Cayo Guillermo - Flamingo resorts

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Cayo Guillermo - Flamingo resorts
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DI LA’ DAL SOGNO TRA I MARI
La straordinaria avventura italo-cubana della riscoperta
degli Arcipelaghi dei Giardini del Re e dei Giardini della Regina.
Larry Morales
Versione italiana
dall’originale in spagnolo pubblicato a Cuba nel Dicembre 2006
Volume di storia adottato dalla Scuola Superiore di Turismo di Cuba
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A Elio Scansa, rivelatore dei sogni della mia terra.
A Clodoaldo Parada, turista della solitudine.
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E’ una missione nobile riscattare dall’oblio
coloro che meritano di essere ricordati.
Plinio il Giovane
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Ringraziamenti e crediti
In primo luogo ringrazio Lina, poetessa, compagna e sposa, per avermi costretto a lavorare
tutti i giorni su questo libro ricordandomi che avevo trascorso 12 anni cercando di scriverlo;
e grazie a mio figlio Larry Carlos per la sua stoica pazienza e comprensione.
GRAZIE
ai miei amici italiani Aldo Abuaf, Eugenio Ciocca e Alfredo Bassani
per avermi fornito l’accurata traduzione dei documenti affinchè io potessi leggerli in spagnolo.
a Sisto Gungui per avermi inviato da Brescia quasi tutto l’archivio sentimentale
dei suoi tempi hemingwayani nella Corrente del Golfo.
a Arnaldo Cambiaghi per l’ampia intervista che ha voluto concedermi
e per l’amore di sempre per il mio Paese.
al Dott. Noisy Espinosa, dell’Agencia de Estudios del Medio Ambiente presso la Empresa
Geocuba di Ciego de Ávila, per la precisione dei dati che mi ha fornito;
a Eduardo Veiga, della Direzione del Ministero del Turismo e Gonzalo Tarrero,
della Direzione del Grupo Extrahotelero Palmarès, per l’appoggio e la fiducia di entrambi.
Infine un grazie speciale a questi veri amici, miei e del mio Paese:
Sisto Gungui, Eugenio Ciocca e Alfredo Bassani
per aver sorvolato l’oceano unendosi a me nel Dicembre del 2006
al momento cruciale della presentazione della prima edizione cubana di questa opera.
Un grazie infinito a tutti coloro che mi hanno aiutato in questo impegno,
anche senza saperlo.
L’autore
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MOTIVAZIONI E CONTRATTEMPI
Nulla di strano che l’idea di scrivere un libro nasca in un bar di un hotel e trattandosi di un
libro di storia del turismo la cosa risulta avere anche una sua logica perchè un bar buono ed
ospitale – a parte ogni ovvia differenza – funziona come sala parto di molte buone idee.
L’idea di realizzare quest’opera nacque proprio così, nel più accogliente dei bar della cittadina
cubana di Moròn, il bar Manatí, il quale, detto di passaggio, non esiste più per opera e grazia –
o per disgrazia – delle ristrutturazioni che da un pò di tempo in qua molti investitori e i loro
fedeli architetti hanno reso purtroppo di moda anche a Cuba.
Successe un tardo pomeriggio dell’estate del 1992 quando il mio amico Oscar García
Monteagudo – a quell’epoca responsabile delle operazioni legate all’arrivo a Cayo Guillermo
della FLAMINGO International Travel Consultant - mi suggerì l’idea di affrontare il tema del
turismo in una delle mie opere.
Al tramonto del sole e dopo una lunga conversazione interrotta solo dal barman Mario Ortìz,
Mayito, che ogni tanto si avvicinava a noi per rifornire il contenuto dei bicchieri, brindammo
alla nascita dell’idea del futuro libro.
Nè Oscar, nè io, nè il barman presente a quel brindisi fatale e irrevocabile, avevamo la benché
minima coscienza che sarebbero passati ben dodici anni senza che venisse scritta una sola
parola del libro annunciato.
Senza dubbio, a causa di quella promessa (la più informale e ritardataria di quante mai abbia
fatto nella mia vita) ogni volta che a me ed Oscar capitava di incontrarci in aeroporti, alberghi,
uffici, spiagge, terrapieni sul mare, strade deserte... tornavamo sul tema con l’entusiasmo e la
certezza di quella prima volta, però mai riuscendo ad oltrepassare lo stadio dell’euforia.
Una mattina d’aprile del 1995 mi ritrovai con Oscar a Villa Cojímar, il primo hotel finalmente
costruito sull’isolotto di Cayo Guillermo.
Spinto forse dal fantasma di Ernest Hemingway, che ancora navigava senza quiete di fronte a
noi e lungo la Corrente del Golfo, mi ripromisi di muovere finalmente i primi passi per iniziare
l’opera. Decisi così di intervistare formalmente proprio Oscar García, che era stato Direttore
della Empresa Turística Provincial di Ciego de Ávila e dimostrava di avere così tanti ricordi
personali sul tema.
L’appuntamento era nella camera 44, uno spazio che Oscar usava allo stesso modo per una
riunione di lavoro che per dormirci placidamente.
In quella specie di quartier generale tracciai le strategie della prima intervista e fu proprio lì
che mi fu rivelato che la storia del turismo in questa regione non era stata altro che una grande
avventura, fantastica e reale allo stesso tempo.
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Condivisi l’intervista, a due mani, con il giornalista italiano Alberto Taliani, che era impegnato
a formulare ad Oscar alcune domande a riguardo dello sviluppo turistico nella Provincia
(termine con cui a Cuba si indica una Regione) di Ciego de Avila.
Così il mio amico Oscarito, con il suo rapporto su quei giorni avventurosi in cui si era
trasformato in un moderno Robinson Crusoe, riuscì a prendere - come diciamo anche noi a
Cuba – i classici due piccioni con una fava.
Alberto Taliani pubblicò l’intervista in un articolo a piena pagina per il suo quotidiano IL
GIORNALE di Milano, mentre io conservai il testo raccolto nel baule dei ricordi, dato che
l’impegno preso con me stesso di comporre un voluminoso libro era già invecchiato abbastanza
e mi suggeriva di continuare ad approfondire ed aggiornare il corso di quella ricerca.
Insomma, tra i miei progetti per il nuovo secolo ed il terzo millennio, c’era anche la conclusione
dell’opera concepita fin da allora.
In seguito, approfittai della presentazione di uno dei miei libri in Italia, dove intervistai molti
dei protagonisti dei giorni primitivi del turismo in questa regione e nel Paese.
Fu così che Arnaldo Cambiaghi, all’epoca Presidente della Associazione Nazionale di Amicizia
Italia-Cuba, durante un viaggio a Piacenza dove incontrammo il giornalista e scrittore Gianni
Miná, mi raccontò come pose il suo granello di sabbia per rompere la ermeticità totale del
blocco nordamericano contro il nostro Paese, portando i primi turisti stranieri a vedere una
realtà che essi volevano toccar con mano prima di giudicare.
Il fotografo Aldo Abuaf mi portò a rivivere, nelle conversazioni nella sua casa italiana di
Palmanova, quei giorni trasparenti nei quali catturava con la sua macchina forografica le prime
immagini dell’Ultimo Paraíso, un hotel galleggiante incagliato volontariamente nelle isolette
dell’arcipelago dei Giardini della Regina.
L’avventuriero Eugenio Ciocca mi ripetè con ardore – dato che già avevamo parlato del tema a
Cuba – gli aneddoti del suo pellegrinare alluncinato per mari, pianure, montagne ed isole
deserte, a volte come turista, altre come Tour Operator o rappresentante di società: un genuino
Marco Polo del Caribe, alla scoperta di una nuova realtà.
Alfredo Bassani mi accompagnò in varie città della Lombardia, traducendo nei miei incontri col
pubblico italiano e rievocando con visibile nostalgia le peripezie dei suoi anni a Cuba e in
special modo nella regione di Ciego de Avila.
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Virgilio Negri, durante una cena nell’antico ristorante familiare ereditato dai suoi antenati
(il Ristorante NEGRI, affacciato sullo specchio del laghetto comasco di Pusiano, è aperto da
più di 100 anni), mi confessó la sua passione grande per la caccia alle anatre e alle beccacce
negli stagni di Falla e mi raccontò del suo desiderio di contribuire a sviluppare questo tipo di
turismo a Moròn.
Sisto Gungui cercai di vederlo a Brescia ma, di fronte all’impossibilità di un incontro
immediato, mi servii della posta elettronica e in poco tempo, al mio rientro a Cuba, ottenni una
testimonianza, esatta come la cronaca di un viaggio, sulla sua partecipazione, a capo della
società turistica-alberghiera Flamingo International, nello sviluppo del turismo nei “giardini di
mare” solo da poco aperti al Nord di Moròn.
Se di una cosa ero convinto alla mia partenza dall’Italia era che (finalmente!) sarei stato in
grado di onorare la promessa fatta quella lontana sera dell’estate 1992, seduto al bar Manatì.
A Cuba, tornai subito alla carica con altre interviste.
Torturai Oscar in stile medioevale, con un questionario di più di 50 domande.
Juan Pérez, Severo Morales, Gilberto García, Manuel Villar, Rogelio Oliva e María Elena Felipe
li feci sedere davanti a me, uno ad uno come in confessionale e non li lasciai in pace fino ad
aver spremuto anche l’ultima goccia dal pozzo dei loro ricordi.
Poi alcuni, che avevo già intervistato in Italia, tornarono a visitarmi per vedere lo stato di
marcia dell’opera e restarono impigliati nella tela di ragno dell’investigazione, fornendomi le
nuove confessioni che gli alisei tropicali facevano riaffiorare alla loro memoria.
Mi sarebbe piaciuto prosciugare il pozzo dei ricordi a tanti altri protagonisti delle storie che qui
racconto, però non potevo aspettare di più, dato che 12 anni son troppo tempo per mantenere
una promessa, cosicchè con queste testimonianze quasi cinematografiche ed alcuni documenti
rastrellati in scatole di archivi dimenticati e dischi rigidi di computers quasi inaccessibili, mi
sono proposto di realizzare un libro senza contributi accademici e note a piè di pagina.
Perciò, questo è un libro da poter leggere a prescindere da note bibliografiche affinchè il lettore
non sposti la sua attenzione nemmeno per un istante mentre è accanto a me su uno dei
promontori di Cayo Coco, o mentre con me naviga ai bordi della barriera corallina o tra le dune
di Cayo Guillermo, o scrive il suo nome su una delle pareti della Bodeguita di Guillermo,
contemplando dalle finestre il mare verde-azzurro con una sensazione di delirio colorato, o
quando insieme andremo pescando un coccodrillo ai Jardines de la Reina, o vedremo sbarcare
alcuni dei pirati che battevano la zona per nascondere un tesoro oppure mentre
accompagniamo Ernest Hemingway a caccia di sottomarini nazisti.
No, nessuno scrittore ha diritto di macchiare questi disegni chiari e precisi con citazioni
perditempo o riferimenti inopportuni.
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Senza dubbio resteranno molte cose da dire ma in un centinaio di pagine è impossibile dire
tutto, cosicchè lascio ad altri il compito di riempire le lacune, continuare con altri racconti,
stappare la copiosa sorgente di ricordi che domani saranno storia.
A me oggi è toccato portare alla luce le allegrie, le sorprese e le delusioni di un gruppo di
uomini impegnati a realizzare la vita civile in quegli arcipelaghi inospitali e desolati formati
dalle centinaia di isole dei Giardini del Re e dei Giardini della Regina; è toccato a me far
risuonare i misteri di un silenzio millenario, documentare le trasformazioni culturali, gli
sbarchi, le mareggiate; a me è toccato frugare e scrutare negli anfratti di ogni pietra, in ogni
insenatura, in ogni nuova alba.
Questa è la storia narrata in queste pagine, con una mano sempre stretta alla gola dei
protagonisti, in modo che la luna piena e il frastuono rotondo delle onde con lo sciabordìo delle
imbarcazioni, l’attesa dei primi turisti e la storia della formazione del nuovo polo turistico, non
siano semplici aggettivi ad effetto, frutto della complicità emotiva dell’autore, ma parole
oggettive e concrete, capaci di dimostrare al lettore che la geografia turistica che oggi si è
impadronita del paesaggio della regione centrale di Cuba, non fu sempre così.
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CONFESSIONI DI ARNALDO CAMBIAGHI:
L’UOMO CHE MOSTRO’ AGLI ITALIANI LA ROTTA PER CUBA
Intervista esclusiva realizzata dall’autore con Arnaldo Cambiaghi,
Presidente della Associazione Nazionale di Amicizia Italia-Cuba
Milano, 9 luglio 2001
Come venne l’idea di organizzare un flusso di turismo organizzato e di massa da Italia a Cuba?
Alla fine del 1966 lavoravo in Italturist che in quel momento era forse il più grande Tour
Operator d’Itali
Italturist aveva allora il monopolio del turismo nei Paesi dell’est-europeo, che allora si
chiamavano socialisti, e particolarmente nei viaggi per l’Unione Sovietica.
Nell’intento di stimolare il mercato turístico, il Direttore di ITALTURIST, Luigi Remigio, in
collaborazione con la direzione del Partito Comunista Italiano e con la direzione dell’allora
quotidiano di partito L’Unitá si ripromise di studiare la possibilità di programmare verso Cuba
alcuni viaggi a prezzo speciali.
Tieni conto che nel 1967 il mercato turístico italiano verso Cuba semplicemente non esisteva.
I programmatori del prodotto dei vari Tour Operators, a causa dell’esito vittorioso della
Rivoluzione cubana, avevano in pratica abbandonato la destinazione.
Nonostante ciò, studenti italiani, delegazioni polítiche ed alcuni dirigenti di Italturist
continuarono a visitare “La Isla Grande”.
L’idea nuova e decisiva venne a Franco Lucchetta, a quel tempo direttore di Italturist nel Nord
Italia: programmare Cuba attraverso un canale speciale, il Club Unitá Vacanze, da lui fondato,
proponendo cosi un nuovo ed originale programma di viaggi dedicato specialmente ai lettori
del quotidiano L’Unitá.
A me fu data la responsabilità di studiare come sviluppare questa nuova rotta.
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Furono questi due personaggi, quindi, ad affidarmi la missione di visitare Cuba e formare il
programma con cui dare inzio ad un turismo “di massa” verso la Isla Grande dei Caraibi.
Organizzai il mio primo viaggio a Cuba, con grande soddisfazione, spontaneamente, addirittura
utilizzando anche una parte delle mie ferie, dato che ero già Presidente della Associazione di
Amicizia Italia-Cuba nella mia città di Milano.
Cosa ti colpì della nuova realtà di Cuba?
Partii per Cuba con un volo Iberia. All’Avana mi sistemai all’hotel Deauville.
Ebbi un breve incontro con alcuni funzionari dell’ INIT (Instituto Nacional de la Industria
Turística) e concordammo di vederci nei giorni successivi con i dirigenti cubani del turismo.
Vennero di mattina a prendermi all’hotel con un’automobile americana, grande e vecchia, per
condurmi agli uffici in cui avevano posto la Presidenzaa e l’apparato organizzativo dell’INIT,
nel cuore della “Habana Vieja”.
La direzione al gran completo si era riunita lì, in mezzo a tre o quattro piccole scrivanie,
macchine per scrivere di vecchio modello, matite per prendere appunti su pezzetti di carta, un
vecchio telex e telefoni in abbondanza, anche se le linee erano solo due.
Uomini e donne indossavano le tradizionali guayaberas, specie di camicie-sahariane
bianchissime o color avorio e pantaloni ed abiti color castagno.
Ora, ti lascio immaginare l’effetto di quella stanza su di me, che venivo dalla sede milanese di
quella che era allora la più grande Agenzia italiana di viaggi internazionali, con luci al neon,
scrivanie e tavoli di lusso, pareti con fotografie traslucide e a colori, manifesti ai muri con le
nostre destinazioni turistiche, macchine per scrivere e già con video terminali e computers di
ultimo modello, apparecchi telefonici multilinea e un centralinista!
L’impatto con gli uffici della INIT fu in realtà molto buono e sorprendente, grazie alla cortesía,
alla calma e spontaneità cubane e, credo, anche grazie alla mia personalità ed alla convinzione
profonda del cambiamento positivo e delle novità che avrebbe portato il recente “Triunfo de la
Revolución cubana!
Ma Italturist in quegli anni era interessata ad un turismo speciale verso Cuba?
Nel corso della riunione con i dirigenti cubani, cominciammo ad analizzare alcuni programmi
speciali per i viaggi dall’Italia. Erano già stati preparati alcuni itinerari turistici ma io ero
interessato ad introdurre visite di interesse politico-sociale come, per esempio, alle fabbriche,
alle scuole; visite, insomma, nelle quali si potessero constatare anche le prime risposte
socialiste alle questioni sociali. Al termine delle prime interviste mi informarono che il giorno
seguente sarei stato condotto per un un lungo tour a Santiago de Cuba, Bayamo, Cienfuegos,
Trinidad, Santa Clara, Varadero e Pinar del Río, con lo scopo di farmi conoscere aspetti più
ampi di Cuba e delle strutture turistiche.
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Al termine del tour, mi fu possibile stabilire e programmare i soggiorni per i futuri turisti,
coordinare il tema dei visti d’ingresso a Cuba ed analizzare molti altri dettagli che dovevano
essere ancora definiti.
Fin dal principio avevamo stabilito di effettuare due viaggi all’anno attraverso l’organizzazione
di Italturist: un primo tour in estate, per la commemorazione del 26 Luglio; l’altro in Inverno,
per la vigilia di Capodanno e l’anniversario del “trionfo della Rivoluzione”. Proponemmo di
iniziare con 160 partecipanti per ogni viaggio.
Che esperienze hai avuto nel tuo primo tour di conoscenza delle strutture turistiche cubane?
Partimmo alle 7.00 del mattino con l’autista ed una guida, su una vecchia automobile
americana, un “carro” enorme. Non avevamo aria condizionata e il caldo era sfissiante. Ero
“bagnato nel sudore”, come dicono i cubani, e solo quando l’auto cominciò a correre, l’aria mi
diede un pò di rifregerio.
Dal finestrino contemplavo la bellezza del paesaggio cubano: palme, canna da zucchero,
allevamenti di buoi, tipiche capanne contadine, piccole e deliziose piazze di città, monumenti,
scritte rivoluzionarie su grandi cartelli esposti lungo tutto il percorso stradale.
Poi, i primi contrattempi logistici.
Nella provincia di Pinar del Río era prevista la visita dell’orchideario e di una cascata.
Il primo era chiuso e la cascata era a secco, cadevano solo alcune poche gocce d’acqua.
A Cienfuegos, ero ospitato al hotel Jagua. Una notte, d’improvviso, la luce si spegne e insieme
sento bussare alla porta della mia camera. Apro e vedo di fronte a me una cameriera, grande
come un armadio, fucile in spalla.
Lascio immaginare il mio spavento: avevo pensato subito allo scoppio di una guerra o qualcosa
di simile.
La cameriera mi informò che si trattava della presenza di alcune imbarcazioni di
controrivoluzionari cubani giunti da Miami, a “provocare”.
Parlando in perfetto “itañol” risposi che volevo anch’io partecipare alle azioni di contrasto a
“los gusanos” di Miami ed uscii dall’hotel, nel buio fitto, fino alla Scuola Marittima.
Restai lì rifugiato con un buon numero di cittadini e studenti.
Sorpresa: con noi c’erano anche la mia guida e l’autista.
Tornammo tutti e tre insieme in hotel alle 3 del mattino, con la soddisfazione di aver
participato ad un atto patriottico cubano... e di quale grandezza....
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Come ebbe inizio la promozione turistica di Cuba in Italia?
Al rientro in Italia, si tenne una riunione con Lucchetta e Nicola per elaborare i prezzi di
viaggio e decidere quale linea aerea avremmo potuto utilizzare per il trasporto aereo dei turisti
italiani a Cuba.
A quell’epoca le uniche linee disponibili erano: Iberia, CSA, Aeroflot, Interflug. Concordammo
su CSA, che già aveva il permesso del governo italiano per operare un volo di linea
Milano/Praga per 70 passeggeri con due frequenze settimanali.
Chiedemmo a CSA se riteneva possibile ottenere dal governo italiano l’autorizzazione per
operare con un aeromobile ILIUSCIN 62, con capacità per 160 passeggeri, viaggiando dal 22 di
Luglio al 6 di agosto.
La risposta non fu negativa, di modo che, con l’aiuto del quotidiano L’Unità, cominciammo la
promozione commerciale del primo viaggio di gruppo a Cuba.
A fine del mese di maggio non avevamo ancora nessun iscritto al viaggio. Lucchetta era
preoccupato e a ragione, poichè se al 15 giugno non si fosse raggiunto un numero sufficiente di
passeggeri, avremmo dovuto chiudere con la destinazione Cuba ancor prima di aprire.
Avvenne però che ai primi del mese di giugno cominciarono a comparire i primi iscritti e
proprio al 15 giugno raggiugemmo la cifra di 240 iscrizioni!
Eravamo felici: il turismo italiano sceglieva una destinazione come Cuba!
Certo, era un turismo politico, adatto anzitutto a viaggiatori sensibili ai problemi di Cuba;
persone spinte dal desiderio di conoscere la realtà di Cuba dopo la Rivoluzione.
Erano studenti, liberi professionisti, insegnanti, medici, operai ed impiegati.
La maggioranza era gente giovane, curiosa ed entusiasta.
Quindi si può dire che la destinazione turistica Cuba fu da subito un successo tra gli italiani?
Sicuramente. Anche se fin dal primo momento avemmo molte difficoltà ad effettuare quel
primo viaggio. La settimana prima della partenza (22 Luglio 1967), il governo italiano rifiutò la
richiesta della compagnia aerea CSA di cambiare l’aereo per 70 persone, come stabilito dagli
accordi interstatali, con un altro più grande con capacità per 160 persone, che era quanto
avevamo bisogno.
L’inconveniente era serio, dato che su quel volo avevamo già venduto e confermato il viaggio a
160 persone!
Avvertimmo subito la Direzione di Italturist a Roma perchè intervenisse presso gli organismi
preposti, ma tutte le risposte furono negative.
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Alla fine, ci rivolgemmo alla Direzione delle Ferrovie dello Stato, chiedendo un treno speciale
da Milano a Praga affinchè i turisti potessero imbarcarsi da Praga quel sabato 22 Luglio con
destinazione Cuba. Purtroppo, la risposta delle FS non fu positiva.
Allora pensammo di rivolgerci alla Compagnia di Autobus che faceva servizio tra gli aeroporti
di Milano, Linate e Malpensa, chiedendo di noleggiarci 5 autobus per il trasporto dei turisti da
Milano a Praga.
Risposta positiva! Arrivarono gli autobus ed imbarcammo i turisti.
Ma i problemi non erano finiti. Il governo italiano manovrò per intralciare il viaggio e causarci
contrattempi. Poi dovemmo coinvolgere anche il direttore dell’aeroporto di Praga ad aiutarci in
questo impegno perché accadde che arrivammo alla frontiera di Bratislava, da cui dovevamo
entrare in Cecoslovacchia, senza che nessuno avesse dato avviso che 160 italiani arrivavano in
Cecoslovacchia in omnibus. Quindi, il Direttore dell’aeroporto di Praga dovette telefonare al
Ministero degli Interni di Praga perchè chiamasse la Guardia Frontiera autorizzando l’entrata.
Finalmente anche questo ostacolo fu superato e la mattina del 23 Luglio i nostri turisti si
imbarcarono sull’aereo diretto a Cuba. Alcuni altri turisti li imbarcammo, invece, con IBERIA
via Madrid e non ebbero alcun problema. Ancora e sempre dovrò ringraziare molto Paola
Cremonesi, la nostra guida turistica che accompagnò il viaggio con CSA via Praga ed il
compagno Vando Martinelli che volontariamente si mise a disposizione per accompagnare
l’altro gruppo che viaggiò con Iberia.
Perchè fu un’esperienza così speciale il primo viaggio di gruppo a Cuba?
Forse perchè fu anche un’esperienza politica. Cuba era del tutto fuori dalle rotte turistiche
tradizionali. Passando per la Cecoslovacchia, a quel tempo, era necessario programmare due
viaggi a per farne uno solo a Cuba: in uno si diceva ufficialmente che i turisti partivano per fare
una vacanza sui monti Tatra, e quindi emettevamo un biglietto aereo per Praga; poi
emettevamo un secondo biglietto per L’Avana.
Tieni conto che c’era la guerra fredda e questo influenzava anche il traffico turistico trai i Paesi
dei due “blocchi”.
La prima volta, onde prevenire qualsiasi problema, io partii per Praga qualche giorno prima,
aspettando i turisti all’aeroporto, ma poi tutto andò bene.
Al rientro in Italia, invece, molti turisti avevano fatto grandi compere a Cuba: camicie,
guayaberas, machete, sombreri di paglia, sigari cubani, bottiglie di rhum...
Mi raccomandai che alla frontiera tutti dicessero che la vacanza si era svolta a Praga.
Ti lascio immaginare la faccia dei doganieri italiani di fronte a quelle affermazioni incredibili e
smentite così chiaramente dai souvenirs...
Ma siamo italiani… e tutto finì bene, stappando qualche bottiglia con le guardie di frontiera che
se la ridevano “sotto i baffi”.
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A Cuba aveste difficoltà? Quali impressioni riportarono gli italiani dal primo viaggio a Cuba?
Guarda, di certo non poterono godere delle strutture e dei servizi che ci sono oggi.
Gli alberghi erano quelli costruiti all’epoca dagli americani. Alcuni erano stati ristrutturati
superficialmente, altri grandi alberghi come l’Internacional di Varadero o il Capri dell’Avana,
abbisognavano di grandi e continue manutenzioni. Era già entrato in vigore l’embargo, il
blocco economico totale imposto dagli Stati Uniti, e il settore dell’ospitalità ne risentiva
moltissimo. Se si rompeva un rubinetto, non si poteva sostituirlo con uno originale ed allora se
ne cercava un altro qualsiasi. Invece, il servizio nei ristoranti conservava sempre il grande di
una tradizione antica. Il trasporto non andava con i nuovi Mercedes di oggi ma con alcuni
vecchi pullmann Leylands inglesi che si rompevano anche troppo spesso.
Ma la pulizia negli hotels era impeccabile, il personale molto cortese, sempre sorridente e
allegro anche quando costretto a fornire un servizio non perfetto.
Lasciami ricordare i molti italiani che contribuirono con le loro mani a superare concretamente
queste difficoltà: Elio Borgonovo, Sandro Perugino, Vando Martinelli, Aldo Abuaf, Alfredo
Bassani, Gaita, Graziella, Casadei, Menori e altri.
Altro aspetto delle difficoltà era derivante dal fatto che in quell’epoca il turismo internazionale
non godeva della necessaria attenzione da parte della direzione politica cubana. Il turismo era
visto come una ruota di scorta. Non si valutava appieno che i turisti tornavano a casa loro
entusiasti e non solo per il paesaggio, il mare, le spiagge e i musei visitati ma molto di più per
l’impressione e l’emozione del contatto diretto con la popolazione, con il popolo cubano che li
aveva accolti con un sorriso di benvenuto nelle sue case, nelle scuole, ospedali e fabbriche.
Che ricordi hai del secondo viaggio, quello del Capodanno 1967?
Fu un successo ancora maggiore che contribuì, con il primo, a spingere la Direzione di
Italturist ad aumentare il numero dei viaggi programmati per l’anno successivo. Si aggiunse la
data della festa del Primo Maggio ed alcune partenze per le vacanze di Agosto. Alla fine, in poco
tempo la fiducia di Italturist fu totale e la destinazione Cuba venne inclusa stabilmente tra i
programmi regolari offerti a tutto il mercato italiano.
Hai conosciuto i dirigenti dei vari organismi del turismo cubano? Che impressioni ne avesti?
Conobbi diversi funzionari dell’INIT, di Cubatur, di Cubanacán, di Havanatur, le più grandi
organizzazioni in quel tempo. Ci furono riunioni con il Ministro del Turismo Osmani
Cienfuegos, con il Presidente di Cubanacán, Abraham Macique, e sempre ho constatato un
atteggiamento molto positivo di lavoro, nella ricerca costante di operare per “la ricostruzione
dell’offerta turistica cubana”.
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Il lavoro sviluppato è stato grandioso, partendo dai primi Paesi come Canada, Francia e Italia,
che risposero evidentemente con numeri più alti che dai paesi allora detti “socialisti”, cioè
dell’est europeo.
Dopo questa esperienza strettamente professionale, sappiamo che ti sei dedicato ad altri settori.
Si, mi sono concentrato sul turismo politico, sociale e di solidarietà con Cuba.
Ottenni subito l’appoggio pieno dell’ Associazione di Amicizia Italia-Cuba e, di contro, l’attività
turistica servì molto ad animare le attività di questa associazione
Nel 1973 organizzammo la prima Brigata Internazionale di Lavoro che partiva dall’Italia per
lavorare a Cuba nei mesi estivi. Credo fosse addiritturra la prima brigata europea e contava ben
160 partecipanti. Ricordo che Vando Martinelli accompagnò il gruppo: all’arrivo all’Avana
srotolò uno striscione che diceva: "Nosotros no somos turistas", volendo sottolineare così, con
la solita divertita ironia tipica del carattere modenese di Vando, la differenza dal turismo
normale.
Hai altre esperienze importanti nella tua storia col turismo cubano?
Una delle più grandi fu il Primo festival Internazionale della Gioventù che si svolse proprio
all’Avana nel 1978. Fin dal momento dell’annuncio, con Italturist prenotammo oltre 900 posti
su tutti i voli disponibili, con la cecoslovacca CSA, con la tedesca-orientale INTERFLUG ela
spgnola IBERIA.
Partecipammo direttamente a tutte le riunioni di organizzazione e ci lavorammo intensamente
fino alla fine.
Veniamo all’oggi. Cosa pensi del turismo attuale a Cuba?
Sono passati più di 30 anni dal primo impatto e dal primo viaggio a Cuba organizzato da
Italturist. Non è possibile nessun paragone tra ieri ed oggi.
Oggi Cuba dispone di una gamma di offerte così ampia da soddisfare qualsiasi domanda.
Il progresso nelle attività di intrattenimento, nelle iniziative culturali generali, in tutto
insomma, è stato spettacolare.
Il turismo non è più la ruota di scorta dell’economia: oggi è un settore fondamentale, “di base”,
come si dice in economia.
Lo stesso “periodo speciale” attraversato da Cuba in seguito a tutti gli sconvolgimenti successivi
alla caduta del muro di Berlino nel 1989 ed alla fine della guerra fredda, ha generato
sorprendentemente un movimento di attività umane che ha dell’incredibile, con un ulteriore
sviluppo di strutture e infrastrutture.
Ho grandissima fiducia nel futuro di Cuba.
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CRONISTORIA GENERALE DEL TURISMO A CUBA
secondo il fotografo italiano ALDO ABUAF
Lo sviluppo del turismo nella Cuba rivoluzionaria ha avuto 2 tappe distinte.
Dal 1959 al 1983 la crescita è stata trascurabile o bassa, dovendo il Paese risolvere problemi
seri e prioritari di ordine economico e non potendo dedicarsi ad ospitare ed assistere pochi e
sporadici visitatori nè potendo investire capitali per lo sviluppo dell’industria dell’ospitalità.
I collegamenti con Cuba dall’Europa erano molto limitati: operavano poche linee dei paesi
socialisti (Cecoslovacchia, Repubblica Democratica Tedesca, Unione Sovietica) e in Occidente
faceva eccezione l’IBERIA, unica linea aerea dell’Europa Occidentale, dato che la Spagna era
stato l’unico governo europeo a non accettare la proposta nordamericana di un blocco aereo su
Cuba.
L’allora dittatore Francisco Franco, nonostante le enormi divergenze politiche con Fidel Castro,
disse che Cuba era “…una questione di famiglia…”.
Perciò il “povero” turismo europeo di quegli anni vedeva gli spagnoli come capofila.
Dal suolo americano, su Cuba volava solo Aeroméxico. Sabena, la compagnia belga, tenne
aperta una rappresentanza cubana, senza però mai utilizzare i diritti di traffico. L’entrata al
Paese era limitata all’Avana ed al suo aeroporto Internacional José Martí di Rancho Boyeros, di
sicuro l’unico al mondo in cui c’è una pista di atterraggio che incrocia una linea ferroviaria
(quella da La Habana a Pinar del Río).
Alle partenze del terminal aereo, il folklore era grandissimo.
Folle di persone, appoggiate ai pullmann parcheggiati facevano cenni da saluto a tutti gli arerei
in arrivo; per la strada favolose mulatas cubane con tute aderenti, bigodini e fazzoletti colorati
a coprir la testa, facevano perder la testa a noi pochi europei che ci avventuravamo a
passeggiare per l’isola, allora ancora vergine ed intatta.
Le presenze straniere erano rappresentate fondamentalmente da persone provenienti
dall’appena disciolto CAME, spagnoli e italiani la cui presenza, anche se non massiccia, era
molto significativa perchè orientata alla solidarietà e formata da gruppi di visitatori ben
organizzati e fortemente politicizzati, senza molte esigenze ma con un carico di grande ansia di
conoscere le conquiste della “revoluciòn”.
Il soggiorno includeva tutto (un antesignano “politico” degli odierni All-Inclusive).
Erano previste numerose visite a centri sociali e luoghi di lavoro, come comunità contadine,
scuole ed ospedali.
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Il massimo del lusso, già incluso nel “paquete”, era la notte prima della partenza al celebre
Cabaret Tropicana. Non c’era, d’altronde, molta scelta a parte altri cabaret come quelli
dell’hotel Nacional, del Riviera, del Capri, dell’Habana Libre (l’ex Hilton, nazionalizzato). Non
c’erano ristoranti per turisti nè altri centri per compere in valuta .
in questa prima fase, si arrivò al punto che i primi ospiti, più “consumistas” che “comunistas”
si lamentavano di non poter spendere i soldi ad eccezione dell’acquisto di pochi souvenirs, dei
soliti sigari e del rhum (questi ultimi due, poi, con grandi limitazioni doganali all’entrata in
Italia).
Non c’erano neppure le cartoline postali per inviare i saluti ai propri familiari o amici.
Gli acquisti si effettuavano solo nei negozi degli hotels, pagando in pesos cubani cambiati alla
stessa cassa dell’hotel dietro presentazione di una “carta de cambio” su cui dovevano essere
annotati tutti gli acquisti.
Se alla fine restava valuta cubana non spesa, il resto poteva essere cambiato solo in aeroporto.
Il turismo cominciò a crescere solo a metà degli anni ‘70. I canadesi arrivavano con un turismo
“economico”: poche pretese nei servizi e nessuna velleità culturale.
Si limitavano a lasciare il grande freddo e gelo dell’inverno del loro Paese per andare ad
abbronzarsi sulle spiagge cubane di Varadero e di Playas del Este.
Ad essi si univano gruppi di messicani che, vista la vicinanza geografica, potevano approfittare
di un viaggio aereo ancor più economico.
Spagnoli ed italiani erano un poco più esigenti, per lo meno sotto il profilo culturale e sociale.
Chiedevano di vedere il Paese e di confrontarsi con la sua realtà.
Così si aprirono nuove rotte che toccavano le ciità di Cienfuegos, Trinidad e Santa Clara, non
trascurando Varadero e La Habana.
Dall’Avana si organizzavano escursioni a Pinar del Río, nell’occidente del Paese.
Si organizzò anche un Gran-Tour fino a Santiago de Cuba con andata in pullmann, ritorno in
aereo e tappa intermedia a Camaguey.
Ai primi anni Ottanta, i responsabili del turismo cubano cominciarono a prender atto che si
stavano verificando le condizioni concrete per incrementare il flusso di visitatori da molte altre
parti del mondo.
Gli ingranaggi cominciarono a muoversi: ristrutturazione degli hotels esistenti e costruzione di
nuovi; formazione del personale di base e dei quadri direttivi, degli addetti alla moderna
tecnica di amministrazione, addetti alla gastronomia ed ai reparti commerciali, noleggio auto,
marketing internazionale, attività sportive e culturali rivolte al turismo, offerta di turismo
specializzato nella pesca (d’altura e d’acqua dolce) e si cominciò ad offrire anche la caccia
sportiva..
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Da un punto di vista storico, non si può omettere la citazione dei nomi di coloro i quali furono
davvero i pionieri del grande sviluppo turistico internazionale di Cuba, partito in quegli anni:
José Luis Padrón (Presidente del INTUR), Jorge Debasa (Direttore di Cubatur) e due suoi abili
ed appassionati funzionari (ex-guide turistiche), Marcelo Gorajuría e Manuel Rico (per tutti,
Manolo).
Costoro lottarono contro idee conservatrici giungendo infine a realizzare la prima catena di voli
charters tra Europa e Cuba.
Era il 1983 quando questo programma fu presentato, in presenza delle autorità locali, in un
gran-galà presso un famoso locale affacciato su Piazza del Duomo a Milano.
Ma l’operazione, appena annunciata, affrontò subito una montagna di problemi.
Il primo e più grave fu che non si poteva avere l’aeromobile previsto!
Alla nuova compagnia aerea Aerocaribbean S.A., creata all’occasione, fu proibito l’acquisto di
un Boeing 707 da una compagnia inglese la quale ricevette minacce formali dal governo nordamericano. Portando a giustificazione l’embargo, gli americani ricordavano agli inglesi che era
proibita la vendita o fornitura di qualsiasi tecnologia occidentale a Cuba!
L’imposizione arrivò solo a poche ore dall’inizio dell’operazione, con centinaia di viaggi già
venduti.
Altro problema serio erano i programmi combinati Cuba-Mexico.
I messicani, anche qui all’ultimo minuto, negarono i diritti di atterraggio agli aeromobili con la
bandiera cubana di Aerocaribbean.
Ma restava sempre il problema più grande: come portare in aereo i turisti italiani a Cuba? La
soluzione fu trovata da uno dei partners italiani di INTUR, Giuseppe Olivares, titolare del Tour
Operator MONDADORI VIAGGI di Milano, che andò a firmare per conto di Aerocaribbean un
contratto con Finnair per la durata di 3 mesi.
Si ritardò il primo volo di 24 ore, però l’operazione fu salva.
In seguito intervenne direttamente la compagnia aerea di bandiera Cubana de Aviacion,
noleggiando appositamente alcuni aerei della compagnia di bandiera romena Tarom.
Tutto il primo anno fu un’impresa difficile, con difficoltà d’ogni genere, quasi sempre a causa
del trasporto aereo, sempre molto critico a causa della scarsità di aeromobili adatti a voli
transcontinentali.
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Nonostante tutto e grazie alla ferma determinazione di questi pionieri, con il tempo (misurato
in anni...), il turismo verso Cuba prese a crescere ogni giorno di più.
Nuove rotte vennero aperte e si ampliò la rete di aeroporti internazionali: Varadero,
Camagüey, Holguín, Cayo Largo, Santiago, Manzanillo, Ciego de Ávila.
Oramai i visitatori potevano arrivare in numero sempre maggiore e non più solo attraverso
l’aeroporto Josè Martì de La Habana.
Intanto era stata creata la Corporación Cubanacán , una impresa che si attivò a partire dal
turismo specializzato nell settore delle cure mediche, per dedicarsi poi agli investimenti nella
parte orientale del Paese con grandi iniziative nelle provincie (cioè, il corrispettivo delle nostre
regioni) di Santiago e Holguín.
Cubanacan creó le basi e fece il rodaggio per la progressiva formazione di molte società miste
con imprese straniere.
Naturalmente, anche Cubanacán ebbe le sue traversie iniziali. Eccitati dal successo crescente
della operazione italiana di INTUR e constatando la crescente domanda di turismo per Cuba,
aprirorno la prima operazione “in concorrenza” del turismo cubano.
Negoziarono con un altro gruppo di Tour Operators italiani l’apertura di un nuovo volo charter.
Per farlo, si rivolsero alla appena costituita Air Europe, ma incredibilmente nessuno si avvide
che quella Compagnia aerea aveva come base operativa l’aeroporto di Bangor (in territorio
statunitense) e che qui avrebbe dovuto effettuare uno scalo tecnico nella traversata aerea
dall’Italia a Cuba.
Così proprio il primo volo subì un enorme ritardo dato che le autorità italiane di Civilavia
rifiutavano il piano di volo presentato da Air Europe.
Solo dopo una snervante trattativa Air Europe ebbe il permesso di partire, in virtù di un
accordo di atterraggio tecnico ad Halifax (in Canadá) da dove poteva proseguire per la sua
rotta finale a La Habana.
In seguito il problema venne risolto con la utilizzazione di un altro scalo “classico” per i voli
transcontinenatli, quello a Gander, nella Terranova canadese: si volava d’inverno verso il sole
di Cuba, con uno scalo di circa 1 ora tra i ghiacci perenni del Canada!
Oggi si vola con comodi voli non-stop e sembra impossibile la difficoltà di un tempo!
Allo sviluppo strutturale si accompagnava quello delle infrastrutture cubane: strade, servizi
generali, aeroporti, trasporti, autonoleggi con e senza autista e, insomma, ogni giorno
cominciarono a sorgere nuove imprese di sinergia nei servizi turistici.
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Si sviluppò l’isola di Cayo Largo, si rinnovò ed ampliò Varadero, si costruì a Santa Lucía,
Guardalavaca, a Playas del Este ed in moltissimi altri poli di sviluppo turistico, aprendo nuove
forme di ospitalità in case private all’Habana ed ampliando l’offerta nel campo della
ristorazione.
