipendessimo da un capo, di quanto ammirassimo Lenin e la sua arte sublime dell’insurrezione (da solo, contro tutti: né il 6 né l’8, ma il 7!). Poi, ritornando all’oggi dei vecchi compagni, qualcuno ha detto: “Il giacobinismo è duro a morire”. E l’amico: “Se qualcuno facesse loro la domanda della professoressa Carlassare: ‘Ma un senato così chi rappresenta?’, farebbero scena muta”. Poi, andandosene, ha dichiarato: “Per disprezzo della mia ignoranza e arroganza di allora voterò no”. Gianni Saporetti una città 43 reprint DISCUSSIONE SUL TITOLO V Discussione generale sul Titolo V relativamente alla Regione. Seduta pomeridiana di venerdì 16 giugno 1947, intervento di Oliviero Zuccarini. Sulla Regione e il fascismo … Della Regione si è Parlato in tutti i tempi, e non già per creare qualche cosa di artificioso, ma in relazione alla necessità di migliorare, modificandola, la costituzione politica, amministrativa, dello Stato italiano, la quale, se non sembrava fosse la costituzione ideale 60 anni fa, tanto meno sembra -almeno a noi- che possa essere la costituzione da mantenere e da stabilizzare oggi, dopo il fascismo. Il problema fu sentito anche da Mazzini il quale, dopo il 1860 ed anche prima, si ribellò contro il sistema accentratore piemontese che si voleva imporre, e s’impose infatti, a tutta l’Italia, e ne vide fin da allora tutte le conseguenze. «Non è questa l’Italia che io sognavo» -egli disse- e pensò alla Regione e al Comune; anzi, al Comune prima della Regione. […] il problema della Regione diventò vivo, vivissimo, e fu agitato subito dopo l’avvento del fascismo: allora si capì veramente che cosa poteva rappresentare per la libertà nella vita politica di uno Stato un ordinamento a base regionale. Si vide quello di cui non s’è accorto, nemmeno oggi, l’onorevole Nitti: cosa rappresenti cioè Roma nella vita politica italiana, Roma, la capitale dello Stato, la capitale in cui sono concentrati tutti gli uffici e tutti i poteri e dove bastò che Mussolini arrivasse con le sue camicie nere. C’è stata la marcia su Roma, onorevoli colleghi, non su Palermo o su Napoli o su altre città, nelle quali non avrebbe avuto conseguenze politiche. La marcia su Roma invece, sì, poteva averle e le ebbe, appunto perché, quando c’è l’accentramento statale come c’era e c’è in Italia, è molto facile mettere la mano sulle leve di comando e assoggettare tutto il Paese. È un vecchio avvertimento della democrazia ed è una vecchia esperienza. Quando in un solo punto stanno concentrati tutti i poteri e tutte le forze è assai facile -e lo avvertì un giorno Cattaneo- a chi riesce a mettere le mani sul potere stabilire la dittatura. Ed infatti l’antifascismo si orientò istintivamente verso la soluzione regionale; e vi si orientò valutandola sotto l’aspetto di una soluzione di democrazia e di libertà nello Stato. Nessuno fra di noi, che ne facemmo argomento della nostra battaglia, pensò alla Regione di per se stessa, come ad un organismo separato e indipendente dalla vita della Nazione. La vedemmo invece, proprio nel periodo del fascismo, come una soluzione democratica. E alla Regione non si pensava di arrivare, come si pensa di arrivare oggi, per una concessione dall’alto: si pensava di 44 una città arrivarci, invece, attraverso le autonomie comunali e con un sistema di collegamento tra comune e comune, che facesse della Regione non già un organismo per sé stante, ma un mezzo, una specie di ponte di passaggio fra le autonomie locali e l’autorità dello Stato. Quest’idea della Regione, intesa non già come un organismo indipendente e separato da tutti gli altri ma come un organo di collegamento, di trasferimento della sovranità dal basso verso l’alto, fu compresa e accettata da tutti. Io ricordo, avendo stampato un libro in quel tempo, che «Critica Sociale» diede, almeno da parte di qualcuno dei suoi collaboratori, ampio riconoscimento