Cento Città, n. 49

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Cento Città, n. 49
1
Sommario
Le Cento Città
*
Direttore Editoriale
Mario Canti
Comitato Editoriale
Fabio Brisighelli
Romano Folicaldi
Natale G. Frega
Giuseppe Oresti
Giancarlo Polidori
Direzione, redazione,
amministrazione
Associazione Le Cento Città
[email protected]
Direttore Responsabile
Edoardo Danieli
Prezzo a copia
Euro 10,00
Abb. a tre numeri annui
Euro 25,00
Spedizione in abb. post.,
70%. - Filiale di Ancona
Reg. del Tribunale di Ancona
n. 20 del 10/7/1995
Stampa
Errebi Grafiche Ripesi
Falconara M.ma
3Editoriale
Un ruolo attivo per il territorio
di Natale Giuseppe Frega
4Primo Piano
Bellezza contro forza. Ecco perchè è necessario
un Ministero della cultura
di Gianfranco Mariotti
7 Il saggio
Cinte murarie delle 35 città delle Marche nella
regione V (Picenum) e VI (Umbria et Ager gallicus)
di Mario Luni, Claudia Cardinali
15 Il Convegno
Ricerca, il filo conduttore tra Università e territorio
di Andrea Zaccarelli
17 La tendenza
Amorevole invasione
di Mario Canti
19 La letteratura
Luigi Di Ruscio, un grande poeta marchigiano
di Alberto Pellegrino
Periodico quadrimestrale de
Le Cento Città,
Associa­zione per le Marche
Sede, Piazza del Senato 9,
60121 Ancona. Tel. 071/2070443,
fax 071/205955
[email protected]
www.lecentocitta.it
*
Hanno collaborato a questo numero:
Alberto Berardi, Leonardo Bruni,
Mario Canti, Claudia Cardinali,
Giovanni Danieli, Roberto D’Errico,
Pier Luigi Falaschi, Romano
Folicaldi, Natale G. Frega, Mario
Luni, Gianfranco Mariotti, Corrado
Paolucci Alberto Pellegrino, Andrea
Zaccarelli
In copertina
Spettacolo medievale a Castel
Trosino. Fotografia di Roberto
D’Errico
25 L’arte
Girolamo di Giovanni
di Pier Luigi Falaschi
28 La tradizione
La musica arabita ha 90 anni
di Alberto Berardi
30 Enogastronomia
I formaggi delle Marche
di Leonardo Bruni
33 Libri ed Eventi
di Alberto Pellegrino
41 Vita dell’Associazione
di Giovanni Danieli
Le Cento Città, n. 49
TVS è fermamente convinta dell’importanza
di saper riconoscere la bellezza in tutte
le sue forme. Per questo, da sempre è impegnata
nella produzione di articoli per la cottura
che si distinguono per design e funzionalità.
Ma l’amore per il bello di TVS si esprime
anche nella collezione di opere d’arte,
che conta opere di pregio realizzate
dai più importanti autori del periodo
dal XIV secolo al XIX secolo.
L’opera qui presentata ne è solo un esempio.
Floriano Bodini, Cavallo e Nudo di donna
(Gemonio di Varese 1933 - Milano 2005)
www.tvs-spa.it | TVS Spa_Via Galileo Galilei, 2_ Fermignano (PU) Italy
AD
Amore per il bello,
passione per l’utile.
L’Editoriale
3
Un ruolo attivo per il territorio
di Natale Giuseppe Frega
Quando il Direttore
editoriale Mario Canti
mi ha contattato per
chiedermi di scrivere
una cartella da pubblicare in questo numero
della rivista che coincide con la fine del mio
mandato di Presidente, ho capito, anche se
il buon Mario non mi
ha suggerito nulla, che
avrei dovuto incentrare l’articolo sul saluto
di commiato. Ci ho
pensato un attimo, poi
ho deciso che era quello che non desideravo
fare. Non avevo voglia
di parlare di me o dei
diversi appuntamenti
che hanno caratterizzato l’anno appena
trascorso; chi ha partecipato li conosce ed in
ogni caso è ormai acqua
passata.
Mi piacerebbe invece
fare una riflessione sul
futuro dell’Associazione, per gli anni che verranno,
su quali potranno essere le
strategie programmatiche a venire rivolte al consolidamento
e alla crescita dell’Associazione, per rafforzare i rapporti
con le Istituzioni e soprattutto
con il territorio marchigiano.
A mio parere molta attenzione deve essere rivolta al territorio perchè svolga un ruolo
attivo e non passivo. È importante promuovere conferenze,
convegni, tavole rotonde aperte a più esperti, considerato
che l’energia culturale propria
dell’Associazione è articolata
e sfaccettata nei suoi diversi aspetti, anche formativi, in
modo che non risulti mai monocromatica ma che al contrario sia policromatica con fasci
duto, ma molto deve
essere ancora fatto.
Un altro punto significativo per la crescita
dell’Associazione è favorire l’ingresso di giovani professionisti che,
con la potente forza
trascinatrice posseduta
proprio negli anni della giovinezza, possono
apportare nuova linfa
all’Associazione.
Naturalmente il loro
ingresso deve essere
gestito in modo molto
garbato e la selezione
condotta con rigore
culturale.
di luce intensi e decisi come
quelli emessi da un prisma poliedrico. L’attività dell’Associazione dovrebbe essere sempre
meno esclusiva dei Soci per
diventare punto di riferimento per tutte le competenze regionali e dovrebbe essere vista
come un crogiolo di cervelli
che, se stimolati, sono pronti
a scendere in campo per dare
il proprio contributo al territorio.
Naturalmente per arrivare a
ciò tutti i Soci devono essere
convinti, coesi e disponibili.
Sono certo che il coinvolgimento del mondo istituzionale
all’attività dell’Associazione
può essere una leva importante; molto è stato già compiuto
in passato da chi mi ha prece-
Le Cento Città, n. 49
Sono arciconvinto
che Maurizio Cinelli, persona di elevata
professionalità, con la
sua presidenza porterà
l’Associazione a raggiungere questi ed altri obiettivi.
Ringrazio ora il Consiglio Direttivo ed in modo particolare
il Segretario Generale Giovanni Danieli che, insieme a Maria, con professionalità, entusiasmo ed amicizia mi hanno
molto facilitato il compito.
Un altro sentito ringraziamento è rivolto a Sua Eminenza il Cardinale Elio Sgreggia, ai
Sindaci ed a molti altri ancora
che, non appena sollecitati, mi
hanno teso le loro mani. Grazie davvero.
Ad maiora
Primo piano
4
Bellezza contro forza
Ecco perchè è necessario un Ministero della cultura
di Gianfranco Mariotti
Virtù contra furore / prenderà
l’arme, e fia ’l combatter corto
ché l’antico valore / ne li italici cor non è ancor morto.
Sono i versi di Petrarca che
Niccolò Machiavelli pone a epitome e suggello al termine del
suo Principe. Riferiti all’Italia,
e lo sono, questi versi sono
ancora attuali. Declinati in termini moderni, infatti, possono
corrispondere a bellezza contro
forza (forza economica, politica, militare) ed esprimere così il
motivo conduttore che presiede
a tutta la nostra storia e anche
alla vocazione e al destino del
nostro Paese.
Da quanti anni tutti noi,
parlando di cultura, ripetiamo
invano le stesse cose? Che l’Italia detiene la maggior parte
dei beni culturali del pianeta,
e che questo è il suo petrolio
inutilizzato; che, al contrario,
cultura, istruzione, ricerca, formazione e tutela dell’ambiente
sono regolarmente marginalizzate; che la cultura non è una
spesa, ma un investimento; che
la cultura “si mangia” e può
produrre ricchezza; che l’istruzione, musicale, scientifica e
umanistica, è il fondamento,
l’architrave di una nazione civile, lo strumento indispensabile
per qualunque programma di
crescita e sviluppo.
Quante volte siamo tornati,
inutilmente, sugli stessi concetti? Allora, dobbiamo avere la
chiara consapevolezza che questi discorsi non hanno, e non
avranno, alcun riscontro politico. Il problema reale è dunque
l’irrilevanza di ogni proposta
che riguardi la cultura, al di là
della sua validità. È spontaneo
attribuire tutto ciò alla sordità della classe politica (come
dimostrerebbero i programmi
delle ultime campagne elettorali), ma c’è di più e di peggio, ed è il diffuso disinteresse
dell’opinione pubblica. L’Italia
ha perso il senso della sua identità, della sua storia, del suo
legame col passato, forse anche
per l’uso distorto e invasivo
dei mezzi di comunicazione, in
primo luogo delle TV commerciali. Manca all’immaginario
collettivo del Paese la coscienza della irripetibilità italiana, il
fatto che l’Italia è il più grande
produttore di bellezza del pianeta, e riveste questo ruolo,
senza interruzione, da quasi
tremila anni, ed è chiaro che
qui si parla di bellezza non solo
ambientale e paesaggistica, ma
anche monumentale, pittorica,
letteraria, poetica, musicale.
Sappiamo bene che vi sono
state nei millenni altre civiltà
che hanno contribuito al progresso spirituale dell’umanità:
in Egitto, in Mesopotamia, in
Cina e soprattutto in Grecia,
vera culla della cultura europea. È in Grecia che poesia, letteratura, filosofia, matematica,
arti visive, architettura hanno
incarnato lo spirito dell’Occidente. Eppure nessuna di queste civiltà ha retto alla prova
del tempo: tutte, prima o poi,
hanno perduto l’energia creatrice e la forza propulsiva e
adesso, direbbe Leopardi, più
di lor non si ragiona. Pensiamo
a città come Atene, il Cairo,
Corinto, Alessandria, Bagdad,
Damasco: furono splendide e
illustri, ma oggi, a parte le residue testimonianze monumentali, sono diventate città come le
altre. Roma no, l’Italia no: per
quasi trenta secoli essa è sempre saldamente restata il luogo
privilegiato della bellezza nel
pianeta, malgrado le guerre, le
invasioni, la debolezza politica,
le dittature.
Una parentesi sulle dittature. Di regola esse, imponendo
una cultura di stato, impediscono la libera espressione artiLe Cento Città, n. 49
stica come autonoma lettura
del mondo. In tempi moderni
ne abbiamo avuto due esempi
drammatici nella Germania di
Hitler e nell’Unione sovietica
di Stalin. Nella prima il ministro Goebbels diceva di mettere mano alla pistola appena
sentiva parlare di cultura, nella
seconda il “realismo socialista”
soffocava in partenza ogni voce
fuori dal coro. In entrambi i
casi si verificò una imponente
diaspora di scrittori, scienziati,
artisti e musicisti, in fuga verso
i paesi democratici. Nello stesso periodo, anche l’Italia ha
avuto la sua dittatura, con la
fuga all’estero di grandi personalità (come Arturo Toscanini,
Rita Levi Montalcini, Enrico
Fermi…). Una dittatura non
meno oppressiva delle altre,
con abolizione della libertà di
stampa e della libertà di opinione, carcere e confino per
gli oppositori, militarizzazione dei giovani, qualche assassinio di stato, leggi razziali,
spirito guerrafondaio e infine
il famigerato Minculpop che
condizionava tutte le attività
culturali attraverso le veline.
Eppure, incredibilmente, anche
in queste condizioni il Paese,
imperturbabile, ha continuato
a produrre bellezza. Proprio in
questi giorni nella vicina Forlì
è stata aperta una mostra dedicata all’Arte italiana dal 1920 al
1940. Essa mostra plasticamente non solo il livello qualitativo,
ma anche la dimensione quantitativa del fenomeno. Persino
i manifesti dedicati alla goffa
retorica di regime attorno al
mito della romanità e dell’impero sono bellissimi. E allora?
L’irripetibilità italiana è il
frutto della sua storia complessa e inquieta: l’avvicendarsi di
papi, monarchi, principi, condottieri, tribuni, tiranni, demagoghi ha fatto dell’Italia il crogiuolo culturale dell’Occidente.
Primo piano
5
Palazzo Buonaccorsi a Macerata in un suggestivo allestimento tricolore (foto dal sito www.maceratamusei.it).
Si obietterà che l’Italia è l’ultimo dei grandi paesi europei
ad aver raggiunto la dignità di
nazione politicamente unita e
indipendente: appena un secolo e mezzo fa. È vero, ma il concetto storico di Italia è in realtà
antichissimo e ben delineato.
Esiste da sempre una precisa
koinè italica che accomuna tutti
i popoli della Penisola ed è
basata su tre pilastri: la lingua, la
religione e la storia. È noto che
Metternich, nel 1849, fece infuriare i patrioti del Risorgimento
sostenendo che l’Italia era solo
“un’espressione geografica”. In
realtà l’affermazione non era in
sé priva di fondamento: piuttosto il politico austriaco avrebbe
dovuto aggiungere a “geografica” anche “storica e culturale”.
Del resto, non c’è solo il ricordato Machiavelli a rivolgersi
agli “italici cor”. C’è l’esempio
di Dante con la sua invettiva:
Ahi serva Italia, di dolore ostello…, cui fa eco Petrarca con:
Italia mia, benché il parlar sia
indarno…, e la geniale sintesi linguistica dantesca: …del
bel paese là dove il sì suona…,
e quella geografica, ancora di
Petrarca: …il bel paese / ch’Appennin parte, il mar circonda
e l’Alpe. Di cosa parlano questi spiriti illuminati? Di una
terra sconosciuta? Di un regno
immaginario? O parlano del
nostro Paese, l’Italia? E a chi
rivolge Leopardi, qualche seco-
lo dopo, la sua appassionata
invocazione: O patria mia, vedo
le mura e gli archi… quando
l’unità d’Italia è ancora di là da
venire?
La particolarità della bellezza italiana non sta solo nei
monumenti, nelle cattedrali, nei
borghi umbri e toscani, nelle
colline marchigiane, nei castelli
piemontesi, nelle costiere amalfitane, nelle ville venete, nelle
rocche, nei campi disegnati
secondo antiche armonie dal
genius loci, tutte cose non riproducibili, ma nella storia dell’arte tutta, nel miracolo del Rinascimento, il più impressionante
accumulo di genio umano mai
raggiunto sulla terra, nell’Umanesimo, che mette l’uomo – il
suo gesto, la sua fatica, il suo
talento – al centro delle cose,
nel Melodramma, di cui l’Italia
è la culla e il centro propulsivo,
nell’architettura, dai Romani,
costruttori di ponti, acquedotti
e arene spesso ancora funzionanti, fino a Giò Ponti, Giovanni Michelucci e Renzo Piano,
nelle biblioteche, negli archivi,
nella rete dei teatri. Nessun
altro Paese ha altrettanta possibilità di riassumere nella sua
storia la trama del tempo e il
divenire della civiltà, di raccontare l’Europa e il mondo
attraverso una successione di
culture fra le maggiori e più
universali (si pensi all’essere
Le Cento Città, n. 49
il centro della Cristianità) mai
fiorite su questa terra. L’Italia è
dunque una parte decisiva della
coscienza del mondo.
Curiosamente, si può arrivare
alle stesse conclusioni anche
invertendo il punto di vista,
considerando cioè l’atteggiamento degli stranieri, oggi e
lungo la storia, nei riguardi
del nostro Paese. Pensiamo al
Grand tour, il viaggio iniziatico che i rampolli delle nobili famiglie del Nord Europa
facevano nel XVIII secolo in
Italia per completare la loro
cultura. Esso è l’epifenomeno di un’attrazione più antica,
complessa e anche contraddittoria che l’Europa ha avuto (e
ha) per l’Italia. Nella prima
metà del ’500, di fronte al consolidamento dei grandi regni
europei (Francia, Inghilterra e
Spagna) l’Italia si presentava
come una realtà frammentata
e disomogenea, caratterizzata
da uno straordinario sviluppo
artistico e una totale fragilità
politica. Nasce di qui la spinta, la voglia di appropriarsi di
questa ricchezza diversa, fatta
di città libere e ricche, ma militarmente imbelli, sedi di una
cultura evoluta e affascinante.
Questo motivo correrà lungo i
secoli e influenzerà generazioni di moderni viaggiatori, non
solo quelli del Grand tour, fino
ai giorni nostri.
Gianfranco Mariotti
Cosa affascina così tanto gli
stranieri? Quale frutto proibito
cercano, a quale carenza vogliono rimediare? Si muove lungo i
secoli uno strano sentimento di
attrazione-diffidenza per questo paese meraviglioso e pericoloso, infido giardino di delizie,
paradiso e luogo di perdizione:
anche perché abitato – secondo l’antico stereotipo – da un
popolo disordinato e allegro,
simpatico e superficiale, accogliente e inaffidabile. Ma in
realtà al fondo di tutto c’è una
speciale invidia, un’ammirazione incoercibile, un atteggiamento forse inizialmente altezzoso, ma subito contraddetto
dallo spettacolo schiacciante
della bellezza. Sono in gioco
alcuni miti: il mito della classicità (le rovine, i monumenti…),
il mito del clima (la luce, il sole,
l’amore…), il mito del Rinascimento (l’indiscusso vertice spirituale della storia del mondo).
A tutto ciò si aggiunga l’evidenza di un popolo, erede legittimo
di tanto patrimonio, che vive
da sempre immerso nella grazia
e nell’armonia. Ne deriva un
sentimento contrastante che,
seppure declinato nelle forme
più affabili, ritroviamo persino
nei più appassionati dei nostri
spettatori al Rof.
6
Allora, tutto ciò detto: la crisi
economica è anche una crisi
culturale e d’identità, una crisi
di saperi, di conoscenze e di
competenze. Non si dà crescita né sviluppo possibili senza
un consapevole investimento
sulla cultura, la formazione, la
ricerca, l’istruzione (si pensi
che la Germania ha tagliato 80
miliardi di spesa pubblica e ne
ha investiti 13 nella cultura!);
senza l’orgoglio per la nostra
identità e la nostra storia, il
legame fra passato e presente che fa inimitabile il nostro
Paese. Occorre cioè un moderno umanesimo, che combini
il patrimonio storico con una
nuova creatività, e individui la
cultura non come uno strumento, ma come un fine, un obiettivo in sé. C’è bisogno di una
svolta, di un soggetto nuovo.
Ciò che occorre è un Ministero
della cultura: siamo uno dei
pochi grandi paesi d’Europa a
non averlo. Non si tratterebbe
di accorpare le diverse funzioni oggi disperse fra vari ministeri (beni culturali, istruzione,
ambiente, turismo, ricerca…)
ma di un soggetto veramente diverso, nuovo, fortemente
identitario, che fosse uno dei
più importanti dell’esecutivo,
e che si facesse carico dei temi
Le Cento Città, n. 49
legati a un’identità di nazione
unica nel pianeta, che ha proprio nella cultura e nell’arte,
intrecciate ai beni paesaggistici
e ambientali, la sua vocazione
storica e la sua cifra caratteristica. Dunque un dicastero fondamentale (come quello della
difesa in Israele o dell’industria
in Germania) autorizzato anche
a operazioni di peso e di grande
respiro, come il Beaubourg e la
piramide del Louvre a Parigi, o
il MoMA a New York. Finora
hanno fatto ostacolo forse la
paura di un altro Minculpop o la
nascita di una cultura di stato,
cioè l’occupazione da parte di
una forza politica che voglia
dettare regole in campo artistico. Ma ormai, nel XXI secolo,
è un rischio che si può correre,
e che le maggiori nazioni europee hanno corso senza danni.
Si tratta davvero di una strada
obbligata per il nostro Paese.
Bellezza contro forza, si diceva all’inizio. Ebbene, finora,
malgrado le innumerevoli vicissitudini storiche che hanno agitato nel tempo la Penisola, e
malgrado la brevità della nostra
vicenda unitaria nazionale, la
bellezza ha sempre vinto la sua
sfida. Perché non dovrebbe
vincere ancora?
Il saggio
7
Cinte murarie delle 35 città delle Marche, nelle regiones V (Picenum)
e VI (Umbria et Ager gallicus)
di Mario Luni e Claudia Cardinali
Il processo di romanizzazione
dell’Ager GaIllicus et Picenus si
è articolato in un periodo che va
dagli inizi del III secolo a.C. fino
al I a.C. ed ha comportato per
la prima volta nella regione la
fondazione e lo sviluppo di una
serie di città con cinta muraria
in siti strategici per il controllo
del territorio medio adriatico, in
genere occupati da precedenti
insediamenti piceni, dell’età del
Ferro.
Con la definizione dello stato
augusteo (30 a.C. – 14 d.C.),
il territorio corrispondente alle
Marche attuali venne suddiviso in due regioni, con confine sull’Esino (Aesis): la regio V
Picenum (fino al Tronto), che
contava diciannove centri urbani
(coloniae e municipia con autonomia amministrativa), e la regio
VI Umbria et ager Gallicus (fino
al Conca), con sedici città.
