Sacre Geometrie (parte seconda)

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Sacre Geometrie (parte seconda)
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Sacre Geometrie a San Miniato al Monte
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(seconda parte)
“Proteggete col silenzio questi misteri divini, nell’intimità del cuore, e
nascondeteli nel segreto”.
Così troviamo scritto nel Corpus Hermeticum di
Ermete Trismegisto: un invito che nell’antichità fu
molto apprezzato dai Maestri costruttori, detentori
della vera Conoscenza. Il grande Ermete ricordava
che la “conoscenza superiore” è strettamente
connessa con il silenzio e la segretezza e che
importanti messaggi sapienziali passavano da “bocca
a orecchio” oppure venivano impressi su pietra.
Basta ricordare i graffiti rupestri del Paleolitico, i
geroglifici egiziani, le iscrizioni cuneiformi e tutti i tipi
di forme geometriche dipinte o incise su pareti di pietra, per capire che si
trattava di prime figurazioni comunicative che servivano per tramandare un
linguaggio criptato carico di significati.
La pietra quindi, antico simbolo
della Madre Terra, emblema di
fertilità e di stretto contatto tra Cielo
e Terra, diventava così il il foglio di
quaderno su cui potevano venir
immortalati “messaggi in codice” di
grande valore. Quei tratti geometrici,
apparentemente astratti, diventarono
quindi i segni convenzionali per
trasmettere azioni e concetti: una
specie di “lingua visiva” la cui
decifrazione non era accessibile a
tutti perché
presupponeva una conoscenza legata ad un tipo di ritualità
di carattere iniziatico.
L’idea della segretezza che si doveva tenere durante una
simile ricerca conoscitiva, fu identificata dagli Ermetisti in
Arpocrate, il dio egiziano del silenzio, raffigurato
nell’attitudine di portare l’indice della mano destra vicino
alla bocca, chiaro gesto che ben impersonava lo stato
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d’animo giusto per conferire sacralità al luogo in cui si
entrava.
I Sacerdoti egizi, e poi in seguito quelli greci e romani,
guardavano con molta attenzione a questa divinità e la
sua statua, collocata all’entrata dei templi, voleva
ricordare - come scrive Dom Giuseppe Pernety nel suo
“Favole egizie e greche” - la “circospezione che bisognava
avere onde evitare di divulgare il segreto che era stato
loro affidato”.
Non dimentichiamo che in un percorso interiore di
conoscenza, il silenzio e la prudenza sono le qualità che
subito si devono mettere in pratica. Il saggio Ermete
ricordava che l’unica arma per combattere l’ignoranza, madre di tutti i vizi
che infettano e corrompono l’anima, rimane la ricerca scientifica con le sue
sperimentazioni, ma puntata verso il Divino.
I Maestri costruttori del XII e XIII secolo
conoscevano bene questo tipo di
linguaggio e per “dar voce” al loro
s i l e n z i o s o i d i o m a a rch i t e t t o n i c o,
utilizzarono i simboli geometrici come
“ s c a l i n i ” n e c e s s a r i p e r r i t rova re
quell’antico contatto perso.
Nell’architettura toscana di quel periodo,
pur risentendo fortemente del modello
strutturale romanico e degli insegnamenti
dettati da San Bernardo da Chiaravalle,
che rimandavano alla costruzioni di chiese
dalle linee pulite fondate sulla
proporzione aurea e sui rapporti musicali,
si introdussero non solo gli archi a sesto acuto, i rosoni ed i pilastri
caratteristici dell’arte gotica, ma anche simbologie ermetiche proprie dell’arte
Templare che ben aveva assimilato simili conoscenze.