a questa concezione nuova e democratica della struttura dello Stato; e ricordo altresì che quelle mie tesi furono apertamente sostenute anche da un altro giornale socialista che era allora diretto, oltre che dal Rosselli, dall’onorevole Nenni, «Il Quarto Stato», e molto esplicitamente. Anche dopo, durante il fuoruscitismo, il programma di agitazione e di lotta che s’intendeva svolgere contro il fascismo e contro la dittatura fu impostato da tutti partiti -dico da tutti i partiti- sul terreno delle autonomie. Dirò di più: spaventatevi pure, fu impostato sul terreno del federalismo. Persino dai comunisti, come ha ricordato del resto l’onorevole Lussu! Sul regionalismo, inteso come problema di sovranità che si diffonde dal basso verso l’alto, si manifestarono concordi pure altri uomini politici di varia provenienza: potrei citare il Gobetti, che aderì completamente alle nostre idee; potrei ricordarvi Guido Dorso, rievocato e celebrato anche oggi, che sulla base della esigenza autonomista e anticentralista, impostò quella che egli chiamò la rivoluzione meridionale. [...] Se il fascismo fosse caduto per una rivoluzione, per una insurrezione cioè, anziché per il risultato di una guerra perduta, noi non staremmo certo a discutere di queste cose. Saremmo già sul terreno delle attuazioni. Abbiamo invece atteso ad arrivarvi e abbiamo dimenticato e dimentichiamo -e credo che facciamo male- che usciamo dal fascismo e che il fascismo ci ha posto inequivocabilmente il problema della organizzazione dello Stato, e che la organizzazione dello Stato è sempre, adesso mentre discutiamo, quella che abbiamo trovato. E non è solo quella organizzazione centralistica e parassitaria di venti anni addietro che ha reso possibile il fascismo e che ci sembrava già allora insopportabile; è quella invece che il fascismo nei suoi venti anni ha sviluppato con tutti i suoi organi, con tutte le sue organizzazioni, con tutte le sue conseguenze. Volete mantenerla in piedi? Volete lasciar lo di Oliviero Zuccarini Stato così com’è? Credete che in questo Stato la democrazia possa comunque esercitarsi? Oppure non si presenta anche a voi, come si presenta, e non soltanto in Italia, ma in Europa, nel mondo, un problema nuovo, che del resto venne sempre sentito, ma che non si era presentato mai nelle condizioni attuali e nella gravità attuale, il problema cioè dello Stato egocentrico e monolitico, di troppe funzioni, dello Stato burocratico, dello Stato senza organi rappresentativi capaci di funzionare e soprattutto senza alcuna, aderenza alla realtà e ai bisogni della popolazione? Ma non vi accorgete che, attraverso la disfunzione dello Stato, c’è la incapacità degli attuali organismi burocratici e amministrativi, come il fascismo li ha sviluppati, a funzionare efficacemente? Non vi accorgete che abbiamo una organizzazione, anzi uno Stato, che è una prigione per tutti; per cui, se non provvederemo ad una sua diversa organizzazione interna, se non andremo verso una profonda trasformazione non solamente dell’organismo dello Stato, ma anche dei compiti e delle funzioni stesse dello Stato, verso una diversa distribuzione, cioè degli organi rappresentativi, verso una più larga ed effettiva partecipazione dei cittadini alla vita pubblica per la difesa dei propri interessi, noi non risolveremo il problema della democrazia? [...] L’indifferenza dei cittadini, sempre più manifesta per l’opera di questo Parlamento e per l’opera dello Stato, non vi dice dunque nulla? Cresce il malcontento; e cresce con esso il sentimento, anzi il desiderio di autonomia. Ne avete la dimostrazione nella tendenza stessa dei nostri comuni a riacquistare la loro autonomia, e della popolazione a crearne di nuovi ancora più piccoli. Non vi sembra anche ciò una manifestazione evidente di questo bisogno che è nel popolo, e nelle campagne, e cioè nell’Italia rurale che