Lo studio dei monumenti
pubblici e privati conservati in
queste trentacinque città (figg.
1-2) sta evidenziando in modo
sempre più consistente tra III e
I secolo a.C. un’opera di monumentalizzazione e completa
ristrutturazione dello spazio
urbano, in particolare in epoca
tardo repubblicana e augustea;
tale fenomeno
è da porre in
relazione con
la concessione
della cittadinanza romana
alle popolazioni
alleate (tra 89
e 49 a.C.) ed Fig. 1 - Carta del territorio medioadriatico con
alla politica di dislocazione delle colonie e dei municipi.
urbanizzazione
favorita da Augusto. Numero- (Fermo), Septempeda (S. Severise antiche città murate si dota- no Marche), Auximum (Osimo),
rono infatti in questa fase di Ancona (Ancona), Aesis (Jesi),
monumenti pubblici di pregio, Pisaurum (Pesaro), Urvinum
rappresentativi dell’aumentata Mataurense (Urbino), Pitinum
consistenza del popolamento, Mergens (Pole di Acqualagna).
di teatri, anfiteatri, terme, oltre Cortine urbiche realizzate con
a infrastrutture quali sistemi questa tecnica edilizia risultano
fognari e acquedotti, con cister- in riferimento alle città di più
ne poderose, come ad esempio a antica origine nella regione e
sono datate in genere tra III e
Fermo e Urbino.
In questa sede si intende limi- primi anni del I secolo a.C., ossia
tare la presentazione ad una solo tra il primo avvio della romaniztipologia di monumenti pubblici, zazione dell’area medioadriatica
le cinte urbiche: le mura defini- ed il bellum sociale (91-88 a.C.)
scono infatti lo spa- tra Roma e gli alleati italici.
Sul margine del pianoro natuzio urbano, segnano
rale
su cui sorge Urvinum Matauil limite tra interno
ed esterno, tra urbs rense, ad esempio, è stata costrued ager e al di là della ita la cinta muraria della città, tra
reale valenza difen- III e II secolo a.C.; essa è stata
siva, assolvono una realizzata esattamente lungo la
importante funzione linea costituita dal “ciglio tattisimbolica e rappre- co”, da cui ha inizio l’erta scarpata che caratterizza tre quarti
sentativa.
del perimetro del “Poggio”, alto
Volendo prendere circa 450 metri. Alcuni brevi tratin esame in sintesi ti della cortina difensiva sono
le cinte murarie di ancora conservati in parte in
città medioadriati- elevato, generalmente inglobati
che, si può osservare in strutture edilizie costruite in
che esiste documen- sovrapposizione in epoca medietazione di una certa vale. Un ulteriore segmento di
consistenza specie in muratura in opera quadrata è
relazione a quelle in stato rinvenuto nel 1990 lungo
opus quadratum, atte- il percorso ipotizzato in precedenza e conferma l’attendibilità
Fig. 2 - Carta dell’area medioadriatica con state in nove antichi
della ricostruzione grafica della
dislocazione delle colonie, dei municipi e degli assi centri (figg. 3-7): ad
Asculum, Firmum pianta proposta dell’oppidum di
viari.
Le Cento Città, n. 49
Mario Luni
8
di Monterinaldo e con ben levigata, pur presentando
le stesse fondazioni una discreta tecnica di messa in
del Tempio corinzio- opera a secco. Non vi sono tracce
italico costruito tra II di lavorazione per il sollevamene I secolo a.C. sull’a- to e il trasporto dei blocchi, né
cropoli di Ancona.
marche di cava. La tecnica di
Nella
regione costruzione dell’opera quadrata
medioadriatica
lo va datata alla metà del II secolo
stesso tipo di opera a.C. circa, anche sulla base del
quadrata caratteriz- pertinente riscontro con le mura
za tratti superstiti di romane della città di Auximum
cinte murarie dello (Osimo). Queste rappresentastesso periodo, quali no l’esempio meglio conservato
quelle emblematiche nella regione di questo tipo di
di Pisaurum e di Auxi- struttura, databile subito dopo
mum. In queste due il 174 a.C.; un passo di Livio,
città, rispettivamente infatti, attribuisce all’iniziativa di
colonie dal 184 e del costruire la cinta muraria della
174 a.C., la datazio- città ai censori in carica nel 174
ne va necessariamente a.C., Fulvio Flacco, sopra mencircoscritta alla fase di zionato, e Postumio Albinio.
vita immediatamente Alcuni tratti risultano ancora in
parte conservati ed in particolaFig. 3 - Tratto di mura di età repubblicana, in opus successiva alla loro
deduzione, quando i re quello sul lato Nord-Est ragquadratum, rinvenuto ad Ancona.
Romani provvidero a giunge l’altezza massima di 9-10
fortificare gli abitati metri; in quest’area alcuni saggi
età repubblicana.
Anche a Pitinum Mergens è stabilmente subito dopo la loro di scavo hanno confermato la
data di costruzione delle mura
venuto in luce circa trent’anni fa fondazione.
Considerando
l’importanza
nella prima metà del II secolo
presso il fiume un tratto di mura
urbiche nel corso di lavori occa- che la difesa del nuovo nucleo a.C. Esse sono state realizzate
sionali. La struttura, in seguito urbano poteva assumere nel con- con blocchi parallelepipedi di
reinterrata, era caratterizzata da testo politico-militare della regio- calcare giallo, messi in opera a
blocchi parallelepipedi di calcare ne medioadriatica nel periodo secco in filari regolari di 40-45
bianco, messi in opera a secco, dopo la guerra annibalica, la centimetri di altezza (fig. 5).
La cinta urbica di Septempesimile ad altre attestate in antiche costruzione delle fortificazioni
città dell’Umbria e datate tra la della città di Pisaurum avrà sicu- da è stata esplorata all’inizio del
fine del III secolo e l’inizio del ramente assorbito le prime ener- Novecento e attualmente risultagie della comunità. Va ricordato no visibili dei tratti di muratura
I a.C.
Alcuni resti di blocchi squa- che già nel 174 a.C., secondo con alcuni filari di blocchi in aredrati, riferibili alla originaria cor- l’attestazione di Livio (41, 27, naria (fig. 6). La sovrapposizione
tina in opera quadrata, sono stati 11-13), il censore Fulvio Flac- di parte di queste strutture ad un
di recente individuati ad Aesis, co appaltò a Pisaurum grandi sepolcreto del II-II secolo a.C.
colonia dedotta probabilmente lavori edilizi e fra questi va pro- costituisce l’unico riferimento
babilmente annoverata anche la cronologico; in assenza di ultenel 247 a.C.
Questa tecnica costruttiva in costruzione delle mura; l’intento riori elementi specifici di dataopus quadratum trova attestazio- doveva essere di dare alla colonia zione, queste strutture vanno
ni in Ancona in analoghi tratti di la prima sistemazione di caratte- riferite, come le precedenti, ad
strutture murarie di epoca tardo- re urbano.
Le mura sono
repubblicana rinvenuti in perioin
di diversi; alcuni filari risultano realizzate
attualmente visibili ad esempio blocchi paralin Via della Cisterna, nell’or- lelepipedi di
to dell’ex Istituto Giovagnoni arenaria giallaBirarelli, nella Chiesa di Santa stra abbastanza
Maria della Piazza, in Vicolo tenace, disposti
Foschi, nello scavo recente di in filari che si
Lungomare Vanvitelli (fig. 3). Le sovrappongono
analogie sia di tecnica edilizia, con regolarità
sia di materiale utilizzato (grossi di allineamenblocchi di calcare giallo) risulta- to, ma di diverno ad esempio particolarmente sa altezza (fig.
significative con il muro del por- 4). A Pisaurum
tico a due navate dorico-ionico la facciata dei Fig. 4 - Pesaro, mura in opus quadratum con al di sopra
del II secolo a.C. nel Santuario blocchi non è resti della struttura di rifacimento in laterizio.
Le Cento Città, n. 49
Il saggio
9
Fig. 5 - Tratto della cinta muraria di età repubblicana,
in opus quadratum, a Osimo.
Fig. 6 - Particolare di una delle torri circolari della cinta
muraria in opus quadratum di Septempeda.
Cinte urbiche in Opus Reticulatum
un periodo anteriore alla guerra sociale. La conformazione ad
esedra della porta urbica di sudovest, visibile presso la chiesa di
Santa Maria della Pieve e assai
simile alla porta settentrionale
di Urbs Salvia – in laterizio -,
ha fatto ipotizzare la datazione
di ambedue queste opere alla
seconda metà del I secolo a.C.
La prima cinta urbica di Firmum si è conservata in diversi
tratti e si mostra costituita da
grossi blocchi di calcare (fig. 7);
essa è stata messa in riferimento alla deduzione coloniale del
264 a.C. e va pertanto riferita
ad un periodo di poco poste-
riore. Questa muratura è stata
considerata simile all’opera poligonale di quarto tipo, secondo
la classificazione Lugli, e quindi
datata ancora nel III secolo a.C.
Presenta anche analogie con le
mura in opera poligonale quasi
quadrata della fase originaria di
Ariminum, colonia del 268 a.C.
Infine ad Asculum è attestata la
presenza di qualche parte della
originaria cinta muraria, costruita con grossi blocchi di pietra di
varie dimensioni, messi in opera
in filari, talvolta in modo non
molto regolare. Essa difendeva
il solo lato occidentale del rilievo
su cui si estendeva la città, naturalmente difeso sugli altri tre lati
dal fiume Tronto e dal torrente
Catellano; la cortina ha subìto
un rifacimento in opera quasi
reticolata probabilmente dopo la
parziale distruzione avvenuta agli
inizi del I secolo a.C., a seguito
del bellum sociale.
Fig. 7 - Particolare di un tratto di cinta
muraria in opus quadratum, riutilizzato
in costruzioni moderne a Fermo.
Fig. 8 - Tratto di cinta muraria in opus reticulatum ad Ascoli Piceno, presso
Porta Gemina.
Le Cento Città, n. 49
L’esempio di opus quasi reticolatum sopra segnalato ad Asculum (fig. 8) si presenta in modo
emblematico come rifacimento
di tratti di muratura dopo le
vicende della guerra sociale e fornisce pertanto un termine cronologico post quem di costruzione
assai attendibile.
Significativa in merito si presenta un’attestazione relativa a
Fanum Fortunae, dove nel dopoguerra è stato lasciato a vista sul
lato Est della cinta urbica pontificia un breve tratto di muratura
in opus quasi reticulatum, facente
parte in origine di una più ampia
cortina rimasta occultata sotto
un moderno rifacimento (fig. 9).
Si tratta di un paramento costituito da tesserae, in genere a sezione quadrangolare, ma talvolta
con i lati e gli angoli irregolari.
Le dimensioni dei cubilia variano
Mario Luni
10
Fig. 9 -Tratto di cinta muraria in opus quasi reticulatum sul versante a mare a
Fano.
da un minimo di 4 x 6 centimetri
ad un massimo di 6 x 6; pertanto,
a causa delle differenti misure
delle tesserae, le file raramente
si raccordano tutte in modo uniforme. La malta di calce e sabbia
si presenta biancastra, mentre
i cubilia sono di arenaria gialla
locale, abbastanza compatta. La
parte interna tra i paramenti è in
opus caementicium, ossia in conglomerato costituito da scaglie di
pietra, sabbia e calce.
Questo tratto di antiche mura
si trova disposto ancora ben
saldo nella posizione originaria e quindi la sua ubicazione
assume particolare significato;
esso risulta inoltre conservato
immediatamente a ridosso della
“greppata geologica”, parallela e
a non grande distanza dalla linea
di costa. La tecnica di costruzione utilizzata trova confronto
in quella presente in altre cinte
urbiche di città dell’Italia centra-
le, ad esempio nella fase edilizia
sopra segnalata ad Asculum, a
Trea, a Mevania e in altri monumenti dell’Umbria e del Lazio.
In genere si tende a mettere in
riferimento la fase iniziale d’uso
di questa tecnica edilizia, in Italia
centrale, con la costruzione di
opere difensive nel periodo che
segue la guerra sociale e le lotte
civili tra Mario e Silla, quando
varie città italiche si trovarono
nella condizione di dover realizzare o ricostruire le proprie cinte
murarie. Di recente è stato anche
sostenuto che l’opus quasi reticulatum sia apparso in Umbria e
nel Piceno non prima della metà
del I secolo a.C. Di certo si può
affermare per Fanum Fortunae
che Cesare occupò con una coorte questo centro, munito probabilmente con una cinta urbica in
opera quasi reticolata.
Mura in Opus Vittarum
La tecnica dell’opera
listata consiste nella realizzazione di
muratura con
doppio paramento pseudoisodomico
costituito da
bassi
filari
di blocchetti
squadrati di
Fig. 11 - Veduta di un lungo tratto delle mura augustee di pietra e con
Fanum Fortunae: in primo piano una parte di torre.
riempimento
Le Cento Città, n. 49
Fig. 10 - Particolare della cinta
muraria in opus vittatum di
Cingulum.
formato da calce, sabbia e scaglie
di lavorazione. Essa trova applicazione nella regione medioadriatica nelle mura delle città di
Sentinum, di Cupra Maritima, di
Cingulum (fig. 10); l’esempio di
maggiore consistenza monumentale è conservato a Fano (figg.
11-12).
La cinta muraria di Fanum
Fortunae costituisce uno dei
pochissimi esempi di cortina
difensiva di cui si conosce la
data esatta di conclusione dei
lavori. Questa utile indicazione è
fornita dalla iscrizione sulla trabeazione della porta principale
della città e ricorda la costruzione del perimetro difensivo
che Augusto in prima persona
ha determinato (CIL XI 6219):
IMP(ERATOR) CAESAR DIVI
F(ILIUS) AUGUSTUS PONTIFEX MAXIMUS CO(N)S(UL)
XII TRIBUNICIA POTESTATE XXXII IMP(ERATOR)
XXVI [sic!] PATER PATRIAE
MURUM DEDIT. L’epigrafe
purtroppo presenta un errore nel
numero delle salutazioni imperiali (XXVI, invece di XIX), che
ha fatto molto discutere fin dalla
riscoperta umanistica del monumento iscritto; viene in genere datata al periodo 1 luglio 9
d.C.-1 luglio 10 d.C. Costituisce
un importante termine cronologico di riferimento per lo studio
della tecnica di costruzione in
età augustea, della tipologia della
cinta urbica e della porta monumentale.
Il saggio
Significativo è anche il caso di
Nimes, dove alla fine del Settecento è stata ritrovata un’iscrizione che ha permesso di datare
le mura della colonia augustea al
16 a.C. (CIL XII 3151). Si tratta
di una epigrafe incisa sopra una
porta della città, con fori per
lettere di bronzo, in cui si fa
esplicito riferimento ad Augusto,
che ha fatto costruire (dat) le
porte (portas) e la cinta urbica
(muros). Le analogie esistenti tra
le due cortine difensive menzionate sono notevoli, compresa la
tecnica edilizia in opus vittatum,
costituita però a Nimes di blocchetti squadrati di dimensioni di
poco superiori a quelle dei conci
di Fano. Anche le mura di Autun
sono costituite da blocchetti rettangolari sulla faccia esterna, a
pianta pressoché triangolare e di
discrete misure. La stessa muratura pseudoisodomica è presente
nelle Gallie in cinte urbiche di
età augustea, quali ad esempio
quelle di Orange, di Arles e di
Vienne.
L’opus vittatum mostra caratteristiche di praticità costruttiva,
di robustezza e assieme di decoro, è stato utilizzato diffusamente
in età augustea per nuove colonie
o per il rinnovamento di città;
questa tecnica edilizia non è attestata comunque in Italia centrale
prima della metà del I secolo a.C.
Nell’Umbria essa caratterizza
le mura di Mevania, di Hispellum, una fase di restauro di quelle di Spoletium, di Sentinum,
oltre che le strutture del Teatro di Iguvium e delle Terme di
Forum Sempronii; nel Picenum
la stessa opera vittata è utilizzata
per la cortina difensiva di Trea e
11
Fig. 12 - Particolare di una torre aggettante verso l’esterno e del paramento in
opus vittatum della cortina muraria augustea di Fano.
di Cingulum.
E’ stato osservato che le cinte
urbiche romane di Nimes e di
Fano, al pari di quella augustea di Spello, possono essere
considerate delle realizzazioni di
prestigio, con “significato simbolico”, sia per accuratezza di lavorazione, sia per eleganza della
struttura architettonica d’insieme Senza dubbio l’osservazione
è ben fondata e mette in evidenza
l’attenzione rivolta da Augusto al
rinnovamento edilizio di centri
in cui è stata impiantata una
nuova colonia.
A Fano ci si trova di fronte
ad una progettazione unitaria
delle mura sui tre lati verso terra
e ad un intervento costruttivo
anch’esso omogeneo, portato a
compimento nel 9-10 d.C. Sebbene il problema della fondazione coloniale augustea sia oggetto
di dibattito, essa è in genere
riferita per vari motivi agli anni
tra il 31 e il 27 a.C.
Fig. 13 - Lunghi tratti di cinta urbica muraria in opus testaceum di Urbs Salvia.
Le Cento Città, n. 49
Va messo in rilievo che la
costruzione di circa due chilometri di cortina urbica, con 28
torri, deve avere richiesto necessariamente una lunga fase di cantiere, specie se si tiene presente
che indicativamente sono stati
realizzati oltre 50.000 metri cubi
di muratura (senza considerare
le poderose strutture di fondazione), nella quale hanno trovato
utilizzazione non meno di tre
milioni e mezzo di conci di arenaria, ben squadrati nella faccia
a vista. Anche se l’antica cinta
fosse stata limitata ai soli tre lati
verso l’interno, si sarebbe trattato in ogni caso di un intervento
di imponente impegno, tale forse
da giustificare più di tre decenni
di attività edilizia.
Cinte urbiche in Opus
Testaceum
Sono attestati esempi di mura
in mattoni in varie città della
regione, quali Urbs Salvia, Aesis,
Firmum, Urvinum Mataurense,
Pisaurum, Fanum Fortunae e da
ultimo Ancona.
Nei primi due casi si tratta
di interventi costruttivi unitari
di ampio impegno edilizio, con
muratura caratterizzata da doppio paramento in laterizio e da
un riempimento in opus caementicium (calce, sabbia e scaglie
di pietra; nel caso di Aesis in
prevalenza di ghiaia e ciottoli di
fiume).
La cinta di Urbs Salvia è assai
significativa, in quanto si pre-
Mario Luni
Fig. 14 - Particolare di un tratto della
cinta urbica in opera laterizia di Urbs
Salvia.
senta conservata per parecchie
centinaia di metri su tre dei suoi
quattro lati e con una certa continuità, eccetto che sulla cresta
del pendio, ad ovest. Sono visibili fuori terra resti monumentali
della Porta Gemina, di quella ad
esedra e di molte torri a pianta
poligonale, spesso in elevato per
vari metri, talvolta anche oltre
cinque. La struttura è larga circa
due metri, con duplice paramento di mattoni disposti in orizzontale e cementati saldamente con
calce e sabbia (figg. 13-14). Il
complesso delle mura si presenta
uniforme in quanto a materiale utilizzato e a tecnica edilizia,
dovuto ad un poderoso interven-
12
to costruttivo unitario, sulla base
di una progettazione di ampia
portata; si propone una datazione nell’ambito della seconda
metà del I secolo a.C.
La cinta urbica in opus testaceum di Aesis è presente sul solo
lato sudorientale della città e va
messa in riferimento con le opere
di difesa del nuovo quartiere cresciuto alla fine dell’età repubblicana sul pendio all’esterno dell’area della colonia, sorta nel 247
a.C. sulla sommità di un leggero
rilievo sulla sinistra del fiume
Esino. Lungo un tratto di alcune
centinaia di metri di mura medievali in laterizio si è potuto osservare nella parte bassa la presenza
di filari di laterizi di tipologia e
di dimensioni diverse, ben allineati e cementati con calce bianca;
l’approfondimento della ricerca
ha permesso di riscontrare che
si tratta di mattoni “manubriati”, disposti con buona tecnica
a formare il duplice paramento
e con riempimento in opus caementicium (figg. 15-16). Questa
struttura, probabilmente coeva
a quella di Urbs Salvia, è stata
riutilizzata dalla cinta difensiva
di età medievale, che ha inglobato quella di probabile età augustea, occultandola per la maggior
parte. Il riconoscimento di questo lungo tratto di mura è stato
possibile in occasione del recente
restauro, unitamente alla individuazione di una torre circolare
della probabile porta orientale
Fig. 15 - Tratto delle mura augustee in opus testaceum, riutilizzate nella
cortina di età medievale di Jesi, a lato di Porta Valle.