Tra le più grandi iniziative di investimento si deve citare quella dei centri turistici
dell’Arcipelago del Nord, le isole celebri dei Jardines del Rey, con Cayo Guillermo e Cayo Coco,
entrambi raggiungibili grazie ad un fantastico terrapiendo sul mare tra la Bahía de Buenavista
e la Bahía de Perros.
Si aprirono sempre nuove rotte aeree con altri paesi americani: Venezuela, Argentina, Brasil,
Perú, Ecuador, Jamaica, Barbados, República Dominicana, Cayman; e dall’Europa: Austria,
Germania, Bélgio, Svizzera, Inghilterra.
Anche quel primo famoso e difficile volo charter di Air Europe divenne una linea regolare.
Oggi finalmente Cuba è collegata con tutto il mondo ed operano alcuni voli a carattere “nonufficiale” diretti con gli Stati Uniti, che servono esigenze non trascurabili legate al traffico
etnico tra Cuba e la grande e potente comunità cubana della Florida.
Senza esagerare, si può dire che l’industria dell’ospitalità cubana è oggi sostanzialmente
all’altezza competitiva degli altri paesi dell’area Caraibica e Centroamericana mentre dove non
arriva la quantità o qualità dell’offerta, è lì che ricompare sempre sempreviva l’anima del
popolo cubano che è, in una sola parola, incomparabile.
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La terra allora non aveva alcuna forma;
tutto era un mare profondo...
La Bibbia
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LOS JARDINES LA REINA - I Giardini della Regina
Prima dell’arrivo dell’Ammiraglio del Mar Oceano, Cristoforo Colombo, l’arcipelago dei
Giardini della Regina esisteva senza nome nè padroni con carte ufficiali timbrate e bollate.
Era solo un gruppo di 243 isolotti (cayos) e isole che andavano a formare quello che i corsari
chiamarono “il labirinto delle 12 leghe”.
Quando ancora gli aborigeni neanche si avventuravano a passeggiare attraverso l’arco delle
Antille, già i “cayos de las Doce Leguas” avevano una pittoresca flora e fauna che facevano di
quel luogo isolato una specie di “paradiso perduto”.
Il paesaggio era dominato dal verde (colore che sfumò dopo il passaggio del grande ciclone del
1932) della vegetazione lussureggiante che ricopriva ogni angolo di questi cayos.
L’armonia vegetale era perfetta.
Tutto, dagli arbusti cresciuti sulla costa agli alberi cresciuti sulla terra ferma, fino a quelli che
spuntavano anche dentro l’acqua salata: proprio tutto si presentava in un quadro equilibrato
con l’ambiente acquatico sul quale affiorava quasi galleggiando.
Presto gli aborigeni si servirono di questa flora, che divenne essenziale per la loro dieta,
utilizzando nella vita quotidiana ogni radice, fogliame, tronco, corteccia, succo, seme.
La “yuraguanà” serviva per confezionare oggetti artigianali e i suoi tronchi per alzare
palizzate; la salvia marina, la mangrovia colorata, il rosmarino, l’erica e molte altre avevano
proprietà curative.
Alcune specie fornivano frutta, legno speciale per fabbricare canoe e dolce ombra per
proteggersi dai raggi delle torride estati caraibiche.
I granchi gironzolavano in primavera sulle spiagge e sulle rocce delle scogliere: specialmente il
carito – una specie che si caratterizza per il suo colore rosso e la piccola taglia e per la capacità
di salire sugli alberi e di ricoprirne i rami – era presente in tali quantità che quando compariva
l’invasione dei piccoli granchietti appena nati, gli alberi sulle rive dei cayos apparivano come
rossi flamboyants.
I coccodrilli - creature temibili che conservano nel truce aspetto delle fauci una grande
nostalgia per tutti i dinosauri che sparirono giusto in tempo per consentire all’uomo di abitare
questo pianeta - galleggiavano tra i canali come tronchi alla deriva, esibendo chiostre di denti
da animale predatore.
I manatì, con le loro zampette sotto il ventre per tenere i neonati durante l’allattamento, erano
anch’essi parte della fauna eccezionale del Laberinto de Las Doce Leguas.
Si bagnavano negli specchi d’acqua rivoltandosi allegri negli stagni fino a che l’uomo non
imparò che le loro carni avevano ben 3 sapori...
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Le mangrovie nelle aree secche erano comunemente popolate di jutìas, caguayos e alacranes;
la sabbia delle spiagge era bucherellata dai nidi delle tartarughe che invadevano il bagnasciuga
alla schiusa delle uova.
Il mare, “la mar” – come la chiamano, al femminile, i pescatori che l’amano come loro eterna e
ambigua madre-amante – era impregnata di miriadi di specie, spettacolari come ll pargo, il
muggine marino, la cherna, la guasa, la biajaiba, la sierra e la cubera.
L’aragosta e il gambero abbondavano lungo tutta la striscia dell’arcipelago del Labirinto de Las
Doce Leguas, tappezzando in alcuni punti il fondale a centinaia, come a Cayo Caballones,
Per completare questo catalogo enciclopedico di fauna e flora, vagavano per il cielo dei Giardini
della Regina così tante specie (i pellicani, le albanelle, i cormorani, i gabbiani, le fregate ed
anche quell’uccello notturno che la superstizione popolare cubana vede come messaggero di
sventure e morte, la civetta) che anche continuando dovremmo arrenderci prima di enumerarle
tutte, altrimenti rischieremmo di convertire questo libro in un trattato di storia naturale.
Così apparivano i Jardines de la Reina quando ancora non erano esattamente dei giardini nè
appartenevano ad alcuna regina; erano così quando giunsero, navigando su primitive canoe, di
isola in isola, di cayo in cayo, di mistero in mistero, i primi esseri umani che abitarono questo
arcipelago stretto tra i golfi di Guacanayano e Ana Maria. Sbarcarono sui quattro isolotti
maggiori perchè erano i più abitabili, battezzandoli con significativi nomi onomatopeici; ma
dato che la storia è sempre scritta dai vincitori, nessuno più ricorda quei nomi originali, bensì
gli altri apposti dagli spagnoli: Cayo Grande, Cayo Cinco Balas, Cayo Caballones e Cayo
Anclitas.
Gli archeologi ci assicurano che erano popoli dediti all’agricoltura, abili nel costruire il
vasellame di coccio ed avevano buone conoscenze dell’arte della pesca.
Vivevano pacificamente ed erano molto felici anche quando intravvidero apparire in
lontananza strani animali marini, con enormi ali bianche, che si muovevano con destrezza tra
gli stretti canali del Labirinto battendo quelle grandi ali al ritmo del vento.
Gli indigeni, con la loro pelle rossiccia, capelli lisci e lunghi, vestiti di poche fibre vegetali e
spesso di nulla, erano molto lontani anche solo dall’immaginare che quegli altri esseri umani in
arrivo, specie di minotauri che loro contemplavano con occhio attonito, altro non erano se non
imbarcazioni in viaggio da terre lontane e con a bordo la cultura di un altro mondo.
Nelle menti felici di quegli abitanti di un mondo appena scoperto o, per meglio dire, appena
ritrovato, nessun sospetto che il ventre di tali strani uccelli acquatici covava una prolifica
nidiata di “semidei” con lunghe barbe, armature di ferro e tonanti raggi luminosi capaci di
uccidere a distanza
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Dalle navi sbarcarono uomini nuovi con corpi di animali - anche più spaventosi dei centauri
perchè dotati di 2 teste: quella del cavallo e quella armata del cavaliere; capaci poi di correre a
grande velocità e di usare una forza fuori dal comune.
Gli indigeni indiani-americani mai avrebbero potuto sospettare che l’arrivo di quegli esseri
dava inizio al conto alla rovescia della sparizione di un’intera razza umana.
Nè gli arùspici, nè gli anziani con le loro rughe millenarie, nè gli indovini che dialogavano col
cielo, proprio nessuno riuscì allora ad avvertire gli indigeni della triste e macabra disfatta che
avrebbe subito la loro esistenza a partire da quella fatidica mattina del 1492 in cui intravvidero
i 3 giganti avvicinarsi sul mare battendo gigantesche ali.
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I primi “turisti” ai Giardini della Regina
Si parla spesso delle diverse attività turistiche praticate nel mondo: turismo balneare, culturale,
storico, politico, ecologico, salutista...
Quasi si dà per scontato che non c’è più un turismo di scoperta o anche di conquista, quel tipo
di turismo che, detto per inciso, io considero invece come la più antica delle esperienze umane.
Uomini come Ulisse, Alessandro Magno, Gengis Khan, Marco Polo, Giulio Cesare, Fernando
Magellano, Napoleone Bonaparte, Diego Velasquez e Cristoforo Colombo tra tantissimi altri;
costoro hanno scoperto o conquistato, o fatto entrambe le cose, viaggiando in luoghi geografici
molto diversi e lontani.
Si potrebbe pensare – per davvero o per scherzo – che anche quelle grandi personalità furono
“turisti” e, insieme con loro, io direi che veri turisti furono le grandi moltitudini che li
accompagnarono e seguirono le loro grandi imprese.
Senza dubbio Cristoforo Colombo è stato il viaggiatore più illustre di tutti: nel 1492 realizzò il
viaggio turistico più formidabile e glorioso di tutta la storia umana.
In quel viaggio portò i primi europei a far vacanza sulle spiagge delle Antille, a scoprire e
denominare isole a capriccio, a deambulare nella Corrente del Golfo.
Quando Colombo tornò nel 1494 con un’intera flotta e visitò l’arcipelago a sud di Camaguey,
volle battezzarlo col nome di Giardini della Regina (Jardines de la Reina) come segno di
gratitudine per quella Regina di Spagna, Isabella di Castiglia, che lo aveva aiutato quando quasi
nessuno credeva in lui. Anzi, nelle prime carte della scoperta Colombo indicava tutta l’isola di
Cuba col nuovo nome di ISABELLA!
Colombo torna nel 1498 e nel 1502 alle Americhe, imponendosi di fatto come il primo
“repeater-guest”, cliente affezionato, di cui si ha notizia.
Sappiamo dai Diari che navigò per il Laberinto de Las Doce Leguas durante i mesi di maggio e
luglio. Racconta Pedro Guerra, pescatore solitario e allevatore di tartarughe che visse e morì
nel Laberinto, che quando Colombo arrivò lì, gli indigeni volevano ammazzarlo ma lui si pose
uno specchietto sul petto dicendogli: “Guardate, vi porto nel mio cuore”.
Gli indiani vedendosi riflessi nel petto di Colombo, videro lui come un Dio.
Fu così che Colombo potè intavolare la sua prima conversazione con il capo di quegli aborigeni,
restando molto sorpreso dalla tecnica indiana di pescare enormi tartarughe e manatì,
utilizzando un pesce dotato di una ventosa sulla testa.
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La tecnica era di suprema ingegnosità: legavano una corda alla coda dello strano pesce-ventosa
e la allentavano quando si avvicinava una preda.
Il pesce libero di muoversi aderiva alla preda, il pescatore tirava la corda poco a poco fino ad
aver la preda ai lati della canoa, allora afferrava e issava la tartaruga o il manatì, premiando
l’aiuto del pesce-ventosa con un boccone della stessa preda pescata.
Chi oggi navigasse al largo del Laberinto semplicemente non potrebbe credere che 5 secoli fa
per di là passò indenne Cristoforo Colombo con tre navi, Nina, San Juan e Cardera, sfidando
stretti canali, taglienti scogli corallini, infide secche di banchi di sabbia, e andando a gran
velocità e senza alcuna carta di navigazione attendibile,
In questo pellegrinare dal Golfo di Guacanayabo alle coste di Trinidad, l’Ammiraglio dimostrò
la sua perizia nella marineria costiera, la stessa che aveva già dimostrato di possedere nella
navigazione in acqua profonda.
Considerando quanto detto prima, possiamo dedurre senza dubbio che l’esplorazione dei
Jardines de La Reina fu una delle imprese memorabili della storia della navigazione.
Molti anni dopo, approfittando delle indicazioni nautiche dei diari di Cristoforo Colombo, delle
prime carte del cosmografo Juan de la Cosa, degli appunti di Andrés Bernáldez e delle
descrizioni di Pedro Martir, altri audaci navigatori passarono attraverso il Labirinto delle
Dodici Leghe, ma non più per un turismo di scoperta o colonizzazione come i predecessori,
bensì per un turismo d’assalto, di pirateria e di saccheggio ai danni di galeoni e vascelli
spagnoli e delle proprietà di Spagna in quello che cominciava ad essere conosciuto come il
favolosamente ricco “Nuovo Mondo”, termine che scrisse per primo il grande “cronista”
Amerigo Vespucci.
***
28
Il posto di frontiera di Cayo Guillermo,
diventato La Bodeguita de Gregorio dopo il 1992.
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LA LAGUNA “ LA REDONDA”:
PIONIERA DEL “TURISMO INTERNACIONAL”
La storia del turismo internazionale nella parte centrale della lunga isola di Cuba, cioè nella
regione di Ciego de Ávila, non cominciò dai Jardines del Rey nè da quelli della Regina, come
molti pensano, bensì dalla solitaria e paciosa laguna costiera detta La Redonda.
I legittimi precursori furono quei pescatori “della domenica” che senza sapere che un giorno la
Redonda sarebbe diventata un importante centro turistico, si dilettavano a bighellonare con
rustiche scialuppe per i suoi canali, cercando un pranzo di fortuna.
Nacque una leggenda sulle sue trote gigantesche, abitanti in folla nelle sue acque scure.
Presto la fama di questo invaso di acqua dolce di 180 caballerías a metà strada tra le località di
Moròn e Turiguanò, si diffuse tra gli appassionati di pesca sportiva.
Fu proprio così che ai primi del 1980, Lázaro Ponce de León, allora direttore della Empresa
Turística de Ciego de Ávila, diede lo storico incarico ad Oscar García (in quel momento
direttore dell’Hotel Ciego de Ávila) di preparare le condizioni per tentare di sfruttare quella
laguna che conservava come un tesoro nei suoi fondali, secondo quel che si tramandava dai
tempi dei nostri bisavoli, le trote (black-bass) più grandi di Cuba e dei Caraibi.
“Le persone che parteciparono alla scoperta, possiamo dir così, della Redonda come luogo
turistico – ricorda Alberto Galvez - furono Curro Montaner (figlio della cantante Rita
Montaner), specialista di pesca dell’INTUR (Ministero del Turismo di Cuba) a livello
nazionale, Wilfredo Echemendía Ulloa (per tutti, Felo), specialista di pesca di Ciego de Avila,
Eddy López, Oscarito García, Manolo Fernández ed io.
Quello fu il primo gruppo che esplorò La Redonda per analizzarne le reali potenzialità di
pesca sportiva.”
Quando il gruppo di lavoro giunse alla conclusione che la Redonda “era buona”, Alberto Galvez
si mise in contatto con Dan Snow, grande ed esperto pescatore americano, in quel momento in
vacanza a Varadero.
Lo fecero venire direttamente a Moròn e allora ci volevano 6 ore di macchina!
Arrivati alla Redonda, Curro Montaner e Felo Echemendía lo portarono subito a pescare e Dan,
quando vide il numero di prede pescate in una sola ora, restò a bocca aperta.
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Disse subito che si doveva cominciare a sfruttare la laguna per la pesca sportiva e che si
preparassero al più presto le condizioni minime per portare i primi gruppi di pescatori.
“A me dissero solo che avevo un mese per “fare La Redonda” – racconta Oscar Garcìa ancora
oggi stupefatto dall’aspetto surrealista di tale “missione impossibile”.
“Era un compito “facile a dirsi, da matti a farsi”. Prima ne parlai a quelli che conoscevano la
Laguna come le loro tasche e questi mi confermarono che le trote erano tante e di taglia
enorme.” Dopo una settimana erano già di ritorno a Moròn due nordamericani, Dan Snow
ed il suo amico ed assistente Steve Shoulder, sicchè dovemmo prima caricarci in spalla, e poi
letteralmente sulla testa, alcune barchette dalla vicina Laguna de La Leche fino alla Redonda
e si fece una nuova battuta di di pesca con loro due.
Si entusiamarono con le meraviglie che poterono vedere e con gli esemplari da record che
abboccavano al loro amo uno dietro l’altro.
Il dado era tratto: La Redonda doveva essere approntata in un mese.
Ora qualcuno doveva ineludibilmente attendere all’opera, bisognava dirigere la costruzione
di quella pazzia, e così ci trovammo a dover nominare il primo Amministratore che doveva
essere uomo con qualche esperienza nel settore gastronomico e turistico.
Pensammo a chi aveva già amministrato il bar Las Brisas e il circolo sociale Estèban Lopez a
Ciego de Avila e che ora era impegnato come capo degli acquisti presso il costruendo Hotel
Moròn. Doveva essere, insomma, un uomo senza paura di dover convertire sogni in realtà.
Per questo, si designò Manuel Vilar Candelario, per tutti Manolito.
“Cominciai a La Redonda quando non c’era proprio nulla – mi disse Manolito un quarto di
secolo dopo averla fondata -. C’era solo un piccolo sentiero, quasi un tracciato segnato dalle
orme dei pescatori che arrivavano fin lì. Dunque per primo era necessario creare un vero
accesso pedonale e poi un passaggio carrabile dalla strada di Turiguanò fino alle vicinanze
del lago. Bisognava scavare ed abbattere un pezzo di monte perchè passasse almeno un
veicolo; dopo bisognava erigere un “ranchòn”, una grande capanna con tetto di paglia e,
infine, crearle attorno quelle infrastrutture minime che servono per un’installazione di
ospitalità, anche rustica e sportiva, come quella.
“Servivano pali di legno duro e quelli me li portai via da un magazzino del Settore Turistico:
erano già destinati per un’altro capannone, ma ritenni che “denudare un santo per vestirne
un altro” non era peccato... ancor meno se il santo da vestire aveva più fretta dell’altro!
Montai così lo scheletro del mio “ranchòn”. Poi con una barchetta me ne andai per Chicola e
lì, senza farmi vedere da nessuno della gente del settore Flora e Fauna - sai, un mese non mi
dava tempo per carte e attese di permessi -, mi tagliai le foglie di palma che servivano per la
copertura del tetto.
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Solo dopo parlai con i capi dell’Hotel Moròn, allora in cantiere: sembravo un elemosiniere e
si sensibilizzarono ai miei problemi lasciandomi portar via un pò di cemento e di piastrelle.
Andavo qua e là, raccogliendo tutto il materiale poi usato nella costruzione de La Redonda”.
Insomma, quando La Redonda già era proposta e venduta ai primi gruppi di turisti come un
centro organizzato ed accogliente di pesca alla trota, ancora il “ranchòn” doveva essere
coperto; la strada neppure era cominciata e sopra le acque ondeggianti del lago non
galleggiava ancora nemmeno il più umile dei gusci.
Ormai mancavano solo poche ore dal previsto arrivo dei luccicanti pescatori nordamericani
con le loro splendide leggerissime canne in fibra di carbonio.
L’ultimo giorno lavorammo “da sole a sole”. Tanto i costruttori, molto pochi, che i capi,
pochissimi, tutti eravamo in tensione perchè, mancando ancora molto da fare, il conto alla
rovescia non si poteva fermare nè allungare: i turisti sarebbero comunque arrivati la
mattina seguente sicuri di poter per godere del prodotto da noi offerto e venduto.
Nella tardissima mattinata del giorno zero, le uniche cose già pronte a svolgere la loro
funzione erano... le trote.
A quell’ora nemmeno i motori delle lance erano ancora stati provati, e infatti si rivelarono
come i peggiori motori dell’universo. Fabbricazione sovietica, molti cavalli di potenza ma
ben poco adeguati al tipo di attività, si rompevano con frequenza eccessiva e a volte quella
che cominciava come un’allegra e sportiva battuta di pesca, si concludeva con una gran
carovana di sconfitti.
All’embarcadero si vedeva tornare una fila di cinque o sei lance a rimorchio di quella sola e
unica che quel giorno non si era rotta.
Insomma, non ci fu alcun tempo per provare nulla: terminammo i lavori alle sette di mattina
e cinque minuti dopo arrivarono i turisti.
Abbaiavano tutti il loro incomprensibile inglese-americano, gesticolavano, si chiamavano
l’un l’altro, e Oscar e Manolito - senza capire un’acca - li contemplavano cercando di
indovinare l’ombra dell’ insodddisfazione: ma quelli, invece, avevano stampata in faccia solo
felicità pura !
Erano arrivati volando con un DC-3 (il mitico Dakota, l’aereo dei fumetti di Topolino!) fino
all’aeroporto di Camaguey e da lì erano stati trasportati all’Hotel Ciego de Avila.
Arrivati infine alla Laguna La Redonda, mentre ancora gustavano il cocktail di benvenuto
servito dal barman Severo Morales, già cominciarono ad imbarcarsi sulle lance.
Dopo soli 40 minuti la prima lancia era rotta perchè, come detto prima, a parte
l’inadeguatezza dei motori stessi, alcuni dei “piloti” non avevano mai acceso un motore
fuoribordo prima di quel giorno...
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Solo un “lanchero”, che veniva dall’Hotel Zaza, era “esperto”: con lui come istruttore, la
Redonda divenne quello stesso giorno la nostra prima scuola nautica!
Le esigenze quotidiane generarono presto una miriade di iniziative che si convertirono presto
in attività tradizionali o, per lo meno, in genuine attrazioni turistiche.
“Nacque così la “Lancha-Bar,- come mi racconta l’insigne barman di allora, Severo Morales:
“Avevo costruito un vero e proprio bar galleggiante e mobile, attrezzato di tutto punto.
Su quella imbarcazione, osservando le preacuzioni del caso, tenevo piattini con chicharrones
de cerdo, mariquitas de plátano, olive, formaggi, salumi; portavo il necessario per preparare
cocktails, offrire birra gelata e caffè bollente.
I pescatori se ne stavano assorti e indaffarati nel bel mezzo della laguna o infilati nei canali
laterali ed io mi avvicinavo con lamia Lancha-Bar, lentamente, senza disturbare.
Quando loro si avvedevano della mia presenza, mi facevano un cenno con la mano ed io mi
avvicinavo con la massima cautela possibile per non spaventare le trote”.
Fin dal principio si imposero due preparazioni gastronomiche, in seguito diventate tradizionali
e distintive della Redonda “nel mondo”: los “calenticos” e il “platanal de Manolito”.
“Il primo piatto, il cui segreto ha radici nel modo in cui si elabora la pasta soffice per
impanare i filetti di pesce, si serve con salsa russa e ne appresila ricetta vedendolo fare dal
dottor José Pepe Zamora – afferma Manuel Vilar con giusto orgoglio – e lo introdussi come
aperitivo salato, mai più pensando che si sarebbe presto trasfomato nel piatto tradizionale
della Laguna. La scelta fu decisa dai turisti, che lo preferivano su tutto e non la finivano più
di dire che l’unico luogo al mondo dove gustare le frittelle di pesce era lí.
Il secondo piatto, il platanàl, nacque per caso.
Avvenne che quando iniziai a lavorare li, c’erano a La Redonda due piante di banana-platano
e dovevo potarle per impiantare una nuova piantagione (un platanal).
I turisti erano lì vicino, alla vigilia della partenza, proprio tra quelle piante di banano.
E sempre lì intorno stavamo arrostendo un maialino disossat.
Così’ per passatempo prendemmo a friggere in padella un pò di rondelle di banana-platino
appena tagliata dal ramo, tutto davanti agli occhi curiosi dei turisti.
Nacque così il famoso “Platanal de Manolito”: la versione cubana delle patatine fritte.”
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Benchè nella Redonda ci fossero le lunghe cuberas a strisce nere e occhi cerchiati di giallo, gli
agòni, i branzini e i buonissimi pataos... alla fine erano le trote black-bass le sole vere
protagoniste dello spettacolo.
I pescatori nordamericani, quelli tedeschi che costruivano la fabbrica di tabacco di Violeta ed i
francesi che edificavano la cartiera di Jatibonico, formarono i primi gruppi organizzati di
turisti a La Redonda. I nordamericani arrivavano molto ben organizzati, come una specie di
Club: portavano i loro Trofei, avevano regole interne precise per la gestione delle gare alla trota
e per la valutazione del peso delle prede.
“Usavano com esca cucchiaini o sagome di pesci artificiali (imparammo presto il loro nome
tecnico di “ràpala” - ricorda Manuel Vilar - e pesi piccoli da 12, 15 o 20 libbre, secondo cosa si
prefiggevano di catturare.
Dimostravano di essere autentici professionisti della pesca. Quando uno catturava una trota,
se non era della taglia sperata, l’accarezzava con attenzione, estraeva l’amo con
inspspettabile delicatezza e la rituffava in acqua; se invece rientrava nei parametri previsti,
la portava subito al ranchon, qui la pesava e, sempre, appariva la delusione perchè c’era una
scommessa patrocinata dalla Federazione Pesca Americana, con una posta pari a 1 milione
di dollari per chi pescava una trota di 22 libbre.
Anche se fecero davvero l’inimmaginabile per agguantare una trota così, nessuno mai pescò
un esemplare di quel peso.
Scherzavamo parecchio su questa scommessa: quando alcuni arrivavano alla pesa, mentre li
distraevamo servendo un cocktail, io infilavo un piombo nella bocca della trota e il pescatore
impazziva! Lo scherzo durava sempre poco perchè si vedevano già con un milione tondo di
dollari in tasca e ogni volta si rischiava un infarto”.
Dato che con i motori sovietici era quasi impossibile uscire a pesca (si arrivò a battere il
record che se ne rompeva sempre almeno uno e talvolta tutti) si riuscì a trovare il modo di
acquistare alcuni motori Johnson da 45 e 55 cavalli che si comportarono molto meglio, anche
se per quel tipo di pesca non era davvero necessario avere motori così potenti. Era il prezzo
inevitabile dell’inesperienza, che metteva a rischio lo sviluppo dell’attività di pesca ma, anche
qui senza che ce ne accorgessimo, pagammo un prezzo altissimo per un altro errore enorme:
non controllando bene la pesca arrivammo ad un super sfruttamento tale che si rischiò in
pochi anni la totale estinzione della trota a La Redonda.”
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Per fortuna, prima dell’estinzione definitiva della trota, si estinsero i nordamericani che
venivano con loro gran piacere a pescarla.
Dan Snow non credeva all’assurdità delle leggi che indurivano di giorno in giorno l’embargo
degli Stati Uniti contro Cuba, e tirò avanti imperterrito fino al giorno in cui dovette, stupefatto,
ascoltare con le proprie orecchie pronunciare a suo carico la sentenza di un tribunale degli
Stati Uniti che lo giudicava “…per il pericoloso e grave delitto...” di portare suoi compatrioti a
pescar trote a La Redonda!
Dan Snow fu condannato a cinque anni di carcere; lo multarono per cinquantamila dollari e gli
chiusero l’Agenzia di Viaggi Cubatravel di cui era proprietario!
Svanì così, in un baleno, il sogno per i nordamericani di tentare la favolosa cattura a La
Redonda di una trota di 22 libbre, sparì il sogno dell’aperitivo col “platanal de Manolito” e
tutti insieme sparirono tanti altri sogni.
Ma il colpo fatale stava ancora oper arrivare: la notte del 19 di Novembre 1985, quando La
Redonda era già un vero simbolo del turismo regionale, passò il ciclone Kate e distrusse tutto.
Dovemmo ripartire da zero e rilanciarla di nuovo con la consapevolezza che le felci gigantesche
come cattedrali gotiche, le palme e orchidee tra canaletti di acque scure, le radici delle
mangrovie che spuntavano da ogni angolo dei canali come ragni innocui e immobili ed il
silenzio di una vita al rallentatore tra la foresta punteggiata da giganteschi nidi di termiti,
dovevano continuare ad essere oggetto di ammirazione per il mondo intero.
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L’ULTIMO PARADISO
Al tempo in cui la laguna La Redonda sorgeva come pioniera del turismo internazionale,
comparve, non si sa come e da dove, un’imbarcazione sulla quale si mossero altri primi e
decisivi passi per il progresso del turismo nella Regione di Ciego de Avila.
Col Macabì, così si chiamava la grossa barca a motore, fu possibile condurre lunghe
esplorazioni delle coste, cabotando tra i piccoli cayos desolati dei Jardines de la Reina.
Anche se Cuba gode davvero di un’eterna estate, la regione centrale di Ciego de Avila allora
offriva davvero pochissime opportunità per sviluppare attività di turismo.
I responsabili di allora della neonata Empresa Turística de Ciego de Ávila (ETCA) avevano
dunque il compito di “far turismo in una pietraia” – così si diceva allora dell’incipiente
turismo avilegno - per cui furono costretti ad essere più osservatori, ingegnosi e sagaci per
ottenere quello che, a prima vista, appariva impossibile se non inutile.
Perciò lo sguardo si estese fino alla “cayeria” cioè gli arcipelaghi del nord e del sud della
regione, per vedere di sfruttarne le bontà paesaggistiche e le splendide spiagge.
“Prima della scoperta della Redonda e degli arcipelaghi- riferisce Oscar Garcia – convincere
una persona a venire a Ciegio de Avila per turismo era un’operazione di magia, si doveva
prenderla per i capelli...
Senza dubbio, dopo che ebbe inizio la pesca alla trota, poi le immersioni dalla “Patana” e
infine con lo sviluppo del Centro Ippico di Florencia e l’apertura degli hotels Santiago
Habana, Ciego de Ávila e Morón, la situazione cambiò decisamente in meglio.”.
Cercando di trovare una soluzione al problema sempre più critico della scarsità di traffico
turistico nella regione avileña, Lazaro Ponce de León, allora direttore della Empresa Turística
Ciego de Ávila, si mise ad esplorare, con la stessa avidità che doveva aver avuto ai suoi tempi
Cristoforo Colombo, i cayos dei Jardines de La Reina, l’arcipelago al largo della costa sud,
dove incontrò quella natura vergine, di un verde lussureggiante e quelle acque tranquille,
trasparenti e popolate da gran quantità di pesci che sembravano messi lì a bella posta per
incantare i pescatori di tutto il mondo.
Ponce de Leòn vide subito che il punto forte dell’area era l’attività subacquea, per la ricchezza e
varietà di fondali marini, straordinari a tal punto che un subacqueo esigente avrebbe potuto
immergersi due volte al giorno anche per tre settimane e sempre in punto diverso ed
eccezionale. Confrontò le sue prime impressioni con tutti gli specialisti e professionisti di
immersione ed ottenne le più entusiastiche conferme che il fondale marino di tutto l’Arcipelago
dei Jardines de La Reina era di qualità incomparabile.
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Fu così che gli isolotti del sud, con la spettacolare corrida marina per la pesca dell’agòne e
l’emozionante pesca al macabí, si ancorarono nei suoi neuroni e in lui sorse l’idea primigenia
di costruire una villa, una grande casa di vacanze, su Cayo Muerto.
Alla fine, si riuscì ad edificare solo una casetta per le visite, che fu comunque molto utile in quel
primo tempo e che conserva il valore storico di essere stata la madre di quello che in seguito
sarebbe stato “La Patana” (in italiano, La Piattaforma).
Di questa bizzarra idea di collocare una “Patana”, trasformandola in una specie di Hotel
galleggiante, si parlava a voce bassa nei corridoi dell’allora piccola Empresa Turistica de Ciego
de Avila ma non c’era ancora la forza necessaria per convertire l’idea in realtà.
Ponce de León e Everildo Vigistaín, allora membri dell’Ufficio Politico del Partito (Comunista)
Provinciale, gestivano l’idea con molta riservatezza.
Dall’altro lato, il nordamericano Dan Snow parlò di qualcosa di simile (“…serve una base fissa
per la pesca…”) enfatizzando un interesse grande per aprire un turismo di pesca d’altura e
immersioni subacquee nell’arcipelago del sud.
Un giorno, che non appare segnato in nessun atto ufficiale nè in alcun appunto di vecchie
agende, Ponce de Leòn comunicò, semplicemente così, che si andava a posizionare un “hotel
galleggiante” ai Jardines de La Reina!
“Lo costruimmo al Porto di Jucaro – ricorda Rogelio Oliva, testimone diretto di quella
impresa – con l’apporto di personale specializzato e di molti lavoratori della nascente
Empresa Turistica provenienti dall’ INIT. Nei giorni finali dei lavori di adattamento della
Patana, l’ambiente intorno era di vera “fiesta”: si lavorava duro ma avevamo tutti la
sensazione che si stesse addobbando un carro per un carnevale acquatico.”.
Le ultime 24 ore furono, invece, drammatiche per i falegnami e decoratori, dato che per
rispettare i tempi di consegna essi dovettero lavorare mentre La Patana era già in movimento,
condotta al suo ancoraggio finale, un luogo conosciuto come “Boca Chica”, vicino all’isolotto di
Caballones, al traino di un rimorchiatore dell’antica impresa marittima “Terminales
Mambisas”.
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“Anche questo fatto, cioè che la conclusione dei lavori dell’hotel galleggiante andava ancora
avanti mentre già La Patana navigava diretta al Laberinto de las Doce Leguas – afferma
oggi Oscar García- dimostra quanto furono duri, complicati e perfino surreali quei primi passi
per sviluppare il turismo nella regione di Ciego de Avila.
Avvenne con La Patana come già prima per La Redonda e con molte delle cose che facevamo
allora, senza molti calcoli o programmazioni.
Quasi mai l’opera era pronta per la data prevista; nè la Redonda nè La Patana ci fu tempo di
provarle; entrambe le terminammo aprendole agli ospiti, nello stesso momento. “
Ricorda ancora Oscar: “C’è un aneddoto riguardo all’inaugurazione della Patana. L’avevamo
fatta “salpare” dal porto di Jucaro alle nove della sera e, mentre già navigava verso i
Jardines de La Reina, ancora stavamo preparando le camere, pitturando interni ed esterni e
ultimando dettagli. Nel frattempo, La Patana era già venduta e prenotata per un gruppo di
pescatori nordamericani. Mi chiamarono all’hotel Moròn, lo stesso giorno dell’arrivo del
gruppo, per dirmi di trattenere lì la gente fin quando potevo: mi avrebbero detto dopo
quando potevo lasciarli partire con destino la Patana…!
Avvenne lo stesso a Galvez con un altro gruppetto che doveva arrivare dall’aeroporto di
Camaguey. Il motivo per entrambi era semplice: se i turisti fossero arrivati puntuali,
sarebbero arrivati prima loro della Patana!
Il via libera fu dato alle 4 del mattino: potevo far partire i pescatori e così feci.
All’arrivo, La Patana era lì, al suo posto, dipinta di fresco, lucida e splendida, pronta a
ricevere i suoi primi ospiti. Lo dico perchè questo dimostra lo spirito e l’animo di quelli che
lavorammo a questa impresa.
Lascio immaginare la nostra pura follia: terminammo la Patana “in navigazione”, la
ancorammo e quando arrivarono i turisti, sembrava davvero che fosse lì, proprio in quel
luogo, ad aspettare i suoi Ospiti da cent’anni ! Quell’albergo galleggiante in mezzo al mare
disponeva di 12 piccole ma accoglienti cabine-camerette, ognuna con un balconcino capiente
appena per una coppia di innamorati..., per fargli contemplare la luna luccicante sulle acque
del mar dei Caraibi o per godere del tramonto col disco del sole che si immerge dritto in
mare, uno degli spettacoli più belli che la natura possa offrire allo sguardo di un uomo.
Come in un romanzo conradiano, c’era anche un cuoco cinese, maestro nel cucinare le
aragoste, talmente bravo che tutti abbiamo addirittura dimenticato il suo nome ricordandolo
solo ed esclusivamente per le delizie della sua maestrìa di cuoco.
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C’era, poi, un marinaio incallito, pescatore, cacciatore, il cui vero nome, Luis López,
prarticamente nessuno lo ricorda, mentre il suo soprannome - Guatàca - è già una leggenda.
A quest’uomo, nato non si sa come proprio su uno di questi isolotti del sud, non serviva radar
nè altro strumento per “vedere” nella profondità dell’acqua; Guatàca intuiva se il fondo era di
coralli o alghe o rocce e gli bastava solo guardare da lontano i colori della superficie del
mare, non sbagliava mai. Dice un vecchio proverbio “rosso di sera bel tempo si spera” ma per
Guatàca contavano tutte le sfumature, per prevedere con precisione e certezza:
“Se il sole è molto rosso al tramonto, sarà maltempo il giorno dopo. Ma se tramonta di un
colore debole come un fuoco che si spegne, ci sarà un giorno di bel tempo”.
Così sentenziava Guataca, sicuro, sulla tolda della Patana.
Completava la “ciurma” un subacqueo col nome da torero spagnolo, che presto sarebbe
apparso sulle copertine delle riviste italiane per essersi “sposato” con la tramontante attrrice
italiana Sandra Milo, un tempo anche amante, più o meno segreta, del regista Federico Fellini
come di tanti altri “famosi” del mondo dello spettacolo e non solo.
La signora, in un momento di pesante calo della sua popolarità, al fine di recuperare notorietà
e guadagnar denaro facile, approfittò dell’altruismo e della buona fede ospitale dei cubani e, in
visita a Moròn e Ciego de Avila, disse di aver bisogno di assistenza per filmare alcune scene per
una telenovela.
Convinse il giovane e prestante subacqueo cubano Jorge Ordonez ad indossare una uniforme
militare e con lui si fece fotografare in abito da sposa.
Qualche tempo dopo sulle popolari riviste italiane Gente, Oggi, Eva Express, Stop, Panorama
e molte altre apparvero ampi e sensazionali reportages con grandi foto a tutta pagina e titoloni:
“Sandra Milo: Ho sposato un colonnello cubano!”
Per fortuna, appena due settimane dopo la farsa, con la buona volontà di Aldo Abuaf e di un
nuovo servizio da lui fatto pubblicare a cura del giornalista Angelo Aquaro e del fotografo
Silvano Banfi della rivista Novella 2000, la verità emerse facendo precipitare la Milo nel
ridicolo.
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Spenti i riflettori del gossip internazionale, la vita ai Jardines de La Reina riprese col solito
rirmo segnato dalle grida degli uccelli marini e dal suono delle onde contro le pareti della
Patana.
Arrivavano uomini come il mitico Pedro Guerra, pescatore ed allevatore di tartarughe lungo
tutti i labirinti d’acqua delle Dodici Leghe.
Cominciava l’andirivieni costante dei primi altri uomini che lavoravano già sognando il
progresso del turismo in una regione appena riscoperta: Eugenio Castillo Guzmán (Chamorro),
Lázaro Ponce de León, Oscar García Monteagudo, Alberto Gálvez Cepero, Everildo Vigistaín
Morales, Eddy López e Manolo Fernández.
Costoro, tra altri, contemplavano La Patana dondolare sulle onde e di sicuro riflettevano tra sè
al paradossale ossimoro del nome che qualcuno aveva appioppato al primigenio “resort”
turistico della provincia di Ciego de Avila: El último paraíso, The Last Paradise, L’Ultimo
Paradiso.
Gli sembrava quasi strano quel nome, attribuito a quello che per loro era, invece, il Primo
Paradiso, finalmente apparso in quella parte solitaria del Mar dei Caraibi.
***
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TRE ITALIANI NELL’ “Ultimo Paraìso”
Dopo quei primi pescatori che indubbiamente passarono alla storia come i primi ospiti
dell’albergo galleggiante, ormai ribattezzato a furor di popolo “El Ultimo Paraìso”, giunsero
altri e poi altri ed altri ancora.
Alla fine, anche se in mezzo a numerosi e continui problemi di approvvigionamento e di
manutenzione, tutto marciava bene.
La fama di questo strano hotel in mezzo al mare si diffuse in modo spontaneo e cominciarono
ad arrivare anche turisti che non solo chiedevano di fare immersioni o di pescare, ma volevano
esplorare, constataredi pesrona che quanto avevano sentito dire era vero, apporre le loro orme
su quelle sabbie incontaminate.
Contribuì a questa fama leggendaria un ampio servizio pubblicato in quegli anni dalla
prestigiosa rivista italiana SESTO CONTINENTE, a firma del suo celebre direttore Antonio
Soccòl, giornalista, scrittore e e grande esploratore subacqueo.
Per la nostra storia è importante, questo punto, introdurre tre personaggi che avranno ruoli da
primattori nella vicenda descritta in questo libro.
ALDO ABUAF: era arrivato a Cuba con una gran barba scura da conquistador europeo allo stile
di un Vasco Núñez de Balboa o Diego Velázquez o Hernán Cortés.
Aveva con sè, in spalla, la sua fotocamera e con quella il fermo proposito di promuovere quei
paraggi sperduti nel mare, quei meandri incrociati da tanti pirati e bucanieri con agili vascelli:
voleva documentare il mitico Laberinto de las Doce Leguas.
Aldo dunque arrivò dall’Italia e si perse dietro alle bellezze naturali che abitano da tempo
immemorabile nei Jardines de La Reina.
Aveva tutta la curiosità del fotografo europeo, eccitata dall’essere dall’altra parte del mare, nel
Nuovo Mondo.
L’otturatore della fotocamera lavorava a pieno ritmo e restarono per la storia le prime foto
della Patana originaria, che poi diventò un Hotel e per ultimo finì in gloria.
A quel tempo, non ancora sfumati gli ultimi bagliori del tramonto, in un tranquillo dopocena
Aldo e Guatàca stavano seduti sulla terrazza del bar della Patana.