è la vera Italia, di liberarsi dall’oppressione dello Stato, di essere più liberi e sopratutto di imprimere la propria volontà nella vita pubblica per la tutela dei propri interessi ? Signori, qui è il problema della democrazia nello Stato, la quale non si è mai positivamente ed effettivamente realizzata. È nostro compito realizzarla. Infatti, se andiamo a vedere, tutti gli Stati, così come sono oggi organizzati, riproducono esattamente l’organizzazione dei vecchi Stati autoritari, per grazia divina. Domandatevi perché la rivoluzione francese sia finita così rapidamente in una dittatura, anzi in una serie di dittature. La risposta è che la rivoluzione ebbe questo torto: di proclamare i diritti dell’uomo, ma di mantenere in piedi, dei vecchi organismi, il sistema amministrativo; e il vecchio sistema naturalmente, dopo pochi anni, diede Napoleone e le altre dittature. È il sistema reprint stesso che vige anche oggi in Francia, nonostante la Repubblica. È il centralismo e cioè il potere che viene dall’alto e che vuole governare dall’alto tutte le cose. Finché rimarremo su questo piano, finché vorrete fare dal centro il Governo di tutte le cose, voi non realizzerete la democrazia ma preparerete il terreno a nuove dittature. Il problema è in Italia più grave che altrove. E lo è perché usciamo dal fascismo. E proprio il fatto che il fascismo ha rappresentato per noi una grande esperienza ci dovrebbe rendere più sensibili ai problemi dell’organizzazione dello Stato. Domandiamoci adesso che cosa dovrebbe essere la Regione nella organizzazione dello Stato. Ho sempre pensato -e credo che lo pensino tutti, anche se il progetto di Costituzione non ha risolto la questione nel modo migliore- che la democrazia dello Stato possa realizzarsi solamente così: con una larga autonomia ai comuni, con comuni collegati quindi fra di loro in circoscrizioni relativamente più grandi, per passare all’ente Regione e da questo allo Stato. Non si tratta dunque solamente di un problema di decentramento e di snellimento, si tratta di articolare meglio le membra dello Stato. Ed è problema di democrazia. […] Sul Comune e la Provincia È stato, nel progetto, dimenticato il Comune. Il Comune non vi ha avuto quella trattazione particolareggiata che gli doveva essere data. Ed è stato un altro motivo di critica che poteva essere evitato. Sono stato il solo che, col mio progetto, abbia sostenuto la necessità di dare al Comune determinate garanzie di autonomia. Il Comune doveva, secondo me, avere nella Costituzione una considerazione speciale. Si è avuto il torto di non dargliela. Non si è poi parlato della Provincia in modo sufficientemente preciso. La Provincia è, si è detto qua dentro, un consorzio di Comuni. Effettivamente non lo è. La Provincia, così come fu costituita ed e rimasta, non rappresenta nulla. È un organismo arbitrario, determinato dalla volontà del potere esecutivo che l’ha creata come ha voluto. Attraverso il tempo, naturalmente, nel capoluogo di Provincia si sono venuti a stabilire determinati interessi; quindi, in un certo senso, la Provincia è diventata un organo quasi naturale di collegamento; è però sempre un organo artificioso, la cui costruzione, essendo venuta dall’alto, risponde anche oggi, in molte parti, a tale criterio arbitrario, senza tener conto delle esigenze e delle preferenze dei comuni che vi appartengono. Ora che si tratta di fare la Regione, si reclama anche il mantenimento della Provincia. E per la Provincia ci si è mossi da diverse parti. Ed allora dico: conserviamo pure il nome, perché la sostanza non c’è stata, e diamo pure alle Provincie quell’autonomia che chiedono. Anzi direi di più: se fosse possibile, se servisse a rendere più facile l’organizzazione della Regione, facciamo pure del- la Regione una federazione di Province. Diamo però alle Province anche la facoltà di delimitarsi come