Le Cento Città, n. 49
della città e alla scoperta di alcuni resti di blocchi squadrati della
cinta della seconda metà del III
secolo a.C., sul ciglio occidentale
del colle. Brevi tratti di mura in
opera quadrata sono segnalati ad
Urbino e da ultimo in Ancona
(fig. 17).
Diversa si presenta la situazione di alcune altre cortine urbiche
di città di origine romana nelle
Marche, quali Fanum Fortunae,
Urvinum Mataurense, Firmum e
Pisaurum. In quest’ultimo centro
si è osservato che al di sopra
della cinta primitiva di blocchi
di pietra, i cui resti sono appena affioranti dal suolo e in cattivo stato di conservazione, è
presente una poderosa struttura
muraria in laterizio; essa è documentata per numerosi tratti, uno
dei quali raggiunge alcuni metri
di altezza. La datazione proposta
in passato per questa seconda
fase costruttiva è l’età augustea;
più probabilmente risale all’età imperiale avanzata, quando il
pericolo imminente di invasioni barbariche (III secolo d.C.)
determinò la ricostruzione delle
mura, che dovette procedere in
modo affrettato, come è possibile notare dall’esame dell’antica
struttura in laterizio, che coinvolge l’intero spessore. Occorre a tal
proposito ricordare l’invasione
dell’Italia da parte degli Iutungi
e la vittoria decisiva riportata
contro i barbari dall’imperatore
Aureliano sul Metauro presso
Fig. 16 - Particolare di un tratto della cinta
muraria in opus testaceum, a Jesi.
Il saggio
Fanum, lungo la via per Roma,
che fu per l’occasione munita
di nuove mura. Nel corso dei
primi scontri in Italia settentrionale o subito dopo la disfatta
dei Germani (270-271) furono
con tutta probabilità costruite a
Pisaurum le fortificazioni in opus
testaceum, in analogia a quanto
si è verificato nella stessa circostanza ad Ariminum, in parte a
Fanum Fortunae e forse anche a
Sena Gallica e a Firmum.
Va aggiunto inoltre che nella
zona di Porta Fano nei secoli
scorsi furono recuperate due basi
iscritte di marmo, che in origine
sorreggevano statue, a ricordo
della vittoriosa campagna militare dell’imperatore Aureliano
(CIL XI 6308, 6309). Nella stessa circostanza nel luogo vennero
rinvenuti anche numerosi frammenti architettonici che hanno
fatto supporre da parte di eruditi
locali l’esistenza di un arco onorario, in memoria della vittoria
di Aureliano. Il fatto più rilevante, comunque, è costituito dalla
menzione sulle due basi di un
personaggio, C. Iulius Priscianus,
che aveva la carica di praepositus
muris. Si tratta di un funzionario che immediatamente dopo
la battaglia nei pressi di Fano,
ossia nel momento in cui molte
città, fra cui Roma, stavano provvedendo alla costruzione o al
restauro delle fortificazioni, era
responsabile delle mura urbiche
di Pesaro e di Fano. Va detto
13
Fig. 17 - Tratto di mura in laterizio del periodo augusteo ad Ancona, rinvenute
nello scavo di Lungomare Vanvitelli.
infine che nel taglio di fondazione della cinta in laterizio di
Pisaurum sono stati trovati nel
corso degli scavi del 1977 alcuni
frammenti ceramici databili dalla
metà del II al III secolo d.C.
Mura in età bizantina
In età tardoromana e bizantina
ad Urvinum Mataurense le prevalenti necessità difensive rendono
ancora determinante l’utilizzazione della forte cinta muraria
dell’oppidum. Significativa in
merito si presenta la descrizione
di questo centro fortificato fatta
Fig. 18 - Tratto della cinta muraria urbica di età tarda in opera “tumultuaria”
ad Urbino in Palazzo Battiferri, restaurato nel corso dei lavori nella facoltà di
Economia; si notano blocchi e rocchi di colonne riutilizzati da costruzioni di
epoche precedenti.
Le Cento Città, n. 49
da Procopio (Bell. Goth., II, 19)
nel 538 d.C. Lo storico bizantino si sofferma infatti a descrivere accuratamente le operazioni
effettuate contro i duemila Goti
che difendevano l’importante
centro strategico. Vani si erano
rivelati gli assalti contro la porta
settentrionale, l’unica in piano:
su tutti gli altri lati la morfologia
del colle è descritta come assai
dirupata e impraticabile per operazioni militari. Per quanto la
conformazione della collina su
cui sorge Urbino abbia subìto
modificazioni, a causa dell’ininterrotta frequentazione umana
nel corso di più di due millenni, la descrizione di Procopio
corrisponde ancora esattamente
all’attuale natura del luogo e ne
coglie le caratteristiche fisiche
salienti.
Ad un primo assalto dell’esercito bizantino le mura hanno
costituito un valido baluardo,
tanto che una parte dell’esercito
assediante ha desistito dall’impresa e la successiva capitolazione dei Goti è dovuta non ad
una loro sconfitta ma al venir
meno dell’acqua di una fonte
sulla sommità del colle.
Nel corso di due scavi, rispettivamente in corrispondenza delle
fondazioni dell’Arcivescovado e
di Palazzo Brandani, sono stati
rinvenuti tratti di mura riferibili
agli avvenimenti bellici del VI
Mario Luni
secolo d.C. sopra descritti. In
ambedue i casi sono affiorate
strutture difensive realizzate sul
limite occidentale del pianoro
sulla sommità del “Poggio” (fig.
18).
Nell’Arcivescovado si è potuto
riscontrare la sopravvivenza di
un tratto di cinta muraria lungo
alcuni metri e di rilevante spessore, in cui sono state individuate
in sovrapposizione tre strutture
realizzate con differenti tecniche
costruttive, riferibili ad altrettante fasi edilizie: in opera quadrata
quella più in profondità (III-II
secolo a.C.), in laterizio la successiva (probabilmente di età augustea) ed in opera “tumultuaria”
la terza (VI secolo). Quest’ultima
è caratterizzata dalla presenza
generalizzata di materiali di spoglio, messi in opera alla meglio e
scarsamente cementati tra loro;
sono stati qui rinvenuti numerosi blocchi di calcare differenti
per formato, per tipologia e per
lavorazione, unitamente a frammenti di colonne ed anche ad
una grossa cornice di marmo.
Questo tratto di cortina urbica è
stato successivamente inglobato
in epoca medievale nelle fondazioni del monumentale edificio
che si è sovrapposto ad esso,
sfruttandone la solidità.
Nel cortile di Palazzo Brandani
uno scavo effettuato nel 1996 in
collaborazione con la Soprintendenza Archeologica delle Marche ha messo in luce un tratto
di mura in opera “tumultuaria”
nella parte sudoccidentale della
cinta difensiva. La struttura è
conservata per circa 15 metri
di lunghezza e per un’altezza
che varia tra uno e due metri
circa. Nella parte più orientale
lo spessore della muratura è più
consistente (m 1,80) ed anche
14
irrobustita da grossi blocchi e da
rocchi di semicolonne scanalate
di pietra, di 80 cm di diametro;
si può qui riconoscere l’impianto
superstite di un piccolo bastione
a pianta rettangolare, conservato
su due lati.
Verso ovest il resto del muro
di difesa corre sul bordo di un
pendio e non raggiunge la larghezza di un metro. Esso è costituito da materiale eterogeneo,
messo in opera senza alcuna
regolarità, quasi accatastato alla
meglio. Sono qui presenti grossi
blocchi di travertino recuperati
dalla cortina di età repubblicana,
individuata un poco più a nord,
unitamente ad altri di calcare
bianco di formato diverso e con
tracce di lavorazione, spogliati
probabilmente da monumenti romani allora abbandonati e
distrutti all’interno delle città;
si notano anche blocchetti di
diverso genere con cornici ed un
pezzo di colonna di marmo inserito trasversalmente. Lo scavo
stratigrafico effettuato in connessione con questo tratto di cinta
urbica ha consentito di raccogliere vari materiali databili fino
al VI secolo d.C.
La tipologia della tecnica
costruttiva della struttura in
opera “tumultuaria” e la documentazione ceramica rinvenuta
in strato consentono di riferire
questa opera di difesa al periodo della guerra goto-bizantina.
Una conferma indiretta è fornita dallo stesso Procopio (Bell.
Goth., III, 11, 32-34), in un
passo in cui descrive l’urgente
ripristino delle mura di Pisauron
nel 545: Belisario dispone che i
suoi emissari restino all’interno della città e ricostruiscano
in qualunque modo possibile
quella parte di mura urbiche
Le Cento Città, n. 49
distrutta in precedenza dai Goti,
“utilizzando pietre, malta e ogni
altro materiale reperibile”. La
documentazione archeologica
venuta in luce a Pesaro in varie
circostanze permette di confermare la notizia fornita dallo
storico bizantino; significative
tracce dell’opera di ricostruzione “tumultuaria” della cinta cittadina del VI secolo sono state
scoperte in più tratti delle mura
ed in particolare modo in connessione con le strutture delle
porte urbiche, dove in periodi
diversi sono stati rinvenuti elementi architettonici, frammenti
di rilievi e circa trenta blocchi
iscritti riutilizzati nella muratura
come materiale di spoglio.
Una situazione analoga è stata
riconosciuta in un tratto delle
mura di Fanon dovuto ad una
fase di ripristino “tumultuario”:
di poco a nord della Porta di
Augusto, nel paramento interno, è visibile materiale romano
di spoglio di vario genere riutilizzato nella muratura. Anche
a Forum Sempronii è stato di
recente individuato un lungo
segmento di cinta muraria sul
lato orientale costituito da materiale di spoglio, tra cui blocchi
con membrature architettoniche, una colonna di marmo ed
una lastra con iscrizione funeraria di età imperiale; la struttura
difensiva va riferita all’ultima
fase di vita della città, abbandonata pressoché totalmente nel
VI secolo d.C.
In recenti scavi ad Ancona,
in Lungomare Vanvitelli, sono
state rinvenute tracce di vita
di età tardoantica ed anche di
una torre con muratura simile a
quelle sopra descritte; resti analoghi sembra che siano presenti
anche a Osimo.
Il Convegno
15
Ricerca, il filo conduttore tra Università e territorio
di Andrea Zaccarelli
Ricerca e territorio, un binomio inscindibile già da tempo
ma rafforzatosi sempre di più
negli anni più recenti.
L’associazione Le Cento Città
ha riunito nei giorni scorsi al
Ridotto del Teatro Ventidio
Basso di Ascoli alcuni dei massimi rappresentanti del mondo
accademico per comprendere
come l’Università marchigiana
possa mettersi al servizio anche
del territorio attraverso i propri
strumenti e le proprie risorse
nel tentativo di creare quel circolo virtuoso utile alla sua crescita complessiva, economica
sociale, culturale.
Il Rettore dell’Università Politecnica delle Marche Prof. Marco Pacetti.
Le università marchigiane
sono distribuite in maniera
assai capillare nella regione,
ognuna con il proprio portato
di esperienze e di capacità: filo
conduttore tra tutte, senza dubbio, la ricerca.
Al dibattito sviluppato tra
approfondimenti di carattere
scientifico economico e umanistico hanno contribuito il Rettore dell’Università Politecnica
delle Marche Marco Pacetti, il
prossimo Prorettore e Preside
della Facoltà di Economia e
Commercio Univpm Gian Luca
Gregori, il Preside della Facoltà
di Medicina Univpm Antonio
Benedetti, l’imprenditore Piero
Guidi, il Presidente dell’associazione già Preside della
Facoltà di Agraria Univpm
Natale Giuseppe Frega, Alberto Pellegrino, storico.
Nonostante la ricerca, o
meglio quel che si riesce a fare,
venga spesa davvero sui territori di riferimento, è tuttavia emerso che anche per le
Università marchigiane i fondi
Il Prof. Antonio Benedetti, Preside della Facoltà di Medicina e Chirurgia.
Il Prof. Gian Luca Gregori, Preside della Facoltà di Economia “Giorgio Fuà”.
Le Cento Città, n. 49
Andrea Zaccarelli
16
restano comunque sempre troppo esigui rispetto alle necessità
reali.
Altra prova che nella regione
esse abbiano creato un rapporto reale di prossimità con i contesti che le ospitano la fornisce,
ad esempio, l’Università Politecnica delle Marche che negli
anni ha aperto sedi in diverse
province evitando spostamenti ai giovani che non sempre
possono permettersi di vivere
fuori sede e creando strutture a
disposizione delle realtà territoriali in molteplici campi.
L’industriale Piero Guidi.
Ecco perché la ricerca finisce
per rappresentare un potenziale
strumento di crescita dal Nord
al Sud delle Marche: “Ora
diventa più che mai necessario tradurre concretamente tali
potenzialità per il vantaggio
reciproco tra istituzioni universitarie e le aree su cui esse insistono”, è stata la conclusione
unanime dell’incontro da parte
dei partecipanti.
La giornata si è poi conclusa
nel borgo medievale di Castel
Trosino, luogo prezioso e suggestivo attorno alle colline di
Ascoli Piceno con l’esibizione
del Gruppo dei “Folli”, equilibristi sui trampoli spettacolari e fiammeggianti che ormai
portano il loro talento, e quindi le Marche stesse, in tutto
il mondo. Conclusione di una
serata dal sapore antico, tanto
inaspettata quanto magica.
Il Sociologo Prof. Alberto Pellegrino.
Il Prof. Natale G. Frega, Presidente dell’Associazione e promotore del Convegno.
Le Cento Città, n. 49
La tendenza
17
Amorevole invasione
di Mario Canti
Per alcuni secoli l’Italia è stata
il territorio del “grand tour”,
ovverosia degli itinerari che i
giovani ricchi e colti di Europa
ritenevano di dover percorrere
per completare ed arricchire la
loro formazione artistica e culturale; il nostro Paese infatti,
anche se poteva essere definito
una mera “espressione geografica” sul piano politico ed istituzionale, costituiva in realtà la
più estesa, continua e profonda testimonianza della cultura
europea a partire dalle sue origini.
I viaggiatori nei loro percorsi venivano a conoscenza delle
testimonianze del passato,
monumenti, opere d’arte, raccolte archivistiche e bibliotecarie, del bel paesaggio che veniva
definito il “giardino d’europa”,
ed anche dei prodotti culturali a loro contemporanei, opere
teatrali e musicali, testi poetici
e quant’altro la cultura italiana
continuava a creare; il ricordo di
quelle testimonianze e di quelle
produzioni veniva a costituire
una sorta di elemento costituente comune alla cultura europea
nel suo insieme.
Questa “memoria comune”
della cultura europea veniva poi
alimentata dalle opere d’arte che
dall’Italia venivano portate nei
diversi paesi, talora dagli stessi
viaggiatori, e dalla pubblicistica
sul viaggio in Italia che a partire
dal XVI secolo ha interessato i
diversi paesi europei.
La tradizione culturale del
grand tour può oggi essere
considerata la più incisiva e
vasta operazione di marketing
turistico mai realizzata, poiché
consente di riversare sul nostro
Paese, grazie alla diffusione
della cultura e allo sviluppo economico, un flusso di visitatori di
grande portata che solo recentemente, ha visto l’Italia perdere posizioni di assoluto rilievo
nell’affluenza turistica da paesi
europei ed extra europei.
A partire da alcuni decenni,
anche se i prodromi possono
essere fatti risalire alla frequentazione della Toscana da parte
dei viaggiatori inglesi nel corso
del XIX secolo, una parte dei
visitatori sembra non accontentarsi più della conoscenza dell’Italia nelle sue diverse espressioni artistiche e paesaggistiche,
ma, in una certa misura, amerebbe possederla.
Dal grande fiume di visitatori che annualmente percorrono l’Italia, spinti da desideri
di conoscenza e di godimento
estetico e da richiami letterari
e sentimentali, si stacca, con
una certa continuità, un rivolo
di amanti del nostro Paese che
abbandona il percorso tradizionale della grandi città d’arte per
avventurarsi alla conoscenza dei
centri minori e del territorio che
li comprende.
Questa particolare curiosità
li porta a conoscere ed a comprendere una diversa dimensione del nostro Paese, caratterizzata dalla contestualità di opere
d’arte di eccezionale valore con
una trama di opere di arte e
di ingegno di grande significato culturale e testimoniale e
con un tessuto paesaggistico
totalmente artefatto dall’opera
dell’uomo che, specie nell’Italia
Centrale, si presenta con una
continuità e complessità di elementi costituenti che derivano
dallo spessore storico della loro
costituzione e da una specifica
cultura del “fare bene”, nella
edilizia come nella agricoltura; il
paesaggio dei contadini “orafi”
citati in una poesia di Pasolini.
In questo loro percorrere l’Italia dei borghi e degli insediamenti agricoli i viaggiatori sono
conquistati anche dai rapporti
umani che con facilità riescono
a stabilire con le nostre genti e
vengono indotti ad apprezzano
i nostri sistemi di vita, compresi
tra questi l’attenzione alla tavola
e alla convivialità in genere.
Le Cento Città, n. 49
In alcuni di questi stranieri
nasce di conseguenza il desiderio di abbandonare il ruolo di
viaggiatore per acquisire quello
di residente, per sempre o per
quote significative dell’anno, e
, di conseguenza, sono orientati ad acquistare una abitazione
nel nostro paese, ovviamente
situata laddove l’ambiente risulta particolarmente rispondente
a quei valori culturali, artistici,
paesaggistici e sociali che maggiormente li hanno coinvolti ed
interessati.
Il fenomeno ,come è noto, si è
sviluppato in modo significativo
a partire dall’Italia Centrale, per
la Toscana si è arrivati a parlare
di Chiantishire in conseguenza
del consistente numero di inglesi che gradualmente si sono stabiliti in quel territorio, ed oggi è
arrivato ad investire anche aree
del mezzogiorno, ovviamente
quelle più “ospitali” anche sotto
il profilo sociale quale, ad esempio, è la Puglia.
Nelle Marche il fenomeno inizialmente si è manifestato come
un travaso dalle aree di confine con la provincia di Arezzo,
che ormai non presentavano più
sufficienti occasioni di acquisto, al territori interni della provincia di Pesaro; oggi questa
pacifica ed amorevole invasione,
che viene condotta da cittadini
provenienti in netta prevalenza da paesi del nord Europa,
interessa, almeno così appare ai
nostri occhi, l’intero territorio
regionale.
Abbiamo recentemente posto
in evidenza come le trasformazioni dell’ambiente agricolo ed
in particolare la scomparsa della
mezzadria, che era l’ordinamento prevalente nelle nostre campagne, abbiano rese disponibili
quote significative del patrimonio residenziale rurale che,
almeno in parte possono interessare quei visitatori stranieri che
apprezzano in modo particolare
il paesaggio della nostra cam-
Mario Canti
pagna, la sua salubrità, la accoglienza che i residenti destinano
ai nuovi ospiti.
Nell’ottica di conoscere e far
conoscere la Marche che caratterizza l’associazione delle Cento
Città ci sembra che siano meritevoli di attenzione altre considerazioni, oltre a quelle abitative e immobiliari, che vengono
suscitate dalla tendenza da parte
di alcuni cittadini europei a stabilirsi nelle Marche.
La capacità attrattiva del
nostro ambiente rurale ed in
particolare del paesaggio agrario risulta ancora significativa,
questa considerazione dovrebbe
indurre amministrazioni e cittadini a destinare maggiore attenzione alla questione paesaggistica, che ancora oggi risulta ferma
a strumenti di tutela vecchi di
oltre venti anni e comunque
viene trattata come una questione marginale in confronto a
quelle dello sviluppo urbanistico e dell’edilizia privata
Altra considerazione degna
di nota riguarda le modalità di
recupero dell’edificio esisten-
18
te che vengono adottate dai
nuovi residenti stranieri che, di
norma, sono interessati a conservare all’edificio acquistato
le sue caratteristiche strutturali
e formali e quelle del suo intorno immediato che, in definitiva, costituiscono le motivazioni
stesse della scelta operata.
Nel caso in cui i lavori di
recupero dell’antica abitazione
vengono condotti da cittadini
italiani, che siano proprietari
vecchi o nuovi, assistiamo, di
norma, al tentativo di attribuire all’edificio e al suo intorno
improbabili caratteri di periferia
semiurbana; la disattenzione ai
valori storici e formali dell’edilizia rurale tradizionale, che tanto
attraggono gli stranieri, porta
a realizzare situazioni architettoniche ed ambientali del tutto
banali, prive di riferimenti al
territorio e alla sua storia.