Aldo voleva fissare sul suo obiettivo i colori tenui del sole e propose di uscire insieme su una
lancia per poter vagare tra gli isolotti lì intorno, come la marea di quell’ora tarda consentiva.
Sotto le acque trasparenti e tranquille si poteva vedere la manta, il granchio, la tartaruga, il
macabì, l’aragosta gigante…
- Senti – disse Guatàca ad Aldo che cercava di inquadrare nel suo grandangolo un paesaggio
che rimaneva smisurato – che ne dici di qualcosa di più emozionante che star lì a schiacciare
quel bottoncino?”
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- Credi che ci sia qualcosa di più emozionante, per me?
-“Emozionante anche per Cristo, se scende dal cielo! Io ti parlo di una esperienza che non hai
mai fatto e che se la perdi ora, è facile che non ti ricapiterà più. Ti invito domani a pesca di
coccodrilli”.
“Rimasi un po’ stordito –racconta Aldo Abuaf in una delle interviste per questo libro.
Era quanto non avrei mai sperato di poter fare in quei luoghi. Provavo una certa
inquietudine e subito non seppi cosa rispondergli. Pensavo a uno scherzo.
Sui libri e al cinema si vedeva che i coccodrilli erano abitanti di fiume e di paludi d’acqua
dolce, non di isole marine. Ma non ebbi coraggio di parlare dei miei dubbi ad un marinaio
esperto come Guatàca. Non mi rimaneva che accettare in silenzio. La cattura di un
coccodrillo non era in programma, non avevamo nulla per quel tipo di pesca.
Ci pensò Guataca, procurandosi un palo di circa 2 metri, fissandogli in punta una corda a
spirale e chiudendola con un nodo scorrevole.
Insomma, fabbricò in poco tempo una forca tascabile!
“Il giorno seguente partimmo per il luogo dove, secondo Guataca, abitavano quei retttili
preistorici. Giunti sul posto, spento il motore della lancia, proseguimmo a colpi di pagaia. Ci
addentrammo in un labirinto di isolotti e canali bordati di mangrovie.
In superficie si vedevano solo iguane e conchiglie enormi sulla sabbia.
Sotto l’acqua cristallina, una infinità di pesci multicolori e di tutte le dimensioni: cavalli di
mare, spugne ed escrescenze coralline a formare la flora e fauna stupefacente di quei
paraggi.
Il cielo, di un blu cobalto, era segnato dai voli una infinità di uccelli: cormorani e pellicani
combattevano, i primi lanciandosi a pesca a capofitto ed immergendosi per un lungo tratto
prima di riemergere con la preda nel becco, mentre i secondi catturavano passando quasi a
pelo d’acqua. Più a sud, le anatre della Florida erano tranquillamente già in vacanza.
Il silenzio era rotto solo dalle poche parole di Guatàca e da strani suoni di quegli animali che
sembravano trasmettersi il segnale della presenza di intrusi nei loro territori.
- Sai cosa fare quando un coccodrillo ti morde e non molla? “La domanda mi sorprese, dato che non speravo che mi parlasse proprio di quello e proprio
allora! Accennai di no, scuotendo la testa da una parte all’altra.
- Devi chiudergli gli occhi.- mi disse Guataca, tranquillo.
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“Pensai subito dopo che non poteva esistere al mondo un essere così flemmatico e con tanto
sangue freddo da poter praticare quella teoria.
Le parole successive di Guatàca mi dimostrarono il contrario, dato che continuò con la stessa
parsimonia verbale:
- Non ridere: guarda che so sul serio che si fa così. Proprio qui dove siamo ora, non molto
tempo fa un coccodrillo mi afferrò un braccio nelle fauci e non lo mollò finchè non gli tappai
gli occhi con le dita. Ho fatto quello che mi avevano detto gli anziani, altrimenti l’animale mi
avrebbe strappato il braccio. Ma io ascolto i consigli e per questo sto arrivando a diventar
vecchio, come dice il proverbio... “Andavamo ormai da molte ore nei canali, che quasi mi stavo scoraggiando di quella ricerca
infruttuosa, quando Guatàca mi toccò una spalla per richiamare la mia attenzione su un
punto.
- Ma non è il tronco di un albero? – dissi in un sussurro.
-Non so in Italia, ma qui i tronchi non hanno occhi e narici. “Guatàca cominciò a manovrare attentamente per avvicinarsi, mentre mi spiegava che il
coccodrillo sarebbe scappatao verso la sua grotta o in un rifugio e che questo avrebbe solo
facilitato la sua cattura.
“Infatti, quando l’anfibio stimò che la barca fosse troppo vicina, cominciò ad allontanarsi con
indifferenza, nuotando con cautela ma aumentando poco a poco la velocità.
La rincorsa durò per un bel pezzo, finchè il coccodrillo si diresse verso un canale che appariva
largo e poco profondo. A un certo punto, d’improvvisoil rettile marino scomparve
immergendosi in un ribollio d’acqua, cosicchè lo perdemmo. Guatàca penetrava le radici delle
mangrovie col uno sguardo aggrottato e salmastro…
La nostra barca si muoveva come un animale in agguato e tutti i sensi di Guatàca erano
collegati alla barca stessa, di modo che le sole cose che apparivano estranee a quella scena
erano il mio sguardo impaurito e la mia fotocamera a mano.
“Guatàca fermò la barca e guardò con molta attenzione nell’acqua fino in fondo.
Guardai nello stesso punto e vidi il coccodrillo sdraiato su un tappeto di lunghe alghe
oscillanti come ballerine acquatiche. L’animale aveva lo stesso colore delle alghe e così non
era facile vederne i contorni ben definiti.
“Eravamo immobili proprio sopra al caimano che non muoveva un solo muscolo, ben sicuro
del suo mascheramento: si trovava a neanche un metro e mezzo sotto la nostra barca.
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Guatàca calò la forca tascabile con cautela, facendo in modo che il cappio passasse per la
testa e l’animale seguì il movimento come se il cappio non ci fosse.
Al momento di tendere il laccio l’instabilità della lancia e alcuni miei movimenti eccitati su di
essa, compromisero la manovra e il coccodrillo spiccò un fulmineo salto, slegandosi e
nuotando lontano con pochi colpi di coda.
Guatàca sorrise dicendo: “Nessun problema, hombre, è tutto normale”.
E prese subito a spingere con la pagaia portando la barca verso dove pensava che il
coccodrillo sarebbe affiorato per ossigenarsi.
Invece lo perdemmo di nuovo, per riprenderlo poco più in là, come un guscio in mare.
Guataca lo ritrovò, infatti, in un punto del canale dove si era creata una larga pozza,
profonda per circa cinque o sei metri, senza alghe sul fondale cosicchè la sagoma scura del
coccodrillo si stagliava sul bianco della sabbia nel profondo azzurro.
Se ne stette lì, quieto, dignitoso e come se non volesse dare importanza a noi due intrusi che
ormai non potevamo più raggiungerlo col nostro laccio rudimentale.
Era sicuro, il coccodrillo, in salvo nel fondo della pozza.
“Fu solo allora che Guataca disse che non c’era più niente da fare e io mi sentii addirittura
felice e gli feci anche, al coccodrillo sott’acqua, una bella foto magistrale.
Mentre sistemavo l’otturatore, pensavo che intraprendere una battaglia campale contro
quell’animale acquatico sarebbe stata un’esperienza troppo violenta, per me povero animale
urbano che quei rettili preistorici li avevo visti finora solo nei films o, una volta, ben rinchiusi
nei recinti del grande allevamento di Guamà!”.
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ALFREDO BASSANI
E’ stato un altro di quei pochissimi che si azzardarono a viaggiare nei Jardines de La Reina in
quei giorni avventurosi in cui nessuno sospettava che in un luogo così isolato e solitario
esistesse un Hotel galleggiante, dal suggestivo nome di El Ultimo Paraíso.
Questo italiano di statura media, volto espressivo e gesti decisi, si innamorò di Cuba con la
stessa passione che un uomo sente per il suo primo amore.
Il suo passato umano e professionale ascende quasi ai principi dell’epoca storica dello sviluppo
del turismo internazionale: Bassani, al pari di uomini come Arnaldo Cambiaghi, Sisto Gungui,
Vando Martinelli, Franco Lucchetta, Aldo Abuaf e Eugenio Ciocca, tra tanti altri, è stato uno
dei primi a deporre il suo granello di sabbia al fine di sviluppare nel nostro Paese il turismo,
questa strana industria “senza ciminiere”.
La famosa “zafra” dei 10 milioni, la mitica raccolta record di canna da zucchero, era al suo
culmine quando atterrò all’ aeroporto José Martí de La Habana un aereo Il-62 della linea aerea
CSA, sbarcando centosessanta passeggeri, tutti lettori del quotidiano L’Unitá, organo ufficiale
del Partito Comunista Italiano (PCI).
L’agenzia di viaggi che trasportava quel primissimo carico turistico al nostro Paese si chiamava
ITALTURIST, allora società collaterale al PCI e specializzata nella organizzazione di viaggi
verso tutti i Paesi socialisti d’Europa e di altre regioni del mondo come Somalia, Guinea Bissau,
Corea del Nord, Viet-Nam e, finalmente, Cuba.
Bassani arrivava a Cuba - come impiegato di Italturist - al seguito di quei primi italiani ansiosi
di conoscere una rivoluzione scoppiata in un piccolo e lontano paese circondato d’acqua e con a
capo un dirigente già carismatico e di grande valore di nome Fidel Castro ed altri già mitici
rivoluzionari come il Che e Camilo Cienfuegos.
Su quel volo storico viaggiarono, oltre a Bassani, Vando Martinelli, Franco Lucchetta e Arnaldo
Cambiaghi: i fondatori del turismo italiano a Cuba.
Tra i normali viaggiatori c’era anche un certo Gualtiero Menori, lo stesso che nel 1980 apriva a
Milano La Bodeguita del Medio.
A bordo c’era anche il celebre Vittorio Vidali, vecchio compagno conosciuto col nome di
Comandante Carlos dai tempi della sua partecipazione alle lotte contro varie dittature,
soprattutto durante la Guerra Civile di Spagna contro il dittatore Francisco Franco.
Per esattezza di cronaca, è d’obbligo segnalare che due anni prima di quello storico volo Franco
Lucchetta aveva già visitato Cuba, su invito di un funzionario dell’INIT conosciuto quando
entrambi frequentavano la Scuola di Partito in Unione Sovietica.
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Pertanto, già fin dal 1968 si può dire, in qualche modo, che si erano intrecciati i primi fili delle
future relazioni turistiche tra Italia e Cuba.
Così arrivò a Cuba, per la prima volta, Alfredo Bassani e molto presto i suoi viaggi divennero
frequenti, dato che era incaricato di accompagnare i turisti dei 2 viaggi di gruppo che, da qual
momento, venivano organizzati ogni anno per Cuba: un viaggio estivo, il 26 di luglio, e l’altro in
inverno, per Capodanno, entrambi con voli della Compagnia aerea CSA.
“Ricordo che la parola d’ordine era “...attenti alla compagnia diretta da Foster Dulles...” e si
intendeva la CIA che allora tentava di bloccare i viaggi organizzati a Cuba!”
Così mi raccontava Bassani a Lecco, nella sua casa tra lago e montagna.
“Si era ad un un punto tale di boicottaggio che sia per la linea aerea CSA che per CIVILAVIA
(Direzione dell’aviazione civile italiana), il viaggio a Cuba risultava dichiarato con
destinazione Praga...! Erano previste, addirittura, escursioni ai Monti Tatra ed alla fabbrica
di automobili Skoda...!”
“Guarda Larry, non ho mai saputo se , alla fine, la CIA di Foster Dulles ”scoprisse” la vera
rotta dell’aereo della CSA o se qualcuno gli abbia mai raccontato di quegli strani gruppi di
viaggiatori italiani che, sbarcando a Milano-Malpensa con provenienza Praga, portavano
come souvenirs sigari, bottiglie di rhum, e le prime immagini del CHE Guevara.
Io mi ingegnavo a far credere agli addetti dell’aeroporto di Milano che quella gente non
tornava da Cuba. Ai doganieri curiosi spiegavo tranquillamente che la Cecoslovacchia era
un paese dell’area CAME (il Mercato Comune dei Paesi Socialisti), quindi che Praga vendeva
a Cuba la birra Plzen e le automobili Skoda e La Habana glieli ripagava con zucchero, sigari,
conchiglie e frutta tropicale...; raccontavo agli agenti italiani che Cuba barattava i machete
con pezzi di ricambio e che le foto del Che erano solo normale propaganda política
internazionale.
I poliziotti di frontiera mi chiedevano (io ero il capogruppo) come era possibile tornare da
Praga con la pelle così bella abbronzata e io rispondevo ridendo con bella faccia tosta che il
sole delle montagne cecoslovacche era caldo in estate ma anche ricco di molti raggi
ultravioletti in inverno. Sono assolutamente certo (sai, parlavo a italiani come me...) che non
credevano a una sola parola delle mie invenzioni. Sapevano la verità ma si divertivano a
recitare con me nella stessa commedia, solidarizzando in maniera naturale con il popolo di
Cuba e la sua “revoluciòn”.
Alla fine, arrivai ad invitare personalmente lo stesso Direttore dell’aeroporto ad un viaggio a
Cuba (pardòn... a Praga!): sapevo che era amico di Italturist ed aveva simpatie di sinistra.
Mi aiutò molto, a rischio anche di perdere il suo incarico e perciò non voglio dimenticare il
suo nome in questa storia: Giancarlo Magnoni”.
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In uno di questi viaggi di Bassani a Cuba – al tempo era molto giovane – Alfredo era ospite
all’Hotel Arenas Blancas di Varadero: conobbe una ragazza che lo colpì a prima vista.
Si chiamava Caridad e non parlava italiano, mentre Alfredo non parlava spagnolo, cosicchè
comunicavano a gesti, segnali e arrischiando qualche frase in un itañol da fare invidia a un
poliglotta.
“Una notte - racconta Bassani – nel dopocena Caridad mi invitó a uscire con lei e due sue
amiche per andare a ballare in un locale di Varadero. Accettai l’invito , con altri due amici di
viaggio, uscimmo a ballare. Per il trasporto, ogni coppia salì su una bicicletta (altri tempi…).
Nel ballo, comnciò il flirt con la mia ragazza, con tanto di bacetti e abbracci disperati…
“Al rientro in hotel, Caridad mi invitò in spiaggia e poi a fare un bagno notturno.
Ci bagnammo sotto le stelle, vestiti come Dio ci aveva fatti al mondo. Facemmo l’amore e,
subito dopo, una miliziana in divisa grigio-verde ci scoprì e Caridad si affannò subito a
spiegare che ero un Delegato del PCI… del giornale comunista L’Unitá… che non ero un
invasore yankee, né un mercenario sfuggito alla Baia dei Porci… che non ero un agente della
CIA: tanto disse Caridad che la miliziana alla fine ci lasciò andare.
“Il mattino seguente, mentre facevo la prima colazione, si avvicinò la guida cubana, Hilario
Sánchez Delgado, (oggi Hilario è responsabile di CUBATUR Nacional all’Avana), e bevendo
un caffè mi riferì che correvano voci che un italiano del nostro gruppo aveva violentato una
ragazza cubana minorenne. Neanche lontanamente pensai che in qulche modo si riferisse
alla mia avventura della notte passata. Poco dopo un altra guida si avvicinò per dirmi che tre
ragazze cubane erano uscite a ballare con tre italiani e che una – minorenne – aveva subìto
violenza in spiaggia. Allora sì che mi allarmai: la storia era troppo simile alla mia
avventura; d’accordo, senza violenza alcuna ma, insomma… E i miei due amici ? ero sicuro
che Caridad non era minorenne, però chissà le altre ragazze…
“La stessa mattina venne a trovarmi un funzionario dell’INIT e anche lui prese a informarmi
del fatto del giorno. Poi arrivò Cambiaghi: scuro in volto, e senza giri di parole mi disse che
io e due miei amici c’eravamo comportati molto male come ospiti di Cuba e che al rientro in
Italia tutti e tre saremmo stati licenziati dall’ ITALTURIST “per immoralità”.
Ero attonito e sconcertato. Non riuscii a dire niente. Si avvicinarono altri compagni italiani e
cubani per dirmi che forse, con un po’ di fortuna, potevo risolvere la cosa sposandomi la
ragazzina, ma certo che se era vergine la mia situazione peggiorava, ero a rischio di una
condanna a tagliar canna da zucchero per almeno dieci anni !
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“Ero spaventato, preoccupato e confuso. Cercai di trovare le tre ragazze al ristorante.
Non trovai nessuna di loro. Cercai di trovare Caridad, ma niente da fare.
Trovai il mio amico, la guida Hilario, e gli chiesi da uomo a uomo dove avessi sbagliato,
quale era il modo cubano di abbordare una ragazza senza problemi e lui rispose che la prima
cosa da fare era chiedere alla ragazza di vedere la sua carta d’identità.
“Ma qui a Cuba sembrano tutte maggiorenni…” gli risposi, aggiungendo che in Italia a
chiedere i documentri sono solo i poliziotti. La guida mi spiegò che a Cuba era diverso e che se
la ragazza era minorenne, il guaio era grosso davvero e di sicuro sarei stato arrestato.
“Nel frattempo, in una sala dell’Hotel Arenas Blancas era stata montato una specie di
Tribunal de Justicia. La sala si riempì di un centinaio di persone. C’era un tavolone con tre
“giudici” e avvocati, tre sedie davanti per gli “imputati”: i tre italiani già scoperti e ora
accusati del malfatto. Mi convocarono e dovetti passare in un corridoio dove Cambiaghi,
Martinelli, Tony Díaz, Hilario, Miguel, tutti non mi salutavano ma mi insultavano a viso
aperto. Dicevano che un un uomo di cultura cristiano-cattolica non poteva far questo; che
meritavo come minimo il castigo spirituale dell’inferno ma che il peggio sarebbe stato che
non mi avrebbero lasciato andar via da Cuba a meno di non attraversare a nuoto l’Oceano e
che, per quello che avevo fatto, mi auguravano di essere sbranato e”scoglionato” da un
branco di squali, etc….
“Ero talmente stupefatto che mi sedetti in silenzio al banco degli accusati, davanti ai tre
giudici (non sono razzista mai i tre erano tre neri, grandi e grossi).
Al mio fianco sedevano i miei due complici del misfatto, stranamente più tranquilli di me.
Cominciò il processo. Mi fecerio giurare sulla Legge e declamare che avrei detto la verità e
solo la verità. Giurarono gli altri due. Per primo testimonò Carlo Bortott, Italturist di Torino
e subito dopo Oscar Pellegrini, Italturist di Genova.
Ambedue dissero che avevo solo ballato con le ragazze.
“Poi toccò a me parlare ma sembrava che tutti già vedessero me solo come il colpevole e
allora chiamai Hilario come traduttore per evitare errori nella mia difesa. Guardando il
pubblico mi parve di vedere un’aria di sopddisfazione e divertimento sulla faccia di Miguel e
Martinelli. Arnaldo Cambiaghi teneva addirittura le mani sulle orecchie come per non
sentire, e gli occhi chiusi.
Perché nessuno voleva né sentire né vedere la mia difesa?
“Allora ricostruii i miei passi minuto per minuto dall’uscita dall’Hotel alla discesa in
spiaggia: dovetti raccontare per filo e per segno cosa avevo fatto dopo quello stramaledetto
bagno.
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“Dalle facce e dal silenzio di tutti, capii che la situazione era molto delicata ma, essendo uomo
d’onore dissi solo quello che era davvero necessario e non feci il nome della ragazza. Chiesi
poi di avere un bicchiere di rhum con ghiaccio e invece mi portarono solo un bicchiere
d’acqua, come a un condannato!
“I giudici insistevano perchè confessassi ma, davanti alla mia resistenza imbattibile
(insomma, sono ben il figlio orgoglioso di un partigiano contro il nazifascismo!), fecero
entrare nel salone le tre famose ragazze.
Non osavo guardare Caridad per non tradire anche lei con me.
La prima disse che Carlo era stato solo un buon ballerino e che si era ritirato presto perché
vinto dal sonno.
La seconda parlò benissimo di Oscar, sottolinenando con una faccia maliziosa che di certo
non era tipo da molestarla dopo il ballo con bagni notturni sotto le stelle.
Infine, Caridad occupó il posto di comando e andò subito all’attacco, puntando l’indice col
braccio teso su di me, come una freccia che mi trapassava il cuore:
“Alfredo, quello che siede al centro, è stato lui che mi ha fatto violenza in spiaggia e per
favore che entri anche la miliziana che ci ha trovati (e quella comparve subito in aula!) per
confermare davanti a tutti con la sua voce quello che mi ha fatto questo italiano, contro la
mia volontà di ragazza che mai era stata con un uomo e men che meno con un mafioso di un
italiano!
“Non posso descrivere cosa provai allora. Mi aveva incastrato! I miei occhi vedevano
l’inferno in terra cubana. Ero senza scampo, morto di vergogna, mi vedevo già a Milano
senza un lavoro, dopo minimo dieci anni di taglio di canna da zucchero a Cuba. In più, mi
avrebbero costretto a sposare una chica cubana bugiarda, di nome Caridad ma che della
Vergine della Caridad del Cobre, patrona di Cuba, non aveva proprio nulla, né la verginità
né tantomeno la minore età.
“Fu proprio poco prima di emettere la sentenza che i giudici, gli avvocati, gli altri accusati e
testimoni, con tutta la sala, proruppero in una clamorosa risata senza fine.
Quelli dell’ INIT mi abbracciavano e spiegavano che era tutto uno scherzo per darmi il saluto
d’addio. Io, ancora bianco in volto, gli rispondevo “Bella festa d’addio!”
Per poco non mi fanno “partire” davvero e per sempre perché il mio cuore era al punto di non
reggere a quella vergogna.
“Caridad mi si avvicinò, ridendo con occhi da zingara. Non avrei mai potuto immaginare
che una donna cubana potesse essere tanto calunniatrice e bugiarda. Ma ci abbracciammo
felici”. Così anche Bassani cominciò a conoscere il tratto tipico della cubanità, dei suoi costumi
profondi, delle tradizioni e del senso umoristico innato di questo Paese, vittima del blocco
economico ma con la finestra sempre aperta ai raggi di luce e vita portati dai Paesi amici.
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In un certo senso, fu proprio allora che Bassani si innamorò di Cuba, arrivando così già molto
ben preparato al successivo viaggio ai Jardines de la Reina.
Gli ultimi giorni del Dicembre 1980, da solo, Alfredo partì dall’Avana a bordo di una vettura
FIAT presa a noleggio, diretto alla regione di Ciego de Ávila per contattare la locale Empresa
Turística. All’arrivo gli presentarono Alberto Gálvez e Oscar García. Quella stessa notte,
Gálvez gli mostrò la città di Ciego de Ávila e Bassani visse una esperienza indimenticabile.
“Passando davanti a una barberia vidi all’interno un manifesto a colori del Che.
Per me il Che era l’ ideale della lotta per la liberazione dei popoli, lo ammiravo come nessun
altro al mondo: entrai dal barbiere e gli chiesi quanto poteva valere il quadro, che glielo
avrei comprato senz’altro. Il barbiere rispose che se era per il valore, quello per lui era
immenso e pertanto non aveva prezzo.
Poi aggiunse, ridendo: “Quindi per dartelo...te lo devo regalare!”
E me lo regalò davvero, con una stretta di mano. Fu la prima lezione di come il mito del Che è
per i cubani un sentimento profondo e radicato, un segno della dignità dei cubani”
Bassani racconta che il giorno successivo si recarono al porto di Júcaro sulla costa caraibica a
sud, dove si imbarcarono su un grosso naviglio diretto ai Jardines de la Reina.
“A bordo trovammo Felo, un grande pescatore - ricorda Bassani- che rese il viaggio tutto
meno che noioso. A Cayo Algodones sostammo per prendere qualche cocco.
Dopo altre otto ore di navigazione lenta, arrivammo alla Patana che era già tarda sera. Il
primo che conobbi a bordo fu un cuoco cinese che serviva aragosta già alla prima colazione,
poi la cucinava a pranzo, nonchè a merenda e infine a cena…
Non c’era altro cibo e non c’erano donne, in quel paradiso, così tanto ultimo che mi apparve
molto infelice. Incontrai di nuovo il subacqueo Jorge Ordóñez (che mi era già stato
presentato da Aldo Abuaf tempo prima) che non finiva di parlarmi delle bellezze naturali
nascoste nelle acque di quella zona. Mi parlava con così tanto e veemente entusiasmo del
fondo sottomarino sul quale galleggiava La Patana che dopo qualche ora cominciai a
desiderare che vi si immergesse per sfruttare in pieno di quella silenziosa profondità e desi
suoi silenzi…
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SISTO GUNGUI
Last but not least... Sisto Gungui arrivò all’Hotel galleggiante scrutandolo dappertutto come in
cerca di un tesoro nascosto.
Ho la certezza che mentre pescava dal balcone della sua camera-cabina, mentre contemplava il
panorama solitario e romantico che dominava tutto intorno, mai avrebbe immaginato che
proprio lui sarebbe stato uno dei “colpevoli” – l’altro complice fu Oscar Garcia – del fatto che
La Patana un bel giorno avrebbe levato l’ancora dalle pacifiche acque del sud e sarebbe partita
a cercar fortuna sulle onde della Corrente del Golfo.
Invece no. Questo gli passò per la mente solo molto tempo dopo, perchè in quei momenti Sisto
se ne restava estasiato davanti a tutto quel mondo verde-blu che andava a trovar rifugio nelle
sue pupille.
Quest’uomo, originario dell’isola della Sardegna, nato a Mamoiada, paese nel cuore della
Barbagia di Nùoro e poi residente nella bella città lombarda di Brescia, la piccola Roma del
Nord Italia, eterno innamorato dell’isola più grande dei Caraibi, ha coltivato 2 grandi passioni
nella sua vita: seguire le tracce dello scrittore Ernest Hemingway, il più celebre pescatore di
marlin di tutti i mari, e scoprire un’isola “nuova”.
A Cuba non solo trovò entrambe le passioni, anzi potè fonderle in una sola perchè navigò
attraverso gli isolotti dell’arcipelago dei Jardines del Rey, sulle orme dello scrittore e nel suo
peregrinare “scoprì” un piccolo isolotto (alla cubana diciamo un “cayo”) del quale lo stesso
Hemingway aveva scritto che era: “...verde y prometedor...”, cioè verde e promettente.
All’epoca in cui Sisto arrivò a bordo di El Ultimo Paraiso – nell’estate del 1985 - lavorava in
Italturist come direttore generale del prodotto e di tutta la programmazione.
La sua visita era stata organizzata dal Direttore della Empresa Turística de Ciego de Ávila,
Oscar García Monteagudo, attraverso Manolo Rico, allora direttore in Cubatur del
Dipartimento Turismo Specializzato.
“Viaggiammo, io con mia moglie Inès, allora responsabile dell’Ufficio di Alitalia di Brescia, su
una imbarcazione chiamata Tritón – così annotò Sisto nella prima intervista che mi inviò per
iscritto -. Ci accompagnavano una guida chiamata Héctor, un gigante nero, e un altro uomo
col volto illuminato sempre da un sorrisetto divertito sotto i baffetti e che imparai presto a
riconoscere come il più grande pescatore cubano, il mítico Felo.
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A quel tempo, il Tritón navigava fino alla linea di isole chiamata “El Laberinto de las Doce
Leguas”, per consegnare gli ospiti alla famosa Patana, un hotel galleggiante organizzato per
funzionare come base per attività di pesca ed immersione subacquea.
“Lì ci fermammo alcuni giorni, visitando isolette vergini, raccogliendo le aragoste sui fondali
di Caballones, letteralmente con le nostre mani in acque di poco più di un metro di
profondità, ammirando la vista di coccodrilli, pescando barracuda a decine. L’ hotel
galleggiante era, in fondo, la ragione vera del nostro viaggio: verificare tutte le possibilità di
utilizzare quella struttura per favorire lo sviluppo di una nuova opzione turistica.
L’esperienza fu sensazionale, molto positiva”.
Al rientro in Italia, Sisto decise di pubblicare in uno speciale ed apposito dèpliant la proposta di
praticare immersioni dall’hotel galleggiante El Ultimo Paraíso, che in quel momento – è
d’obbligo precisarlo – era l’unica e sola struttura turistica esistente in entrambi gli Arcipelaghi:
Jardines de la Reina (a sud) e Jardines del Rey (al nord).
Fu così che si vennero a conoscere per la prima volta fuori Cuba - in questo caso in Italia- le
meraviglie naturali del misterioso Labirinto delle Dodici Leghe, una delle aree naturali più
preservate del pianeta.
Sisto e Oscarito, in volo dall’Avana a Cayo Coco su uno YAK-40 dell’aviazione agricola
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RICERCA DI ALTRE OPZIONI TURISTICHE
Mentre le trote della laguna La Redonda mordevano gli ami e gli otturatori delle fotocamere
non cessavano di cliccare sulle acque dei cayos del Labirinto delle Dodici Leghe, un gruppo di
amici e colleghi di lavoro tra cui Ponce, Gálvez, Vigistaín nonchè Oscarito — in quel momento
direttore dell Hotel Ciego de Avila, in cui si faceva le ossa con un’esperienza necessaria per
occupare in futuro lo stesso incarico al Hotel Moròn che stava per essere inaugurato—
cercavano in tutti i modi di trovare nuove possibilità di organizzare turismo.
Pensarono alla Laguna de la Leche, e alcuni marinai esperti vararono nel canale di Chicola una
rudimentale piattaforma galleggiante di ferrocemento.
Ma non funzionò e la Laguna continuó ad essere conosciuta unicamente per una grotta replica della Cueva del Pirata di Varadero -, fatta realizzare dal comandante Manuel Fajardo
quando era nel secondo periodo di comando a capo dell’isola di Turiguanó.
C’era anche un piccolo faro, che divenne quasi un simbolo della zona. C’erano quelle acque
biancopallide, a causa della presenza sul fondo di solfato di calcio e gesso, e su quella superficie
d’acqua galleggiava, sostenuta da palafitte, la Atarraya, un ristorante marinaro, l’unico al
mondo dove gustare una strana paella chiamata Paella de Jacobo.
Oltre ad antiche leggende e tradizioni come il carnevale acquatico ed un’aria di magia
disseminata dappertutto, la Laguna de La Leche (laguna del latte, proprio dal colore
bianchiccio della sue acque) era già nota al turismo internazionale attraverso l’opera dello
scultore italiano Ugo Luissini –autore di un busto di José Martí eretto nell’omonimo parco a
Morón.
Luissini, nei primi anni del XX secolo, amava pescare da una barchetta a remi su queste acque
solo un pò increspate, e fu così che anche questo artista, dopo aver attraversato l’Atlantico
attratto dalla bellezza di una delle abitanti, potè essere annoverato senza dubbio tra i
precursori del turismo internazionale nella regione.
Alberto Galvez si inventò l’alternativa del Centro Hípico de Florencia.
Lo personalizzò in modo considerevole perchè lo sentiva come una sua creatura; fu il primo a
ideare e praticare le escursioni a cavallo sulle colline della regione di Florencia ed è curioso
raccontare come, ad onor del vero, circa il 70% dei turisti dei paesi socialisti - i primi a
viaggiare per la nostra Regione - erano proprio contenti di quei “ronzini” tranquillissimi che
potevano cavalcare come cavalli-robot, a tal punto gli animali conoscevano la strada a
memoria.
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“Quando venne creata la Empresa Turística de Ciego de Ávila – puntualizza Gálvez esistevano 2 sole possibilità: turismo di transito o visite all’ Empresa di Citricos (agrumi) ed
alle sterminate coltivazioni di ananas, di cui la regione di Ciego de Avila è il più grande
produttore cubano al punto da avere un ananas ncome simbolo della regione stessa..
Era tutto il nostro inventario...: l’intero potenziale turistico sul quale potevamo contare!
Dovevamo inventarci qualcosa, creare qualche nuova offerta, oppure era meglio chiudere!
Durante una visita di lavoro alla Sierra Maestra, vidi come facevano turismo a cavallo lungo
itinerari di interesse storico e pensai che sulle nostre colline di Florencia si poteva fare lo
stesso, dato che era un luogo altrettanto storico: era dove aveva viaggiato Camilo Cienfuègos
con la sua Colonna 2 e dove operó la Colonna 11 .
Mi diedi l’obiettivo di organizzare questo turismo equestre. I primi passi li feci contattando la
ANAP (Asociación Nacional de Agricultores Pequeños) e quelli mi prestarono un cavallo col
quale ripercorsi il tragitto di Camilo nei combattimenti rivoluzionari lungo quella zona di
montagna.
Ebbi subito la prova concreta che il turismo storico a cavallo si poteva praticare non solo
sulla Sierra Maestra, ma anche sulle dolci colline di Florencia, la nostra Firenze cubana.
“Comunicai all’organismo superiore il risultato dell’itinerario: me lo approvarono.
Trovai altri cavalli, tracciai la rotta da seguire e condussi di persona le prime prove, che
risultarono semplicemente meravigliose.
Erano anni in cui il turismo proveniva in prevalenza dai Paesi socialisti: da subito, le colline
di Florencia si popolarono di cavalieri sulle orme della “rotta di Camilo”.
Quelli tra noi che avevano caricato sulle proprie spalle il peso del compito durissimo di
convincere i turisti a venirci a visitare, li potevi vedere in giro ad esplorare ogni grotta, ogni
palmo di terra: andavano in cerca di sempre nuove ragioni che potessero attrarre
viaggiatori dall’altro lato del pianeta.
“Fondarono la prima riserva di caccia e così apparvero da quelle parti i primi cacciatori, dei
tanti che presto sarebbero arrivati con abiti da guerrieri implacabili a cacciare anatre,
colombi ed altri volatili destinati alla caccia sportiva.
Molti credono, ed alcuni tra loro ne sono pienamente convinti, che la caccia ebbe inizio a
Moron ma la realtà è un’altra, dato che al principio andavamo al Frutero, vicino a Baraguá.
La zona era molto ricca di colombacci e pernici.
Solo più tardi Moròn si specializzò in questa attività venatoria, dal momento che nei canali
della campagna intorno a Falla si potevano cacciare, e alla grande, le anatre. “
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“Il primo cacciatore professionale che arrivò a Moròn – assicura Oscar García- fu Steve
Shoulder, e a me toccò di orientarlo tra quei sentieri ed acquitrini. Coinvolsi Pepito Zamora,
un dentista con anima hemingwayana; con lui, il vecchio José Mariño, un altro vero
professionista della caccia – secondo me il migliore - con un olfatto speciale ed un istinto
insuperabile a muoversi in zone di montagna.
Facemmo con loro i primi studi sulla caccia, occupandoci più che altro degli aspetti
puramente tecnici, perchè capivamo che su questo erano focalizzate le aspettative e che
questo avrebbe costituito una reale attrazione per i turisti che fremevano dalla voglia di “far
scattare il percussore”, come diciamo a Cuba.
Non ci sbagliammo perché subito dopo Steve Shoulder cominciarono ad arrivare numerosi
cacciatori italiani organizzati da un Tour Operator diretto da Raffaele Orighini,
rappresentato a Cuba da Gilberto García.
Crearono presso l’hotel Morón una specie di club di caccia, che poco a poco crebbe fino a
diventare il grande Club che oggi conosciamo come La Casona, della quale parleremo più
avanti.
“La zona di Morón - mi racconta Gilberto García - è dotata di una delle più belle riserve di
flora e fauna di tutta la regione centrale di Cuba, in particolare ha una straordinaria
presenza e varietà di fauna migratoria.
Tutti i volatili emigrano dai paesi freddi, come le anatre: al principio dell’inverno partono dal
Canadá e dal Nord degli Stati Uniti, passano sulle Florida e poi sorvolano i Caraibi ma il
primo vero impatto con la terra caraibica è proprio a Cuba!
Gli italiani si innamorarono, letteralmente, delle nostre riserve di caccia.
“Si potevano cacciare da subito anche il colombo selvatico, il palombaccio, tutto secondo
norme e regolamenti stabiliti dal Ministero dell’Agricoltura: prede in quantità fissa e
rigidamente stabilita; severamente proibito sparare a prede non incluse negli accordi.
Questo era il bello: eravamo principianti ma fummo sempre molto attenti alle regole!”
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VIRGILIO NEGRI, IL CACCIATORE GASTRONOMO
Uno di quei primi cacciatori, un vero “emigrante” come gli stessi volatili che lui ama cacciare,
giunse qui sulle orme di quelle anatre che fuggivano dal crudo inverno canadese e
nordamericano.
Alcuni amici, mentre uccidevano la noia invernale bevendo vino buono sulle sponde del Lago
di Pusiano, un ramo staccato del lago di Como vicino a Lecco, gli avevano raccontato che in una
regione isolata dell’isola di Cuba c’erano tutto l’anno così tante anatre che quando si alzavano
in volo oscuravano il sole!
Virgilio, uomo d’azione molto pragmatico non esitò ad imbarcarsi subito dopo su un volo per
La Habana.
“Il giorno successivo all’arrivo all’Avana - racconta Negri - insieme con altri 6 italiani
anch’essi arrivati a Cuba per la caccia, prendemmo un omnibus di turismo che ci condusse
fino a Morón. Quel primo viaggio via terra fu un’esperienza tragicomica.
L’ omnibus perse una ruota che si staccò dal mozzo come in un film, voglio dire proprio in un
modo spettacolare.
La ruota staccata dall’omnibus continuò rotolando per strada fino a perdersi nell’intrico
della boscaglia. Scendemmo tutti a cercarla, ma niente, non si trovava!
Restammo lì fermi per più di 2 ore finchè non arrivò un altro omnibus.
“Una delle prime impressioni che ebbi arrivando vicino a Moron fu quando, lungo la strada
da Ciego de Avila, vidi un cartello che indicava: MORON 3 KM.
Ma dopo più di 2 chilometri, quando uno pensava che ormai ne restava meno di 1 all’arrivo,
mi compare davanti un altro cartello con la scritta: MORON 5 KM.
Risi divertito ma stavo per arrivare in una città anch’essa al rovescio come i cartelli!
Insomma, scoprii da subito quell’aspetto surreale e un pò fiabesco che Moròn ha nelle sue
fibre più profonde.”
“ Al principio pensai che la caccia fosse già organizzata – così almeno sembrava - ma non
tardai a constatare che mancavano davvero moltissime cose.
Non c’erano barche a fondo piatto o chiatte con cui inoltrarsi negli acquitrini, cosicchè
dovevamo cacciare le anatre camminando immersi dentro l’acqua limacciosa della laguna,
correndo il rischio di affondare completamente nelle zone più fangose.
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Poi, se c’erano le cartucce, non funzionava lo schioppo; quando il fucile andava a posto,
allora mancavano le cartucce; spesso era assente la guida, oppure mancavano i cani, oppure
si rompeva la barca o il pullmino. Quando raramente capitava che c’era proprio tutto, poi
mancava la benzina! All’appuntamento, per fortuna, non mancavano mai le anatre e,
dimenticavo... , sempre puntualissimi, noi cacciatori!”
Ci fu un momento che la caccia e la pesca a Moròn assunsero un grado di notevole importanza.
Oltre al già citato Orighini arrivarono da Roma Riccardo e Maria Cerro, con idee e progetti
nuovi.
Il Centro Internacional de Caza c’era già ed aveva sede in un edificio costruito tra il 1917 ed il
1924 dalla Società Ferroviaria Cubana perchè ci abitasse il Sovrintendente Generale delle
stesse: la “casona”, come ormai veniva chiamata.
Nel tempo, questa “casona” coloniale era servita come abitazione per un Sindaco, poi per
alcune famiglie, in seguito per un asilo infantile e fu anche una casa della Cultura, finchè Oscar
García – pensando che si potesse un giorno trasformare la Casona in un ristorante – vi
condusse Virgilio Negri per un sopralluogo.
“Quando vidi l’immobile – mi racconta Virgilio - ripensai subito al mio locale vicino al Lago di
Pusiano. Giudicai subito che era il luogo ideale per aprirci un ristorante: nessuno meglio di
me poteva saperlo, perchè ho dedicato buona parte della mia vita all’attività gastronomica ed
il ristorante della famiglia Negri è aperto a Pusiano da oltre 100 anni!
“Decisi quasi subito di iniziare il lavoro, ma come al solito le cose non furono così facili come
sembrava a primo avviso.
“Burocrazia, permessi, documenti, carte, incertezze e confusioni (tutto il mondo è paese...) mi
condussero presto a una grande disillusione sulla “casona”.
“Fu in quell’epoca che conobbi il mio compatriota Sisto Gungui e quasi subito ebbi modo di
parlargli della Casona, di come la ritenessi ideale per aprirci un ristorante di qualità, anche
per la posizione di Moròn, tra l’aeroporto di Ceballos e i cayos del Nord e con prospettive di
grande sviluppo turistico per tutta l’area.
“Sisto visitó il luogo, lo ispezionò palmo a palmo: imparai presto a conoscere il suo metodo di
lavoro, sempre attento, pignolo e scrupoloso. Alla fine mi disse che avevo ragione completa: il
posto era eccellente per una attività di ristorazione collegata agli altri progetti turistici.