vogliono. Quello che è artificioso nella Provincia di oggi è infatti che molti comuni sono incorporati a Provincie a cui non hanno interesse né desiderio di appartenere. Le Province poi che sono una costruzione del tutto artificiosa, e il fascismo molte ne creò per motivi puramente politici e con criteri politici, bisogna abolirle. Passo subito alle altre cose essenziali e che più mi premeva di prospettare. Debbo farlo di volo. Sulla burocrazia e l’autonomia La Regione, pure così incompleta, nonostante tutte le critiche, anzi approfittando di tutte le critiche che sono state fatte, può essere tuttavia perfezionata, migliorata in ciò che nel progetto ha di difettoso, e potrà rappresentare un elemento rinnovatore nella vita politica italiana. La creazione della Regione porrà, intanto, sul tappeto, ed imporrà, una immediata risoluzione del problema della burocrazia in Italia, problema che non si è mai risolto, che non si è mai potuto risolvere. Non serviranno a risolverlo ora gli studi, le commissioni, i progetti, tutte le iniziative e le buonintenzioni che volete; solamente la costituzione della Regione può imporre la riforma burocratica. Non se ne potrà fare a meno. Solo in vista di tale risultato, che altrimenti non si otterrebbe, io dico che dovremmo votare per la creazione della Regione. Dobbiamo esigere, che con la creazione della Regione, si attui immediatamente la trasformazione del sistema burocratico dello Stato. Si tratta, badate bene, del problema più imponente e più grave della nostra vita politica, e che si presenta sotto una infinità di aspetti. Dirò che è il problema stesso dello Stato. Per valutarne l’importanza basta tener conto solo del numero degli impiegati dello Stato che oggi costituiscono la burocrazia. Tra i molti e gravi, esso è il più urgente problema che si sia posto fra quelli della nostra vita politica. C’è un altro problema che solo la Regione può risolvere: quello della funzionalità del Parlamento nazionale. Ma francamente crede l’assemblea parlamentare, con l’esperienza che ne ha fatto in questo periodo, di essere in condizioni di affrontare e risolvere convenientemente tutti i problemi della vita dello Stato? Crede veramente, prendendo nota di tutte le leggi che vengono sfornate giorno per giorno e di cui ci dà notizia la Gazzetta Ufficiale, di poter assolvere alla sua funzione legislativa? O pensa invece, appunto per lo svilupparsi dei compiti dello Stato, appunto perché lo Stato si occupa oggi di troppe cose, di troppe minuzie, che non sia indispensabile ridurre la sua funzione legislativa a pochi compiti essenziali di carattere veramente nazionale, demandando tutti gli altri compiti più minuti alle Assemblee delle Regioni, le quali su certe materie, oserei dire in tutte le materie, potranno con maggior competenza, con maggiore interessamento, con maggiore capacità risolvere ed affrontare i problemi che direttamente ci riguardano e che sono i quattro quinti almeno di tutta la legislazione? Non si tratta con ciò, badate, di distruggere l’unità della legge, non significa creare nuovi particolarismi, non significa nemmeno impedire che certe grandi riforme si applichino in un terreno più vasto della Regione. Nulla impedisce che alcune Regioni si uniscano per affrontare insieme certi problemi, che ugualmente le interessino. Opere di bonifica, di distribuzione idrica, di irrigazione, di comunicazioni possono interessare più Regioni finitime, che per esse possono benissimo intendersi e collegarsi. È molto diverso che certi problemi vengano risolti a Roma, o che invece siano risolti nel luogo dove sono sentiti! Altri benefici possono derivare dall’istituzione della Regione: benefici politici che oggi devono essere tenuti in particolare considerazione, e oggi per oggi, non fra due, tre, o quattro anni! Sappiamo, infatti, come vanno a finire le riforme che non si attuano subito. Non