Valorizzare e far conoscere il
ben diverso atteggiamento che
caratterizza l’azione di recupero
degli stranieri che si stabiliscono
nella nostra regione potrebbe,
di conseguenza, contribuire a
Le Cento Città, n. 49
migliorare anche la qualità degli
interventi di recupero operati da
cittadini italiani.
Sembra significativa la rilevanza che assumono agli occhi ed al
sentire di tante persone di culture e formazioni diverse queste
testimonianze del nostro lungo
e composito passato, costituito
da opere d’arte, di grande o
modesto rilievo, da architetture,
destinate ad accogliere grandi
poteri o semplicemente attività
agricole correnti, da paesaggi,
naturali o antropizzati.
Ne dovremmo ricavare motivi
di orgoglio e ragioni di tutela.
Per conoscerlo meglio sarebbe opportuno avviare una vera
e propria indagine conoscitiva che, però, allo stato non è
compatibile con le risorse della
nostra Associazione; per non
limitarci a una segnalazione alle
“competenti Autorità” cercheremo di approfondire comunque
la nostra conoscenza attraverso una inchiesta che vorremmo
condurre con la collaborazione
dei nostri lettori, che siano o no
membri delle Cento Città.
La letteratura
19
Luigi Di Ruscio, un grande poeta marchigiano
di Alberto Pellegrino
Luigi Di Ruscio è nato a Fermo
il 27 gennaio 1930, è rimasto
nelle Marche fino al 1957, quindi
è emigrato in Norvegia, dove si è
sposato con Mary Sandberg da
cui ha avuto quattro figli; è vissuto a Oslo fino al momento della
morte avvenuta il 23 febbraio
2011. Questo autore non ha mai
goduto di una grande popolarità
nella nostra regione nonostante
che alcuni suoi componimenti poetici siano comparsi nelle
diverse antologia di autori marchigiani pubblicate in questi anni
(Poeti marchigiani del Novecento,
1965; Scrittori marchigiani del
Novecento, 1971; Marche: poeti
oggi, 1979; La poesia delle Marche. Il Novecento, 1982; Leopardi
e la recente poesia marchigiana,
1987).
Abbiamo appreso con ritardo
la notizia della sua scomparsa
e rimediamo a questo nostro
colpevole silenzio, prendendo
lo spunto da un documentario
intitolato La neve nera, realizzato
a Oslo nell’autunno del 2012
da Angelo Ferracuti, il critico
letterario che meglio lo conosce,
con la regia Paolo Mazzoni e la
fotografia di Fabrizio Lapalombara. Si tratta di una biografia
per immagini girata sui luoghi
dove questo grande poeta ha
vissuto e ha lavorato come operaio per quarant’anni in una fabbrica metalmeccanica, senza mai
abbandonare la classe operaia,
anche quando era ormai apprezzato dalla critica italiana più
accreditata ed era presente nelle
maggiori antologie poetiche.
Di Ruscio ha sempre affrontato la vita con serena energia
e meditata semplicità: “A volte
mi sembra di essere circondato
da un grande universo amoroso,
quando mi incontra la postina
sorride, così la bellissima bibliotecaria, la tabaccaia e così nel
reparto dove lavoro mi sembra
di essere circondato da grandi
fiati amorosi, perfino nella stanza
dove scrivo mi sembra di essere
avvolto in un universo amoro-
so”. La stessa energia e serenità
ha mostrato quando ha sentito
avvicinarsi la morte: “Il sottoscritto è fortunato/il passaggio
tra la coscienza e il niente sarà
brevissimo/non è destinata a noi
una lunga e spettacolare agonia/
non sarà per noi l’insulto di essere a lungo vivi senza coscienza/i
clinici più rinomati non appresteranno a noi lunghe strazianti
agonie/la nostra miseria ci salva
dall’insulto di essere vivi senza
più lo spirito nostro/ritorneremo tranquillamente nel niente
da dove siamo venuti/è già tanto
che il miracolo della mia esistenza ci sia stato/riuscendo persino
a testimoniarvi tutti”.
Nel 1953, con la sua prima
raccolta poetica egli aveva rivolto
una violenta denuncia alla città
di Fermo abbandonata per la sua
“chiusura” culturale e sociale,
per la sua capacità “borghese”
di emarginare i subalterni, sulla
quale scriveva: “La città in cui
viviamo è un gruppo di case/
accatastate in un colle circondato da torrioni e mura/e alla
periferia piccole officine/dove si
lavora tutto il giorno e si guadagna poco/ Nella nostra città
vi sono molte chiese/e i vecchi dicono che qua si sta male/
per tutte le chiese/ e i palazzi dove abitano loro/che fanno
le elemosine/le signore damine
di carità…e intorno le nostre
case appoggiate le une alle altre/
Le Cento Città, n. 49
come stroppi che si tengono per
mano/e si impreca perché non
ne cade una/così crollerebbero
tutte come un castello di carte…
e ci viviamo da tutta la vita/al
mattino mangiando un pezzo di
pane/a mezzogiorno un piatto di
minestra/alla sera un piatto d’erbe/che la vecchia va ogni giorno
a trovare…La nostra città è questa/ed altre città hanno questa
miseria/con le officine che aprono e chiudono/e fanno lavorare
fuori orario e non pagano/mai/
gli alcolizzati minati dalla tubercolosi/le puttane/quelle che lo
fanno per gusto/quelle che lo
fanno male ma devono farlo/
anche sei preti non gli danno
l’assoluzione”.
Le prime opere poetiche
Luigi Di Ruscio è stato uno
scrittore autodidatta, avendo
conseguito soltanto la licenza
di quinta elementare ma, nonostante avesse cominciato molto
presto a svolgere diversi mestieri,
si era impegnato nello studio
dei classici americani, francesi e
russi, della filosofia greca, delle
opere di Tommaso Campanella,
Giordano Bruno, Karl Marx e
Benedetto Croce; inoltre aveva
inziato a “frequentare” con assiduità anche i grandi scrittori italiani Dante e Petrarca, Leopardi e Carducci, Saba e Montale,
Campana e Quasimodo, Pavese
e Vittorimi.
Agli inizi degli anni Cinquanta riesce ha pubblicare presso
l’importante editore milanese
Schwarz la sua prima raccolta
di poesie Non possiamo abituarci
a morire (1953), alla quale una
giuria presieduta da Salvatore
Quasimodo assegna il Premio
Unità. Nella prefazione di questa
opera Franco Fortini definisce
le composizioni di Di Ruscio
“poesie di miseria e di fame, di
avvilimento e di rivolta, nascono da un’esperienza diretta e ne
sono la trascrizione; la loro tematica non si distingue da quella
della poesia del Quarto Stato
I beni culturali
20
Le Cento Città, n. 49
La letteratura
che, nei primi decenni del secolo
è stata nel mostro paese, almeno
nelle intenzioni, assai feconda…
e questi versi sono insomma un
documento umano delle aree
depresse, di quella parte di noi
stessi depressa che chiede, da
generazioni, il riconoscimento
iniziale del volto umano”.
Passeranno molti anni prima
che il poeta riesca a dare alle
stampe una seconda raccolta
di poesie intitolata Le streghe
si arrotano le dentiere (Marotta,
Napoli, 1966) e nella prefazione
al volume è proprio Quasimodo
ad esprimere un giudizio apertamente positivo su questi versi:
“Di Ruscio è uomo d’avanguardia nel senso positivo, cioè della
fede nell’attualità e per la violenza del discorso, la follia non è in
lui un’accademia che inaridisce
l’ispirazione nel bunker dei versi
premeditati…Le poesie di Lugi
Di Ruscio sono nell’angoscia di
un crescendo della simbolica
mania di persecuzione dell’autore che non ama distrarsi per
selezionare una bella pagina da
auditorium. Al marchigiano non
importa niente che lo si legga o
no; il ritmo sordo e perpendicolare nella forma, nei suoi versi
viene da una rigorosa ragione di
contenuto”.
La sua produzione letteraria e
l’attenzione della critica
Di Ruscio, pur vivendo all’estero, inizia a collaborare con
importanti riveste e quotidiani,
tra cui Il contemporaneo, Realismo lirico, Ombre rosse, Alfabeta, Il Manifesto. Negli anni
Settanta comincia a pubblicare
con regolarità diverse raccolte
di poesia: Apprendistati (Bacaloni, Ancona,1978) e Istruzioni
per l’uso della repressione (Savelli
Roma, 1980), due opere considerate un esempio fondamentale di
neorealismo poetico; Enunciati
(Stampa dell’arancio, Grottammare, 1993), Firmum (Pequod,
Ancona, 1999), L’ultima raccolta (Manni, Lecce, 2002), Poesie
Operaie (Ediesse, Roma, 2007),
L’Iddio ridente (editrice Zona,
Arezzo, 2008). Scrive anche cinque lavori in prosa: Palmiro che
esce in diverse edizioni (il Lavoro
Editoriale, Ancona, 1986; Baldini
& Castoldi, Milano, 1996; Ediesse, Roma, 2011), Le mitologie di
21
Mary (LitoColle, Foloppio, 2004), L’Allucinazione (Cattedrale, Ancona,
2007), Cristi polverizzati
(Le Lettere, Roma, 2009)
e La neve nera di Oslo
(Ediesse, Roma, 2010).
Della sua opera si sono
occupati critici letterari
importanti come E. F.
Acrocca, Aldo Capasso,
Enrico Falqui, Romano Luperini, Giancarlo
Majorino, Walter Pedullà, Massimo Raffaelli,
Sebastiano Vassalli; i giovani critici Angelo Ferracuti, Andrea Cortellessa
e Marilena Renda che
hanno richiamato l’attenzione su questo autore
abbastanza trascurato in Italia; si
sono occupati di lui anche i critici marchigiani Carlo Antognini, Guido Garufi, Alfredo Luzi,
Luigi Martellini e gli scrittori Silvia Ballestra, Eugenio De Signoribus, Leonardo Mancino, Renato Pagnanelli, Antonio Porta,
Roberto Roversi, Paolo Volponi.
Nel 2009 Luigi di Ruscio è stato,
insieme ad Ascanio Celestini e
Walter Siti, il finalista nella VI
edizione del Premio Letterario
Nazionale Paolo Volponi. Letteratura e impegno civile, patrocinato
dal Comune di Porto Sant’Elpidio.
Le opere in prosa
Per quanto riguarda le sue
prose, Palmiro (1986) è stato il
suo romanzo d’esordio, nel quale
Di Ruscio parla dell’Italia degli
anni Cinquanta, di una società
formata di militanti di base, di
burocrati del Partito comunista
ammalati di “comunperbenismo”, di socialisti massimalisti,
di nonne, puttane e barbieri,.
Il libro è scritto con una prosa
da “piani alti della letteratura”,
innovativa, lineare, ironica, realistica che lo stesso Di Ruscio ha
definito come una scrittura che
“somiglia al sogno”, perché “a
volte siamo presi dal terrore per
gli incubi da noi stessi prodotti…
Nel mio caso, di sottoscritti ce
ne sono tre: il sottoscritto detto
inconscio che programma l’incubo, il sottoscritto che osserva l’incubo, e il sottoscritto che si libera
di tutto scrivendo”. Il romanzo,
ambientato a Fermo nell’imLe Cento Città, n. 49
mediato dopoguerra, ha come
protagonista un proletario adolescente che è stato bocciato dalla
scuola fascista, ma che pretende
di essere un poeta, malgrado che
per vivere sia un mezzo bracciante e un mezzo muratore anarchico, ironico e insolente, che
frequenta la locale sezione del
Pci sulle cui pareti occhieggiano
i ritratti di Gramsci, Stalin e del
compagno segretario del Partito
Palmiro Togliatti, stando quotidianamente a contatto di operai
e contadini, giocatori di carte e
comizianti improvvisati che lo
sfottono e mal lo sopportano. Il
libro riscuote un certo successo,
perché ha il ritmo travolgente e
tragicomico di un’epopea picaresca (la critica ha fatto riferimento
a Céline e Hasek), dove il protagonista ne combina di tutti i
colori, ma trova il tempo di porsi
alcune fondamentali domande:
come vivrò in futuro? riuscirò
a trovare un lavoro? chi sarà la
mia donna? quando scoppierà la
rivoluzione?
Nel volume Le mitologie di
Mary (2004) il vecchio combattente depone per un momento le
armi di “poeta italico” destinato
per l’eternità a inseguire “velocemente le sequenze mentali e le
malefatte del mondo” per abbandonarsi alle emozioni dell’anima e impegnarsi a descrivere “il
magico mondo della moglie norvegese”,. Di Ruscio riesce a farlo
mettendo insieme una grande
quantità di materiali utilizzati per
scrivere con leggerezza e con il
sorriso sulle labbra con lo scopo
Alberto Pellegrino
22
Antologia
in certe ore entra nel reparto una chiazza di sole
e lo sporco nostro è schiarito come nelle immagini dei santi
rubo il tempo per una fumata che raspa nella gola
spio i minuti sul quadrante del grande occhio
e tutto ad un tratto ci scuote l’urlo della sirena
ci attende il riposo per la sveglia di domani
la suoneria che entra dentro i sogni esplodendoli
ed ecco un nuovo giorno della mia esistenza
con l’allegria fuori della mia ragione
1.
come un angelo svolazzavo
incolume tra i traffici
i camionisti mi lasciano spazi sufficienti
per continuare a vivere tra voi
con l’atroce in agguato da tutte le paerti
e mai mi sono sentito tanto vivo
come quando ero vicinissimo
alla morte
2.
con la fine degli umani i grattacieli
si copriranno improvvisamente di licheni spumosi
gli asfalti inizieranno fioriture
che richiameranno gli insetti più luminosi
nessun gatto
rischierà di venire castrato
nell’universo rimarrà lo splendente ricordo
di essersi visto con l’occhio umano
3.
le sei ore sono l’inizio della nostra giornata
noi siamo l’inizio di tutti i giorni
inizia il giro delle ore sulla trafilatrice
che mi aspetta con la bocca spalancata
inizia la mia danza il mio spettacolo
di rendere omaggio alla sua
moglie straniera che, non conoscendo l’italiano, non potrà mai
leggere queste pagine: “Dovevo
scriverlo un libro per Mary che
è sempre riuscita a tenere sotto
controllo l’inferno quotidiano…
Mary mi considera un incapace, è rimasto solo uno spazio ,
questa tastiera del computer…E’
profondamente impressa dentro
di me una sua frase che una
volta, me depresso, disse: Non ti
addolorare, noi siamo nati, pensa
ai tanti che neppure riescono a
nascere. Questa frase assurda
domina la mia vita”.
L’allucinazione (2007) è un
romanzo che può essere definito
di fantascienza, poiché l’autore
si serve di una struttura narrativa basata sui “Mondi Paralleli”,
per cui in una costante condizione allucinatoria abbandona
il “sogno” degli anni Cinquanta per proiettare il lettore nella
“feroce” Italia di oggi, rappresentata come un incubo in cui
“tutto è vero e falso nello stesso
tempo”, dalla politica ai lavavetri dell’Est, dal rito dei grandi
funerali di Stato in diretta tv alle
quotidiani persecuzioni dei più
deboli, dalle forme di razzismo
alle ragazzine violentate, tutte
vittime e capri espiatori che queste pagine aiutano a distinguere
e a riconoscere grazie a un cronista che è anche un testimone
4.
l’ultima poesia scritta tanto faticosamente
riprendere fiato ad ogni parola
squadrare sul vocabolario quella parola introvabile
il tutto era così luminoso intatto e mi sentivo sporco
contaminato
non facevo che immergermi nella vasca
tutta quella neve esposta ad un sole precoce
tutta questa gente esposta alla morte
vivrai una vita immortale solo se vivi continuamente nel
consueto nell’ovvio
muore chi è veramente vivo ed è costantemente
nell’irrepetibile
le ripetizioni l’ovvio il consueto sono senza tempo eterne
chi vive veramente è in una estrema fragilità
il miracolo è avvenuto la cosa non sarà più ripetuta
appena si è mostrata è finita per sempre.
incorrotto e un accusatore che
dispensa invettive e scomuniche.
Il romanzo Cristi polverizzati
(2009) è uno dei migliori esempi
di quella letteratura divisa tra
cronaca, testimonianza e impegno politico, nel quale l’autore ritorna a parlare degli anni
Cinquanta che rappresentano il
passaggio da un paese rurale a
quello del boom degli anni Sessanta. Infatti egli descrive un’Italia ancora contadina, semplice e
povera, divisa tra superstizione e
fervore cattolico, fornendo un’affascinante quadro delle passioni,
dei costumi, della mentalità e
dello stile di vita degli italiani. L’opera è caratterizzata dalla
fede comunista dell’autore (per
molti aspetti “eretica”) legata a
una concezione della vita non
tanto segnata dal materialismo
quanto da un “Umanismo” inteso come profondo amore per
l’uomo, gli animali e la natura;
l’altro tema è l’avversione per
la Chiesa cattolica (paragonata
a una gatta che divora i propri
figli appena nati), vista come un
“grande magazzino produttore
di santi”, capace di sfruttare l’ingenua fede delle persone per
capitalizzare ricchezze che non
vengono destinate a soccorrere i
più umili.
La neve nera di Oslo (2010) è
il romanzo scritto da un ottantenne che racconta in prima perLe Cento Città, n. 49
sona la quotidianità dell’esistenza, la vita di fabbrica, l’orgoglio
di far parte della classe operaia
intesa come appartenenza a una
condizione umana universale, il
tutto mescolato a considerazioni
politiche e filosofiche. Si tratta
di una narrazione fluviale scritta con una lingua graffiante ed
eversiva che mette in evidenza
una visione della vita caustica e
comica, furibonda e irriverente,
che rappresenta il congedo di un
“grande vecchio” della letteratura italiana.
La poetica di Luigi Di Ruscio
La poesia di Di Ruscio, con il
suo andamento di “diaristico” e
“lineare”, ha sempre conservato negli anni la caratteristica di
una cronaca piena di passione
umana e d’impegno civile, senza
mai cadere tuttavia in una sterile
moralismo, riuscendo a mantenere una adesione alla realtà che
l’avvicina a una sceneggiatura filmica del migliore neorealismo.
Le sue sono, infatti, “poesie scritte sugli avvenimenti più illustri/
con mezzi della verbalizzazione
più adatti al caos quotidiano/
testimoniare gli spaventi che
si scaraventano sopra di noi”,
perché Di Ruscio si considera
un “poeta ingordo nel mangiare
le cose e anche crude/anche le
malsane erano appena masticate
e subito ingoiate… illuminato
La letteratura
da spaventi indicibili e insostenibili/eppure dovevo affrontarla l’irrisione dei cretinnetti/un
vuoto spaventoso doveva caratterizzarsi/testimoniare gli eventi sociali che si scaraventavano
sopra di noi/scaraventare sulle
pagine bianche l’orrore/non c’è
nome che non venga nominato/
non c’era nome che non venisse
minato oppure animato/non c’erano nomi che non fossero contaminati o calamitati/dare nomi
battezzare le cose compiere riti
propiziatori/perché tutto deve
essere chiamato ed evocato all’estremo”. Questo poeta mostrerà
sempre la tendenza a sfogare la
sua “rabbia sociale”, caricando
“la sua macchina da scrivere di
ogni forza contestativa” che traeva la sua linfa poetica da una
vena popolare e politico-emotiva
a volte incandescente e rabbiosa,
costantemente impegnata a riversarsi “sugli assassinati di tutte le
fabbriche del mondo/su quelli
che incorporano l’intera inquinazione e la morte/su quelli che
incorporano vivi gli arsenici i
piombi i mercuri/pagateli i riscatti li abbiamo pagati con la nostra
carne” (Apprendistato, XXXV).
Di Ruscio si ribella a essere l’ultimo di una razza condannata
a vivere con mille lire a giornata, a sentirsi “schiodato e crocifisso…dannato per un mondo
di dannati. Per la coerenza del
suo impegno, egli rappresenta,
soprattutto con le sue Poesie operaie, un’assoluta singolarità nel
panorama della poesia italiana
del Novecento, perché è il cantore delle ultime fabbriche fordiste, di una condizione umana
destinata alla marginalità in un
orizzonte politico che sia apre
23
nel dopoguerra a una speranza
di riscatto per subito richiudersi
nella “normalità” borghese nella
piena consapevolezza che i suoi
sforzi sono destinati a lasciare un
labile segno: “ Forse un giorno
mio figlio racconterà a mio nipote/che il nonno era comunista e
questa frase/acquisterà un sapore assurdo/come se mi avessero
detto che il mio bisnonno/era un
giacobino e un regicida/comunque io non ho fatto che scrivere
versi/ho messo carta davanti alla
belva”.