“Sisto ne parlò subito con Oscar, sempre col suo modo pratico, veloce e pragmatico, e in poco
tempo fummo messi in grado di firmare un contratto con INTUR e, ai primi giorni di Maggio
del 1992, aprimmo la Casona, non più solo come ristorante bensì come nuovo Centro
Internacional de Caza y Pesca.
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“Sisto si rese garante con INTUR, anche se il suo maggiore interesse era tutto nel progetto
Cayo Guillermo: io assumevo il ruolo di Direttore Generale per la parte italiana, Jorge
O’rrelly era il Direttore per la parte cubana e Eugenio Ciocca era nominato Responsabile
operativo per conto della Flamingo.
Non molto tempo dopo, decidemmo insieme di continuare con l’attività della Casona ma
senza un vero e proprio impegno di lavoro. Infatti, da Marzo a Ottobre non c’era attività di
caccia e, purtroppo, quasi scomparve la pesca a seguito della scomparsa quasi magica delle
trote della Laguna La Redonda.”
“Ma la Casona continuò con una sua vita indipendente dagli affari e si trasformò, quasi per
incanto, nella casa magica dove tutti volevano ritornare come fosse il castello incantato delle
avventure. La trasformazione fu, ripeto, quasi involontaria ma, ad un certo punto, il Centro
de Caza y Pesca si convertì in una specie di Circolo degli Italiani.”
Virgilio Negri
59
***
Era molto raro incontrare turisti di altre parti del mondo, cosìcchè usi e costumi della terra di
Leonardo da Vinci e di Garibaldi si imposero fino ad invadere per esempio la cucina della
Casona, dove non mancavano mai le pastasciutte al dente, gli spaghetti alla carbonara,
parmigiano reggiano, mozzarelle, tiramisù e vini straordinari portati dagli stessi Ospiti.
Un angolo del giardino fu invaso da piante di basilico e si faceva un gran pesto caraibico, con
nocciole al posto dei pinoli e un formaggio-crema prodotto nella nostra cittadina di Florencia.
Nessun cuoco cubano era in grado allora di realizzare questi piatti e Virgilio Negri propose a
INTUR di aiutare con la sua esperienza gastronómica.
Fu così che la cucina della Casona si trasformò poco a poco in una vera e propria scuola, nella
quale si formarono i primi cuochi di Moròn che si abituarono a soddisfare al meglio il gusto dei
cacciatori italiani.
L’unica parte della Casona che non potè essere invasa dagli italiani fu la sala da ballo.
In quel “sacro” recinto si continuò a ballare al ritmo di son e salsa. Anche i più affezionati alla
tarantella, presto impararono a muovere i fianchi dal basso e presto tutto tornò ad essere come
ai bei tempi antichi della mescolanza di culture.
“Ogni avvenimento alla Casona succedeva in un suo modo straordinariamente surreale ricorda Virgilio -. Una volta, mentre dormivo nella mia camera, sentii un rumore assordante.
Aprendo gli occhi vidi tutto bianco, come dentro una nuvola. Pensai di essere morto e finito in
cielo. Un fumo spesso cominciava ad entrarmi nei polmoni e tossivo forte. Era passata la
mezzanotte, tutto era immerso nella penombra e in un buio misterioso, quando decisi di
alzarmi e correre fuori ma anche nel corridoio il fumo era molto denso. Già ben sveglio e più
terrorizzato di quando pensavo di esser asceso al cielo, pensai che tutta la Casona bruciasse e
uscii di botto nel primo spazio aperto che potevo raggiungere da lì: una grande terrazza al
primo piano. Affacciato, vidi alcuni uomini con grossi e rumorosi apparecchi di fumigazione
contro le zanzare! Gridai e, al vedermi, Jorge O’rrelly e altri impiegati stettero lì muti, a
bocca aperta, senza sapere cosa fare: erano convinti che io fossi a Cayo Guillermo!
Mi fecero scender di corsa, potei prendere in camera solo spazzolino e dentifricio, e dovetti
conciliare la seconda parte del mio sonno all’hotel Morón.”
Durante il periodo in cui svolse il compito di maestro di cucina del Centro de Caza y Pesca de
Morón, Virgilio Negri ebbe altre avventure, sempre un pò surreali.
In una delle interviste esclusive per quest’opera, mi confessò che la più strana delle
espererienze gli capitò quando una amica cubana lo venne a trovare alla Casona per chiedergli
un piccolo favore.
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Gli chiedeva di portare lei con sua mamma ed una zia ad un posto chiamato Puente Largo,
lungo la strada che da Moron porta alla collina di Cunagua.
“Il giorno seguente, di mattina presto, partii con questa amica e due signore grassissime, per
andare a Puente Largo”. Guidando la mia macchina passai tutto il tempo del tragitto a
chiedermi cosa diavolo andassero a fare quelle due immense matrone proprio in quel luogo
dove non ci sono case, solo un ponte sopra un fiume.
Arrivati, mentre parcheggiavo l’auto, le tre donne scesero e si persero calandosi proprio sotto
il ponte. Mi avvicinai e vidi le due ciccione immergersi nell’acqua, completamente vestite!
Non capivo: due signore, anche avanti con l’età, andavano a bagnarsi con tutti i vestiti
addosso nelle acque sotto un ponte. Nel silenzio della scena, tutto era surreale.
Entrambe immersero la testa in acqua e ne uscirono percuotendosi. Poi uscirono sulla riva e
presero a spalmarsi la faccia di fango. Poi si tolsero i vestiti e ricoprirono di fango tutto il
corpo. Mi spaventai, pensai che fossero pazze.
Mi raggiunse subito la mia amica, vedendomi bianco in volto e dicendomi di scusarla e di
aver pazienza. “Stanno facendo magia...” aggiunse con aria circospetta.
Allora capii e, quasi sollevato, sorridendo le disse di non preoccuparsi... per me.
“Rientrando alla Casona, mi diressi subito al bar, chiesi un Cuba Libre (alla mia maniera:
uno spruzzo di coca-cola su tanto “ rhum libre”…) e lo bevvi in un solo sorso!
Ero ancora turbato perchè per la prima volta nella mia vita assistevo ad un atto magico di
santerìa cubana, eseguito con assoluta naturalezza”.
Anche Eugenio Ciocca, l’italiano che è stato per più tempo alla Casona, ha un’infinità di storie
simili da raccontare. Aveva preso una camera che si affacciava su una grande terrazza e da lì si
sporgeva con l’aria di un Crocodile-Dundee dei Tropici, lasciando volare la sua immaginazione.
Poi, un giorno si fece portare col suo parapendio (il primo mai visto a Cuba) sulle alture di
Firenze (no, non quella del Rinascimento italiano ma la nostra omonima cittadina di Florencia
nella regione di Ciego de Avila, famosa per le coltivazioni di malanga, tabacco e per le selle in
vero cuoio) e da lì si lanciò nel vuoto.
Se in quel pomeriggio memorabile Eugenio non si ammazzò, non fu per la sua destrezza nel
maneggio del paracadute a vela, ma solo grazie al caso e a tanta buona fortuna.
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***
La Empresa Turística di Ciego de Avila è stata sempre un pò all’avanguardia nella ricerca di
opzioni e novità nel turismo cubano.
Una di queste, degna di citazione perchè fu la prima nel suo genere, è la Finca Oasis.
“Grazie alla cultura turistica ed alle conoscenze che avevo acquisito con la pratica –riferisce
Oscar García - sentii che c’era la necessità di un luogo di sosta lungo la strada principale
della regione e così, detto-fatto ci inventammo la Finca Oasis.
Il posto era pittoresco e la posizione geografica strategica. Per chi passava da Ciego de Avila,
diventò luogo obbbligato di sosta, punto di ristoro, oasi per una bevuta mentre si ammirava
un paesaggio di grande bellezza naturale per poi continuare il viaggio verso Oriente o
Occidente del Paese.
Inaugurammo la Finca il 26 luglio del 1982, data che ha una singolare importanza storica
perchè, credo di non sbagliarmi, quello fu davvero il primo “parador” stradale che si aprì a
Cuba. Gli altri, quelli di Aguada e Los Morales, vennero dopo: La Finca Oasis fu la prima! “
Tra le altre offerte del turismo di base che stava allora iniziando, meritano una menzione
particolare i primi due hotels della Regione Centrale di Cuba: l’Hotel Ciégo de Ávila e l’Hotel
Morón.
Anch’essi ebbero un ruolo, e molto importante, nelle fasi iniziali di quella meravigliosa
avventura che gli esperti hanno definito, con un pizzico d’ironia: “hacer turismo en un
pedregal”, cioè far turismo in una pietraia.
I due hotels aprirono quasi simultaneamente: il Ciego de Ávila a marzo del 1979 e l’hotel
Morón a luglio del 1980.
Nel primo si formarono i dirigenti del secondo, incluso il suo primo Direttore, e l’Hotel Moròn
diventò presto la scuola di formazione dei lavoratori che in seguito furono impiegati nel primo
grande hotel gestito con gli spagnoli della catena Guitart a Cayo Coco.
I due alberghi non furono aperti pensando al turismo internazionale ma in qualche modo
servirono da subito anche per quello ed oggi sono considerati gli antenati gloriosi dei moderni
hotels dell’attuale grande offerta turistica ai Jardines del Rey.
A quel tempo tutto era assolutamente artigianale.
Non c’erano strumenti audio, così Oscar García, direttore della Empresa, chiedeva rudimentali
altoparlanti alla stazione di autobus... per organizzare le prime, leggendarie, Notti Musicali
Moronere.
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La prima discoteca dell’Hotel Morón dotatta di un un vero impianto audio e luci ritmiche la
realizzò Larry Diaz, con lampadine e specchi presi dai treni: Larry era l’ingegnere elettrico più
empirico del mondo, l’Edison di Moròn, la fiera Città del Gallo; fu inventore di un canale di
TV locale e di tanti altri marchingegni elettrici che realizzava recuperando e assemblando
materiali di fortuna.
Racconta Gilberto García, capo ricevimento dell’hotel Moròn ai suoi inizi:
“ Il primo fondo di dotazione di valuta per cominciare ad operare ce lo inviò il Banco
Nacional de Cuba “... ed era fatto da banconote così vecchie che un turista americano voleva
comprarsele tutte! Io guardavo la guida perchè in realtà non capivo bene quale fosse la
ragione, la vera intenzione del turista. Più quello mi parlava, indicandomi le banconote,
sventolandomi un pacco di dollari sotto il naso, e meno lo capivo.
Alla fine scoprimmo insieme, io e la guida, che era interessato al loro valore numismatico
( per me, un mistero!), tanto erano vecchie quelle monete!”.
Raccontandomi molti aneddoti in una delle interviste che realizzavo per documentare questa
opera, Gilberto mi raccontò che un giorno si presentò all’Hotel un cubano:
“...e mi disse che gli avevano rubato un suo pappagallo; che lui sapeva che era lì in hotel
perchè il ladro, che era stato scoperto, aveva confessato di aver venduto il pappagallo a un
turista italiano. Gli dissi che sarebbe stato impossibile localizzare il suo volatile tra le
tantissime camere occupate in quei giorni da ospiti italiani. Mi rispose che invece sarebbe
stato molto facile perchè “..il mio pappagallo risponde al mio fischio di Guantanamera e ripete
la melodia con un suo fischio...”
Portai l’uomo lungo i corridoi delle camere e lui, davanti ad ogni porta fischiava le prime
note della canzone, finchè dall’interno di una delle camere il pappagallo rispose, tale e quale
come l’uomo aveva detto. Spiegai l’accaduto al turista che, per niente scocciato ma
addirittura divertito, restituì subito il pappagallo al suo padrone.”
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Juan Pérez, anche lui nel gruppo dei fondatori dell’Hotel Moron, invece ricorda che una volta
arrivò il primo turista vegetariano al 100% e in hotel non c’era in quel momento nulla di
vegetale, neanche una patata:
“Dovetti uscire a cercare verdura per la strada, per poter dar da mangiare a quel turista.
Prendemmo così atto di una diversa realtà ed apprendemmo che anche quello era “fare
turismo”: fare di tutto pur di servire le esigenze speciali di un Ospite.
“Due italiani, Rinaldo Corti e Mario Negri, si congratularono con enorme entusiasmo per un
piatto di spaghetti con aragosta che io stesso cucinai a casa mia.
Loro erano stupiti per quel piatto, gustosissimo, ma il più sorpreso ero io perchè era solo una
pietanza molto semplice, “fatta in casa”.
Stessa esperienza la feci con Eugenio Ciocca preparandogli un dolce francese.
Lui non sapeva cosa fosse e gli spiegai che era fatto di una pagnottella di pane secco,
immerso in una crema di budino; al fondo ed ai lati si mettono tre sapori di gelato: fragola,
vaniglia e cioccolato. Si lascia tutto condensare e dopo si chiude e si lascia nel congelatore per
12 ore. Per servirlo, si estrae e si copre con meringa alla francese, si spolverizza di zucchero di
canna e, per ultimo, si passa alla fiamma”.
Sisto Gungui una volta mi parlò così di Juan Perez: “ …è un essere umano patrimonio
dell’umanità, per l’originale attitudine professionale che gli scorre nelle vene, per un gusto
gastronomico innato e per quel suo portamento spontaneo di grandissimo stile.
Guardalo, potrebbe sedersi domattina a tavola con la regina d’Inghilterra… ”.
Juan Perez fu invitato in Italia da Virgilio Negri, per perfezionarsi nella cucina italiana presso il
gran ristorante “Negri” di Pusiano sul lago di Como.
Questo uomo nero come ambra nera, alto, col fisico di una distinzione ineguagliabile, ebbe
l’onore di inaugurare il piccolo locale annesso al Ristorante Negri, chiamato Morón Garden,
nel quale si trovano per bere e chiacchierare tutti gli italiani che hanno qualcosa da ricordare
su Moròn stando dall’altra parte dell’Oceano.
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Juan Perez e Sisto Gungui a Moròn, Maggio 2001
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“Con la lingua ovviamente c’erano un sacco di problemi – ricorda ancora Gilberto García -,
ma finiva quasi sempre in qualcosa di comico. Ho due aneddoti, su tutti, in relazione alla
barriera linguistica. La parola spagnola burro in italiano significa proprio il burro di cucina.
Ma si sa che in spagnolo indica l’asino. Così uno dei primi turisti italiani chiedeva del “burro”
al giovanissimo e ignaro cameriere dell’Hotel Moron. Il ragazzo si precipitò in cucina dicendo
a tutti che l’italiano non sentiva ragioni e voleva mangiare carne d’asino! Nessuno sapeva a
cosa si riferisse realmente il turista e così mi recai a parlare con lui e solo dopo lunghe
spiegazioni, gesti e giri di parole, finì con tante risate finali e gli recapitammo un piattino con
i panetti del suo “burro”.
Un altro italiano, parlando col barman continuava a ripetere: “si, domani mattina”.
Il barista, pronunciando lentamente le parole per cercare di farsi intendere dal turista
italiano, gli ripeteva che al bar “No, non serviamo “maltina”, cioè...ovomaltina!”
Oggi ridiamo ma in quei primi tempi, per noi pionieri inesperti del primo turismo
internazionale, quelle erano vere prove del fuoco.”
Infatti, ancora non esisteva l’attuale Escuela de Hotelería y Turismo de Ciego de Ávila, dove
ancor più che la cultura generale, la primissima cosa che si apprende sono almeno 2 lingue di
base per cavarsi da ogni impiccio nel servizio agli Ospiti.
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Il Caribe divenne, da subito, incrocio di tutte le rotte.
Germán Arciniegas
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L’arcipelago dei JARDINES DEL REY: I Giardini del Re.
…quanta gente “sognerà”
di aver raggiunto l’illusione di colonizzarlo.
E. Hemingway
Alla costante ricerca di zone adeguate, o adeguabili..., al turismo nella regione di Ciego de
Avila, Oscar Garcia pose gli occhi sugli isolotti del Nord, cioè sui Jardines del Rey, senza
lontanamente immaginare il punto fin dove sarebbe arrivato lontano il suo sguardo.
I Jardines del Rey e quelli “ de la Reina”, sono, geograficamente parlando, totalmente distinti:
i primi sono ubicati al largo della costa centro-Nord di Cuba, i secondi in quella centro-Sud.
Sono, quindi, 2 arcipelaghi simili ma ambientati in mari molto diversi ma entrambi formano
parte di una geografia sentimentale unica: sono l’ingresso ed il patio di una stessa casa ed
hanno un ambiente generale del tutto comune.
Fin dai tempi dei nostri bisnonni, tradizionalmente ogni anno gli abitanti di Moròn
organizzavano escursioni e zingarate sugli isolotti del Nord, più facilmente raggioungibili di
quelli situati a Sud.
Le famiglie della classe media e alta, salivano su imbarcazioni ed uscivano in Settimana Santa
per cercare la solitudine di quei paraggi, per mangiare pani e pesci, per pregare per la
remissione di tutti i peccati dell’anno e per violarne qualcuno in più, pronti a chiedere il
perdono... l’anno successivo.
Cosicchè i Jardines del Rey non furono mai fuori portata dei pescatori, dei peccatori e degli
avventurosi ed avventurieri di Moròn.
Oscar García lo sapeva prima attraverso tutti i racconti che gli facevano i più anziani e perchè
poi lo aveva visto coi suoi occhi di bambino, quando lo portarono per la prima volta ad una
battuta di pesca.
Perciò, quando in seguito gli sguardi, le attenzioni e tutti i piani futuri e le speranze di sviluppo
turistico della regione di Ciego de Avila si appuntavano a Sud, cioè ai Jardines de La Reina, gli
occhi di questo uomo di statura media e portamento da conquistatore, si rivolsero
naturalmente a Nord, verso “gli altri Giardini”, quelli “del Re”.
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Ma dove sono e come sono esattamente gli isolotti (i “cayos”) dei Jardines del Rey?
Quali orme e tracce ha lasciato l’uomo, al trascorrere del tempo, sulla sabbia di quelle spiagge ?
Vediamo. Sono situati al nord della cittadina di Santa María del Puerto del Príncipe, e sono
centinaia di isolotti paradisiaci.
In questa storia ci riferiamo solo a Cayo Guillermo, Cayo Coco e a pochi altri che ci interessano,
come Cayo Paredón Grande e Cayo Romano.
Furono battezzati, nel 1514, da don Diego Velázquez con il nome di Jardines del Rey, in onore
di Fernando V, anche se quel grande monarca non vide mai quanta bellezza c’era nelle sue
proprietà dall’altra parte dell’Atlantico. Allo stesso modo, anche la Regina Isabella la Cattolica,
cui furono intitolati i Jardines de La Reina, non vide mai i suoi Giardini dei Caraibi ed ancor
meno si rese conto che avrebbero avuto un destino analogo a quelli dedicati alla proprietà del
suo eccellentissimo sposo: sbalordire visitatori giunti da ogni parte del mondo.
C’è chi sostiene che già nel 1508 Sebastián de Ocampo, cabotando lungo le coste di Cuba,
avesse utilizzato questo nome ma quel grande marinaio non ebbe l’accortezza di lasciarlo
scritto nelle sue memorie e neanche in qualcuno dei numerosi schizzi e disegni informali che
soleva fare quando rimaneva particolarmente impressionato dal paesaggio.
Vale la pena annotare che anche se i nomi di Jardínes del Rey e Jardínes de la Reina erano
apparsi per la prima volta nel 1595 in una bella carta del Mar Caribe eseguita da Theodor de
Bry e poi, nel 1728, erano già riportati nella carta di Cuba confezionata dal cartografo Pieter
Vander, molto ma molto tempo prima, questi gruppi di isole dovevano aver avuto qualche altro
nome. Infatti, resta provato e testimoniato da svariati resti archeologici che i due arcipelaghi
furono abitati da tribù amerindie, che in verità non piantarono neanche il fiore più
insignificante prima che queste isole diventassero i lussureggianti giardini tropicali di oggi.
Più tardi, nei suoi lavori dedicati a Cuba, anche Alexander Von Humboldt utilizzó nel 1827 il
nome di Jardines del Rey, ma in seguito alla conclusione della Guerra dei Dieci Anni e a causa
della divisione del Paese in sei Regioni, l’Arcipelago del Nord venne denominato ufficialmente
Archipiélago Sabana-Camagüey, anche se il rinomato geografo cubano Antonio Núñez
Jiménez, continuò sempre ad indicare la Cayeria del Norte con entrambi i nomi.
La bellezza allucinante di queste isole, situate proprio a ridosso della grande barriera corallina,
appare come uno straordinario dipinto naif: collinette e promontori, alture che sembrano
giganti guardiani dell’orizzonte, pareti rocciose che sembrano muraglioni di castelli medioevali,
spiagge che sembrano uscite dai racconti di Sindbad il Marinaio, fenicotteri che tracciano segni
rosaneri nel cielo celeste. Una solitudine antica che invade di silenzio questi dintorni,
nell’esuberanza di una natura virginale.
Se avesse navigato un pò più ad Ovest, è questo che avrebbe incontrato il grande Ammiraglio
Cristoforo Colombo già al primo viaggio di scoperta
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Una geografia indomita che rimase intatta per poter essere usata anni più tardi da corsari,
pirati e bucanieri che, dal secolo XVI, presero ad avventaurarsi sull’Oceano Atlantico e per il
Mar dei Caraibi, nascondendo bottini e intere caravelle zeppe di cannoni, colubrine e acquavite
di canna (il rhum) nelle strette insenature e nei canali marini dei Jardines del Rey ricchi di
meandri così contorti che la Confraternita dei corsari, pirati e bucanieri diede loro il nome
leggendario di “Labirinto delle Dodici Leghe”.
Sono rimaste celebri le scorribande di pirati come Jacques de Sores, Henry Morgan, John
Hawkins, Sir Francis Drake ed altri di minor levatura, che lasciarono spesso qualche
prigioniero abbandonato alla sua sorte su uno di questi isolotti oppure legato al tronco di un
albero, nudo e cosparso di miele d’api in modo che formiche e mosquitos si occupassero di lui
con tutta calma.
I bucanieri spesso nascosero in grotte misteriose tesori altrettanto favolosi che forse un giorno,
quando meno te lo aspetti, si riveleranno luccicanti in nascondigli insospettabili sulla
terraferma o in fondo al mare, come recita la leggenda del galeone spagnolo affondato con un
pesante carico d’oro, argento e pietre preziose proprio davanti ai litorali di Cayo Coco e Cayo
Romano.
Ancora oggi, se gli capita di passare per quella che si suppone sia stata la zona del naufragio, i
vecchi pescatori si tolgono il cappello e buttano lo sguardo ai fondali della grande barriera
corallina cercando di intravvedere, tra scogli e coralli, quel galeone un tempo orgoglio della
marina spagnola ed oggi fredda tomba dove riposano i resti di un gruppo di marinai insieme
con l’incalcolabile fortuna che mai arrivò nelle mani dei Re di Spagna.
Quasi incredibile e davvero leggendaria risulta oggi la storia capitata in piena estate del 1555,
quando il discepolo del primo gambadilegno registrato negli annali della pirateria, il già citato
Jacques de Sores, alla fine di un assalto di sorpresa che ebbe a realizzare in danno della città di
Santa María del Puerto del Príncipe, si appropriò di un ricco bottino e vedendo che gli abitanti
non gli opponevano grandi resistenze si portò via molte delle belle concittadine che furono
distribuite in modo equanime tra tutti gli “ufficiali” del pirata.
Dato che il codice piratesco non consentiva la presenza di donne a bordo delle navi, subito
dopo la partenza dalla città saccheggiata e dopo una intera giornata di indescrivibili orge di
bucaneria, sesso e rhum, Jacques de Sores abbandonò le donne vicino all’insenatura di
Bautista, su una spiaggia a Norde-Est di Cayo Coco.
L’aspetto leggendario sta nel fatto che non esiste alcuna traccia letteraria o documentale della
sorte successiva in cui dovettero incorrere quelle sventurate donne.
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Sarebbe, quindi, un ottimo soggettto per la trama di una eccellente novella, ma non è
necessaria una immaginazione acuta per supporre che vagassero disperate in largo e in lungo
sulle spiagge di cayo Coco, scrutando il mare in cerca di una vela salvatrice.
Non si ha alcuna notizia, se siano state salvate, non esiste alcun documento o testimonianza e,
perciò, la leggenda vuole che se nessuna nave le abbia salvate e che a Cayo Coco siano rimaste,
irrimediabilmente trasformate in sirene senza speranza.
A scrivere la storia di questi paraggi non furono solo pirati, corsari, filibustieri, bucanieri ed
ogni sorta di personaggio marinaro e costiero.
La moltitudine di isole, isolette, scogli e barriere affioranti a pelo d’acqua ha un nome cubano
quasi intraducibile: “cayeria”, un termine che indica una specie di “prateria marina” di isole.
I trafficanti di schiavi usarono la cayería dei Jardines del Rey per occultare, a causa della
proibizione della tratta, i carichi di negri prelevati a forza in Africa.
Alcuni, davvero pochi, di quegli schiavi neri sbarcati per caso nel corso di qualche sosta su una
di quelle isolette, riuscirono a scappare e con molte difficoltà arrivarono persino a stabilirsi in
luoghi isolati e inospitali, sfuggendo ai negrieri che li avevano strappati alla natura vergine
dell’Africa, da paesi dove alcuni di loro erano stati anche autentici principi e grandi re.
Si racconta che uno di questi monarchi di ébano, sfuggito ai negrieri, si inerpicò sulle alture di
Cayo Coco con la sua sposa regina e due dei loro piccoli figli-principi.
Dopo una larga ricognizione a vista dall’alto, prese a correre verso Oriente pensando così che
sarebbe riuscito a tornare alla sua terra. Tali erano la memoria ed il senso dell’orientamento
che gli erano rimasti impressi nella testa e nel cuore fin da quel momento in cui qualcuno gli
aveva gettato una rete da pesca, catturando lui e la sua intera famiglia come animali selvaggi e
buttandoli nel buio e della sentìna putrida e scura di un vascello, mischiati a centinaia di altri
negri destinati ad una stessa tragica sorte. Quel re delle montagne africane non poteva neppure
immaginare, da quella prigione in movimento sul mare nella quale aveva trascorso un tempo
senza tempo, che aveva attraversato l’immensità dell’Oceano Atlantico e che era approdato nè
più nè meno che su un cayo, un piccolo isolotto della piattaforma dell’isola maggiore delle
Antille! Per lui, quel gigantesco volatile con enormi ali bianche nel cui ventre aveva viaggiato la
“famiglia reale”, aveva sicuramente toccato terra su una costa vicina alla sua casa: non poteva
immaginare altro e perciò corse senza fermarsi fino al luogo in cui avrebbe dovuto ritrovare il
suo reame. Invece, sorpresa, ecco di nuovo il mare! Allora cambiò direzione ma di nuovo
incontrò il mare e allora attraversò il Canale de La Pasa, si addentrò in Cayo Romano e pensó
che doveva finalmente rivedere le sue verdi praterie ed il seguito della sua Corte.
E prese a girare come un folle per tutto il Cayo e, dopo tanto camminare altro non trovava che
mare e mare, da tutte le parti.
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Si dice che andasse errando per Cayo Coco e Cayo Romano, da costa a costa, alimentandosi di
animali e pesci che riusciva ad agguantare a mani nude e approvvigionandosi dell’acqua
potabile che trovava negli anfratti delle rocce.
Fu, quello, l’unico e solo Re che visse a Cayo Coco.
Alla fine il grande re smise di andare in cerca dei suoi domini e decise di fermarsi a Cayo Coco,
isola che più rassomigliava alla sua lontana geografia.
Impiantò lì la sua dinastia in una enorme e umida grotta, una “cueva” che la leggenda chiamò
per sempre “la Cueva del Rey” (sulle mappe di oggi è “la cueva del Jabalí”).
Arrivò ad erigere lì il suo nuovo trono, con un salone reale, una camera nuziale per i monarchi,
le stanze dei Principi...
Si convertì, in pratica, nel più singolare dei re del pianeta, un re senza un solo suddito, senza
nemici politici, senza nessuno che ambisse alla sua corona; fu solo il Re di Ebano degli animali,
dei fiori selvaggi, re del vento e delle spiagge, del silenzio di quel piccolo cayo; sovrano con una
regina deposta; monarca assoluto di due Principi che, col passare degli anni, dimenticarono di
essere legittimi eredi di una corona e morirono come due naufraghi dispersi, senza riuscire a
capire dove volgere lo sguardo per trovare il punto cardinale in cui immaginare quel reale e
poderoso reame che i loro genitori gli avevano lasciato in eredità.
Molti anni dopo, le spedizioni dei cubani che lottavano contro il dominio coloniale, trovarono
proprio nella cayeria del Nord di Camaguey un eccellente rifugio dove nascondere le golette
con carichi preziosi di armi, munizioni e patrioti, di modo che gli spagnoli si videro costretti a
stabilire una serie di accampamenti e fortini lungo tutta Cayeria del Norte che in seguito
furono abbandonati quando la Madrepatria spagnola perse la guerra e decise di andarsene da
Cuba.
Allo stesso modo furono abbandonati allo loro sorte i maiali che gli spagnoli portavano con sé
per allevamento, e quelli si convertirono in poche generazioni in porci selvatici.
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CAYO COCO, UNA CARICATURA GIURASSICA
Dato che abbiamo parlato di Cayo Coco, è opportuno annotare che il suo nome è dovuto alla
folta presenza su di esso di un volatile, un specie di passero (in cubano zancuda blanca, con un
becco sottile, lungo e ricurvo) chiamato ibis bianco o anche coco.
Qundi, il nome non è dovuto al frutto del “cocotero” cioè della palma da cocco, come molti
credono. L’sola misura 33 chilometri di lunghezza e 10,54 di larghezza.
Le sue spiagge si estendono per la lunghezza di 21,9 km.
Questo “cayo”, questo grande-isolotto ha raggiunto una certa fama non solo per le sue spiagge
a mezzaluna, ma anche per le numerose specie di vertebrati terrestri, volatili, esseri anfibi,
rettili e mammiferi, con larga predominanza dei primi.
Molte di queste specie sono endemiche: sui promontori ed alture si possono vedere le iguana
con la pelle squamosa ed il portamento da rettile preistorico; si può scorgere il chipojo azul,
mentre tira fuori il suo fazzoletto rosso per richiamara l’attenzione o per dimostrare la sua
prepotenza di animale aggressivo; intanto, il camaleonte di Santa María si arrampica
silenzioso sulle rocce e tra gli arbusti spinosi, alla ricerca di una preda da inghiottire in un solo
schiocco di lingua e, infine, si ammira da vicino la parsimoniosa ed inoffensiva testuggine
d’acqua dolce.
Tutti insieme in una specie di commedia giurassica!
Cayo Coco detiene il record di località cubana col più alto numero di specie volatili registrate:
duecentoundici specie di volatili, delle duecentodiciassette esistenti lungo la cayerìa
(l’arcipelago) dei Jardines del Rey.
Non tutte le specie sono residenti in permanenza; alcune emigrano da località remote ed
atterrano a Cayo Coco in cerca della solitudine e del silenzio che non trovano in altri luoghi del
pianeta oppure arrivano cercando quel bel clima tropicale-umido con una temperatura media
da estate lunga 12 mesi all’anno.
Il gavilancito, il carpintero escapulario, il cabrerito de la ciénaga, hanno scelto di risiedere
solo ed unicamente sulle alture e lungo le spiagge di Cayo Coco e, per meglio poterli ammirare,
bisogna proprio addentrarsi nella foresta vergine e profonda di questo luogo.
Il fenicottero, flamenco in spagnolo e flamingo in inglese, col suo collo a punto interrogativo, è
stato seriamente minacciato di sparizione della specie a causa di un lungo periodo di caccia
indiscriminata. Oggi è un animale protetto e proprio quel bel collo a punto interrogativo forse
pone anche a noi la domanda del perchè l’essere umano sia tanto predatore ed impegnato a
distruggere il mondo che lo circonda.
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Altri volatili di cui si paventa una rapida estinzione sono il gavilán colilargo, il gavilán
caracolero, la yaguasa criolla, il gavilancito, la caraira ed il sijú de sabana.
Su Cayo Coco vivono solo una dozzina di mammiferi, due delle quali endemiche di Cuba, la
jutía conga, una specie di scoiattolone, rappresentata da piccoli gruppi all’ovest e sud-est di
Cayo Coco, nella zona delle mangrovie e su piccoli isolotti (cayuelos) nella Bahía de Perros (la
Baia dei Cani), ed una specia rarissima di pipistrello che può essere vista nella già citata grotta
Cueva del Jabalí (anticamente, la grotta del Re africano).
Col trascorrere degli anni, nella desolata geografia di Cayo Coco comparvero i primi padroni.
Non poteva essere altrimenti dato che l’essere umano, obbediendo ai suoi più antichi istinti, si
è via via appropriato di ogni pur minuscola porzione di terra del pianeta, cosicchè già fin dal
lontano anno 1746, si mossero i primi passi della aggiudicazione proprietaria di Cayo Coco, una
delle isole più importanti dell’arcipelago dei Giardini del Re.
Voglio dire che attorno a quell’anno appare la registrazione del primo titolo di proprietà della
nostra isola, rogitato a nome di tale Santiago Agüero, il quale potrebbe dunque passare alla
storia come il primo padrone legale di Cayo Coco.
In seguito, a ragione di vari passaggi ereditari Cayo Coco passò di mano in mano finchè, nella
seconda metà del secolo XIX, se la comprò il marchese di Santa Lucía, che dopo breve tempo
ne subì l’esproprio, insieme a tutti suoi beni, a cusa delle sue attività secessioniste.
Per dire il vero, al marchese l’esproprio non lo danneggiò minimamente, essendo capitato a lui
lo stesso che al Re Fernando V, che si dice non avesse mai visto le sue proprietà.
Il 14 marzo del 1876, ebbe luogo l’asta pubblica per la liquidazione di Cayo Coco che andò
aggiudicata, per la somma di trecento pesos in oro spagnolo, al signor don Francisco Angùlo.
Ma quelli erano tempi in cui i cubani erano impegnati nelle faccende della guerra e Cayo Coco
servì da rifugio a molti dei perseguitati dalla Spagna, i quali, a rischio della loro incolumità, si
diedero latitanti sull’isola, vivendo come selvaggi.
Questi rifugiati, nella speranza di non doversi fermare a lungo nella inospitale natura dell’isola,
non costruirono niente di definitivo, limitandosi a costruire capanne ed altre baracche rustiche
e del tutto provvisorie.
Fu solo nell’anno 1901 che alcune famiglie decisero di provare a vivere lì, costruendo case più
stabili e durature: a testimonianza dell’evento c’è una data incisa su uno dei pali di sostegno
delle fondamenta.
Cosa facevano queste famiglie su Cayo Coco? Carbone, l’unica attività possibile.
Esportavano il carbone di legna per tramite di un traffico regolare di golette che ogni tanto
venivano a prenderlo per venderlo all’Avana o in altre regioni di Cuba.
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Nel 1927 l’isola passò in proprietà a Mr. John Theophilus Hodge, un nordamericano che
comprò la proprietà dalle famiglie Cuevas y Angùlo per la somma di ottantacinquemila pesos,
anche se l’atto venne fatto con ipoteca a favore della famiglia venditrice.
Ci si chiederà con quale scopo un nordamericano si mettesse a comprare un’isola così
sperduta? La risposta è nella data di acquisto che corrisponde all’epoca in cui i nordamericani
presero a fondare a Cuba vari insediamenti agricoli, come già fatto ad esempio dalla Cuban
Land and Palm City e La Gloria City, che si prefiggevano, come l’acquirente di Cayo Coco, di
piantare grandi coltivazioni di agrumi e provare anche ad allevare bestiame suino e vaccino.
Mr. Hodge per prima cosa popolò l’isola di bestiame dei due tipi e poi si impegnò con enormi
sforzi ad impiantare gli aranceti, come aveva visto fare dai suoi compatrioti nella zona centrale
di Camagüey.
Ma, a differenza di quegli altri, l’impresa di coltivazione non gli riuscì, a causa soprattutto
dell’aridità del suolo per questo genere di coltivazione.
Quel fallimento distolse gli occhi di Mr. Hodge da Cayo Coco e l’uomo finì per lasciar scadere
l’ipoteca in modo tale che l’isola tornasse di nuovo ai suoi antichi padroni.
Dicevamo che la fabbricazione di carbone vegetale si sviluppò insieme con gli allevamenti di
bestiame. Nel 1944 venne fondata la Compañía Ganadera Cayo Coco, dotata di oltre 10.000
capi di bestiame bovino, con base principale nella zona di La Jaula.
Ma anche questi progetti non diedero i frutti sperati, ed erano già due i sogni infranti contro la
nuda e cruda realtà della magra vita su un “cayo”.
Dato che l’uomo è forse l’unico animale che inciampa due, tre e infinite volte nello stesso
ostacolo... fu così che tra gli anni 1946 e 1948 Cayo Coco tornò a far notizia
Una compagnia petrolifera nordamericana arrivò in zona col fermo proposito di estrarre
petrolio. “ Si calcola che nel sottosuolo di Cayo Coco giace una quantità immensa di questo
minerale... ”, titolavano così i giornali dell’epoca.
Ma non passò molto tempo che, senza che nulla comparisse neanche in una piccola noterella a
fondo pagina, il sogno della ricerca dell’oro nero fallì in pieno e, alla fine, i nordamericani
abbandonarono il luogo lasciando per lo meno il nome di un villaggio, per la storia “La
Petrolera”. Era la terza volta che gli imprenditori di affari, i “businessmen”, fallivano a Cayo
Coco. Mr. Hodge non potè raccogliere le sue arance, il bestiame della Compañía Ganadera
non arrivò a dare latte e carne sufficienti per giustificare l’investimento e la Compañía
Petrolera non estrasse neanche un goccio di grezzo.
Cayo Coco fu sul punto di perdere il suo nome per cambiarlo in Cayo Fracaso, l’isola dei
fallimenti!
Per fortuna un giorno la fortuna cambiò il segno e, dalla sera alla mattina, la civiltà e lo
sviluppo arrivarono insieme a Cayo Coco, per altre vie e per non abbandonarlo mai più.
75
I “DODICI APOSTOLI”
Cayo Coco ai primi tempi della Revoluciòn
Un tardo pomeriggio del 3 gennaio 1961 con la barca che abitualmente prelevava il carico di
carbone fabbricato a Cayo Coco portando in cambio provviste ed altre mercanzie, arrivò anche
un gruppo di giovani con torce marca Coleman e capienti borse a mano.
Erano 12 uomini in tutto e arrivavano dalla città di Camaguey con la missione di portare a
termine il primo progetto rivoluzionario sull’isola: alfabetizzare i carbonai e le loro famiglie.
Al principio gli ignari carbonai pensarono che doveva trattarsi di uno dei tanti tradizionali
pellegrinaggi che, in Settimana Santa, usavano fare alcune delle famiglie di Moron e Caibarién,
passando 6 giorni sull’isola col precetto religioso di mangiare solo pesce.
Altri pensavano che erano missionari inviati dalla Chiesa a rappresentare i Dodici Apostoli.
Invece, altro non era che una compagnia di giovani impegnati a realizzare un compito quasi
romantico ed inimmaginabile.
Infatti, erano “dodici apostoli” ma non vecchi e con la barba bianca come quella di un Cristo,
ma adolescenti apostoli della Rivoluzione, con la missione di predicare una fede incrollabile ed
una grande speranza nel futuro, secondo il motto”Venceremos con la cartella!”.
Assaliti dalle zanzare, tormentati dalle pulci della sabbia, quei giovani lottarono a lungo contro
la comprensibile apatìa di uomini e donne il cui unico orizzonte di vita era scandito dal taglio
della legna, dal forno da carbone, dalla barca che ogni 2 settimane si avvicinava al molo
rovinoso di La Jaula e dalla sola compagnia dell’immensità del mare.
Che altra reazione iniziale c’era da aspettarsi da quella gente di fronte ad una dozzina di
giovanotti con cartelle, penne e matite, libri e torce che illuminvano come soli?
Cosa voleva quella banda di ragazzotti che venivano a perturbare la routine delle loro vite
monotone chiedendogli in cambio il poco tempo di riposo dal duro lavoro!
Alla fine non restava altro modo, per tentare di convincere la gentre di Cayo Coco, che quello di
inserirsi a pieno in quello stesso loro mondo di lavoro e fatica.
Quindi i “dodici apostoli” cambiarono i loro vestiti di alfabetizzatori venuti dalla città per
indossare gli stessi abiti dei carbonai, coi quali andarono a dimostrare con i fatti a quei poveri
analfabeti che le cose potevano davvero cambiare anche a Cayo Coco.
Al mattino partecipavano al taglio delle mangrovie ed altri alberi, poi aiutavano a preparare la
catasta di legna da bruciare senza fiamma e stavano lì a far la guardia alla catasta fumante, con
grande impegno. Vivevano da carbonai e fu così che quei missionari dell’alfabetizzazione
vinsero poco a poco l’apatia degli abitanti dell’isola e furono in grado di realizzare il compito
magico di insegnargli a leggere e scrivere per non dover firmare più con una croce o con
l’impronta digitale del pollice.
76
Pancho el Cojo, il carbonero più solitario e isolato dell’isola, che aveva conosciuto Hemingway,
si rese conto che il governo di Batista era caduto solo quando glielo disse il giovane a cui era
toccato di fargli da maestro. Aveva già passato i settanta anni e viveva sull’isola da quando ne
aveva trenta. Parlava da solo, cantava sue strofe e rime mentre erigeva piccole e grandi cataste
da legna da carbone, meditava per lunghe ore come se stesse ad una seduta di esercizi yoga e
fumava tabacco da sigaro arrotolato con le sue mani.
