Cento Città, n. 49
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Cento Città, n. 49
1 Sommario Le Cento Città * Direttore Editoriale Mario Canti Comitato Editoriale Fabio Brisighelli Romano Folicaldi Natale G. Frega Giuseppe Oresti Giancarlo Polidori Direzione, redazione, amministrazione Associazione Le Cento Città [email protected] Direttore Responsabile Edoardo Danieli Prezzo a copia Euro 10,00 Abb. a tre numeri annui Euro 25,00 Spedizione in abb. post., 70%. - Filiale di Ancona Reg. del Tribunale di Ancona n. 20 del 10/7/1995 Stampa Errebi Grafiche Ripesi Falconara M.ma 3Editoriale Un ruolo attivo per il territorio di Natale Giuseppe Frega 4Primo Piano Bellezza contro forza. Ecco perchè è necessario un Ministero della cultura di Gianfranco Mariotti 7 Il saggio Cinte murarie delle 35 città delle Marche nella regione V (Picenum) e VI (Umbria et Ager gallicus) di Mario Luni, Claudia Cardinali 15 Il Convegno Ricerca, il filo conduttore tra Università e territorio di Andrea Zaccarelli 17 La tendenza Amorevole invasione di Mario Canti 19 La letteratura Luigi Di Ruscio, un grande poeta marchigiano di Alberto Pellegrino Periodico quadrimestrale de Le Cento Città, Associazione per le Marche Sede, Piazza del Senato 9, 60121 Ancona. Tel. 071/2070443, fax 071/205955 [email protected] www.lecentocitta.it * Hanno collaborato a questo numero: Alberto Berardi, Leonardo Bruni, Mario Canti, Claudia Cardinali, Giovanni Danieli, Roberto D’Errico, Pier Luigi Falaschi, Romano Folicaldi, Natale G. Frega, Mario Luni, Gianfranco Mariotti, Corrado Paolucci Alberto Pellegrino, Andrea Zaccarelli In copertina Spettacolo medievale a Castel Trosino. Fotografia di Roberto D’Errico 25 L’arte Girolamo di Giovanni di Pier Luigi Falaschi 28 La tradizione La musica arabita ha 90 anni di Alberto Berardi 30 Enogastronomia I formaggi delle Marche di Leonardo Bruni 33 Libri ed Eventi di Alberto Pellegrino 41 Vita dell’Associazione di Giovanni Danieli Le Cento Città, n. 49 TVS è fermamente convinta dell’importanza di saper riconoscere la bellezza in tutte le sue forme. Per questo, da sempre è impegnata nella produzione di articoli per la cottura che si distinguono per design e funzionalità. Ma l’amore per il bello di TVS si esprime anche nella collezione di opere d’arte, che conta opere di pregio realizzate dai più importanti autori del periodo dal XIV secolo al XIX secolo. L’opera qui presentata ne è solo un esempio. Floriano Bodini, Cavallo e Nudo di donna (Gemonio di Varese 1933 - Milano 2005) www.tvs-spa.it | TVS Spa_Via Galileo Galilei, 2_ Fermignano (PU) Italy AD Amore per il bello, passione per l’utile. L’Editoriale 3 Un ruolo attivo per il territorio di Natale Giuseppe Frega Quando il Direttore editoriale Mario Canti mi ha contattato per chiedermi di scrivere una cartella da pubblicare in questo numero della rivista che coincide con la fine del mio mandato di Presidente, ho capito, anche se il buon Mario non mi ha suggerito nulla, che avrei dovuto incentrare l’articolo sul saluto di commiato. Ci ho pensato un attimo, poi ho deciso che era quello che non desideravo fare. Non avevo voglia di parlare di me o dei diversi appuntamenti che hanno caratterizzato l’anno appena trascorso; chi ha partecipato li conosce ed in ogni caso è ormai acqua passata. Mi piacerebbe invece fare una riflessione sul futuro dell’Associazione, per gli anni che verranno, su quali potranno essere le strategie programmatiche a venire rivolte al consolidamento e alla crescita dell’Associazione, per rafforzare i rapporti con le Istituzioni e soprattutto con il territorio marchigiano. A mio parere molta attenzione deve essere rivolta al territorio perchè svolga un ruolo attivo e non passivo. È importante promuovere conferenze, convegni, tavole rotonde aperte a più esperti, considerato che l’energia culturale propria dell’Associazione è articolata e sfaccettata nei suoi diversi aspetti, anche formativi, in modo che non risulti mai monocromatica ma che al contrario sia policromatica con fasci duto, ma molto deve essere ancora fatto. Un altro punto significativo per la crescita dell’Associazione è favorire l’ingresso di giovani professionisti che, con la potente forza trascinatrice posseduta proprio negli anni della giovinezza, possono apportare nuova linfa all’Associazione. Naturalmente il loro ingresso deve essere gestito in modo molto garbato e la selezione condotta con rigore culturale. di luce intensi e decisi come quelli emessi da un prisma poliedrico. L’attività dell’Associazione dovrebbe essere sempre meno esclusiva dei Soci per diventare punto di riferimento per tutte le competenze regionali e dovrebbe essere vista come un crogiolo di cervelli che, se stimolati, sono pronti a scendere in campo per dare il proprio contributo al territorio. Naturalmente per arrivare a ciò tutti i Soci devono essere convinti, coesi e disponibili. Sono certo che il coinvolgimento del mondo istituzionale all’attività dell’Associazione può essere una leva importante; molto è stato già compiuto in passato da chi mi ha prece- Le Cento Città, n. 49 Sono arciconvinto che Maurizio Cinelli, persona di elevata professionalità, con la sua presidenza porterà l’Associazione a raggiungere questi ed altri obiettivi. Ringrazio ora il Consiglio Direttivo ed in modo particolare il Segretario Generale Giovanni Danieli che, insieme a Maria, con professionalità, entusiasmo ed amicizia mi hanno molto facilitato il compito. Un altro sentito ringraziamento è rivolto a Sua Eminenza il Cardinale Elio Sgreggia, ai Sindaci ed a molti altri ancora che, non appena sollecitati, mi hanno teso le loro mani. Grazie davvero. Ad maiora Primo piano 4 Bellezza contro forza Ecco perchè è necessario un Ministero della cultura di Gianfranco Mariotti Virtù contra furore / prenderà l’arme, e fia ’l combatter corto ché l’antico valore / ne li italici cor non è ancor morto. Sono i versi di Petrarca che Niccolò Machiavelli pone a epitome e suggello al termine del suo Principe. Riferiti all’Italia, e lo sono, questi versi sono ancora attuali. Declinati in termini moderni, infatti, possono corrispondere a bellezza contro forza (forza economica, politica, militare) ed esprimere così il motivo conduttore che presiede a tutta la nostra storia e anche alla vocazione e al destino del nostro Paese. Da quanti anni tutti noi, parlando di cultura, ripetiamo invano le stesse cose? Che l’Italia detiene la maggior parte dei beni culturali del pianeta, e che questo è il suo petrolio inutilizzato; che, al contrario, cultura, istruzione, ricerca, formazione e tutela dell’ambiente sono regolarmente marginalizzate; che la cultura non è una spesa, ma un investimento; che la cultura “si mangia” e può produrre ricchezza; che l’istruzione, musicale, scientifica e umanistica, è il fondamento, l’architrave di una nazione civile, lo strumento indispensabile per qualunque programma di crescita e sviluppo. Quante volte siamo tornati, inutilmente, sugli stessi concetti? Allora, dobbiamo avere la chiara consapevolezza che questi discorsi non hanno, e non avranno, alcun riscontro politico. Il problema reale è dunque l’irrilevanza di ogni proposta che riguardi la cultura, al di là della sua validità. È spontaneo attribuire tutto ciò alla sordità della classe politica (come dimostrerebbero i programmi delle ultime campagne elettorali), ma c’è di più e di peggio, ed è il diffuso disinteresse dell’opinione pubblica. L’Italia ha perso il senso della sua identità, della sua storia, del suo legame col passato, forse anche per l’uso distorto e invasivo dei mezzi di comunicazione, in primo luogo delle TV commerciali. Manca all’immaginario collettivo del Paese la coscienza della irripetibilità italiana, il fatto che l’Italia è il più grande produttore di bellezza del pianeta, e riveste questo ruolo, senza interruzione, da quasi tremila anni, ed è chiaro che qui si parla di bellezza non solo ambientale e paesaggistica, ma anche monumentale, pittorica, letteraria, poetica, musicale. Sappiamo bene che vi sono state nei millenni altre civiltà che hanno contribuito al progresso spirituale dell’umanità: in Egitto, in Mesopotamia, in Cina e soprattutto in Grecia, vera culla della cultura europea. È in Grecia che poesia, letteratura, filosofia, matematica, arti visive, architettura hanno incarnato lo spirito dell’Occidente. Eppure nessuna di queste civiltà ha retto alla prova del tempo: tutte, prima o poi, hanno perduto l’energia creatrice e la forza propulsiva e adesso, direbbe Leopardi, più di lor non si ragiona. Pensiamo a città come Atene, il Cairo, Corinto, Alessandria, Bagdad, Damasco: furono splendide e illustri, ma oggi, a parte le residue testimonianze monumentali, sono diventate città come le altre. Roma no, l’Italia no: per quasi trenta secoli essa è sempre saldamente restata il luogo privilegiato della bellezza nel pianeta, malgrado le guerre, le invasioni, la debolezza politica, le dittature. Una parentesi sulle dittature. Di regola esse, imponendo una cultura di stato, impediscono la libera espressione artiLe Cento Città, n. 49 stica come autonoma lettura del mondo. In tempi moderni ne abbiamo avuto due esempi drammatici nella Germania di Hitler e nell’Unione sovietica di Stalin. Nella prima il ministro Goebbels diceva di mettere mano alla pistola appena sentiva parlare di cultura, nella seconda il “realismo socialista” soffocava in partenza ogni voce fuori dal coro. In entrambi i casi si verificò una imponente diaspora di scrittori, scienziati, artisti e musicisti, in fuga verso i paesi democratici. Nello stesso periodo, anche l’Italia ha avuto la sua dittatura, con la fuga all’estero di grandi personalità (come Arturo Toscanini, Rita Levi Montalcini, Enrico Fermi…). Una dittatura non meno oppressiva delle altre, con abolizione della libertà di stampa e della libertà di opinione, carcere e confino per gli oppositori, militarizzazione dei giovani, qualche assassinio di stato, leggi razziali, spirito guerrafondaio e infine il famigerato Minculpop che condizionava tutte le attività culturali attraverso le veline. Eppure, incredibilmente, anche in queste condizioni il Paese, imperturbabile, ha continuato a produrre bellezza. Proprio in questi giorni nella vicina Forlì è stata aperta una mostra dedicata all’Arte italiana dal 1920 al 1940. Essa mostra plasticamente non solo il livello qualitativo, ma anche la dimensione quantitativa del fenomeno. Persino i manifesti dedicati alla goffa retorica di regime attorno al mito della romanità e dell’impero sono bellissimi. E allora? L’irripetibilità italiana è il frutto della sua storia complessa e inquieta: l’avvicendarsi di papi, monarchi, principi, condottieri, tribuni, tiranni, demagoghi ha fatto dell’Italia il crogiuolo culturale dell’Occidente. Primo piano 5 Palazzo Buonaccorsi a Macerata in un suggestivo allestimento tricolore (foto dal sito www.maceratamusei.it). Si obietterà che l’Italia è l’ultimo dei grandi paesi europei ad aver raggiunto la dignità di nazione politicamente unita e indipendente: appena un secolo e mezzo fa. È vero, ma il concetto storico di Italia è in realtà antichissimo e ben delineato. Esiste da sempre una precisa koinè italica che accomuna tutti i popoli della Penisola ed è basata su tre pilastri: la lingua, la religione e la storia. È noto che Metternich, nel 1849, fece infuriare i patrioti del Risorgimento sostenendo che l’Italia era solo “un’espressione geografica”. In realtà l’affermazione non era in sé priva di fondamento: piuttosto il politico austriaco avrebbe dovuto aggiungere a “geografica” anche “storica e culturale”. Del resto, non c’è solo il ricordato Machiavelli a rivolgersi agli “italici cor”. C’è l’esempio di Dante con la sua invettiva: Ahi serva Italia, di dolore ostello…, cui fa eco Petrarca con: Italia mia, benché il parlar sia indarno…, e la geniale sintesi linguistica dantesca: …del bel paese là dove il sì suona…, e quella geografica, ancora di Petrarca: …il bel paese / ch’Appennin parte, il mar circonda e l’Alpe. Di cosa parlano questi spiriti illuminati? Di una terra sconosciuta? Di un regno immaginario? O parlano del nostro Paese, l’Italia? E a chi rivolge Leopardi, qualche seco- lo dopo, la sua appassionata invocazione: O patria mia, vedo le mura e gli archi… quando l’unità d’Italia è ancora di là da venire? La particolarità della bellezza italiana non sta solo nei monumenti, nelle cattedrali, nei borghi umbri e toscani, nelle colline marchigiane, nei castelli piemontesi, nelle costiere amalfitane, nelle ville venete, nelle rocche, nei campi disegnati secondo antiche armonie dal genius loci, tutte cose non riproducibili, ma nella storia dell’arte tutta, nel miracolo del Rinascimento, il più impressionante accumulo di genio umano mai raggiunto sulla terra, nell’Umanesimo, che mette l’uomo – il suo gesto, la sua fatica, il suo talento – al centro delle cose, nel Melodramma, di cui l’Italia è la culla e il centro propulsivo, nell’architettura, dai Romani, costruttori di ponti, acquedotti e arene spesso ancora funzionanti, fino a Giò Ponti, Giovanni Michelucci e Renzo Piano, nelle biblioteche, negli archivi, nella rete dei teatri. Nessun altro Paese ha altrettanta possibilità di riassumere nella sua storia la trama del tempo e il divenire della civiltà, di raccontare l’Europa e il mondo attraverso una successione di culture fra le maggiori e più universali (si pensi all’essere Le Cento Città, n. 49 il centro della Cristianità) mai fiorite su questa terra. L’Italia è dunque una parte decisiva della coscienza del mondo. Curiosamente, si può arrivare alle stesse conclusioni anche invertendo il punto di vista, considerando cioè l’atteggiamento degli stranieri, oggi e lungo la storia, nei riguardi del nostro Paese. Pensiamo al Grand tour, il viaggio iniziatico che i rampolli delle nobili famiglie del Nord Europa facevano nel XVIII secolo in Italia per completare la loro cultura. Esso è l’epifenomeno di un’attrazione più antica, complessa e anche contraddittoria che l’Europa ha avuto (e ha) per l’Italia. Nella prima metà del ’500, di fronte al consolidamento dei grandi regni europei (Francia, Inghilterra e Spagna) l’Italia si presentava come una realtà frammentata e disomogenea, caratterizzata da uno straordinario sviluppo artistico e una totale fragilità politica. Nasce di qui la spinta, la voglia di appropriarsi di questa ricchezza diversa, fatta di città libere e ricche, ma militarmente imbelli, sedi di una cultura evoluta e affascinante. Questo motivo correrà lungo i secoli e influenzerà generazioni di moderni viaggiatori, non solo quelli del Grand tour, fino ai giorni nostri. Gianfranco Mariotti Cosa affascina così tanto gli stranieri? Quale frutto proibito cercano, a quale carenza vogliono rimediare? Si muove lungo i secoli uno strano sentimento di attrazione-diffidenza per questo paese meraviglioso e pericoloso, infido giardino di delizie, paradiso e luogo di perdizione: anche perché abitato – secondo l’antico stereotipo – da un popolo disordinato e allegro, simpatico e superficiale, accogliente e inaffidabile. Ma in realtà al fondo di tutto c’è una speciale invidia, un’ammirazione incoercibile, un atteggiamento forse inizialmente altezzoso, ma subito contraddetto dallo spettacolo schiacciante della bellezza. Sono in gioco alcuni miti: il mito della classicità (le rovine, i monumenti…), il mito del clima (la luce, il sole, l’amore…), il mito del Rinascimento (l’indiscusso vertice spirituale della storia del mondo). A tutto ciò si aggiunga l’evidenza di un popolo, erede legittimo di tanto patrimonio, che vive da sempre immerso nella grazia e nell’armonia. Ne deriva un sentimento contrastante che, seppure declinato nelle forme più affabili, ritroviamo persino nei più appassionati dei nostri spettatori al Rof. 6 Allora, tutto ciò detto: la crisi economica è anche una crisi culturale e d’identità, una crisi di saperi, di conoscenze e di competenze. Non si dà crescita né sviluppo possibili senza un consapevole investimento sulla cultura, la formazione, la ricerca, l’istruzione (si pensi che la Germania ha tagliato 80 miliardi di spesa pubblica e ne ha investiti 13 nella cultura!); senza l’orgoglio per la nostra identità e la nostra storia, il legame fra passato e presente che fa inimitabile il nostro Paese. Occorre cioè un moderno umanesimo, che combini il patrimonio storico con una nuova creatività, e individui la cultura non come uno strumento, ma come un fine, un obiettivo in sé. C’è bisogno di una svolta, di un soggetto nuovo. Ciò che occorre è un Ministero della cultura: siamo uno dei pochi grandi paesi d’Europa a non averlo. Non si tratterebbe di accorpare le diverse funzioni oggi disperse fra vari ministeri (beni culturali, istruzione, ambiente, turismo, ricerca…) ma di un soggetto veramente diverso, nuovo, fortemente identitario, che fosse uno dei più importanti dell’esecutivo, e che si facesse carico dei temi Le Cento Città, n. 49 legati a un’identità di nazione unica nel pianeta, che ha proprio nella cultura e nell’arte, intrecciate ai beni paesaggistici e ambientali, la sua vocazione storica e la sua cifra caratteristica. Dunque un dicastero fondamentale (come quello della difesa in Israele o dell’industria in Germania) autorizzato anche a operazioni di peso e di grande respiro, come il Beaubourg e la piramide del Louvre a Parigi, o il MoMA a New York. Finora hanno fatto ostacolo forse la paura di un altro Minculpop o la nascita di una cultura di stato, cioè l’occupazione da parte di una forza politica che voglia dettare regole in campo artistico. Ma ormai, nel XXI secolo, è un rischio che si può correre, e che le maggiori nazioni europee hanno corso senza danni. Si tratta davvero di una strada obbligata per il nostro Paese. Bellezza contro forza, si diceva all’inizio. Ebbene, finora, malgrado le innumerevoli vicissitudini storiche che hanno agitato nel tempo la Penisola, e malgrado la brevità della nostra vicenda unitaria nazionale, la bellezza ha sempre vinto la sua sfida. Perché non dovrebbe vincere ancora? Il saggio 7 Cinte murarie delle 35 città delle Marche, nelle regiones V (Picenum) e VI (Umbria et Ager gallicus) di Mario Luni e Claudia Cardinali Il processo di romanizzazione dell’Ager GaIllicus et Picenus si è articolato in un periodo che va dagli inizi del III secolo a.C. fino al I a.C. ed ha comportato per la prima volta nella regione la fondazione e lo sviluppo di una serie di città con cinta muraria in siti strategici per il controllo del territorio medio adriatico, in genere occupati da precedenti insediamenti piceni, dell’età del Ferro. Con la definizione dello stato augusteo (30 a.C. – 14 d.C.), il territorio corrispondente alle Marche attuali venne suddiviso in due regioni, con confine sull’Esino (Aesis): la regio V Picenum (fino al Tronto), che contava diciannove centri urbani (coloniae e municipia con autonomia amministrativa), e la regio VI Umbria et ager Gallicus (fino al Conca), con sedici città. Lo studio dei monumenti pubblici