si fanno più. Noi abbiamo invece urgente bisogno di uscire dalla presente situazione. [...] Il problema dell’autonomia non può finire così. O voi date ad esso una soluzione o altrimenti voi avrete l’agitazione autonomista in tutta Italia. Non sarà più l’agitazione per le Regioni. Sarà l’agitazione contro lo Stato, la lotta contro lo Stato. Non crediate, dunque, di aver superato il problema. Questa lotta contro lo Stato si manifesterà; si accentuerà, s’inasprirà, ed allora noi, che abbiamo voluto veramente contribuire con questo progetto della Regione a creare in Italia un ambiente nuovo di vita e di tranquillità, portando il cittadino all’assolvimento delle sue funzioni e all’esercizio dei suoi diritti, noi pure ci schiereremo contro lo Stato, in questa nuova lotta per la libertà. La lotta può finire qui: ma di qui può anche incominciare. E allora si potranno veramente temere per l’Italia giorni peggiori di quanto oggi non si possa nemmeno sospettare. Ho assolto più o meno bene, e più male che bene, il compito che mi ero proposto. Volevo soprattutto richiamare la vostra attenzione sull’importanza delle decisioni che state per prendere. Non seppellite, vi prego, quello che è stato il risultato del lavoro della vostra Commissione. Perfezionatelo, miglioratelo e date all’Italia la sicurezza di uscire da l’attuale situazione e di creare a se stessa un ambiente di libertà e di democrazia, un ambiente in cui non siano più possibili, in avvenire, né le dittature né i governi dispotici dall’alto. Questo è il mio augurio, questa è la speranza con cui noi tutti partecipiamo ai lavori di questi giorni e per la quale vogliamo sentirci riconfortati in questo grande amore che abbiamo per il nostro Paese, l’Italia! (Vivi applausi - Molte congratulazioni). una città 45 L’ELEZIONE DEL SINDACO DI SREBRENICA Di Hasan Nuhanovic * “Srebrenica, oh Srebrenica”, sono le parole che risuonano nella Valle dei šehid (martiri) l’11 luglio di ogni anno. Così i giornalisti hanno soprannominato questa conca al confine tra la municipalità di Srebrenica e quella di Bratunac, delimitata da un lato dal monte Čauš e dall’altro dalle alture sulle quali si trovano i villaggi di Budak, Pale e Gornji Potočari. Quest’anno, durante l’intervista televisiva nella diretta dal Memoriale di Potočari, ho dimenticato di ringraziare tutte le persone comuni che, sfidando il caldo torrido, forse per la decima o quindicesima volta, sono ritornate in autobus a rendere omaggio alle vittime del genocidio. Sventurati quelli che non sono arrivati a Potočari in automobile con l’aria condizionata e quelli che hanno dovuto aspettare ore -dopo la cerimoniaper risalire in pullman trasformati in forni, per ritornare a casa da qualche parte in Federazione, in Croazia, nel Sangiaccato o in qualche altro luogo da cui hanno viaggiato per molte ore per essere qui, alla ricorrenza dell’11, anniversario del genocidio di Srebrenica, per stare vicino alle madri di Srebrenica e al loro dolore. Mentre se ne vanno tutti guardo, in piedi, verso l’ex base olandese dell’Unprofor: cercano dell’acqua per riempire le bottiglie o per rinfrescarsi, cercano un bagno prima di risalire sugli autobus e attraversare la Republika Srpska per arrivare in Federazione. L’autista ha aperto tutte le porte dell’autobus e qualcuno si è seduto sugli scalini con le gambe a penzoloni vicino alle ruote. Fa caldo, sono tutti sudati… “Eh, facci arrivare a casa”, sembrano pensare queste persone, e io le osservo e penso: “Grazie, gente, per essere venuti anche questa volta. Non siamo soli”. Lasciano Srebrenica ai suoi abitanti; passati altri 364 giorni, ritorneranno, se dio vuole, per commemorare questo giorno importante per la Bosnia, per i bosgnacchi, per i bosniaco-erzegovesi e per tutti coloro che conoscono il significato di questo giorno. Nella Srebrenica deserta Attraverso il cimitero, la