Aveva un sua semplicissima filosofia di vita, che ripeteva con la sentenza:
"nessuno sa cos’ è dormir tranquillo, finchè non ha una preoccupazione ".
Viveva in una capanna con le pareti scure di fuliggine in contrasto col verde lucido della foresta
intorno. I beni di sua proprietà si limitavano ad una tavola costruita con assi di legno trovate
arenate sulla spiaggia, un focolare a carbone, alcune pentole e recipienti neri come la capanna,
un letto come una cuccia con le gobbe fatte dal peso del suo corpo, un tavolino su cui Pancho
arrotolava i suoi sigari, un pezzo di specchio opaco per il salnitro, un altare sorprendente con
una statuetta di San Lazaro in gesso, la scorza di un cocco secco, un bicchiere sempre pieno di
acquavite di canna, un rotolo di tabacco grezzo ed alcune vele fabbricate da sé in modo
artigianale.
Pancho era arrivato in quei paraggi fuggendo dalla giustizia e dalla sua coscienza.
Dalla prima potè evadere senza lasciar traccia mentre dalla seconda lui stesso diceva che nè la
solitudine del monte nè il silenzio perenne nei quali si era autoconfinato erano riusciti a
placare il senso della sua colpa. Quale questa fosse, era un mistero di cui mai parlava.
Dalle memorie di uno dei quei “dodici apostoli” arriva il racconto del loro primo incontro,
quando il maestro giunse vicino alla capanna e Pancho prima lo guardó con diffidenza,
invitandolo poi ad entrare con una certa allegria perchè pensava che, finalmente!, avrebbe
potuto lavare la sua coscienza, credendo che il giovane fosse della polizia venuta a prenderlo.
Perciò restò attonito e senza parole quando il giovanotto gli disse che veniva in nome della
Revolución, per insegnargli a leggere e scrivere!
- Chi dici che ti ha mandato?
- La Revolución.
-E chi è questa signora?
-Non è una donna, è il cambiamento, un cambiamento radicale.
-Allora perdi il tuo tempo perchè io sono già molto vecchio per questi cambi che dici !
Passarono gli anni. I forni da carbone spensero per sempre il loro ardore nascosto e l’ultimo
fumo dolciastro si disperse con i venti in discesa dal fronte del Nord sul grande mare.
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PAREDÓN e GUILLERMO
I cayos più desolati dei Giardini Del Re
Cayo Paredòn Grande
Tra tutti gli isolotti citati finora, Cayo Paredón Grande, con la sua forma di farfalla in volo
libero, è il più piccolo con appena sei chilometri quadrati.
Nel 1859 qui fu innalzato un faro costruito in Francia e diviso in pezzi per il trasporto.
Quando fu così portato a Cuba, la nave-cargo naufragò proprio di fronte alla stessa costa dove
si sarebbe dovuto sbarcare il carico e andò persa la maggior parte delle strutture.
Con quello che si riuscì a recuperare, venne edificato il faro nel punto dove ora sta, con l’altezza
di ben 159 piedi dalla base alla cima della cupola luminosa.
Ma se la vista del faro risulta impressionante altrettanto lo è anche la costruzione ingegnosa di
un profondo e stretto fossato che serviva come scarico dei rifiuti umani al mare.
Fu scavato a colpi di scalpello e martello nella roccia dura della scogliera da alcuni poveri cinesi
con l’aiuto di alcuni altri schiavi negri: nessuno di loro seppe mai di aver realizzato un’opera
duratura nei secoli dei secoli!
I paesaggi di Cayo Paredón Grande sono condizionati da alcuni fattori che evidenziano la
sostanziale omogenità del territorio. Le pianure sono predominanti, le spiagge sabbiose con
vegetazione costiera e grande varietà paesaggistica, fino a una zona di pianura carsica ai confini
con una grande fascia pantanosa molto bassa e dominata da folte macchie di mangrovie.
A Cayo Paredón Grande vissero dodici famiglie i cui membri dovettero possedere una
evidente vocazione di eremiti, dato che vivere in un’isola così tagliata fuori dal mondo, con la
sola compagnia di ventiquattro specie di volatili, cinque specie di rettili, un solo mammífero
che era la jutía conga, animale endémico di Cuba, una specie di grosso scoiattolo che sempre
ha detestato il turismo, e una flora composta da nove tipi di arbusti e una infinità di liane.
I primi abitanti di Cayo Paredon Grande dovevano proprio essere campioni di solitudine.
Perciò si dedicavano a bruciare cataste di legna per farne carbone vegetale e a pescare spugne,
attività troppo solitarie e paragonabili solo a quella di scrivere...
Gli approvvigionamenti materiali di queste famiglie arrivavano basicamente dal porto di La
Jaula, a Cayo Coco, dove esisteva un negozio-taverna-emporio.
Per la cronaca voglio aggiungere che nella decade degli anni Quaranta si costruì anche, nella
stessa zona di La Jaula, un altro grande negozio di mercanzia varia e una panetteria.
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Nel 1951, qualcuno che stranamente nessuno più ricorda neanche chi fosse, trasse sull’isola un
piccolo generatore di elettricità, cosa che contribuì grandemente alla vita sociale sull’isola...
Questa piccola isola ospita tre spiagge: Los Pinos, El Norte e Los Lirios, tanto tranquille e
lontane dal mondo che si potrebbe pensare che la solitudine non è impossibile ed introvabile e
che almeno lì c’è davvero un posto al mondo dove riposarsi dai vagabondaggi.
E’ questa la prima impressione che si riceve appena si visita questo cayo.
La seconda è quando vediamo il faro che appare come il mitico gigante a un occhio solo, una
lucerna che guida la rotta sicura alle imbarcazioni che si avventurano a bordeggiare le difficili
coste coralline della cayeria, il grande Arcipelago del Nord di Cuba.
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Cayo Guillermo
Quest’isolotto è senz’altro uno dei principali protagonisti di queste pagine, perchè sulle sabbie
bianchissime delle sue spiagge nacque l’embrione del futuro destino turistico dei Jardines del
Rey.
La sua storia antica non è molto lunga, mentre dall’arrivo dei moderni “coloniturizadores” la
sorte della sua nascosta presenza cambiò di colpo e cominciarono presto a comparire sue foto
su brochures, riviste, dèpliants di viaggio.
Si produssero carte con le indicazioni utili per arrivarci... e scomparve, poco a poco, la sua
misteriosa solitudine.
Le enciclopedie sono piene di illustri personaggi che portano il nome di Guillermo, cioè
Guglielmo. Ora, dopo attente ricerche, abbiamo appurato che il nome antico del cayo proviene
da Guglielmo I il Conquistatore, personaggio che già da allora – come quasi sempre accade neanche seppe dell’esistenza geografica di tale isolotto sperduto in un angolo lontano del
mondo, nè tantomeno lo incluse nei suoi piani di conquista o nella lunghissima lista dei
territori conquistati.
Questo isolotto indifeso, ubicato a circa 100 chilometri da Moròn, confinante a Nord con il
Canal Viejo de Bahamas (Old Bahamas Channel), a sud con la Bahía de Perros, ad est con Cayo
Coco e ad ovest con i cayos Santa María e Caimán, è piccolo- ha solo 13 chilometri quadrati di
superficie.
In compenso sfoggia alcune delle spiagge più belle che occhio umano abbia mai visto ed ospita
le più alte ed estese dune marine di tutti i Caraibi, sulle quali lasciò le proprie orme per primo
Hemingway e, per lui, il suo alter-ego Thomas Hudson, impegnato negli anni della II guerra
mondiale al seguito dei sottomarini tedeschi che si avventuravano a sfidare lo yacht da pesca
più militarmente attrezzato della storia.
Insomma, spero che basti per farvi capire che stiamo parlando di un luogo senza molti
paragoni sulla terra.
Cayo Guillermo fu per tanti anni un luogo del tutto isolato, circondato da zone pantanose,
foreste acquatiche di mangrovie e una enorme moltidudine di mosquitos.
Per raggiungerlo bisognava navigare attraverso stretti canali con bassi e pericolosi fondali.
Flussi e riflussi del mare e grandi banchi di arena esistenti tra l’arcipelago e la terra ferma
cubana, consentono una navigazione non difficile ma adatta solo a imbarcazioni leggere e di
poco pescaggio (a tratti, si riesce anche a passare da un posto all’altro coi piedi in acqua!).
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Perciò, già i primi archeologi e ricercatori europei supposero che probabilmente non fossero
stati europei i primi visitatori dei cayos, ma certamente furono gli amerindi caribi ad
utilizzare questi paraggi come punti di transito nelle loro continue ricerche dei luoghi più adatti
al loro insediamento sulla terraferma della Isla Grande (Cuba).
Gli scavi eseguiti negli anni successivi confermarono senz’altro quelle supposizioni.
Anni ed anni trascorsero qui come in tutti gli altri cayos: natura spettacolare, presenze isolate
di eremiti che per le più svariate e romanzesche ragioni si trovarono a soggiornarvi, pescatori
azzardati, banditi in fuga dalla giustizia e, infine, nel 1959 il Trionfo della Rivoluzione, la
riforma agraria, il divieto cautelare di accesso al cayo e, infine, l’arrivo dei coloniturizadores.
Così erano i Jardines del Rey, le nostre isole dei Giardini del Re prima che si costruisse
attraverso la Bahía de Perros il terrapieno che collega tutto alla terraferma, favorendo la
costruzione di hotels e resorts tra la spiaggia e la vegetazione, con rotonde stradali, itinerari
paesaggistici, aeroporti e tanti edifici ma tutto totalmente celato nel verde intenso della foresta
originaria.
Tutto era ancora vergine anche al tempo in cui un grande pescatore che amava scrivere novelle
o, se preferite, un grande novellista che amava pescare marlin e barracuda, intravvide un
diverso futuro per questi “giardini sul mare”.
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SULLE ORME DI ERNEST HEMINGWAY
Quando già sembrava che i Jardines del Rey stessero per trascorre un secolo di tranquillità,
senza nuovi scopritori e colonizzatori ad aggiudicarsi isolotti e cayos come fossero nient’altro
che abiti da cambiare, senza sbarchi di pirati nè tratte di schiavi negri, proprio allora si
intravvide in lontananza, come trascinato dallas stessa Corrente del Golfo, uno yacht
abbastanza strano, dato che pur navigando a velocità di crociera si mostrava però attrezzato
con mortai, mitragliatrici e uomini in coperta dall’aspetto nè di turisti naviganti nè tantomeno
di pescatori in battuta.
Si trattava, nè più nè meno, che dello scrittore nordamericano Ernest Hemingway che,
seguendo la sua vocazione di antifascista e alla ricerca di nuove esperienze per i suoi libri
futuri, andava in caccia di sottomarini tedeschi col suo yacht Pilar (tenete a mente questo
nome, che tornerà nella nostra cronaca su Cayo Guillermo) in piena Seconda Guerra Mondiale.
Alla fine, sappiamo che non scovò nessun sottomarino, ma trovò una solitudine fuori dal
comune: mangrovie sorvolate da volatili endemici e altri uccelli migratori, da piccoli
mammiferi, rettili e crostacei; un intrico di canali e sentieri acquatici tra banchi di arena,
insenature, spiagge nascoste, maremme e alcuni fari che con muti bagliori annunciano la
presenza di pericoli imminenti per la navigazione, ma suggeriscono anche una immagine di
quello che potrebbe essere il confine del mondo...
Tutto questo intravvide lo scrittore da bordo del suo yacht Pilar.
Non molto tempo dopo, con il pretesto di tornare con la memoria a quei luoghi lontani e
solitari, scrisse di getto un “racconto lungo” il cui protagonista, Thomas Hudson, altri non era
che lo scrittore stesso che di nuovo inseguiva sottomarini fantasma e pesche miracolose.
Il viaggio del suo alter-ego si svolgeva lungo la striscia d’isole dei Jardines del Rey, risalendo
da Oriente a Occidente. Partiva quindi da Cayo Romano perlustrando ogni palmo d’acqua,
scoglio e sabbia. Passava al largo di Antón Chico e impressionato dalla abbagliante bellezza del
faro di Cayo Paredón Grande, lo scrittore quasi sbarcava dal suo yacht per passare a descrivere
il territorio dell’isola.
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Ma cediamo senz’altro la parola al grande Ernest/Thomas:
"Il fondale era limpido fondo estaba limpio; la corrente della marea era forte. Guardo verso
la casa dipinbta di bianco Miró hacia la casa pintada de blanco y al faro, alto y anticuado, y
luego más allá de la alta roca, hacia los verdes cayos de mangles y más allá todavía, a la
punta baja y rocosa de Cayo Romano. Habían vivido por temporadas tanto tiempo a la vista
de ese largo y extraño cayo lleno de insectos y conocían tan bien una parte de él y habían
penetrado allí, guiados por sus puntos de referencia, tantas veces, en malas o buenas
circunstancias, que siempre lo emocionaba avistarlo o perderlo de vista. Ahora estaba ante
él, más pelado que nunca, sobresaliendo como un desierto con matorrales.
"Había caballos salvajes y ganado cimarrón y puercos jíbaros en ese gran cayo y se preguntó
cuánta gente habría tenido la ilusión de colonizarlo. Tenía colinas ricas de pasto y hermosos
valles y excelentes zonas arboladas, y una vez había habido una colonia llamada Versalles,
donde unos franceses habían hecho el intento de vivir en Romano.
"...Era un cayo maravilloso cuando el viento del este soplaba noche y día y se podía caminar
dos días seguidos con un fusil, y se estaba en buena tierra. Era un territorio tan virgen como
cuando Colón llegó a estas costas. Pero en cuanto el viento amainaba los mosquitos
avanzaban en nubes desde los pantanos. Decir que venían en nubes, pensó, no es una
metáfora. Venían realmente en nubes y podían desangrar a un hombre hasta matarlo..."
Continuarono avanzando verso ovest, prima però costeggiando intorno al canal de Antón,
risalendo fino allo stretto canale tra Paredón y Coco, sbarcando quindi su quest’ultimo e
camminando sulle sue spiagge.
Si fermarono proprio nella località di Casasa senza immaginare che molti anni appresso quello
stesso luogo si sarebbe convertito in un porto importante al quale sarebbero sbarcati turisti
provenienti da tutto il mondo e lì sarebbero arrivati i rifornimenti per tutte le installazioni
alberghiere che avrebbero popolato quelle solitarie spiagge.
“Habían buscado huellas en la playa de Puerto Coco y registrado los mangles con el
chinchorro. Había algunos sitios muy adecuados para que se escondiera un bote tortuguero.
Pero no encontraron nada y las turbonadas vinieron temprano, con una lluvia tan fuerte que
parecía como si el mar saltara al aire en blancos chorros.
“Thomas Hudson había recorrido la playa y se había metido tierra adentro, detrás de la
laguna.
Había encontrado el lugar al que venían los flamencos con la marea alta y había visto
muchos ibis de bosque, los cocos que daban su nombre al lugar y un par de ibis rosados, de
pico de espátula, que buscaban alimento al borde de la laguna. Eran hermosos, con el agudo
rosado de su color contra el fondo gris de la orilla y sus delicados y rápidos movimientos
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hacia adelante al comer, y tenían la terrible y hambrienta impersonalidad de las aves
vadeadoras. No pudo observarlos por mucho tiempo porque quería revisar los alrededores,
por si la gente que estaba buscando hubiera dejado el bote entre los mangles y acampado en
terreno alto, para librarse de los mosquitos. Nada encontró excepto el sitio donde se había
quemado carbón vegetal, y regresó a la playa después que pasó la primera turbonada...”
*
Chi aveva acceso forni per la produzione di carbone vegetale proprio in quella zona e proprio
nel periodo menzionato dallo scrittore, era un personaggio di cui abbiamo già narrato,
conosciuto col soprannome di Pancho el Cojo, carbonaio solitario che visse la maggior parte
della sua vita su Cayo Coco. Anche se lo scrittore non riferisce nel suo racconto di aver
incontrato qualcuno sull’isola, Pancho mi ha assicurato di aver conosciuto un uomo con
caratteristiche che non possono appartenere ad altri se non ad Ernest Hemingway.
“Non capivo bene cosa mi diceva – riferisce Pancho - perchè parlava cubano con accento un
pò strano, ma ricordo benissimo che insisteva a chiedermi se avessi visto passare
imbarcazioni a pelo d’acqua... (non sapevo dell’esistenza di “sommergibili”)...
Perciò mi era parso mezzo matto. Era un uomo grande e grosso, andava con uno schioppo in
braccio e una visiera a riparo degli occhi, alla guida di una specie di peschereccio dal quale si
sporgeva per osservare intorno con un grosso binocolo.
Voleva comprare da me acqua e una carne salata di maiale selvatico che avevo con me, ma io
non addebito i favori: quello che gli serviva, glielo regalai.
Allora mi invitò al molo per mostrarmi la sua barca e bere un rhum.
Accettai subito e volentieri! Avemaría, che classe di barca, che bella!
Ricordo bene, come fosse ora, il nome della barca. Non avrei potuto dimenticarlo, neanche a
far passare mille anni, perchè era anche quello della mia mamma defunta, Pilar!
Spostandosi ancora ad Ovest, Thomas Hudson avvistó il cayo che più lo colpì, al punto che
allora, nel racconto, si rivolge ai suoi compagni di avventura dicendogli:
"...Cayo Guillermo, vedete com’è verde e promettente? ".
Ricordatevi questa frase, che tornerà con grande importanza nella nostra storia!
Quando il mister Hudson esclamó quella frase, ancora non si era posta neanche la prima pietra
di quei resort di lusso che oggi delinenano quasi una catena lungo una fantastica linea di
spiaggia. Pertanto quella frase, invece, convertì Hemingway in un vero profeta!
A Cayo Guillermo non stettero a lungo, limitandosi a circumnavigarlo e proseguendo per
infilarsi in ogni luogo impervio che esistesse nei Jardines del Rey.
Hemingway ed il suo personaggio calcarono le proprie orme su tutti gli angoli dell’Arcipelago
del Nord, facendole riapparire, fresche e umane, dopo mezzo secolo quando già Cayo
Guillermo cominciava a riapparire non più isolato nè così appartato dal resto del mondo.
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PRUA A NORD !
Abbiamo già segnalato nei capitoli precedenti che mentre gli altri dirigenti del turismo della
regione si perdevano nei sogni tra le acque tranquille dell’Arcipelago del Sud (Los Jardines del
la Reina, I Giardini della Regina), Oscar García appuntava i suoi sguardi sulle acque increspate
dell’arcipelago del Nord (Los Jardines del Rey, I Giardini del re) e in modo speciale su Cayo
Guillermo.
Vecchi lupi di mare che conoscevano anche l’angolo più impervio delle Baie di Perro e Buena
Vista, lo condussero a perlustrare il paesaggio intatto di Cayo Guillermo e Cayo Media Luna.
Oscarito seppe da subito e definitivamente che la speranza del turismo nella regione centrale di
Cuba era segnata: prua a Nord!
Ci furono parecchie spedizioni dirette a visitare le spiagge di Cayo Guillermo.
Non è possibile rifare la storia a cronometro o limitarsi a rimontare con la precisione
dell’orologiaio ogni sogno ed ogni atto di quei precursori.
Perciò preferisco raccontare tutto come se si trattase di una spedizione unica, simbolica e
rappresentativa, lasciando i personaggi salpare come argonauti del secolo XX alla conquista
dei Jardines del Rey.
Useremo come imbarcazione, un ferro-cemento dotato di un motore ruggente come un leone
malato.
Salperemo dal porticciolo di Punta Alegre, un villaggio pittoresco di pescatori situato sulla
costa centro-nord di Cuba, conosciuto per le sue sagre popolari, le tradizionali e travolgenti
“parrandas”, per la sempiterna rivalità tra i rioni di la Salina e di El Yeso e per il famoso sito
aborigeno di Los Buchillones.
Comandanti della nostra nave (contro le norme della navigazione, ne abbiamo più di uno):
Oscar García e Sisto Gungui.
Timoniere è Luis López (Guataca).
Piloti: Felo, Trigo y Raulito.
Equipaggio: Alfredo Bassani, Eugenio Ciocca, Virgilio Negri, Eduardo Veiga, Aldo
Abuaf, Jorge Ordóñez, Gilberto García, Mariano Deliz (Vitico) e Severo Morales,
tra tanti altri.
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Comincia il viaggio.
Per molti minuti navigano attraverso una bella baia ma subito dopo si inoltrano in una specie
di ragnatela di stretti passaggi d’acqua che solo marinai esperti riescono a distinguere.
Dopo più di otto ore, percorrendo infine i canali stretti di Baliza Vieja e Baliza Nueva ed i
pantani lagunari di la Cubera e Palomo, sorpassano Cayo Contrabando ed escono in mare
aperto, arrivando all’estremità ovest di Cayo Guillermo.
Tutti hanno gli occhi secchi per l’aria salmastra che li colpisce sulle facce attente, mentre
cercano di distinguere la linea ferma in lontananza sull’orizzonte.
Il gruppo si riunisce in prua alla barca sfidando gli spruzzi delle onde sollevati dal mare mentre
la barca doppia il Paso de los Vientos, (nome mai così adeguato che però non compare in
nessuna mappa della regione e che meriterebbe di essere riportato, invece, a chiare lettere).
A questo punto del viaggio, tutti i nostri personaggi sono posseduti dalla stessa ansietà degli
equipaggi delle navi dell’Ammiraglio Cristofo Colombo, con la sola differenza che quelli
avevano la incertezza di trovare davvero terra mentre questi sapevano bene che, da un
momento all’altro, parafrasando la leggenda biblica sarebbero apparse le isole promesse.
All’arrivo, tutto appare estraneo. Un paesaggio diafano, privo dei fumi delle fabbriche o di
altre sorgenti di contaminazione. Uccelli che sorvolano l’imbarcazione, tranquilli perchè ancora
non conoscono l’immenso potere distruttivo dell’uomo.
Su tutto gravita un silenzio trasparente interrotto solo dal va e vieni delle onde sulla sabbia e
dal cicaléccio di qualche passero che protesta per quegli strani e mai visti visitatori.
Il timoniere opera una attenta manovra per doppiare la Punta del Morro, gettare l’ancora e
fermarsi al riparo dai colpi delle onde.
Sono arrivati a Cayo Guillermo da Ovest.
Guataca indica a tutti di abbordare la scialuppa attaccata a poppa.
Con questa si spostano lungo il litorale nord, andando poco più in la verso Est per sbarcare a
Playa Campismo: è molto lontano Sisto Gungui anche solo dal sospettare che il nome col quale
quella favolosa spiaggia sarà conosciuta nel mondo glielo avrebbe imposto proprio lui!
Proprio di fronte scorgono il piccolissimo Cayo Media Luna, eterno geloso guardiano di questa
spiaggia formata da una lunghissima striscia di sabbia e protetta alle spalle dalla più alta duna
sabbiosa dei Caraibi con ben 15 metri di altezza!
E’ davvero la più bella di tutte quelle esistenti ai Jardines del Rey.
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Qualcuno segna a dito l’isolotto e ricorda che l’ex-presidente Fulgencio Batista si era fatto
costruire una casetta proprio lì. Decidono di sbarcare sullo scoglio per vedere se resta qualcosa
della costruzione e vi trovano solo tracce delle fondamenta in cemento e del piano terra della
casa di vacanza marina, la casa di villeggiatura dell’ultimo dittatore cubano.
Risalgono a bordo, navigano ancora verso il sole nascente, senza allontanarsi in mare ma
piuttosto cabotando lungo tutta la costa di Cayo Guillermo con le sue tre spiagge:
– Playa del Morro (detta allora Playa Campismo e, infine, battezzata definitivamente Playa
Pilar da Sisto Gungui)
– Playa del Medio (conosciuta anche come Caimanera)
– Playa del Paso (poi definitivamente denominata, sempre da Sisto Gungui, Playa Gregorio)
Le tre spiagge sono delineate lungo 5 chilometri di borotalco di sabbia finissima, a formare
una striscia bianchissima disegnata tra il verde smeraldo dell’acqua e il verde lucido e scuro
della vegetazione.
Poi scorrono lungo la costa di Cayo Coco, con i suoi ventidue chilometri di spiaggia a
mezzaluna i cui nomi, Playa del Perro, Uva Caleta, La Jaula, Los Flamencos, Playa Larga,
Las Coloradas, La Prohibida... sembrano tratti da una delle antiche carte di navigazione usate
ai tempi dei corsari, pirati e bucanieri.
Nel viaggio di ritorno, tutti pensano ad una sola cosa: a quella natura esuberante, alla
perfezione artistica e desolata dei cayos appena visitati; al futuro immediato già tracciato nel
destino di quelle isole ed a tutto quello che avrebbe implicato quello straordinario sviluppo per
il progresso turistico della Regione di Ciego de Ávila e per Cuba intera.
Tutti erano già convinti che presto gli occhi dei visitatori del mondo intero, con le loro video e
fotocamere, avrebbero inquadrato ogni angolo di questi luoghi per offrirli all’ammirazione del
mondo intero.
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TRASFORMARE I SOGNI IN REALTA’
In realtà…un compito da nulla! Non solo bisognava spostare le poche infrastrutture esistenti al
sud e portarle sulle coste del nord, ma bisognava anche e soprattutto cambiare la mentalità di
molti dirigenti e questo compito sarebbe stato qualcosa di molto difficile per Oscar García
anche se – come dimostrò la storia - non impossible.
La Patana, la piattaforma galleggiante ancorata nel canale di Caballones tra due lunghi e
stretti isolotti dei Jardines de La Reina, era un posto squisito ma il livello dell’ospitalità era
destinato a pochi amanti della pesca e delle immersioni.
Perchè?
In primo luogo perchè Ciego de Ávila era del tutto priva di aeroporto, cosicchè il turista doveva
atterrare a La Habana, prendere una vettura e viaggiare via terra fino al porticciolo conradiano
di Jùcaro da dove si sarebbe imbarcato per una navigazione di circa 55 miglia marine –
impiegando dalle 4 alle 5 ore.
Era troppo tempo: il cliente-viaggiatore perdeva 2 giorni nel solo trasporto!
Furono queste le ragioni più forti e decisive che modificarono le convinzioni dei fautori dello
sviluppo a sud. Alla fine anche i più agguerriti dovettero cedere di fronte all’evidente realtà dei
troppi inconvenienti e dei tempi troppo lunghi del transfer.
Soprattutto, la resa fu tototale davanti ai magici e accalorati racconti che Oscar Garcia ripeteva
a tutti a proposito delle solitarie e vergini spiagge di Cayo Guillermo, molto più accessibili che
l’intrico di isole del Laberinto de las Doce Leguas (il Labirinto delle Dodici Leghe).
Gilberto García è stato uno dei nuovi argonauti che navigò prua a nord in cerca di spiagge che
apparivano come miraggi di naufraghi senza speranza; spiagge abitate solo da alcuni dei nostri
antenati in pellegrinaggio in questi paraggi e conosciute da pochi marinai che a volte passavano
per caso lungo quelle coste disabitate; spiagge fantastiche che divennero realtà solo grazie alla
perseveranza dei primi “coloniturizadores”.
A Gilberto capitò la missione di condurre i primi veri turisti in questi luoghi e di dimostrare
così che valeva la pena scommettere sullo svilouppo di quel cayo che già Hemingway aveva
annunciato profeticamente come “...verde e promettente...”.
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“Il turismo ai Jardines del Rey – ricorda Gilberto in una delle prime interviste – cominciò sul
serio proprio da Cayo Guillermo, ma come sempre in modo molto artigianale.
Ci andavamo con delle lance veloci dotate di un motore fuoribordo (marca Halcón, ricordi?)
che prima usavamo alla Laguna La Redonda. Ricordo che la prima escursione, o forse
esplorazione o safari, guarda non so neanche come definirla, la organizzò Oscarito per
tramite della pescaia di Turiguanó.
Partimmo dalla Redonda, portammo la lancia a spalle, per strada, fino all’allevamento di
pesca da dove poi uscimmo in mare aperto.
In quella occasione l’ospite era un nordamericano che capeggiava un gruppo di pescatori di
black-bass: Steve Shoulder.
Il lanchero era “el Moro”. Dopo quella prima prova, le escursioni divennero regolari e
cominciò proprio così una specie di primitivo turismo nell’arcipelago del Nord.
“Scendevamo sempre nella zona di Playa Campismo, attraverso il Paso de la Lechuza,
proprio di fronte a Cayo Media Luna.
In quel punto – e questa è la caratteristica peculiare di Cayo Guillermo - la rena della
spiaggia era così fine da sembrare borotalco e le tonalità del mare, grazie alle maree ed alla
posizione del sole, cambiavano dal grigio fino al verde ed al blu profondo.
“I primi turisti credevano di aver raggiunto il paradiso: sia i primi americani come quegli
altri francesi arrivati per costruire la cartiera di Jatibonico e che scendevano ogni due
settimane all’hotel Moròn per proseguire in escursione a Cayo Guillermo, tutti erano convinti
di aver trovato il loro paradiso perduto.
I francesi arrivavano il venerdi e ripartivano da Cayo Guillermo la domenica.
Noi passavamo la notte in barca mentre loro se ne stavano sulla spiaggia, in tende e
baracche provvisorie. In caso di problemi, ci facevano segnali con una lanterna a petrolio.
“Di quei primi tempi ricordo vari aneddoti che dimostrano la maniera così rudimentale ed
artigianale in cui sorse il turismo nella cayerìa del nord.
Le situazioni di imbarazzo era la normalità, capitavano ad ogni momento: facevamo tutto
senza alcuna esperienza.
All’arrivo, prima con le lance e più tardi con lo yacht Tritón, non c’era un molo a cui
attraccare; il primo giorno il cuoco soffrì di mal di mare per il mare agitato e mancò poco che
gli ospiti restassero senza pranzare.
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Dopo - dato che il divertimento che potevamo offrire era davvero poco -, apparvero chissà
come quattro cavalli che davamo da usare agli ospiti perchè potessero girare per l’isola ma,
dato che lì non c’era nessuna pastura, i cavalli in poco tempo cambiarono aspetto, apparendo
come scheletri ambulanti a quattro zampe.
Poi, per non morir di fame, quelle bestie impararono a nutrirsi mangiando le nostre zuppe,
anche quelle di mare, con dentro granchi interi che i cavalli masticavano come se fossero le
crocchianti foglie secche del granoturco.
“A queste calamità bisogna aggiungere la mancanza di un barman abile nei cocktails e
comunque, insieme, la totale mancanza di ingredienti per preparare bene le bevande, anche
nel caso avessimo trovato il barman!
Ai francesi non piaceva il rhum puro e nemmeno con ghiaccio, e mi toccò di trovare una
soluzione, almeno per la prima volta, provando io stesso a confezionare i cocktails.
Preparai i mojitos - ed erano i primi che facevo in vita mia - e chiamai il subacqueo Jorge
Ordóñez per aiutarmi a portarli dalla barca alla spiaggia. I mojitos erano dodici, quindi
Ordóñez doveva fare sei viaggi dato che poteva portarne solo uno in ogni mano.
Al consegnare i primi due, il gruppo dei francesi cominciò a prenderlo in giro scherzando e
dicendogli che era un pessimo cameriere. Uno bravo doveva portare tutti i cocktail in una
volta sola! Scommisero con lui che sarebbe stato incapace di servire tutti i cocktail in una
volta e senza versarne il contenuto dai bicchieri.
Ordóñez accettò la sfida. Tornò alla barca, prese un salvagente, lo gonfiò, lo pose sull’acqua
mettendoci sopra, al centro, una tavola. Sulla stessa collocò i dieci mojitos e si inoltrò in
acqua verso terra trascinando quella specie di bar galleggiante che traballava sulle onde
come alla deriva. Arrivò in spiaggia con tutti i bicchieri pieni e indenni, vinse la scommessa e
si godette la ammirazione divertita di quei turisti francesi: era la prima volta che vedevano
un subacqueo trasformarsi dalla sera alla mattina in un sensazionale cameriere acquatico!
Il successo ottenuto da Ordóñez con il suo vassoio galleggiante li galvanizzò ed entusiasmò al
punto che il giorno seguente quegli uomini impegnati nel turismo di pesca, realizzarono
alcune catture magiche e inaspettate.
“Anzitutto per combattere l’abulia dei turisti, a volte stanchi di nuotare su quella spiaggia
solitaria; poi, per ammazzare la noia quando si erano già serviti con vassoi galleggianti e
salatini “speciali” e cocktail di grande fantasia; ancora, per neutralizzare il silenzio causato
dalla differenza di linguaggio tra noi e loro; infine, per contrastare l’inazione e garantire
quella che oggi si chiama la “animazione”, tutti quei miei colleghi che nella vita erano maestri
di scuola, tecnici specializzati, subacquei, capitani di barche, operai, contadini e chissà
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cos’altro, dovettero convertirsi in animatori, barman, impiegati, Tour Operators, specialisti
di sport marini etc….
“Ma anche così i problemi rimanevano dato che eravamo privi di qualsiasi mezzo, anche il
più elementare, per poter svolgere quei nuovi lavori. Ci aiutammo con l’ immaginazione e la
fantasia e, per esempio, invece di fare gare col catamarano (che non avevamo...) ci
inventammo le corse di granchi.
Prendevamo quelli più grossi e gli dipingevamo un numero sulla testa: ogni turista
identificava così il suo granchio-corridore.
Certo, la pesca era quello che più attirava i nostri turisti.
A quel tempo nessuno di noi aveva esperienza dell’arte della pesca con amo e lenza.
Nonostante questo, pescavamo sempre bene e con risultati molto positivi, non tanto per la
destrezza degli “specialisti in turismo” trasformati in pescatori ma davvero per la
benevolenza de pesci che passavano da quelle parti e abboccavano a qualsiasi ora e in
qualsiasi circostanza.
A volte non dovevamo neppure da lanciare l’amo per approfittare della bellezza del mare,
perchè apparivano i delfini che si mettevano a giocare viciono alla barca mentre le aguglie si
rincorrevano vicono al bagnasciuga.
Le notti, durante quei primi giorni di coloniturización di Cayo Guillermo, passavano lunghe e
tediose, cosicchè dovemmo ingegnarci ad intrattenere i turisti fino all’ora di andare a
dormire. Fu allora che comciarono le prime gare di “cocteleria” nell’arcipelago del nord.
Il bello era che i “barman” erano quegli stessi animatori che di giorno organizzavano le corse
di granchi, giocavano a pallavolo e montavano a cavallo; erano anche gli stessi che
pilotavano l’imbarcazione, pescavano, giocavano a carte, a scacchi e a tutto quello che voleva
il Cliente.“
***
Solo quando i safari dei francesi, dei nordamericani e italiani divennero sistematici, comparve
sulle sabbie di Playa Campismo il decano di tutti i veri barman della regione, Severo Morales,
che preparò i suoi primi miscugli su un tavolo di assi, esposto alle intemperie e rapido da
smontare ogni volta che il pilota della barca scrutava l’orizzonte con la sua vista di aquila e
annunciava l’arrivo del maltempo.
Fu così, con timonieri che cucinavano la peggiore cucina del mondo, animatori capaci di
organizzare corse di granchi, suabcquei diventati barman, vassoi galleggianti, pescatori che
non sapevano mettere l’esca nella lenza... che nacque il turismo ai Jardines del Rey.
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LA “COLONITURIZACIÓN” DI CAYO GUILLERMO
Il primo passo era stato fatto. I turisti restavano abbagliati arrivando su quella spiaggia, così
simile a quelle che avevano visto da bambini nei disegni delle fiabe di Walt Disney.
Dunque era giunta l’ora di creare la infrastruttura minima per fare turismo seriamente, e così
Oscar si propose, per prima cosa, di costruire alcune camere e dopo (ma questo non lo anticipò
ancora a nessuno) di arredarle per dare ospitalità ai turisti del nuovo paradiso.
Nelle sue visite a Cayo Guillermo, Oscar aveva notato di fronte alla spiaggia El Paso (oggi Playa
Gregorio) le rovine di una vecchia casermetta delle guardia frontiera.
Chiese a Mariano Deliz -Vitìco – allora capo delle truppe della guardia costiera di poter
costruire proprio lì le prime camerette e costui, senza capire lo scopo vero che aveva quella
richiesta, non solo gli consegnò i resti della casermetta abbandonata, ma con un atto solenne
segnò sul giornale di bordo giorno e ora in cui si effettuava la consegna ufficiale.
Pertanto Vitìco, con il suo logoro pantalone verde-ulivo e la camicia bianca con una scritta
appena intelligibile, non sospettava minimamente di essere diventato il complice
inconsapevole di un sogno che avrebbe trasformato i cayos del nord della regione di Ciego de
Ávila in una destinazione turistica internazionale.
“Era una baracca – ricorda Oscar García - con quattro pareti e il tetto di lamiera, con lo
spazio delimitato per 8 “camere”. Scoprii in quel momento che come architetto non ero poi
male, poichè disegnai la casa in un modo così pratico e rudimentale che mi rimasero 4
camere con vista al mare e altre 4 con vista sulle mangrovie.
Avevo utilizzato al massimo lo spazio disponibile...
“Il trasporto dei materiali per fare la casetta fu divertente. Portavamo i materiali da Punta
Alegre, che allora era il punto d’accesso migliore dato che il terrapieno era ancora solo nei
progetti. Da lì arrivavano le chiatte cariche di materiale e, da subito, con la prima spedizione
pagammo l’inesperienza della novità.
Infatti, nessuno aveva pensato all’assenza di un molo sul Cayo ed ai possibili problemi con le
maree e così mi trovai presto implicato in problemi seri.
Già al primo viaggio, arrivando a Guillermo uno dei costruttori mi fa:
“Bene Oscarito, siamo già arrivati. E ora come sbarchiamo tutta questa roba? Perchè siamo a
più di settanta metri dal bagnasciuga e non possiamo avvicinarci più neanche di un pollice. “
“- Buttate tutto sulle mie spalle, buttate su di me che sono un gran coglione il primo sacco di
cemento! Avrei dovuto pensarci prima io!” gli risposi senz’altro.
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“Il giorno successivo, quando si alzò la marea, riuscimmo ad avvicinarci di più alla spiaggia
e, anche se ancora con molta fatica, potemmo sbarcare tutto il materiale.
Lavoravamo lì vivendo in baracche di campagna.
Non si contrattò nessuna altra impresa: facemmo tutto col gruppo addetto ai lavori di
manutenzione della stessa Empresa Turistica di Ciego de Avila.
Si creò una grande mobilitazione di gente che offriva interere giornate indimenticabili di
lavoro volontario e gratuito. Dico indimenticabili perchè sono sicuro che nessuno abbia
dimenticato le condizioni brutali in cui costruimmo le primere camere ai Jardines del Rey.
Molte volte eravamo costretti a svegliarci all’alba per tuffarci subito in acqua fino al collo per
sfuggire ai morsi dei mosquitos”.
Nella sua instancabile ricerca di persone che promuovessero e patrocinassero il nuovo prodotto
turistico, Oscar García incontrò il primo straniero che si entusiasmò all’idea di sviluppare
turismo nell’acipelago del nord: l’italiano che già abbiamo visto gironzolare ai Jardines de La
Reina, a sud, Alfredo Bassani, allora direttore di Ventana, tour operator internazionale con
base a Torino.
Siamo alla fine del 1980, quando in una fredda notte, mentre Oscar García, Guataca e Bassani
pescavano caimani ai Jardines de la Reina, il primo riprese il suo chiodo fisso delle bellezze
delle spiagge del nord e del fatto che non fosse poi così difficile arrivarci.
Bassani si sentì subito affascinato dal racconto sopra quel pardiso terrestre e chiese di vedere
coi suoi occhi le fantasie che aveva appena udito.
Detto, fatto: il giorno seguente Oscar e Bassani erano già diretti verso Punta Alegre per
imbarcarsi su una lancia veloce con rotta verso Cayo Guillermo.
Ovviamente... la lancia non si trovava e fecero rotta verso l’Hotel Morón, albergo diretto dallo
stesso Oscar, pronti entrambi a riprovarci il giorno dopo.
Quella notte Bassani la passó in famiglia, perchè il bambino più piccolo di Oscar era di
compleanno e, tra birra Hatuey, ron (il rhum alla cubana), aguardiente, caffé, chicharrones di
porco (i nostri “ciccioli” fritti), riso e fagioli neri con carne arrosto, Bassani trascorse la sua
prima notte a Morón e l’ultima di quell’anno 1980.
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Il giorno seguente (1 gennaio 1981), uscirono presto la mattina verso Punta Alegre.
Stavolta la lancia li aspettava.
“Ci imbarcammo – riferisce Alfredo Bassani- con un marinaio molto esperto, ma del tutto
impotente con quella specie di imbarcazione simile a quelle che navigavano nel nostro Mar
Tirreno prima della venuta di Cristo.
C’era da aspettarselo e il motore della lancia si bloccò in mezzo al mare.
L’arte magica di questo marinaio con sangue vikingo, riuscì a farlo ripartire di nuovo e
potemmo continuare quella specia di spedizione alla ricerca del vello d’oro...”.