e privati conservati in queste trentacinque città (figg. 1-2) sta evidenziando in modo sempre più consistente tra III e I secolo a.C. un’opera di monumentalizzazione e completa ristrutturazione dello spazio urbano, in particolare in epoca tardo repubblicana e augustea; tale fenomeno è da porre in relazione con la concessione della cittadinanza romana alle popolazioni alleate (tra 89 e 49 a.C.) ed Fig. 1 - Carta del territorio medioadriatico con alla politica di dislocazione delle colonie e dei municipi. urbanizzazione favorita da Augusto. Numero- (Fermo), Septempeda (S. Severise antiche città murate si dota- no Marche), Auximum (Osimo), rono infatti in questa fase di Ancona (Ancona), Aesis (Jesi), monumenti pubblici di pregio, Pisaurum (Pesaro), Urvinum rappresentativi dell’aumentata Mataurense (Urbino), Pitinum consistenza del popolamento, Mergens (Pole di Acqualagna). di teatri, anfiteatri, terme, oltre Cortine urbiche realizzate con a infrastrutture quali sistemi questa tecnica edilizia risultano fognari e acquedotti, con cister- in riferimento alle città di più ne poderose, come ad esempio a antica origine nella regione e sono datate in genere tra III e Fermo e Urbino. In questa sede si intende limi- primi anni del I secolo a.C., ossia tare la presentazione ad una solo tra il primo avvio della romaniztipologia di monumenti pubblici, zazione dell’area medioadriatica le cinte urbiche: le mura defini- ed il bellum sociale (91-88 a.C.) scono infatti lo spa- tra Roma e gli alleati italici. Sul margine del pianoro natuzio urbano, segnano rale su cui sorge Urvinum Matauil limite tra interno ed esterno, tra urbs rense, ad esempio, è stata costrued ager e al di là della ita la cinta muraria della città, tra reale valenza difen- III e II secolo a.C.; essa è stata siva, assolvono una realizzata esattamente lungo la importante funzione linea costituita dal “ciglio tattisimbolica e rappre- co”, da cui ha inizio l’erta scarpata che caratterizza tre quarti sentativa. del perimetro del “Poggio”, alto Volendo prendere circa 450 metri. Alcuni brevi tratin esame in sintesi ti della cortina difensiva sono le cinte murarie di ancora conservati in parte in città medioadriati- elevato, generalmente inglobati che, si può osservare in strutture edilizie costruite in che esiste documen- sovrapposizione in epoca medietazione di una certa vale. Un ulteriore segmento di consistenza specie in muratura in opera quadrata è relazione a quelle in stato rinvenuto nel 1990 lungo opus quadratum, atte- il percorso ipotizzato in precedenza e conferma l’attendibilità Fig. 2 - Carta dell’area medioadriatica con state in nove antichi della ricostruzione grafica della dislocazione delle colonie, dei municipi e degli assi centri (figg. 3-7): ad Asculum, Firmum pianta proposta dell’oppidum di viari. Le Cento Città, n. 49 Mario Luni 8 di Monterinaldo e con ben levigata, pur presentando le stesse fondazioni una discreta tecnica di messa in del Tempio corinzio- opera a secco. Non vi sono tracce italico costruito tra II di lavorazione per il sollevamene I secolo a.C. sull’a- to e il trasporto dei blocchi, né cropoli di Ancona. marche di cava. La tecnica di Nella regione costruzione dell’opera quadrata medioadriatica lo va datata alla metà del II secolo stesso tipo di opera a.C. circa, anche sulla base del quadrata caratteriz- pertinente riscontro con le mura za tratti superstiti di romane della città di Auximum cinte murarie dello (Osimo). Queste rappresentastesso periodo, quali no l’esempio meglio conservato quelle emblematiche nella regione di questo tipo di di Pisaurum e di Auxi- struttura, databile subito dopo mum. In queste due il 174 a.C.; un passo di Livio, città, rispettivamente infatti, attribuisce all’iniziativa di colonie dal 184 e del costruire la cinta muraria della 174 a.C., la datazio- città ai censori in carica nel 174 ne va necessariamente a.C., Fulvio Flacco, sopra mencircoscritta alla fase di zionato, e Postumio Albinio. vita immediatamente Alcuni tratti risultano ancora in parte conservati ed in particolaFig. 3 - Tratto di mura di età repubblicana, in opus successiva alla loro deduzione, quando i re quello sul lato Nord-Est ragquadratum, rinvenuto ad Ancona. Romani provvidero a giunge l’altezza massima di 9-10 fortificare gli abitati metri; in quest’area alcuni saggi età repubblicana. Anche a Pitinum Mergens è stabilmente subito dopo la loro di scavo hanno confermato la data di costruzione delle mura venuto in luce circa trent’anni fa fondazione. Considerando l’importanza nella prima metà del II secolo presso il fiume un tratto di mura urbiche nel corso di lavori occa- che la difesa del nuovo nucleo a.C. Esse sono state realizzate sionali. La struttura, in seguito urbano poteva assumere nel con- con blocchi parallelepipedi di reinterrata, era caratterizzata da testo politico-militare della regio- calcare giallo, messi in opera a blocchi parallelepipedi di calcare ne medioadriatica nel periodo secco in filari regolari di 40-45 bianco, messi in opera a secco, dopo la guerra annibalica, la centimetri di altezza (fig. 5). La cinta urbica di Septempesimile ad altre attestate in antiche costruzione delle fortificazioni città dell’Umbria e datate tra la della città di Pisaurum avrà sicu- da è stata esplorata all’inizio del fine del III secolo e l’inizio del ramente assorbito le prime ener- Novecento e attualmente risultagie della comunità. Va ricordato no visibili dei tratti di muratura I a.C. Alcuni resti di blocchi squa- che già nel 174 a.C., secondo con alcuni filari di blocchi in aredrati, riferibili alla originaria cor- l’attestazione di Livio (41, 27, naria (fig. 6). La sovrapposizione tina in opera quadrata, sono stati 11-13), il censore Fulvio Flac- di parte di queste strutture ad un di recente individuati ad Aesis, co appaltò a Pisaurum grandi sepolcreto del II-II secolo a.C. colonia dedotta probabilmente lavori edilizi e fra questi va pro- costituisce l’unico riferimento babilmente annoverata anche la cronologico; in assenza di ultenel 247 a.C. Questa tecnica costruttiva in costruzione delle mura; l’intento riori elementi specifici di dataopus quadratum trova attestazio- doveva essere di dare alla colonia zione, queste strutture vanno ni in Ancona in analoghi tratti di la prima sistemazione di caratte- riferite, come le precedenti, ad strutture murarie di epoca tardo- re urbano. Le mura sono repubblicana rinvenuti in perioin di diversi; alcuni filari risultano realizzate attualmente visibili ad esempio blocchi paralin Via della Cisterna, nell’or- lelepipedi di to dell’ex Istituto Giovagnoni arenaria giallaBirarelli, nella Chiesa di Santa stra abbastanza Maria della Piazza, in Vicolo tenace, disposti Foschi, nello scavo recente di in filari che si Lungomare Vanvitelli (fig. 3). Le sovrappongono analogie sia di tecnica edilizia, con regolarità sia di materiale utilizzato (grossi di allineamenblocchi di calcare giallo) risulta- to, ma di diverno ad esempio particolarmente sa altezza (fig. significative con il muro del por- 4). A Pisaurum tico a due navate dorico-ionico la facciata dei Fig. 4 - Pesaro, mura in opus quadratum con al di sopra del II secolo a.C. nel Santuario blocchi non è resti della struttura di rifacimento in laterizio. Le Cento Città, n. 49 Il saggio 9 Fig. 5 - Tratto della cinta muraria di età repubblicana, in opus quadratum, a Osimo. Fig. 6 - Particolare di una delle torri circolari della cinta muraria in opus quadratum di Septempeda. Cinte urbiche in Opus Reticulatum un periodo anteriore alla guerra sociale. La conformazione ad esedra della porta urbica di sudovest, visibile presso la chiesa di Santa Maria della Pieve e assai simile alla porta settentrionale di Urbs Salvia – in laterizio -, ha fatto ipotizzare la datazione di ambedue queste opere alla seconda metà del I secolo a.C. La prima cinta urbica di Firmum si è conservata in diversi tratti e si mostra costituita da grossi blocchi di calcare (fig. 7); essa è stata messa in riferimento alla deduzione coloniale del 264 a.C. e va pertanto riferita ad un periodo di poco poste- riore. Questa muratura è stata considerata simile all’opera poligonale di quarto tipo, secondo la classificazione Lugli, e quindi datata ancora nel III secolo a.C. Presenta anche analogie con le mura in opera poligonale quasi quadrata della fase originaria di Ariminum, colonia del 268 a.C. Infine ad Asculum è attestata la presenza di qualche parte della originaria cinta muraria, costruita con grossi blocchi di pietra di varie dimensioni, messi in opera in filari, talvolta in modo non molto regolare. Essa difendeva il solo lato occidentale del rilievo su cui si estendeva la città, naturalmente difeso sugli altri tre lati dal fiume Tronto e dal torrente Catellano; la cortina ha subìto un rifacimento in opera quasi reticolata probabilmente dopo la parziale distruzione avvenuta agli inizi del I secolo a.C., a seguito del bellum sociale. Fig. 7 - Particolare di un tratto di cinta muraria in opus quadratum, riutilizzato in costruzioni moderne a Fermo. Fig. 8 - Tratto di cinta muraria in opus reticulatum ad Ascoli Piceno, presso Porta Gemina. Le Cento Città, n. 49 L’esempio di opus quasi reticolatum sopra segnalato ad Asculum (fig. 8) si presenta in modo emblematico come rifacimento di tratti di muratura dopo le vicende della guerra sociale e fornisce pertanto un termine cronologico post quem di costruzione assai attendibile. Significativa in merito si presenta un’attestazione relativa a Fanum Fortunae, dove nel dopoguerra è stato lasciato a vista sul lato Est della cinta urbica pontificia un breve tratto di muratura in opus quasi reticulatum, facente parte in origine di una più ampia cortina rimasta occultata sotto un moderno rifacimento (fig. 9). Si tratta di un paramento costituito da tesserae, in genere a sezione quadrangolare, ma talvolta con i lati e gli angoli irregolari. Le dimensioni dei cubilia variano Mario Luni 10 Fig. 9 -Tratto di cinta muraria in opus quasi reticulatum sul versante a mare a Fano. da un minimo di 4 x 6 centimetri ad un massimo di 6 x 6; pertanto, a causa delle differenti misure delle tesserae, le file raramente si raccordano tutte in modo uniforme. La malta di calce e sabbia si presenta biancastra, mentre i cubilia sono di arenaria gialla locale, abbastanza compatta. La parte interna tra i paramenti è in opus caementicium, ossia in conglomerato costituito da scaglie di pietra, sabbia e calce. Questo tratto di antiche mura si trova disposto ancora ben saldo nella posizione originaria e quindi la sua ubicazione assume particolare significato; esso risulta inoltre conservato immediatamente a ridosso della “greppata geologica”, parallela e a non grande distanza dalla linea di costa. La tecnica di costruzione utilizzata trova confronto in quella presente in altre cinte urbiche di città dell’Italia centra- le, ad esempio nella fase edilizia sopra segnalata ad Asculum, a Trea, a Mevania e in altri monumenti dell’Umbria e del Lazio. In genere si tende a mettere in riferimento la fase iniziale d’uso di questa tecnica edilizia, in Italia centrale, con la costruzione di opere difensive nel periodo che segue la guerra sociale e le lotte civili tra Mario e Silla, quando varie città italiche si trovarono nella condizione di dover realizzare o ricostruire le proprie cinte murarie. Di recente è stato anche sostenuto che l’opus quasi reticulatum sia apparso in Umbria e nel Piceno non prima della metà del I secolo a.C. Di certo si può affermare per Fanum Fortunae che Cesare occupò con una coorte questo centro, munito probabilmente con una cinta urbica in opera quasi reticolata. Mura in Opus Vittarum La tecnica dell’opera listata consiste nella realizzazione di muratura con doppio paramento pseudoisodomico costituito da bassi filari di blocchetti squadrati di Fig. 11 - Veduta di un lungo tratto delle mura augustee di pietra e con Fanum Fortunae: in primo piano una parte di torre. riempimento Le Cento Città, n. 49 Fig. 10 - Particolare della cinta muraria in opus vittatum di Cingulum. formato da calce, sabbia e scaglie di lavorazione. Essa trova applicazione nella regione medioadriatica nelle mura delle città di Sentinum, di Cupra Maritima, di Cingulum (fig. 10); l’esempio di maggiore consistenza monumentale è conservato a Fano (figg. 11-12). La cinta muraria di Fanum Fortunae costituisce uno dei pochissimi esempi di cortina difensiva di cui si conosce la data esatta di conclusione dei lavori. Questa utile indicazione è fornita dalla iscrizione sulla trabeazione della porta principale della città e ricorda la costruzione del perimetro difensivo che Augusto in prima persona ha determinato (CIL XI 6219): IMP(ERATOR) CAESAR DIVI F(ILIUS) AUGUSTUS PONTIFEX MAXIMUS CO(N)S(UL) XII TRIBUNICIA POTESTATE XXXII IMP(ERATOR) XXVI [sic!] PATER PATRIAE MURUM DEDIT. L’epigrafe purtroppo presenta un errore nel numero delle salutazioni imperiali (XXVI, invece di XIX), che ha fatto molto discutere fin dalla riscoperta umanistica del monumento iscritto; viene in genere datata al periodo 1 luglio 9 d.C.-1 luglio 10 d.C. Costituisce un importante termine cronologico di riferimento per lo studio della tecnica di costruzione in età augustea, della tipologia della cinta urbica e della porta monumentale. Il saggio Significativo è anche il caso di Nimes, dove alla fine del Settecento è stata ritrovata un’iscrizione che ha permesso di datare le mura della colonia augustea al 16 a.C. (CIL XII 3151). Si tratta di una epigrafe incisa sopra una porta della città, con fori per lettere di bronzo, in cui si fa esplicito riferimento ad Augusto, che ha fatto costruire (dat) le porte (portas) e la cinta urbica (muros). Le analogie esistenti tra le due cortine difensive menzionate sono notevoli, compresa la tecnica edilizia in opus vittatum, costituita però a Nimes di blocchetti squadrati di dimensioni di poco superiori a quelle dei conci di Fano. Anche le mura di Autun sono costituite da blocchetti rettangolari sulla faccia esterna, a pianta pressoché triangolare e di discrete misure. La stessa muratura pseudoisodomica è presente nelle Gallie in cinte urbiche di età augustea, quali ad esempio quelle di Orange, di Arles e di Vienne. L’opus vittatum mostra caratteristiche di praticità costruttiva, di robustezza e assieme di decoro, è stato utilizzato diffusamente in età augustea per nuove colonie o per il rinnovamento di città; questa tecnica edilizia non è attestata comunque in Italia centrale prima della metà del I secolo a.C. Nell’Umbria essa caratterizza le mura di Mevania, di Hispellum, una fase di restauro di quelle di Spoletium, di Sentinum, oltre che le strutture del Teatro di Iguvium e delle Terme di Forum Sempronii; nel Picenum la stessa opera vittata è utilizzata per la cortina difensiva di Trea e 11 Fig. 12 - Particolare di una torre aggettante verso l’esterno e del paramento in opus vittatum della cortina muraria augustea di Fano. di Cingulum. E’ stato osservato che le cinte urbiche romane di Nimes e di Fano, al pari di quella augustea di Spello, possono essere considerate delle realizzazioni di prestigio, con “significato simbolico”, sia per accuratezza di lavorazione, sia per eleganza della struttura architettonica d’insieme Senza dubbio l’osservazione è ben fondata e mette in evidenza l’attenzione rivolta da Augusto al rinnovamento edilizio di centri in cui è stata impiantata una nuova colonia. A Fano ci si trova di fronte ad una progettazione unitaria delle mura sui tre lati verso terra e ad un intervento costruttivo anch’esso omogeneo, portato a compimento nel 9-10 d.C. Sebbene il problema della fondazione coloniale augustea sia oggetto di dibattito, essa è in genere riferita per vari motivi agli anni tra il 31 e il 27 a.C. Fig. 13 - Lunghi tratti di cinta urbica muraria in opus testaceum di Urbs Salvia. Le Cento Città, n. 49 Va messo in rilievo che la costruzione di circa due chilometri di cortina urbica, con 28 torri, deve avere richiesto necessariamente una lunga fase di cantiere, specie se si tiene presente che indicativamente sono stati realizzati oltre 50.000 metri cubi di muratura (senza considerare le poderose strutture di fondazione), nella quale hanno trovato utilizzazione non meno di tre milioni e mezzo di conci di arenaria, ben squadrati nella faccia a vista. Anche se l’antica cinta fosse stata limitata ai soli tre lati verso l’interno, si sarebbe trattato in ogni caso di un intervento di imponente impegno, tale forse da giustificare più di tre decenni di attività edilizia. Cinte urbiche in Opus Testaceum Sono attestati esempi di mura in mattoni in varie città della regione, quali Urbs Salvia, Aesis, Firmum, Urvinum Mataurense, Pisaurum, Fanum Fortunae e da ultimo Ancona. Nei primi due casi si tratta di interventi costruttivi unitari di ampio impegno edilizio, con muratura caratterizzata da doppio paramento in laterizio e da un riempimento in opus caementicium (calce, sabbia e scaglie di pietra; nel caso di Aesis in prevalenza di ghiaia e ciottoli di fiume). La cinta di Urbs Salvia è assai significativa, in quanto si pre- Mario Luni Fig. 14 - Particolare di un tratto della cinta urbica in opera laterizia di Urbs Salvia. senta conservata per parecchie centinaia di metri su tre dei suoi quattro lati e con una certa continuità, eccetto che sulla cresta del pendio, ad ovest. Sono visibili fuori terra resti monumentali della Porta Gemina, di quella ad esedra e di molte torri a pianta poligonale, spesso in elevato per vari metri, talvolta anche oltre cinque. La struttura è larga circa due metri, con duplice paramento di mattoni disposti in orizzontale e cementati saldamente con calce e sabbia (figg. 13-14). Il complesso delle mura si presenta uniforme in quanto a materiale utilizzato e a tecnica edilizia, dovuto ad un poderoso interven- 12 to costruttivo unitario, sulla base di una progettazione di ampia portata; si propone una datazione nell’ambito della seconda metà del I secolo a.C. La cinta urbica in opus testaceum di Aesis è presente sul solo lato sudorientale della città e va messa in riferimento con le opere di difesa del nuovo quartiere cresciuto alla fine dell’età repubblicana sul pendio all’esterno dell’area della colonia, sorta nel 247 a.C. sulla sommità di un leggero rilievo sulla sinistra del fiume Esino. Lungo un tratto di alcune centinaia di metri di mura medievali in laterizio si è potuto osservare nella parte bassa la presenza di filari di laterizi di tipologia e di dimensioni diverse, ben allineati e cementati con calce bianca; l’approfondimento della ricerca ha permesso di riscontrare che si tratta di mattoni “manubriati”, disposti con buona tecnica a formare il duplice paramento e con riempimento in opus caementicium (figg. 15-16). Questa struttura, probabilmente coeva a quella di Urbs Salvia, è stata riutilizzata dalla cinta difensiva di età medievale, che ha inglobato quella di probabile età augustea, occultandola per la maggior parte. Il riconoscimento di questo