vista è offuscata dalla polvere che non è ancora calata dopo che le ossa dei martiri sono state sepolte nella terra inaridita. Madri, sorelle, vedove e sopravvissuti rimangono accanto alle tombe, pronunciano la Fatiha -la liturgia del lutto- piangono, esitano, non sanno se andare o rimanere ancora qualche minuto prima della partenza. I giornalisti ripongono l’attrezzatura, sistemano i cavi, smontano le antenne… se ne vanno a Sarajevo, a 46 una città Tuzla, Zagabria, Belgrado… Non vedo i vip: le loro limousine nere hanno attraversato la folla prima che le persone con i badili iniziassero a interrare le bare. Gli abitanti di Srebrenica invece rimangono nella città deserta. La città è di nuovo vuota. Domani ci sarà ancora un po’ di traffico, principalmente giornalisti che negli ultimi anni hanno ricevuto l’incarico dai loro capi di rimanere anche il 12 luglio per documentare un altro evento -la parata dei četnici a Srebrenica. C’è anche questo sui media e poi arriva il 13 luglio e di Srebrenica non si parla e non si scrive più. Cominciano quegli altri 364 giorni, quando per gli abitanti di Srebrenica la vita dovrebbe trascorrere come in ogni altra città della Bosnia-Erzegovina. Ma non è così. Come non lo è per i bosgnacchi che sono tornati nelle municipalità di Bratunac, Vlasenica, Han-Pijesak, Zvornik, Rogatica, Višegrad. Le cittadine da cui, a causa del genocidio, i bosgnacchi, a partire dall’aprile 1992, fuggirono verso Srebrenica; circa metà delle vittime del massacro commesso a luglio del 1995 era originaria di questi luoghi. Non voglio entrare nei dettagli di questa storia, ma voglio sottolineare che quello che noi chiamiamo il genocidio di Srebrenica non è riferito solo a Srebrenica, non è un genocidio circoscritto a un Comune, agli abitanti di solo una municipalità, perché il “genocidio di una municipalità” non esiste come concetto teorico, e comunque gli assassini di Mladić non si sono fatti fermare dai confini municipali. La stessa sentenza della giustizia internazionale del 27 febbraio 2007, nel processo contro la Serbia e il Montenegro parla di: “… genocidio commesso nei confronti dei musulmani di Bosnia-Erzegovina da parte dell’Esercito e della Polizia della Republika Srpska”. E tuttavia l’unica municipalità tra quelle colpite dal genocidio nella regione intorno alla Drina (e sono state colpite tutte, anche se ci soffermiamo solo sugli eventi del luglio 1995, senza considerare quello che è successo a partire dall’aprile 1992) che dopo la guerra ha avuto un sindaco bosgnacco è quella di Srebrenica. Di fatto nel 2012 Srebrenica era l’unica cittadina della Republika Srpska dove non fosse stato eletto un sindaco serbo. Nel 2012 è stato possibile anche perché gli americani e forse pure l’Unione europea, con le loro pressioni hanno permesso che potesse votare anche chi risiedeva a Srebrenica prima della guerra. Tra l’altro questo non sarebbe bastato se quell’anno non fosse stato creato un gruppo intorno alla Ong “Primo marzo”, capace di mobilitare l’opinione pubblica così da garantire un numero sufficiente di voti. Ćamil Duraković (il sindaco bosgnacco uscente) all’epoca è stato eletto con una maggioranza risicata. Non sono abbastanza abile da spiegare le procedure legali che nel frattempo sono entrate in vigore, con il semaforo verde dei partiti nazionali, in base alle quali la possibilità di votare per corrispondenza e in absentia è stata notevolmente ridotta. Un dato inconfutabile è che il numero dei potenziali elettori bosgnacchi per le amministrative del 2016, con queste nuove procedure, si è ridotto significativamente rispetto al 2012. Molto più di un’elezione Considerando che il mio lavoro non è quello di occuparmi di elezioni o di politica in generale, non avevo intenzione di scrivere questo articolo. Però sono stato sollecitato da una telefonata ricevuta qualche giorno fa da un giornalista