“All’arrivo vidi subito che non c’era nulla di nulla. Eravamo su in’isoletta deserta, come quelle
viste in film da ragazzi. Poi comparve un uomo (un muratore che era lì per costruire un
piccolo edificio, al momento tutto diroccato) con due cavalli famelici e magri come
ronzinanti. Li cavalcammo, a fatica, e come in una carovana araba attravreso il deserto,
facemmo un giro dell’ isola.
L’unica differenza con il deserto era la presenza di una vegetazione bassa, simile alla nostra
macchia mediterranea, e una fauna di fenicotteri, colibrì e pellicani che comparivano lungo il
nostro cammino.
Ma allla fine di quella strana visita sapevo con certezza che Oscarito aveva ragione: il futuro
era lì, nelle isole del nord”.
Il tempo trascorse ed i lavori a Cayo Guillermo stavano per terminare.
La vecchia caserma della guardiafrontiera aveva preso un aspetto più degno.
I rari turisti continuavano a montare le tende a Playa Campismo (oggi Playa Pilar).
Alfredo Bassani aveve nel frattempo lasciato Ventana passando a collaborare con l’agenzia di
viaggi Business Tour, sempre di Torino, società che tentò, come vedremo, di commercializzare
turismo a Cayo Guillermo, ma che a causa delle condizioni davvero primitive delle
infrastrutture turistiche disponibili sul posto, dovette rinunciare e prendere atto che era
un’operazione impossibile.
Accadde lo stesso alla agenzia Press Tour, di Milano, diretta da Fulvio Badetti.
Di questa fase primitiva, la cosa più importante per la nostra storia è la stampa e distribuzione,
nel 1984, da parte di Bassani di un primo catalogo su Cayo Guillermo, il quale, anche se privo
di immagini, raccontava già le notizie necessarie per emozionare i pescatori italiani.
Cominciarono comuqnue ad arrivare, oltre ai pescatori nordamericani alla Laguna La Redonda
ed ai francesi impegnati nella costruzione della cartiera di Jatibonico, i primi gruppetti di
canadesi con altri clienti finalmente di altre latitudini, e poco a poco fu la stessa domanda e
presenza di turismo a produrre il perfezionamento delle infrastrutture.
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Per la precisione storica, annoto che Havanatur fu la prima entità ad appoggiare la Empresa
Turística de Ciego de Ávila nel suo impegno di convertire la casa di guardacoste frontaliero in
camere per turisti.
“Havanatur ci procurò i condizionatori d’aria - aggiunge Oscar García -, i frigoriferi ed alcuni
altri materiali che la Empresa non riusciva a reperire mentre per loro era più facile essendo
Tour Operator internazionali.
Così furono anche loro tra i primi commercializzatori di Cayo Guillermo, quando erano
davvero molto pochi quelli che ci credevano
Il compagno Núñez, ora scomparso, Pepe ed altra gente di Havanatur mi appoggiò fin dagli
inizi, da quando i progetti erano ancora in embrione. Cooperarono, investirono denaro e,
soprattutto, mi davano la loro piena fiducia.”
Oscar García si rese conto della necessità di trasportare a Guillermo una imbarcazione
adeguata alla pesca e tanto fece e brigò da riuscire infine ad avere una bella barca, la più bella,
il Macabí, alle spiagge del nord.
In tal modo, con l’opzione della pesca, una villa con otto camere che battezzò con il nome di
Villa El Paso, ispirandosi a qualche film western, quattro cavalli che masticavano granchi a
tutte le ore, un pieghevole di viaggio senza foto e le spiagge più belle dei Caraibi, si riuscì a
garantire una proposta credibile di ospitalità turistica in uno dei più trasparenti isolotti dei
Jardines del Rey.
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SPEDIZIONE DECISIVA A CAYO COCO
Ci furono vari avvenimenti che aiutarono a che le idee di Oscar García sullo sviluppo delle isole
del nord prendessero forza, poichè non molto tempo dopo le sue prime puntate a Cayo
Guillermo successe qualcosa che oggi sappiamo dette una gran virata alla storia e che segnò
una nuova tappa nelll’ulteriore sviluppo dei Jardines del Rey: si decise di gettare un
terrapieno dalla costa nord attraverso la penisola di Turiguanó fino a Cayo Coco e che, in
seguito, arrivò a collegare lo stesso Cayo Guillermo.
Vale la pena una piccola digressione per annotare come si costruì, in quei tempi in cui tutto
doveva divenire storico, la strada sul mare che permise il gran sviluppo futuro della regione di
Ciego de Avila.
Ci fu, anzitutto, una spedizione decisiva. Si attraversò la Bahía de Perros in una frágile
imbarcazione dal nome femminile, per andare a porre le idee ed i sogni nelle mani di coloro i
quali riescono a realizzare le chimere umane: i costruttori.
La barca si chiamava Adéla e della spedizione facevano parte alcuni dirigenti del Partito e del
Governo della regione e della città di Moròn: tra loro, Rafael Valdés, Miguel Aguilar e altro
personale di diverse imprese.
Ognuno lanciava per aria la sua opinione; alcuni, erano sognatori in eccesso; altri scettici a più
non posso, ma nessuno eccetto Valdés e Aguilar, sapeva con certezza cosa avrebbero fatto dopo
lo sbarco a Cayo Coco.
I più non conoscevano neanche la ragione precisa, il motivo che li conduceva in quei luoghi
appartati e nessuno, assolutamente nessuno, sospettava che sarebbero stati i protagonisti di
una riunione trascendentale, decisiva per il futuro sviluppo della regione e dell’intero Paese:
una riunione semplicemente storica.
Adéla percorse senza difficoltà la Boca del Jato e il Canal de la Pasa, i due stretti marini che
separano Cayo Coco da Cayo Romano. La barca attraccò nella Ensenada de Bautista alle
cinque della sera, dopo aver navigato tra canaletti e bassi fondali per tutto il giorno.
All’arrivare, videro solo un casolare macilento nel bel mezzo di una natura desolata.
Neanche i più sognatori avrebbero potuto immaginare che stavano camminando in quello che
sarebbe stato il centro di una grande area con edifici, bar, casa di cultura, organismi statali,
imprese, centri commerciali, un aeroporrto internazionale e un porto per navi anche da gran
crociera.
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Nella località di Bautista, gli improvvisati uomini di mare saltarono su un carretto tirato da un
trattore, guidato lungo l’isola fino a La Jaula dall’abitante più autoctono e antico di Cayo Coco:
Guajaco.
Rafael Valdés stava seduto nel trattore a lato dell’autista - prima inconsapevole guida turistica
di Cayo Coco. Gli altri sulla carretta, col terreno sconnesso della strada bianca, erano sbattuti
più che su una barca col mare mosso.
Avanzavano seguendo i vecchi sentieri usati dai carbonai per il trasporto dei sacchi di carbone
vegetale fino al molo di La Jaula, cercando di schivare continuamente i colpi dei rami contro le
facce.
Man mano che si inoltravano nel cayo, le folle di mosquitos e jejenes (minuscoli insetti che
procurano forti pruriti etc...) aumentavano.
Molti si chiedevano perchè non avessero continuato in barca fino al molo de La Jaula, se infine
l’imbarcazione doveva attraccare proprio là.
Presto capirono che quel largo giro da Bautista a La Jaula attraverso la collina era stato deciso
da Valdés per compiere una vera e propria esplorazione di quelle zone ancora sconosciute.
Così, anzichè vedere solo le spiagge, che avrebbero visto counque al ritorno, mentre così
avrebbero avuto una idea di com’era il paesaggio e le condizioni naturali che presto avrebbero
dovutro affrontare alcuni di loro, ancora non designati, che presto avrebbero avuto l’incarico di
ampliare quei sentieri ed aprirne di nuovi, che poi si sarebbero trasformati in veri e propri viali
e strade pavimentate.
Era un tragitto di circa dieci chilometri, ma a loro parve un viaggio all’infinito.
La notte, in mezzo a quelle colline, diventò la piùàscura di quelle che avevano visto. Guajaco
avanzava senza impedimenti, più che per esperienza del terreno che per quello che scorgevano
le deboli luci dei fanali del trattore.
Un giro completo del volante a destra e l’inconfondibile rumopre delle onde sulla sabbia
marina, segnalarono che stavano avvicinandosi alla meta finale.
I maiali selvatici che ogni giorno si avvicinavano in cerca degli avanzi della mensa del
Diaprtiemrnto Flora e Fauna, scapparono al rombo del trattore che si arrestò proprio davanti
alla porta della cucina. Erano le nove e mezza di sera e una brezza debole soffiava dal mare.
La riunione cominciò alle dieci, proprio nella mensa. Fu un discorso breve e preciso.
Rafael Valdés riportò le idee di Fidel riseptto alle spiagge della regione di Ciego de Avila.
Poi si parlò degli arenili chilometrici di Cayo Coco e Guillermo e, alla fine, senza altri giri di
parole, si concluse che bisognava fare una strada sul mare per poter sfruttare quelle spiagge.
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Intorno alla mezzanotte, alcuni erano già molto stanchi sia del lungo viaggio sia della lunga
riunione notturna e si reggevano quasi nel dormiveglia, ma quando Valdés disse che bisognava
“fare una strada sul mare,” si svegliarono tutti con un salto sulla sedia.
Sussurri e sorrisi di incredulità nelle facce di alcuni; altre facce serie e compunte.
Una frase su tutte, anche se detta a bassa voce: “ma questa è una pazzia!”.
Aggiunse Valdés, alzando la voce con tono grave sui mormorii:
“E tocca a Evelio Capote fare i primi cento metri per dimostrare al Comandante se la strada
si può fare oppure se è davvero una pazzia...”.
La sottile maglia metallica che copriva porte e finestre della mensa impediva l’accesso ai
mosquitos, ma lasciava l’aria fresca trapassare la rete finissima.
Intorno alla mezzanotte, al termine della riunione, si diffuse un penetrante profumo di caffè da
bar, cioè da mensa operaia, voglio dire di quel buon caffè che si fa colandolo da un filtro di tela.
Il buon odore si impadronì del recinto e dietro lui apparve il cuoco di Flora y Fauna con un
vassoio di latta pieno di bicchierini di alluminio. Potevano appena tenerli tra due dita,
scottavano, ma preferivano bruciarsi piuttosto che lasciar raffreddare il prezioso infuso.
Bevuto il caffè, i fumatori accesero una sigaretta e fu così che piano piano, tra il fumo e la calma
dell’alba, quegli uomini cominciarono a cedere alla realtà pura e semplice: stavano proprio
decidendo di intraprendere un lavoro per realizzare un’opera da matti.
L’Adéla se ne stava alla fonda nel molo di La Jaula, dondolando alle spinte delle onde.
Alla fine della riunione, si diressero tutti insieme verso la barca, guidati dalla luce debole che
emanava dall’interno della stessa. Visti da lontano apparivano come disperati naufraghi
ambulanti su un’isola deserta, ma in mezzo al gruppo gravitava ormai uno spirito di ottimismo
ridente che preannunciava il successo della missione.
Il comandante della barca, anche lui aveva “colato” caffè, così che tornarono a bere e fumare,
gettati in coperta.
Al sorgere alto del sole, il comandante dell’Adéla levò l’ancora, sciolse le funi e navigò verso est.
Doppiò la Punta del Puerto e passó per le spiagge di Flamenco e Las Coloradas, molto
ammirate dai passeggeri a bordo.
Continuó bordeggiando Cayo Coco, oltrepassò di nuovo la Ensenada de Bautista, superando
Punta Almácigo e incrociando il Canal de la Pasa per mettere la rotta a sud in cerca del porto
dello stabilimento di pesca dell’Isola di Turiguanó, dove infine arrivarono alle quattro del
pomeriggio.
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A Evelio Capote era toccata la missione – come dice il ritornello - di “tirare la prima pietra”.
Scelse gli uomini che avrebbero dato inizio a questa storia con lui e che a suo tempo avrebbero
fondato tutti insieme anche il Contingente Roberto Rodríguez, El Vaquerito, e partì con loro su
un camion fino a un luogo appartato dell’isola di Turiguanó.
L’inventario, per iniziare, era davvero povero e anche troppo eterogeneo.
Quattro uomini disposti a fare qualunque cosa, però senza sapere di sicuro cosa fare; tre donne
senza un incarico di lavoro ben definito, ma con la certezza che in qualsiasi momento
avrebbero dovuto accendere il fuoco e cucinare in pentole rustiche sulla spiaggia e sotto il cielo
blu, oltre agli altri compiti che gli avrebbero assegnato; un camion a pianale rigido al quale si
sarebbe potuto assegnare un premio per essere l’automezzo col più alto consumo di
combustibile; una spiaggetta con alcune baracche desolate, abitate solo da alcune famiglie in
villeggiatura estiva povera e militarizzata già dai tempi delle lotte di indipendenza e una baia
con quello strano nome, Bahía de Perros, la Baia dei Cani, ma con l’acqua alla profondità
giusta per buttarci dentro pietre su pietre e poi ricoprire con asfalto.
Questo era quello che c’era, quel 29 de marzo del 1983, niente di più e nulla di meno, solo
questo e insomma bisognava cominciare a gettare il terrapieno.
100
L’ÚLTIMO PARAÍSO intraprende una lunga traversìa
E’ sicuro che i tentativi compiuti dai Tour Operators italiani Business Tour e Press Tour, di
commercializzare Cayo Guillermo come prodotto turistico commerciale fallirono proprio sotto
il profilo commerciale.
Non fu così dal punto di vista della pubblicità subliminale. Cayo Guillermo ruppe il suo silenzio
millenario e cominciò a rivelare i suoi misteri al di là dei mari.
A molti italiani, quando pensavano ai Caraibi e cercavano un luogo solitario ed isolato con
assolate spiagge di sabbia finissima, prese a venire in mente quel piccolo punto del globo che
sulle mappe si vedeva appena galleggiare dentro il blu della Corrente del Golfo.
Correva l’anno 1985 quando Sisto Gungui, a quel tempo funzionario della Direzione Generale
di Italturist, durante il suo primo viaggio all’hotel galleggiante dei Jardines de la Reina mentre era interessato a commercializzare un turismo di caccia e pesca ricevette un invito da
Oscar García per trascorrere in famiglia un giorno a Cayo Guillermo.
Bisogna annotare che l’invito non fu del tutto casuale ma fatto proprio con tutte le intenzioni di
tentare la fortuna con questo dirigente di una importante agenzia italiana di turismo.
Una mattina estiva di agosto partirono in lancia veloce diretti a Playa Campismo, che apparve a
Sisto come una enorme piscina naturale.
Lì, all’ombra di alcuni rami di palma da cocco tenuti su da bastoni infilati nella sabbia, Oscar
gli parlò dei suoi sogni ricorrenti su Cayo Guillermo, gli raccontò quanto era riuscito a
realizzare fino a quel punto e accennò alle sue premonizioni, alle sue visioni sul futuro
dell’isola.
Alcuni giorni dopo, nel corso di una discussione di lavoro che verteva sul modo migliore di
utilizzare l’hotel galleggiante dei Jardines de la Reina, Sisto suggerì ai presenti (c’erano Oscar
Garcia ed alcuni membri del Consiglio Direttivo dell’Empresa Turística de Ciego de Ávila)
l’idea di spostarlo dalle isole del sud all’arcipelago del nord, per ancorarlo proprio di fronte a
Cayo Guillermo e utilizzarlo come boutique-hotel di spiaggia ma anche come base di pesca e
immersioni subacquee.
- Non ho più dimenticato – mi riferisce Sisto Gungui nell’intervista esclusiva per questo libro –
le aperte risate dei presenti e la risposta divertita di Oscarito:
- Sisto, quello che mi stai proponendo è un pazzia totale! Ma ti rendi conto che spostare quella
piattaforma galleggiante significherebbe la circumnavigazione di quasi metà dell’intera
costa di Cuba! Dovremmo navigare almeno 3 o 4 settimane, rimorchiandola con un’altra
barca. Credo che si correrebbero rischi immensi.
101
- Oscarito – gli risposi serio e deciso -, per il momento non riusciremo in nessun modo ad
ottenere qualcosa di grande e interessante a Sud, mentre a Nord, se riusciamo ad avere
“qualcosa” a Cayo Guillermo, allora sì che potremmo pensare ad uno sviluppo fantastico.
Capisco che ci sono rischi, ma se manteniamo l’hotel galleggiante a sud, per me non andiamo
da nessuna parte... Comunque, pensaci bene e fammi sapere cosa deciderai”.
In quel momento Oscarito non aggiunse nulla.
Il suo silenzio durò giusto il tempo di consultare il suo cuscino per una notte ed alcuni
compagni dell’Empresa, tra cui Eddy López che aveva girato per gli isolotti del nord e
conosceva i vantaggi degli stessi rispetto a quelli del sud e ne era tamente convinto da essere
diventato il suo primo alleato.
Sisto tornò in Italia e il tema del trasferimento de La Patana non fu più menzionato.
Un giorno di ottobre, passati appena due mesi da quella proposta azzardata, Oscar García, dal
suo ufficio, alzò la cornetta del telefono e e chiese all’operatrice internazionale di parlare con
l’Italia.
- Per favore con il número 0266715125 di Miláno, col signor Sisto Gungui, da parte di Oscar
García.
- Il signore accetta la chiamata. Parli, prego.
- Sisto, “La Patana” è già in navigazione sulla rotta per Cayo Guillermo!
Quelle parole, così semplici a dirsi per telefono, nascondevano in ogni sillaba tanti giorni di
incertezza, di lavoro ininterrotto, di consultazioni con vecchi lupi di mare, di tanto pessimismo
e, soprattutto, di molto ottimismo.
Il trasferimento della Patana si era convertito nel progetto centrale e nevralgico della Empresa
Turística nella regione di Ciego de Avila.
I marinai esperti assicuravano un pieno successo al trasferimento, sempre e quando il
maltempo non si impegnasse a dimostrare il contrario, una possibilità da non escludere se
consideriamo la stagione dell’anno in cui si realizzò il viaggio di spostamento.
Oscar García era partito alcuni giorni prima con il Macabí, a quel tempo la migliore
imbarcazione disponibile in tutta regione avileña, per cordinare i rimorchiatori che avrebbero
trascinato La Patana e per altre questioni di vitale importanza.
Il tragitto era tracciato per navigare verso Est, per doppiare la Punta di Maisì e proseguire
verso nord-ovest costeggiando la costa settentrionale di Cuba.
A Santiago de Cuba li sorprese un maltempo molto pericoloso, ma riuscirono con fortuna a
ripararsi dentro la grande baia.
La Patana andava seguendo la stella cometa disegnata dal solco di schiuma lasciato dal Macabí,
ma il suo tracciato nautico fu gravato di altre penurie e difficoltà.
102
Per primo si ruppe un rimorchiatore del porto di Júcaro, subito sostituito da un altro
rimorchiatore a Santiago de Cuba e fu proprio quello a condurre La Patana fino a Cayo
Guillermo.
Il viaggio durò molto più di 2 settimane, anche se non tutti furono giorni di navigazione perchè
ci si dovette fermare in diversi momenti per evitare grosse mareggiate e i pericolosi venti del
nord.
Se non fosse stato per la perizia dei comandanti di entrambi i capitani dei rimorchiatori, La
Patana non sarebbe giunta alla sua meta.
Se solo il maltempo che aggredì il Macabí davanti a Paredón Grande – nel quale la barca fu
sul punto di perdere la chiglia e il suo equipaggio la vita... - avesse colpito La Patana, questa
senza alcun dubbio avrebbe dovuto subire lì una fine rovinosa.
Alla fine, la lucida follia di Sisto Gungui e Oscar García di tentare il diavolo con qualcosa di
impossibile, si era convertita in realtà e La Patana fu ancorata a Playa El Paso, di fronte al
vecchio quartiere della guardiafrontiera trasformato nelle prime otto camere dell’arcipelago del
nord, i mitici Jardines del Rey.
La ragione dell’ancoraggio in quel punto esatto è dipinta un labirinto di prove e tentativi che
preferisco sia spiegato dallo stesso Oscar García:
“La decisione sul luogo di ancoraggio fu molto complicata. Se mettevamo la Patana
attraccata al molo, quando veniva la bassa marea, la chiatta si appoggiva sul fondo e così
non andava bene.
Bisognava metterla in un punto dove, quando veniva la bassa marea, potesse ancora
galleggiare, anche se avremmo avuto altri inconvenienti perchè se la ancoravamo in un posto
proprio come fosse una barca classica, si muoveva e rollava tutta per il vento, mentre se
avessimo tentato di fissarla, ma proprio fissa e rigida in acqua, non avrebbe fluttuato ma
poteva staccarsi e saltare, senza che niente e nessuno potesse reggere la spinta di un mare
forte.
Se invece l’avessimo collocata molto al largo, anche così non andava bene; ma anche tenerla
tropppo accostata a riva aveva i suoi inconvenienti... insoma era una cosa difficile!
Infine, trovammo un punto il più possibile giusto e forse unico, e cominciammo ad affrontare
il problema di come collegare la corrente elettrica. Si, all’inizio La Patana aveva un suo
generatore ma era insufficiente e presto dovemmo portare l’energia da terra, collegando un
altro generatore più grande.”
103
La Patana, El Ultimo Paraiso, The Last Paradise, l’Hotel Flotante, insomma... La Patana
arrivò molto danneggiata e ferita a causa delle mareggiate d’ottobre, ma non distrutta e
sconfitta. Bastarono solo alcuni mesi alla Empresa Turística di Ciego de Ávila per rimetterla in
opera e tornare ad essere un fantastico hotel galleggiante, ma questa volta immerso nei
Giardini del Re anzichè in quelli della Regina!.
“La Patana fu l’Incrociatore AURORA del turismo avileño”.
Questa poética definizione uscì a Oscar García dalla sua anima, un mattino piovoso in cui ci
trovammo a chiacchierare sulla tristissima sorte finale dell’Hotel Flotante.
Era una piattaforma di ferro-cemento e i suoi ferri arrigginiti, quando qualcuno considerò che
non serviva più quell’armamentario a Guillermo, furono smantellati e portati al porto di
Caibarién. La Patana non ebbe neppure una degna sepoltura nella sua terra, quella a cui aveva
regalato tanta gloria turistica.
“Quando uno non conosce il vero valore che hanno le cose, è facile distruggerle.
La Patana, poteva almeno essere convertita in un oggetto da museo, un autentico pezzo di
sentimento, il miglior testimone della nascita del polo turistico dei Jardines del Rey”.
Così parlò Oscarito, mentre ammiravamo una foto in cui La Patana risplendeva, come una
giovinetta nei giorni del suo massimo splendore.
104
ALLA RICERCA DEI PRIMI CLIENTI
Con l’arrivo della Patana non tutto si colorò di rosa, perchè nello stesso periodo si abbattè
sull’arcipelago del nord il ciclone Kate che distrusse quello che si era ristrutturato nella stessa
Patana, buttò per terra una parte della casermetta della gaurdiafrontiera e lasciò coloro che
cercavano di coloniturizzare Cayo Guillermo senza il pozzo naturale che li riforniva di acqua
potabile.
Con grande disperazione si provò a perforare alcuni altri pozzi, ma l’acqua che affiorava era
puro zolfo, di modo che in quelle condizioni si sarebbe potuto fare solo un turismo
“medicinale”, infatti quell’acqua sulfurea curava le affezioni della pelle!
L’urgenza per imprimere a Cayo Guillermo un aspetto anche solo umilmente fotografico,
diciamo per dargli una qualche atmosfera “turística”, era tale che Sisto e Oscar decisero di
piantare al più presto lungo tutta Playa El Paso (oggi Playa Gregorio), 500 (cinquecento…)
palme da cocco.
Il bello è che dovettero piantarle proprio loro due, perchè dal vivaio di Moròn le piantine di
cocco arrivarono subito sull’isola, mentre ancora non c’era stato tempo per contrattare nessun
operaio.
Oscar e Sisto, soli, sotto un sole cocente, misurando a passi la distanza tra una piantina e
l’altra, piantarono cocchi dall’alba al tramonto e quel giorno non mangiarono nulla ma
bevevano tantissimo, acqua e rum, rum e acqua.
Alla sera, incredibile ma vero, una fila lunghissima di foglie verdi decorava tutta Playa el Paso,
inaugurando il futuro della prima piantagione di palme da cocco di tutto l’arcipelago del Nord.
Nel frattempo, bisognava cercare turisti per riempire le otto camere della vecchia casermetta
guardafrontiera, più le dodici camere dell’Hotel Flotante.
Sembrerebbe una cosa facile, ma bisogna considerare la concorrenza spietata che vige tra le
diverse destinazioni turistiche del globo terrestre nella lotta per portare il gatto all’acqua (come
diciamo a Cuba...).
In realtà era una sfida da intraprendere con grande intelligenza, buona volontà e una certa
buona dose di fortuna.
I primi clienti arrivarono proprio attraverso Flamingo, la società turistica e alberghiera di Sisto
Gungui. Non erano grandi gruppi, ma arrivavano con una buona regolarità.
105
Tuttavia, nel suo impegno per sviluppare il turismo sull’isolotto appena risollevato, Oscar
García si propose di promuovere anche escursioni giornaliere allo stesso.
L’idea non era del tutto scapestrata, ma di sicuro temeraria dato che le infrastrutture erano
ancora ad uno stato molto lontano dal permettere che operazioni di quel tipo riuscissero in
modo semplice e normale.
Erano insufficienti sia le condizioni materiali che il personale umano: ma l’elenco delle
mancanze nell’uno e nell’altro campo comporrebbe una lunga elegia di troppe pagine.
Per dimostrare che non esagero e non sono in cerca di effetti speciali per mantenere viva
l’attenzione del lettore, citerò gli incidenti occorsi in 2 sole di queste escursioni.
La prima escursione diretta a visitare Playa Campismo (oggi, Playa Pilar) - è quella storica
organizzata da Oscar García in partenza dall’antica città coloniale di Trinidad.
“Sapevo che a Trinidad c’erano moltissimi turisti – mi dice lo stesso Oscar - e dunque decisi di
andarli a prendere.
Riuscii a contattare la rappresentante tedesca di un grande Tour Operator, basata presso
l’hotel Ancón e ci accordammo per l’escursione di un giorno intero, da fare con un aereo da
turismo, un Antonov AN-2, da 12 posti.
Avvisai la stampa locale in modo tale che coprissero la notizia di quella prima escursione a
Cayo Guillermo.
“Arrivò quel giorno e ci recammo insieme a El Asiento, vicino a Chambas, che era il punto
dove l’Antonov poteva effettuare l’atterraggio.
Al nostro arrivo comincò a cadere un acquazzone di mquelli che non ti lasciano vedere a un
passo davanti a te. Verso le dieci del mattino, in mezzo alle nubi e alla pioggia apparve il
piccolo aereo e il piolta, con perizia, riuscì a scendere sulla pista di El Asiento. Mi chiedo
ancora oggi come avesse fatto ad atterrare con quelle condizooni climatiche, tali che della
prima escursione a Cayo Guillermo non rimase alcuna testimonianza visiva e i giornalisti
dissero che sotto quella pioggia torrenziale non era possibile nè filmare nè scattare foto.
Rimase tutto nella memoria di quelli che eravano presenti.
“Da lì viaggiammo con un piccolo pullmann fino a Punta Alegre, dove ci imbarcammo per
Cayo Guillermo. I Clienti erano allegri e soddisfatti e noi con loro perchè tutto andava di
meraviglia. Alle quattro del pomeriggio cominciammo il viaggio di ritorno.
La traversata marittima fino a Punta Alegre trascorse senza novità, ma quando prendemmo
l’ómnibus che doveva portarci a El Asiento, dove stazionava il nostro velivolo, avemmmo un
contrattempo e un incidente con il guado del río Chambas, perchè l’automezzo non poteva
passare sul ponte e non ci restò altro che far salire i turisti su un autocarro agricolo e così
portarli sull’altra riva e fortarli infine sulla pista di volo.
106
“Quando il pilota aveva già tutti a bordo e si disponeva al decollo, si girò e mi disse che
l’aereo non partiva. Io pensai a uno scherzo e non risposi. Allora mi ripetè, con la faccia più
seria del mondo:
- Oscar, questo non parte perchè si sono scaricate le batterie.
- E ora cosa facciamo con tutta questa gente a El Asiento, in mezzo a una pista che è un
campo allagato e senza alcuna possibilità di far arrivare qui un autobus per portare la gente
a Trinidad via terra? –chiesi atterrito.
“Un certo solliveo disperato mi invase lo spirito quando il pilota mi disse che l’aereo poteva
partire con altre batterie, anche di trattore, di automobile, ma comunque ci voleva energia
per muovere i motori.
Eravamo in mezzo ai campi: neanche aveva terminato la frase che io ero già fuori a chiedere
la batteria al primo trattore che vidi al lavoro lì attorno. Poi facemmo lo stesso con altri
trattori finchè non avemmo le batterie sufficienti a provare la manovra.
Poi si pose il problema dei cavi: non ne avevamo un solo centimetro di modo che dovemmo
utilizzare i fili di ferro staccati da una staccionata. Finalmente, come diciamo noi cubani nel
gergo dei venditori ambulanti, “prendemmo al laccio il velivolo” e quello partì senza
protestare. Il pilota mi assicurò che non c’era da preoccuparsi ma ad ogni modo mi chiedeva
di chiamare Trinidad perchè portassero in pista i mezzi dei vigili del fuoco, automobili e
qualsiasi altra cosa potesse servire per far luce, dato che si arrivava di notte e la pista di
Trinidad era priva di illuminazione!
- Oscarito - gridó il pilota un attimo prima di partire – non dimenticarti di chiamare perchè
se non illuminano la pista, devo stare in aria volando finchè non finisca il combustible e mi
caschi l’aereo.
“Tipico buon esempio di humour-nero alla cubana!
Ovviamente mi attaccai al primo telefono e non smisi finchè non riuscii a trasmettere con
sicurezza quell’SOS, dal quale dipendeva la vita dei primi escursionisti ai Jardines del Rey”.
107
L’altra escursione “magica”che Oscar García portò a Cayo Guillermo fu più ambiziosa: quattro
aeromobili da Varadero.
Questa volta l’atterraggio avvenne sulla pista di Turiguanó senza contrattempi o spaventi.
Da lì, sempre un autobus e attraverso il terrapieno, fino a La Jaula dove li attendeva la barca
per Cayo Guillermo.
I piloti non avevano comunicato a Oscar un piccolo particolare: per ragioni tecniche di
programmazione di volo, dovevano essere in aria al ritorno già alle quattro del pomeriggio.
Ma quando quell’ora arrivò i turisti se ne stavano ancora in acqua, sulla spiaggia, bevendo
tranquilli, allegri e, insomma, molto felici.
Arrivarono alla pista di Turiguanò verso le sei della sera e non videro gli aerei.
Quando Oscar chiese, gli dissero che gli aerei erano partiti esattamente alle quattro!
I turisti protestarono e ci fu un mezzo ammutinamento, cosicchè Oscar dovette trovare una
soluzione e l’unica era prendere un autobus e viaggiare, insieme con tutti i turisti, prima così
felici ed ora gonfi di malumore, fino a Varadero!
Nei tempi in cui la parola d’ordine era promuovere La Patana, arrivò all’Hotel Morón un
funzionario del governo italiano, in visita a Cuba.
A Gilberto García affidarono il compito di attenderlo e la prima cosa che fece fu... descrivergli
la belleza unica ed esclusiva di Cayo Guillermo.
Il funzionario accettò l’invito di buon grado e tale fu l’emozione per la singolarità della Patana,
la bellezza luminosa delle spiagge, tutta la natura abbagliante, che mandò a prendere il suo
bagaglio all’Hotel Morón e si ospitò alla Patana!
Il giorno seguente noleggiò un elicottero per spostarsi fino ai Jardines de la Reina, di cui gli
avevano parlato come di un incanto.
“Arrivammo con l’elicottero a Caballones – annota Gilberto García - ma non vedemmo alcun
luogo sicuro di atterraggio. Allora i piloti di Gaviota, uomini sempre molto esperti,
descrissero un giro molto ampio e provaraono a posarsi su sulla sommità piana di una
collinetta. Al momento di toccar terra, uno dei piloti ci disse di mantenerci seduti e allacciati
perchè ci eravamo posati su un cimitero di conchiglie e l’elicottero poteva capovolgersi.
Riprendemmo quota e scendemmo infine su terra ferma in un altro posto.
Scendendo dall’elicottero, la prima cosa che vedemmo fu un pozzetto ricolmo d’acqua e una
coppia di pappagalli che giocherellavano. “
***
108
Una delle persone che pose il massimo del suo impegno nella promozione della
Patana fu il già citato italiano Alfredo Bassani. L’aveva entusiasmato l’idea di quanto fosse
paradisiaca l’idea di un hotel “galleggiante”su quel piccolo isolotto desolato che gli era capitato
di girare a cavallo, cosicchè quando ebbe conferma che La Patana era già pronta per ricevere
turisti, volle essre dei primi a bersi un un mojito, con una buona dose di yerbabuena
(mentuccia) ben schiacciata, seduto al piccolissimo bar di coperta.
E il 31 diciembre del 1986, non solo potè bersi il suo mojito, ma brindó all’avvento del Nuovo
Anno con l’Ambasciatore d’Italia a Cuba, l’incaricato d’Affari ed altri funzionari della stessa
Ambasciata, da lui invitati perché potessero conoscere il significato vero di una realtà
meravigliosa. La cena di capodanno sulla Patana era stata magnifica. L’Ambasciatore d’Italia a
Cuba e i suoi compagni erano estasiati ed auguravano un gran futuro a quell’hotel galleggiante
ancorato sull’isola dei sogni. L’unico inconveniente che venne a turbare la festa fu che il
creatore di tutte quelle chimere, Oscar Garcia, non potè ascoltare tutti quegli elogi perchè la
lancia sulla quale viaggiava se ne era rimasta alla deriva, senza combustibile, molto vicino a
Cayo Guillermo. Fu così che mentre Bassani e i diplomatici mangiavano e brindavano come
trimalcioni, a Oscar García, novello Sancho Panza dei Caraibi, non rimase altro rimedio che
consolarsi aspettando l’anno nuovo sotto le stelle, a digiuno completo, in mezzo al mare.
Il giorno seguente, dopo l’alba, Oscar arrivò alla Patana e per prima cosa si precipitò a mitigar
la fame della cena saltata... Era arrivato, per di più, bagnato fino alle ossa perchè quel primo di
gennaio era nato sotto l’effetto di un fronte di aria fredda con piogge, vento e mare mosso.
Bassani mise al corrente Oscar del positivo avvenimento della notte appena trascorsa e si
predispose a preparare la documentazione per poter firmare un contratto tra la Empresa
Turística di Ciego de Ávila e Techno Italia (Società di Import-Export di Franco Lucchetta),
rappresentata a Cuba dallo stesso Bassani.
Ma l’interesse di Lucchetta di inviare pescatori “hemingwayani” al Canal Viejo di Bahamas –
punto sostanziale del contratto che voleva firmare Bassani – alla fine venne a cadere seguendo
lo stesso destino di altri progetti con altri Operatori italiani, come i già citati Business Tour e
Press Tour.
Non può essere negata, a questo punto, l’esistenza di una forza maggiore e inspiegabile che
faceva sì che tutti i contratti con la prima isola conquistata nell’arcipelago del Nord, finissero in
malora.
Sembrava quasi che una forza maggiore e fatale avesse deciso che bisognava aspettare il
momento e le persone giuste. Infatti, dovettero trascorrere ancora alcuni anni affinchè il primo
contratto di commercializzazione della Patana, e cioè di Cayo Guillermo come prodotto
turistico, si convertisse in realtà.
109
LA BODEGUITA DE GUILLERMO
L’idea di aggiungere alle otto camere che costituivano Villa Oceano un luogo in cui gli ospiti
potessero bere e mangiare fu senz’altro di Sisto Gungui.
Fin dal principio si pensó a qualcosa di piccolo, con capacità per una ventina di persone nella
zona ristorante e dodici sedili, uno vicino all’altro lungo un classico bancone bar a forma di L.
Le grandi finestre di cristallo trasparente non contrastavano col tetto di assi di legno, al
contrario fromavano parte di una architetturapiù che eclettica, liberale e, più che liberale,
funzionale, dato che il tutto permetteva a chi beveva o mangiava all’interno e guardava
attraverso i cristalli, di avere la sensazione di navigare sulle onde del mare.
Nacque così la Bodeguita de Gregorio (in omaggio al celebre patrón del Pilar, lo yacht di
Hemingway), che divenne subito parte essenziale della desolata geografía del cayo e disseminó
la sua irresistibile identità oltre i mari.
Oggi quasi nessuno ricorda quel nome originale e tutti la chiamano la Bodeguita de Guillermo.
“Villa Océano, con la sua Bodeguita – dice Oscar García con occhi carichi di nostalgia - per me
è il centro storico di Cayo Guillermo, La Habana Vieja dei Jardines del Rey.
Ha poca bellezza architettonica, ma è piena di incanti.
La gente cominciò spontaneamente a scrivere sulle pareti, forse per rassomigliarla ancora di
più alla sua madre legittima che era la originaria Bodeguita del Medio dell’Avana.
Il giornalista e scrittore italiano Gianni Miná mi disse una notte mentre bevevamo e
contemplavamo attraverso i cristalli la luna luna piena riflettersi sull’acqua oscura
“Alla fine ho trovato la pace!” e lo scrisse proprio così su una delle pareti.
Dopo continuammo a parlare e mi confessò che era da molto temoo che non vedeva un luogo
originale, singolare come quello”.
Un’altra delle personalità che lasciò la sua impronta nella Bodeguita fu l’antropólogo ed
esploratore norvegese Thor Heyerdahl.
Il suo grande interesse era proprio Cayo Guillermo, la sua posizióne geográfica.
Forse – anche se non lo disse a nessuno o pubblicò – si proponeva di dimostrare il passaggio
di antichissime tribù indigene attraverso gli isolotti dell’arcipelago del Nord per giungere
alla terraferma di Cuba e da qui al continente sudamericano.
Quali che fossero i suoi propositi, il fatto della sua presnza al sud della Corrente del Golfo,
lasciav intravvedere una nuova avventura di quell’affascinante esploratore oppure un futuro
libro di viaggi nel quale sarebbe apparsa la Bodeguita come il recinto più adatto per coltivare
sogni e tessere speranze.
110
“Durante tutta una settimana – ricorda Oscar García - io con Thor Heyerdahl andammo
quasi tutti i giorni alla Bodeguita.
Fu proprio lì che conversammo lungamente intorno a svariati argomenti.
Ricordo, poi, che sua moglie, una donna italiana, soffriva il mal di mare anche sulla
terraferma... voglio dire che lo sentiva sia a bordo della Patana che a terra. Quando le capitò
di salire per la prima volta sulla Patana, dissi a Thor di farla subito sbarcare sull’isola e lui
rispose tranquillo che era inutile, avrebbe sentito il mal di mare anchè lì...
“L’uomo del Kon-Tiki si appassionò alla scogliera del Morro de Guillermo e tutti i giorni alle
cinque e mezza del mattino ci alzavamo, prendevamo una lancia veloce e ce ne andavamo
fino a Playa Pilar. Lì, Thor saliva sul punto più alto del Morro, si tuffava una sola volta e poi
rientravamo per la colazione.
Mai mi è riuscito di farmi svelare la ragione misteriosa di quei tuffi mattinieri, ma ho la
certezza che obbedivano a qualcosa più di un semplice salto in acqua al sorgere del sole.”
I fenicotteri che spiccavano il volo su una delle pareti esterne della Bodeguita (presi dal logo
della Flamingo, fenicottero in inglese), furono testimoni delle decisioni più importanti sul
futuro di Cayo Guillermo.
Lì, circondato da un silenzio premonitore e accompagnato dagli implacabili mosquitos che non
rispettavano neppure la nascita di un polo turistico, Sisto Gungui scrisse, usando come carta
alcuni tovaglioli del bar, gli elementi di base di tutti i futuri progetti
111
Bozzetto dela nuovo nome della prima antica casetta di Cayo Guillermo,
ribattezzata la Bodeguita de Gregorio.
Maggio 1991
112
Uno di quei progetti resterà nella storia: quello di identificare commercialmente Cayo
Guillermo come Flamingo Island, utilizzando per la prima volta una precisa connessione
culturale con alcuni capitoli del libro Isole nella Corrente di Ernest Hemingway.
Sisto redasse anche un altro documento per il quale come storico lo ringrazierò sempre.
Con lo scopo di fornire nuove uniformi di lavoro alle prime persone che lavoravano nelle prime
due Ville, Oceano e Flotante, Sisto elencò su un foglio i nomi di ognuno di loro e la rispettiva
mansione .
Anche se non mi è mai piaciuto pubblicare elenchi nei miei libri, non potrei mai commettere
l’errore storico e umano di omettere nel mio libro i nomi di questi altri veri fondatori del polo
turistico dei Jardines del Rey.
Forse sarà questo l’unico riconoscimento che gli rimarrà nel tempo perchè li riconoscano in
questo ruolo i loro nipoti, pronipoti e le nuove generazioni.