lungo tratto di mura è stato possibile in occasione del recente restauro, unitamente alla individuazione di una torre circolare della probabile porta orientale Fig. 15 - Tratto delle mura augustee in opus testaceum, riutilizzate nella cortina di età medievale di Jesi, a lato di Porta Valle. Le Cento Città, n. 49 della città e alla scoperta di alcuni resti di blocchi squadrati della cinta della seconda metà del III secolo a.C., sul ciglio occidentale del colle. Brevi tratti di mura in opera quadrata sono segnalati ad Urbino e da ultimo in Ancona (fig. 17). Diversa si presenta la situazione di alcune altre cortine urbiche di città di origine romana nelle Marche, quali Fanum Fortunae, Urvinum Mataurense, Firmum e Pisaurum. In quest’ultimo centro si è osservato che al di sopra della cinta primitiva di blocchi di pietra, i cui resti sono appena affioranti dal suolo e in cattivo stato di conservazione, è presente una poderosa struttura muraria in laterizio; essa è documentata per numerosi tratti, uno dei quali raggiunge alcuni metri di altezza. La datazione proposta in passato per questa seconda fase costruttiva è l’età augustea; più probabilmente risale all’età imperiale avanzata, quando il pericolo imminente di invasioni barbariche (III secolo d.C.) determinò la ricostruzione delle mura, che dovette procedere in modo affrettato, come è possibile notare dall’esame dell’antica struttura in laterizio, che coinvolge l’intero spessore. Occorre a tal proposito ricordare l’invasione dell’Italia da parte degli Iutungi e la vittoria decisiva riportata contro i barbari dall’imperatore Aureliano sul Metauro presso Fig. 16 - Particolare di un tratto della cinta muraria in opus testaceum, a Jesi. Il saggio Fanum, lungo la via per Roma, che fu per l’occasione munita di nuove mura. Nel corso dei primi scontri in Italia settentrionale o subito dopo la disfatta dei Germani (270-271) furono con tutta probabilità costruite a Pisaurum le fortificazioni in opus testaceum, in analogia a quanto si è verificato nella stessa circostanza ad Ariminum, in parte a Fanum Fortunae e forse anche a Sena Gallica e a Firmum. Va aggiunto inoltre che nella zona di Porta Fano nei secoli scorsi furono recuperate due basi iscritte di marmo, che in origine sorreggevano statue, a ricordo della vittoriosa campagna militare dell’imperatore Aureliano (CIL XI 6308, 6309). Nella stessa circostanza nel luogo vennero rinvenuti anche numerosi frammenti architettonici che hanno fatto supporre da parte di eruditi locali l’esistenza di un arco onorario, in memoria della vittoria di Aureliano. Il fatto più rilevante, comunque, è costituito dalla menzione sulle due basi di un personaggio, C. Iulius Priscianus, che aveva la carica di praepositus muris. Si tratta di un funzionario che immediatamente dopo la battaglia nei pressi di Fano, ossia nel momento in cui molte città, fra cui Roma, stavano provvedendo alla costruzione o al restauro delle fortificazioni, era responsabile delle mura urbiche di Pesaro e di Fano. Va detto 13 Fig. 17 - Tratto di mura in laterizio del periodo augusteo ad Ancona, rinvenute nello scavo di Lungomare Vanvitelli. infine che nel taglio di fondazione della cinta in laterizio di Pisaurum sono stati trovati nel corso degli scavi del 1977 alcuni frammenti ceramici databili dalla metà del II al III secolo d.C. Mura in età bizantina In età tardoromana e bizantina ad Urvinum Mataurense le prevalenti necessità difensive rendono ancora determinante l’utilizzazione della forte cinta muraria dell’oppidum. Significativa in merito si presenta la descrizione di questo centro fortificato fatta Fig. 18 - Tratto della cinta muraria urbica di età tarda in opera “tumultuaria” ad Urbino in Palazzo Battiferri, restaurato nel corso dei lavori nella facoltà di Economia; si notano blocchi e rocchi di colonne riutilizzati da costruzioni di epoche precedenti. Le Cento Città, n. 49 da Procopio (Bell. Goth., II, 19) nel 538 d.C. Lo storico bizantino si sofferma infatti a descrivere accuratamente le operazioni effettuate contro i duemila Goti che difendevano l’importante centro strategico. Vani si erano rivelati gli assalti contro la porta settentrionale, l’unica in piano: su tutti gli altri lati la morfologia del colle è descritta come assai dirupata e impraticabile per operazioni militari. Per quanto la conformazione della collina su cui sorge Urbino abbia subìto modificazioni, a causa dell’ininterrotta frequentazione umana nel corso di più di due millenni, la descrizione di Procopio corrisponde ancora esattamente all’attuale natura del luogo e ne coglie le caratteristiche fisiche salienti. Ad un primo assalto dell’esercito bizantino le mura hanno costituito un valido baluardo, tanto che una parte dell’esercito assediante ha desistito dall’impresa e la successiva capitolazione dei Goti è dovuta non ad una loro sconfitta ma al venir meno dell’acqua di una fonte sulla sommità del colle. Nel corso di due scavi, rispettivamente in corrispondenza delle fondazioni dell’Arcivescovado e di Palazzo Brandani, sono stati rinvenuti tratti di mura riferibili agli avvenimenti bellici del VI Mario Luni secolo d.C. sopra descritti. In ambedue i casi sono affiorate strutture difensive realizzate sul limite occidentale del pianoro sulla sommità del “Poggio” (fig. 18). Nell’Arcivescovado si è potuto riscontrare la sopravvivenza di un tratto di cinta muraria lungo alcuni metri e di rilevante spessore, in cui sono state individuate in sovrapposizione tre strutture realizzate con differenti tecniche costruttive, riferibili ad altrettante fasi edilizie: in opera quadrata quella più in profondità (III-II secolo a.C.), in laterizio la successiva (probabilmente di età augustea) ed in opera “tumultuaria” la terza (VI secolo). Quest’ultima è caratterizzata dalla presenza generalizzata di materiali di spoglio, messi in opera alla meglio e scarsamente cementati tra loro; sono stati qui rinvenuti numerosi blocchi di calcare differenti per formato, per tipologia e per lavorazione, unitamente a frammenti di colonne ed anche ad una grossa cornice di marmo. Questo tratto di cortina urbica è stato successivamente inglobato in epoca medievale nelle fondazioni del monumentale edificio che si è sovrapposto ad esso, sfruttandone la solidità. Nel cortile di Palazzo Brandani uno scavo effettuato nel 1996 in collaborazione con la Soprintendenza Archeologica delle Marche ha messo in luce un tratto di mura in opera “tumultuaria” nella parte sudoccidentale della cinta difensiva. La struttura è conservata per circa 15 metri di lunghezza e per un’altezza che varia tra uno e due metri circa. Nella parte più orientale lo spessore della muratura è più consistente (m 1,80) ed anche 14 irrobustita da grossi blocchi e da rocchi di semicolonne scanalate di pietra, di 80 cm di diametro; si può qui riconoscere l’impianto superstite di un piccolo bastione a pianta rettangolare, conservato su due lati. Verso ovest il resto del muro di difesa corre sul bordo di un pendio e non raggiunge la larghezza di un metro. Esso è costituito da materiale eterogeneo, messo in opera senza alcuna regolarità, quasi accatastato alla meglio. Sono qui presenti grossi blocchi di travertino recuperati dalla cortina di età repubblicana, individuata un poco più a nord, unitamente ad altri di calcare bianco di formato diverso e con tracce di lavorazione, spogliati probabilmente da monumenti romani allora abbandonati e distrutti all’interno delle città; si notano anche blocchetti di diverso genere con cornici ed un pezzo di colonna di marmo inserito trasversalmente. Lo scavo stratigrafico effettuato in connessione con questo tratto di cinta urbica ha consentito di raccogliere vari materiali databili fino al VI secolo d.C. La tipologia della tecnica costruttiva della struttura in opera “tumultuaria” e la documentazione ceramica rinvenuta in strato consentono di riferire questa opera di difesa al periodo della guerra goto-bizantina. Una conferma indiretta è fornita dallo stesso Procopio (Bell. Goth., III, 11, 32-34), in un passo in cui descrive l’urgente ripristino delle mura di Pisauron nel 545: Belisario dispone che i suoi emissari restino all’interno della città e ricostruiscano in qualunque modo possibile quella parte di mura urbiche Le Cento Città, n. 49 distrutta in precedenza dai Goti, “utilizzando pietre, malta e ogni altro materiale reperibile”. La documentazione archeologica venuta in luce a Pesaro in varie circostanze permette di confermare la notizia fornita dallo storico bizantino; significative tracce dell’opera di ricostruzione “tumultuaria” della cinta cittadina del VI secolo sono state scoperte in più tratti delle mura ed in particolare modo in connessione con le strutture delle porte urbiche, dove in periodi diversi sono stati rinvenuti elementi architettonici, frammenti di rilievi e circa trenta blocchi iscritti riutilizzati nella muratura come materiale di spoglio. Una situazione analoga è stata riconosciuta in un tratto delle mura di Fanon dovuto ad una fase di ripristino “tumultuario”: di poco a nord della Porta di Augusto, nel paramento interno, è visibile materiale romano di spoglio di vario genere riutilizzato nella muratura. Anche a Forum Sempronii è stato di recente individuato un lungo segmento di cinta muraria sul lato orientale costituito da materiale di spoglio, tra cui blocchi con membrature architettoniche, una colonna di marmo ed una lastra con iscrizione funeraria di età imperiale; la struttura difensiva va riferita all’ultima fase di vita della città, abbandonata pressoché totalmente nel VI secolo d.C. In recenti scavi ad Ancona, in Lungomare Vanvitelli, sono state rinvenute tracce di vita di età tardoantica ed anche di una torre con muratura simile a quelle sopra descritte; resti analoghi sembra che siano presenti anche a Osimo. Il Convegno 15 Ricerca, il filo conduttore tra Università e territorio di Andrea Zaccarelli Ricerca e territorio, un binomio inscindibile già da tempo ma rafforzatosi sempre di più negli anni più recenti. L’associazione Le Cento Città ha riunito nei giorni scorsi al Ridotto del Teatro Ventidio Basso di Ascoli alcuni dei massimi rappresentanti del mondo accademico per comprendere come l’Università marchigiana possa mettersi al servizio anche del territorio attraverso i propri strumenti e le proprie risorse nel tentativo di creare quel circolo virtuoso utile alla sua crescita complessiva, economica sociale, culturale. Il Rettore dell’Università Politecnica delle Marche Prof. Marco Pacetti. Le università marchigiane sono distribuite in maniera assai capillare nella regione, ognuna con il proprio portato di esperienze e di capacità: filo conduttore tra tutte, senza dubbio, la ricerca. Al dibattito sviluppato tra approfondimenti di carattere scientifico economico e umanistico hanno contribuito il Rettore dell’Università Politecnica delle Marche Marco Pacetti, il prossimo Prorettore e Preside della Facoltà di Economia e Commercio Univpm Gian Luca Gregori, il Preside della Facoltà di Medicina Univpm Antonio Benedetti, l’imprenditore Piero Guidi, il Presidente dell’associazione già Preside della Facoltà di Agraria Univpm Natale Giuseppe Frega, Alberto Pellegrino, storico. Nonostante la ricerca, o meglio quel che si riesce a fare, venga spesa davvero sui territori di riferimento, è tuttavia emerso che anche per le Università marchigiane i fondi Il Prof. Antonio Benedetti, Preside della Facoltà di Medicina e Chirurgia. Il Prof. Gian Luca Gregori, Preside della Facoltà di Economia “Giorgio Fuà”. Le Cento Città, n. 49 Andrea Zaccarelli 16 restano comunque sempre troppo esigui rispetto alle necessità reali. Altra prova che nella regione esse abbiano creato un rapporto reale di prossimità con i contesti che le ospitano la fornisce, ad esempio, l’Università Politecnica delle Marche che negli anni ha aperto sedi in diverse province evitando spostamenti ai giovani che non sempre possono permettersi di vivere fuori sede e creando strutture a disposizione delle realtà territoriali in molteplici campi. L’industriale Piero Guidi. Ecco perché la ricerca finisce per rappresentare un potenziale strumento di crescita dal Nord al Sud delle Marche: “Ora diventa più che mai necessario tradurre concretamente tali potenzialità per il vantaggio reciproco tra istituzioni universitarie e le aree su cui esse insistono”, è stata la conclusione unanime dell’incontro da parte dei partecipanti. La giornata si è poi conclusa nel borgo medievale di Castel Trosino, luogo prezioso e suggestivo attorno alle colline di Ascoli Piceno con l’esibizione del Gruppo dei “Folli”, equilibristi sui trampoli spettacolari e fiammeggianti che ormai portano il loro talento, e quindi le Marche stesse, in tutto il mondo. Conclusione di una serata dal sapore antico, tanto inaspettata quanto magica. Il Sociologo Prof. Alberto Pellegrino. Il Prof. Natale G. Frega, Presidente dell’Associazione e promotore del Convegno. Le Cento Città, n. 49 La tendenza 17 Amorevole invasione di Mario Canti Per alcuni secoli l’Italia è stata il territorio del “grand tour”, ovverosia degli itinerari che i giovani ricchi e colti di Europa ritenevano di dover percorrere per completare ed arricchire la loro formazione artistica e culturale; il nostro Paese infatti, anche se poteva essere definito una mera “espressione geografica” sul piano politico ed istituzionale, costituiva in realtà la più estesa, continua e profonda testimonianza della cultura europea a partire dalle sue origini. I viaggiatori nei loro percorsi venivano a conoscenza delle testimonianze del passato, monumenti, opere d’arte, raccolte archivistiche e bibliotecarie, del bel paesaggio che veniva definito il “giardino d’europa”, ed anche dei prodotti culturali a loro contemporanei, opere teatrali e musicali, testi poetici e quant’altro la cultura italiana continuava a creare; il ricordo di quelle testimonianze e di quelle produzioni veniva a costituire una sorta di elemento costituente comune alla cultura europea nel suo insieme. Questa “memoria comune” della cultura europea veniva poi alimentata dalle opere d’arte che dall’Italia venivano portate nei diversi paesi, talora dagli stessi viaggiatori, e dalla pubblicistica sul viaggio in Italia che a partire dal XVI secolo ha interessato i diversi paesi europei. La tradizione culturale del grand tour può oggi essere considerata la più incisiva e vasta operazione di marketing turistico mai realizzata, poiché consente di riversare sul nostro Paese, grazie alla diffusione della cultura e allo sviluppo economico, un flusso di visitatori di grande portata che solo recentemente, ha visto l’Italia perdere posizioni di assoluto rilievo nell’affluenza turistica da paesi europei ed extra europei. A partire da alcuni decenni, anche se i prodromi possono essere fatti risalire alla frequentazione della Toscana da parte dei viaggiatori inglesi nel corso del XIX secolo, una parte dei visitatori sembra non accontentarsi più della conoscenza dell’Italia nelle sue diverse espressioni artistiche e paesaggistiche, ma, in una certa misura, amerebbe possederla. Dal grande fiume di visitatori che annualmente percorrono l’Italia, spinti da desideri di conoscenza e di godimento estetico e da richiami letterari e sentimentali, si stacca, con una certa continuità, un rivolo di amanti del nostro Paese che abbandona il percorso tradizionale della grandi città d’arte per avventurarsi alla conoscenza dei centri minori e del territorio che li comprende. Questa particolare curiosità li porta a conoscere ed a comprendere una diversa dimensione del nostro Paese, caratterizzata dalla contestualità di opere d’arte di eccezionale valore con una trama di opere di arte e di ingegno di grande significato culturale e testimoniale e con un tessuto paesaggistico totalmente artefatto dall’opera dell’uomo che, specie nell’Italia Centrale, si presenta con una continuità e complessità di elementi costituenti che derivano dallo spessore storico della loro costituzione e da una specifica cultura del “fare bene”, nella edilizia come nella agricoltura; il paesaggio dei contadini “orafi” citati in una poesia di Pasolini. In questo loro percorrere l’Italia dei borghi e degli insediamenti agricoli i viaggiatori sono conquistati anche dai rapporti umani che con facilità riescono a stabilire con le nostre genti e vengono indotti ad apprezzano i nostri sistemi di vita, compresi tra questi l’attenzione alla tavola e alla convivialità in genere. Le Cento Città, n. 49 In alcuni di questi stranieri nasce di conseguenza il desiderio di abbandonare il ruolo di viaggiatore per acquisire quello di residente, per sempre o per quote significative dell’anno, e , di conseguenza, sono orientati ad acquistare una abitazione nel nostro paese, ovviamente situata laddove l’ambiente risulta particolarmente rispondente a quei valori culturali, artistici, paesaggistici e sociali che maggiormente li hanno coinvolti ed interessati. Il fenomeno ,come è noto, si è sviluppato in modo significativo a partire dall’Italia Centrale, per la Toscana si è arrivati a parlare di Chiantishire in conseguenza del consistente numero di inglesi che gradualmente si sono stabiliti in quel territorio, ed oggi è arrivato ad investire anche aree del mezzogiorno, ovviamente quelle più “ospitali” anche sotto il profilo sociale quale, ad esempio, è la Puglia. Nelle Marche il fenomeno inizialmente si è manifestato come un travaso dalle aree di confine con la provincia di Arezzo, che ormai non presentavano più sufficienti occasioni di acquisto, al territori interni della provincia di Pesaro; oggi questa pacifica ed amorevole invasione, che viene condotta da cittadini provenienti in netta prevalenza da paesi del nord Europa, interessa, almeno così appare ai nostri occhi, l’intero territorio regionale. Abbiamo recentemente posto in evidenza come le trasformazioni dell’ambiente agricolo ed in particolare la scomparsa della mezzadria, che era l’ordinamento prevalente nelle nostre campagne, abbiano rese disponibili quote significative del patrimonio residenziale rurale che, almeno in parte possono interessare quei visitatori stranieri che apprezzano in modo particolare il paesaggio della nostra cam- Mario Canti pagna, la sua salubrità, la accoglienza che i residenti destinano ai nuovi ospiti. Nell’ottica di conoscere e far conoscere la Marche che caratterizza l’associazione delle Cento Città ci sembra che siano meritevoli di attenzione altre considerazioni, oltre a quelle abitative e immobiliari, che vengono suscitate dalla tendenza da parte di alcuni cittadini europei a stabilirsi nelle Marche. La capacità attrattiva del nostro ambiente rurale ed in particolare del paesaggio agrario risulta ancora significativa, questa considerazione dovrebbe indurre amministrazioni e cittadini a destinare maggiore attenzione alla questione paesaggistica, che ancora oggi risulta ferma a strumenti di tutela vecchi di oltre venti anni e comunque viene trattata come una