San Miniato al Monte nacque con quelle stesse caratteristiche. Alla luce dei
concetti sopra espressi,
possiamo affermare che
le figure geometriche
presenti sulla facciata
ad all’interno della
Basilica rappresentano
una specie di
“messaggio in codice”
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da decifrare, un linguaggio che richiede paziente ricerca ed attenzione. La
tecnica è un po’ quella di chi si avvicina all’apprendere una lingua straniera:
prima si incomincia a studiarne la grammatica, poi i vocaboli, la loro
pronuncia ed infine il significato; se lo
studio è stato portato avanti in maniera
giusta, in breve tempo siamo anche in
grado di poter cominciare a
comprendere quello che “leggiamo”.
Nella nostra ricerca sulle simbologie
presenti in San Miniato, procederemo in
modo analogo ricordando che un tempo
i simboli riprodotti su quelle sacre
architetture risalivano ad un’unica antica
Sapienza.
Dopo la formella del Fiore o Seme della
vita, a cui abbiamo accennato nel precedente articolo, adesso ne prenderemo
in considerazione un’altra immortalata all’interno di San Miniato al Monte e
sulla sua facciata esterna: il Triskele.
Questo simbolo è antichissimo. Lo ritroviamo presente nel Neolitico e poi
presso gli Assiri, i Greci, gli Etruschi, i Celti e nell’antica
tradizione cinese, tibetana ed indiana.
Sembra che siano stati i Celti a diffonderlo nel nord
Europa sotto forma di incisione impressa sui megaliti in
luoghi carichi di sacralità, ed anche su monili e gioielli
come pettorali, bracciali, collane e cavigliere.
Triskele deriva dal termine greco Triskel formato da
“tris” (tre) e da “keles” (gambe); in seguito in Grecia
assunse il nome di Triskelion, mentre presso i Romani fu chiamato
Triquetra.
Nonostante questi sensibili mutamenti lessicali, il suo significato di base, con
chiaro riferimento al numero tre, è rimasto lo stesso arricchendosi nei secoli
di interpretazioni o fogge che non si escludono una con l’altra, ma che al
contrario danno più forza al soggetto stesso.
Fin dai tempi più antichi quei tre ovali trovarono
relazione con
i tre cerchi della manifestazione
divina e le tre “forze” che regolano l’Universo. C’è
anche chi ha visto in quelle tre forme che si
intersecano tra loro i quattro elementi che
compongono il Cosmo: all’acqua, alla terra e
all’aria, si aggiunge il quarto elemento “fuoco”
individuato nell’energia che si diffonde dal centro di
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quell’intreccio, come un Sole.
Di conseguenza le tre volute che si aprono verso
l’esterno sono state identificate con le tre fasi solari alba, mezzogiorno e tramonto - simbolo della ciclicità
cosmica, così ben espressa da un segno che ha molte
analogie anche con la “svastica”. La presenza di
questa forma geometrica che si ritrova in chiese,
cattedrali e perfino su alcuni abiti sacerdotali, è
antichissima e riconduce nuovamente all’aspetto solare del “Dio supremo”da
cui tutto emana.
E’ stato interessante riscoprire su di un vaso etrusco, custodito nel piccolo
Museo del castello di Vulci in provincia di Viterbo, il
Triskele “a tre gambe” assimilato a quello che
contraddistingue la Regione Sicilia. La gamba, da un
punto di vista ermetico, viene associata al potere
generatore maschile strettamente legato a quello
femminile di fecondità; il nome Trinacria, che l’isola
ereditò dalla cultura greca, sembra derivi da “treisàkra”, i “tre promontori” che hanno dato a quella
regione la caratteristica forma triangolare, che voleva
mettere in luce l’aspetto “fertile” di quelle terre.
Il simbolo del Triskele, immortalato nei tre cerchi o
nei tre ovali intersecanti fra loro, fu in seguito
assorbito dalla tradizione cristiana divenendo
l’emblema della Trinità Divina: la triplice manifestazione di Dio nel suo
aspetto di Padre, Figlio e Spirito Santo, ma anche in quello di ForzaSaggezza-Amore, triplice fonte di rigenerazione e di nuova vita.