Nonostante questo endemico
pessimismo, il poeta non dimentica mai i suoi compagni di lavoro, perché tra loro “le nostre
diversità contano meno di tutto
quello che abbiamo in comune…
Quell’essere insieme come quando ero in quel reparto italiano
insieme a tutti i norvegesi, quasi
la pecora nera tra i biondi e gli
azzurrati eppure eravamo insieme e fummo insieme per decine
d’anni continui. Ero insieme a
tutti voi con le vostre tute, con
gli ingenui vestiti della domenica, li ricordo uno a uno ora che
sono quasi tutti morti. Però ogni
tanto tra la folla sento un urlo,
vengo urlato in tutti i modi con
nome e cognome… uno sopravvissuto a tutte le pesti, a tutte le
polveri arsenicati e dei metalli
pesanti, metallurgiche, a tutte
le sudate continue mi chiama,
mi abbraccia. Eravamo insieme
diversi nello stesso disprezzo per
i padroni, insieme quando abbiamo sabotato e scioperato, insieme nei sotterfugi operai, ridevamo insieme e sudavamo insieme
senza neppure accorgerci di questo miracolo, l’essere diversi per
essere però fraternamente insieLe Cento Città, n. 49
me” ed anche negli ultimi anni
di vita egli compone versi che
contengono un pensiero rivolto
ai compagni “Questa notte vi
ho sognato/splendidamente vivi/
ritornammo a rivedere/tutti gli
orrori di quel reparto ridendo/
non sono riusciti ad ammazzarci/siamo ancora tutti vivi/nuovi
come se fossimo risuscitati/non
più contaminati della sporca
morte”.
Di Ruscio ha vissuto una vita
raccontata attraverso le sue esperienze di vita e di lavoro, ma
anche attraverso le vite degli altri
rappresentate con schiettezza e
rabbia, indignazione e ironia,
con la piena consapevolezza che,
per sopravvivere, sono necessari grandi sogni nonostante si
abbiano mani callose e piedi ben
piantati in terra. Egli ha costruito
uno spaccato di umanità privo
di fronzoli e nello stesso tempo
lirico, una narrazione resa cruda
dalla schiettezza del linguaggio
capace di raccontare episodi di
lavoro, morti cruente, momenti
lirici e di profonda spiritualità.
Di Ruscio è attento nel percepire, analizzare, capire i cambiamenti della storia, le innovazioni
e i progressi, le ingiustizie e le
violenze di sempre con la speranza e la fede in una lotta continua ed estenuante per migliorare
l’ineluttabile e amara condizione degli “ultimi” in qualunque
luogo della terra e in qualunque
periodo della storia. Di Ruscio,
che è stato definito uno “Jacopone operaio” (Paolo Di Stefano) si
presenta come un testimone che
osserva la vita in modo imprevedibile e delirante, che sfoga
la sua rabbia per le ingiustizie e
le crudeltà del potere, ma che
mostra anche una grande amore
per gli esseri umani e per la natura. Massimo Raffaelli ha definito
questo autore “una splendida
eccezione, una assoluta singolarità, nel panorama della poesia
italiana del secondo Novecento. Non un poeta-operaio come
pure e sbrigativamente si è detto
tante volte, quasi si trattasse di
sommare il sostantivo all’aggettivo, o viceversa, ma un poeta
capace di introiettare/metabolizzare/rielaborare la condizione
operaia alla stregua della condizione umana tout court”.
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L’arte
25
Girolamo di Giovanni
di Pier Luigi Falaschi
A Camerino, nella Pinacoteca civica all’interno del Polo
museale di S. Domenico, è in
atto la Mostra Girolamo di Giovanni. Il Quattrocento a Camerino. Dipinti, carpenterie lignee,
oreficerie e ceramiche fra gotico
e rinascimento (10 maggio - 29
settembre 2013, ore 10-13, 1619, chiuso il lunedì).
Il pittore, nato a Camerino intorno al 1430 e morto a
Pioraco nel 1503, realizza un
esempio vistoso di quanto sia
necessario scrivere e riscrivere
la storia, in particolare la storia
dell’arte, e di quanto siano rischiose nel suo ambito le analisi
stilistiche e le attribuzioni che
se ne traggono.
A determinare il corpus delle
opere attribuibili a Girolamo
provvedeva nel 1907 Bernard
Berenson, assumendo come
riferimento il trittico di Monte
S. Martino, segnato in basso
col nome Ieronimus Iohannis
de Camereno e datato 1473. A
ruota Bernardino Feliciangeli
confermava e ampliava di poco
l’equipaggio, giovandosi come
ulteriore riferimento della tela
della Madonna della Misericordia di S. Martino di Tedico,
rimasta sconosciuta allo studioso statunitense, segnata a sua
volta col nome dell’artista e con
la data 1463. Su questo corpus
per circa un secolo ricamarono
gli studiosi del rinascimento camerte, dando per normali - in
un’attività laboriosa e protratta
- difformi “gradi di rappresentazione e perfezione” (Feliciangeli).
Le novità esplodevano nel
2002, nel corso delle ricerche
d’archivio disposte per garantire rigore alla grande mostra dedicata al Quattrocento a Camerino: Emanuela Di Stefano, che
con Rossano Cicconi curava la
raccolta e la pubblicazione dei
documenti utili alla biografia
dei pittori, sussultava nel rilevare i molti negozi giuridici posti
Girolamo di Giovanni da Camerino (Camerino, notizie dal 1450 al 1503)
Storie della Passione di Cristo, particolare con Gesù davanti a Caifa e la cattura
1456- 1462. Affreschi strappati Camerino, Pinacoteca Civica.
in essere ai suoi dì da Giovanni
Angelo d’Antonio e nel constatare il rilievo sociale da lui
raggiunto e stupiva per l’oblio
in cui era lasciato dopo il tentativo fallito di Zeri di assegnargli
le straordinarie tavole Barberini. Certo solo intraprendenza
e doti intellettuali non comuni,
affinatesi con una pratica eccellente dell’arte, potevano aver
consentito ad un nativo di Bolognola, borgo montano di poche opportunità, d’affermarsi
come familiare dei da Varano di
Camerino e, niente meno, dei
Medici di Firenze.
A ruota Matteo Mazzalupi
scopriva l’atto con cui a Giovanni Angelo era affidata l’esecuzione della crocifissione di
Castel S. Venanzio, fino allora
inserita tra le opere migliori
del presunto Girolamo. Infine,
Giorgio Semmoloni, accertava
che Giovanni Angelo e Girolamo per l’esecuzione d’una taLe Cento Città, n. 49
vola, richiesta dal pievano di S.
Maria di Tolentino, s’erano impegnati in solido come soci di
lavoro. La conclusione suggerita dalle scoperte era la seguente: il corpus messo insieme per
Girolamo riguardava in realtà
due diversi pittori; il vero Girolamo, espresso dalle due opere
firmate e a più riprese valutate
meno grintose nel presunto corpus, in parte aveva subìto senza
accorgersene l’ascendente del
collega maior, in parte s’era
impegnato ad imitarlo per non
risultare dissonante nei lavori
eseguiti insieme.La soluzione
aveva, fra l’altro, il pregio di
non mettere alla gogna gli assertori del corpus fallace, apparsi
subito scusabili per la comunella stabilita fra i due artisti.
L’esito ulteriore delle scoperte, valutato prontamente da
Matteo Mazzalupi nella sua tesi
di dottorato del 2004, era quello di assegnare al Girolamo ri-
Pier Luigi Falaschi
26
Girolamo di Giovanni da Camerino (Camerino, notizie dal 1450 al 1503),
Madonna della Misericordia e i Santi Venanzio e Sebastiano 1463. Camerino,
Pinacoteca Civica.
dimensionato, oltre le opere firmate, quelle fino allora ritenute
di epigoni del Girolamo fasullo,
già valutate non esenti da affinità tra loro. La rivoluzione non
poteva consumarsi senza l’accusa di temerarietà rivolta agli
innovatori da studiosi come
Zampetti, Dal Poggetto, Bairati, che elevarono a suprema
prova contraria una tradizione
di studi secolare ed uniforme
e giunsero a rifiutare l’esame
dei documenti scovati con tanta
perizia. Trascorso un decennio
da quella sovversione, era tempo di tornare a considerare con
serenità gli esiti e ciò poteva
avvenire solo mettendo a confronto visivo diretto il maggior
numero possibile dei dipinti del
ridefinito Girolamo.
Il percorso della mostra s’apre con gli affreschi strappati
dalle pareti del piccolo oratorio
voluto per la sua casa di campagna del Patullo da Ansovino
Baranciani (+1477), ricco canonico. Su esse Girolamo, fra il
1456 e il 1462 effigiò le storie
della passione di Cristo, tentando anche secondo un’esigenza
umanistica di vestire all’antica i
personaggi. Il modo ingenuo e
serrato con cui Girolamo narra
il dramma sa di originale e di
fiabesco: i riquadri bianchi che
circoscrivono le molte scene dall’ingresso in Gerusalemme
all’ascensione - risultano più
prossimi ad affacci concepiti
per spaziare oltre, che non a tagli di cornici: evocativi i pochi
particolari ambientali, dense di
Le Cento Città, n. 49
comprimari e comparse le scene, forti le sensazioni impresse sui volti; scaltre le citazioni
dal Giotto della cappella degli
Scrovegni di Padova; smaliziato
il taglio delle scene e, per l’epoca, ancora inusitate le “riprese”
eseguite dal di sotto in su alla
maniera di Donatello e di Mantegna - operosi com’è noto a
Padova negli anni di dimora di
Girolamo (…1450…) - l’uno
nella basilica del Santo e l’altro
almeno nella cappella Ovetari
agli Eremitani, la comunità di
fra’ Simonetto da Camerino tessitore della pace di Lodi. L’appropriazione delle novità appare, comunque, garbata e quasi
divertita, consona ad un oratorio minimo di campagna e certo
compiuta per stupire e gratificare un mecenate in grado di
affidare a tempo opportuno,
come segnalano varie imprese,
opere ben più importanti.
Del 1463 è la tela, ritenuta
stendardo processionale, della Madonna della misericordia
proveniente da S. Martino di
Tedico. Certo consueta e collegata al titolo la rappresentazione d’una Vergine di grandi
dimensioni intenta a coprire
col manto allargato fedeli, di
proporzioni minori, supplici ai
suoi piedi; strano invece l’angusto parallelepipedo che funge
da nicchia, acconcio al più ad
accogliere un gruppo scultoreo,
non le figure, appena ricordate, palpitanti di vita, a tal punto
che la Vergine risulta flettere il
capo per non urtarlo contro il
piano di copertura della nicchia. Forse Girolamo ha inteso
animare una scultura (lignea
policroma?)
particolarmente
venerata, aggiungendovi i santi
Venanzio e Sebastiano, non a
caso collocati nel dipinto fuori
dell’edicola, imponendosi però
una rappresentazione di questa
fedele all’originale, onde garantire la riconoscibilità dell’insieme.
Una Madonna della misericordia non può a Camerino non
richiamare subito alla mente
l’elegante scultura lignea della
cattedrale e, subito dopo, per
maggiori affinità formali, la celebre tavola centrale dipinta da
L’arte
27
Martino forse a ridosso
del 1473, anno certo di
esecuzione per la stessa
comunità del polittico
esposto di fronte: alla
drammatica crocifissione, ora di proprietà della
Galleria Nazionale delle
Marche, sono state avvicinate due tavolette apicali con evangelisti, acquistate da qualche anno
dal Comune di Camerino, ritenute parti della
stessa macchina lignea
(De Marchi). È quindi
la volta dell’altro polittico di Monte S. Martino
e infine degli affreschi
con l’Angelo Nunziante
e la Vergine Annunziata,
strappati dal santuario
della
Madonna delle
macchie di Gagliole e
abitualmente conservati
nel Museo arcidiocesano
di Camerino, dove restano esposti altri interessanti affreschi di Girolamo. La distribuzione in
entrambi i musei camerti
delle sue opere accanto a
quelle di Giovanni Angelo, per un più spedito
confronto, consente di
ribadire la superiorità
del secondo, ma anche
di escludere la mediocrità del primo. Giovanni
Angelo batte Girolamo
per maggiore capacità di
sintesi, per l’imperturbabilità che conferisce
Girolamo di Giovanni (Camerino, notizie dal 1450 al 1503) Polittico di Monte San ai volti; Girolamo negli
Martino 1473, tempera su tavola, cm 212 x 194, provenienza Monte San Martino, chiesa anni più avanzati, sottrattosi almeno in parte
di San Martino.
all’influenza di Giovanni
Angelo, accentua la tenPiero della Francesca per il po- palesare umanità; volto segnato
littico di San Sepolcro, ultimato da palpebre pesanti e labbra im- denza al grafismo, rivelando nel
uno o due anni prima, e forse bronciate, in apparenza assor- contempo - se non trae in innoto a Girolamo e al collega bito da cure non trasmesse dai ganno lo stato di conservazione
maior, per l’attenzione pron- supplici, quello della Vergine dei dipinti - una minore sensibita da loro riservata a Piero, di Piero, ma è proprio il bron- lità per il colore.
La mostra esibisce anche diforse resi accorti da Malatesta cio e il cuore altrove a rendere
Cattani, vescovo di Camerino la Vergine di Piero, per altro in pinti, stoffe, carpenterie lignee,
dal 1449 al 1461, concittadino grado d’ingombrare meglio lo oreficerie e ceramiche utili a
e amico del pittore biturgense. spazio, più originale e nobile di dimostrare come, fra gotico e
rinascimento, il gusto per un
Volto piatto, regolare, compo- quella di Girolamo.
sto onde non tradire sensazioni
La mostra prosegue con tre certo tipo di ornato trovasse
quello della Vergine di Girola- pezzi d’un polittico, per il resto espressione in ogni genere di
mo, eppur ancora in grado di perduto, eseguito per Monte S. produzione artistica.
Le Cento Città, n. 49
La tradizione
28
La musica arabita ha 90 anni
di Alberto Berardi
Non ho mai udito “Voce di
clarino più di questa gioiosa e
triste e schietta e fiera e cantante,
talvolta orgogliosa ed insolente,
talvolta un poco pazza. Suona
quel che nelle Marche si chiama
una “Musica rabbita” o arrabbiata ed a me sembra che Rabbita stia per improvvisata, per frutto di umore e di estro. E’ antico
costume popolare marchigiano,
di associarsi in allegre compagnie di suonatori e ballerini e
di andare in giro per le Marche,
quando non per l’Italia e fuori
d’Italia suonando, cantando e
ballando”. Con queste parole
nel I954, più di cinquant’anni
or sono, Curzio Malaparte nella
rubrica “Battibecco” che aveva
allora su “L’Europeo” , provava
a descrivere l’incontro con “un
giovane aitante, dal viso ardito”
un suonatore di clarino Giulio
Marini, macellaio in Fano al n. 6
di via Adolfo Apolloni. Marini si
trovava allora con una comitiva
alla Trattoria del Porto di Porto Corsini e la comitiva, uomini
e donne (in gran parte donne di
una certa età) sprizzava un allegria assolutamente coinvolgente
e Malaparte commentò: “Questi
marchigiani sono allegri ma con
garbo, sono pazzi ma con misura. Le donne, per difetto di uomini, ballano fra loro, le magre
con le magre, le grasse con le
grasse, e quelle grasse sono enormi, scuotono il seno, il ventre,
la groppa, sembrano cavalle in
amore”. Lo scrittore viene riconosciuto ed in suo onore Marini
suona “Minestrone marchigiano” e cioè “miscugli di frammenti di vecchie canzoni italiane
conditi con l’olio, anzi col lardo,
della più matta allegria”. Conclude Curzio Malaparte: “Ed
io, guardando quella piacevole
gente, quei visi onesti accesi dal
vino, dal sole, dal ballo, quelle
donne enormi, quelle esili ragazze, quegli omaccioni dagli occhi
fondi e dalle mani crude, penso
che questo è il popolo italiano,
vivo, leale, allegro, bonario, e
che la lotta politica in Italia, per
andare d’accordo con il carattere del nostro popolo dovrebbe
essere aperta, cordiale, umana,
cortese, non quella specie di
truce rissa che è diventata: e se
proprio ha da essere una politica da arrabbiati, sia almeno una
politica Rabbita, come la musica
di questa allegra comitiva marchigiana, nata da un estro antico
e libero da un umore (e da un
amore) lieto e leale”. Ci voleva
un “maledetto toscano” come
Malaparte per capire al volo, ad
un primo fugace incontro, quale
energia vitale si nasconda dietro la “Musica Arabita” questo
singolare complesso fanese nato
nel lontano 1923 da un gruppo
di artigiani di sincera fede democratica se non rivoluzionaria
fanatici dell’opera lirica e stanchi di essere considerati dai nobili e dalla borghesia provinciale
dei filistei della cultura musicale.
All’ennesima provocazione snobistica: “Gliela facciamo vedere
noi”, dissero come un sol uomo
i barbieri, gli arrotini, i facchini,
La banda della Musica arabita: una tradizione fanese che compie 90 anni.
Le Cento Città, n. 49
La tradizione
29
I gruppi della Musica Arabita che si sono succeduti nel tempo.
i calzolai, i camerieri, i falegnami
ed i fabbri ferrai o meglio “gliela facciamo sentire noi” . Fu così
che nacque la Musica Arabita,
il singolare complesso in cui i
bandisti suonano gli strumenti
del proprio lavoro traendone
dei suoi incomparabili, simili a quelli dei futuristi quando
provarono a suonare in Teatro i
loro “intonarumori” dando vita
a delle risse memorabili. Alla
faccia dei nobili però la “Musica Arabita” suonava davvero
e dovunque andasse in giro per
l’Europa si trascinava dietro le
folle. Furono anni di successi incredibili. Guido Piovene nel suo
“Viaggio in Italia” scrisse che:
“Fano si vanta di avere inventato il Jazz con certi suoi concerti
di musica sincopata in cui stru-
menti sono pentole”. E scusate
se è poco. Aveva ragione lui, ho
assistito una volta nella fredda
Zurigo ad un fatto che credevo
fosse possibile solo nelle favole.
Era domenica, nessuno in strada, la Musica Arabita cominciò
a suonare sfilando, si aprirono
le finestre, poi le porte, non avevano mai sentito una simile baronda, la gente scese in strada e
cominciò a seguirci, non sapeva
perché e neppure dove li avremmo condotti. Ma ci seguivano,
come i bambini di Hamelin il
pifferaio, ed il tendone da circo
predisposto per noi si riempì
di bambini, mamme, ragazzi ed
adulti e fu un trionfo. Ricordo
poi un altro fatto, ho già detto
che la Musica Arabita ha passato
gli ottantanni, ma una domeniLe Cento Città, n. 49
ca di Carnevale ho assistito ad
un miracolo. Durante la sfilata
dei carri, ho visto quegli ottantenni ballare, cantare e suonare
senza sosta per ore ed ore. La
gente intorno applaudiva, cantava, ballava ed il carro su cui si
esibivano ballava insieme a loro
piegandosi ed inarcandosi come
un puledro.
Fano è come la sua Musica Arabita, la Musica Arabita
come il Carnevale, il Carnevale
come la vita stessa. Chi non è di
Fano non può capirlo. Malaparte ha scritto: “Sono nato a Prato
e se non fossi nato a Prato non
vorrei esser mai nato”. Per un
fanese trovare una simile rima
è impossibile ma il pensiero è lo
stesso.
Enogastronomia
30
I formaggi delle Marche
di Leonardo Bruni
Il Formaggio è nato per la
necessita di conservare il latte
quando l’uomo addomesticò
alcuni animali (ovini, bovindi) in
Mesopotamia.
Il formaggio, all’inizio, fu il
risultato di una coagulazione
spontanea del latte in ambienti
favorevoli e solo più tardi fu scoperto il segreto del caglio.
E’ documentata la presenza
del “formaggio” tra gli alimenti
degli uomini preistorici (700010.000 a.C)
I marchigiani producono
pochi formaggi e questi non
entrano nel mangiare comune
tradizionale.
I formaggi o meglio i pecorini
fatti con latte di pecora o di
capra, si producono lungo la
dorsale appenninica; le caciotte
fatte con latte di mucca e di
pecora nel Preappennino.
Ogni territorio ha il suo formaggio ed ogni formaggio ha
la sua tecnica di preparazione;
quello però, che lo caratterizza
o meglio lo tipicizza è la razza
della bestia che produce il latte,
il tipo di allevamento (brado o in
stalla ) e l’erbaggio che mangia,
ma il vero segreto del formaggio
sta nel caglio (quaglio, prisù).