questione marginale in confronto a quelle dello sviluppo urbanistico e dell’edilizia privata Altra considerazione degna di nota riguarda le modalità di recupero dell’edificio esisten- 18 te che vengono adottate dai nuovi residenti stranieri che, di norma, sono interessati a conservare all’edificio acquistato le sue caratteristiche strutturali e formali e quelle del suo intorno immediato che, in definitiva, costituiscono le motivazioni stesse della scelta operata. Nel caso in cui i lavori di recupero dell’antica abitazione vengono condotti da cittadini italiani, che siano proprietari vecchi o nuovi, assistiamo, di norma, al tentativo di attribuire all’edificio e al suo intorno improbabili caratteri di periferia semiurbana; la disattenzione ai valori storici e formali dell’edilizia rurale tradizionale, che tanto attraggono gli stranieri, porta a realizzare situazioni architettoniche ed ambientali del tutto banali, prive di riferimenti al territorio e alla sua storia. Valorizzare e far conoscere il ben diverso atteggiamento che caratterizza l’azione di recupero degli stranieri che si stabiliscono nella nostra regione potrebbe, di conseguenza, contribuire a Le Cento Città, n. 49 migliorare anche la qualità degli interventi di recupero operati da cittadini italiani. Sembra significativa la rilevanza che assumono agli occhi ed al sentire di tante persone di culture e formazioni diverse queste testimonianze del nostro lungo e composito passato, costituito da opere d’arte, di grande o modesto rilievo, da architetture, destinate ad accogliere grandi poteri o semplicemente attività agricole correnti, da paesaggi, naturali o antropizzati. Ne dovremmo ricavare motivi di orgoglio e ragioni di tutela. Per conoscerlo meglio sarebbe opportuno avviare una vera e propria indagine conoscitiva che, però, allo stato non è compatibile con le risorse della nostra Associazione; per non limitarci a una segnalazione alle “competenti Autorità” cercheremo di approfondire comunque la nostra conoscenza attraverso una inchiesta che vorremmo condurre con la collaborazione dei nostri lettori, che siano o no membri delle Cento Città. La letteratura 19 Luigi Di Ruscio, un grande poeta marchigiano di Alberto Pellegrino Luigi Di Ruscio è nato a Fermo il 27 gennaio 1930, è rimasto nelle Marche fino al 1957, quindi è emigrato in Norvegia, dove si è sposato con Mary Sandberg da cui ha avuto quattro figli; è vissuto a Oslo fino al momento della morte avvenuta il 23 febbraio 2011. Questo autore non ha mai goduto di una grande popolarità nella nostra regione nonostante che alcuni suoi componimenti poetici siano comparsi nelle diverse antologia di autori marchigiani pubblicate in questi anni (Poeti marchigiani del Novecento, 1965; Scrittori marchigiani del Novecento, 1971; Marche: poeti oggi, 1979; La poesia delle Marche. Il Novecento, 1982; Leopardi e la recente poesia marchigiana, 1987). Abbiamo appreso con ritardo la notizia della sua scomparsa e rimediamo a questo nostro colpevole silenzio, prendendo lo spunto da un documentario intitolato La neve nera, realizzato a Oslo nell’autunno del 2012 da Angelo Ferracuti, il critico letterario che meglio lo conosce, con la regia Paolo Mazzoni e la fotografia di Fabrizio Lapalombara. Si tratta di una biografia per immagini girata sui luoghi dove questo grande poeta ha vissuto e ha lavorato come operaio per quarant’anni in una fabbrica metalmeccanica, senza mai abbandonare la classe operaia, anche quando era ormai apprezzato dalla critica italiana più accreditata ed era presente nelle maggiori antologie poetiche. Di Ruscio ha sempre affrontato la vita con serena energia e meditata semplicità: “A volte mi sembra di essere circondato da un grande universo amoroso, quando mi incontra la postina sorride, così la bellissima bibliotecaria, la tabaccaia e così nel reparto dove lavoro mi sembra di essere circondato da grandi fiati amorosi, perfino nella stanza dove scrivo mi sembra di essere avvolto in un universo amoro- so”. La stessa energia e serenità ha mostrato quando ha sentito avvicinarsi la morte: “Il sottoscritto è fortunato/il passaggio tra la coscienza e il niente sarà brevissimo/non è destinata a noi una lunga e spettacolare agonia/ non sarà per noi l’insulto di essere a lungo vivi senza coscienza/i clinici più rinomati non appresteranno a noi lunghe strazianti agonie/la nostra miseria ci salva dall’insulto di essere vivi senza più lo spirito nostro/ritorneremo tranquillamente nel niente da dove siamo venuti/è già tanto che il miracolo della mia esistenza ci sia stato/riuscendo persino a testimoniarvi tutti”. Nel 1953, con la sua prima raccolta poetica egli aveva rivolto una violenta denuncia alla città di Fermo abbandonata per la sua “chiusura” culturale e sociale, per la sua capacità “borghese” di emarginare i subalterni, sulla quale scriveva: “La città in cui viviamo è un gruppo di case/ accatastate in un colle circondato da torrioni e mura/e alla periferia piccole officine/dove si lavora tutto il giorno e si guadagna poco/ Nella nostra città vi sono molte chiese/e i vecchi dicono che qua si sta male/ per tutte le chiese/ e i palazzi dove abitano loro/che fanno le elemosine/le signore damine di carità…e intorno le nostre case appoggiate le une alle altre/ Le Cento Città, n. 49 come stroppi che si tengono per mano/e si impreca perché non ne cade una/così crollerebbero tutte come un castello di carte… e ci viviamo da tutta la vita/al mattino mangiando un pezzo di pane/a mezzogiorno un piatto di minestra/alla sera un piatto d’erbe/che la vecchia va ogni giorno a trovare…La nostra città è questa/ed altre città hanno questa miseria/con le officine che aprono e chiudono/e fanno lavorare fuori orario e non pagano/mai/ gli alcolizzati minati dalla tubercolosi/le puttane/quelle che lo fanno per gusto/quelle che lo fanno male ma devono farlo/ anche sei preti non gli danno l’assoluzione”. Le prime opere poetiche Luigi Di Ruscio è stato uno scrittore autodidatta, avendo conseguito soltanto la licenza di quinta elementare ma, nonostante avesse cominciato molto presto a svolgere diversi mestieri, si era impegnato nello studio dei classici americani, francesi e russi, della filosofia greca, delle opere di Tommaso Campanella, Giordano Bruno, Karl Marx e Benedetto Croce; inoltre aveva inziato a “frequentare” con assiduità anche i grandi scrittori italiani Dante e Petrarca, Leopardi e Carducci, Saba e Montale, Campana e Quasimodo, Pavese e Vittorimi. Agli inizi degli anni Cinquanta riesce ha pubblicare presso l’importante editore milanese Schwarz la sua prima raccolta di poesie Non possiamo abituarci a morire (1953), alla quale una giuria presieduta da Salvatore Quasimodo assegna il Premio Unità. Nella prefazione di questa opera Franco Fortini definisce le composizioni di Di Ruscio “poesie di miseria e di fame, di avvilimento e di rivolta, nascono da un’esperienza diretta e ne sono la trascrizione; la loro tematica non si distingue da quella della poesia del Quarto Stato I beni culturali 20 Le Cento Città, n. 49 La letteratura che, nei primi decenni del secolo è stata nel mostro paese, almeno nelle intenzioni, assai feconda… e questi versi sono insomma un documento umano delle aree depresse, di quella parte di noi stessi depressa che chiede, da generazioni, il riconoscimento iniziale del volto umano”. Passeranno molti anni prima che il poeta riesca a dare alle stampe una seconda raccolta di poesie intitolata Le streghe si arrotano le dentiere (Marotta, Napoli, 1966) e nella prefazione al volume è proprio Quasimodo ad esprimere un giudizio apertamente positivo su questi versi: “Di Ruscio è uomo d’avanguardia nel senso positivo, cioè della fede nell’attualità e per la violenza del discorso, la follia non è in lui un’accademia che inaridisce l’ispirazione nel bunker dei versi premeditati…Le poesie di Lugi Di Ruscio sono nell’angoscia di un crescendo della simbolica mania di persecuzione dell’autore che non ama distrarsi per selezionare una bella pagina da auditorium. Al marchigiano non importa niente che lo si legga o no; il ritmo sordo e perpendicolare nella forma, nei suoi versi viene da una rigorosa ragione di contenuto”. La sua produzione letteraria e l’attenzione della critica Di Ruscio, pur vivendo all’estero, inizia a collaborare con importanti riveste e quotidiani, tra cui Il contemporaneo, Realismo lirico, Ombre rosse, Alfabeta, Il Manifesto. Negli anni Settanta comincia a pubblicare con regolarità diverse raccolte di poesia: Apprendistati (Bacaloni, Ancona,1978) e Istruzioni per l’uso della repressione (Savelli Roma, 1980), due opere considerate un esempio fondamentale di neorealismo poetico; Enunciati (Stampa dell’arancio, Grottammare, 1993), Firmum (Pequod, Ancona, 1999), L’ultima raccolta (Manni, Lecce, 2002), Poesie Operaie (Ediesse, Roma, 2007), L’Iddio ridente (editrice Zona, Arezzo, 2008). Scrive anche cinque lavori in prosa: Palmiro che esce in diverse edizioni (il Lavoro Editoriale, Ancona, 1986; Baldini & Castoldi, Milano, 1996; Ediesse, Roma, 2011), Le mitologie di 21 Mary (LitoColle, Foloppio, 2004), L’Allucinazione (Cattedrale, Ancona, 2007), Cristi polverizzati (Le Lettere, Roma, 2009) e La neve nera di Oslo (Ediesse, Roma, 2010). Della sua opera si sono occupati critici letterari importanti come E. F. Acrocca, Aldo Capasso, Enrico Falqui, Romano Luperini, Giancarlo Majorino, Walter Pedullà, Massimo Raffaelli, Sebastiano Vassalli; i giovani critici Angelo Ferracuti, Andrea Cortellessa e Marilena Renda che hanno richiamato l’attenzione su questo autore abbastanza trascurato in Italia; si sono occupati di lui anche i critici marchigiani Carlo Antognini, Guido Garufi, Alfredo Luzi, Luigi Martellini e gli scrittori Silvia Ballestra, Eugenio De Signoribus, Leonardo Mancino, Renato Pagnanelli, Antonio Porta, Roberto Roversi, Paolo Volponi. Nel 2009 Luigi di Ruscio è stato, insieme ad Ascanio Celestini e Walter Siti, il finalista nella VI edizione del Premio Letterario Nazionale Paolo Volponi. Letteratura e impegno civile, patrocinato dal Comune di Porto Sant’Elpidio. Le opere in prosa Per quanto riguarda le sue prose, Palmiro (1986) è stato il suo romanzo d’esordio, nel quale Di Ruscio parla dell’Italia degli anni Cinquanta, di una società formata di militanti di base, di burocrati del Partito comunista ammalati di “comunperbenismo”, di socialisti massimalisti, di nonne, puttane e barbieri,. Il libro è scritto con una prosa da “piani alti della letteratura”, innovativa, lineare, ironica, realistica che lo stesso Di Ruscio ha definito come una scrittura che “somiglia al sogno”, perché “a volte siamo presi dal terrore per gli incubi da noi stessi prodotti… Nel mio caso, di sottoscritti ce ne sono tre: il sottoscritto detto inconscio che programma l’incubo, il sottoscritto che osserva l’incubo, e il sottoscritto che si libera di tutto scrivendo”. Il romanzo, ambientato a Fermo nell’imLe Cento Città, n. 49 mediato dopoguerra, ha come protagonista un proletario adolescente che è stato bocciato dalla scuola fascista, ma che pretende di essere un poeta, malgrado che per vivere sia un mezzo bracciante e un mezzo muratore anarchico, ironico e insolente, che frequenta la locale sezione del Pci sulle cui pareti occhieggiano i ritratti di Gramsci, Stalin e del compagno segretario del Partito Palmiro Togliatti, stando quotidianamente a contatto di operai e contadini, giocatori di carte e comizianti improvvisati che lo sfottono e mal lo sopportano. Il libro riscuote un certo successo, perché ha il ritmo travolgente e tragicomico di un’epopea picaresca (la critica ha fatto riferimento a Céline e Hasek), dove il protagonista ne combina di tutti i colori, ma trova il tempo di porsi alcune fondamentali domande: come vivrò in futuro? riuscirò a trovare un lavoro? chi sarà la mia donna? quando scoppierà la rivoluzione? Nel volume Le mitologie di Mary (2004) il vecchio combattente depone per un momento le armi di “poeta italico” destinato per l’eternità a inseguire “velocemente le sequenze mentali e le malefatte del mondo” per abbandonarsi alle emozioni dell’anima e impegnarsi a descrivere “il magico mondo della moglie norvegese”,. Di Ruscio riesce a farlo mettendo insieme una grande quantità di materiali utilizzati per scrivere con leggerezza e con il sorriso sulle labbra con lo scopo Alberto Pellegrino 22 Antologia in certe ore entra nel reparto una chiazza di sole e lo sporco nostro è schiarito come nelle immagini dei santi rubo il tempo per una fumata che raspa nella gola spio i minuti sul quadrante del grande occhio e tutto ad un tratto ci scuote l’urlo della sirena ci attende il riposo per la sveglia di domani la suoneria che entra dentro i sogni esplodendoli ed ecco un nuovo giorno della mia esistenza con l’allegria fuori della mia ragione 1. come un angelo svolazzavo incolume tra i traffici i camionisti mi lasciano spazi sufficienti per continuare a vivere tra voi con l’atroce in agguato da tutte le paerti e mai mi sono sentito tanto vivo come quando ero vicinissimo alla morte 2. con la fine degli umani i grattacieli si copriranno improvvisamente di licheni spumosi gli asfalti inizieranno fioriture che richiameranno gli insetti più luminosi nessun gatto rischierà di venire castrato nell’universo rimarrà lo splendente ricordo di essersi visto con l’occhio umano 3. le sei ore sono l’inizio della nostra giornata noi siamo l’inizio di tutti i giorni inizia il giro delle ore sulla trafilatrice che mi aspetta con la bocca spalancata inizia la mia danza il mio spettacolo di rendere omaggio alla sua moglie straniera che, non conoscendo l’italiano, non potrà mai leggere queste pagine: “Dovevo scriverlo un libro per Mary che è sempre riuscita a tenere sotto controllo l’inferno quotidiano… Mary mi considera un incapace, è rimasto solo uno spazio , questa tastiera del computer…E’ profondamente impressa dentro di me una sua frase che una volta, me depresso, disse: Non ti addolorare, noi siamo nati, pensa ai tanti che neppure riescono a nascere. Questa frase assurda domina la mia vita”. L’allucinazione (2007) è un romanzo che può essere definito di fantascienza, poiché l’autore si serve di una struttura narrativa basata sui “Mondi Paralleli”, per cui in una costante condizione allucinatoria abbandona il “sogno” degli anni Cinquanta per proiettare il lettore nella “feroce” Italia di oggi, rappresentata come un incubo in cui “tutto è vero e falso nello stesso tempo”, dalla politica ai lavavetri dell’Est, dal rito dei grandi funerali di Stato in diretta tv alle quotidiani persecuzioni dei più deboli, dalle forme di razzismo alle ragazzine violentate, tutte vittime e capri espiatori che queste pagine aiutano a distinguere e a riconoscere grazie a un cronista che è anche un testimone 4. l’ultima poesia scritta tanto faticosamente riprendere fiato ad ogni parola squadrare sul vocabolario quella parola introvabile il tutto era così luminoso intatto e mi sentivo sporco contaminato non facevo che immergermi nella vasca tutta quella neve esposta ad un sole precoce tutta questa gente esposta alla morte vivrai una vita immortale solo se vivi continuamente nel consueto nell’ovvio muore chi è veramente vivo ed è costantemente nell’irrepetibile le ripetizioni l’ovvio il consueto sono senza tempo eterne chi vive veramente è in una estrema fragilità il miracolo è avvenuto la cosa non sarà più ripetuta appena si è mostrata è finita per sempre. incorrotto e un accusatore che dispensa invettive e scomuniche. Il romanzo Cristi polverizzati (2009) è uno dei migliori esempi di quella letteratura divisa tra cronaca, testimonianza e impegno politico, nel quale l’autore ritorna a parlare degli anni Cinquanta che rappresentano il passaggio da un paese rurale a quello del boom degli anni Sessanta. Infatti egli descrive un’Italia ancora contadina, semplice e povera, divisa tra superstizione e fervore cattolico, fornendo un’affascinante quadro delle passioni, dei costumi, della mentalità e dello stile di vita degli italiani. L’opera è caratterizzata dalla fede comunista dell’autore (per molti aspetti “eretica”) legata a una concezione della vita non tanto segnata dal materialismo quanto da un “Umanismo” inteso come profondo amore per l’uomo, gli animali e la natura; l’altro tema è l’avversione per la Chiesa cattolica (paragonata a una gatta che divora i propri figli appena nati), vista come un “grande magazzino produttore di santi”, capace di sfruttare l’ingenua fede delle persone per capitalizzare ricchezze che non vengono destinate a soccorrere i più umili. La neve nera di Oslo (2010) è il romanzo scritto da un ottantenne che racconta in prima perLe Cento Città, n. 49 sona la quotidianità dell’esistenza, la vita di fabbrica, l’orgoglio di far parte della classe operaia intesa come appartenenza a una condizione umana universale, il tutto mescolato a considerazioni politiche e filosofiche. Si tratta di una narrazione fluviale scritta con una lingua graffiante ed eversiva che mette in evidenza una visione della vita caustica e comica, furibonda e irriverente, che rappresenta il congedo di un “grande vecchio” della letteratura italiana. La poetica di Luigi Di Ruscio La poesia di Di Ruscio, con il suo andamento di “diaristico” e “lineare”, ha sempre conservato negli anni la caratteristica di una cronaca piena di passione umana e d’impegno civile, senza mai cadere tuttavia in una sterile moralismo, riuscendo a mantenere una adesione alla realtà che l’avvicina a una sceneggiatura filmica del migliore neorealismo. Le sue sono, infatti, “poesie scritte sugli avvenimenti più illustri/ con mezzi della verbalizzazione più adatti al caos quotidiano/ testimoniare gli spaventi che si scaraventano sopra di noi”, perché Di Ruscio si considera un “poeta ingordo nel mangiare le cose e anche crude/anche le malsane erano appena masticate e subito ingoiate… illuminato La letteratura da spaventi indicibili e insostenibili/eppure dovevo affrontarla l’irrisione dei cretinnetti/un vuoto spaventoso doveva caratterizzarsi/testimoniare gli eventi sociali che si scaraventavano sopra di noi/scaraventare sulle pagine bianche l’orrore/non c’è nome che non venga nominato/ non c’era nome che non venisse minato oppure animato/non c’erano nomi che non fossero contaminati o calamitati/dare nomi battezzare le cose compiere riti propiziatori/perché tutto deve essere chiamato ed evocato all’estremo”. Questo poeta mostrerà sempre la tendenza a sfogare la sua “rabbia sociale”, caricando “la sua macchina da scrivere di ogni forza contestativa” che traeva la sua linfa poetica da una vena popolare e politico-emotiva a volte incandescente e rabbiosa, costantemente impegnata a riversarsi “sugli assassinati di tutte le fabbriche del mondo/su quelli che incorporano l’intera inquinazione e la morte/su quelli che incorporano vivi gli arsenici i piombi i mercuri/pagateli i riscatti li abbiamo pagati con la nostra carne” (Apprendistato, XXXV). Di Ruscio si ribella a essere l’ultimo di una razza condannata