L’architettura medievale si appropriò di
quella stessa simbologia che espresse nelle
cattedrali gotiche e romanico-gotiche, sotto
forma di archi a tutto sesto trilobati, ossia
divisi in tre curve a simulare un trifoglio,
oppure nella caratteristica figura geometrica
che lo contraddistingue.
Se guardiamo con attenzione la formella
presente in San Miniato, l’idea che se ne può
trarre è anche quella di un “nodo”, con tutta
la simbologia legata a quest’immagine. Nella
Dottrina Ermetica si menzionano due nodi:
uno che “incatena” (il “nodo gordiano” da
sciogliere) ed uno che “unisce”, il “nodo4
principio” che lega indissolubilmente al Principio Divino, fonte di ogni vita.
Il termine “gordiano”, trae origine da un’antica tradizione
letteraria che vede Alessandro Magno come protagonista. La
storia racconta che il popolo Frigio, trovandosi senza sovrano,
ebbe come sentenza dall’oracolo che il primo uomo, che fosse
entrato in città con un carro trainato da buoi, avrebbe assunto
quel titolo. Il caso volle che fosse un contadino di nome Gordio
ad arrivare di lì a poco con il suo carro ed a venire eletto
secondo l’osservanza della disposizione dell’oracolo. Il carro di Gordio venne
per lunghi anni conservato nel Tempio della città dedicato a Zeus e legato ad
un sostegno con un nodo così intricato da riuscirne
impossibile lo scioglimento. Questa storia, dietro ad
una semplice lettura formale, apre ad altre
interpretazioni che vedono in quel laccio la
“catena” che immobilizza l’anima ad una vecchia
mentalità che deve per forza essere recisa. La
leggenda vuole che sia stato un personaggio eroico
come Alessandro Magno, nel 333 a.C., a dare
l’esempio di come si può porre fine ad un legame
così serrato che non permettere alcun progresso da
un punto di vista spirituale. Infatti si racconta che il grande conquistatore e
stratega troncò quel nodo con il fulmineo fendente della sua spada; non a
caso, dopo quell’esperienza, fu nominato imperatore e per lui si aprirono
nuove straordinarie conquiste.
Ecco perché il “nodo gordiano” è rimasto sinonimo di difficoltà inestricabili,
che possono essere risolte con energia e decisione.
Tornando alla simbologia di
quel Triskele impresso sulla
facciata e sulle pareti interne
di San Miniato al Monte
con una ripetitività quasi
sorprendente, possiamo ben
capire che i parametri
cambiano del tutto.
In quella figura possiamo
ravvisare la presenza della Grazia Divina che scende in aiuto
dell’intraprendente “pellegrino” che si appresta a compiere l’itinerario
mistico-iniziatico segnalato all’interno della Basilica.
I tre ovali intrecciati ricordano il “Nodo-Principio” da cui tutto diviene, ma
anche l’intimo legame - da riscoprire, realizzare e perpetuare - che ci unisce
perennemente a Dio.
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Un simile aspetto trinitario possiamo coglierlo anche
nella decorazione della volta di copertura dell’altare di
San Miniato.
Quel Tempietto nacque nella prima metà del XV
secolo, su committenza di Piero de’ Medici, per
custodirvi il veneratissimo Crocifisso di San Giovanni
Gualberto fondatore, nel 1036, dell’Ordine
Valombrosano.
La sacralità di quel crocifisso, un tempo lì conservato,
portò a decorare quella piccola volta a botte con un
raffinato fregio marmoreo che riproponeva in una
diversa versione il simbolo del Triskele.
Su quell’agile tempietto, sostenuto anteriormente da due colonne, venne
riprodotto l’emblema adottato, anche se con leggere digressioni, dai primi tre
discendenti della famiglia de’ Medici: Cosimo il Vecchio, Piero de’ Medici e
Lorenzo il Magnifico.