NOMBRE
BERTA BUCHILLON
OCUPACION
LAVANDERA
NELIA CASTILLO
COCINERA
REINALDO BEL
PLANTERO
JARRIS KAMAK
PLANTERO
JUAN FERERA
PLANTERO
JAVIER RODRÍGUEZ
J BASE
ROBERTO GARCÍA
CANTINERO
MAXIMINO HERNANDEZ
CANTINERO
FELIX SOSA
CANTINERO
RAUL OLIVA
ALMACENERO
ARNALDO FERNANDEZ
ALMACENERO
ALICIA PEREZ
DEPENDIENTA
MAGALIS MARN
DEPENDIENTA
NOELVIS BUCHILLON
DEPENDIENTA
ESTER MAYEA
DEPENDIENTA
GLADYS BATISTA
CAMARERA
MARITZA MARTIN
CAMARERA
MARIELA OLIVA
CAMARERA
MARÍA E. PEREZ
CAMARERA
MARCELO ROJAS
MECANICO
JOSE CASTILLO
COCINERO
MANUEL RIOS
COCINERO
JESUS ALFONSO PEREZ
COCINERO
JOSE B. ARCIA
AYUDANTE COCINA
JULIO RODRÍGUEZ
AUX. CONTADOR
ANTONIO ECHEMEDIAZ
SUB ADMINISTRADOR
JULIAN VERONA
ADMINISTRADOR GENERAL
113
MARINEROS
PABLO RODRÍGUEZ
PATRON
MARCELO CARRILLO
PATRON
LUIS LISAÑO
PATRON
LUIS LOPEZ MARIN
PATRON
EVIDIO LISCA
PATRON
COSME PERERA
MARINERO
JULIO GONZALEZ
MAQUINISTA
FELIPE NEUPOMOCENO
MAQUINISTA
JOSE’ L. ERRERA
MAQUINISTA
ADOLFO TORRES
LANCHERO
JESUS CABRERA
LANCHERO
La Bodeguita de Guillermo aveva l’attrattiva magica di una specie di Torre di Babele, con la
sola differenza che qui si parlava il linguaggio universale dell’amicizia e dell’ospitalità.
Le poche parole che servono agli uomini per chiacchierare in un bar, lí si moltiplicavano e
anche convertivano spesso in promesse di amore, grandi strette di mano, momenti
indimenticabili.
Di fronte al bancone, si sedettero uomini con molti soldi ed altri senza neanche uno; forse
qualcuno scrisse sulla parete le sue ultime parole e al ritorno al suo paese fu assassinato o
travolto da un’automobile o morì di stress; forse un regista ci girerà un film o uno scrittore ci
scriverà un libro.
Io stesso fui protagonista della nascita di una di quelle idee che l’atmosfera onírica di quel
minuscolo bar faceva erompere come dal più profondo entusiasmo umano.
Mentre il cineasta Pastor Vega con sua moglie attrice Deisy Granados e l’autore di questo libro
bevevano un mojito ben carico di yerbabuena, spuntò l’idea che scrivessi io il soggetto e la
sceneggiatura di un nuovo film in cui si riflettesse tutta la magia di quelle isole.
Regista sarebbe stato Pastor e uno dei ruoli femminili andava, per diritto, proprio a Deisy.
Per firmare quella promessa, scrivemmo in un piccolo spazio su una delle pareti:
“Al film futuro che è nato oggi” e firmammo tutti e tre.
Il copione fu scritto e intitolato proprio DI LA’ DAL MARE, ma la pellicola non si filmò, a causa
di quella cosa orribile che uccide le idee e assassina le fantasie: il budget... alla insufficienza del
quale si aggiunse la morte inopportuna di Pastor, regista del mio primo ed ultimo soggetto
cinematografico.
114
“Alla Bodeguita - confessa Oscar García- vidi sorgere il sole molte volte e spesso mi sentii
Hemingway a modo mio. Quando scendeva la notte, dato che non c’era altro da fare,
conversavamo, scherzavamo bevendo caffé o una bottiglia di añejo e sempre sognavamo
cosa avremmo fatto con Cayo Guillermo, con il futuro dei Jardines del Rey e davvero mai
sospettammo che la realtà sarebbe stata così veloce e grandiosa, davvero al di là dei nostri
stessi sogni.
“Ci piaceva molto fantasticare: parlavamo di quando l’arcipelago sarebbe stato pieno di
turisti e di hotels e di come allora sarebbe stata la vita.
Chi l’avrebbe detto allora che avevamo piena ragione e che in pochi anni le isole si sarebbero
popolate di hotels, che si sarebbe costruito un aeroporto internazionale tra Cayo Coco e
Guillermo e subito dopo un altro aeroporto internazionale a Casasa, il primo su Cayo Coco!
“Guarda Larry, noi al principio eravamo nelle caverne ed è chiaro che senza l’era delle
caverne non ci sarebbe stato il successivo sviluppo. Ma abbiamo avuto il merito di
intravvedere dal fondo delle nostre caverne quello che sarebbe potuto accadere.
Andavamo disegnando nelle nostri menti la mappa immaginaria di Cayo Guillermo, che ci
sembrava ben lontana dalla realtà ma presto l’isola cominciò ad assomigliare proprio a ciò
che avevamo sognato e poi ci fu come un un momento preciso, quasi un giorno esatto nel
quale capimmo che la realtà immaginata andava ormai anche al di là dei sogni.
Solo in quel momento, quasi di colpo, capimmo che non eravamo matti !”
115
FLAMINGO PROMUOVE E COMMERCIALIZZA
IL TURISMO A CAYO GUILLERMO
Sisto Gungui, che nel 1985 aveva visto per la prima volta la magia di Cayo Guillermo e che
aveva coltivato con Oscar García l’idea dello spostamento della Patana da sud a nord, nel 1988
aveva già la certezza , terminando la sua partecipazione in Italturist per aprire Flamingo
International Travel Consultant (prima società italiana di consulenza alberghiera e turistica in
generale) , che sarebbe arrivato a firmare quel contratto così prepararato ed elaborato.
Armato della pazienza dei veri uomini d’affari, organizzó i suoi sogni, mise al posto giusto ogni
illusione, analizzò ciò che era possible realizzare in un posto così bello e remoto del pianeta e,
con sulle spalle un bagaglio di chimere e realtà, nel giugno del 1990 venne a Cuba alla
Convención de Turismo, dove riannodò i suoi contatti con amici come Alfredo Rodríguez, exdirettore di Cubatur e rappresentante del INTUR (Ministero del Turismo cubano) in Italia, e
con Oscar García.
In quella occasione, Sisto firmó con Cubatur alcuni accordi generici di commercializzazione di
Cayo Guillermo, ma la firma del primo protocollo storico dovette attendere un nuovo viaggio di
Sisto a Cuba.
L’attesa fu molto breve perchè già a metà agosto Sisto era di ritorno a Cuba, stavolta
accompagnato da sua moglie Ines e dai loro due figli piccoli.
Alla Habana contattó Alfredo Rodríguez, appena nominato Capo Dipartimento della Política
Commerciale Internazionale dell’INTUR.
Con lui discusse della sua intenzione generale di investire commercialmente su Cayo Guillermo
proprio attraverso INTUR e nacque così l’idea di realizzare quanto prima possibile una
riunione operativa con la Empresa Turística di Ciego de Ávila, da tenersi proprio sull’isoletta.
Alfredo assicurava la presenza del legale dell’INTUR, avvocato José Luís Gorra, consigliere del
Presidente del INTUR.
116
“Arrivai con la mia famiglia a Ciego de Ávila nella tarda serata del 20 Agosto 1990 – mi
racconta Sisto -. Eravamo in uno dei momenti più duri del “período especial”, subito dopo la
caduta del muro di Berlino e l’interruzione dei rapporti privilegiati con l’Unione Sovietica.
Cuba si trovava improvvisamente da sola, senza più amci nè da una parte nè dall’altra degli
schieramenti mondiali.
In attesa del carburante, riuscimmo ad imbarcarci per Cayo Guillermo verso le undici di
notte.
Viaggiavamo su una barchetta, sotto la luce di una grande luna, io e Oscarito, con le nostre
mogli, mio figlio Niccoló di tre anni e mia figlia Elisa che già dormiva nelle mie braccia.
“Guardando l’orologio e vedendo che si era fatta mezzanotte, mi rivolsi a Oscarito:
- Dobbiamo bere qualcosa perchè abbiamo passato la mezzanotte e Elisa sta compiendo qui il
suo primo anno di vita!
Oscar mi abbracciò d’impeto e in silenzio cavò da sotto la poppa della barca una bottiglia
ancora intatta di scuro rhum invecchiato.
La aprimmo in silenzio e Oscarito versò un goccio di rhum al mare, “para los santos”.
Poi bevemmo tutti alla salute di Elisa e finalmente Oscar bagnò la testa della bambina con un
goccio di rhum, dandole con serietà una benedizione di santeria.
Al vedere quei gesti rituali, chiesi a Oscar di accettare di essere padrino di Elisa.
In quel momento, sorrise senza rispondere. Il giorno seguente ci fu una grande sorpresa:
arrivò con un’altra barca una torta enorme di color rosa-flamingo preparata a Morón, con la
seguente scritta in glassa bianca:
- Felicidades a Elisa de parte de su padrino OscaritoCosí Oscar García diventò il vero padrino cubano di mia figlia Elisa”.
Il 22 agosto del 1990, dopo lunghe e spossanti riunioni tra José Luís Gorra, Oscar García e
Sisto Gungui, si arrivò a stilare il primo e storico accordo sullo sviluppo turistico di Cayo
Guillermo.
Finalmente si firmava un contratto effettivo per la commercializzazione de La Patana e di tutto
Cayo Guillermo! Quel documento di quattro pagine, nel quale per la prima volta si
attribuiscono i nomi commerciali di Villa Flotante a La Patana e di Villa Oceano alla vecchia
casermetta della guardiafrontiera già conosciuta come Villa el Paso, può essere considerato
come l’inizio ufficiale di tutta la successiva struttura alberghiera di Cayo Guillermo e
dell’intero arcipelago dei Jardines del Rey.
Per la fondamentale importanza che ha questo documento, che considero il più storico tra
quelli che esistono in relazione alla nascirta del del polo turistico dei Jardines del Rey,
riprodurrò qui la prima pagina dello stesso, in cui si stabiliscono i termini generali di
collaborazione e finanziamento.
117
PRIMER PROTOCOLO FIRMADO ENTRE FLAMINGO, EL INTUR Y LA ETCA,
PARA DESARROLLAR CAYO GUILLERMO
PROTOCOLO
Representantes del INTUR, la Empresa Turística de Ciego de Ávila y Flamingo I.T.C. entidad
italiana con domicilio en Milán se reunieron del 20 al 22 de agosto de 1990, en Cayo
Guillermo, Ciego de Ávila, Cuba.
Las conversaciones versarán sobre el desarrollo de Cayo Guillermo como polo turístico con
identidad y características únicas, no sólo en relación con los demás polos turísticos que se
desarrollan en Cuba, sino también con los actuales y con los que se desarrollan en el Caribe.
En particular, respecto a la próxima temporada turística 1990-91, se llegaron a los siguientes
acuerdos:
1- La Empresa Turística Ciego de Ávila, deberá ejecutar en Cayo Guillermo los trabajos
que se relacionan en anexo a este documento para garantizar que el servicio que
Flamingo contrate a Cubatur se oferte con la calidad que exigen los turistas que se
atenderán en Cayo Guillermo.
2- La Empresa Turística Ciego de Ávila, deberá iniciar los trabajos a que se refiere el
anexo antes mencionado, a más tardar el 10 de septiembre del corriente año, para
asegurar que las instalaciones estén en condiciones de recibir a los clientes el próximo
8 de diciembre fecha en que se realizará la ceremonia inaugural con la presencia de la
prensa internacional.
3- Flamingo se compromete a financiar con carácter de adelanto por los servicios
contratados a Cubatur, los equipos y mercancías que se requieran importar para los
trabajos que se realizarán en Cayo Guillermo.
A título indicativo, se relacionan en anexo a este
documento dichos equipos y materiales.
4- Flamingo informará al INTUR dentro del próximo mes de
septiembre, la cotización de los equipos y materiales
que suministrará. La adquisición de dichos equipos y
materiales, requerirá la aprobación previa del
INTUR.
5- En el caso de que los bienes que se requieran importar, puedan adquirirse en Cuba, el
INTUR dará instrucciones a Flamingo sobre cómo llevar a cabo la financiación de
dichos bienes.
6- El monto definitivo de la suma que adelantará Flamingo, se destinará una vez que se
conozca la cotización de los equipos y mercancías que se importarán.
118
7- Flamingo se reembolsará la suma adelantada, mediante un documento, digo
descuento, de los servicios contratados a Cubatur. El monto y la forma de este
descuento, se fijará una vez conocida la suma que Flamingo adelantará.
8- El INTUR dará instrucciones a Cubatur para que éste acepte el documento que se
acuerde con Flamingo de los servicios contratados a Cubatur.
9- En relación con el futuro desarrollo de Cayo Guillermo como producto único y
diferente en el Caribe, Flamingo presentará una propuesta detallada antes del 30 de
septiembre del año en curso.
Y para que así conste se firma el presente protocolo, en idioma español, a los 22 días del mes
de agosto de 1990.
Por el INTUR: José L.Gorra, Asesor del Presidente
Por la ETCA: Oscar García, Director.
Por Flamingo: Sisto Gunguy
COPIA DOCUMENTO
119
A partire dalla firma di questo documento, gli interscambi tra le parti si intensificarono e
comnciarono a sgorgare idee come acqua da una sorgente.
Sisto capiva che finalmente poteva operare come il “giardiniere” di tutte quelle belle cose che
stavano tra cielo e mare; che poteva agire come soldato dell’arcobaleno e guardiano dei fiori.
Era arrivato il momento di lasciare sciolte le briglie alla sua filosofia su come si doveva
coltivare questo angolo appartato dell’universo e fu così che al suo rientro in Italia non tardó ad
inviare una proposta generale nella quale annotava che:
“...la idea ecológica è il fondamento più concreto e promettente per una politica del turismo
avanzata e diretta verso i mercati degli anni futuri. La motivazione basica dei viaggiatori di
vacanza nel mondo contemporaneo è la ricerca di luoghi e ambienti in cui la natura si
presenta ancora intatta e in equilibrio e armonia con l’uomo.”
Questa preoccupazionee ecologica, questo impegno a preservare e conservare la natura con la
cura di un orologiaio, caratterizzó l’iniziativa di Flamingo fin dal momento in cui la sua
bandiera fu issata a Cayo Guillermo, fin da quel giorno in cui il primo fenicottero, il primo
flamingo, si alzò in un volo di speranza.
Nell’annesso due di questo documento, si fa una apología paesaggistica dell’ Isola di Cuba e
delle sue altre isole adiacenti.
“La Repubblica di Cuba – si recita testualmente - presenta oggi una situazione di
straordinaria integrità geografico-naturale, forse unica al mondo.
Specialmente la regione dell’Arcipelago Sabana-Camagüey nel centro-nord cubano, è oggi
uno degli ultimi luoghi al mondo a conservare una natura intatta e primitiva.
Tutta l’area può essere considerata un autentico ecostema integrale e autonomo.
L’eccezionalità di questo ecosistema, costringe quasi a destinare tutto il territorio cubano alla
eccellenza del turismo ecologico, cioè all’unico, vero e sostenibile turismo del futuro”.
L’annesso TRE invito a leggerlo come un vero poema, scritto di sicuro da un poeta
perdutamente innamorato dlle onde e degli alisei che toccavano le spiagge scendendo dal Canal
Viejo delle Bahamas.
“Cayo Guillermo è un’isola di sabbia fiorita – continua il documento -. Tale conformazione
geológica única può essere, allo stesso tempo, la fortuna e il rischio per la stessa isola”.
“Cayo Guillermo, infatti, sarebbe destinata a scomparire o a subire danni naturali
irrimediabili se si realizzasse sull’isola un turismo soggetto alle esigenze del “turismno di
massa” (tipo Cancun o Puerto Plata).
Nello stesso tempo, nessun altro modello di sviluppo già operativo o in processo di
realizzazione, incluso lo stesso Cayo Largo, può essere preso ad esempio”.
120
L’annesso QUATTRO si riferisce all’ambiente.
Si chiede una riforestazione massiccia di palme da cocco lungo la frangia costiera e un
intervento di cura della macchia vegetale delle dune e lagune dell’interno dell’isola.
L’annesso successivo dichiara la volontà che su Cayo Guillermo non si costruiscano più di 450
camere alberghiere totali.
“Le strutture alberghiere – afferma il documento - saranno ripartite in tre zone differenti,
corrispondenti a tre aree geografiche omogenee: Playa Gregorio, Playa Caimanera, e Playa
Pilar (attenzione: questa è la prima volta in cui si indica il nuovo nome in un documento
ufficiale”).
“In relazione alle caratteristiche geologiche e strutturali delle zone interessate, si rimanda
agli studi dei microprogetti già sviluppati dagli studiosi cubani competenti”.
Di speciale interésse stórico risulta l’annesso finale, poichè nello stesso si registrano le società
coinvolte nell’impresa.
A) Società di progettazione
Estudio Arquitecto Antonio Scorsone, de Brescia
Asesoría General Arquitectos Gianni Tacchini y Vincenzo Donato del Politécnico de Milán.
B) EMPRESAS CONSTRUCTORAS
Consorcio de empresas cubanas.
C) DIRECCION DEL TRABAJO
Conjunta: italo-cubana
D) FINANCIAMIENTO DE LA EMPRESA.
Consorcio italiano e internacional asi formado:
Turismo y comercialización: FLAMINGO ITC (Milán)
Imagen: MEGATRENDS/OCEAN STAR (Bologna)
Import/export general: GLOBEX (Milán)
121
122
In realtà, tra Instituto Nacional del Turismo (INTUR), Empresa Turística Ciego de Avila e la
Flamingo era nata una specie di compagnia o di confraternita che andava al di là delle carte
firmate e timbrate, dei rigidi accordi contrattuali.
Anche tra Oscar García e Sisto Gungui era nata una interrelazione che ho sempre ritenuto
magica. Era come se il Vecchio ed il Nuovo Mondo tornassero a riunirsi lungo la linea del
tempo, come se Cristoforo Colombo e l’indio Hatuey si fossero accordati per fondare un angolo
di terra senza frontiere umane.
“Io e Oscarito fummo il dio l’uno dell’altro, scambiandoci sempre la forza e l’entusiasmo. –
con queste parole accorate, Sisto si riferì al suo amico dei Caraibi, quando toccai l’argomento in
una delle interviste a distanza -.
Senza questa condizione, mai saremmo riusciti a realizzare il sogno di veder fiorire Cayo
Guillermo.”
“Era una cosa del destino, se uno crede al destino, che ci rincontrassimo a Cuba, che ci
unissimo per realizzare un sogno. Abbiamo lavorato per realizzare Cayo Guillermo con la
stessa serietà e concentrazione di due bambini quando giocano al loro gioco preferito. Due
sognatori, due gitani (con oscar che con me amava la musica dei Gypsy Kings) ci
chiamavamo così…) che la vita ha utilizzato per dimostrare che si può (si deve!) vivere
pensando che il mondo e l’ambiente naturale che Dio ci ha affidato, si può (si deve!)
conservare per quelli che verranno dopo, consegnandolo a loro un pò meglio di come noi lo
abbiamo ricevuto”.
Poco tempo dopo che Sisto Gungui ebbe presentata la proposta del progetto iniziale per lo
sviluppo turistico di Cayo Guillermo, INTUR gli inviò un FAX datato 6 maggio 1991 nel quale
gli si comunicava che già si stavano elaborando alcune idee preliminari e su queste si
richiedeva la sua opinione.
Nei paragrafi successivi gli comunicavano che le “ville” sarebbero state di 2 camere, con bagno
privato e patio frontale, costruite con mattoni o blocchi leggeri, pavimento in mosaico e
copertura di asbesto-cemento ondulato.
“Si utilizzerá – dice testualmente la missiva - il ristorante esistente a Villa Océano, che verrà
ampliato fino a 60 coperti, con una nuova costruzione di legno rustico e copertura in foglie di
palma intrecciata. Sarà ricostruito il molo di legno esistente di fronte al ristorante.
Abbiamo bisogno di sapere da Flamingo le caratteristiche e le dimensioni del centro sportivo
(area, tipo di construzione, servizi e attrezzature)”.
Tre ore dopo, Sisto inviò la sua risposta al firmatario di quel FAX, cioè a Enrique Rodríguez,
primo Vice-presidente dell’INTUR.
Padrone di un ottimismo proverbiale, Sisto battè sui tasti della telescrivente da Milano:
123
“I nostri architetti stanno già preparando il progetto di Villa (villaggio) Cojímar, a Playa
Gregorio. Le linee del progetto seguono lo schema contenuto nel tuo messaggio e
conterranno il dettaglio della unità di base di ogni costruzione (che noi riteniamo debba
essere di massimo 2 camere per ogni unità)...
“E’ nostra intenzione presentare il progetto esecutivo alla prossima Convención de Turismo
nel prossimo giugno, arrivando alcuni giorni prima dell’inizio della stessa per potere avere il
tempo necessario a discuterlo con voi. Viaggeranno con me il nostro architetto e il signor
Ennio Fantasia di Globex.
“La localizzazione di Villa Cojímar, secondo il parere dei nostri tecnici, sarebbe ideale nella
zona finale della stessa Playa Gregorio, ossia dal lato opposto alla ubicazione attuale di Villa
Océano e Villa Flotante...”
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A CAYO GUILLERMO IN AUTO
I conquistatori del silenzio furono facilitati finalmente dalla data fatale di quel 26 luglio 1988
quando fu terminato il primo tratto di terrapieno che collegava la costa a Cayo Coco, cosicchè
uno poteva raggiungere in auto l’isola arrivando fin sulla spiaggia di Las Coloradas.
La strategia futura era ormai ben tracciata: si poteva partire alla conquista delle spiagge
dell’arcipelago del nord ed estendere il collegamento sia a est che ad ovest, alla ricerca di nuove
terre. Gli uomini del Contingente Roberto Rodríguez (noto come “El Vaquerito”) non attesero
neanche un istante per realizzare quella strategia e continuarono ad allungare i “viali”
attraverso tutta la liena di isole del nord, arrivando nei punti più reconditi e preparando la
serie di piccole isole al loro deetsino turistico con un’opera grandiosa di bonifica primaria. Se
uno vede una vecchia mappa dell’ Arcipélago Sabana–Camagüey e poi lo paragona con una
carta recente in cui appaiono tracciati tutti i viali e strade costruiti oggi sui cayos, la figura che
appare sembra quiella della fitta tela di un ragno, in un fantasasmagorico caleidoscopio di
geometrie casuali e capricciose quasi fossero deisegnate da un bambinoDiffcicle ance solo
immaginare che lo sfgoprzo incredibile di costruire tutto ciò fu opera di un gruppo di uomini a
cui diedero il compito, quasi poetico e utopico di ”...tirar pietre al mare senza guardare
davanti...”.
Camminando e facendo strada, come recita un famoso verso di Antonio Machado, nel
dicembre del 1990 i conquistatori delle terre del silenzio toccarono il primo tratto di costa
orientale di Cayo Guillermo.
L’arrivo della strada fin proprio a CayoGuillermo aveva spaccato le opinioni: alcuni
applaudirono il risultato, altri lo criticarono. Di certo il terrapieno cancellava il timbro
esclusivo di isola-isolata di Cayo Guillermo; di certo il suo isolamento romatico passava alla
memoria storica. Sisto Gungui era stato tra i contrari ed aveva proposto di realizzare un ponte
(propose addirittura che, se possibile, fosse un ponte levatoio!) sull’ultimo braccio di mare che
divideva Coco da Guillermo, per mantenere così comunque l’insularità di Guillermo. Ma si fece
quello che era più utile e possibile (che già era quasi “l’impossibile”) e presto si videro i
vantaggi, con gli ospiti di Flamingo che non dovevano più lavarsi e bagnarsi con acqua
minerale... si, perchè quando mancava o finiva l’acqua normale, non restava altra opzione che
usare l’acqua imbottigliata in dotazione al bar.
Con la strada, arrivò anche l’energia elettrica, la rete telefonica etc..., e non c’era più bisogno di
comunicare con Ciego de Avila con traballanti ponti-radio (non c’erano ancora i telefonini!).
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HEMINGWAY RITORNA ALLA SUA ISOLA
A Guillermo. E’ lì che io starei.
E.Hemingway
Un mese prima dell’avvenimento citato nel capitolo precedente, Sisto Gungui viaggió di nuovo
a La Habana, con l’intento di partecipare all’inaugurazione del primo nucleo turistico di Cayo
Guillermo.
Per ragioni inerenti al cosiddetto “período especial”, quel periodo di enormi difficoltà
economiche a Cuba seguite al crollo del sistema sovietico, la data della inaugurazione venne
spostata al gennaio 1991.
Ciononostante, Sisto si riunì con Alfredo Rodríguez ed ebbe modo di consegnargli un
documento con alcune delle idee dell’appena redatto progetto organico di sviluppo alberghiero
a Cayo Guillermo. Gli diede anche alcune copie del primo catalogo illustrato di promozione di
Cayo Guillermo col testo che recitava:
“Perció le sue spiagge sono incomparabili e Flamingo Island merita davvero la definizione di
isola di sabbia fiorita…”, nel quale si presentava ufficialmente anche il prodotto turistico
denominato Villa Océano:
“Intorno al perimetro della Villa corre una veranda ombrosa, arredata con le tipiche sedie a
dondolo coloniali, in legno e paglia intrecciata” e si descrive Villa Flotante:
“...é una delle piú originali e straordinarie strutture alberghiere del mondo”.
Quel catalogo, al di là della sua funzione specifica, risulta interessante perchè è qui che si
materializza l’idea originale di Sisto di dedicare Cayo Guillermo al mondo hemingwayano.
“Sono lettore appassionato e collezionista delle opere del grande scrittore americano-cubano
– mi dice Sisto Gungui nell’intervista esclusiva per questo libro – e quale non fu la mia
sorpresa quando, rileggendo alcune pagine di Isole nella Corrente, mi trovai sotto gli occhi il
brano in cui Hemingway-Thomas Hudson racconta della sua navigazione intorno al
piccolissimo Cayo Media Luna e dice:
“ Vedete, a tribordo , quell’enorme scoglio corallino appena sotto il pelo dell’acqua?
E’ lì che non dobbiamo andare a sbattere.
All’interno, signori, c’è Guillermo… vedete com’è verde e promettente?….”
E’ lì che rimasi fologorato. Da quel preciso momento elaborai tutta l’idea futura di dedicare
geograficamente Cayo Guillermo all’epopea hemingwayana e pensai subito che agli ospiti di
Flamingo avremmo dovuto fornire anche la letteratura scritta, al punto che in seguito inviai
alla Bodeguita un buon numero di copie in italiano (Oscar Mondadori) delle opere letterarie
di Hemingway per crearvi una piccola biblioteca”.
126
***
Da quell’epoca la frase divenne una specie di logo per Cayo Guillermo ed ancora oggi viene
riprodotta a Cuba su T-shirt (testo verde su bianco) in italiano, spagnolo, inglese!
Il catalogo descrive Cayo Guillermo utilizzando frammenti di opere di Hemingway, alcune
immagini fotografiche di Roberto Herrera Sotolongo sull’autore del “Vecchio e il mare” e due
grandi foto a colori (autore, Marco Casiraghi) di Cayo Guillermo: una è la vista solare e
spettacolare di Playa Pilar con Cayo Media Luna di fronte e l’altra è una foto col tramonto
dietro la Bodeguita.
Al centro del catalogo, infine, una specie di mappa futurista con i nuovi nomi geografici
hemingwayani delle spiagge di Cayo Guillermo, ancora non ufficialmente approvati.
Era l’epoca in cui cominciarono ad apparire sul cielo dell’arcipelago i primi elicotteri con
fotografi aspiranti-suicidi che si sporgevano dalla carlinga per ottenere l’istantanea più
esclusiva di quell’area di natura esuberante.
Il fotografo Aldo Abuaf ebbe la fortuna di occupare un posto d’onore in questo pezzo di storia
poichè fu uno dei primi professionisti a farsi carico della responsabilità di documentare e
rivelare gli angoli più segreti di quel paesaggio ancora sconosciuto.
In seguito arrivò a Cuba, invitato da Sisto Gungui, il più grande professionista italiano della
fotografia turistica, il milanese Angelo Cozzi che compose attraverso lo sguardo della sua lente
tutta la poesia d’immagine di quei luoghi.
“Ebbi il privilegio di sorvolare la parte orientale del litorale nord – afferma Aldo, in una
intervista esclusiva per quest’opera. - Viaggiavo con alcuni imprenditori italiani e della
Repubblica di San Marino insieme con il Consigliere dell’Ambasciata d’Italia.
Da La Habana a Holguin volammo su uno YAK-40 messo a disposizione dal Comitato
Centrale del Partito Comunista Cubano. Da lì, il giorno seguente salimmo su un elicottero
diretto a Cayo Coco. Il viaggio ebbe le sue emozioni poichè sorvolando il territorio avilegno
mi sporsi dalla carlinga dopo essere stato ben fissato a delle speciali cinture di sicurezza e
così fui in grado di scattare sia le foto che un video.
Il paesaggio, dall’alto di soli 300 o 400 metri, era entusiasmante. La vista si spingeva per
molte miglia avanti, dominando tutto il litorale e gran parte dell’entroterra.
Potevo vedere i massi del terrapieno quasi ultimato e la cordigliera di Jatibonico, la
cordigliera del Nordeste e la Loma di Cunagua. Al nostro passaggio migliaia di fenicotteri
(flamencos, flamingos) si alzavano in volo disturbati dal rumore della strana macchina
aerea: l’intero orizzonte appariva tinto di rosa”.
127
***
Il 28 di dicembre del 1990, Sisto ebbe la tanto attesa notizia con cui José Luis Gorra lo
informava vía telex che l’INTUR era d’accordo con la proposta di sviluppo, con la tipologia
costruttiva generale e con i tre primi insediamenti da edificare a Cayo Guillermo.
In quel periodo, due pattuglie seguivano il prodotto, a distanza:
- quella di Flamingo International Travel Consultant a Milano era composta da Alfredo Bassani
e dalla spagnola Pilar Molins;
- l’altra presso la Empresa Turística Ciego de Ávila era composta da Oscar García, da María
Elena Felipe, che era la sua segretaria esecutiva e da Eugenio Ciocca, quest’ultimo residente a
Cuba per Flamingo International e su incarico diretto di Sisto Gungui, per la stagione estiva.
- a La Habana, Flamingo contava sulla assistenza locale dell’impresa Servitur, diretta da
Leonor Ojeda.
Sisto Gungui Malli e Oscar Garcia Monteagudo a Cayo Guillermo
Sullo sfondo, La Patana ancorata a Playa Gregorio
128
***
LA LUNGA AVVENTURA DELLA FLAMINGO A CAYO GUILLERMO
Nonostante il fatto che già le due “Ville” (oggi più che “villaggi” le definiremmo due boutiquehotels) Villa Oceano e Villa Flotante stessero lavorando a pieno regime, Sisto Gungui
proseguiva tessendo i suoi disegni di edificare a Cayo Guillermo una struttura turistica
integrata, collegata al mito letterario del grande scrittore Ernest Hemingway (Ndr: quello che
oggi in Italia chiameremmo un “Parco Letterario” aperto al turismo).
Il 12 febbraio 1991, comunicó al Primo Vicepresidente dell’INTUR, Enrique Rodríguez
Manzano, che si sarebbe recato nuovamente a Cuba dal 6 al 15 Aprile, per presentare in via
ufficiale alle autorità cubane il piano particolareggiato di investimento in tutti i suoi aspetti
architettonici e fimnaziari.
In seguito la data della visita si modificó e il viaggio si realizzò esattamente tra il 17 e il 24 dello
stesso mese.
“La mattina del giorno 22 di Aprile del 1991 – mi racconta Sisto Gungui- Enrique Rodríguez
venne all’Hotel Plaza, dove ero ospitato, per condurmi con la sua auto di servizio alla
riunione con l’ INTUR. Mi disse che, prima, c’era una sorpresa per me. L’automobile si diresse
verso Plaza de la Revolución, andò verso la destra, entrò per la parte proprio dietro e sotto al
grande monumento a José Martí e si arrestò infine all’entrata di un edificio.
Con grande emozione seppi che eravamo nella sede del Consiglio di Stato di Cuba.
Entrammo in un’area riservata e da lì in un grande ufficio. Lì ci ricevette una persona dalla
figura alta, con modi di gran cortesia: era il Ministro del Turismo, Osmani Cienfuegos.
(Ndr: Architetto, fratello di Camilo Cienfuegos, il compagno forse più amato da Fidel).
“Per ciò che significó nella mia vita, ricordo quell’incontro in ogni minimo dettaglio.
Non dimentico soprattutto le prime parole del ministro-architetto:
- Guarda, Sisto, qui sopra la mia scrivania tengo da tempo il tuo catalogo su Cayo Guillermo.
Questo catalogo dice, più di qualsiasi altra cosa, che abbiamo una filosofia identica sullo
sviluppo di quei luoghi. Per la prima volta ci arriva dall’estero una proposta per uno
sviluppo turistico basato sulla protezione dell’ambiente naturale e la valorizzazione
complessiva di tutti gli aspetti storici e culturali di un’area.
Desidero informarti, formalmente, che il progetto ha già avuto la nostra approvazione e che,
in aggiunta, stiamo già lavorando alla sua progettazione operativa.
Vorrei, a proposito, mostrarti una cosa.
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“Cienfuegos si alzò dalla poltrona e tornò verso la sua scrivania, prese alcune carte piegate e,
dandomele, mi disse:
- Apri pure, sono le nuove mappe. Sono dell’Instituto Cubano de Geodesia y Cartografía.
Guarda, qui c’è la nuova mappa ufficiale di Cayo Guillermo, approvata questa stessa
settimana dal Consiglio dei Ministri !“Quale non fu la mia sorpresa, la mia felicità al leggere che le spiagge di Cayo Guillermo
avevano un nuovo nome geografico ufficiale: Playa Gregorio e Playa Pilar! I miei sogni
trasformati in una incredibile realtà!
“Chi si dedica alla mia professione, quando mai potrebbe pensare di poter arrivare al punto,
nell’epoca contemporanea, di dare il nome a un luogo geografico, come un nuovo scopritore.
Tra l’altro io credo che noi, più che scoprire, abbiamo rivelato l’anima nascosta dentro Cayo
Guillermo e i Jardines del Rey.
Quello che abbiamo capito, fin dal principio, è che la cayeria del Norte, l’arcipelago
settentrionale di Cuba, era un giardino tra la terra e il mare: noi, in questo caso, siamo stati i
suoi devoti giardinieri.”.
Nel tardo pomeriggio di quello stesso giorno, nella sede centrale dell’INTUR a La Habana,
Sisto presentó la proposta del nuovo investimento generale e di sviluppo di Cayo Guillermo,
nella quale si identificavano le tre aree di base, indicando i nuovi nomi turistici, gli stessi già
approvati come termini geografici: Playa Gregorio, Playa Caymanera e Playa Pilar.
Allo stesso tempo si dichiarava l’intera area come ecosistema integrale e autonomo, ideale per
il turismo del futuro, l’ecoturismo.
“Nei mesi successivi – chiarisce Sisto - ebbero luogo lunghe e appassionate discussioni tra noi
e INTUR. L’obbiettivo era trovare la formula giusta che permettesse, da un lato , un nostro
investimento concreto ed effettivo e, dall’altro, che tale inversione fosse coperta da una
adeguata garanzia, altrettanto reale e concreta, da parte di INTUR.
“Il giorno 6 Maggio 1991, il Vicepresidente dell’INTUR, confermó la sua decisione di
procedere subito con la costruzione della Villa (cioè, del villaggio) a Playa Gregorio (ex-playa
del este o playa El Paso). Ebbe inizio così il processo operativo della realizzazione di Villa
Cojímar, il primo vero hotel a Cayo Guillermo”.
***
130
Villa Cojímar fu costruita in meno di sette mesi, da febbraio ai primi di agosto del 1992.
Sisto viaggiò 11 volte a a Cuba (in meno di 1 anno!) per seguire di persona lo stato di marcia
dell’opera, alla quale si lavorava giorno e notte.
Fu un’impresa straordinaria, fatta da lavoratori straordinari.
C’è da ricordare che tutta la costruzione fu eseguita senza poter ancora disporre di
comunicazioni terrestri con la costa dato che il ponte di accesso a Cayo Gullermo, costruito
sopra un largo canale interno, fu pronto per essere utilizzato solo nelle fasi finali della
costruzione di Villa Cojímar. Fu un lavoro titanico.
In quell’anno in cui il mondo celebrava il quinto centenario dell’incontro di due culture, Sisto
realizzó il secondo catalogo turistico di Flamingo, che stavolta non promuoveva solo Cayo
Guillermo, ma tutti i punti di interesse a Cuba e, tra questi, forse per la prima volta al mondo,
apparivano con grande spazio sia Moròn che Ciego de Avila.
La copertina in color verde scuro, al centro la mappa geografica stlizzata di Cuba, stampata in
rilevo dorato: un’isola d’oro puro.
In quell’epoca, Oscar García aveva già cessato le sue funzioni di Direttore del Turismo nella
regione avileña ed era passato a seguire, sempre per la Empresa Turistica di Ciego de Avila, gli
ivestimenti di Flamingo in quel territorio.
Delegato del Ministero del Turismo nella Regione di Ciego de Ávila, era stato nominato Alexis
Escobar Burgos.
“Molto giovane – dice Sisto Gungui-, ma molto preciso, analitico e pragmatico. Ho lavorato
molto bene con lui. Qualsiasi problema, attraverso Alexis trovava una soluzione. Aveva
capito subito che aprire Cayo Guillermo al turismo significava aprire la porta a uno sviluppo
in senso molto più ampio e con beneficio per tutta la regione”.
Le riunioni del gruppo di giovani architetti di Ciego de Avila e Moròn furono virtuali e a
distanza: purtroppo ancora non c’era Internet...
Si lavorava al progetto di Cojímar con l’architetto italiano Nino Scorsone per definire la
tipologia della singole ville e delle camere, usando disegni inviati via fax e per posta.
In questo senso, fu una vera scuola di disegno magistrale.
Si discuteva dei minimi particolari di ognuna delle sessanta ville-bungalow.
Anzitutto, la posizione: tutte dovevano essere e furono con vista diretta al mare.
Poi, le docce esterne, per potersi sciacquare anche subito al ritorno dalla spiaggia e prima
ancora di entrare in camera. Si inventò la soluzione speciale delle pareti a mosaico di ceramica
disegnate a mano con un gambero gigante, un granchio, un’aragosta.
131
Infine, dato che ogni villa doveva essere esclusiva e richiamare una vera casa , come in un
autentico paese, allora ognuna fu identificata non da un numero ma dandole il nome di un
personaggio hemingwayano: Papa, Adriana, Marcos Puig, Joe Russell, Cheo López, Cachimba,
Cecilio Poma, El Bello, Negrita, Santiago Puig, El Pilar, Anita, Tin Kid etc....
All’interno, le pareti erano decorate, anzichè con i soliti quadri, con foto in bianco-nero, cornice
a vista, di autori come Raul Corrales e per soggetto, ovviamente, scene della vita cubana di
Hemingway.
FOTO PROGETTO VILLA COJIMAR
Il ristorante aveva una torre con una piccola terrazza, sembrava uno dei fortini della “Trocha
de Júcaro a Morón”: la muraglia fortificata che un tempo divideva l’isola come una specie di
ottocentesco Vallo di Adriano.
Il ristorante era stato pensato senza pareti, aperto su tutti i lati.
Bella idea ma impraticabile in un luogo dove abbondavano mosquitos e, nella stagione,
cadevano piogge tropicali.
Dopo i primi mesi di utilizzo, si cambiò, chiudendolo e dotandolo di aria condizionata.
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132
133
Il posto in cui Sisto potè festeggiare nel modo migliore il raggiungimento dei suoi propositi e
progetti su Cayo Guillermo, fu nella Casa de la Trova (La Casa della Musica, NdT) di Morón.
Mai si cancellò dalla sua memoria l’immagine dell’entrata nel cortile della Casa della Trova di
un signore, un vecchio mulatto che fumava un gran sigaro “puro”:
“Ma quello è Pío Leiva! – gridó Oscar García al vederlo e continuó rivolto a Sisto -, quello è “el
mentiroso de Cuba”, “el montunero mayor”, un cantante di Moron, moronero di pura razza
che rientra alla sua città natale per le vacanze!”.
“Oscar si alzó – ricorda Sisto-, salutó il vecchio signore e lo condusse alla nostra tavolata,
dove tutti lo conoscevano. Me lo presentó come uno dei più grandi cantanti cubani del tempo
passato. Oscar cominciò a pregare ed insistere con Pío perchè cantasse qualcosa.
Al principio lui si negó, poi ordinò un rhum e si sedette con noi.
Parlammo, ci presentammo ed io appoggiavo calorosamente Oscarito nelle sue richieste
pressanti. Dissi a Pío che”… io sono di quelli che amano la musica in stile antico…”, e gli
spiegai che “…sono un innamorato del “punto guajiro” e della “controversia…” (che nella mia
Sardegna è il ritmo usato per la “gara poetica”).
Gli chiesi, per favore, di cantare. Pío guardò Oscar e non disse una parola, sorridendo tra i
baffetti. Infine, quando tutta la tavola ormai lo incitava calorosamente, Pio si alzò, fece due
passi verso l’orchestrina che suonava sul fondo del cortie, prese un microfono, lentamente, e
cominció con una nota, una parola, un movimento ritmico del corpo.
In dieci secondi l’orchestra era ai suoi piedi e seguiva il suo ritmo.