a vivere con mille lire a giornata, a sentirsi “schiodato e crocifisso…dannato per un mondo di dannati. Per la coerenza del suo impegno, egli rappresenta, soprattutto con le sue Poesie operaie, un’assoluta singolarità nel panorama della poesia italiana del Novecento, perché è il cantore delle ultime fabbriche fordiste, di una condizione umana destinata alla marginalità in un orizzonte politico che sia apre 23 nel dopoguerra a una speranza di riscatto per subito richiudersi nella “normalità” borghese nella piena consapevolezza che i suoi sforzi sono destinati a lasciare un labile segno: “ Forse un giorno mio figlio racconterà a mio nipote/che il nonno era comunista e questa frase/acquisterà un sapore assurdo/come se mi avessero detto che il mio bisnonno/era un giacobino e un regicida/comunque io non ho fatto che scrivere versi/ho messo carta davanti alla belva”. Nonostante questo endemico pessimismo, il poeta non dimentica mai i suoi compagni di lavoro, perché tra loro “le nostre diversità contano meno di tutto quello che abbiamo in comune… Quell’essere insieme come quando ero in quel reparto italiano insieme a tutti i norvegesi, quasi la pecora nera tra i biondi e gli azzurrati eppure eravamo insieme e fummo insieme per decine d’anni continui. Ero insieme a tutti voi con le vostre tute, con gli ingenui vestiti della domenica, li ricordo uno a uno ora che sono quasi tutti morti. Però ogni tanto tra la folla sento un urlo, vengo urlato in tutti i modi con nome e cognome… uno sopravvissuto a tutte le pesti, a tutte le polveri arsenicati e dei metalli pesanti, metallurgiche, a tutte le sudate continue mi chiama, mi abbraccia. Eravamo insieme diversi nello stesso disprezzo per i padroni, insieme quando abbiamo sabotato e scioperato, insieme nei sotterfugi operai, ridevamo insieme e sudavamo insieme senza neppure accorgerci di questo miracolo, l’essere diversi per essere però fraternamente insieLe Cento Città, n. 49 me” ed anche negli ultimi anni di vita egli compone versi che contengono un pensiero rivolto ai compagni “Questa notte vi ho sognato/splendidamente vivi/ ritornammo a rivedere/tutti gli orrori di quel reparto ridendo/ non sono riusciti ad ammazzarci/siamo ancora tutti vivi/nuovi come se fossimo risuscitati/non più contaminati della sporca morte”. Di Ruscio ha vissuto una vita raccontata attraverso le sue esperienze di vita e di lavoro, ma anche attraverso le vite degli altri rappresentate con schiettezza e rabbia, indignazione e ironia, con la piena consapevolezza che, per sopravvivere, sono necessari grandi sogni nonostante si abbiano mani callose e piedi ben piantati in terra. Egli ha costruito uno spaccato di umanità privo di fronzoli e nello stesso tempo lirico, una narrazione resa cruda dalla schiettezza del linguaggio capace di raccontare episodi di lavoro, morti cruente, momenti lirici e di profonda spiritualità. Di Ruscio è attento nel percepire, analizzare, capire i cambiamenti della storia, le innovazioni e i progressi, le ingiustizie e le violenze di sempre con la speranza e la fede in una lotta continua ed estenuante per migliorare l’ineluttabile e amara condizione degli “ultimi” in qualunque luogo della terra e in qualunque periodo della storia. Di Ruscio, che è stato definito uno “Jacopone operaio” (Paolo Di Stefano) si presenta come un testimone che osserva la vita in modo imprevedibile e delirante, che sfoga la sua rabbia per le ingiustizie e le crudeltà del potere, ma che mostra anche una grande amore per gli esseri umani e per la natura. Massimo Raffaelli ha definito questo autore “una splendida eccezione, una assoluta singolarità, nel panorama della poesia italiana del secondo Novecento. Non un poeta-operaio come pure e sbrigativamente si è detto tante volte, quasi si trattasse di sommare il sostantivo all’aggettivo, o viceversa, ma un poeta capace di introiettare/metabolizzare/rielaborare la condizione operaia alla stregua della condizione umana tout court”. ART - DanielaHaggiag.com MESSAGGIO PUBBLICITARIO CON FINALITÀ PROMOZIONALE. LE CONDIZIONI ECONOMICHE E CONTRATTUALI SONO DETTAGLIATE NEL “FOGLIO INFORMATIVO” DI CREVAL TIME DEPOSIT DISPONIBILE PRESSO TUTTI I NOSTRI OPERATORI DI SPORTELLO E SUL SITO WWW.CREVAL.IT SEZIONE “TRASPARENZA”. Il tuo valore cresce nel tempo. Con CrevalTimeDeposit, il deposito in euro del Gruppo Creval, custodiamo per te una somma di denaro per un periodo concordato ad un tasso fisso. Alla scadenza, avrai il 100% del capitale e gli interessi maturati nel periodo. Il deposito è garantito dal Fondo Interbancario. www.creval.it Gruppo bancario Credito Valtellinese L’arte 25 Girolamo di Giovanni di Pier Luigi Falaschi A Camerino, nella Pinacoteca civica all’interno del Polo museale di S. Domenico, è in atto la Mostra Girolamo di Giovanni. Il Quattrocento a Camerino. Dipinti, carpenterie lignee, oreficerie e ceramiche fra gotico e rinascimento (10 maggio - 29 settembre 2013, ore 10-13, 1619, chiuso il lunedì). Il pittore, nato a Camerino intorno al 1430 e morto a Pioraco nel 1503, realizza un esempio vistoso di quanto sia necessario scrivere e riscrivere la storia, in particolare la storia dell’arte, e di quanto siano rischiose nel suo ambito le analisi stilistiche e le attribuzioni che se ne traggono. A determinare il corpus delle opere attribuibili a Girolamo provvedeva nel 1907 Bernard Berenson, assumendo come riferimento il trittico di Monte S. Martino, segnato in basso col nome Ieronimus Iohannis de Camereno e datato 1473. A ruota Bernardino Feliciangeli confermava e ampliava di poco l’equipaggio, giovandosi come ulteriore riferimento della tela della Madonna della Misericordia di S. Martino di Tedico, rimasta sconosciuta allo studioso statunitense, segnata a sua volta col nome dell’artista e con la data 1463. Su questo corpus per circa un secolo ricamarono gli studiosi del rinascimento camerte, dando per normali - in un’attività laboriosa e protratta - difformi “gradi di rappresentazione e perfezione” (Feliciangeli). Le novità esplodevano nel 2002, nel corso delle ricerche d’archivio disposte per garantire rigore alla grande mostra dedicata al Quattrocento a Camerino: Emanuela Di Stefano, che con Rossano Cicconi curava la raccolta e la pubblicazione dei documenti utili alla biografia dei pittori, sussultava nel rilevare i molti negozi giuridici posti Girolamo di Giovanni da Camerino (Camerino, notizie dal 1450 al 1503) Storie della Passione di Cristo, particolare con Gesù davanti a Caifa e la cattura 1456- 1462. Affreschi strappati Camerino, Pinacoteca Civica. in essere ai suoi dì da Giovanni Angelo d’Antonio e nel constatare il rilievo sociale da lui raggiunto e stupiva per l’oblio in cui era lasciato dopo il tentativo fallito di Zeri di assegnargli le straordinarie tavole Barberini. Certo solo intraprendenza e doti intellettuali non comuni, affinatesi con una pratica eccellente dell’arte, potevano aver consentito ad un nativo di Bolognola, borgo montano di poche opportunità, d’affermarsi come familiare dei da Varano di Camerino e, niente meno, dei Medici di Firenze. A ruota Matteo Mazzalupi scopriva l’atto con cui a Giovanni Angelo era affidata l’esecuzione della crocifissione di Castel S. Venanzio, fino allora inserita tra le opere migliori del presunto Girolamo. Infine, Giorgio Semmoloni, accertava che Giovanni Angelo e Girolamo per l’esecuzione d’una taLe Cento Città, n. 49 vola, richiesta dal pievano di S. Maria di Tolentino, s’erano impegnati in solido come soci di lavoro. La conclusione suggerita dalle scoperte era la seguente: il corpus messo insieme per Girolamo riguardava in realtà due diversi pittori; il vero Girolamo, espresso dalle due opere firmate e a più riprese valutate meno grintose nel presunto corpus, in parte aveva subìto senza accorgersene l’ascendente del collega maior, in parte s’era impegnato ad imitarlo per non risultare dissonante nei lavori eseguiti insieme.La soluzione aveva, fra l’altro, il pregio di non mettere alla gogna gli assertori del corpus fallace, apparsi subito scusabili per la comunella stabilita fra i due artisti. L’esito ulteriore delle scoperte, valutato prontamente da Matteo Mazzalupi nella sua tesi di dottorato del 2004, era quello di assegnare al Girolamo ri- Pier Luigi Falaschi 26 Girolamo di Giovanni da Camerino (Camerino, notizie dal 1450 al 1503), Madonna della Misericordia e i Santi Venanzio e Sebastiano 1463. Camerino, Pinacoteca Civica. dimensionato, oltre le opere firmate, quelle fino allora ritenute di epigoni del Girolamo fasullo, già valutate non esenti da affinità tra loro. La rivoluzione non poteva consumarsi senza l’accusa di temerarietà rivolta agli innovatori da studiosi come Zampetti, Dal Poggetto, Bairati, che elevarono a suprema prova contraria una tradizione di studi secolare ed uniforme e giunsero a rifiutare l’esame dei documenti scovati con tanta perizia. Trascorso un decennio da quella sovversione, era tempo di tornare a considerare con serenità gli esiti e ciò poteva avvenire solo mettendo a confronto visivo diretto il maggior numero possibile dei dipinti del ridefinito Girolamo. Il percorso della mostra s’apre con gli affreschi strappati dalle pareti del piccolo oratorio voluto per la sua casa di campagna del Patullo da Ansovino Baranciani (+1477), ricco canonico. Su esse Girolamo, fra il 1456 e il 1462 effigiò le storie della passione di Cristo, tentando anche secondo un’esigenza umanistica di vestire all’antica i personaggi. Il modo ingenuo e serrato con cui Girolamo narra il dramma sa di originale e di fiabesco: i riquadri bianchi che circoscrivono le molte scene dall’ingresso in Gerusalemme all’ascensione - risultano più prossimi ad affacci concepiti per spaziare oltre, che non a tagli di cornici: evocativi i pochi particolari ambientali, dense di Le Cento Città, n. 49 comprimari e comparse le scene, forti le sensazioni impresse sui volti; scaltre le citazioni dal Giotto della cappella degli Scrovegni di Padova; smaliziato il taglio delle scene e, per l’epoca, ancora inusitate le “riprese” eseguite dal di sotto in su alla maniera di Donatello e di Mantegna - operosi com’è noto a Padova negli anni di dimora di Girolamo (…1450…) - l’uno nella basilica del Santo e l’altro almeno nella cappella Ovetari agli Eremitani, la comunità di fra’ Simonetto da Camerino tessitore della pace di Lodi. L’appropriazione delle novità appare, comunque, garbata e quasi divertita, consona ad un oratorio minimo di campagna e certo compiuta per stupire e gratificare un mecenate in grado di affidare a tempo opportuno, come segnalano varie imprese, opere ben più importanti. Del 1463 è la tela, ritenuta stendardo processionale, della Madonna della misericordia proveniente da S. Martino di Tedico. Certo consueta e collegata al titolo la rappresentazione d’una Vergine di grandi dimensioni intenta a coprire col manto allargato fedeli, di proporzioni minori, supplici ai suoi piedi; strano invece l’angusto parallelepipedo che funge da nicchia, acconcio al più ad accogliere un gruppo scultoreo, non le figure, appena ricordate, palpitanti di vita, a tal punto che la Vergine risulta flettere il capo per non urtarlo contro il piano di copertura della nicchia. Forse Girolamo ha inteso animare una scultura (lignea policroma?) particolarmente venerata, aggiungendovi i santi Venanzio e Sebastiano, non a caso collocati nel dipinto fuori dell’edicola, imponendosi però una rappresentazione di questa fedele all’originale, onde garantire la riconoscibilità dell’insieme. Una Madonna della misericordia non può a Camerino non richiamare subito alla mente l’elegante scultura lignea della cattedrale e, subito dopo, per maggiori affinità formali, la celebre tavola centrale dipinta da L’arte 27 Martino forse a ridosso del 1473, anno certo di esecuzione per la stessa comunità del polittico esposto di fronte: alla drammatica crocifissione, ora di proprietà della Galleria Nazionale delle Marche, sono state avvicinate due tavolette apicali con evangelisti, acquistate da qualche anno dal Comune di Camerino, ritenute parti della stessa macchina lignea (De Marchi). È quindi la volta dell’altro polittico di Monte S. Martino e infine degli affreschi con l’Angelo Nunziante e la Vergine Annunziata, strappati dal santuario della Madonna delle macchie di Gagliole e abitualmente conservati nel Museo arcidiocesano di Camerino, dove restano esposti altri interessanti affreschi di Girolamo. La distribuzione in entrambi i musei camerti delle sue opere accanto a quelle di Giovanni Angelo, per un più spedito confronto, consente di ribadire la superiorità del secondo, ma anche di escludere la mediocrità del primo. Giovanni Angelo batte Girolamo per maggiore capacità di sintesi, per l’imperturbabilità che conferisce Girolamo di Giovanni (Camerino, notizie dal 1450 al 1503) Polittico di Monte San ai volti; Girolamo negli Martino 1473, tempera su tavola, cm 212 x 194, provenienza Monte San Martino, chiesa anni più avanzati, sottrattosi almeno in parte di San Martino. all’influenza di Giovanni Angelo, accentua la tenPiero della Francesca per il po- palesare umanità; volto segnato littico di San Sepolcro, ultimato da palpebre pesanti e labbra im- denza al grafismo, rivelando nel uno o due anni prima, e forse bronciate, in apparenza assor- contempo - se non trae in innoto a Girolamo e al collega bito da cure non trasmesse dai ganno lo stato di conservazione maior, per l’attenzione pron- supplici, quello della Vergine dei dipinti - una minore sensibita da loro riservata a Piero, di Piero, ma è proprio il bron- lità per il colore. La mostra esibisce anche diforse resi accorti da Malatesta cio e il cuore altrove a rendere Cattani, vescovo di Camerino la Vergine di Piero, per altro in pinti, stoffe, carpenterie lignee, dal 1449 al 1461, concittadino grado d’ingombrare meglio lo oreficerie e ceramiche utili a e amico del pittore biturgense. spazio, più originale e nobile di dimostrare come, fra gotico e rinascimento, il gusto per un Volto piatto, regolare, compo- quella di Girolamo. sto onde non tradire sensazioni La mostra prosegue con tre certo tipo di ornato trovasse quello della Vergine di Girola- pezzi d’un polittico, per il resto espressione in ogni genere di mo, eppur ancora in grado di perduto, eseguito per Monte S. produzione artistica. Le Cento Città, n. 49 La tradizione 28 La musica arabita ha 90 anni di Alberto Berardi Non ho mai udito “Voce di clarino più di questa gioiosa e triste e schietta e fiera e cantante, talvolta orgogliosa ed insolente, talvolta un poco pazza. Suona quel che nelle Marche si chiama una “Musica rabbita” o arrabbiata ed a me sembra che Rabbita stia per improvvisata, per frutto di umore e di estro. E’ antico costume popolare marchigiano, di associarsi in allegre compagnie di suonatori e ballerini e di andare in giro per le Marche, quando non per l’Italia e fuori d’Italia suonando, cantando e ballando”. Con queste parole nel I954, più di cinquant’anni or sono, Curzio Malaparte nella rubrica “Battibecco” che aveva allora su “L’Europeo” , provava a descrivere l’incontro con “un giovane aitante, dal viso ardito” un suonatore di clarino Giulio Marini, macellaio in Fano al n. 6 di via Adolfo Apolloni. Marini si trovava allora con una comitiva alla Trattoria del Porto di Porto Corsini e la comitiva, uomini e donne (in gran parte donne di una certa età) sprizzava un allegria assolutamente coinvolgente e Malaparte commentò: “Questi marchigiani sono allegri ma con garbo, sono pazzi ma con misura. Le donne, per difetto di uomini, ballano fra loro, le magre con le magre, le grasse con le grasse, e quelle grasse sono enormi, scuotono il seno, il ventre, la groppa, sembrano cavalle in amore”. Lo scrittore viene riconosciuto ed in suo onore Marini suona “Minestrone marchigiano” e cioè “miscugli di frammenti di vecchie canzoni italiane conditi con l’olio, anzi col lardo, della più matta allegria”. Conclude Curzio Malaparte: “Ed io, guardando quella piacevole gente, quei visi onesti accesi dal vino, dal sole, dal ballo, quelle donne enormi, quelle esili ragazze, quegli omaccioni dagli occhi fondi e dalle mani crude, penso che questo è il popolo italiano, vivo, leale, allegro, bonario, e che la lotta politica in Italia, per andare d’accordo con il carattere del nostro popolo dovrebbe essere aperta, cordiale, umana, cortese, non quella specie di truce rissa che è diventata: e se proprio ha da essere una politica da arrabbiati, sia almeno una politica Rabbita, come la musica di questa allegra comitiva marchigiana, nata da un estro antico e libero da un umore (e da un amore) lieto e leale”. Ci voleva un “maledetto toscano” come Malaparte per capire al volo, ad un primo fugace incontro, quale energia vitale si nasconda dietro la “Musica Arabita” questo singolare complesso fanese nato nel lontano 1923 da un gruppo di artigiani di sincera fede democratica se non rivoluzionaria fanatici dell’opera lirica e stanchi di essere considerati dai nobili e dalla borghesia provinciale dei filistei della cultura musicale. All’ennesima provocazione snobistica: “Gliela facciamo vedere noi”, dissero come un sol uomo i barbieri, gli arrotini, i facchini, La banda della Musica arabita: una tradizione fanese che compie 90 anni. Le Cento Città, n. 49 La tradizione 29 I gruppi della Musica Arabita che si sono succeduti nel tempo. i calzolai, i camerieri, i falegnami ed i fabbri ferrai o meglio “gliela facciamo sentire noi” . Fu così che nacque la Musica Arabita, il singolare complesso in cui i bandisti suonano gli strumenti del proprio lavoro traendone dei suoi incomparabili, simili a quelli dei futuristi quando provarono a suonare in Teatro i loro “intonarumori” dando vita a delle risse memorabili. Alla faccia dei nobili però la “Musica Arabita” suonava davvero e dovunque andasse in giro per l’Europa si trascinava dietro le folle. Furono anni di successi incredibili. Guido Piovene nel suo “Viaggio in Italia” scrisse che: “Fano si vanta di avere inventato il Jazz con certi suoi concerti di musica sincopata in cui stru- menti sono pentole”. E scusate se è poco. Aveva ragione lui, ho assistito una volta nella fredda Zurigo ad un fatto che credevo fosse possibile solo nelle favole. Era domenica, nessuno in strada, la Musica Arabita cominciò a suonare sfilando, si aprirono le finestre, poi le porte, non avevano mai sentito una simile baronda, la gente scese in strada e cominciò a seguirci, non sapeva perché e neppure dove li avremmo condotti. Ma ci seguivano, come i bambini di Hamelin il pifferaio, ed il tendone da circo predisposto per noi si riempì di bambini, mamme, ragazzi ed adulti e fu un trionfo. Ricordo poi un altro fatto, ho già detto che la Musica Arabita ha passato gli ottantanni, ma una domeniLe Cento Città, n. 49 ca di Carnevale ho assistito ad un miracolo. Durante la sfilata dei carri, ho visto quegli ottantenni ballare, cantare e suonare senza sosta per ore ed ore. La gente intorno applaudiva, cantava, ballava ed il carro su cui si esibivano