Le razze di ovini diffuse nelle
Marche sono: l’Appenninica,
la Vissana, la Sopravissana, la
Fabrianese e da una trentina
d’anni la Sarda ed altre razze con
più spiccata attitudine lattiera
La vacche sono prevalentemente di razza marchigiana.
Da alcuni anni nei nostri
Appennini è ricomparsa la capra,
eliminata dopo gli anni venti per
facilitare il rimboschimento.
Preparare il caglio è un arte
antica e molto segreta. Questa
ricetta mi è stata raccontata molti
anni fa da un vecchio pastore di
Piobbico: “..si prende il latte
ristretto dallo stomaco (abomasio) dei primi agnelli macellati
durante la Pasqua e lo si tiene
per un anno sull’arola dove si
fa il fuoco; quando è diventato
secco lo si grattugia, lo si mescola con olio d’oliva, germogli di
noci (occhi freschi), l’interno
del carciofo selvatico essiccato,
vino bianco ed un poco di sale
…..le quantità non te le posso
dire …..a Carnevale si impasta
il tutto in una pignatta di coccio
o di rame. L’impasto si conserva
per un anno …basta un cucchiaio di caglio per 5 litri di latte
….se vuoi il formaggio piccante
usa il “latte” dello stomaco del
capretto …”.
Da certe piante astringenti
come il cardo ed il carciofo selvatico e da certe erbe profumate
(serpillo, santoreggia, maggiorana ecc.) si ricavano cagli vegetali.
Oggi si usano cagli chimici
preparati dall’industria.
La preparazione del formaggio avviene dalla primavera all’estate più o meno così:
Il latte, appena munto, va filtrato, messo nel caldano e portato lentamente a 36/38°; ci si
versa il caglio, si rimescola bene
e, dopo 30-40 minuti si ottiene
la cagliata che si rompe con le
mani e poi si riporta a 45/50° e
si ottiene la “pasta” ed il “siero”.
La pasta si lavora (si fruga e
si pressa con le mani) per eliminare il residuo del siero e
per ottenere le forme, queste si
mettono a: bucciare: ovvero a
maturare per alcuni giorni (al
massimo 20) in ambiente buio,
fresco a media umidità, su tavole
di legno dove di tanto in tanto si
lavano con acqua salata e siero
tiepido. stagionare: si salano a
secco o si lavano con acqua e
sale, si sbollentano nel siero di
latte bollente, si dispongono su
tavole di legno in luogo adatto
(cantina) per alcuni mesi (da un
minimo di tre ad un massimo di
18 ). Di tanto in tanto si ungono
con l’olio.
Negli ultimi anni il settore lattiero-caseario ha subìto una vera
e propria rivoluzione: sul piano
normativo e su quello tecnologico, tanto da occupare troppo
Le Cento Città, n. 49
spazio per trattarlo.
Il tradizionale pastore che
faceva il formaggio nella capanna o nella casa di paese va scomparendo per far posto alla piccola azienda casearia.
Descrizione dei formaggi marchigiani
Latticini
Quagliatella o sbobba
Una specie di yoghourt.
Una volta era uno dei pasti
dei pastori dei nostri Appennini , insieme all’acquacotta, e la
panricotta
Si scalda il latte e ci si versa un
pizzico di quaglio (caglio) su un
piccolo pezzo di stoffa bianca
pulita e poi prendendola per i
quattro capi si immergeva nel
latte strizzandola. Si versa il latte
su fette di pane raffermo e si
aspettava che coagulasse
Giuncata o giungata
Né ricotta, né formaggio,
documentata la produzione sin
dal Medioevo.
Si fa all’inizio dell’estate con
latte tiepido e caglio non salato.
Viene poi messo in appositi
cestelli di giunco ad asciugare
che gli imprimono le caratteristica striature
Tipico del periodo pasquale, si
mangia fresco.
Ricotta
Latticino ben conosciuto dai
romani ed usatissima nel medioevo.
Si ottiene facendo bollire nel
caldaro (quindi è cotta due volte:
ricotta) il siero del latte ottenuto
durante la lavorazione del formaggio, si raccolgono con un
mestolo forato i fiocchi coagulati e si mettono a gocciolare in
appositi cestini.
Si può fare con latte di pecora
o di vacca.
Una volta si preparava soltanto tra aprile e maggio.
La ricotta ben salata ed a volte
affumicata si può conservare per
parecchi mesi.
Il panricotta era la ricotta
Enogastronomia
appena fatta, calda e grondante di siero che veniva versata
su fette di pane stantio. Tipico
mangiare di pastori
I formaggi a pasta tenera
Raviggiòlo
Tipico del territorio di San
Leo e Casteldelci (Montefeltro)
ormai quasi scomparso. Nel Cinquecento era considerato una
prelibatezza
In passato si preparava con il
latte cagliato di capra ora, con
la scomparsa della capra, con
il latte di pecora o di mucca
sia a maggio che a novembredicembre, si mette a scolare su
stuoie di canna e dopo un giorno
è pronto: tenero, gradevolmente
dolce, delicato e burroso.
Slattato
Formaggio molle, bianco, cremoso di sapore dolce acidulo,
fatto con il latte vaccino; simile
allo squacquerone romagnolo.
Viene prodotto da ottobre a
marzo nel territorio di San Leo,
Casteldelci e S. Agata Feltria.
Il latte dopo l’aggiunta del
caglio coagula in 30 minuti e
poi viene “maneggiato” per farlo
addensare; si sala leggermente a
secco e si sbollenta nel siero del
latte.
31
Si mangia appena fatto
o meglio dopo 7-10 giorni di
maturazione.
Una volta veniva poi avvolto in
foglie di cavolo o di fico.
Cagiolo
Antico formaggio molle una
via di mezzo tra ricotta e caciotta, a forma di grossa arancia;
si produceva nei dintorni di
Osimo, ora è scomparso
I
formaggi a pasta semidura
e dura
Casciotta, caciofiore di Urbino
Il nome deriva dal medioevale
cascio e dal romano caseum che
vuol dire formaggio.
Formaggio storico assai noto,
a denominazione d’origine protetta (D.O.P del 12/6/ 1996),
prodotto nei comuni di Urbino,
Urbania, Cagli, Mercatello.
Formaggio morbido, crosta
sottile gialla, pasta bianca, friabile, sapore dolce e delicato,
lievemente “occhieggiante” preparato in stampi di terracotta
con 2/3 di latte di pecora ed 1/3
di latte vaccino.
Si prepara in piccole forme
di circa 450-950 g. che vengono
passate più volte nella salamoia (acqua e sale) oppure salate
a secco e poi messe su tavole
Le Cento Città, n. 49
di legno a stagionare per 20-30
giorni.
Il grande scultore Michelangelo ne era ghiottissimo tanto
che il fido servitore Amatori di
Casteldurante (Urbania) lo convisse a comprare qui un podere
per allevare pecore e vacche e far
fare direttamente il suo amato
formaggio.
Alcuni produttori usano chiamarla: caciotta Michelangelo.
Nella zona Piandimeleto,
Talamello, Pennabilli, Macerata
Feltria, S. Angelo in Vado e Carpegna si produce la
Caciotta del Montefeltro: sorella gemella della precedente.
Caprino di Urbino
Formaggio fatto esclusivamente con latte di capra, abbastanza
comune sino all’inizio del novecento, poi pressoché scomparso
con l’eliminazione della capra;
da qualche anno se ne è ripresa
la produzione in piccole quantità.
E’ pronto dopo tre settimane di maturazione con lavaggio
frequente delle forme in acqua
salata.
Viene messo sott’ olio o stagionato per qualche mese in
Leonardo Bruni
ambiente fresco ed asciutto.
Formaggio cilindrico con
forme da 500 g a 1500 g, crosta
morbida , increspata di color
nocciola chiaro o scuro, a seconda la stagionatura, pasta compatta senza occhiature, saporita
e piccante.
Prodotto dalla primavera
all’autunno.
Pecorini
Parliamo di pecorini al plurale
perché ogni località ha la sua
erba, il suo caglio e la sua tecnica
di preparazione e stagionatura.
Il miglior pecorino è quello prodotto a giugno con latte
esclusivamente ovino appena
munto (né liofilizzato, né congelato). Forme da uno a quattro
chili. Crosta dal giallo chiaro al
bruno, marezzato di rosso ruggine, a seconda della stagionatura.
I pecorini freschi sono quelli
con stagionatura sino a tre mesi,
a pasta scarsamente occhiata,
dolce, morbida, profumata di
erba di montagna.
Famosa la
Caciotta di Comunanza e
Amandola (Fermano)
Appena 10 giorni di maturazione, crosta bianca , pasta assai
occhiata di sapore dolce acidulo.
Caciotta del Montefeltro (Pesaro-Urbino)
Spesso fatta con latte vaccino
misto a capra e pecora.
Viene “calcata” per sei 12
giorni tra le foglie fresche del
noce
La caciotta assume un chiaro profumo di mallo di noce,
sapore pastoso, gradevolmente
sapido.
Si produce da fine marzo a
tutto settembre.
Le aree storiche marchigiane
dove si producono i migliori formaggi della regione sono:
Il Montefeltro (monte dei
pecorai) specie nei comuni di:
Casteldelci, San Leo, Talamello ,
S,Agata Feltria, Carpegna.
Alta valle del Foglia (Piandimeleto, Sistino)
Alta valle del Metauro (Mercatello, S. Angelo in Vado, Piobbico, San Sisto)
32
Monte Petrano e Monte Catria:
Sassoferrato, Arcevia
Fabrianese (Val di Castro,
Belvedere, Campodonico, Pian
dell’Elmo).
Monti Sibillini (in provincia di
Macerata: Sarnano, Visso, Ussita; in provincia di Ascoli Piceno:
Amandola, Comunanza, Monte
Rinaldo).
I pecorini secchi sono quelli
stagionati per almeno otto mesi:
pasta giallo paglierina brunastra,
odore penetrante, sapore pieno,
piccante, assai aromatico; adatti
per essere grattugiati.
Il “pecorino bazzotto” con stagionatura intermedia semiduro,
molto profumato è ottimo formaggio da tavola
Nell’alta valle del Metauro il
pecorino si lascia asciugare (stagionare) sopra foglie di fico. In
alcuni luoghi del Montefeltro
viene posto ad asciugare su graticci di canne e bagnato con
olio e aceto oppure immerso nel
mosto fresco o nelle vinacce per
12 ore; si conserva poi in orci di
terracotta chiamati avtein
Nell’Alta valle del Foglia viene
adagiato in grosse olle (recipienti di terracotta forata), ricoperto di cenere (preferibile quella
ottenuta dalla combustione del
legno d’olivo) e foglie asciutte di
noce; lo si tiene a stagionare da
giugno sino a San Martino (11 di
novembre).
In alcune zone dell’Appennino centrale il pecorino viene
fatto stagionare in grotte oppure
in botti di rovere circondato da
foglie di noci. A Cartoceto, nei
pressi di Fano, alcuni usano stagionarlo nelle “fosse olearie”.
Pecorino di Fossa
Gioiello caseario, di fama
nazionale e mondiale prodotto
nell’alto Montefeltro (Talamello
e S.Agata Feltria ed in Romagna
a Sogliano sul Rubicone.
Dopo la seconda guerra mondiale questo “giacimento gastronomico” era quasi scomparso
sino a che Sogliano e poi Talamello, intorno agli anni ottanta,
hanno ripreso a produrlo, ovvero il pecorino di fossa è resuscitato (a Talamello ci sono circa
25 fosse che producono 300 ql.
di formaggio)
Le Cento Città, n. 49
Ambra di Talamello è il nome
che lo scenografo Tonino guerra
ha data al pecorino di fossa prodotto nell’omonimo comune.
Montefeltro e Romagna si
contendono la primogenitura di
questo famosissimo formaggio;
si parla di questo formaggio già
nel XIV secolo.
Per sfuggire alle frequenti razzie di soldati di ventura e briganti che un tempo infestavano questi luoghi, gli abitanti di questi
tre paesi, ad un tiro di schioppo
l’uno dall’altro, hanno pensato
di nascondere i propri caci nelle
numerose fosse o cave di gesso o
tufo di cui è ricco il territorio, su
cui ci si costruivano le abitazioni.
Un tempo servivano a conservarci i cereali.
Si è poi scoperto che il formaggio infossato assumeva
sapori e profumi straordinari
così che, cessato il problema di
nasconderlo, si continuò a mettere il formaggio a stagionare
nelle “fosse” per migliorarne le
caratteristiche gastronomiche.
Si fa il pecorino, come d’uso
nel Montefeltro con ¾ di latte di
pecora ed ¼ di vacca, tra maggio
e giugno
Le forme si mettono a stagionare normalmente poi, dopo
circa due mesi, si chiudono in
sacche di juta o in vecchie federe
per cuscini e vengono immesse
nelle “fosse o grotte” a forma
di fiasco rovesciato, rivestite di
paglia di grano, son poi sigillate
con coperchi di legno.
Il cacio subisce l’aggressione
delle muffe che si formano dalla
fermentazione della paglia, in
assenza di aria, e subisce una
seconda fermentazione che da al
formaggio nuovi profumi e sentori (di fungo, di tartufo ecc.).
Le forme subiscono le deformazioni più strane per il peso che le
schiaccia e si rivestono di muffe
grigio-verdastre.
Il nostro pecorino “risorge” il
25 di novembre: S. Caterina.
A vedersi non ha un bell’aspetto ma, tagliato, mostra una pasta
morbida e spugnosa, stupendamente profumata di bosco.
Attenzione! Del formaggio di
fossa se ne produce meno di
1000 q.li e quindi le imitazioni
son tante.
Libri ed eventi
33
di Alberto Pellegrino
LIBRI
Un romanzo d’esordio di una
marchigiana
La scrittrice pesarese Simona
Baldelli ha esordito nel mondo
della narrativa con il romanzo
Evelina e le fate (Giunti Editore, Firenze, 2013). Si tratta
di un’opera ambientata in un
piccolo paese della campagna
marchigiana intorno a Pesaro
con un ritorno a un’epoca particolarmente drammatica segnata dalla presenza degli sfollati,
dei tedeschi e dei fascisti della
Repubblica Sociale, che sono in
ritirata sotto l’attacco delle formazioni partigiane e dell’esercito alleato. Tutta questa storia
è rievocata attraverso gli occhi
di una bambina (Evelina) che
vive con il padre e la madre
malata, con i fratelli e con Sara,
una bambina ebrea che vive
nella stalla, nascosta sotto una
botola. Il mondo contadino e
fiabesco, visti con lo sguardo
magico dell’infanzia, s’intreccia
con le vicende della seconda
guerra mondiale e della guerra
partigiana. La protagonista è
una bambina un po’ speciale
che ha una particolare visione
della vita: “Evelina cercava la
pace e il silenzio. Per quello si
svegliava prima di tutti. Prima
del padre che andava presto
nei campi, prima della madre
e della nonna che facevano le
faccende, prima dei fratelli più
grandi che andavano a scuola e di quelli più piccoli che
invece dormivano fino a tardi.
Certe mattine si svegliava persino prima del gallo”. Crede di
vedere in due donne, la Nera
e la Scepa, due fate buone che
salvano e difendono lei e i suoi
fratelli in diverse occasioni. Il
romanzo, che è stato finalista al
Premio Calvino 2012, è scritto
con uno stile rapido ed efficace,
è ricco di avvenimenti e di colpi
di scena, riesce a mescolare la
realtà e con i sogni, le profezie
e le anime dei morti, grazie al
continuo inserimento di parole
magiche, parole amuleti, filastrocche ed elementi dialettali.
La Baldelli riesce a inserire la
“piccola storia” nella Grande
Storia del nostro paese, intrecciando le vicende di uomini che
uccidono, stuprano, tradiscono
con il mondo delle fate (un surrogato laico degli angeli custodi) che appaiono nel momento
giusto per salvare e rassicurare i
bambini, mentre gli adulti sono
incupiti dalle preoccupazioni e
ormai incapaci di godere delle
piccole gioie dell’infanzia.
Camerino e mons. Bruno Frattegiani
Un prelato di Camerino,
mons. Giuseppe Tozzi, ha
recentemente pubblicato il libro
Lieti attingete alla sorgente. L’episcopato camerinese di mons.
Bruno Frattegiani (1964-1989),
nel quale si traccia un profilo
biografico, esistenziale ed ecclesiale di questo Arcivescovo che
ha retto per un lungo periodo la Diocesi di Camerino-San
Severino Marche, lasciando un
impronta particolarmente profonda del suo episcopato. Mons.
Frattegiani arriva a Camerino
dopo essere stato Vicario generale della Diocesi di Perugia e
presidente del Tribunale ecclesiastico regionale dell’Umbria,
preceduto da una fama di esperto giurista, autorevole teologo
e biblista, giornalista acuto e
dallo stile particolarmente fluido. Sono gli “anni caldi” del
Concilio Vaticano e Frattegiani ha la possibilità di partecipare alle sue fasi conclusive,
riportando in diocesi lo spirito
conciliare di un cambiamento
della Chiesa sotto il profilo teologico, liturgico e organizzativo.
In questa ottica egli procede
al rinnovamento della diocesi
sotto il profilo della pastorale,
della liturgia e dello stile di vita.
Istituisce il Consiglio pastorale
Le Cento Città, n. 49
e il Consiglio presbiterale; provvede alla ristrutturazione delle
parrocchie e delle Vicarie, a
risolvere il problema del trattamento economico del clero, alla
riforma della Curia. Egli guarda
con attenzione ai movimenti e
alle associazioni; crea l’Istituto
per il sostentamento del clero,
la Fondazione Opere di Religione, il Collegio Universitario
“Bongiovanni”, il Pensionato
Femminile Universitario “Battista Varano”; riserva una grande
attenzione ai mezzi di comunicazione con l’istituzione di
Radio C1, il potenziamento del
Bollettino Dioceasano e del settimanale Appennino Camerte, al
quale collabora assiduamente
con una serie di articoli di alto
magistero teologico e pastorale,
con il Quadrante Biblico che
diventa un appuntamento settimanale con l’esegesi della Sacre
Scritture, alla cui lettura egli dà
grande importanza. Per la promozione delle idee e dei valori
del Concilio istituisce la Tre
giorni diocesana aperta anche
ai laici, alla quale partecipano come docenti mons. Dionigi Tettamanzi, mons. Ferrari
Toniolo, mons. Sandro Quadri, mons. Antonio Riboldi, il
card. Michele Pellegrino, i teologi Ernesto Balducci ed Enrico Chiavacci. Questo vescovo
conciliare, nonostante le resistenze interne ed esterne, si fa
apprezzare per lo stile di vita, la
pratica pastorale, la predicazione, gli interventi sulla stampa
locale e nazionale, le sue prese
di posizione sui problemi religiosi, morali, sociali e politici
del momento, mettendo sempre
in primo piano l’esigenza di
un rinnovamento della Chiesa,
l’opportunità di un suo distacco
dalla politica e da ogni forma
di potere, dando sempre una
testimonianza di povertà e di
fede, di coerenza e di mitezza,
di ecumenismo e di apertura al
dialogo.
Libri ed eventi
Da Milano con amore di Rodolfo Colarizi
Rodolfo Colarizi, nato a Fano,
è un personaggio particolare che
sa unire una solida preparazione scientifica e manageriale a
un insopprimibile bisogno di
raccontarsi e di raccontare, per
cui ha sempre affiancato alla
sua attività di saggista e giornalista professionale quella del
narratore. Alto dirigente di una
multinazionale farmaceutica, si
è occupato in particolare della
diagnostica e della cura del diabete, dell’alimentazione necessaria per fronteggiare questa
malattia. Ha fondato e diretto
per anni la rivista Diabete oggi
e domani, è stato caporedattore
di tre altre riviste sul diabete
ed è attualmente direttore della
rivista Amare Dolcezze. È autore
di 20 pubblicazioni di divulgazione scientifica per le quali ha
ricevuto prestigiosi premi nazionali e internazionali. Sul versante letterario Colarizi è l’autore
di numerose opere di narrativa,
tra cui Profumo di mare, L’abbraccio del mare, Il ritorno di
Gildo, C’eravamo tanto odiati,
La lampedusana, La rivincita di
Virginia, Fanesi brava gente. Il
suo ultimo lavoro s’intitola Da
Milano con amore (Tecnoprint,
Ancona, 2013) e comprende
una serie di racconti a carattere autobiografico che riescono
tuttavia a superare i confini del
personale per tracciare un ritratto della società milanese degli
anni Settanta/Ottanta. Colarizzi
racconta le sue prime esperienze vissute a Bologna, quindi il
suo trasferimento a Milano vista
come una metropoli di valore
europeo da scoprire e da vivere
con entusiasmo. Qui inizia la
sua collaborazione con la pagina scientifica del Giornale di
Indro Montanelli con il succesivo passaggio al Corriere della
sera. L’autore racconta una serie
di incontri che hanno in qualche modo segnato la sua vita
con molti luminari della scienza medica di varie Università
italiane, l’amicizia stimolante e
intellettualmente ricca con lo
scrittore Piero Chiara, infine
l’incontro esaltante con Giovanni Paolo II che, dopo aver letto
34
un suo articolo sulla visita papale a Fano del 12 agosto 1984,
invita Colarizi e la sua famiglia
a una messa privata in Vaticano
che, dopo aver superato diverse
difficoltà, si concluderà con un
cordiale colloquio con il pontefice.