Fu Piero de’ Medici, il figlio di
Cosimo il Vecchio, a dare il via
alla costruzione ed alla
decorazione di quella piccola
volta, che prevedeva una
sequenza ininterrotta di anelli con
diamante e tre piume, con
accanto il suo motto.
Piero, anche se la sua figura
rimane un po’ oscurata dalla
grandezza del padre e da quella
del figlio Lorenzo, seppe proseguire nel fastoso mecenatismo iniziato da
Cosimo il Vecchio, attingendo da quella stessa aria umanistico-ermetica che
si respirava a corte.
Per primo fu il padre Cosimo ad introdurre nel suo emblema le tre piume
che vennero inserite in un “mazzocchio” tempestato di pietre preziose: antico
copricapo a forma di anello rivestito di feltro, il cui significato è da ricercare
nello studio ermetico dei solidi platonici.
Il figlio Piero, per il fregio di quel tempietto,
ripropose la stessa simbologia delle tre piume
inserendole in un anello dalla foggia tradizionale
che terminava in una piccola punta, come vi
fosse incastonato un diamante; infine, fece
alternare quella sequenza di anelli con piume da
un nastro con la scritta “Semper”.
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Con quest’avverbio, che indica “continuità e ripetizione infinita nel tempo”,
Piero voleva sia alludere alla perennità della stirpe medicea, che immortalare
un forte messaggio alchemico, in perfetta sintonia con le fonti di Dottrina
Ermetica custodite all’interno della sua casata e in linea con il significato del
Triskele.
Il simbolismo legato alla piuma di struzzo, nacque in
Egitto e venne immortalato nella dea Maat, dea della
giustizia e del sacrificio. Era Maat, figlia del “dio Sole”
Râ, a presiedere, insieme al dio Anubi, alla “pesatura
delle anime”: se, al momento del trapasso, l’anima
pesava più di quella piuma, che le doveva fare da
contrappeso, il suo futuro nel regno dell’aldilà sarebbe
stato molto infausto.
Quando alla simbologia della piuma avviciniamo
quella dell’anello con il diamante, il messaggio risulta
ancora più forte.
Il diamante è una pietra molto dura e tagliente, talmente sfaccettata e
brillante da venire chiamato “diamante folgore”, ma allo
stato grezzo si presenta come un ciottolo nero di carbonio
puro. Saranno le continue frantumazioni e lavaggi che lo
porteranno allo stato di lavorazione giusta, ma poi dovrà
intervenire la mano sapiente del “tagliatore” per svelare la
bellezza della sua luce.
Chi si interessa di Alchimia, sa che esistono un’infinità di
relazioni tra il mondo della Natura e la propria interiorità.
Così quell’anello, dalla punta di diamante, rappresenta il
lavoro di perfezionamento a cui l’anima deve tendere se vuole ritrovare
l’antica unione persa con il Divino. Le tre piume lì inserite possono aver
relazione, oltre che ad un aspetto trinitario d’aiuto che scende dall’Alto, alle
prime tre virtù da realizzare: Fede, Speranza e Carità. Infine, la scritta
“Semper”, letta in questo contesto, sembra voler eternamente immortalare
quel ritrovato antico “legame”.
Lorenzo il Magnifico, figlio di Piero, assimilerà quella stessa simbologia
paterna e la esprimerà nell’emblema dei tre anelli
intersecanti con diamante, riproponendo ancora una
volta la precisa disposizione triangolare del Triskele e
tutto il suo intimo significato.
Un tempo si conosceva bene il linguaggio “di pietra”
ed ogni simbolo impresso diventava il messaggio
criptato giusto per tramandare arcaiche conoscenze
che altrimenti sarebbero andate perse.
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Pensando alle geometrie che si ripetono con perfetta simmetria sulla facciata
ed all’interno di San Miniato, possiamo davvero intuire che il tempo non è
riuscito a cancellare quell’antica Sapienza.
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Basilica di San Miniato al Monte
“triskele”, particolare del prospetto anteriore
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