ballava insieme a loro piegandosi ed inarcandosi come un puledro. Fano è come la sua Musica Arabita, la Musica Arabita come il Carnevale, il Carnevale come la vita stessa. Chi non è di Fano non può capirlo. Malaparte ha scritto: “Sono nato a Prato e se non fossi nato a Prato non vorrei esser mai nato”. Per un fanese trovare una simile rima è impossibile ma il pensiero è lo stesso. Enogastronomia 30 I formaggi delle Marche di Leonardo Bruni Il Formaggio è nato per la necessita di conservare il latte quando l’uomo addomesticò alcuni animali (ovini, bovindi) in Mesopotamia. Il formaggio, all’inizio, fu il risultato di una coagulazione spontanea del latte in ambienti favorevoli e solo più tardi fu scoperto il segreto del caglio. E’ documentata la presenza del “formaggio” tra gli alimenti degli uomini preistorici (700010.000 a.C) I marchigiani producono pochi formaggi e questi non entrano nel mangiare comune tradizionale. I formaggi o meglio i pecorini fatti con latte di pecora o di capra, si producono lungo la dorsale appenninica; le caciotte fatte con latte di mucca e di pecora nel Preappennino. Ogni territorio ha il suo formaggio ed ogni formaggio ha la sua tecnica di preparazione; quello però, che lo caratterizza o meglio lo tipicizza è la razza della bestia che produce il latte, il tipo di allevamento (brado o in stalla ) e l’erbaggio che mangia, ma il vero segreto del formaggio sta nel caglio (quaglio, prisù). Le razze di ovini diffuse nelle Marche sono: l’Appenninica, la Vissana, la Sopravissana, la Fabrianese e da una trentina d’anni la Sarda ed altre razze con più spiccata attitudine lattiera La vacche sono prevalentemente di razza marchigiana. Da alcuni anni nei nostri Appennini è ricomparsa la capra, eliminata dopo gli anni venti per facilitare il rimboschimento. Preparare il caglio è un arte antica e molto segreta. Questa ricetta mi è stata raccontata molti anni fa da un vecchio pastore di Piobbico: “..si prende il latte ristretto dallo stomaco (abomasio) dei primi agnelli macellati durante la Pasqua e lo si tiene per un anno sull’arola dove si fa il fuoco; quando è diventato secco lo si grattugia, lo si mescola con olio d’oliva, germogli di noci (occhi freschi), l’interno del carciofo selvatico essiccato, vino bianco ed un poco di sale …..le quantità non te le posso dire …..a Carnevale si impasta il tutto in una pignatta di coccio o di rame. L’impasto si conserva per un anno …basta un cucchiaio di caglio per 5 litri di latte ….se vuoi il formaggio piccante usa il “latte” dello stomaco del capretto …”. Da certe piante astringenti come il cardo ed il carciofo selvatico e da certe erbe profumate (serpillo, santoreggia, maggiorana ecc.) si ricavano cagli vegetali. Oggi si usano cagli chimici preparati dall’industria. La preparazione del formaggio avviene dalla primavera all’estate più o meno così: Il latte, appena munto, va filtrato, messo nel caldano e portato lentamente a 36/38°; ci si versa il caglio, si rimescola bene e, dopo 30-40 minuti si ottiene la cagliata che si rompe con le mani e poi si riporta a 45/50° e si ottiene la “pasta” ed il “siero”. La pasta si lavora (si fruga e si pressa con le mani) per eliminare il residuo del siero e per ottenere le forme, queste si mettono a: bucciare: ovvero a maturare per alcuni giorni (al massimo 20) in ambiente buio, fresco a media umidità, su tavole di legno dove di tanto in tanto si lavano con acqua salata e siero tiepido. stagionare: si salano a secco o si lavano con acqua e sale, si sbollentano nel siero di latte bollente, si dispongono su tavole di legno in luogo adatto (cantina) per alcuni mesi (da un minimo di tre ad un massimo di 18 ). Di tanto in tanto si ungono con l’olio. Negli ultimi anni il settore lattiero-caseario ha subìto una vera e propria rivoluzione: sul piano normativo e su quello tecnologico, tanto da occupare troppo Le Cento Città, n. 49 spazio per trattarlo. Il tradizionale pastore che faceva il formaggio nella capanna o nella casa di paese va scomparendo per far posto alla piccola azienda casearia. Descrizione dei formaggi marchigiani Latticini Quagliatella o sbobba Una specie di yoghourt. Una volta era uno dei pasti dei pastori dei nostri Appennini , insieme all’acquacotta, e la panricotta Si scalda il latte e ci si versa un pizzico di quaglio (caglio) su un piccolo pezzo di stoffa bianca pulita e poi prendendola per i quattro capi si immergeva nel latte strizzandola. Si versa il latte su fette di pane raffermo e si aspettava che coagulasse Giuncata o giungata Né ricotta, né formaggio, documentata la produzione sin dal Medioevo. Si fa all’inizio dell’estate con latte tiepido e caglio non salato. Viene poi messo in appositi cestelli di giunco ad asciugare che gli imprimono le caratteristica striature Tipico del periodo pasquale, si mangia fresco. Ricotta Latticino ben conosciuto dai romani ed usatissima nel medioevo. Si ottiene facendo bollire nel caldaro (quindi è cotta due volte: ricotta) il siero del latte ottenuto durante la lavorazione del formaggio, si raccolgono con un mestolo forato i fiocchi coagulati e si mettono a gocciolare in appositi cestini. Si può fare con latte di pecora o di vacca. Una volta si preparava soltanto tra aprile e maggio. La ricotta ben salata ed a volte affumicata si può conservare per parecchi mesi. Il panricotta era la ricotta Enogastronomia appena fatta, calda e grondante di siero che veniva versata su fette di pane stantio. Tipico mangiare di pastori I formaggi a pasta tenera Raviggiòlo Tipico del territorio di San Leo e Casteldelci (Montefeltro) ormai quasi scomparso. Nel Cinquecento era considerato una prelibatezza In passato si preparava con il latte cagliato di capra ora, con la scomparsa della capra, con il latte di pecora o di mucca sia a maggio che a novembredicembre, si mette a scolare su stuoie di canna e dopo un giorno è pronto: tenero, gradevolmente dolce, delicato e burroso. Slattato Formaggio molle, bianco, cremoso di sapore dolce acidulo, fatto con il latte vaccino; simile allo squacquerone romagnolo. Viene prodotto da ottobre a marzo nel territorio di San Leo, Casteldelci e S. Agata Feltria. Il latte dopo l’aggiunta del caglio coagula in 30 minuti e poi viene “maneggiato” per farlo addensare; si sala leggermente a secco e si sbollenta nel siero del latte. 31 Si mangia appena fatto o meglio dopo 7-10 giorni di maturazione. Una volta veniva poi avvolto in foglie di cavolo o di fico. Cagiolo Antico formaggio molle una via di mezzo tra ricotta e caciotta, a forma di grossa arancia; si produceva nei dintorni di Osimo, ora è scomparso I formaggi a pasta semidura e dura Casciotta, caciofiore di Urbino Il nome deriva dal medioevale cascio e dal romano caseum che vuol dire formaggio. Formaggio storico assai noto, a denominazione d’origine protetta (D.O.P del 12/6/ 1996), prodotto nei comuni di Urbino, Urbania, Cagli, Mercatello. Formaggio morbido, crosta sottile gialla, pasta bianca, friabile, sapore dolce e delicato, lievemente “occhieggiante” preparato in stampi di terracotta con 2/3 di latte di pecora ed 1/3 di latte vaccino. Si prepara in piccole forme di circa 450-950 g. che vengono passate più volte nella salamoia (acqua e sale) oppure salate a secco e poi messe su tavole Le Cento Città, n. 49 di legno a stagionare per 20-30 giorni. Il grande scultore Michelangelo ne era ghiottissimo tanto che il fido servitore Amatori di Casteldurante (Urbania) lo convisse a comprare qui un podere per allevare pecore e vacche e far fare direttamente il suo amato formaggio. Alcuni produttori usano chiamarla: caciotta Michelangelo. Nella zona Piandimeleto, Talamello, Pennabilli, Macerata Feltria, S. Angelo in Vado e Carpegna si produce la Caciotta del Montefeltro: sorella gemella della precedente. Caprino di Urbino Formaggio fatto esclusivamente con latte di capra, abbastanza comune sino all’inizio del novecento, poi pressoché scomparso con l’eliminazione della capra; da qualche anno se ne è ripresa la produzione in piccole quantità. E’ pronto dopo tre settimane di maturazione con lavaggio frequente delle forme in acqua salata. Viene messo sott’ olio o stagionato per qualche mese in Leonardo Bruni ambiente fresco ed asciutto. Formaggio cilindrico con forme da 500 g a 1500 g, crosta morbida , increspata di color nocciola chiaro o scuro, a seconda la stagionatura, pasta compatta senza occhiature, saporita e piccante. Prodotto dalla primavera all’autunno. Pecorini Parliamo di pecorini al plurale perché ogni località ha la sua erba, il suo caglio e la sua tecnica di preparazione e stagionatura. Il miglior pecorino è quello prodotto a giugno con latte esclusivamente ovino appena munto (né liofilizzato, né congelato). Forme da uno a quattro chili. Crosta dal giallo chiaro al bruno, marezzato di rosso ruggine, a seconda della stagionatura. I pecorini freschi sono quelli con stagionatura sino a tre mesi, a pasta scarsamente occhiata, dolce, morbida, profumata di erba di montagna. Famosa la Caciotta di Comunanza e Amandola (Fermano) Appena 10 giorni di maturazione, crosta bianca , pasta assai occhiata di sapore dolce acidulo. Caciotta del Montefeltro (Pesaro-Urbino) Spesso fatta con latte vaccino misto a capra e pecora. Viene “calcata” per sei 12 giorni tra le foglie fresche del noce La caciotta assume un chiaro profumo di mallo di noce, sapore pastoso, gradevolmente sapido. Si produce da fine marzo a tutto settembre. Le aree storiche marchigiane dove si producono i migliori formaggi della regione sono: Il Montefeltro (monte dei pecorai) specie nei comuni di: Casteldelci, San Leo, Talamello , S,Agata Feltria, Carpegna. Alta valle del Foglia (Piandimeleto, Sistino) Alta valle del Metauro (Mercatello, S. Angelo in Vado, Piobbico, San Sisto) 32 Monte Petrano e Monte Catria: Sassoferrato, Arcevia Fabrianese (Val di Castro, Belvedere, Campodonico, Pian dell’Elmo). Monti Sibillini (in provincia di Macerata: Sarnano, Visso, Ussita; in provincia di Ascoli Piceno: Amandola, Comunanza, Monte Rinaldo). I pecorini secchi sono quelli stagionati per almeno otto mesi: pasta giallo paglierina brunastra, odore penetrante, sapore pieno, piccante, assai aromatico; adatti per essere grattugiati. Il “pecorino bazzotto” con stagionatura intermedia semiduro, molto profumato è ottimo formaggio da tavola Nell’alta valle del Metauro il pecorino si lascia asciugare (stagionare) sopra foglie di fico. In alcuni luoghi del Montefeltro viene posto ad asciugare su graticci di canne e bagnato con olio e aceto oppure immerso nel mosto fresco o nelle vinacce per 12 ore; si conserva poi in orci di terracotta chiamati avtein Nell’Alta valle del Foglia viene adagiato in grosse olle (recipienti di terracotta forata), ricoperto di cenere (preferibile quella ottenuta dalla combustione del legno d’olivo) e foglie asciutte di noce; lo si tiene a stagionare da giugno sino a San Martino (11 di novembre). In alcune zone dell’Appennino centrale il pecorino viene fatto stagionare in grotte oppure in botti di rovere circondato da foglie di noci. A Cartoceto, nei pressi di Fano, alcuni usano stagionarlo nelle “fosse olearie”. Pecorino di Fossa Gioiello caseario, di fama nazionale e mondiale prodotto nell’alto Montefeltro (Talamello e S.Agata Feltria ed in Romagna a Sogliano sul Rubicone. Dopo la seconda guerra mondiale questo “giacimento gastronomico” era quasi scomparso sino a che Sogliano e poi Talamello, intorno agli anni ottanta, hanno ripreso a produrlo, ovvero il pecorino di fossa è resuscitato (a Talamello ci sono circa 25 fosse che producono 300 ql. di formaggio) Le Cento Città, n. 49 Ambra di Talamello è il nome che lo scenografo Tonino guerra ha data al pecorino di fossa prodotto nell’omonimo comune. Montefeltro e Romagna si contendono la primogenitura di questo famosissimo formaggio; si parla di questo formaggio già nel XIV secolo. Per sfuggire alle frequenti razzie di soldati di ventura e briganti che un tempo infestavano questi luoghi, gli abitanti di questi tre paesi, ad un tiro di schioppo l’uno dall’altro, hanno pensato di nascondere i propri caci nelle numerose fosse o cave di gesso o tufo di cui è ricco il territorio, su cui ci si costruivano le abitazioni. Un tempo servivano a conservarci i cereali. Si è poi scoperto che il formaggio infossato assumeva sapori e profumi straordinari così che, cessato il problema di nasconderlo, si continuò a mettere il formaggio a stagionare nelle “fosse” per migliorarne le caratteristiche gastronomiche. Si fa il pecorino, come d’uso nel Montefeltro con ¾ di latte di pecora ed ¼ di vacca, tra maggio e giugno Le forme si mettono a stagionare normalmente poi, dopo circa due mesi, si chiudono in sacche di juta o in vecchie federe per cuscini e vengono immesse nelle “fosse o grotte” a forma di fiasco rovesciato, rivestite di paglia di grano, son poi sigillate con coperchi di legno. Il cacio subisce l’aggressione delle muffe che si formano dalla fermentazione della paglia, in assenza di aria, e subisce una seconda fermentazione che da al formaggio nuovi profumi e sentori (di fungo, di tartufo ecc.). Le forme subiscono le deformazioni più strane per il peso che le schiaccia e si rivestono di muffe grigio-verdastre. Il nostro pecorino “risorge” il 25 di novembre: S. Caterina. A vedersi non ha un bell’aspetto ma, tagliato, mostra una pasta morbida e spugnosa, stupendamente profumata di bosco. Attenzione! Del formaggio di fossa se ne produce meno di 1000 q.li e quindi le imitazioni son tante. Libri ed eventi 33 di Alberto Pellegrino LIBRI Un romanzo d’esordio di una marchigiana La scrittrice pesarese Simona Baldelli ha esordito nel mondo della narrativa con il romanzo Evelina e le fate (Giunti Editore, Firenze, 2013). Si tratta di un’opera ambientata in un piccolo paese della campagna marchigiana intorno a Pesaro con un ritorno a un’epoca particolarmente drammatica segnata dalla presenza degli sfollati, dei tedeschi e dei fascisti della Repubblica Sociale, che sono in ritirata sotto l’attacco delle formazioni partigiane e dell’esercito alleato. Tutta questa storia è rievocata attraverso gli occhi di una bambina (Evelina) che vive con il padre e la madre malata, con i fratelli e con Sara, una bambina ebrea che vive nella stalla, nascosta sotto una botola. Il mondo contadino e fiabesco, visti con lo sguardo magico dell’infanzia, s’intreccia con le vicende della seconda guerra mondiale e della guerra partigiana. La protagonista è una bambina un po’ speciale che ha una particolare visione della vita: “Evelina cercava la pace e il silenzio. Per quello si svegliava prima di tutti. Prima del padre che andava presto nei campi, prima della madre e della nonna che facevano le faccende, prima dei fratelli più grandi che andavano a scuola e di quelli più piccoli che invece dormivano fino a tardi. Certe mattine si svegliava persino prima del gallo”. Crede di vedere in due donne, la Nera e la Scepa, due fate buone che salvano e difendono lei e i suoi fratelli in diverse occasioni. Il romanzo, che è stato finalista al Premio Calvino 2012, è scritto con uno stile rapido ed efficace, è ricco di avvenimenti e di colpi di scena, riesce a mescolare la realtà e con i sogni, le profezie e le anime dei morti, grazie al continuo inserimento di parole magiche, parole amuleti, filastrocche ed elementi dialettali. La Baldelli riesce a inserire la “piccola storia” nella Grande Storia del nostro paese, intrecciando le vicende di uomini che uccidono, stuprano, tradiscono con il mondo delle fate (un surrogato laico degli angeli custodi) che appaiono nel momento giusto per salvare e rassicurare i bambini, mentre gli adulti sono incupiti dalle preoccupazioni e ormai incapaci di godere delle piccole gioie dell’infanzia. Camerino e mons. Bruno Frattegiani Un prelato di Camerino, mons. Giuseppe Tozzi, ha recentemente pubblicato il libro Lieti attingete alla sorgente. L’episcopato camerinese di mons. Bruno Frattegiani (1964-1989), nel quale si traccia un profilo biografico, esistenziale ed ecclesiale di questo Arcivescovo che ha retto per un lungo periodo la Diocesi di Camerino-San Severino Marche, lasciando un impronta particolarmente profonda del suo episcopato. Mons. Frattegiani arriva a Camerino dopo essere stato Vicario generale della Diocesi di Perugia e presidente del Tribunale ecclesiastico regionale dell’Umbria, preceduto da una fama di esperto giurista, autorevole teologo e biblista, giornalista acuto e dallo stile particolarmente fluido. Sono gli “anni caldi” del Concilio Vaticano e Frattegiani ha la possibilità di partecipare alle sue fasi conclusive, riportando in diocesi lo spirito conciliare di un cambiamento della Chiesa sotto il profilo teologico, liturgico e organizzativo. In questa ottica egli procede al rinnovamento della diocesi sotto il profilo della pastorale, della liturgia e dello stile di vita. Istituisce il Consiglio pastorale Le Cento Città, n. 49 e il Consiglio presbiterale; provvede alla ristrutturazione delle parrocchie e delle Vicarie, a risolvere il problema del trattamento economico del clero, alla riforma della Curia. Egli guarda con attenzione ai movimenti e alle associazioni; crea l’Istituto per il sostentamento del clero, la Fondazione Opere di Religione, il Collegio Universitario “Bongiovanni”, il Pensionato Femminile Universitario “Battista Varano”; riserva una grande attenzione ai mezzi di comunicazione con l’istituzione di Radio C1, il potenziamento del Bollettino Dioceasano e del settimanale Appennino Camerte, al quale collabora assiduamente con una serie di articoli di alto magistero teologico e pastorale, con il Quadrante Biblico che diventa un appuntamento settimanale con l’esegesi della Sacre Scritture, alla cui lettura egli dà grande importanza. Per la promozione delle idee e dei valori del Concilio istituisce la Tre giorni diocesana aperta anche ai laici, alla quale partecipano come docenti mons. Dionigi Tettamanzi, mons. Ferrari Toniolo, mons. Sandro Quadri, mons. Antonio Riboldi, il card. Michele Pellegrino, i teologi Ernesto Balducci ed Enrico Chiavacci. Questo vescovo conciliare, nonostante le resistenze interne ed esterne, si fa apprezzare per lo stile di vita, la pratica pastorale, la predicazione, gli interventi sulla stampa locale e nazionale, le sue prese di posizione sui problemi religiosi, morali, sociali e politici del momento, mettendo sempre in primo piano l’esigenza di un rinnovamento della Chiesa, l’opportunità di un suo distacco dalla politica e da ogni forma di potere, dando sempre una testimonianza di povertà e di fede, di coerenza e di mitezza, di ecumenismo e di apertura al dialogo. Libri ed eventi Da Milano con amore di Rodolfo Colarizi Rodolfo Colarizi, nato a Fano, è un personaggio particolare che sa unire una solida preparazione scientifica e manageriale a un insopprimibile bisogno di raccontarsi e di raccontare, per cui ha sempre affiancato alla sua attività di saggista e giornalista professionale quella del narratore. Alto dirigente di una multinazionale farmaceutica, si