Il “concerto” di Pio Leiva continuó, senza soste, per più di un’ora.
Dissi a Oscarito che dovevamo contrattarlo per cantare nel nostro stand alla prossima
Convención de Turismo di Varadero nel 1992.
E così fu: il nostro stand divenne una piccola Casa de la Trova, con la processione dei cubani
di ogni età che venivano a sentire e salutare la “rentrèe” del grande Pio Leiva, che molti
pensavano fosse già scomparso...
“Infatti, apprsi in seguito che Pío Leiva ormai da molti anni non lavorava più con regolarità,
dimenticato come molti altri grandi interpreti della sua epoca.
Posso dire che, senza volerlo e senza averne piena coscienza, stavo però anticipando quel
fenomeno che poi fu scoperto e lanciato nel mondo da Ry Cooder, con il Buena Vista Social
Club (di cui fa parte Pio Leiva)”.
134
Di quella memorabile serata mi sono rimasti due cimeli: una foto Polaroid, fatta da non so
chi, in cui Pio, Oscarito, Juan Perez e me siamo seduti a un tavolino della Casa de La Trova di
Moron, come insieme su una macchina; una musicassetta con canzoni di Pio Leiva, con la sua
dedica: “A Sixto, el màs grande estimador de mi musica”.
FOTO PIO LEIVA
135
“Sábato 31 luglio 1993 -precisa Sisto Gungui -, si inauguró l’ampliamento dell’aeroporto di
Ciego de Ávila con il primo volo diretto dall’Europa, cioè con il primo volo internazionale a
Ciego de Avila. Sull’aereo della compagnia aerea Air Europe, sedevano duecentocinquanta
passeggeri italiani in viaggio verso Villa Cojímar.
A bordo, viaggiavano due soli passeggeri, due italiani senza alcun bagaglio: Virgilio Negri e
me. Arrivammo e partecipammo alla gran festa popolare preparata in aeroporto per
ricevere quello storico volo. Con Virgilio passammo a Cayo Guillermo solo quattro o cinque
ore in compagnia di tutti gli amci e compagni cubani.
Rientrammo lo stesso giorno in Italia: sul volo di ritorno eravamo sempre gli unici due
passeggeri a bordo di un intero volo di Air Europe che atterrava a Milano Malpensa.
Avevamo viaggiato a Cuba per meno di 1 giorno, solo per partecipare a quell’indimenticabile
avvenimento”.
***
Il tempo passò e il gruppo di sognatori della Flamingo continuó ad alimentare le sue chimere
del Caribe, “ma - afferma sempre Sisto Gungui – la nostra società (che opera, infatti, con i
marchi Flamingo International Travel Consultant e Flamingo Resorts), non è un Tour
Operator bensì un’impresa alberghiera, di gestione turistica, di commercializzazione e
consulenza generale nel campo turistico-alberghiero.
Quindi, la nostra missione commerciale era e rimane quella di realizzare prodotti e
posizionarli sul mercato attraverso Tour Operators che programmino e distribuiscano il
prodotto.
Perciò, come d’accordo con la parte cubana, passai a contattare I Viaggi del Ventaglio, il
Tour Operator italiano allora più forte sul prodotto caraibico, per tentare di “portarli a
Cuba”.
Col prodotto pronto e operativo, riuscii presto a firmare il primo accordo di
commercializzazione di Villa Cojímar con questa società.
Riocoro che Ventaglio non aveva mai programmato Cuba ed anche il primo catalogo de I
Viaggi del Ventaglio su Cuba e Cayo Guillermo fu preparato da me e da Franco Radice, il
primo socio di Bruno Colombo e direttore del prodotto del TO.
Franco addirittura non aveva mai viaggiato a Cuba e, perciò, mi aiutò molto a convincerlo e
dargli una giusta visione del prodotto, il servizio televisivo preparato da Lella Confalonieri e
mandato in onda su Canale 5 in prima serata: un programma interamente dedicato alla
nuova realtà di Cayo Guillermo!
Insomma, quel primo esperimento funzionò e I Viaggi del Ventaglio arrivò a Cuba.
136
In seguito, per decisione strategica generale presa col nostro partner Cubatur che a Cuba
aveva il controllo finale del produtto dal punto di vista commerciale, si decise di provare a
negoziare un nuovo accordo attraverso il quale tutta Villa Cojímar sarebbe stata gestita
come un VENTACLUB, con una formula di gestione in comune tra la Empresa Turística Ciego
de Ávila e Ventaglio.
Il punto sostanziale del nuovo contratto era che Ventaglio doveva impegnarsi a garantire in
continuità un primo volo diretto dall’Europa a Ciego de Ávila
Il contratto si fece e quello fu il preciso momento in cui noi “partimmo” da Cayo Guillermo,
con la soddisfazione grande di aver permesso col nostro impegno e contributo diretto che
Ventaglio confidasse in quel nuovo prodotto ed investisse nel suo sviluppo commerciale.
Passammo subito dopo a contribuire alla apertura e commercializzazione dell’hotel che si
stava terminando di costruire a Cayo Coco: il Guitart-Cayo Coco, un prodotto di carattere
massivo, del tutto similare agli altri resort dei quali noi avevamo ampia esperienza nel resto
dei Caraibi.
Devo ricordare, per chiarire meglio uno degli aspetti specifici del nostro contributo, che
Flamingo con il marchio ALLEGRO RESORTS, è stato uno dei creatori e primi promotori
della formula industriale conosciuta come ALL-INCLUSIVE.
Questa offerta era allora del tutto sconosciuta a Cuba e Cayo Guillermo e Cayo Coco, invece,
aprivano da subito solo resorts con ospitalità All-Inclusive.
Infine, quando Guitart concluse la sua gestione a Cayo Coco, terminó anche il nostro lavoro
in quell’area”.
La Flamingo rimase nella memoria dei Jardines del Rey come la prima società straniera che
commercializzò, che realizzó sogni, che colonizzó in pieno secolo XX un piccolo cayo verde e
promettente, alla deriva lungo la Corrente del Golfo.
Flamingo resuscitò per primo la geografia del mondo hemingwayano di Cayo Guillermo,
cosicchè quando anche I Viaggi del Ventaglio di Bruno Colombo issò finalmente la bandiera dei
suoi Ventaclub a Villa Cojímar, già da tempo il fantasma di Papa Hemingway era tornato a
navigare tranquillamente e a catturare mitologiche pesche di aguglie e marlin nel grande fiume
blu che scorre in mezzo al mare, un poco più in là di Cayo Media Luna.
137
NUOVI ORIZZONTI PER IL TURISMO AVILEÑO
Mentre Cayo Guillermo fu coloniturizzata con umili chiatte in ferrocemento e lance con motori
fuori bordo, cioè con tutti i trasporti via mare, Cayo Coco si coloniturizzó con grandi camion
Kamaz, automobili e pullmann che potevano transitare sulla coda di quella specie di
lunghissimo pesce d’asfalto che galleggia su tutta la Bahía de Perros.
Prima la civilizzazione arrivò semplicemente, lentamente, con modi romantici ed artigianali;
dopo, tutto proseguì in modo veloce e impetuoso.
Durante la lunga prima fase di sviluppo, tutto fu esperimento, incertezza, non si aveva neanche
un vero piano regolatore; nella fase del grande sviluppo si aveva certezza esatta di dove si
voleva arrivare, si avanzava con passi sicuri ed esisteva un piano progressivo a breve e medio
raggio.
La storia era diversa, la meta era la stessa.
Ognuno ebbe i suoi testimoni eccezionali, ognuno svegliò sentimenti diversi.
Sulle spiagge di Guillermo giunse il “professor” Severo Morales con sulle spalle tutte le insegne
della grande arte del fare cocktail.
Alle solitarie spiagge di Coco arrivò dopo il maestro Juan Pérez, col suo portamento
impeccabile, da gourmet-maggiordomo nato.
Entrambi, con una missione in comune: ofrire la loro arte dell’ospitalità ai primi viaggiatori
turisti che si avventurarono a visitare quei paraggi, quando ancora quelle spiagge erano
anonime e non comparivano su nessun catalogo di viaggio.
“Ricordo che fui a Cayo Coco poco dopo la costruzione del terrapieno – mi disse Juan Pérez,
con la parsimonia verbale che è nel suo costume innato -. Andavamo a La Jaula e a Playa Las
Coloradas, quando ancora non c’erano strutture turistiche.
Cominciammo in tre: Ricardo Maidique cantiniere, “el Moro” autista di camion ed io.
Presto si aggiunsero vari “alunnni” che facevano pratica all’Hotel Morón.
Servivamo i turisti direttamente sulla sabbia.
Portavamo i cibi già pronti e, all’onbra di alcuni arbusti costruivamo una specie di cucina
rustica col fuoco che serviva solo a scaldare il pranzo e grigliare le aragoste.
Era tutto rudimentale e i turisti lo apprezzavano intensamente. Peccato che non portammo
mai un fotógrafo per avere qualche immagine reale di come ebbe inizio il turismo
internazionale a Cayo Coco.
“In seguito, e fu un’altra idea di Oscarito García, sorse a Playa Las Coloradas “El Ranchón”,
prima installazione turistica costruita a Cayo Coco”.
138
Nessuno avrebbe sospettato allora che poco tempo dopo, alla sinistra del Ranchón, su Playa
Larga, si sarebbe innalzato, nel Settembre 1993, il primo hotel Guitart-Cayo Coco, con le sue
decorazioni di legno pregiato e lucido di cera, il suo carismatico direttore spagnolo Pere Tubau,
con le sue pretese ben riuscite di riprodurre l’urbanistica, la architettura e l’ambiente di una
città coloniale come quelle edificate da quegli stessi spagnoli che decisero di lasciare le proprie
ossa qui, nella speranza di trovare un giorno il mitico El Dorado o la fonte della eterna
giovinezza.
L’hotel Guitart-Cayo Coco ha una targa, all’entrata del complesso dove ha sede anche l’
Ayuntamiento (la municipalità dell’isola), nella quale si legge che fu inaugurato da Fidel Castro
che il 12 Novembre disse nel suo discorso inaugurale:
“Uno ha idea che un hotel debba essere un solo edificio alto, di venti o trenta piani; oppure
pensa che un villaggio o un motel dividano le camere in tanti edifici: ma davvero, mai avrei
immaginato qualcosa somigliante a questa originale installazione turistica... (...)
“Tra gli edifici ho visto anche un originalissimo ristorante che sta lì, affacciato ai bordi della
laguna, un ponte, altri edifici, tante case come in un paese. Ho visto quanto si può vedere in
poco tempo e perciò non ho visto tutto; però abbiamo girato per questo luogo, attraversato le
aree verdi tra il mare e le case, uno spazio ampio; siamo entrati nelle camere, ammirato
l’arredamento, le decorazioni con oggetti d’arte, pitture e tutto quanto altro c’era e dobbiamo
dire che tutto questo non fu costruito solo da muratorti e carpentieri, ma anche da artisti.
Mi hanno raccontato, infatti, che parteciparono in molti e lavorarono molto duramente
proprio sul problema dell’ornamento delle camere.
Ho riportato una impressione realmente indimenticabile”.
Dopo quella data memorabile per il turismo nella Regione Avileña, gli hotels irruppero nel
paesaggio dell’arcipelago del nord.
Apparivano poco a poco come miraggi dietro le spiagge; sembravano bastimenti incagliati nelle
dune di bianchissima sabbia.
La storia non fa passi all’indietro - non potrebbe - poichè la solitudine ancestrale della vecchia
casermetta della guardia-frontiera, il silenzio notturno che avvolgeva La Patana galleggiante
sulle verde-azzurre acque di Guillermo, le tante parole scritte sulle pareti della Bodeguita, sono
rimaste come pezzi di valore del museo sentimentale di coloro i quali andarono nel tempo per
quei paraggi a dimostrare ancora una volta che senza la nascita del primo albero non sarebbe
mai esistito il bosco.
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EPILOGO
Non è casuale che questo libro finisca dove cominciano gli altri testi che si riferiscono allo
stesso argomento.
Prima scrutando documenti, una nutrita bibliografia, molto materiale conservato su
computers, poi consultando pagine web su Internet e una mole enorme di cronaca che mi
capitò tra le mani: più leggevo, più cercavo e più mi accorgevo che in tutto quello che si era
scritto sul turismo internazionale ai Jardines del Rey – inclusi i testi ufficiali – si afferma che
l’inizio di tutto fu la inaugurazione dell’Hotel Guitart-Cayo Coco.
Alcuni testi - solo quelli che più si spingono indietro nell’esplorazione del passato - fanno
riferimento brevemente, di sfuggita, alla presenza di Villa Cojímar.
Con quel fiuto per rastrellare il passato che si acquisisce come storici lungo il tempo; con quel
sesto senso che ci suggerisce che qualcosa è stato dimenticato; con l’intuito che è una
condizione quasi innata per uno scrittore, capii che se qualcuno non avesse scritto la
“preistoria” di quello che oggi è una destinazione turistica, presto quella memoria si sarebbe
dispersa irrimediabilmente nei meandri dell’ingratitudine, scomparendo infine nel gorgo
insondabile dell’indifferenza.
La storia del turismo internazionale nella Regione di Ciego de Ávila, nel suo arcipelago dei
Jardines del Rey ebbe inizio - come si può constatare in questo libro - molto tempo fa, quando
non c’erano strade sul mare, quando nessuno sapeva il significato della parola marketing,
quando non c’erano resorts ecologici nè scuole alberghiere e neanche graziose hostess alle
receptions o esperti barman in grado di parlare tre o anche quattro lingue.
Era un tempo in cui non c’erano Tour Operators nè aeroporti: c’erano solo “visitatori stranieri”.
Questa storia cominciò quando c’era molto poco, quasi nulla, nulla.
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DI LA’ DAL SOGNO TRA I MARI
Notizie utili sulla destinazione turistica dei Jardines del Rey
LA REGIONE DI CIEGO DE ÁVILA
L’estensione territoriale della regione è pari a 6.910 km2, dei quali 6.320 km2 corrispondono
alla terraferma e qullo che resta appartiene agli arcipelaghi del nord e del sud. La popolazione
arriva a circa 410 mila abitanti.
Le città principali sono: Ciego de Ávila, capoluogo regionale con 114 mila abitanti e Morón, con
61 mila abitanti.
Gli altri nuclei urbani contano tra i 5 e i 10 mila abitanti in media.
La città di Ciego de Ávila, fondata nel 1840, è catatterizzata da una trasaparente regolarità nel
suo tracciato urbano a pianta quadrangolare. Predomina un’architettura vernacolare, alla quale
si affianca una libera interpretazione del classicismo del periodo eclettico.
Insieme con questi stili prevalenti, si vedono molti esempi di architettura araba con radici
andaluse, barocche, art-decó.
Tra i fatti rilevanti della storia locale spicca, alla fine del XIX secolo, la costruzione della
“Trocha” (muraglia) dalla costa sud di Júcaro fino a Morón.
Questo sistema di difesa è considerato una delle opere di ingegneria militare più importanti
d’America.
La Trocha fu un sistema difensivo costruito dall’esercito spagnolo per tentare di impedire il
passaggio a ovest di Cuba delle truppe “mambì”, cioè dell’esercito “garibaldino” composto da
soldati neri a cavallo, con in testa grandi cappelli di paglia in foggia di cappello militare. Era
una successione ininterrotta di fortificazioni, ostacoli e dispositivi di comunicazione, una rete
tesa da Júcaro fino a Morón, lungo circa 68 km.
Una ferrovia a scartamento ridotto metteva in comunicazione tutto il sistema difensivo,
collegando oltre venti mila soldati con il comando generale basato a Ciego de Ávila.
Ciononostante, la muraglia (anche nel destino finale fu una linea Maginot caraibica) non fu in
grado di evitare l’estensione della Guerra di Indipendenza dalla Spagna a tutto il territorio di
Cuba. Ma la sua importanza andò oltre incidendo sulla vita locale in modo tale che ancora oggi
l’insediamento della popolazione è condizionato da essa.
La Trocha da Júcaro a Morón è stata ricostruita per un chiloemtro e mostra anche un fortino
dentro la città di Ciego de Ávila.
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Altri eventi importanti sono relazionati alle gesta della figura eroica di Camilo Cienfuegos nella
zona di Boquerón ed alla epopea dell’invasione della colonna armata del Che.
Al nord e molto vicina all’arcipelago dei jardines del Rey (la “cayeria”), si trova l’altra città
importante, Morón, con edifici dai tratti urbanistici e architettonici ispirati agli stili europei
del 1800, in un ambiente generale da paese del Far-West.
Il Monumento al Gallo, eretto all’entrata della città, è un un simbolo di valore straordinario
per la città, al punto che Morón è conosciuta fin dai tem più più remoti come La Ciudad del
Gallo.
I simboli della città sono: la Laguna de la Leche, sua carta d’identità naturale; El Vaquerito, il
suo eroe insigne; le torte di Morón, glassate in color pastello e famose in tutta Cuba.
Al sud si estendono i Jardines de la Reina, un rosario di isolotti (cayos) vicini alla barriera
corallina e con fondali molto ricchi e di eccezionale interesse per le immersioni subacquee e la
pesca di numerose specie; al nord il mare è colorato dalle isole dei Jardines del Rey, un
potenziale naturalistico di incalcolabile bellezza.
Sui “cayos” non c’è popolazione residente in permanenza.
CULTURA E TURISMO
Ciego de Ávila ha una tradizione di feste popolari e una attiva vita culturale, al centro della
quale è l’importante Teatro Principal, gioiello dell’architettura della città.
Si celebrano ogni anno il Festival dello Humour e quello della Musica con grande
partecipazione di popolo.
Un evento significativo, oggi in fase di grande recupero, è la Feria de Arte Popular, in cui si
presentano opere nate dalla creatività degli artisti locali.
Merita una segnalazione speciale anche la tradizione dell’artigianato in terracotta e legno
pregiato.
In Maggio, si distingue il Festival de las Flores, che costituisce la maggiore delle feste popolari
della città, così come le celebri Noches Avileñas, che si svolgono il sabato lungo tutta la via
principale con grande offerta di proposte gastronomiche e culturali.
BARRIERE CORALLINE E FONDALI MARINI
Al largo del litorale della cayería del nord, si estende una grande barriera corallina con un
fronte che si dipana per tutto il contorno esterno della piattaforma continentale cubana.
Questa barriera è reputata la seconda al mondo dopo la Grande Barriera Australiana, è lunga
circa 100 chilometri e su di essa affiorano coralli a banchi o su punte di scoglio.
142
IL PRODOTTO TURISTICO
L’Ecoturismo
Il Parque El Bagá ha 700 ettari di boschi, mangrovie, canali e lagune ed è la principale offerta
eco-turistica degli arcipelaghi.
A Cayo Coco si può passeggiare lungo tre sentieri tracciati per l’osservazione della flora e fauna
autoctona.
Altre offerte sono le visite a luoghi naturali speciali come le aree delle colonie di fenicotteri
(flamencos), le dune della Loma del Puerto a Cayo Coco e quelle di Playa Pilar a Cayo
Guillermo.
C’è anche la possibilità di escursioni a piedi lungo la rete dei canali interni per l’osservazione
dell’intricato sistema di lagune e mangrovie.
Sulla terraferma si pratica ecoturismo sulla Loma de Cunàgua, da cui si osservano molte specie
di volatili in una bella flora tropicale in un paesaggio di grande bellezza.
Florencia, su una lieve altura, permette di osservare paesaggi collinari, coltivati ad arte come in
un pasesaggio toscano ed offre itinerari di interesse storico come la famosa “”Ruta del Che”.
Un mondo a sé è costituito dalle grandi lagune de La Leche e La Redonda.
La Nautica
Oggi esistono due basi nautiche, Aguas Tranquilas a Cayo Coco e la Marina di Cayo Guillermo.
Da entrambe si organizzano gite in imbarcazioni leggere o catamarani con visite alle spiagge
vergini dell’arcipelago e immersioni in apnea.
Le immersioni con bombole sono possibili in partenza da ben quattro centri di immersione
subacquea (Diving-Centers) , due in ciascun isolotto. Ci sono oltre venti siti di immersione
lungo la barriera corallina, a distanza di una o tre miglia dai cayos.
Ci si immerge in profondità da 6 a 30 metri per osservare una miriade di specie coralline e di
pesci tropicali.
La pesca d’altura è praticata nel celebre “Canal Viejo de Bahamas” oppure “Old Bahamas
Channel” o anche “Saint Nicholas Channel”, insomma il famoso “fiume blu dei Caraibi”, quello
dove si catturano i grandi pesci in questa parte del mondo.
La pesca alla mosca (fly-fishing) è possibile lungo tutta la costa o nei tratti di mare interno e
nelle grandi baie: è disponibile la più completa attrezzatura e barche speciali.
Molto bello il Jungle Tour che è una escursione in lance piccole veloci che si realizza nei canali
interni di Cayo Guillermo, con immersioni in apnea (snorkeling) per osservazione di una gran
moltitudine di pesci nel canale del Pargo.
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I Grandi Eventi
Festival dei Treni a Vapore, a Morón
Evento annuale con l’attrazione delle locomotrici antiche a vapore, dei principi del XX secolo,
in perfette condizioni tecniche.
Festival de Jazz a Cayo Coco
Si tiene presso l’Hotel Senador nell’ultimo trimstre dell’anno e partecipano importanti figure
del jazz nazionale e artisti invitati da tutto il mondo.
Festival de la Salsa
In agosto si celebra un torneo de pesca alla trota nella Laguna la Redonda
Feria Jardines del Rey
Si tiene ogni anno a Dicembre per promuovere i nuovi prodotti turistici ed è dedicata ogni
anno a uno specifico settore di mercato.
ESMAR
E’ una mostra-evento che presenta le sculture d’ambiente paesaggistico ubicate lungo i viali
interni di cayo Coco.
Incontro Internazionale di Chitarra
Nella piazza de la Bolera a Cayo Guillermo
Carnevala acquatico
Si tiene nel canale della Laguna de la Leche nei mesi estivi
Festival Internacional Boleros de Oro
Ha sede permanente nel Teatro San Carlos di Morón.
La Salute
La principale installazione è presso il Centro di Talassoterapia di Cayo Coco, dove si offrono
servizi dedicati al milgioramento della qualità di vita, trattamenti antistress, messagi
terapeutici e fisioterapici etc...
Le Escursioni
Sono oltre 30 le gite e visite organizzate ed offerte dalle Agenzie Viaggi presenti in ogni Hotel e
includono anche i viaggi a La Habana, Holguín, Trinidad, Cienfuegos etc....
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PRINCIPALI SITI DI INTERESSE TURISTICO
La Silla
E’ un classico “parador” situato all’entrata dell’ormai famoso “pedraplén£ che collega la costa
nord di Cuba a Cayo Coco. Da qui si possono osservare i fenicotteri (Flamencos) e numerose
altre specie tipiche degli ecosistemi tropicali. Ospita una mostra della fauna di questa area e
dispone di un bar, cucina con servizio di barbecue ed ha un centro di informazioni turistiche.
La Cueva del Jabalí
E’ una specie di night-club tropicale con servizio bar e cucina barbecue. Ambientato in una
caverna naturale trasformata in luogo di piacere con spettacoli dal vivo.
La zona iun cui si ntrova ha un alto valore paesaggistico ed ecologico.
Sitio la Güira
E’ la ricostruzione fedele di un antico stabilimento di carbonai nella zona boschiva al centro di
Cayo Coco. Bell’ambiente storico che mostra aspetti della vita reale degli antichi residenti
sull’isolotto. Passeggiate a cavallo, trekking facile lungo sentieri ben tracciati, visita della
spiaggia descritta da Hemingway. Bar, ristorante, casa del miele.
Playa Flamencos
E’ una delle più accoglienti spiagge di Cayo Coco, localizzata verso il centro geografico
dell’isola. Barbecue, bar, equitazione, mezzi nautici.
Coco Diving Center
Localizzato a Punta Rasa, all’estremo ovest presso l’hotel Blau Colonial di Cayo Coco. Scuola di
immersioni, noleggio mezzi nautici, erscursioni per diving, safari marini.
Cayo Guillermo Diving Center
All’estremo ovest di Cayo Guillermo presso l’Hotel Meliá Cayo Guillermo. Scuola di
immersioni, escursioni con lance sia in mare che in laguna.
Puertosol Diving Center
Localizzato all’estremo est di Cayo Guillermo presso l’hotel Villa Cojímar.
Blue Diving Center
All’interno degli hotels Sol Cayo Coco e Meliá Cayo Coco. Tutti i servizi diving al completo.
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Punto Náutico Aguas Tranquilas
Nell’Ensenada de Bautista, all’estremità orientale di Cayo Coco. Sport nautici, uscite in mare
con barche col fondo di cristallo per osservare la barriera corallina. Safari in catamarano.
Servizio bar e barbecue.
Marina Cayo Guillermo
All’entrata di Cayo Guillermo, vicino a Villa Cojímar. Attracco ottimo, barche per battute di
pesca d’altura e diving con servizio a bordo di cuina e bar.
Jungle Tour
All’estremo sud dell’entrata di Cayo Guillermo, vicino alla zona alberghiera. Ideale per
escursioni nella flora e fauna di un ecosistema straordinario come quello della estesa foresta di
mangrovie.
Playa Pilar
E’ la più bella e la più famosa spaggia di Cayo Guillermo e di tuto l’arcipelago dei jardines del
Rey, scenario delle avventure descritte nel libro Isole nella corrente, di Ernest Hemingway.
L’attuale nome geografico di questa spiaggia, adottato ufficialmente dall’Instituto Cubano de
Cartografìa in omaggio al nome del celebre yacht dello scrittore nordamericano, le è stato
imposto a seguito della proposta pubblicata da Sisto Gungui (vedi capitoli precedenti).
Bar e barbecue.
Faro Diego Velázquez en Paredón Grande
Importante opera di ingegneria realizzata a metà dell’Ottocento. Punto paesaggistico e storico
di grande importanza, ai bordi del Canal Viejo de Las Bahamas.
Senderos para la observación de la flora y la fauna en Cayo Coco
Passaggiate di grande interesse lungo sentieri litoranei: Sendero de Las Dolinas, Sendero de la
Loma del Puerto e Sendero del Sitio la Güira.
Laguna La Redonda
Situata lungo la strada per Cayo Coco da Moròn, da cui dista circa 18 km.
Ospita il Centro Internacional de la Pesca de la Trucha (black-bass).
Mangrovie lussureggianti, canali acquatici naturali. Celebre per la pesca al black-bass gigante.
Bar e ristorante con squisito piatto della casa, “el calentico de La Redonda”.
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Laguna de la Leche
Dista circa cinque chilometri, a nord, dalla città di Morón. E’ il più grande invaso naturale di
Cuba 66 km quadrati. Famoso il suo Carnevale sull’acqua, Bar, ristoranti e centri di
divertimento notturno.
Florencia
E’ una intera area di grande bellezza, situata a nord-ovest della regione avilegna.
Paesaggio “toscano” di colline, dolci vallate, specchi d’acqua, torrenti e ruscelli.
Produce un tabaccio di ottima qualità. Borghi e paesi pittoreschi che conservano le milgiori
tradizioni contadine. Escursioni molto belle a cavallo nell’ambiente tipico di una campaghna
cubana con tocchi e colori da Chiantishire.
L’artigianato di Florencia produce le migliori selle di tutta Cuba.
Ciego de Ávila
E’ la capitale della regione omonima, del cui territorio occupa l’esatto centro. Città con una
intensa attività commerciale e culturale. Ospita importanti edifici di valore storico e
architettonico: Teatro Principal, Hotel Rueda, Museo, Galería de arte, Casa de Cultura. Si visita
la ricostruzione fedele di un tratto della “trocha”, la muraglia fortificata da Júcaro a Morón.
Finca Oasis
A circa 19 Km ad est della città di Ciego de Avila. Ambiente contadino, cucina creola, servizio
bar e barbecue. Ospita molti eventi sociali e feste anche private.
Loma de Cunagua
E’ un altopiano a 364 m d’altezza, è quasi interamente ricoperto da boschi. Bell’itinerario di
bird-watching è il sentiero “de los Tocororos y del Palmar de las Cotorras, una escursione
organizzata a cavallo. Si raggiunge dopo circa 18 km a est di Moròn.
Morón
Conosciuta come la “Ciudad del Gallo”, deve la sua fama alla vicinanza con la Laguna de Leche
ed alla produzione artigianale di spettacolari torte glassate. Città antica e quindi ricchissima di
leggende e tradizioni ancora vive. E’, per la sua maggior vicinanza alla fascia costiera, la
capitale dell’arcipelago del nord. Di grande rilievo architettonico l’antica stazione ferroviaria
del periodo coloniale, considerata la seconda, dopo quella dell’Avana, più bella e importante di
tutta Cuba nonchè la più ricca di storia per le grandi lotte operaie che la videro come scenario.
La chiesa cattolica di Moròn ha un’architettura unica al mondo, dovuta alle sue origini bellicoreligiose.
Moròn appare come una classica città da film western, con carrozze a cavallo, sombreri e
tipiche atmosfere da saloon.
La Fundación Nicolás Guillén e la Casa de La Trova sono conosciute e famose in tutta Cuba
per la qualità delle proposte culturali e delle iniziative sociali.
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(Inédito. Versión mecanografiada)
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Travel Trade Gazette. Un club di pesca per Flamingo. Italia, 19 aprile 1993.
148
Oficina del Delegado. Ministerio de Turismo. Ciego de Ávila. Información sobre el destino
turístico Jardines del Rey. Ciego de Ávila, 2000.
Montero, Ernesto. Del sueño al cielo (en) Periódico Trabajadores, 28 de agosto del 2000.
Instituto Nacional de Turismo. Empresa Turística Ciego de Ávila, 1991. Ciego de Ávila,
hospitalaria y amiga. (Guía turística).
Tamargo, José A. A sunny paradise (en) Cuban sunshine, La Habana, 2001.
Flamingo International Travel Consultant. Documenti. (Archivo de Sisto Gungui)
Ávila Tour, di viaggi della Girandola s.r.l. Documenti (Archivo de Alfredo Bassani)
Flamingo Internactional Travel Consultant. L’arcipelago delle piccole isole di Cuba, Milán,
1994.
Torres Socarrás, Eliser, Luis Omar Melián Hernández, Odey Martínez Llanes y Mayelín López
Ruiz. Inventario y caracterización de los humedales de importancia para las aves acuáticas
en los cayos Coco, Guillermo, Paredón Grande y en La Bahía de los Perros. (Documento
inédito)
Tans Pardo, Mary Leidy. Inventario y caracterización de la fauna de vertebrados presentes
en el acuatorio de la Bahía de los Perros, al Norte de la provincia Ciego de Ávila con fines de
protección y manejo. (Documento inédito)
Socarrás Torres, Eliser, Odey Martínez Llanes, Raudel Marrero Hernández. Caracterización
florística y faunística de Cayo Judas, Bahía de Los Perros. Ciego de Ávila. (Documento
inédito)
Socarrás Torres, Eliser. Inventario de la fauna de La Bahía de los Perros. (Documento inédito)
Ministerio de ciencia, tecnología y medio ambiente. Centro de investigaciones de ecosistemas
costeros. Cayo Coco. Informe sobre la situación actual del conocimiento de la fauna en las
cayerías norte y sur de la provincia Ciego de Ávila. Principales afectaciones. (Documento
inédito)
Planificación física. Ciego de Ávila. Agosto de 1991. Esquema de desarrollo de Cayo Guillermo.
(Documento inédito)
Centro Nacional de Areas Protegidas. Relatoría. Primer Taller Nacional de Humedales.
(Documento inédito)
Ministerio de ciencia, tecnología y medio ambiente. Centro de investigaciones de ecosistemas
costeros. Cayo Coco. Base de datos desarrollada en el proyecto “Manejo de la diversidad
biológica en ecosistemas terrestres de interés para el turismo”. Cayos Coco, Guillermo y
Paredón Grande. (Documento inédito)
Oficina del Delegado. Información sobre el destino turístico Jardines del Rey. (Documento
inédito)
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INTERVISTE ESCLUSIVE
Arnaldo Cambiaghi
Sisto Gungui
Alfredo Bassani
Eugenio Ciocca
Aldo Abuaf
Virgilio Negri
Oscar García
Alberto Gálvez
Rogelio Oliva
Juan Pérez
Severo Morales
Gilberto García
Manuel Villar
María Elena Felipe
Evelio Capote
Rafael Valdés
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ICONOGRAFIA
1-El autor de este libro con Arnaldo Cambiaghi en la librería Fahrenheit 451, de Piacenza, en
los días en que le realizó la entrevista.
2-Mapa de Theodor de Bry (1525), donde por primera vez aparecieron los nombres Jardines
del Rey y de la Reina.
3-Dunas de Cayo Guillermo, en Playa Pilar, entre las primeras y más protegidas del mundo
4-Flamencos en pleno vuelo: parte del paisaje faunístico de los cayos del norte.
5-Playa Pilar, la más hermosa de los Jardines del Rey y de la Reina, cuando la soledad era su
mejor amiga.
6-Cayo Media Luna, en la época en Hemingway navegó por sus aguas.
7-Hotel Santiago Habana, una de las pocas instalaciones con que contó el turismo
internacional en la provincia en sus inicios.
8-Bajo esta aguas, por donde deambula la trucha más grande del mundo, comenzó el turismo
internacional en la provincia avileña.
9-Hotel Morón pionero, junto al Ciego de Ávila, del desarrollo del turismo internacional en la
provincia.
10-Mapa de los Jardines de la Reina.
11-El Macabí, primera embarcación que usó el turismo en los Jardines de la Reina y luego en
los Jardines del Rey.
12-La Patana, cuando era El último paraíso, en los Jardines de la Reina.
13-Lobby-terraza de La Patana. Aquí se tomaron importantes decisiones para el desarrollo del
turismo en los Jardines del Rey.
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14-Aldo Abuaf, uno de los primeros italianos que anduvo con su cámara apresando la soledad
de ambos jardines.
15-Hemingway navegando en su yate Pilar. Así llegó a Cayo Guillermo en el primer catálogo.
16-Hemingway y su última esposa a bordo del yate Pilar
17-Hemingway leyendo dentro del agua ¿de playa Pilar?
18-Alfredo Bassani, el primer italiano que merodeó por Cayo Guillermo, cabalga sobre sus
arenas vírgenes.
19- El viejo cuartel de guardafronteras de Cayo Guillermo, convertido en el primer hotel de los
Jardines del Rey, con su legendaria Bodeguita
20-La Patana le da la vuelta a Cuba y tira el ancla en las playas de Cayo Guillermo.
21-Sisto Gunguy, en los tiempos en que llevó a Cayo Guillermo el fantasma de Ernest
Hemingway.
22-Entrevista y foto de Sisto Gunguy, publicada en un diario italiano, en la que promociona el
turismo en la región avileña.
23-Oscar García y Eugenio Ciocca navegan en el Tritón por las aguas de Cayo Guillermo.
24-Luis López, Guataca, parte de la geografía humana de los primeros tiempos en los Jardines
del Rey y de la Reina.
25-Guataca, captura una langosta para la cena de los primeros turistas.
26-El Tritón, yate insigne del turismo avileño en los primeros tiempos.
27-Viejo ferrocemento convertido en yate de paseo.
28-Jorge Ordóñez en su yate antes de “casarse” con la actriz Sandra Milo.
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29-Eugenio Ciocca pesca con arco y flecha para procurar el abastecimiento de La Patana.
30-Eugenio Ciocca en un parapente. Demuestra que en esos tiempos había que hacer
animación de verdad.
31-Cocina de la Bodeguita de Guillermo.
32-Cubierta del primer catálogo donde la Flamingo promocionó Cayo Guillermo.
33-Mapa de Cayo Guillermo que apareció en el primer catálogo.
34-Logotipo que identificaba a la Flamingo en Cayo Guillermo.
35-Logotipo que identificaba a Villa Océano en Cayo Guillermo.
36-Logotipo que identificaba a Villa Flotante en Cayo Guillermo.
37-Documento que anuncia oficialmente el lanzamiento al mercado de la Flamingo IslandCuba.
38-Sisto revisa la decoración que llevarán las duchas externas de las cabañas.
39-Plano de distribución de las cabañas en Villa Cojímar.
40-Construcción del restaurante La Vigía, en Villa Cojímar.
41-Primeras cabañas construidas en Villa Cojímar. Cada una tenía un nombre relacionado con
la vida y obra de Hemingway.
42-Documento donde aparecen las ideas preliminares de la primera villa que se construyó en
los Jardines del Rey.
43-Mensaje de Sisto Gunguy anunciando la preparación del proyecto de Villa Cojímar.
44-Pedraplén que unió la tierra firme de Cuba con Cayo Coco. Fue construido por el
contingente Roberto Rodríguez, El Vaquerito.
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45-Puente que unió a Cayo Coco con Cayo Guillermo.
46-Entrada a los Jardines del Rey, representada por una inmensa corona.
47-Mapa de los Jardines del Rey, donde se señalizan las vías que ha construido el contingente
El Vaquerito.
48-Cubierta del segundo catálogo confeccionado por la Flamingo. Fue premiado en una
convención del Turismo, en Varadero.
49-Presentación del segundo catálogo a cargo de Sisto Gunguy.
50-Promoción del Hotel Villa Cojímar en el segundo catálogo premiado en la Convención del
Turismo en Varadero.
51-Créditos del segundo catálogo.
52-Centro de Caza y Pesca, más conocido por La Casona.
53-Virgilio Negri, uno de los aventureros italianos que aportó su granito de arena al desarrollo
del turismo en esta región.
54-Sisto Gunguy, Francisco Herrera, Alexis Escobar y Oscar García, en el aeropuerto el día que
recibió el primer vuelo charter desde Italia.
55-Cubierta de uno de los libros que tenía la biblioteca creada por la Flamingo en Cayo
Guillermo.
56-Primer catálogo de pesca y caza que se publicó en Morón.
57-El Gallo de Morón, símbolo de la ciudad, fotografiado por Aldo Abuaf.
58-Hotel Guitart-Cayo Coco, el primero construido en Cayo Coco, inaugurado por Fidel Castro,
el 12 de noviembre de 1993.
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59-Matas de coco plantadas por Sisto y Oscar, cuando el turismo en los Jardines del Rey
todavía era un sueño.
60-Sisto Gunguy y el autor de la obra revisan en la oficina del escritor el pliego fotográfico de la
versión italiana.
61-Sisto Gunguy en la tertulia Estoy poniendo la hamaca, mientras expone sus impresiones
sobre la edición cubana del libro Más allá de los sueños.
62- Sisto Gunguy y Oscar García, reciben de manos del autor un ejemplar de la edición cubana
de la obra Más allá de los sueños.
63-Juan Pérez y Sisto Gunguy evocan los viejos tiempos.
65-De izquierda a derecha Oscar García, Sisto Gunguy, Gilberto García y Larry Morales.
66-El autor abraza emocionado al legendario Guataca. Junto a ambos tres de los protagonistas
italianos: Sisto Gunguy, Alfredo Bassani y Eugenio Ciocca.
67-El autor presenta la edición cubana de la obra Más allá de los sueños.
68-Los protagonistas firman los libros adquiridos por el público.
69-Larry Morales y Sisto Gunguy conversan sobre nuevos proyectos.
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Larry Morales (Morón, Cuba, 20 Agosto 1957)
Poeta, romanziere, saggista e storico ricercatore.
Nel 1986 ha ottenuto il Premio 26 de Julio per le opere di saggistica storica.
Nel 1996 ha ottenuto il Premio di Poesía "Regino Pedroso".
Nel 2007 ha ottenuto il Premio UNEAC nel genere del saggio storico.
Ha pubblicato i libri:
-
El jefe del Pelotón Suicida.
Ediciones Unión, La Habana, 1979. Ediciones Abril, La Habana, 2002. Storico).
Tradotto e pubblicato in Italia col titolo Il Comandante del Plotone Suicida del Che, da Edizioni La
Sesia, Milano, Italia, 2001.
Riedizione spagnola con Ediciones San Luis y Aurelia de España, La Habana, 2008.
- Enrique Varona, el líder de las mil huelgas.
(Editorial Letras Cubanas, La Habana, 1989. Romanzo storico). Premio 26 de Julio nel 1986.
- Breve historia inconclusa. (Ediciones Casal, 1992). Racconti.
- Medio milenio por Morón.
(Ediciones Avila, Ciego de Avila). Monografia romanzata.
Prima edizione luglio del 2000 - seconda edizione ottobre del 2000 - terza edizione febbraio del 2002.
Premio Nacional de Investigación Juan Marinello, La Habana 2001).
- Máximo Gómez al oeste de la Trocha. (Ediciones Unión, La Habana, 2003). Saggio storico.
- Santiago Alvarez, cronista del alba. (Ediciones Avila. 2003). Romanzo storico.
- El Gallo de Morón. (Ediciones Avila, 2004). Saggio storico.
- Más allá de los sueños. Ediciones Avila, 2006. Saggio storico)
- Tirarle piedras al mar. Editorial Ciencias Sociales, La Habana, 2008). Biografia romanzata.
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Larry Morales
Autore con vastissime riprese antologiche sia nazionali che internazionali.
Molte sue opere sono state trasposte per radio, teatro e televisione.
Pluripremiato dalla UNEAC
Presidente della Fundaciòn Nicolàs
Guillèn
Larry Morales a colloquio con il Presidente cubano
comandante Fidel Castro Ruz