Un importante fotografo ritrae i
volti di Camerino
Paolo Di Paolo è stato un
importante fotografo free lance
che si è affermato nel campo del
giornalismo fotografico, lavorando per conto del settimanale Tempo diretto da Arturo
Tofanelli e firmando diversi
reportage realizzati con Pier
Paolo Pasolini, Antonio Cederna, Larmberti Sorrentino, Mino
Guerrini. La collaborazione
più intensa e prestigiosa è stata
quella con la rivista Il Mondo
fondata nel 1949 da Mario Pannunzio. Di Paolo, dopo la laurea
in filosofia, entra a far parte
di un gruppo di artisti romani
formato da Mafai, Omiccioli,
Turcato, Corpora, Consagra,
Accardi e decide di dedicarsi alla fotografia professionale.
Per Il Mondo Di Paolo realizza
una serie di servizi di grande
valore che sono stati rievocati
nella primavera del 2012 in una
mostra antologica e in un bel
catalogo dall’Università degli
Studi di Camerino. Si tratta di
immagini in bianco e nero che
ci offrono un suggestivo spaccato degli anni Cinquanta/Sessanta segnati dal Neorealismo e
successivamente dalle atmosfere
romane alla Fellini. Paolo Di
Paolo, dopo quella mostra, si è
letteralmente “innamorato” di
Camerino e, quasi novantenne,
ha sentito il bisogno di riprendere in mano la macchina fotografica, abbandonata nel 1966
anno di chiusura del Mondo, per
rimettersi a scattare immagini.
L’unico ostacolo, che l’ha fatto
sentire un fotografo dilettante,
è stato trovarsi alla prese con
una macchina che non era la
sua vecchia Leica, ma “uno di
quegli strumenti disumani che
nessuno avrà mai il tempo e la
pazienza di conoscere perfettamente. Con un unico vantaggio:
dopo ogni scatto posso controlLe Cento Città, n. 49
larne l’esito sul display e gioire
(non sempre) del risultato, quasi
esclamando: è venuta!”. Il volume I volti di Camerino. Ritratto
di una città gioiosa (Università di
Camerino, 2013) contiene delle
immagini che si propongono di
raffigurare il “volto” di quelle
pietre millenarie che costituiscono i segni lasciati dalla storia
e dalle erosioni del tempo sui
palazzi e lungo le vie camerinesi colte attraverso suggestive
atmosfere notturne in una città
deserta ma pur sempre viva. La
rappresentazione più vivace e
attraente di Camerino è costituita dall’umanità che abita tra
quelle antiche pietre: il rettore
e i professori dell’Università,
il sindaco e gli amministratori
locali, i professionisti e gli intellettuali, gli artigiani e il clero,
gli ordini religiosi delle clarisse
e dei Cappuccini, ma soprattutto il popolo variopinto e sorridente, spensierato e impegnato
degli studenti universitari che
costituiscono con la loro giovinezza una parte determinante
del tessuto cittadino.
Santi in Medicina
11° Volume della Collana Scienze Umane della Facoltà di Medicina e Chirurgia/Università
Politecnica delle Marche
Dalla prefazione del Prof. Antonio
Benedetti Preside della Facoltà di
Medicina e Chirurgia.
Questo volume racchiude le
relazioni tenute al Convegno
Libri ed eventi
annuale della Facoltà del 2012 e
dedicato a I Santi in medicina. Il
Convegno era il quattordicesimo della serie, i precedenti essendo stati dedicati, anno dopo
anno, a Medici e Scienziati illustri marchigiani, nonché sempre
con riferimento alla realtà regionale, a Antiche Facoltà di Medicina, Biblioteche di tradizione,
Confraternite quali prime forme
di assistenza sociale, Manicomi,
Fonti e acque termali, Industrie
farmaceutiche e Farmacie di
tradizione. Un insieme di studi
e di ricerche compiuti dai docenti della Facoltà di Medicina
che in più occasioni sono stati
affiancati da uomini di cultura
dell’associazione Le cento città.
Questa continua attenzione
ai personaggi ed ai luoghi della
cultura delle Marche, sia come
memoria sia come attualità, scaturisce dalla considerazione che
uno dei compiti di una facoltà è
quello di valorizzare il patrimonio culturale del territorio in cui
è inserita e dalla consapevolezza,
piace a questo punto citare Cicerone, che “la storia è testimone
del tempo, luce della verità, vita
delle memorie, maestra di vita,
messaggera dell’antichità”.
Il sottotitolo del convegno era
“Storie di santi che fanno i medici
e di medici che fanno i santi” e si
è così parlato, in quattro capitoli,
di santi medici e di medici santi,
facendo particolare riferimento
nel terzo capitolo alla santità nelle Marche.
Riproporsi di scrivere su tutti i Santi che “fanno i medici” è
veramente impossibile, perché
la santità deriva dal miracolo e il
miracolo, quasi sempre, è guarigione quando non resurrezione.
Quindi potenzialmente tutti i
Santi, nella loro vita, sono stati
medici. Per questo, nella progettazione e nella stesura del capitolo dedicato ai Santi guaritori, si è
fatto esclusivo riferimento a quei
quattrodici Santi che ebbero il titolo di Santi ausiliatori, in quanto
portavano intercessione, soccorso, ausilio ai sofferenti. Queste
quattordici figure di Santi devono la loro identificazione e selezione ad un miracolo che si registrò a Langheim, in Germania, in
due giorni del 1445 e del 1446. In
35
quelle occasioni quattordici Santi, già noti nella tradizione cristiana per le loro virtù guaritrici, apparvero ad un pastorello tutti
contemporaneamente, e da quel
momento vennero riconosciuti
come i Santi in grado di portare
ausilio e da invocare globalmente nel mezzo delle sofferenze.
Vi sono poi stati molti medici
che hanno vissuto da santi; il più
esigente dei nostri lettori potrà
obbiettare che non erano in realtà medici, ma, come usava in quei
tempi, più spesso filosofi quando
non addirittura barbieri e speziali. Comunque il loro titolo era di
Medicus oltre che Philosophus, e
quindi come tali possiamo accettarli.
Indubbiamente il primo medico divenuto santo è stato San
Luca, in quanto apostolo e coevo di Gesù, seguito da una lunga
serie di medici tra i quali i più
conosciuti i santi Cosma e Damiano, cui è stata dedicata la copertina del volume.
Di molti di questi santi è quanto mai vivo il culto nella nostra
regione, perché nelle Marche
hanno svolto parte del loro apostolato o in esse hanno lasciato
ampi segni del loro passaggio.
Certo, sfogliando le pagine di
questo libro, ci si accorge che ci
muove tra storia e leggenda, tra
scienza e credenza, al punto che
di alcuni santi non si è neppur
certi che siano mai esistititi. Uno
di questo è San Giuliano l’Ospitaliere, cui peraltro sono dedicati molti luoghi di culto in tutta
Europa ed un’ampia iconografia
nonchè il patronato di una città,
la nostra Macerata.
Si esce dalla leggenda per entrare invece decisamente nella
storia, e soprattutto nella storia
dei nostri giorni, con i due ultimi
capitoli, il primo dedicato alla descrizione della Chiesa di Sant’Egidio a Sant’Angelo in Lizzola,
esempio di mecenatismo imprenditoriale in favore del recupero
di un’opera d’arte, il secondo, il
ricordo di Madre Teresa di Calcutta, medico solo honoris causa,
ma esempio illuminante di santità contemporanea, una vita spesa
nell’amore per gli altri.
Antonio Benedetti
Le Cento Città, n. 49
I viaggi di Giuseppe Gioacchino
Belli nelle Marche
Manlio Baleani è stato per diversi anni apprezzato funzionario dell’Università Politecnica
delle Marche, ma accanto alla
sua attività fondamentale ha
sempre coltivato l’amore per la
letteratura e soprattutto per la
poesia di Giuseppe Gioacchino
Belli, oggetto del suo studio per
quasi cinquant’anni.
Questa passione per l’arte del
Belli si è trasformata in una vera
e continua ricerca di saggi, biografie, lettere, diari di viaggio e
nella pubblicazione di una serie
di contributi critici, racchiusi
nei tre volumi Potenti, Santi,
Monsignori e Bona Gente nella
Roma di Belli, Arti e Mestieri
nella Roma di Giuseppe Gioacchino Belli, e la Sagra Riliggione Antico, Nuovo Testamento e
Precetti della Chiesa raccontati
da Belli.
Nel suo nuovo volume, Baleani accompagna il Poeta nei
suoi viaggi, oltre venti, compiuti tra il 1820 e 1832 e poi nel
1840-44 in terra marchigiana,
viaggi in parte solo di attraversamento della Regione per raggiungere Bologna o Milano, in
parte destinati al soggiorno nelle accoglienti case di amici, tra i
quali Francesco Cassi di Pesaro, Giuseppe Neroni Cancelli
di Ripatransone, i Roberti di
Morrovalle, la famiglia Solari di
Libri ed eventi
Loreto. Ma i viaggi nelle Marche erano anche per il Belli l’occasione di curare degli interessi
personali; il poeta aveva sposato infatti Maria Conti, vedova
brillante del nobile anconitano
Giulio Pichi e poi per uscire
dal tumulto di Roma, guardare
Roma da lontano e assaporare
l’accoglienza marchigiana, sia
pure pagando il prezzo di viaggi
spesso avventurosi compiuti su
carrozze traballanti e su strade
spesso dissestate.
Seguendo il Belli, Baleani
riscopre ventidue comuni, descritti in ordine alfabetico, da
Acqualagna a Valcimarra e persone e luoghi del tempo e questo non è solo moderno journal
de voyage, ma è soprattutto
ricerca storica, riscoperta dei
sonetti, descrizione accurata di
personaggi, ma anche degli usi
e costumi della Marca, come la
regione era definita dallo Stato
Pontificio nella prima metà del
diciannovesimo secolo.
Vi è poi un’appendice storica
sui tre cardinali marchigiani che
ascesero al soglio di Pietro, Leone XII, Annibale della Genga,
da Genga, Pio VIII, Francesco
Saverio Castiglioni di Cingoli e
il più famoso Pio IX, Giovanni
Maria Mastai Ferretti di Senigallia.
Facendo largo uso di sonetti
del Belli dedicati a questi pontefici, talvolta bonariamente
ironici, talaltra veramente sarcastici, Baleani tratteggia con
straordinaria bravura la personalità dei tre papi marchigiani, mettendone in evidenza il
carattere, ma anche l’azione da
loro condotta in favore della
religione e del miglioramento
delle condizioni di vita dei loro
paesi d’origine.
In definitiva, si tratta di un
libro che si legge d’un fiato e
poi si torna a rileggere, con una
motivazione in più, il ricavato
del volume magistralmente preparato dall’editore Giancarlo
Ripesi, viene devoluto alla Lega
del Filo d’oro. Un motivo di più
per acquistarlo.
36
GLI EVENTI
Successo della Serata a Colono al Teatro delle Muse
Al Teatro delle Muse di Ancona è andata in scena La serata a
Colono, il testo teatrale scritto
da Elsa Morante nel 1966/67
che Carmelo Bene nel 1970 lo
ha definito “il capolavoro della
Morante, vertice della poesia
italiana del Novecento”. Grazie
alla coproduzione tra il Teatro
Stabile di Torino, il Teatro Stabile delle Marche e il Teatro di
Roma, il regista Mario Martone
è riuscito a mettere in scena
questo lavoro “misterioso e inafferrabile”, perché raccoglie in
sé le componenti del monologo, del poema, della commedia,
della tragedia e del melodramma, costituendo l’esempio di
“una drammaturgia da grande
avanguardia del ‘900”. La serata a Colono inizia con questa
didascalia “Verso sera, in un
dolce tiepido novembre, intorno
all’anno 1960; nell’interno del
Policlinico di una città sudeuropea, in un corridoio attiguo
al reparto neurodeliri” e tutto
lo spettacolo ruota intorno a
un personaggio estremamente
complesso, simbolo di un essere
umano dolorosamente divorato
dal senso di colpa, un uomo
che non è Edipo ma che nel
suo delirio finisce per essere
realmente Edipo. Infatti, come
per un miracolo, il delirio di
un paranoide alcolizzato e tossicodipendente diventa il poema
drammatico sulla dolorosa condizione di un individuo che
attraversa gli inferi della miseria
spirituale e della persecuzione
del Fato per approdare a una
La Serata a Colono, da sinistra Angelica Ippolito, Carlo Cecchi, AntoniaTruppo.
Giovanni Danieli
La Serata a Colono, Carlo Cecchi in primo piano.
Le Cento Città, n. 49
Libri ed eventi
specie di catarsi finale, quando
il sentimento dell’amore diventa una preghiera alla divinità
persecutoria (Apollo) per invocare un perdono che capace di
cancellare il peso di una colpa
vergognosa piombata contro la
sua volontà sulle fragili spalle
di un uomo. Al fianco di questo
Edipo c’è, oltre a una suora
ospedaliera (Angelica Ippolito)
che nel delirio del protagonista
assume il volto e la voce di
una materna Giocasta consolatrice, la figlia Antigone (un
brava Antonia Truppo) che non
è un’eroina tragica, ma una fanciulla “diversa” capace di vivere in una “dimensione assoluta
dell’amore”, la quale incarna
con semplicità la pietà e la dedizione filiale, esprimendosi in
una lingua popolare, lontana dal
linguaggio colto del padre che la
definisce “una povera guaglioncella mal cresciuta per colpa
della sua nascita…di mente un
poco tardiva”. Martone ha ideato una scena di grande efficacia
nella sua assoluta essenzialità
ed ha innovato rispetto al testo,
sfondando la “quarta parete”
quando ha portato nella prima
parte il Coro dei pazzi in mezzo
al pubblico della platea e nella
seconda parte ha assegnato al
Coro la funzione propria del
teatro classico. Il personaggio di Edipo è interpretato da
uno straordinario Carlo Cecchi, capace di una prova d’attore eccezionale per intensità e
concentrazione di fronte a un
testo difficilissimo che richiede
di passare continuamente dalla
recitazione tragica al “recitativo
arioso”, dal melologo al canto
lirico.
Il Convegno a Castelbellino su
Ippolito Nievo
Si è celebrato il 18 maggio
2013 a Castelbellino il consueto
Convegno su temi risorgimentali organizzato dalla Sezione
“Garibalda Canzio” dell’Associazione Nazionale Veterani e
Reduci Garibaldini in collaborazione con l’Amministrazione
Comunale. Quest’anno è stato
prescelto come tema Ippolito
Nievo: patriota e letterato; l’evento è stato completato con
37
l’allestimento della Mostra L’Italia s’è desta. Storia del Risorgimento italiano attraverso la
stampa satirica dell’epoca, a cura
del Centro Studi Galantara e
della Deputazione di Storia
Patria per le Marche. Alla manifestazione ha preso parte la prof.
ssa Annita Garibaldi Jallet, Presidente dell’Associazione Naz.le
Veterani e Reduci Garibaldini,
che ha introdotto il tema con
la rievocazione di alcune figure della Famiglia Garibaldi. Ha
preso quindi la parola il prof.
Gualtiero De Santi, docente di
Letterature Comparate presso l’Università degli Studi di
Urbino, il quale ha tenuto una
magistrale lezione sulla figura di
Ippolito Nievo non solo come
narratore di grande rilievo nel
quadro dell’Ottocento letterario italiano, ma anche come un
politico che ha teorizzato nei
suoi scritti la necessità dell’indipendenza e dell’unità nazionali.
Subito dopo il prof. Alberto
Pellegrino, in rappresentanza
del Centro Studi Galantara,
ha messo in evidenza l’apporto dato dalla satira giornalistica
alla causa risorgimentale ed ha
tracciato un quadro sull’importanza che hanno avuto i mezzi
di comunicazione di massa nel
corso di tutto il Risorgimento.
Grande partecipazione al Teatro della scuola a Serra San
Quirico
La 31^ Rassegna del Teatro
Teatro Pirata Dallenuvole Bruno.
Le Cento Città, n. 49
della Scuola, organizzata dal
Comune di Serra San Quirico
con il patrocinio della Regione Marche e della Comunità
Montana Esino-Frasassi, si è
svolta dal 13 aprile al 4 maggio 2013. Nel piccolo centro
dell’anconetano sono confluiti
per 22 giorni 25 compagnie teatrali provenienti da ogni parte
d’Italia che hanno portato sulla
scena 77 spettacoli. Le varie rappresentazioni sono state seguite
da 12.400 studenti e familiari, mentre 32 istituti scolastici
hanno aderito alle proposte del
Teatro Pirata con la partecipazione di 90 plessi scolastici delle
Province di Ancona, Macerata
e Perugia. Hanno preso parte
attivamente alla manifestazione
oltre 3000 bambini e adulti tra
studenti, insegnanti, operatori
teatrali: si sono inoltre tenuti
stage di scenografia e comunicazione per studenti provenienti
dalle Accademie di Belle Arti di
Macerata e Brera, dalla Facoltà
di Scienze della Comunicazione
dell’Università di Macerata. Il
personaggio guida di quest’anno
è stato Peter Pan che ogni giorno
ha dato ai gruppi gli input creativi con cui riflettere, giocare,
inventare e comunicare. Si sono
tenute Giornate speciali sui temi
dell’integrazione, dell’ambiente,
della Resistenza e della legalità.
Gli spettacoli sono andati in
scena, oltre che a Serra San Quirico, nei teatri di Jesi, Fabriano,
Montecarotto, Maiolati Spon-
Libri ed eventi
tini, Monte San Vito, San Marcello, Falconara Marittima, Cingoli, e Appignano. Il direttore
artistico, Salvatore Guadagnolo
a proposito della manifestazione
ha detto: “La Rassegna Nazionale di Teatro nella Scuola rappresenta non solo un importante
appuntamento per tutto il Teatro Educazione, ma vuole sempre di più sperimentare nuove
forme d’incontro. È un progetto
artistico e pedagogico condiviso
ed elaborato nei minimi particolari, nello stesso tempo, però,
lascia tutto il dovuto spazio alla
spontaneità dell’incontro. Una
sfida, un viaggio che porta a un
luogo accogliente e confortevole come una casa nella quale
sentirsi liberi di esprimere il
proprio essere”.
Civitanova Danza è arrivata alla
ventesima edizione
La ventesima edizione di Civitanova Danza “Enrico Cecchetti”, organizzata dall’Amat e dal
Comune di Civitanova Marche,
si svolgerà dal 20 luglio al 15
agosto con un cartellone che si
presenta particolarmente ricco
di eventi e debutti, tra cui sei
prime nazionali assolute e l’ormai tradizionale appuntamento
nello Sferisterio di Macerata.