è occupato in particolare della diagnostica e della cura del diabete, dell’alimentazione necessaria per fronteggiare questa malattia. Ha fondato e diretto per anni la rivista Diabete oggi e domani, è stato caporedattore di tre altre riviste sul diabete ed è attualmente direttore della rivista Amare Dolcezze. È autore di 20 pubblicazioni di divulgazione scientifica per le quali ha ricevuto prestigiosi premi nazionali e internazionali. Sul versante letterario Colarizi è l’autore di numerose opere di narrativa, tra cui Profumo di mare, L’abbraccio del mare, Il ritorno di Gildo, C’eravamo tanto odiati, La lampedusana, La rivincita di Virginia, Fanesi brava gente. Il suo ultimo lavoro s’intitola Da Milano con amore (Tecnoprint, Ancona, 2013) e comprende una serie di racconti a carattere autobiografico che riescono tuttavia a superare i confini del personale per tracciare un ritratto della società milanese degli anni Settanta/Ottanta. Colarizzi racconta le sue prime esperienze vissute a Bologna, quindi il suo trasferimento a Milano vista come una metropoli di valore europeo da scoprire e da vivere con entusiasmo. Qui inizia la sua collaborazione con la pagina scientifica del Giornale di Indro Montanelli con il succesivo passaggio al Corriere della sera. L’autore racconta una serie di incontri che hanno in qualche modo segnato la sua vita con molti luminari della scienza medica di varie Università italiane, l’amicizia stimolante e intellettualmente ricca con lo scrittore Piero Chiara, infine l’incontro esaltante con Giovanni Paolo II che, dopo aver letto 34 un suo articolo sulla visita papale a Fano del 12 agosto 1984, invita Colarizi e la sua famiglia a una messa privata in Vaticano che, dopo aver superato diverse difficoltà, si concluderà con un cordiale colloquio con il pontefice. Un importante fotografo ritrae i volti di Camerino Paolo Di Paolo è stato un importante fotografo free lance che si è affermato nel campo del giornalismo fotografico, lavorando per conto del settimanale Tempo diretto da Arturo Tofanelli e firmando diversi reportage realizzati con Pier Paolo Pasolini, Antonio Cederna, Larmberti Sorrentino, Mino Guerrini. La collaborazione più intensa e prestigiosa è stata quella con la rivista Il Mondo fondata nel 1949 da Mario Pannunzio. Di Paolo, dopo la laurea in filosofia, entra a far parte di un gruppo di artisti romani formato da Mafai, Omiccioli, Turcato, Corpora, Consagra, Accardi e decide di dedicarsi alla fotografia professionale. Per Il Mondo Di Paolo realizza una serie di servizi di grande valore che sono stati rievocati nella primavera del 2012 in una mostra antologica e in un bel catalogo dall’Università degli Studi di Camerino. Si tratta di immagini in bianco e nero che ci offrono un suggestivo spaccato degli anni Cinquanta/Sessanta segnati dal Neorealismo e successivamente dalle atmosfere romane alla Fellini. Paolo Di Paolo, dopo quella mostra, si è letteralmente “innamorato” di Camerino e, quasi novantenne, ha sentito il bisogno di riprendere in mano la macchina fotografica, abbandonata nel 1966 anno di chiusura del Mondo, per rimettersi a scattare immagini. L’unico ostacolo, che l’ha fatto sentire un fotografo dilettante, è stato trovarsi alla prese con una macchina che non era la sua vecchia Leica, ma “uno di quegli strumenti disumani che nessuno avrà mai il tempo e la pazienza di conoscere perfettamente. Con un unico vantaggio: dopo ogni scatto posso controlLe Cento Città, n. 49 larne l’esito sul display e gioire (non sempre) del risultato, quasi esclamando: è venuta!”. Il volume I volti di Camerino. Ritratto di una città gioiosa (Università di Camerino, 2013) contiene delle immagini che si propongono di raffigurare il “volto” di quelle pietre millenarie che costituiscono i segni lasciati dalla storia e dalle erosioni del tempo sui palazzi e lungo le vie camerinesi colte attraverso suggestive atmosfere notturne in una città deserta ma pur sempre viva. La rappresentazione più vivace e attraente di Camerino è costituita dall’umanità che abita tra quelle antiche pietre: il rettore e i professori dell’Università, il sindaco e gli amministratori locali, i professionisti e gli intellettuali, gli artigiani e il clero, gli ordini religiosi delle clarisse e dei Cappuccini, ma soprattutto il popolo variopinto e sorridente, spensierato e impegnato degli studenti universitari che costituiscono con la loro giovinezza una parte determinante del tessuto cittadino. Santi in Medicina 11° Volume della Collana Scienze Umane della Facoltà di Medicina e Chirurgia/Università Politecnica delle Marche Dalla prefazione del Prof. Antonio Benedetti Preside della Facoltà di Medicina e Chirurgia. Questo volume racchiude le relazioni tenute al Convegno Libri ed eventi annuale della Facoltà del 2012 e dedicato a I Santi in medicina. Il Convegno era il quattordicesimo della serie, i precedenti essendo stati dedicati, anno dopo anno, a Medici e Scienziati illustri marchigiani, nonché sempre con riferimento alla realtà regionale, a Antiche Facoltà di Medicina, Biblioteche di tradizione, Confraternite quali prime forme di assistenza sociale, Manicomi, Fonti e acque termali, Industrie farmaceutiche e Farmacie di tradizione. Un insieme di studi e di ricerche compiuti dai docenti della Facoltà di Medicina che in più occasioni sono stati affiancati da uomini di cultura dell’associazione Le cento città. Questa continua attenzione ai personaggi ed ai luoghi della cultura delle Marche, sia come memoria sia come attualità, scaturisce dalla considerazione che uno dei compiti di una facoltà è quello di valorizzare il patrimonio culturale del territorio in cui è inserita e dalla consapevolezza, piace a questo punto citare Cicerone, che “la storia è testimone del tempo, luce della verità, vita delle memorie, maestra di vita, messaggera dell’antichità”. Il sottotitolo del convegno era “Storie di santi che fanno i medici e di medici che fanno i santi” e si è così parlato, in quattro capitoli, di santi medici e di medici santi, facendo particolare riferimento nel terzo capitolo alla santità nelle Marche. Riproporsi di scrivere su tutti i Santi che “fanno i medici” è veramente impossibile, perché la santità deriva dal miracolo e il miracolo, quasi sempre, è guarigione quando non resurrezione. Quindi potenzialmente tutti i Santi, nella loro vita, sono stati medici. Per questo, nella progettazione e nella stesura del capitolo dedicato ai Santi guaritori, si è fatto esclusivo riferimento a quei quattrodici Santi che ebbero il titolo di Santi ausiliatori, in quanto portavano intercessione, soccorso, ausilio ai sofferenti. Queste quattordici figure di Santi devono la loro identificazione e selezione ad un miracolo che si registrò a Langheim, in Germania, in due giorni del 1445 e del 1446. In 35 quelle occasioni quattordici Santi, già noti nella tradizione cristiana per le loro virtù guaritrici, apparvero ad un pastorello tutti contemporaneamente, e da quel momento vennero riconosciuti come i Santi in grado di portare ausilio e da invocare globalmente nel mezzo delle sofferenze. Vi sono poi stati molti medici che hanno vissuto da santi; il più esigente dei nostri lettori potrà obbiettare che non erano in realtà medici, ma, come usava in quei tempi, più spesso filosofi quando non addirittura barbieri e speziali. Comunque il loro titolo era di Medicus oltre che Philosophus, e quindi come tali possiamo accettarli. Indubbiamente il primo medico divenuto santo è stato San Luca, in quanto apostolo e coevo di Gesù, seguito da una lunga serie di medici tra i quali i più conosciuti i santi Cosma e Damiano, cui è stata dedicata la copertina del volume. Di molti di questi santi è quanto mai vivo il culto nella nostra regione, perché nelle Marche hanno svolto parte del loro apostolato o in esse hanno lasciato ampi segni del loro passaggio. Certo, sfogliando le pagine di questo libro, ci si accorge che ci muove tra storia e leggenda, tra scienza e credenza, al punto che di alcuni santi non si è neppur certi che siano mai esistititi. Uno di questo è San Giuliano l’Ospitaliere, cui peraltro sono dedicati molti luoghi di culto in tutta Europa ed un’ampia iconografia nonchè il patronato di una città, la nostra Macerata. Si esce dalla leggenda per entrare invece decisamente nella storia, e soprattutto nella storia dei nostri giorni, con i due ultimi capitoli, il primo dedicato alla descrizione della Chiesa di Sant’Egidio a Sant’Angelo in Lizzola, esempio di mecenatismo imprenditoriale in favore del recupero di un’opera d’arte, il secondo, il ricordo di Madre Teresa di Calcutta, medico solo honoris causa, ma esempio illuminante di santità contemporanea, una vita spesa nell’amore per gli altri. Antonio Benedetti Le Cento Città, n. 49 I viaggi di Giuseppe Gioacchino Belli nelle Marche Manlio Baleani è stato per diversi anni apprezzato funzionario dell’Università Politecnica delle Marche, ma accanto alla sua attività fondamentale ha sempre coltivato l’amore per la letteratura e soprattutto per la poesia di Giuseppe Gioacchino Belli, oggetto del suo studio per quasi cinquant’anni. Questa passione per l’arte del Belli si è trasformata in una vera e continua ricerca di saggi, biografie, lettere, diari di viaggio e nella pubblicazione di una serie di contributi critici, racchiusi nei tre volumi Potenti, Santi, Monsignori e Bona Gente nella Roma di Belli, Arti e Mestieri nella Roma di Giuseppe Gioacchino Belli, e la Sagra Riliggione Antico, Nuovo Testamento e Precetti della Chiesa raccontati da Belli. Nel suo nuovo volume, Baleani accompagna il Poeta nei suoi viaggi, oltre venti, compiuti tra il 1820 e 1832 e poi nel 1840-44 in terra marchigiana, viaggi in parte solo di attraversamento della Regione per raggiungere Bologna o Milano, in parte destinati al soggiorno nelle accoglienti case di amici, tra i quali Francesco Cassi di Pesaro, Giuseppe Neroni Cancelli di Ripatransone, i Roberti di Morrovalle, la famiglia Solari di Libri ed eventi Loreto. Ma i viaggi nelle Marche erano anche per il Belli l’occasione di curare degli interessi personali; il poeta aveva sposato infatti Maria Conti, vedova brillante del nobile anconitano Giulio Pichi e poi per uscire dal tumulto di Roma, guardare Roma da lontano e assaporare l’accoglienza marchigiana, sia pure pagando il prezzo di viaggi spesso avventurosi compiuti su carrozze traballanti e su strade spesso dissestate. Seguendo il Belli, Baleani riscopre ventidue comuni, descritti in ordine alfabetico, da Acqualagna a Valcimarra e persone e luoghi del tempo e questo non è solo moderno journal de voyage, ma è soprattutto ricerca storica, riscoperta dei sonetti, descrizione accurata di personaggi, ma anche degli usi e costumi della Marca, come la regione era definita dallo Stato Pontificio nella prima metà del diciannovesimo secolo. Vi è poi un’appendice storica sui tre cardinali marchigiani che ascesero al soglio di Pietro, Leone XII, Annibale della Genga, da Genga, Pio VIII, Francesco Saverio Castiglioni di Cingoli e il più famoso Pio IX, Giovanni Maria Mastai Ferretti di Senigallia. Facendo largo uso di sonetti del Belli dedicati a questi pontefici, talvolta bonariamente ironici, talaltra veramente sarcastici, Baleani tratteggia con straordinaria bravura la personalità dei tre papi marchigiani, mettendone in evidenza il carattere, ma anche l’azione da loro condotta in favore della religione e del miglioramento delle condizioni di vita dei loro paesi d’origine. In definitiva, si tratta di un libro che si legge d’un fiato e poi si torna a rileggere, con una motivazione in più, il ricavato del volume magistralmente preparato dall’editore Giancarlo Ripesi, viene devoluto alla Lega del Filo d’oro. Un motivo di più per acquistarlo. 36 GLI EVENTI Successo della Serata a Colono al Teatro delle Muse Al Teatro delle Muse di Ancona è andata in scena La serata a Colono, il testo teatrale scritto da Elsa Morante nel 1966/67 che Carmelo Bene nel 1970 lo ha definito “il capolavoro della Morante, vertice della poesia italiana del Novecento”. Grazie alla coproduzione tra il Teatro Stabile di Torino, il Teatro Stabile delle Marche e il Teatro di Roma, il regista Mario Martone è riuscito a mettere in scena questo lavoro “misterioso e inafferrabile”, perché raccoglie in sé le componenti del monologo, del poema, della commedia, della tragedia e del melodramma, costituendo l’esempio di “una drammaturgia da grande avanguardia del ‘900”. La serata a Colono inizia con questa didascalia “Verso sera, in un dolce tiepido novembre, intorno all’anno 1960; nell’interno del Policlinico di una città sudeuropea, in un corridoio attiguo al reparto neurodeliri” e tutto lo spettacolo ruota intorno a un personaggio estremamente complesso, simbolo di un essere umano dolorosamente divorato dal senso di colpa, un uomo che non è Edipo ma che nel suo delirio finisce per essere realmente Edipo. Infatti, come per un miracolo, il delirio di un paranoide alcolizzato e tossicodipendente diventa il poema drammatico sulla dolorosa condizione di un individuo che attraversa gli inferi della miseria spirituale e della persecuzione del Fato per approdare a una La Serata a Colono, da sinistra Angelica Ippolito, Carlo Cecchi, AntoniaTruppo. Giovanni Danieli La Serata a Colono, Carlo Cecchi in primo piano. Le Cento Città, n. 49 Libri ed eventi specie di catarsi finale, quando il sentimento dell’amore diventa una preghiera alla divinità persecutoria (Apollo) per invocare un perdono che capace di cancellare il peso di una colpa vergognosa piombata contro la sua volontà sulle fragili spalle di un uomo. Al fianco di questo Edipo c’è, oltre a una suora ospedaliera (Angelica Ippolito) che nel delirio del protagonista assume il volto e la voce di una materna Giocasta consolatrice, la figlia Antigone (un brava Antonia Truppo) che non è un’eroina tragica, ma una fanciulla “diversa” capace di vivere in una “dimensione assoluta dell’amore”, la quale incarna con semplicità la pietà e la dedizione filiale, esprimendosi in una lingua popolare, lontana dal linguaggio colto del padre che la definisce “una povera guaglioncella mal cresciuta per colpa della sua nascita…di mente un poco tardiva”. Martone ha ideato una scena di grande efficacia nella sua assoluta essenzialità ed ha innovato rispetto al testo, sfondando la “quarta parete” quando ha portato nella prima parte il Coro dei pazzi in mezzo al pubblico della platea e nella seconda parte ha assegnato al Coro la funzione propria del teatro classico. Il personaggio di Edipo è interpretato da uno straordinario Carlo Cecchi, capace di una prova d’attore eccezionale per intensità e concentrazione di fronte a un testo difficilissimo che richiede di passare continuamente dalla recitazione tragica al “recitativo arioso”, dal melologo al canto lirico. Il Convegno a Castelbellino su Ippolito Nievo Si è celebrato il 18 maggio 2013 a Castelbellino il consueto Convegno su temi risorgimentali organizzato dalla Sezione “Garibalda Canzio” dell’Associazione Nazionale Veterani e Reduci Garibaldini in collaborazione con l’Amministrazione Comunale. Quest’anno è stato prescelto come tema Ippolito Nievo: patriota e letterato; l’evento è stato completato con 37 l’allestimento della Mostra L’Italia s’è desta. Storia del Risorgimento italiano attraverso la stampa satirica dell’epoca, a cura del Centro Studi Galantara e della Deputazione di Storia Patria per le Marche. Alla manifestazione ha preso parte la prof. ssa Annita Garibaldi Jallet, Presidente dell’Associazione Naz.le Veterani e Reduci Garibaldini, che ha introdotto il tema con la rievocazione di alcune figure della Famiglia Garibaldi. Ha preso quindi la parola il prof. Gualtiero De Santi, docente di Letterature Comparate presso l’Università degli Studi di Urbino, il quale ha tenuto una magistrale lezione sulla figura di Ippolito Nievo non solo come narratore di grande rilievo nel quadro dell’Ottocento letterario italiano, ma anche come un politico che ha teorizzato nei suoi scritti la necessità dell’indipendenza e dell’unità nazionali. Subito dopo il prof. Alberto Pellegrino, in rappresentanza del Centro Studi Galantara, ha messo in evidenza l’apporto dato dalla satira giornalistica alla causa risorgimentale ed ha tracciato un quadro sull’importanza che hanno avuto i mezzi di comunicazione di massa nel corso di tutto il Risorgimento. Grande partecipazione al Teatro della scuola a Serra San Quirico La 31^ Rassegna del Teatro Teatro Pirata Dallenuvole Bruno. Le Cento Città, n. 49 della Scuola, organizzata dal Comune di Serra San Quirico con il patrocinio della Regione Marche e della Comunità Montana Esino-Frasassi, si è svolta dal 13 aprile al 4 maggio 2013. Nel piccolo centro dell’anconetano sono confluiti per 22 giorni 25 compagnie teatrali provenienti da ogni parte d’Italia che hanno portato sulla scena 77 spettacoli. Le varie rappresentazioni sono state seguite da 12.400 studenti e familiari, mentre 32 istituti scolastici hanno aderito alle proposte del Teatro Pirata con la partecipazione di 90 plessi scolastici delle Province di Ancona, Macerata e Perugia. Hanno preso parte attivamente alla manifestazione oltre 3000 bambini e adulti tra studenti, insegnanti, operatori teatrali: si sono inoltre tenuti stage di scenografia e comunicazione per studenti provenienti dalle Accademie di Belle Arti di Macerata e Brera, dalla Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università di Macerata. Il personaggio guida di quest’anno è stato Peter Pan che ogni giorno ha dato ai gruppi gli input creativi con cui riflettere, giocare, inventare e comunicare. Si sono tenute Giornate speciali sui temi dell’integrazione, dell’ambiente, della Resistenza e della legalità. Gli spettacoli sono andati in scena, oltre che a Serra San Quirico, nei teatri di Jesi, Fabriano, Montecarotto, Maiolati Spon- Libri ed eventi tini, Monte San Vito, San Marcello, Falconara Marittima, Cingoli, e Appignano. Il direttore artistico, Salvatore Guadagnolo a proposito della manifestazione ha detto: “La Rassegna Nazionale di Teatro nella Scuola rappresenta non solo un importante appuntamento per tutto il Teatro Educazione, ma vuole sempre di più sperimentare nuove forme d’incontro. È un progetto artistico e pedagogico condiviso ed elaborato nei minimi particolari, nello stesso tempo, però, lascia tutto il dovuto spazio alla spontaneità dell’incontro. Una sfida, un viaggio che porta a un luogo accogliente e confortevole come una casa nella quale sentirsi liberi di esprimere il proprio essere”. Civitanova Danza è arrivata alla ventesima edizione La ventesima edizione di Civitanova Danza “Enrico Cecchetti”, organizzata dall’Amat e dal Comune di Civitanova Marche, si svolgerà dal 20 luglio al 15 agosto con un cartellone che si presenta particolarmente ricco di eventi e debutti, tra cui sei prime nazionali assolute e l’ormai tradizionale appuntamento nello Sferisterio di Macerata. Dal 5 all’11 agosto si svolgerà il Campus estivo