di Parigi, che stava scrivendo un articolo sulle elezioni amministrative a Srebrenica per il maggior quotidiano francese “Le Monde”. Tra le altre cose, mi ha chiesto se ho avuto la possibilità di votare a Srebrenica e ho colto l’occasione per spiegargli che io a Srebrenica ci sono arrivato durante la guerra come profugo, in fuga dalla municipalità di Vlasenica, nella quale, come a Srebrenica e in tutte le altre municipalità della valle della Drina, è stato commesso un genocidio. Normalmente quindi io dovrei votare per l’elezione del sindaco di Vlasenica. Considerando il fatto che la maggior parte delle vittime del massacro di luglio del 1995 proveniva dalla municipalità di Srebrenica, che l’Onu aveva dichiarato Srebrenica zona protetta, che a Srebrenica si trova il Memoriale dedicato alle vittime del genocidio, è ovvio che l’attenzione internazionale sia concentrata su Srebrenica e non sulle altre municipalità in questione. Il giornalista mi ha chiesto perché è così importante se il sindaco sarà bosgnacco o serbo; a quel punto gli ho chiesto a mia volta perché volesse scrivere proprio delle elezioni a Srebrenica e non di qualche altra municipalità. La risposta è: il genocidio. Mi ha chiesto anche se il prossimo anno sarà possibile svolgere le commemorazioni a Potočari per l’11 luglio nel caso in cui venisse eletto il candidato serbo. Gli ho risposto che l’11 luglio è solo un giorno dell’anno e che quel giorno si può fare la commemorazione anche senza la presenza del sindaco. È molto più importante, per le persone che sono ricordarsi ritornate là nonostante il genocidio, chi sarà il loro sindaco negli altri 364 giorni dell’anno. Questa è la domanda cruciale, non certo chi rappresenterà il Comune di Srebrenica l’11 luglio a Potočari. Gli ho anche detto che i bosgnacchi rientrati nelle altre municipalità della valle della Drina in qualche modo vedevano in Ćamil Duraković anche il loro sindaco, visto che è stata creata una situazione per cui è molto difficile che nelle loro municipalità venga mai eletto un bosgnacco. La questione del sindaco di Srebrenica, ovvero delle elezioni in questa municipalità, dovrebbe essere fuori dalla logica aritmetica. Si tratta ormai di un simbolo per questa nazione e per il mondo intero, perché il mondo, ovvero l’Onu, non ha impedito il genocidio. Un sindaco bosgnacco a Srebrenica è allora il minimo, qualcosa che l’opinione pubblica in Bosnia-Erzegovina ha accettato come dovuto. Penso che anche la maggior parte dei serbi consideri la questione allo stesso modo. Non c’è niente di garantito. Il problema è che per questo minimo, i bosgnacchi devono combattere ogni quattro anni. Se è così significa che nulla è dovuto, nulla è garantito. Questo dato di fatto, se non altro, ha svegliato l’opinione pubblica bosniaca che solo quest’anno ha realizzato che questo minimo ragionevole non è garantito né agli abitanti di Srebrenica né ai bosniaco-erzegovesi in generale. Mi ricordo bene un’intervista dell’ottobre 2012 in cui Milorad Dodik (presidente della Republika Srpska) disse: “Che sia pure questa volta, ma la prossima volta, nel 2016, il sindaco di Srebrenica sarà serbo”. Le elezioni a Srebrenica non sono una questione di programma o di orientamento politico, tutto ruota intorno alla domanda se il sindaco sarà bosgnacco o serbo. Perché i serbi, in così grande numero, per non dire in blocco, hanno votato per Grujičić? Ho visto alcune sue apparizioni sui media in questi giorni e ho concluso che il suo vocabolario e il suo livello di istruzione rasentano quelli di un bambino delle elementari, per non dire di peggio. I serbi votano per Grujičič perché è serbo. I bosgnacchi votano per Duraković per lo stesso motivo, ma anche perché ha dimostrato di saper affrontare le sfide che la sua funzione pubblica comporta. Grujičič sembra capace solo di postare su facebook delle foto in cui