Dal 5 all’11 agosto si svolgerà il Campus estivo Civitanova
Danza per Domani con docenti
della Scuola di Ballo del Teatro alla Scala e dell’Opèra di
Parigi. Il direttore artistico Gilberto Santini ha tenuto a sottolineare che si vuole “festeggiare senza che la ricorrenza
diventasse cerimoniosa e così
abbiamo pensato a una grande
festa che riportasse la danza in
mezzo alla gente, abbiamo voluto potenziare il concorso “Civitanova Danza per domani” con
un Campus per giovani. Più che
alla storia abbiamo cercato di
capire l’evoluzione che il festival
potesse avere, con alcuni poli,
Marche, Italia e mondo e anche
per questo la ventesima edizione
dà una chiave di lettura dinamica, interattiva, legata ai social e
alle nuove tecnologie”. Il festival
si aprirà il 20 luglio con una
grande maratona di danza (dalla
mattina a notte fonda) con piccoli eventi organizzati dall’As-
38
sociazione Danza Esercizio e dello stile e le qualità interprePromozione. A partire dalle tative con cui affronta il balletto
ore 19 al Teatro Ceccheti va in classico e la danza contemporascena De visu in situ motus, una nea. La Zarakharova è la prima
creazione di Masako Matsushi- ballerina del Teatro Bolshoi di
ta; al Teatro Rossini vi sarà la Mosca e l’étoile del Teatro alla
prima italiana di Robot!, crea- Scala.
zione della francese Blanca Li
con otto danzatori e otto robot, La XXXIV edizione del Rof a
che arriva dal Festival Montpel- Pesaro. Il programma 2013
Il cartellone 2013 del Rossini
lier Dance; al Teatro Annibal
Caro debutta in prima assoluta Opera Festival si presenta paril Pinocchio di Virgilio Sieni, ticolarmente ricco di iniziative
direttore della Biennale di Vene- con le due nuove produzioni del
zia Danza. Il 25 luglio l’Aterbal- Guillaume Tell e dell’Italiana in
letto, la formazione italiana più Algeri. Il Guillaume Tell, opera
prestigiosa, presenterà Romeo composta da Rossini a Parigi
and Juliet con la coreografia di nel 1829 su libretto di EtienMauro Bigonzetti. Lo spettaco- ne de Jouy e Hippolyte Bis,
lo, creato in collaborazione con ritorna a Pesaro dopo la prima
l’artista visivo Fabrizio Plessi, edizione integrale del 1995 per
dell’Orchestra
vedrà impegnati diciotto danza- l’esecuzione
tori (9 uomini e 9 donne) con i Comunale di Bologna diretta
corpi ricoperti da involucri iper dal M° Michele Mariotti. Il cast,
tecnologici in fibra di carbonio di notevole valore, è formato
e caschi da motociclisti, i quali da Nicola Alaimo, Juan Diego
si alterneranno in passi a due, Flòrez, Simon Orfila, Marina
terzetti, quartetti e pezzi d’insie- Rebeka e Amanda Forsythe. Le
me. Il 3 agosto vi sarà la seconda scene e i costumi sono firmamaratona di danza che vedrà ti da Paul Brown, mentre la
impegnate al Teatro Cecchet- regia è stata affidata a Grahm
ti due straordinarie compagnie Vick, autore di due precedenisraeliane guidate dai coreografi ti e apprezzati allestimenti del
Roy Assaf e Noa Shadur, mentre Moise et Pharaon e del Mosè in
il Teatro Rossini ospiterà la
prima assoluta di Sudvirus
del coreografo
Roberto Zappalà; infine al
Teatro Annibal
Caro debutta
lo spettacolo
00000000 del
coreografo
marchigianoolandese Giulio D’Anna.
Il 15 agosto il
festival si concluderà con
La Notte della
Stella,
uno
straordinario spettacolo
basato sulla
performance
di
Svetlana
Zakharova,
una danzatrice
apprezzata in
tutto il mondo
per l’eleganza ROF 2013, manifesto - autoritratto.
Le Cento Città, n. 49
Libri ed eventi
Egitto. La seconda novità è rappresentata dall’Italiana in Algeri, un dramma giocoso scritto da
Angelo Anelli, la cui regia è stata
affidata a Davide Livermore che
nel 2012 ha riscosso un grande
successo con una geniale messa
in scena di Ciro in Babilonia.
Debutta a Pesaro il M° José
Ramòn Encinar alla guida di una
compagnia di canto formata da
Alex Esposito, Mariangela Sicilia, Raffaella Lupinacci, Davide
Luciano, Yijie Shi, Anna Goryachiva e Mario Cassi. È inoltre
previsto il ritorno al Teatro Rossini dell’ormai classico Viaggio
a Reims con l’affermata regia di
Emilio Sagi, mentre la direzione
orchestrale sarà di Daniel Smith
con le migliori voci dell’Accademia Rossiniana; la seconda
opera è La donna del lago, eseguita in forma di concerto per
la direzione di Alberto Zenda,
con Dmitry Korchak, Simone
Alberghini, Carmen Romeu e
Mariangela Sicilia; chiude il
ciclo delle riprese L’occasione
fa il ladro, un allestimento del
1987 di un Maestro della regia
lirica come Jean-Pierre Ponnelle, con la direzione di Yi-ChenLin e un cast formato da Giorgio Misseri, Elena Tsallagova,
Enea Scala, Roberto De Candia,
Viktoria Yarovaya. Per quanto
riguarda i concerti sarnno in
cartellone la Rossiniana. Rossini aujourdd’hui con musiche
di Anzaghi, Reghezza, Paganini,
Molino, Spazzoli e Ugoletti, eseguite alla chitarra da Eugenio
Della Chiara; Péchés de Vieillesse, un’esecuzione integrale della
Quinta sessione con al pianoforte Bruno Canino; un Omaggio
a Verdi. D’amore sull’ali rosee
con il soprano Marina Rebeka
e l’Orchestra Sinfonica Rossini
diretta da Daniele Agiman; i
tre Concerti di Belcanto avranno come protagonisti Michael
Spyres, Celso Albelo e Yijie Shi.
Il Rof si chiuderà con il concerto
Festival giovane dell’Accademia
Rossiniana a conclusione del
Seminario di studio per cantanti, professionisti dello spettacolo
e studiosi diretto da Alberto
Zedda.
39
La 49^ Stagione lirica Macerata
Opera Festival
In occasione delle celebrazioni verdiane il cartellone 2013
di Macerata Opera Festival si
apre con Nabucco (19-26 luglio,
2-4-9 agosto), la grande opera
che segna l’uscita di Verdi dalla
grave crisi familiare e professionale che l’aveva colpito nel 1840,
melodramma che debutta alla
Scala nel 1842 con l’interpretazione di Giuseppina Strepponi.
L’autore e il librettista Tommaso Solera probabilmente non
immaginavano che il successo
di questa opera basato sul tema
della schiavitù del popolo ebraico avrebbe legato gran parte
del suo successo al grandioso
coro “Va pensiero”, che diverrà in breve tempo uno degli
inni del Risorgimento italiano.
Sarà proprio questo successo
ad accendere in Verdi la vena
patriottica
successivamente
espressa in Ernani, I Lombardi
alla prima crociata, La battaglia
di Legnano e I Vespri siciliani.
Le scene, i costumi e le luci sono
di Roberto Tarasco, mentre la
regia è stata affidata a Gabriele
Vacis, regista teatrale di grande
spessore culturale che nel corso
della sua carriera si è impegnato
con successo nel teatro classico
e contemporaneo (per lo Stabile
delle Marche ha diretto La rosa
tatuata di T. William), nell’insegnamento e nella sperimentazione e nel campo dell’opera lirica
(si ricorda una sua Lucia di Lammermoor del 1993 nell’Arena di
Verona). La direzione dell’Orchestra Regionale delle Marche
è stata affidasta al M° Antonello Allemandi che guiderà un
cast di interpreti formato da
Alberto Mastromarino (Nabuccodonosor), Valter Borin (Ismaele), Virginia Tola (Abigaille)
e Gabriella Sborgi (Fenena). Il
secondo titolo in cartellone è
Il Trovatore (20-27 luglio, 3-10
agosto), una delle opere verdiane più popolari, un cupo dramma d’amore, vendetta e morte
affidato alla regia del messicano
Francesco Negrin, un professionista di valore internazionale
per la prima volta allo Sferisterio.La direzione è affidata al M°
Paolo Arrivabeni, le scene e i
Le Cento Città, n. 49
costumi sono di Louis Desiré; il
cast è formato dal tenore Aquiles Machado nell’impegnativo
ruolo di Manrico, dal baritono Simone Piazzola (il Conte
di Luna), dal soprano Susanna
Branchini, che debutta nel ruolo
di Leonora, e dal mezzosoprano
Enkelejda Shkosa, anche lei per
la prima volta alle prese con il
personaggio-chiave di Azucena.
Nel Teatro Lauro Rossi andrà
in scena per la regia di Henning
Brockhaus Il piccolo spazzacamino (29 luglio) di Benjamin
Britten, capolavoro del teatro
musicale del Novecento, una
fiaba per bambini composta su
libretto di Crozier. La messa in
scena sarà a cura dell’Accademia di Belle Arti di Macerata;
gli interpreti saranno Giacomo
Medici (Nerone e Tommaso),
Silvano Paolillo (Clementino e
Alfredo), Lara Rotili (La sig.
na Bracco), Anna Bella Ricci
(Rosa); gli altri ruoli saranno
affidati ai solisti del Coro di
voci bianche Pueri Cantores di
Macerata, mentre la direzione
sarà del giovane maestro Francesco Lanzillotta. L’8 agosto
allo Sferisterio andrà in scena lo
spettacolo Sogni di una notte di
mezza estate, un nuovo format
di rappresentazione lirica diretto da Francesco Micheli, che ha
ideato un “grande viaggio nel
mito di Shakespeare in un bosco
di musica e parole” con le composizioni di Mendelsshon e Britten affidate alla direzione dell’americano Christopher Franklin.
Il cast è formato da cantanti
di grande spessore come Carmela Remigio, Gabrilla Sborgi,
Pervin Chakar, Ladislav Elgr,
Haris Andrianos; da segnalare la
presenza del basso marchigiano
Andrea Concetti nel ruolo di
Bottom, mentre l’attrice Lella
Costa vestirà i panni del magico
elfo Puck. Infine, il 21 luglio,
sarà celebrata allo Sferisterio la
figura del grande tenore recanatese Beniamino Gigli con un
concerto che prevede la partecipazione dei soprani Daniela
Dessì e Carmela Remigio, dei
tenori Fabio Armillato, Aquiles
Machado e Nazzareno Antinori,
del basso Roberto Scandiuzzi.
Vita dell’Associazione
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Visite e convegni
di Giovanni Danieli
15 marzo 2013, Macerata
Freschi di stampa
La quarta edizione di Freschi
di stampa, realizzata da Maurizio Cinelli con la preziosa collaborazione della Dottoressa Angiola Napolioni, direttrice della
Biblioteca statale, è stata, come
da regolamento, dedicata alla
presentazione di opere di Autori e di Editori marchigiani edite
nel 2011-2012.
Sono stati selezionati dalla
Giuria, composta da Marco Belogi, Simone Socionovo, Filippo Scapellato, Marica Calisti e
Natale G. Frega, i volumi: Il romanico nelle Marche di P. Piva,
Dieci donne, storia delle prime
elettrici italiane di M. Severini,
Ti porto a vedere il mare di M.
Todisco, Arena Sferisterio di
Macerata 1967-1986 di E. Perucci e G. Gualdoni, Giuseppe
Sacconi, il Vittoriano di F. Mariano, L’ultima piega di E.H.
Ercoli, La Guardia di Finanza
nelle Marche dal 1786 al 1862
(nella foto) del Comandante la
Regione Marche della Guardia
di Finanza Generale Giovanni
Mainolfi e del suo Luogotenente Giuseppe Morgese.
Le opere sono state presentate, nell’ordine, da Marco Severini, Maria Luisa Polichetti, Laura
Cavasassi, Marisa Calisti, Fabio
Brisighelli, Stefano Santini e
Mario Canti.
Il programma del pomeriggio
maceratese si è concluso con la
visita, guidata da Mario Canti,
della Chiesa di San Filippo recentemente restaurata ed illustrata da Hermas Ercoli in una
delle opere selezionate, L’ultima
piega.
14-16 aprile 2013 Gubbio,
Petroia, Firenze
Viaggio a Firenze
Il viaggio annuale dell’Associazione ha avuto come principale obbiettivo la visita della
mostra La Primavera del Rinascimento, la scultura e le arti a
Firenze 1400-1460, ma in realtà
la visita al Bargello, quella al PaLe Cento Città, n. 49
lazzo della Signoria, oltre che la
mostra di Palazzo Strozzi, hanno
permesso una completa ed emozionante immersione nell’arte
rinascimentale italiana che tra
quattro e cinquecento ha avuto
il suo più significativo epicentro
a Firenze.
Accompagnati da guide eccezionali per cultura e professionalità, i Soci hanno potuto
ammirare opere di Masaccio,
Natalino da Panicale, Donatello,
Lorenzo Ghiberti, Brunelleschi,
Luca Della Robbia, Desiderio
da Settignano, Mino da Fiesole
che hanno fatto la storia del Rinascimento.
Il viaggio ha però conosciuto
anche altri momenti importanti, come, nel trasferimento dalle
Marche a Firenze, la visita di
Gubbio e la mostra permanente
Giovanni Danieli
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A Petroia, Giovanna Frega, l’industriale
della ceramica Rampini,
il Presidente Natale
G. Frega e i Signori
Sagrini proprietari del
castello.
del Palazzo comunale, la visita
del trecentesco castello di Petroia, molto ben conservato, ove
i Soci sono stati amabilmente
accolti dai proprietari Signori
Sagrini, la visita alla Biblioteca
nazionale di Firenze, per gentile concessione della Direttrice
Dottoressa Francesca Filippeschi, visita guidata dalla Dottoressa Anna Lucarelli, l’itinerario
albertiano che ha permesso di
ammirare la facciata di Santa
Maria Novella, l’esterno di Palazzo Ruccellai e la Cappella
del Santo Sepolcro; la cena e
lo spettacolo rinascimentali a
Palazzo Borghese; infine la partecipazione, sempre nel Palazzo
della Signoria, alla Inaugurazione dell’Anno Accademico
dell’Accademia dei Georgofili
di cui Natale Frega è Presidente
per la Sezione centro-orientale,
cerimonia svoltasi alla presenza
delle autorità accademiche e che
ha visto l’intevento del sindaco
Matteo Renzi.
22 maggio 2013, Ancona
Convegno annuale della Facoltà
di Medicina
Per il settimo anno consecutivo la Facoltà di Medicina si è
avvalsa per la realizzazione del
suo Convegno annuale della piena collaborazione della nostra
Associazione.
Il tema di quest’anno, Medici
illustri marchigiani, aveva il suo
focus sul passaggio della medicina da credenza a scienza, attraverso la descrizione di quattro
personaggi marchigiani che hanno segnato altrettante tappe di
questa evoluzione.
Alberto Pellegrino ha presentato Cecco d’Ascoli, medico, filosofo, matematico e astrologo;
Stefania Fortuna Bartolomeo Eustachi da San Severino Marche,
anatomista e precursore dell’anatomia microscopica; Italo D’Angelo d’Apropione
Giacinto Cestoni
da Montegiorgio,
uno speziale un pò
“speciale”; Marcello D’Errico Angelo
Celli da Cagli, l’igienista che guarì
i contadini dell’Agro pontino dalla
malaria e dall’ignoranza.
Il convegno, presieduto da Antonio
Benedetti e dal nostro Presidente, è
stato moderato da
Armando Gabrielli
e Marco Belogi.
Al termine è stato presentato e distribuito il volume
Santi in Medicina,
Le Cento Città, n. 49
storie di santi che fanno i medici e
di medici che fanno i santi, contenente capitoli scritti con grande
rigore scientifico e gusto narrativo da Marco Belogi, Giovanni Principato, Walter Scotucci,
Grazia Calegari e Roberto Festa.
23 giugno 2013, Ascoli Piceno,
Castel Trosino
Convegno La ricerca al servizio
del territorio
“Se sostieni la ricerca scientifica
Vita dell’Associazione
l’Italia cresce”, questo è il motto
che Lino Frega ha posto per il
suo anno di presidenza ed è a
questo che si è ispirato il convegno, che l’Associazione ha organizzato nel Ridotto del Teatro
Ventidio Basso di Ascoli Piceno
con la cortese collaborazione del
sindaco dottor Guido Castelli..
Relatori prestigiosi dell’incontro sono stati, oltre al nostro
Presidente, Marco Pacetti Rettore dell’Università Politecnica
delle Marche, Antonio Benedetti, Preside della Facoltà di
Medicina, Gian Luca Gregori,
Preside della Facoltà di Economia, l’industriale Piero Guidi,
il Sociologo Alberto Pellegrino. Ha coordinato il dibattito il
giornalista Simone Socionovo.
Al termine del convegno, l’Associazione si è portata a Castel
Trosino per la visita di questo
suggestivo borgo marchigiano e
per partecipare nella locale piazza ad una cena medievale allietata dallo spettacolo, anch’esso
di ispirazione medievale offerto
dal Gruppo dei “Folli” composto di giocolieri, mangiafuoco,
uomini-trampoli, tutto ciò in
una serena sera d’estate.
43
29 giugno 2013, Ripatransone
ed Offida
In onore di Giuseppe Garibaldi
Il mito di Giuseppe Garibaldi
è quanto mai vivo a Ripatransone e certamente deriva dal fatto
che l’Autore del famoso Inno di
Garibaldi, Luigi Mercantini, è
figlio di questa splendida cittadina marchigiana.
Così a Ripatransone è sorta
un’Associazione
garibaldina
molto attiva ogni anno a promuovere convegni ed incontri sull’Eroe dei due mondi ed
ampi spazi sono stati riservati
nel settecentesco Palazzo Bonomi Gera per ospitare una mostra
permanente di cimeli garibaldini, quadri, ritratti e fotografie
d’epoca, testi originali.
Organizzatore della manifestazione è stato il dottor Mario
Arezzini, medico e “garibaldino” di Ripatransone, mentre la
visita al Museo è stata guidata
da Pietro Pistelli e Giampiero
Panichelli tutti in rigorosa camicia rossa e berretto garibaldino.
Al termine della visita, anfitrione impareggiabile Pio Marconi, si è avuto un secondo mo-
Le Cento Città, n. 49
mento culturale coordinato dalla
Dottoressa Simona Caricasulo,
con due eventi essenziali, la presentazione e distribuzione del
libro I preti di Garibaldi di Pietro Pistelli da parte dello stesso
Autore, e la conversazione della
Professoressa Anita Garibaldi
Hibbert pronipote dell’eroe,
che molto si prodiga in Italia
per mantenere vivi il ricordo di
Giuseppe Garibaldi e lo spirito
che animò il Risorgimento italiano. Erano presenti, tra gli oltre
duecento partecipanti, i Sindaci Remo Bruni di Ripatransone,
Domenico Corradetti di Castignano, Lucciarini De Vincenti
di Offida e il Presidente della
Provincia di Ascoli Piceno Piero Celani. Il libro I preti di Garibaldi riporta le storie di tanti
sacerdoti che hanno condiviso
le idee e seguiito Garibaldi nelle
sue numerose imprese.
Il Garibaldi che emerge dalla
lettura del libro è ben lontano
dagli stereotipi risorgimentali e
dalla agiografia garibaldina, un
Garibaldi per di più non anticattolico ma fermamente ostile
al potere pontificio, ostacolo
pervicace all’indipendenza e
all’unità di Italia.
Album di Romano Folicaldi
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Preceduta da una visita alla Chiesa di San Filippo (Fig. 1), recentemente restituita al culto e alla possibilità
di visitarla, dopo il lungo periodo di chiusura, necessario al suo restauro, il 15 marzo u.s. si è tenuta, nella
Biblioteca Nazionale di Macerata (Figg. 2 e seguenti), la quarta edizione di “Freschi di Stampa”. Marco
Severini, Maria Luisa Polichetti, Laura Cavasassi, Marisa Calisti, Fabio Brisighelli, Stefano Santini e
Mario Canti sono stati i presentatori delle singole opere, nel corso dell’incontro presieduto dal Presidente
de Le Cento Città Natale G. Frega e coordinato da Maurizio Cinelli.
Le Cento Città, n. 49
Album di Corrado Paolucci
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Castello di Petroia.
Visita alla Biblioteca Statale di Firenze accompagnati dalla
Dott.ssa Anna Lucarelli.
Il Prof. Natale G. Frega e gli altri Presidenti delle sei
Sezioni nazionali dell’Accademia dei Georgofili.
Cena a Palazzo Borghese a Firenze.
Album di Roberto D’Errico
Spettacolo medioevale del Gruppo dei “Folli” nella piazza di Castel Trosino.
Le Cento Città, n. 49
Album di Romano Folicaldi
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Il ritorno de Le Cento Città a Ripatransone e Offida, dopo alcuni mesi dall’incontro del novembre scorso,
non è stata una ripetizione: quello che però si è ripetuto è stato lo spirito di accoglienza e il calore che
si sono espressi anche attraverso la presenza e il saluto che il Sindaco Remo Bruni ha voluto portare, e
soprattutto l’entusiasmo, la capacità organizzativa e l’impareggiabile ospitalità che il Presidente, Mario
Arezzini e Pio Marconi hanno ancora una volta messo in campo. Di particolare significato la presenza di
Anita Garibaldi Hibbert (Figg. 5-6-7)
Le Cento Città, n. 49
La pubblicazione de Le Cento Città avviene grazie al generoso contributo di
Banca dell’Adriatico, Banca Marche,
Carifano, Carisap, Co.Fer.M.,
Fox Petroli, Gruppo Pieralisi, Santoni, TVS