Civitanova Danza per Domani con docenti della Scuola di Ballo del Teatro alla Scala e dell’Opèra di Parigi. Il direttore artistico Gilberto Santini ha tenuto a sottolineare che si vuole “festeggiare senza che la ricorrenza diventasse cerimoniosa e così abbiamo pensato a una grande festa che riportasse la danza in mezzo alla gente, abbiamo voluto potenziare il concorso “Civitanova Danza per domani” con un Campus per giovani. Più che alla storia abbiamo cercato di capire l’evoluzione che il festival potesse avere, con alcuni poli, Marche, Italia e mondo e anche per questo la ventesima edizione dà una chiave di lettura dinamica, interattiva, legata ai social e alle nuove tecnologie”. Il festival si aprirà il 20 luglio con una grande maratona di danza (dalla mattina a notte fonda) con piccoli eventi organizzati dall’As- 38 sociazione Danza Esercizio e dello stile e le qualità interprePromozione. A partire dalle tative con cui affronta il balletto ore 19 al Teatro Ceccheti va in classico e la danza contemporascena De visu in situ motus, una nea. La Zarakharova è la prima creazione di Masako Matsushi- ballerina del Teatro Bolshoi di ta; al Teatro Rossini vi sarà la Mosca e l’étoile del Teatro alla prima italiana di Robot!, crea- Scala. zione della francese Blanca Li con otto danzatori e otto robot, La XXXIV edizione del Rof a che arriva dal Festival Montpel- Pesaro. Il programma 2013 Il cartellone 2013 del Rossini lier Dance; al Teatro Annibal Caro debutta in prima assoluta Opera Festival si presenta paril Pinocchio di Virgilio Sieni, ticolarmente ricco di iniziative direttore della Biennale di Vene- con le due nuove produzioni del zia Danza. Il 25 luglio l’Aterbal- Guillaume Tell e dell’Italiana in letto, la formazione italiana più Algeri. Il Guillaume Tell, opera prestigiosa, presenterà Romeo composta da Rossini a Parigi and Juliet con la coreografia di nel 1829 su libretto di EtienMauro Bigonzetti. Lo spettaco- ne de Jouy e Hippolyte Bis, lo, creato in collaborazione con ritorna a Pesaro dopo la prima l’artista visivo Fabrizio Plessi, edizione integrale del 1995 per dell’Orchestra vedrà impegnati diciotto danza- l’esecuzione tori (9 uomini e 9 donne) con i Comunale di Bologna diretta corpi ricoperti da involucri iper dal M° Michele Mariotti. Il cast, tecnologici in fibra di carbonio di notevole valore, è formato e caschi da motociclisti, i quali da Nicola Alaimo, Juan Diego si alterneranno in passi a due, Flòrez, Simon Orfila, Marina terzetti, quartetti e pezzi d’insie- Rebeka e Amanda Forsythe. Le me. Il 3 agosto vi sarà la seconda scene e i costumi sono firmamaratona di danza che vedrà ti da Paul Brown, mentre la impegnate al Teatro Cecchet- regia è stata affidata a Grahm ti due straordinarie compagnie Vick, autore di due precedenisraeliane guidate dai coreografi ti e apprezzati allestimenti del Roy Assaf e Noa Shadur, mentre Moise et Pharaon e del Mosè in il Teatro Rossini ospiterà la prima assoluta di Sudvirus del coreografo Roberto Zappalà; infine al Teatro Annibal Caro debutta lo spettacolo 00000000 del coreografo marchigianoolandese Giulio D’Anna. Il 15 agosto il festival si concluderà con La Notte della Stella, uno straordinario spettacolo basato sulla performance di Svetlana Zakharova, una danzatrice apprezzata in tutto il mondo per l’eleganza ROF 2013, manifesto - autoritratto. Le Cento Città, n. 49 Libri ed eventi Egitto. La seconda novità è rappresentata dall’Italiana in Algeri, un dramma giocoso scritto da Angelo Anelli, la cui regia è stata affidata a Davide Livermore che nel 2012 ha riscosso un grande successo con una geniale messa in scena di Ciro in Babilonia. Debutta a Pesaro il M° José Ramòn Encinar alla guida di una compagnia di canto formata da Alex Esposito, Mariangela Sicilia, Raffaella Lupinacci, Davide Luciano, Yijie Shi, Anna Goryachiva e Mario Cassi. È inoltre previsto il ritorno al Teatro Rossini dell’ormai classico Viaggio a Reims con l’affermata regia di Emilio Sagi, mentre la direzione orchestrale sarà di Daniel Smith con le migliori voci dell’Accademia Rossiniana; la seconda opera è La donna del lago, eseguita in forma di concerto per la direzione di Alberto Zenda, con Dmitry Korchak, Simone Alberghini, Carmen Romeu e Mariangela Sicilia; chiude il ciclo delle riprese L’occasione fa il ladro, un allestimento del 1987 di un Maestro della regia lirica come Jean-Pierre Ponnelle, con la direzione di Yi-ChenLin e un cast formato da Giorgio Misseri, Elena Tsallagova, Enea Scala, Roberto De Candia, Viktoria Yarovaya. Per quanto riguarda i concerti sarnno in cartellone la Rossiniana. Rossini aujourdd’hui con musiche di Anzaghi, Reghezza, Paganini, Molino, Spazzoli e Ugoletti, eseguite alla chitarra da Eugenio Della Chiara; Péchés de Vieillesse, un’esecuzione integrale della Quinta sessione con al pianoforte Bruno Canino; un Omaggio a Verdi. D’amore sull’ali rosee con il soprano Marina Rebeka e l’Orchestra Sinfonica Rossini diretta da Daniele Agiman; i tre Concerti di Belcanto avranno come protagonisti Michael Spyres, Celso Albelo e Yijie Shi. Il Rof si chiuderà con il concerto Festival giovane dell’Accademia Rossiniana a conclusione del Seminario di studio per cantanti, professionisti dello spettacolo e studiosi diretto da Alberto Zedda. 39 La 49^ Stagione lirica Macerata Opera Festival In occasione delle celebrazioni verdiane il cartellone 2013 di Macerata Opera Festival si apre con Nabucco (19-26 luglio, 2-4-9 agosto), la grande opera che segna l’uscita di Verdi dalla grave crisi familiare e professionale che l’aveva colpito nel 1840, melodramma che debutta alla Scala nel 1842 con l’interpretazione di Giuseppina Strepponi. L’autore e il librettista Tommaso Solera probabilmente non immaginavano che il successo di questa opera basato sul tema della schiavitù del popolo ebraico avrebbe legato gran parte del suo successo al grandioso coro “Va pensiero”, che diverrà in breve tempo uno degli inni del Risorgimento italiano. Sarà proprio questo successo ad accendere in Verdi la vena patriottica successivamente espressa in Ernani, I Lombardi alla prima crociata, La battaglia di Legnano e I Vespri siciliani. Le scene, i costumi e le luci sono di Roberto Tarasco, mentre la regia è stata affidata a Gabriele Vacis, regista teatrale di grande spessore culturale che nel corso della sua carriera si è impegnato con successo nel teatro classico e contemporaneo (per lo Stabile delle Marche ha diretto La rosa tatuata di T. William), nell’insegnamento e nella sperimentazione e nel campo dell’opera lirica (si ricorda una sua Lucia di Lammermoor del 1993 nell’Arena di Verona). La direzione dell’Orchestra Regionale delle Marche è stata affidasta al M° Antonello Allemandi che guiderà un cast di interpreti formato da Alberto Mastromarino (Nabuccodonosor), Valter Borin (Ismaele), Virginia Tola (Abigaille) e Gabriella Sborgi (Fenena). Il secondo titolo in cartellone è Il Trovatore (20-27 luglio, 3-10 agosto), una delle opere verdiane più popolari, un cupo dramma d’amore, vendetta e morte affidato alla regia del messicano Francesco Negrin, un professionista di valore internazionale per la prima volta allo Sferisterio.La direzione è affidata al M° Paolo Arrivabeni, le scene e i Le Cento Città, n. 49 costumi sono di Louis Desiré; il cast è formato dal tenore Aquiles Machado nell’impegnativo ruolo di Manrico, dal baritono Simone Piazzola (il Conte di Luna), dal soprano Susanna Branchini, che debutta nel ruolo di Leonora, e dal mezzosoprano Enkelejda Shkosa, anche lei per la prima volta alle prese con il personaggio-chiave di Azucena. Nel Teatro Lauro Rossi andrà in scena per la regia di Henning Brockhaus Il piccolo spazzacamino (29 luglio) di Benjamin Britten, capolavoro del teatro musicale del Novecento, una fiaba per bambini composta su libretto di Crozier. La messa in scena sarà a cura dell’Accademia di Belle Arti di Macerata; gli interpreti saranno Giacomo Medici (Nerone e Tommaso), Silvano Paolillo (Clementino e Alfredo), Lara Rotili (La sig. na Bracco), Anna Bella Ricci (Rosa); gli altri ruoli saranno affidati ai solisti del Coro di voci bianche Pueri Cantores di Macerata, mentre la direzione sarà del giovane maestro Francesco Lanzillotta. L’8 agosto allo Sferisterio andrà in scena lo spettacolo Sogni di una notte di mezza estate, un nuovo format di rappresentazione lirica diretto da Francesco Micheli, che ha ideato un “grande viaggio nel mito di Shakespeare in un bosco di musica e parole” con le composizioni di Mendelsshon e Britten affidate alla direzione dell’americano Christopher Franklin. Il cast è formato da cantanti di grande spessore come Carmela Remigio, Gabrilla Sborgi, Pervin Chakar, Ladislav Elgr, Haris Andrianos; da segnalare la presenza del basso marchigiano Andrea Concetti nel ruolo di Bottom, mentre l’attrice Lella Costa vestirà i panni del magico elfo Puck. Infine, il 21 luglio, sarà celebrata allo Sferisterio la figura del grande tenore recanatese Beniamino Gigli con un concerto che prevede la partecipazione dei soprani Daniela Dessì e Carmela Remigio, dei tenori Fabio Armillato, Aquiles Machado e Nazzareno Antinori, del basso Roberto Scandiuzzi. Vita dell’Associazione 41 Visite e convegni di Giovanni Danieli 15 marzo 2013, Macerata Freschi di stampa La quarta edizione di Freschi di stampa, realizzata da Maurizio Cinelli con la preziosa collaborazione della Dottoressa Angiola Napolioni, direttrice della Biblioteca statale, è stata, come da regolamento, dedicata alla presentazione di opere di Autori e di Editori marchigiani edite nel 2011-2012. Sono stati selezionati dalla Giuria, composta da Marco Belogi, Simone Socionovo, Filippo Scapellato, Marica Calisti e Natale G. Frega, i volumi: Il romanico nelle Marche di P. Piva, Dieci donne, storia delle prime elettrici italiane di M. Severini, Ti porto a vedere il mare di M. Todisco, Arena Sferisterio di Macerata 1967-1986 di E. Perucci e G. Gualdoni, Giuseppe Sacconi, il Vittoriano di F. Mariano, L’ultima piega di E.H. Ercoli, La Guardia di Finanza nelle Marche dal 1786 al 1862 (nella foto) del Comandante la Regione Marche della Guardia di Finanza Generale Giovanni Mainolfi e del suo Luogotenente Giuseppe Morgese. Le opere sono state presentate, nell’ordine, da Marco Severini, Maria Luisa Polichetti, Laura Cavasassi, Marisa Calisti, Fabio Brisighelli, Stefano Santini e Mario Canti. Il programma del pomeriggio maceratese si è concluso con la visita, guidata da Mario Canti, della Chiesa di San Filippo recentemente restaurata ed illustrata da Hermas Ercoli in una delle opere selezionate, L’ultima piega. 14-16 aprile 2013 Gubbio, Petroia, Firenze Viaggio a Firenze Il viaggio annuale dell’Associazione ha avuto come principale obbiettivo la visita della mostra La Primavera del Rinascimento, la scultura e le arti a Firenze 1400-1460, ma in realtà la visita al Bargello, quella al PaLe Cento Città, n. 49 lazzo della Signoria, oltre che la mostra di Palazzo Strozzi, hanno permesso una completa ed emozionante immersione nell’arte rinascimentale italiana che tra quattro e cinquecento ha avuto il suo più significativo epicentro a Firenze. Accompagnati da guide eccezionali per cultura e professionalità, i Soci hanno potuto ammirare opere di Masaccio, Natalino da Panicale, Donatello, Lorenzo Ghiberti, Brunelleschi, Luca Della Robbia, Desiderio da Settignano, Mino da Fiesole che hanno fatto la storia del Rinascimento. Il viaggio ha però conosciuto anche altri momenti importanti, come, nel trasferimento dalle Marche a Firenze, la visita di Gubbio e la mostra permanente Giovanni Danieli 42 A Petroia, Giovanna Frega, l’industriale della ceramica Rampini, il Presidente Natale G. Frega e i Signori Sagrini proprietari del castello. del Palazzo comunale, la visita del trecentesco castello di Petroia, molto ben conservato, ove i Soci sono stati amabilmente accolti dai proprietari Signori Sagrini, la visita alla Biblioteca nazionale di Firenze, per gentile concessione della Direttrice Dottoressa Francesca Filippeschi, visita guidata dalla Dottoressa Anna Lucarelli, l’itinerario albertiano che ha permesso di ammirare la facciata di Santa Maria Novella, l’esterno di Palazzo Ruccellai e la Cappella del Santo Sepolcro; la cena e lo spettacolo rinascimentali a Palazzo Borghese; infine la partecipazione, sempre nel Palazzo della Signoria, alla Inaugurazione dell’Anno Accademico dell’Accademia dei Georgofili di cui Natale Frega è Presidente per la Sezione centro-orientale, cerimonia svoltasi alla presenza delle autorità accademiche e che ha visto l’intevento del sindaco Matteo Renzi. 22 maggio 2013, Ancona Convegno annuale della Facoltà di Medicina Per il settimo anno consecutivo la Facoltà di Medicina si è avvalsa per la realizzazione del suo Convegno annuale della piena collaborazione della nostra Associazione. Il tema di quest’anno, Medici illustri marchigiani, aveva il suo focus sul passaggio della medicina da credenza a scienza, attraverso la descrizione di quattro personaggi marchigiani che hanno segnato altrettante tappe di questa evoluzione. Alberto Pellegrino ha presentato Cecco d’Ascoli, medico, filosofo, matematico e astrologo; Stefania Fortuna Bartolomeo Eustachi da San Severino Marche, anatomista e precursore dell’anatomia microscopica; Italo D’Angelo d’Apropione Giacinto Cestoni da Montegiorgio, uno speziale un pò “speciale”; Marcello D’Errico Angelo Celli da Cagli, l’igienista che guarì i contadini dell’Agro pontino dalla malaria e dall’ignoranza. Il convegno, presieduto da Antonio Benedetti e dal nostro Presidente, è stato moderato da Armando Gabrielli e Marco Belogi. Al termine è stato presentato e distribuito il volume Santi in Medicina, Le Cento Città, n. 49 storie di santi che fanno i medici e di medici che fanno i santi, contenente capitoli scritti con grande rigore scientifico e gusto narrativo da Marco Belogi, Giovanni Principato, Walter Scotucci, Grazia Calegari e Roberto Festa. 23 giugno 2013, Ascoli Piceno, Castel Trosino Convegno La ricerca al servizio del territorio “Se sostieni la ricerca scientifica Vita dell’Associazione l’Italia cresce”, questo è il motto che Lino Frega ha posto per il suo anno di presidenza ed è a questo che si è ispirato il convegno, che l’Associazione ha organizzato nel Ridotto del Teatro Ventidio Basso di Ascoli Piceno con la cortese collaborazione del sindaco dottor Guido Castelli.. Relatori prestigiosi dell’incontro sono stati, oltre al nostro Presidente, Marco Pacetti Rettore dell’Università Politecnica delle Marche, Antonio Benedetti, Preside della Facoltà di Medicina, Gian Luca Gregori, Preside della Facoltà di Economia, l’industriale Piero Guidi, il Sociologo Alberto Pellegrino. Ha coordinato il dibattito il giornalista Simone Socionovo. Al termine del convegno, l’Associazione si è portata a Castel Trosino per la visita di questo suggestivo borgo marchigiano e per partecipare nella locale piazza ad una cena medievale allietata dallo spettacolo, anch’esso di ispirazione medievale offerto dal Gruppo dei “Folli” composto di giocolieri, mangiafuoco, uomini-trampoli, tutto ciò in una serena sera d’estate. 43 29 giugno 2013, Ripatransone ed Offida In onore di Giuseppe Garibaldi Il mito di Giuseppe Garibaldi è quanto mai vivo a Ripatransone e certamente deriva dal fatto che l’Autore del famoso Inno di Garibaldi, Luigi Mercantini, è figlio di questa splendida cittadina marchigiana. Così a Ripatransone è sorta un’Associazione garibaldina molto attiva ogni anno a promuovere convegni ed incontri sull’Eroe dei due mondi ed ampi spazi sono stati riservati nel settecentesco Palazzo Bonomi Gera per ospitare una mostra permanente di cimeli garibaldini, quadri, ritratti e fotografie d’epoca, testi originali. Organizzatore della manifestazione è stato il dottor Mario Arezzini, medico e “garibaldino” di Ripatransone, mentre la visita al Museo è stata guidata da Pietro Pistelli e Giampiero Panichelli tutti in rigorosa camicia rossa e berretto garibaldino. Al termine della visita, anfitrione impareggiabile Pio Marconi, si è avuto un secondo mo- Le Cento Città, n. 49 mento culturale coordinato dalla Dottoressa Simona Caricasulo, con due eventi essenziali, la presentazione e distribuzione del libro I preti di Garibaldi di Pietro Pistelli da parte dello stesso Autore, e la conversazione della Professoressa Anita Garibaldi Hibbert pronipote dell’eroe, che molto si prodiga in Italia per mantenere vivi il ricordo di Giuseppe Garibaldi e lo spirito che animò il Risorgimento italiano. Erano presenti, tra gli oltre duecento partecipanti, i Sindaci Remo Bruni di Ripatransone, Domenico Corradetti di Castignano, Lucciarini De Vincenti di Offida e il Presidente della Provincia di Ascoli Piceno Piero Celani. Il libro I preti di Garibaldi riporta le storie di tanti sacerdoti che hanno condiviso le idee e seguiito Garibaldi nelle sue numerose imprese. Il Garibaldi che emerge dalla lettura del libro è ben lontano dagli stereotipi risorgimentali e dalla agiografia garibaldina, un Garibaldi per di più non anticattolico ma fermamente ostile al potere pontificio, ostacolo pervicace all’indipendenza e all’unità di Italia. Album di Romano Folicaldi 44 Preceduta da una visita alla Chiesa di San Filippo (Fig. 1), recentemente restituita al culto e alla possibilità di visitarla, dopo il lungo periodo di chiusura, necessario al suo restauro, il 15 marzo u.s. si è tenuta, nella Biblioteca Nazionale di Macerata (Figg. 2 e seguenti), la quarta edizione di “Freschi di Stampa”. Marco Severini, Maria Luisa Polichetti, Laura Cavasassi, Marisa Calisti, Fabio Brisighelli, Stefano Santini e Mario Canti sono stati i presentatori delle singole opere, nel corso dell’incontro presieduto dal Presidente de Le Cento Città Natale G. Frega e coordinato da Maurizio Cinelli. Le Cento Città, n. 49 Album di Corrado Paolucci 45 Castello di Petroia. Visita alla Biblioteca Statale di Firenze accompagnati dalla Dott.ssa Anna Lucarelli. Il Prof. Natale G. Frega e gli altri Presidenti delle sei Sezioni nazionali dell’Accademia dei Georgofili. Cena a Palazzo Borghese a Firenze. Album di Roberto D’Errico Spettacolo medioevale del Gruppo dei “Folli” nella piazza di Castel Trosino. Le Cento Città, n. 49 Album di Romano Folicaldi 46 Il ritorno de Le Cento Città a Ripatransone e Offida, dopo alcuni mesi dall’incontro del novembre scorso, non è stata una ripetizione: quello che però si è ripetuto è stato lo spirito di accoglienza e il calore che si sono espressi anche attraverso la presenza e il saluto che il Sindaco Remo Bruni ha voluto portare, e soprattutto l’entusiasmo, la capacità organizzativa e l’impareggiabile ospitalità che il Presidente, Mario Arezzini e Pio Marconi hanno ancora una volta messo in campo. Di particolare significato la presenza di Anita Garibaldi Hibbert (Figg. 5-6-7) Le Cento Città, n. 49 La pubblicazione de Le Cento Città avviene grazie al generoso contributo di Banca dell’Adriatico, Banca Marche, Carifano, Carisap, Co.Fer.M., Fox Petroli, Gruppo Pieralisi, Santoni, TVS