indossa la šajkača e la kokarda (tipico copricapo četnico). Potrei dilungarmi, ma preferisco fermarmi qui provando a trarre qualche conclusione: l’unica cosa positiva che succederebbe se Ćamil Duraković non venisse confermato sindaco, è che l’opinione pubblica bosniaca, innanzitutto i bosgnacchi, si sveglierebbe, uscirebbe dal sonno (diciamo pure dal miraggio federale) e forse si renderebbe conto che, nonostante sia stato commesso un ge- la visita “Sotto questo rispetto, lo spettacolo offerto dalla colonna italiana che occupa gli estremi avamposti del fronte di Huesca è singolarmente istruttivo, ineffabilmente confortante. Sotto le sue insegne fraternizzano da tre mesi volontari appartenenti a tutte le regioni del nostro paese, seguaci di tutte le tendenze della dottrina e della milizia antifascista, uomini di tutte le età. Non che essi abbiano abdicato, per la circostanza, alle loro particolari concezioni, o rallentato i vincoli che li collegano ai loro rispettivi gruppi. Nelle ore di riposo, nelle giornate di forzata inazione, le discussioni si accendono vivaci attorno alle trincee, frazionando, d’un tratto, l’unità militare in una policroma varietà politica. Il visitatore inesperto che arrivasse in linea durante una di queste parentesi… potrebbe forse esser tentato di scandalizzarsi… Mai gli italiani d’Italia hanno guardato a noi con più ansiosa trepidazione e con più ardenti e audaci speranze. Bisogna non deluderle”. Silvio Trentin Da “Impressioni sulla lotta in Catalogna. La funzione e il prestigio della Colonna italiana” in “Giustizia e Libertà”, n. 43, 23 ottobre 1936 Cimitero di San Donà di Piave nocidio, non c’è niente di acquisito per giustizia divina, non c’è niente di scontato e non otterremo niente senza lottare e senza consapevolezza -né riguardo le elezioni comunali di Srebrenica, né riguardo la sopravvivenza della Bosnia-Erzegovina come Stato unitario, e nemmeno riguardo il confronto con il passato e il riconoscimento da parte dei serbi che è stato commesso un genocidio ai danni dei bosgnacchi. È sempre più evidente che l’idea della “Grande Serbia” non è mai stata abbandonata. Nella Republika Srpska tutto è srpsko, serbo -le strade sono srpske, i boschi sono srpski, e così le acque, le ferrovie- solo il genocidio non è srpsko! Il giorno in cui quello che chiamiamo genocidio di Srebrenica verrà definito genocidio Republičko-srpski, per il motivo per cui è stato commesso (realizzare la Grande Serbia), per il luogo in cui sono state compiute le esecuzioni di massa e dislocate le fosse comuni, e perché proprio lì vivono ancora centinaia di criminali di guerra, cioè nella Republika Srpska; ecco, a quel punto non avrà più importanza la nazionalità del sindaco di Srebrenica. Per questi stessi motivi, anche se il nuovo conteggio determinasse la vittoria di Grujičič, il risultato non andrebbe validato. Personalmente credo che, proprio a causa del genocidio, i serbi di Srebrenica dovrebbero votare un bosgnacco, anche se questi fosse l’ultimo bosgnacco rimasto nella loro città. (Traduzione di Andrea Rizza Goldstein) http://balkans.aljazeera.net/vijesti/izbor-nacelnika-srebrenice-je-simbol-za-cijeli-svijet *Hasan Nuhanovic, all’epoca traduttore per i caschi blu olandesi, a Srebrenica ha perso l'intera famiglia. Il 5 luglio 2011 il tribunale dell'Aja ha riconosciuto che le truppe olandesi del Dutchbat sono state responsabili della morte del padre e del fratello di Hasan avendoli consegnati deliberatamente alle truppe serbo-bosniache che li uccisero a sangue freddo. una città 47 n. 234 VIII/2016 Rotocalco culturale. Anno XXVI, Dir. resp. Gianni Saporetti. Aut. Trib. di Forlì n. 3/91 del 18/2/91. Stampa: Galeati (Imola). Redaz. e amministraz.: via Duca Valentino n.11, Forlì. Poste Italiane SpA - Sped. in A. P. D.L. 353/2003 (conv. in L.27/02/04 n.46) Art. 1 c.1 CN/FC, n. 234/2016 - Tassa pagata